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HISTORIES of ITALIAN CULTURE LANGUAGE READING REPRESENTATION TRANSLATION LITERACY DISCOURSE PART I KINDS OF READING ITALO CALVINO PERCHÉ LEGGERE I CLASSICI ["Italiani, vi esorto ai classici", «L'Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68. & Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995] Cominciamo con qualche proposta di definizione. 1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...» Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro. Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto. Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio. Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione: 2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli. Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà: 3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

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Calvino

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H I S T O R I E S o f I T A L I A N C U L T U R E

L A N G U A G E READING REPRESENTATION

TRANSLATION LITERACY D I S C O U R S E

P A R T I

KINDS OF READING

ITALO CALVINO

PERCHÉ LEGGERE I CLASSICI

["Italiani, vi esorto ai classici", «L'Espresso», 28 giugno 1981, pp. 58-68. & Perché leggere i classici, Oscar Mondadori, Milano 1995]

Cominciamo con qualche proposta di definizione.

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

Questo avviene almeno tra quelle persone che si suppongono «di vaste letture»; non vale per la gioventù, età in cui l'incontro col mondo, e coi classici come parte del mondo, vale proprio in quanto primo incontro.

Il prefisso iterativo davanti al verbo «leggere» può essere una piccola ipocrisia da parte di quanti si vergognano d'ammettere di non aver letto un libro famoso. Per rassicurarli basterà osservare che per vaste che possano essere le letture «di formazione» d'un individuo, resta sempre un numero enorme d'opere fondamentali che uno non ha letto.

Chi ha letto tutto Erodoto e tutto Tucidide alzi la mano. E Saint-Simon? E il cardinale di Retz? Ma anche i grandi cicli romanzeschi dell'Ottocento sono più nominati che letti. Balzac in Francia si comincia a leggerlo a scuola, e dal numero delle edizioni in circolazione si direbbe che si continua a leggerlo anche dopo. Ma in Italia se si facesse un sondaggio Doxa temo che Balzac risulterebbe agli ultimi posti. Gli appassionati di Dickens in Italia sono una ristretta élite di persone che quando s'incontrano si mettono subito a ricordare personaggi e episodi come di gente di loro conoscenza. Anni fa Michel Butor, insegnando in America, stanco di sentirsi chiedere di Emile Zola che non aveva mai letto, si decise a leggere tutto il ciclo dei Rougon-Macquart. Scoperse che era tutto diverso da come credeva: una favolosa genealogia mitologica e cosmogonica, che descrisse in un bellissimo saggio.

Questo per dire che il leggere per la prima volta un grande libro in età matura è un piacere straordinario: diverso (ma non si può dire maggiore o minore) rispetto a quello d'averlo letto in gioventù. La gioventù comunica alla lettura come a ogni altra esperienza un particolare sapore e una particolare importanza; mentre in maturità si apprezzano (si dovrebbero apprezzare) molti dettagli e livelli e significati in più. Possiamo tentare allora quest'altra formula di definizione:

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.

Infatti le letture di gioventù possono essere poco proficue per impazienza, distrazione, inesperienza delle istruzioni per l'uso, inesperienza della vita. Possono essere (magari nello stesso tempo) formative nel senso che danno una forma alle esperienze future, fornendo modelli, contenitori, termini di paragone, schemi di classificazione, scale di valori, paradigmi di bellezza: tutte cose che continuano a operare anche se del libro letto in gioventù ci si ricorda poco o nulla. Rileggendo il libro in età matura, accade di ritrovare queste costanti che ormai fanno parte dei nostri meccanismi interiori e di cui avevamo dimenticato l'origine. C'è una particolare forza dell'opera che riesce a farsi dimenticare in quanto tale, ma che lascia il suo seme. La definizione che possiamo darne allora sarà:

3. I classici sono libri che esercitano un'influenza particolare sia quando s'impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

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Per questo ci dovrebbe essere un tempo nella vita adulta dedicato a rivisitare le letture più importanti della gioventù. Se i libri sono rimasti gli stessi (ma anch'essi cambiano, nella luce d'una prospettiva storica mutata) noi siamo certamente cambiati, e l'incontro è un avvenimento del tutto nuovo.

Dunque, che si usi il verbo «leggere» o il verbo «rileggere» non ha molta importanza. Potremmo infatti dire:

4. D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5. D'un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

La definizione 4 può essere considerata corollario di questa:

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

Mentre la definizione 5 rimanda a una formulazione più esplicativa, come:

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

Questo vale per i classici antichi quanto per i classici moderni. Se leggo l'Odissea leggo il testo d'Omero ma non posso dimenticare tutto quello che le avventure d'Ulisse sono venute a significare durante i secoli, e non posso non domandarmi se questi significati erano impliciti nel testo o se sono incrostazioni o deformazioni o dilatazioni. Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni.

La lettura d'un classico deve darci qualche sorpresa, in rapporto all'immagine che ne avevamo. Per questo non si raccomanderà mai abbastanza la lettura diretta dei testi originali scansando il più possibile bibliografia critica, commenti, interpretazioni. La scuola e l'università dovrebbero servire a far capire che nessun libro che parla d'un libro dice di più del libro in questione; invece fanno di tutto per far credere il contrario. C'è un capovolgimento di valori molto diffuso per cui l'introduzione, l'apparato critico, la bibliografia vengono usati come una cortina fumogena per nascondere quel che il testo ha da dire e che può dire solo se lo si lascia parlare senza intermediari che pretendano di saperne più di lui. Possiamo concludere che:

8. Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.

Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l'aveva detto lui per primo (o che comunque si collega a lui in modo particolare). E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d'una origine, d'una relazione, d'una appartenenza. Da tutto questo potremmo derivare una definizione del tipo:

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero

si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

Naturalmente questo avviene quando un classico «funziona» come tale, cioè stabilisce un rapporto personale con chi lo legge. Se la scintilla non scocca, niente da fare: non si leggono i classici per dovere o per rispetto, ma solo per amore. Tranne che a scuola: la scuola deve farti conoscere bene o male un certo numero di classici tra i quali (o in riferimento ai quali) tu potrai in seguito riconoscere i «tuoi» classici. La scuola è tenuta a darti degli strumenti per esercitare una scelta; ma le scelte che contano sono quelle che avvengono fuori e dopo ogni scuola.

È solo nelle letture disinteressate che può accadere d'imbatterti nel libro che diventa il «tuo» libro. Conosco un ottimo storico dell'arte, uomo di vastissime letture, che tra tutti i libri ha concentrato la sua predilezione più profonda sul Circolo Pickwick, e a ogni proposito cita battute del libro di Dickens, e ogni fatto della vita lo associa con episodi pickwickiani. A poco a poco lui stesso, l'universo, la vera filosofia hanno preso la forma del Circolo Pickwick in un'identificazione assoluta. Giungiamo per questa via a un'idea di classico molto alta ed esigente:

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell'universo, al pari degli antichi talismani.

Con questa definizione ci si avvicina all'idea di libro totale, come lo sognava Mallarmé. Ma un classico può stabilire un rapporto altrettanto forte d'opposizione, d'antitesi. Tutto quello che Jean-Jacques Rousseau pensa e fa mi sta a

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cuore, ma tutto m'ispira un incoercibile desiderio di contraddirlo, di criticarlo, di litigare con lui. C'entra la sua personale antipatia su un piano temperamentale, ma per quello non avrei che da non leggerlo, invece non posso fare a meno di considerarlo tra i miei autori. Dirò dunque:

11. Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

Credo di non aver bisogno di giustificarmi se uso il termine «classico» senza fare distinzioni d'antichità, di stile, d'autorità. (Per la storia di tutte queste accezioni del ter-mine, si veda l'esauriente voce Classico di Franco Fortini nell'Enciclopedia Einaudi, vol. III). Quello che distingue il classico nel discorso che sto facendo è forse solo un effetto di risonanza che vale tanto per un'opera antica che per una moderna ma già con un suo posto in una continuità culturale. Potremmo dire:

12. Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello,riconosce subito il suo posto nella genealogia.

A questo punto non posso più rimandare il problema decisivo di come mettere in rapporto la lettura dei classici con tutte le altre letture che classici non sono. Problema che si connette con domande come: «Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l'agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell'attualità?».

Certo si può ipotizzare una persona beata che dedichi il «tempo-lettura» delle sue giornate esclusivamente a leggere Lucrezio, Luciano, Montaigne, Erasmo, Quevedo, Marlowe, il Discours de la Méthode, il Wilhelm Meister, Coleridge, Ruskin, Proust e Valéry, con qualche divagazione verso Murasaki o le saghe islandesi. Tutto questo senza aver da fare recensioni dell'ultima ristampa, né pubblicazioni per il concorso della cattedra, né lavori editoriali con contratto a scadenza ravvicinata. Questa persona beata per mantenere la sua dieta senza nessuna contaminazione dovrebbe astenersi dal leggere i giornali, non lasciarsi mai tentare dall'ultimo romanzo o dall'ultima inchiesta sociologica. Resta da vedere quanto un simile rigorismo sarebbe giusto e proficuo. L'attualità può essere banale e mortificante, ma è pur sempre un punto in cui situarci per guardare in avanti o indietro. Per poter leggere i classici si deve pur stabilire «da dove» li stai leggendo, altrimenti sia il libro che il lettore si perdono in una nuvola senza tempo. Ecco dunque che il massimo rendimento della lettura dei classici si ha da parte di chi ad essa sa alternare con sapiente dosaggio la lettura d'attualità. E questo non presume necessariamente una equilibrata calma interiore: può essere anche il frutto d'un nervosismo impaziente, d'una insoddisfazione sbuffante.

Forse l'ideale sarebbe sentire l'attualità come il brusio fuori della finestra, che ci avverte degli ingorghi del traffico e degli sbalzi meteorologici, mentre seguiamo il discorso dei classici che suona chiaro e articolato nella stanza. Ma è ancora tanto se per i più la presenza dei classici s'avverte come un rimbombo lontano, fuori dalla stanza invasa dall'attualità come dalla televisione a tutto volume. Aggiungiamo dunque:

13. È classico ciò che tende a relegare l'attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14. È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l'attualità più incompatibile fa da padrona.

Resta il fatto che il leggere i classici sembra in contraddizione col nostro ritmo di vita, che non conosce i tempi lunghi, il respiro dell'otium umanistico; e anche in contraddizione con l'eclettismo della nostra cultura che non saprebbe mai redigere un catalogo della classicità che fa al caso nostro.

Erano le condizioni che si realizzavano in pieno per Leopardi, data la sua vita nel paterno ostello, il culto dell'antichità greca e latina e la formidabile biblioteca trasmessigli dal padre Monaldo, con annessa la letteratura italiana al completo, più la francese, ad esclusione dei romanzi e in genere delle novità editoriali, relegate tutt'al più al margine, per conforto della sorella («il tuo Stendhal» scriveva a Paolina). Anche le sue vivissime curiosità scientifiche e storiche, Giacomo le soddisfaceva su testi che non erano mai troppo up to date: i costumi degli uccelli in Buffon, le mummie di Federico Ruysch in Fontenelle, il viaggio di Colombo in Robertson.

Oggi un'educazione classica come quella del giovane Leopardi è impensabile, e soprattutto la biblioteca del conte Monaldo è esplosa. I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici; e direi che essa dovrebbe comprendere per metà libri che abbiamo letto e che hanno contato per noi, e per metà libri che ci proponiamo di leggere e presupponiamo possano contare. Lasciando una sezione di posti vuoti per le sorprese, le scoperte occasionali.

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M'accorgo che Leopardi è il solo nome della letteratura italiana che ho citato. Effetto dell'esplosione della biblioteca. Ora dovrei riscrivere tutto l'articolo facendo risultare ben chiaro che i classici servono a capire chi siamo e dove siamo arrivati e perciò gli italiani sono indispensabili proprio per confrontarli agli stranieri, e gli stranieri sono indispensabili proprio per confrontarli agli italiani.

Poi dovrei riscriverlo ancora una volta perché non si creda che i classici vanno letti perché «servono» a qualcosa. La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici.

E se qualcuno obietta che non val la pena di far tanta fatica, citerò Cioran (non un classico, almeno per ora, ma un pensatore contemporaneo che solo ora si comincia a tra-durre in Italia): «Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un'aria sul flauto. "A cosa ti servirà?" gli fu chiesto. "A sapere quest'aria prima di morire"».

REPRESENTING CULTURE

BENEDICTUS CANONICUS (1140C.)

I. THE MARVELS OF ROME

The Marvels of Rome, known as the Miribilia , served as the guide book for the more scholarly visitors to Rome and as a reference book for scholars who, like Petrarch, used it for descriptions of the Eternal City. Benedictus Canonicus, the probable author, wrote it shortly before the establishment of the commune of Rome in 1143. By the end of that century it was among the books of the Roman Curia as a quasi-official document. It was revised and reorganized in the fourteenth and fifteenth centuries. It consists of three parts, a descriptive list of the principal objects, a collection of the legends associated with the monuments, and a tour of the ancient city beginning with the Vatican and ending in Trastevere. As the earliest attempt at scholarly topography, it is a reflection of the curiosity and interest in ancient architecture and art linked with the increasing political independence of Rome that emerged in the twelfth century. . . . . . . 2. Of the Town Wall. The wall of the city of Rome hath towers three hundred threescore and one, castles forty and nine, chief arches seven, battlements six thousand and nine hundred, gates twelve, posterns five; and in the compass thereof there are twenty and two miles, without reckoning the Transtiberium, and the Leonine city, that is the same as Saint Peter's Porch. 3. Of the Gates. The gates of the famous city be these. Porta Capena, that is called Saint Paul's Gate, by the Temple of Remus; Porta Appia where is the church, that is named Domine quo vadis, that is to say, Lord whither goest thou, where are seen the footsteps of Jesus Christ; Porta Latina, because there the Latins and Apulians were wont to go into the city; there is the vessel that was filled with boiling oil and in which the blessed John the Evangelist was set; Porta Metrovia ; Porta Asinaria, that is called Lateran Gate; Porta Lavicana, that is called the Greater; Porta Taurina, that is called Saint Laurence's Gate, or the gate of Tivoli, and it is called Taurina, or the Bull Gate, because there be carved thereon two head of bulls, the one lean and the other fat; the lean head, that is without, signifieth them that come with slender substance into the city, the fat and full head within signifieth them that go forth rich; Porta Numentana that leadth to the city of Nomentum; Porta Salaria, that which hath two Ways, to wit, the old Salarian Way that leadth to the Milvian Bridge, and the new way that goeth forth to the Salarian Bridge; Porta Pinciana, because king Pincius his palace is there; Porta Flaminia, that is called Saint Valentine's; Porta Collina, at the castle that is by Saint Peter's bridge, the which is called the emperor Hadrian's castle, who made Saint Peter's bridge. Beyond Tiber be three gates: Porta Septimiana, seven Naiads joined with Janus; Porta Aurelia or Aurea, that is to say, Golden, the which is now called Saint Pancras his gate; and Porta Portuensis. In Saint Peter's Porch be two gates, whereof the one is called the gate of the castle of the holy Angel, and the other Porta Viridaria, that is to say, the gate of the Garden. 4. Of Triumphal Arches. Arches Triumphal be these that follow which were made for an Emperor returning from a triumph, and whereunder they were led with worship by the senator, and his victory was graven thereon for a remembrance to posterity; Alexander's Golden Arch at Saint Celsus, the arch of the emperors Theodosius and Valentinian and Gratian at Saint Ursus; the triumphal arch of marble that the Senate decreed to be adorned with

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trophies in honour of Drusus, father of Claudius Ceasar, on account of the Rhaetic and German wars by him nobly achieved; whereof the vestiges do barely appear without the Appian Gate at the temple of mars; in the Circus the arch of Titus and Vespasian; the arch of Constantine by the Amphitheatre; at the New Saint Mary's, between the Greater Palace and the temple of Romulus, the arch of the Seven Lamps of Titus and Vespasian, where is Moses his candlestick having seven branches, with the Ark, at the foot of the Cartulary Tower; the arch of Julius Caesar and the Senators between the Aedes Concordiae and the Fatal Temple, before Saint Martina, where be now the Breeches Towers; nigh unto Saint Laurence in Lucina, the triumphal arch of Octavian; Antoninus his arch, nigh to his pillar, where is now the tower of the Tosetti. Then there is an arch at Saint Mark's that is called hand of Flesh, for at the time when in this city of Rome, Lucy, an holy matron, was tormented for the faith of Christ by the emperor Diocletian, he commanded that she should be laid down and beaten to death; and behold, he that smote her was made of stone, but his hand remained flesh, unto the seventh day; wherefore the name of that place is called Hand of Flesh to this day. In the Capitol is the arch of Gold Bread; and in the Aventine the arch of Faustinus nigh to Santa Sabina. There are moreover other arches, which are not triumphal but memorial arches, as is the arch of Piety before Round Saint Mary's. In this place upon a time when an emperor was ready in his chariot to go forth to war, a poor widow fell at his feet, weeping and crying: Oh my lord, before thou goest, let me have justice. And he promised her that on his return he would do her full right; but she said: Peradventure thou shall die first. This considered, the emperor leapt from his chariot, and held his consistory on the spot. And the woman said, I had one only son, and a young man hath slain him. Upon this saying the emperor gave sentence. The murderer, said he, shall die, he shall not live. Thy son then, she said, shall die, for it is he that playing with my son hath slain him. But when he was led to death, the women sighed aloud, and said, Let the young man that is to die be given unto me in the stead of my son; so shall I be recompensed, else shall I never confess that I have had full right. This therefore was done, and the woman departed with rich gifts from the emperor. 5. Of the Hills. Hills within the city be these: Janiculus that is commonly Janarian, where is the church of Saint Sabba; Aventine, that is also called Quirinal because the Quirites were there, where is the church of Saint Alexius; Caelian where is the church of Saint Stephen in Monte Caelio; Capitol or Tarpeian Hill, where is the Senator's Palace; Pallanteum where is the Greater Palace; Exquiline that is called above the others, where is the basilica of Saint Mary the Greater; Viminal where is Saint Agatha's church, and where Virgil, being taken by the Romans, escaped invisibly and went to Naples, whence it is said, vado ad napulim. 6. Of Thermae. There be called thermae great palaces, having full great crypts under ground, wherein in the winter-time a fire was kindled throughout, and in the summer they were filled with fresh waters, so that the court dwelt in the upper chambers in much delight; as may be seen in the thermae of Diocletian, before Saint Susana. Now there are the Antonian Thermae; the Domitian Thermae; the Maximian; those of Licinius; the Diocletian; the Tiberian behind Saint Susana; the Novatian; those of Olympias at Saint Laurence in Panisperna; those of Agrippa behind Round Saint Mary's; and the Alexandrine where is the hospital of the Thermae. 7. Of Palaces. Palaces in the city be these: the Greater palace of the Monarchy of the Earth, wherein is the capital seat of the whole world, and the Caesarean palace, in the Pallantean hill; the palace of Romulus nigh unto the hut of Faustulus; the palace of Severus by Saint Sixtus; the palace of Claudius between the Colosseum and Saint Peter in Vincula; the palace of Constantine in the Lateran, where my lord Pope dwelleth: this Lateran palace was Nero's, and named from the side of the northern region wherein it standth, or from the frog which Nero secretly produced; in the which palace there is now a great church; the Susurrian palace where is now the church of Saint Cross; the Volusian palace; the palace of Romulus between new Saint Mary and Saint Cosmas, where are the two temples of Piety and Concord, and where Romulus set his golden image, saying, It shall not fall till that a virgin bear a child; and as soon as the Virgin bore a son, the image fell down; the palace of Trajan and Hadrian, where is the pillar twenty paces of height; Constantine's palace; Sallust his palace; Camillus his palace; Antonine's palace, where is his pillar twenty-seven paces high; Nero's palace where is Saint Peter's needle and wherein rest the bodies of the Apostles Peter and Paul, Simon and Jude; Julius Caesar's palace, where is the sepulchre of Julius Caesar; Chromatius his palace; Eusimianus his palace; the palace of Titus and Vespasian without Rome at the catacombs; Domitian's palace beyond Tiber at the Golden Morsel; Octavian's palace at Saint Laurence in Lucina. 8. Of Theatres. The theatres be these: the theatre of Titus and Vespasian at the catacombs; the theatre of Tarquin and the Emperors at the Seven Floors; Pompey's theatre at Saint Laurence in Damaso; Antonius his theatre by Antoninus his bridge; Alexander's theatre nigh unto Round Saint Mary's; Nero's theatre nigh to Crescentius his castle; and the Flaminian theatre. 9. Of Bridges. Bridges be these: the Milvia bridge; the Hadrian bridge; the Neronian bridge at Sassia; the Antonine bridge in Arenula, the Fabrician bridge, which is called the Jews's bridge, because the Jews dwell there;

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Gratian's bridge between the island and the Transtiberium; the Senators' bridge of Saint Mary; the marble bridge of Theodosius at Riparmea, and the Valentinian bridge. 10. Of the Pillars of Antonine and of Trajan; and of the Images that were of old time in Rome. The winding pillar of Antonine hath one hundred threescore and fifteen feet of height, steps in number two hundred and three, windows forty and five. The winding pillar of Trajan hath in height one hundred thirty and eight feet, steps in number one hundred fourscore and five, windows forty and five. The Colosean Amphitheatre hath one hundred and eight submissal feet of height. In Rome were twenty and two great horses of gilded brass, horses of gold fourscore, horses of ivory fourscore and four, common jakes an hundred and fourscore and four, great sewers fifty, bulls griffons, peacocks, and a multitude of other images, the costliness whereof seemed beyond measure, insomuch that men coming to the city had good cause to marvel at her beauty.

II. DIVERS HISTORIES TOUCHING CERTAIN FAMOUS PLACES AND IMAGES IN ROME

. . . . . . 8. Of the Foundation of the three great Churches of Rome by the Emperor Constantine, and of his Parting from Pope Silvester. In the days of Pope Silvester, Constantine Augustus made the Lateran Basilica, the which he comely adorned. And he put there the Ark of the Covenant, that Titus had carried away from Jerusalem with many thousands of Jews; and the golden candlestick having seven lamps with vessels for oil. In the which ark be these things, to wit, the golden emerods, mice of gold, the Tables of the Covenant, the rod of Aaron , manna, the barley loaves, the golden urn, the coat without seam, the reed and garment of Saint John the Evangelist was shorn withal. Moreover he did put in the same basilica a civory with pillars of porphyry. And he set there four pillars of gilded brass, which the consuls of old had brought into the Capitol from the Mars' Field and set in the temple of Jupiter. He made also, in the time of the said pope and after his prayer, a basilica for the Apostle Peter before Apollo's temple in the Vatican. Whereof the said emperor did himself first dig the foundation, and in reverence of the twelve Apostles did carry thereout twelve baskets full of earth. The said Apostle's body is thus bestowed. He made a chest closed on all sides with brass and copper, the which may not be moved, five feet of length at the head, five at the foot, at the right side five feet, and on the left side five feet, five feet above, and five feet below; and so he inclosed the body of the blessed Peter, and the altar above in the fashion of an arch he did adorn with bright gold. And he made a civory with pillars of porphyry and purest gold. And he set there before the altar twelve pillars of glass that he had brought out of Grecia, and which were of Apollo's temple at Troy. Moreover he did set above the blessed Apostle Peter's body a cross of pure gold, having an hundred and fifty pounds of weight; whereupon was written; Constantinus Augustus et Helena Augusta. He made also a basilica for the blessed Apostle Paul in the Ostian Way and did bestow his body in brass and copper, in like fashion as the body of the blessed Peter. The same emperor, after he was become a Christian, and had made these churches, did also give to the blessed Silvester a Phrygium, and white horses, and all the imperialia that pertained to the dignity of the Roman Empire; and he went away to Byzantium; with whom the pope, decked in the same did go so far forth as the Roman Arch, where they embraced and kissed the one the other, and so departed.

GIORGIO VASARI da LE VITE... (1550)

- REDISCOVERY OF ROMAN ANTIQUITIES

... Stettero poi oltra le ruine di Roma per le guerre sotterrati i modi delle sculture e de le pitture da le ruine di Totila fino a gl'anni di Cristo MCCL, nel qual tempo era rimasto in Grecia un residuo d'artefici che vecchi erano, i quali facevano imagini di terra e di pietra, e dipignevano altre figure mostruose e col primo lineamento e col campo di colore. E quegli per esser soli in tale professione, l'arte della pittura in Italia portarono insieme col musaico e con la scultura, e quella come sapevano, a gl'uomini italiani insegnarono rozzamente. Onde gl'uomini di que' tempi, non essendo usati a veder altra bontà né maggior perfezzione nelle cose, di quelle ch'essi vedevano, solamente si maravigliavano e quelle, ancora che baroncesche fossero, nondimeno per le migliori apprendevano. Pur gli spirti di coloro che nascevano, aitati in qualche luogo dalla sottilità dell'aria, si purgarono tanto che nel MCCL, il cielo, a pietà mossosi de i belli ingegni che 'l terren | toscano produceva ogni giorno, gli

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ridusse a la forma primiera. E se bene gli inanzi a loro avevano veduto residui di archi o di colossi o di statue, o pili, o colonne storiate, nell'età che furono dopo i sacchi e le ruine e gli incendi di Roma, e' non seppono mai valersene o cavarne profitto alcuno, sino al tempo detto di sopra; nel quale venuti su, come io diceva, ingegni piú begli, conoscendo assai bene il buono da 'l cattivo, abbandonando le maniere vecchie, ritornarono ad imitare le antiche, con tutta la industria et ingegno loro. Ma perché piú agevolmente si intenda quello che io chiami vecchio et antico, antiche furono le cose inanzi Costantino, di Corinto, d'Atene e di Roma, e d'altre famosissime città, fatte fino a sotto Nerone, a i Vespasiani, Traiano, Adriano et Antonino; percioché l'altre si chiamano vecchie, che da San Silvestro in qua furono poste in opera da un certo residuo de' Greci, i quali piú tosto tignere che dipignere sapevano. Perché, essendo in quelle guerre morti gli eccellenti primi artefici, al rimanente di que' Greci, vecchi e non antichi, altro non era rimaso che le prime linee in un campo di colore; come di ciò fanno fede oggidí infiniti musaici, che per tutta Italia lavorati da essi Greci si veggono, come nel Duomo di Pisa, in San Marco di Vinegia, et ancora in altri luoghi; e cosí molte pitture, continovando, fecero di quella maniera con occhi spiritati e mani aperte, in punta di piedi, come si vede ancora in San Miniato fuor di Fiorenza, fra la porta che va in sagrestia e quella che va in convento, et in Santo Spirito di detta città tutta la banda del chiostro verso la chiesa, e similmente in Arezzo, in San Giuliano et in San Bartolomeo et in altre chiese, et in Roma in San Pietro, nel vecchio, storie intorno intorno fra le finestre, cose ch'hanno piú del mostro nel lineamento, che effigie di quel che si sia. Di scultura ne fecero similmente infinite, come si vede ancora, sopra la porta di San Michele a Piazza Padella di Fiorenza, | di basso rilievo, et in Ogni Santi e per molti luoghi, sepolture et ornamenti di porte per chiese, dove hanno per mensole certe figure per regger il tetto, cose sí goffe e sí ree, e tanto malfatte di grossezza e di maniera, che pare impossibile che imaginare peggio si potesse. E di questa maniera n'è in Roma sotto i tondi nell'arco di Costantino, che dà le storie di sopra, che furono da le spoglie di Traiano smurate et a Costantino in onore della rotta data da lui a Massenzio, quivi son poste; onde per non avere maestri mancandogli ripieno, fecero i maestri ch'alora tenevano il principato, que' berlingozzi che si veggono nel marmo intagliati. Lavorarono ancora le chiese nuove di Roma di musaico alla greca, com'a Santa Prassedia la tribuna, et a Santa Potenziana, il simile a Santa Maria Nuova, in un medesimo modo, cosí a Santa Agnesa fuor di Roma et a tutte le onorate basiliche che a' santi dedicato avevano, fin ch'eglino di miglioramento accrebbero, sí che fecero la tribuna di Santo Ianni e quella di Santa Maria Maggiore, e particularmente la tribuna della cappella maggiore di San Pietro di Roma et infinite altre chiese e cappelle di detta città. E, nell'antichissimo tempio di San Giovanni in Fiorenza la tribuna delle otto facce, da la cornice fino alla lanterna, lavorata di mano d'Andrea Taffi con la medesima maniera greca, ma invero molto piú bella.

REPRESENTING HISTORY

THE CHRONICLE OF MONTE CASSINO (XII CENTURY)

The MONTECASSINO Monaster was founded by St. Benedict about 529 of the Christian Era on the remnants of a preexisting Roman fortification of the municipium Casinum. The heathen cult was still practised on this mountain site in the temple of Apollo and in a nearby holy grove to which a sacrifice area was adjoining. Montecassino became famous for the prodigious life and the Sepulchre of its Founder. Through the ages, the abbey was looked upon as a place of holiness, culture and art for which it became renowne d on world-wide level. Around 577, the monastery was destroyed by the Longobards of

Zotone, Duke of Beneventum, but early in the eighth century Pope Gregory II commissioned the Brescian Petronace to rebuild the monastery. In 787 Charlemagne came to visit the Abbey and granted it vast privileges. In 883, the Saracens invaded and sacked the Monastery and burnt it down, causing the death of Bertarius its saint Abbot,

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Founder of mediaeval Cassino. The surviving monks first fled to Teano and later to Capua. Monastic life was only fully resumed towards the middle of the tenth century, thanks to Abbot Aligern. The third destruction, caused by an earthquake, occurred in 1349. Nothing but a few walls remained of Abbot Desiderius' splendid building. Many additions and embellishments were made during reconstruction so that the abbey acquired the greatness and imposingness it conserved until February 15, 1944.

During the final stage of world war II when Montecassino happened to be on the firing line between two armies: this place of prayer and study which had become in these exceptional circumstances a peaceful shelter for hundreds of defenceless civilians, in only three hours was reduced to a heap of debris under which many of the refuges met their death. The Abbey was rebuilt according to the ancient architectural pattern and to the "where and as was" program of Abbot Ildefonso Rea, its reconstructor.

Book III. 26. In all happiness and peacefulness, through the merits of the Holy Father Benedict, God installed the venerable abbot Desiderius. He was held in such great honor by everyone around that not only all the people of modest origin, but even their princes and dukes eagerly rendered him the same obedience and ready response to his wishes divine inspiration, Desiderius planned the demolition of the old church and the construction of a new, more beautiful and august one. To most of our leading brethren this project seemed at that time entirely too difficult to attempt. They tried to dissuade him from this intention by prayers, by reasons, and by every other possible way, believing that his entire life would be insufficient to bring such a great work to an end. But trusting in God, he was confident of God's help in everything done for God. Therefore in the ninth year of his office, in March of A.D. 1066, after having built near the hospital the not sufficiently large church of St. Peter, in which the brethren of course should assemble for divine service in the interim, he proceeded to demolish to its foundations St. Benedict's church which, because of its smallness and ugliness, was entirely out of keeping with so great a treasure and so important a congregation.

And since the old church had been built on the very top of the mountain, and had been exposed in every direction to the violent buffeting of the winds, and as it had often been hit by lightning, Desiderius decided to destroy the ridge of stone with fire and steel, to level a space sufficient for the foundations of the basilica, and to make a deep excavation where the foundations should be laid. After having given orders to those who were to execute this work with the greatest dispatch, he went to Rome. After consulting each of his best friends and generously and wisely distributing a large sum of money, he bought huge quantities of [ancient] columns, bases, epistyles, and marble of different colors. All these he brought from Rome to the port, from the Portus Romanus thence by sea to the tower at the Garigliano River, and from there with great confidence on boats to Suium. But from Suium to this place he had them transported with great effort on wagons. In order that one may admire even more the fervor and loyalty of the faithful citizens, a great number of them carried up the first column on their arms and necks from the foot of the mountain. The labor was even greater [than it would be now] for the ascent then was very steep, narrow, and difficult. Desiderius had not yet thought of making the path smoother and wider, as he did later.

Then he levelled with great difficulty the space for the entire basilica, except for the sanctuary, procured all the necessary materials, hired highly experienced workmen, and laid the foundations in the name of Jesus Christ, and started the construction of the basilica.

It was one hundred and five cubits long, forty-three cubits wide, and twenty-eight cubits high. On each side he erected on bases ten columns nine cubits high. In the upper part he opened rather large windows: twenty-one in the nave, six long ones and four round ones in the choir, and two in the central apse. He erected the walls of the two aisles to a height of fifteen cubits and provided each aisle with ten windows. He then started to reduce the level of the sanctuary to that of the basilica - a difference of about six cubits - but at a depth of not even three ulnae, he suddenly found the venerable tomb of St. Benedict. He expressed the opinion to his brethren and to other men of good judgment that he should not venture to change the tomb in the least, and in order that no one could snatch away anything from so great a treasure, he re-covered the tomb where it was with precious stones and above it, running north and south at right angles to the axis of the basilica, he built a sepulcher of Parian marble five cubits long - a wonderful work. By this device, the sanctuary remained in great eminence, so much so that one has to descend from its pavement to that of the basilica by eight steps under the large arch which is, of course, above the sanctuary. In the main apse, toward the east, he erected an altar to St. John the Baptist, in the same place where St. Benedict had built an oratory in honor of this saint. In the south apse he erected an altar to the Mother of God and in the north apse an altar to St. Gregory. Beside this [north] apse, he built a house with two rooms for housing the treasure of the church service. This house is usually called the sacristy; and he connected this house with a similar one in which the ministrants of the altar should prepare themselves. As he had taken away not a small part of his house to create space for the basilica, he made the same house which connected with the sacristy wider and more beautiful than the former one. On the side of it, near the aisle of the main church, he built a short [narrow] but very

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beautiful chapel with a curved wall to St. Nicholas. Between this chapel and the very front of the basilica he constructed in the same type of work, a venerable oratory to St. Bartholomew. At the front, near the portal of the main church, he erected an admirable campanile of large square stones.

Before the church he also built the atrium, which we call in the Roman fashion, "paradise." It was seventy-seven and a half cubits long, fifty-seven and a half cubits wide, and fifteen and half cubits high, with four columns on square bases at each end and eight columns at each side. On its south side he installed below the pavement of the atrium a large vaulted cistern of the same length. Before the entrance to the basilica, he constructed five arches, which we call "cross-vaults," and five before the entrance to the atrium as well. At each of the two corners of the west wing of the atrium he built a beautiful chapel in the form of a tower: the right in honor of the Archangel Michael, and the left one in honor of the prince of apostles, St. Peter. Their interior is accessible by five steps from the atrium. Since the ascent to the church was very difficult and steep, he made an excavation sixty-six cubits square and seven cubits deep in the mountain itself outside the vestibule of the atrium and the two tower chapels, and built there the twenty-four marble steps thirty-six cubits wide by which one ascends to the vestibule of the atrium.

27. Meanwhile he sent envoys to Constantinople to hire artists who were experts in the art of laying mosaics and pavements. The [mosaicists] were to decorate the apse, the arch, and the vestibule of the main basilica; the others, to lay the pavement of the whole church with various kinds of stones. The degree of perfection which was attained in these arts by the masters whom Desiderius had hired can be seen in their works. One would believe that the figures in the mosaics were alive and that in the marble of the pavement flowers of every color bloomed in wonderful variety. And since magistra Latinitas had left uncultivated the practice of these arts for more than five hundred years and, through the efforts of this man, with the inspiration and help of God, promised to regain it in our time, the abbot in his wisdom decided that a great number of young monks in the monastery should be thoroughly initiated in these arts in order that their knowledge might not again be lost in Italy. And the most eager artists selected from his monks he trained not only in these arts but in all the arts which employ silver, bronze, iron, glass, ivory, wood, alabaster, and stone. But about that in another place; now we shall describe how he decorated and finally consecrated the basilica.

28. He covered the whole basilica, the choir, and both aisles as well as the vestibule with roofs of lead. The apse and the major arch he faced with mosaic. He ordered the following verses to be written in large letters on the arch:

In order that under Thy Leadership the just may be able to reach and take possession of the heavenly home, Father Desiderius founded here this hall for Thee.

In the apse, under the feet of St. John the Baptist and St. John the Apostle, he ordered the following verses to be written:

This house is like Mount Sinai which brought forth sacred laws.

As the Law demonstrates what was once promulgated here. The Law went out from here which leads the minds from the depths and having become known everywhere, it gave light through the times of the age.

He filled all the windows of the nave and the choir with plates made of lead and glass and connected with iron; those in the sidewalls of both aisles he made of mica, but of similar gracefulness. After having installed below the timber work the ceiling admirable decorated with various colors and designs, he had all the walls painted a beautiful variety of colors. He laid the pavements of the entire church including its annexes, the oratories of Saints. Nicholas and Bartholomew, and his own house with an admirable number of cut stones hitherto quite unknown in these parts - particularly the pavement near the altars and in the choir. The steps leading to the altar were incrusted with precious marbles. The front of the choir which he built in the center of the basilica, he fenced with four marble plates, one was red, one green, and the remaining plates around the choir were white. He further decorated the arches above the entrance and the vestibule of the church with beautiful mosaics. He had the whole façade of the basilica plastered from the arches to the pavement. Also he had the outside of the arches covered with mosaic and the verses of the poet Marcus inscribed there in golden letters. He ordered the remaining three wings of the atrium painted outside and inside with various scenes from the Old and New Testaments, and all the wings paved with marble. Moreover, he covered them with ceilings and brick roof. The vestibule of the atrium with its two towers was paved, painted and covered in the same way.

29. After all this had been completed, with God's help and through His grace, within five years, Desiderius resolved to dedicate the basilica with the greatest solemnity and with an immense festival for eternal memory. He petitioned and devoutly invited Pope Alexander II to come to the dedication. When he found the Pope eager and willing, he

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also invited the latter's archdeacon, Hildebrand, the other cardinals, and the Roman bishops... On the first day of October of A.D. 1071... the basilica of St. Benedict with its five altars was dedicated by the most reverend and angelic pope himself. The altar in honor of the Virgin in the southern part was dedicated by John, Bishop of Tusculum, the altar in honor of St. Gregory in the northern part was dedicated by Hubald, the Bishop of Sabina, and that in honor of St. Nicholas was dedicated by Eramus, Bishop of Segni....

GIOVANNI VILLANI (1280?-1348)

Giovanni Villani nacque a Firenze probabilmente negli ultimi decenni del XIII secolo e, in quanto mercante, durante la sua vita viaggiò moltissimo, muovendosi dall'Italia alla Francia ed alle Fiandre. Proprio perché detentore di una fiorente attività commerciale si interessò moltissimo alla vita politica della sua città, all'interno della quale fu sostenitore di parte guelfa. Nel 1316, nel '21 e nel '28 fu eletto priore e nel '17 membro della commissione per le nuove gabelle; nel '21 venne scelto come membro della magistratura delle mura e nel '28 fu anche uno degli ufficiali addetti a far fronte alla carestia che imperversava nella città. Qualche anno dopo, nel 1331, fu sollevato dall'accusa di corruzione che gli era stata imputata al tempo in cui era stato camarlingo del Comune per l'edificazione delle mura. Nel 1335 venne coinvolto nella bancarotta dei Bardi, dal cui fallimento fu travolta anche la società

del Villani. Ancora una volta si ritrovò ad essere perseguito perché accusato di collusione con gli stessi Bardi ed in quanto mercante fuggitivo; imprigionato per qualche tempo, venne rilasciato nel 1346 circa. Morì di peste due anni dopo.

La fama di Giovanni Villani è legata soprattutto alla sua Cronica, un monumentale resoconto che prende avvio dalla torre di Babele e che arriva fino ai suoi tempi. Iniziata nel 1300 in occasione del giubileo, l'opera risulta, com'è ovvio, del tutto inattendibile riguardo alle epoche antiche ma estremamente preziosa se si fa riferimento ai fatti coevi allo stesso Villani, fatti ricavati, a volte, proprio dagli archivi del comune di Firenze. Lo stile dello scritto è molto più scarno rispetto alla Cronica di Dino Compagni, probabilmente perché meno sentita è la necessità morale della sua composizione, che in tal modo risulta più precisa, per lo meno dal punto di vista della ricostruzione storica, ma anche meno appassionante e che ci dà un'immagine del Villani più 'cronista' che scrittore vero e proprio.

Il Villani concepì l'idea di comporre una cronaca dei fatti del suo tempo e della storia della sua città, Firenze, mentre si trovava a Roma, in occasione del Giubileo del 1300. Cominciata nel 1308, la redazione dell'opera lo occupò per tutta la vita e rimase incompiuta alla sua morte, avvenuta nel 1348. Fu continuata dal fratello Matteo che la protrasse per altri 11 libri finché non morì a sua volta, nel 1363. I successivi 102 capitoli, che coprono appena un anno, furono composti dal figlio di Matteo, Filippo. L'opera completa di Giovanni consta di 12 libri, divisi in due parti di 6 libri ciascuna. La sua prima edizione, che comprendeva 10 libri, fu stampata a Venezia nel 1537, mentre l'edizione completa si deve ai Giunti di Firenze, che la pubblicarono nel 1559. L'edizione ampliata dalle aggiunte del fratello e del nipote è reperibile nei Rerum Italicarum Scriptores del Muratori, voll. XIII e XIV.

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VILLANI, LA NUOVA CRONICA

Questo libro si chiama la Nuova cronica, nel quale si tratta di più cose passate, e spezialmente dell'origine e cominciamento della città di Firenze, poi di tutte le mutazioni ch'ha avute e avrà per gli tempi: cominciato a compilare nelli anni della incarnazione di Iesù Cristo MCCC.

LIBRO XII, 93: ISPESE DEL COMUNE DI FIRENZE IN QUE' TEMPI.

Le spese ferme e di nicessità del Comune di Firenze per anno, e valea libre III soldi II il fiorino dell'oro.

Il salaro del podestà e di sua famiglia l'anno libre XVmCCXL piccioli. Il salaro del capitano del popolo e sua famiglia l'anno libre VmDCCCLXXX piccioli. Il salaro dell'eseguitore degli ordini della giustizia contro a grandi per sé e sua famiglia libre IIIImDCCC piccioli. Il salaro del conservadore del popolo e sopra gli sbanditi, con L cavalieri e C fanti, fiorini VIIImCCCC d'oro: questo uficio non è stanziale, se non come occorrono i tempi di bisogno.

Il giudice dell'appellagione sopra le ragioni del Comune libre MC di piccioli. L'uficiale sopra gli ornamenti delle donne e altri divieti libre M di piccioli. L'uficiale sopra la piazza d'Orto San Michele della biada libre MCCC di piccioli. Li uficiali sopra la condotta de' soldati e notai e messi libre M di piccioli. Li uficiali e notai e messi sopra i difetti de' soldati libre CCL di piccioli. I camarlinghi della camera del Comune, e’lloro uficiali e massari, e’lloro notai e frati, che guardano gli atti del Comune, libre MCCCC di piccioli. Li uficiali sopra le rendite propie del Comune libre CC di piccioli. I soprastanti e guardie delle prigioni libre DCCC di piccioli.

Le spese del mangiare e bere de' signori priori e di loro famiglia costa l'anno libre IIImDC di piccioli. I salari de' donzelli e servidori del Comune e campanai delle due torri, cioè quella de' priori e della podestà, libre DL di piccioli. Il capitano con LX berrovieri che stanno al servigio e guardia de' priori libre VmCC di piccioli. Il notaio forestiere sopra le riformagioni e suo compagno libre CCCCL di piccioli. Il cancelliere e dittatore delle lettere e suo compagno libre CCCCL piccioli. Per lo pasto de' lioni, e torchi, e candele, e panelli per li priori libre IImCCCC di piccioli. Il notaio che ligistra nel palagio de' priori i fatti del Comune libre C di piccioli. I messi che servono tutte le signorie, per loro salaro libre MD di piccioli.

Trombadori e banditori del Comune, che sono i banditori VI e trombadori, naccheraio e sveglia, cenamelle e trombetta, X, tutti con trombe e trombette d'argento, per loro salaro l'anno libre M di piccioli. Per limosine a' religiosi e spedali l'anno libre IIm piccioli. Secento guardie che guardano di notte alle poste per la città libre XmDCCC di piccioli. Il palio di sciamito che’ssi corre l'anno per san Giovanni, e quelli di panno per santo Bernaba e santa Reparata costano l'anno fiorini C d'oro. Per ispie e messi che vanno fuori per lo Comune libre MCC di piccioli. Per ambasciadori che vanno per lo Comune stimati l'anno più di fiorini Vm d'oro.

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Per castellani e guardie di rocche si tengono per lo Comune fiorini IIIIm d'oro. Per fornire la camera dell'armi e balestra e saettamento e pavesi fiorini MD d'oro. Somma l'opportune ispese sanza i soldati a’ccavallo e a piè da fiorini XLm d'oro o più l'anno. A' soldati a’ccavallo e a piè non era né regola né numero fermo, ch'erano quando più e quando meno secondo i bisogni che occorrono al Comune. Ma al continovo si può ragionare, sanza quelli della guerra di Lombardia, e non faccendo oste, da DCC a M, e simile pedoni continui.

E non facciamo conto delle spese delle mura e de' ponti, e di Santa Reparata, e di più altri lavori di Comune, che non si può mettere numero ordinato.

EXCHANGE RATES IN VENICE QUOTING FLORENCE,

1383-1411

[from http://sccweb.scc-net.rutgers.edu/memdb/DatabasesSpecificFiles/About/aboutMueller.asp]

Year British Official Price (British pounds per fine ounce) (end of year)

1308 1.066667

COLSULT ON LINE:

FLORENCE: CATASTO OF 1427

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LIBRO XII, 94: ANCORA DELLA GRANDEZZA E STATO DELLA CITTÀ DI FIRENZE.

Dapoi ch'avemo detto dell'entrata e spesa del Comune nostro di Firenze in questi tempi, ne pare si convenga di fare menzione dello stato e condizione di quella, dell'altre grandi cose della città; perché i nostri successori che verranno per li tempi s'avegghino del montare o bassare di stato o potenzia che facesse la nostra città, acciò che per li savi e valenti cittadini, che per li tempi saranno al governo di quella, per lo nostro ricordo e asempro di questa cronica procurino d'avanzarla inn-istato e podere. Trovamo diligentemente che in questi tempi avea in Firenze circa a XXVm d'uomini da portare arme da XV in LXX anni, cittadini, intra' quali avea MD nobili e potenti che sodavano per grandi al Comune. Avea allora in Firenze da LXV cavalieri di corredo. Ben troviamo che anzi che fosse fatto il secondo popolo, che regge al presente, erano i cavalieri più di CCL, che poi che 'l popolo fu, i grandi non ebbono lo stato e signoria sì grande come prima, e però pochi si facieno cavalieri. Istimavasi avere in Firenze da LXXXX di bocche tra uomini e femmine e fanciulli, per l'aviso del pane bisognavano al continuo alla città, come si potrà comprendere apresso; ragionandosi avere comunemente nella città da MD uomini forestieri, e viandanti e soldati, non contando nella somma di cittadini riligiosi e frati e religiose e rinchiuse, onde faremo menzione apresso. Ragionasi in questi tempi avere nel contado e distretto di Firenze da LXXXm uomini. Trovamo dal piovano che battezzava i fanciulli (imperò che per ogni maschio che battezzava in San Giovanni, per avere il novero, mettea una fava nera, e per ogni femmina una bianca) trovò ch'erano l'anno in questi tempi dalle VmD in VIm, avanzando le più volte il sesso mascolino da CCC in D per anno. Trovamo che' fanciulli e fanciulle che stavano a leggere del continuo da VIIIm in Xm. I garzoni che stavano ad aprendere l'abbaco e algorisimo in VI scuole da M in MCC. E quelli che stavano ad aprendere gramatica e loica in IIII grandi scuole da DL in DC. Le chiese ch'erano allora in Firenze e ne' soborghi, contando le badie e•lle chiese de' frati e religiosi, trovamo CX, delle quali erano LVII paroccie con popolo, V badie con due priori con da LXXX monaci, XXIIII monisteri di monache con da D donne, X regole di frati con più di DCC frati, XXX spedali con più di mille letta per albergare poveri e infermi, e da CCL in CCC cappellani preti. Le botteghe dell'arte della lana erano CC e più, e faceano da LXXm in LXXXm di panni, di valuta di più di MCC migliaia di fiorini d'oro; che bene il terzo e più rimaneva nella terra per overaggio, sanza il guadagno de' lanaiuoli; del detto ovraggio viveano più di XXXm persone. Ben trovamo che da XXX anni adietro erano CCC botteghe o circa, e faceano per anno più di Cm panni; ma erano più grossi della metà valuta, però ch'allora non ci venia né sapeano lavorare lana d'Inghilterra, com'hanno fatto poi. I fondachi dell'arte di Calimala di panni franceschi e oltramontani erano da XX, che faceano venire per anno più di Xm panni di valuta di più di CCCm di fiorini d'oro, che tutti si vendeano in Firenze sanza quelli che mandavano fuori. Banchi di cambiatori LXXX banchi. La moneta dell'oro battea per anno CCCLm di fiorini d'oro, talora CCCCm; e di danari da quattro più di XXm libre. Le botteghe di calzolai e zoccolai e pianellai erano da CCC. Il collegio di giudici da LXXX in C; e notari da DC; medici di fisica e di cirogia da LX; e botteghe di speziali allora da C. Mercatanti e merciai, grande numero, da non potere bene stimare per quelli ch'andavano fuori di Firenze a negoziare; e molti altri artefici di più mestieri, maestri di pietra e di legname. Fornora avea allora in Firenze CXLVI, e trovamo per la gabella della macinatura e per fornari ch'ogni dì bisognava alla città dentro CXL moggia di grano, onde si può stimare quello bisognava l'anno; non contando che•lla maggiore parte degli agiati e ricchi e nobili cittadini co•lloro famiglie più di IIII mesi, e tali più dell'anno, in villa in contado. Troviamo che intorno gli anni MCCLXXX ch'era la città in filice e buono stato, ne volea la settimana da DCCC moggia. Di vino trovamo per la gabella delle porte n'entrava l'anno da LVm di cogna, e inn abondanza talora più Xm cogna. Bisognava l'anno IIIIm tra buoi e vitelle; castroni, pecore LXm; capre e becchi XXm; porci XXXm. Entravano del mese di luglio per la porta a San Friano CCCC some di poponi per dì, che tutti si stribuivano nella cittade. In questi tempi avea in Firenze le 'nfrascritte signorie forestieri, che ciascuno tenea ragione, e aveano colla da tormentare, la podestà, il capitano del popolo, l'assecutore degli ordini della giustizia, il capitano della guardia, overo conservadore del popolo; tutte queste signorie avieno albitro di pulire reale e personale: il giudice della ragione e apellagione, il giudice sopra le gabelle, l'uficiale sopra la piazza e vittuaria, l'uficiale sopra gli ornamenti delle donne, quello della mercatantia, quello sopra l'arte della lana, gli uficiali ecresiastici, la corte del vescovo di Firenze e di quello di Fiesole, e dello inquisitore della eretica pravità. Altre degnità e magnificenza della nostra città di Firenze non sono da lasciare di mettere in memoria per dare aviso a quelli verranno dopo noi.

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Ell'era dentro bene albergata di molti belli palagi e case, e al continovo in questi tempi s'edificava, migliorando i lavori di farli agiati e ricchi, recando di fuori asempro d'ogni miglioramento e bellezza. Chiese cattedrali e di frati d'ogni regola, e monisteri magnifichi e ricchi; oltre a•cciò non era cittadino che non avesse posessione in contado, popolano o grande, che non avesse edificato od edificasse riccamente troppo maggiori edifici che in città; e ciascuno cittadino ci peccava in disordinate spese, onde erano tenuti matti. Ma ssi magnifica cosa era a vedere, ch'uno forestiere non usato venendo di fuori, i più credeano per li ricchi difici d'intorno a tre miglia che tutto fosse della città al modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri e cortili, giardini murati più di lungi alla città, che inn-altre contrade sarebbono chiamati castella. In somma si stimava che intorno alla città VI miglia avea più d'abituri ricchi e nobili che recandoli insieme due Firenze non avrebbono tante: e basti assai avere detto de' fatti di Firenze.

SEA ROUTES IN THE MIDDLE AGES

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JOHN H. MUNRO

Department of Economics University of Toronto

THE ITALIAN CONTRIBUTIONS TO LATE-MEDIEVAL BANKING INSTITUTIONS

1. DEPOSIT AND TRANSFER BANKING:

a) This was the earliest form of organized banking by the Italian communes, dating from late 12th century Italy (Genoa possibly the first).

b) This form of banking was always associated with money-changing:

i) money-changers served two functions, both of which required that they always maintain adequate security for the storage and safe-keeping of precious metals, for those functions:

(1) they purchased bullion, often in the form of foreign coins, to be re-sold to the prince’s mint; and

(2) they exchanged foreign coins for domestic coins (and sometimes illegally sold foreign coins to those

going abroad, though required to deliver such coins to the mint

(3) Therefore they always had a large inventory of precious metals to be safeguarded.

ii) Because they could offer such security for precious metals, they soon took on the additional function of safeguarding and storing other merchants’ coins and bullion: i.e., they accepted deposits.

iii) They soon discovered that they could safely lend out some portion of moneys deposited with them, since depositors would never demand all their money back at the same time.

iv) From that, they developed the principle of fractional reserve system: i.e., to keep a reserve of say,

one third in coin, to protect deposits, so satisfy day to day demands of depositors

v) The other two thirds could be lent out, usually by entering a credit, in pen, ink, and paper, in a deposit account of the borrower, who could then withdraw or transfer this money.

vi) Interest was evidently paid on deposits and charged on loans; but because of the usury laws the

medieval Italian (and Flemish) bank records do not declare or indicate such interest payments.

c) Moneta di banco:

i) These Italian bankers thus also developed what is called ‘bank money’ (moneta di banco): or bookaccount transfers.

ii) One bank client having a deposit account could instruct his banker to transfer money or bank

credits: from his account to the deposit account of another merchant to whom he owed money.

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iii) Originally effected by oral command, these transfers by the 14th or 15th centuries were undertaken

finally by a written command, which developed into the bank cheque, as we know it.

d) Deposit Banking and Monetary Expansion?

i) In theory, the entire banking system could expand the potential money supply by the reciprocal of the reserve ratio: the expansion would take place through a chain of deposits, loans, expenditures, and

redeposits.

ii) Late-medieval banking, however, did not have such expansionary powers simply because it constituted such a very small segment of market-oriented monetary systems.

(1) Even within its Italian homeland, deposit banking was largely confined to the large urban commercial

centres.

(2) outside of Italy, it spread successfully only to regions dominated by Italian commerce, such as Catalonia and especially Flanders, where Bruges became the commercial and financial capital of northern Europe.

iii) As I noted earlier, according to several historians, only about 10% of adult males in both late-medieval Venice and Bruges had any access to bank credit.

e) Deposit Banking in the Late-Medieval Low Countries:

i) In the 14th century, deposit-banking was introduced by Italian merchants;

(1) but it was soon taken over and developed by native Flemish bankers, who were invariably also moneychangers;

(2) or inn-keepers serving foreign merchants (hostelliers) acting as financial brokers..

ii) In the fifteenth century, the Burgundian government of the Low Countries imposed many severe

restrictions on banking and credit, as part of misguided policies to protect their coinage during periods of

evident bullion scarcities.

iii) In particular, during the Burgundian monetary reform and unification of the Low Countries, in

1433-34, the government curbed independent money-changing, and with that also indigenous depositbanking; subsequently (from the 1460s), they prohibited it entirely.

iv) Evidently, in the Low Countries, deposit-banking did not revive until the 16th century.

f) Late-Medieval England:

i) There are no real signs of genuine deposit banking until the early 17th century, though some

embryonic and unofficial forms evident by the late 16th century?

Page 17: Reader 01

ii) Why no medieval deposit banking?

(1) Because money-changing, the real source of deposit banking everywhere else, was a strictly enforced

royal monopoly, up to the 17th century [see the second-term topics on banking];

(2) and licenced money-changers, as salaried agents of the crown, were not allowed to engage in banking.

2. THE BILL OF EXCHANGE: 19

a) The bill of exchange is a uniquely Italian innovation: 20

i) The Italian bill-of-exchange has no known antecedents anywhere: not in the Ancient or Classical

world or from any Asian civilizations (China, India, etc.)

ii) Nor can it be attributed to any borrowing from any contracts of this nature in the Islamic world:

(1) we saw that such borrowing had been responsible for the origins of the Italian commenda, directly copied or borrowed from the much earlier Arabic qirad contract, which had all the same features in dividing risks and liabilities, sharing profits, etc.

(2) But was the Arabic suftaja contract a possible origin, a precedent? No!

# to be sure, the Arabic suftaja, long predating the Italian bill of exchange, did seem to serve the same

function, in remitting payments from one city to some far distant city, or in arranging a repayment

of a loan in that far distant city: say between Baghdad and Grenada (the least Muslim emirate to

survive, in Iberia, finally conquered by the rulers of the newly united Christian Spain, Ferdinand and

Isabella, in 1492).

# but no exchange of currencies was involved: because in the Arabic (Islamic) world of Spain, North

Africa, and western Asia one universal currency was used: the gold dinar and the silver dirham, so

that any payment made in these currencies in one city involved a remittance or repayment in that

distant city in the same currency

# The bill-of-exchange, however, always involved two different currencies – say, Florentine florins and

English pounds sterling – and a stipulated exchange rate between them: a sum lent or provided in one

currency (florins in Florence) was to be repaid, or payment made, in the other currency (pounds

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sterling in London)

iii) Instead, the Italian bill of exchange develops out of the so-called fair-letters of 13th-century western Europe: the instrumentum ex causa cambii, a financial instrument that Italian merchants had been using at the Champagne Fairs in the 13th century

iv) The instrumentum was in fact a formal, fully notarized bond, as a promise to pay, involving three

merchants:

(1) the merchant who advanced the funds, in some Italian currency, to conduct the trade, in some Italian city;

(2) the merchant who borrowed these funds to buy trading goods and to conduct his trade at the Champagne Fairs, accompanying his goods on the way; and

(3) a merchant serving as the agent of the lender who collected the money, in French currency, at the

Champagne Fairs.

v) The letter or bill of exchange was instead an informal command to pay, a principal-agent instrument (not a contract)

(1) by which a merchant A in some Italian city, a principal who borrows money or receives money as a

commercial investment from some other Italian merchant B, who is the other principal

(2) merchant A then orders his banking agent in some foreign city to make payment on his behalf, to the agent there for the merchant B who advanced him the funds.

b) Thus the bill of exchange was both a loan and money transfer instrument, with two uses:21

i) a loan contract: by which a merchant lent money in one city and was subsequently repaid abroad: (1) in another country,

(2) in a different currency, the currency of that foreign country,

(3) paid by his banking agent in that foreign city

(4) and at a later date, usually about two or three months (the period until redemption was called usance: see the web document on the bill of exchange, and the appendix)

(5) In the example in the handout, a transaction between merchants in Bruges (Flanders) and Barcelona (Catalonia).

ii) a transfer or remittance instrument: by which, in using the very same type of bill of exchange, a

merchant in one city transferred funds to another city, usually in order to redeem or pay off a debt or some other obligation in that foreign city.

iii) In both contracts: a merchant in city A handed over or ‘delivered’ funds in that city's local currency to another merchant in city A, in order to purchase from that merchant a claim on funds in his foreign bank account, in city B.

c) Note that no coin or money in physical form is sent between the two cities: the actual money is retained locally to finance trade.

Page 19: Reader 01

i) In this example, as a loan contract, the Italian merchant in Bruges who has borrowed the money, in

Flemish pounds gros or groot (sold a claim on his foreign bank account in Barcelonese currency) uses that money to buy Flemish cloth and finance the cloth shipment to Barcelona for sale there.

ii) After selling the Flemish cloth, he can use the funds received to pay off the loan, to redeem the bill of

exchange, at the Barcelona bank, in local currency: by having his banker there pay the agent for the Italian merchant lender in Bruges.

iii) For the Italian merchant in Bruges to get his money back, in Flemish pounds groot, he required a

second bill of exchange:

(1) his Barcelona banking agent would then buy a bill drawn on Bruges, i.e., advance funds in Barcelona

currency to some other Italian merchant trading with Bruges;

(2) and that second bill would be redeemed later in Flemish pounds groot, which sum would be then credited to the account of the original lender in Bruges.

d) Note from the diagram exactly how the bill of exchange works:

i) The Italian merchant A in Bruges makes a loan in Flemish pounds groot to another merchant in

Bruges, B,

(1) by buying from merchant B a bill of exchange drawn upon his Italian banking agent in Barcelona (banker C), who is called the payer:

(2) i.e., by a ‘letter of payment,’ which instructs that agent banker C in Barcelona (the payer) to redeem the bill (‘honour the bill’) at some specified date for a specified amount of money in Barcelonese currency.

ii) The Italian merchant A in Bruges, having bought this bill, then mails it his own banker agent D in

Barcelona, who is called the payee (receives payment).

iii) The Italian banker D in Barcelona then presents this bill to his fellow Italian banker C in Barcelona for acceptance; and C then writes on the back of the bill, ‘I accept,’ thus acknowledging his promise and obligation to pay the specified amount on the due date (redemption date) of the bill, in Barcelonese currency.

iv) On that redemption date,

(1) banker D (payee) in Barcelona presents the bill to banker C (payer), who then pays D the specified amount in Barcelonese currency.

(2) Banker D will then use those funds to invest in another bill drawn on Bruges, which will work in the same fashion.

e) the interest question:

i) If you regard the gain derived from the second or ‘return’ bill of exchange contract (recambium) as interest, then you can argue that the interest payment on this loan contract was determined by raising, i.e., adjusting, the exchange rate on the two currencies in favour of the lender.

ii) Thus the interest rate was included or ‘hidden’ in the exchange rate, in the manner demonstrated fully in the handout.

Page 20: Reader 01

iii) As I noted before, Raymond de Roover and many other economic historians have argued that a primary purpose of the bill of exchange as an investment or loan contract was to circumvent the ecclesiastical ban on usury.

iv) But the church was not, of course, ignorant or fooled by this manoeuvre;

(1) as noted before, when the two bills of exchange contracts were simultaneously constructed,

(2) they were immediately condemned as usurious, as so-called ‘dry exchange’.

v) Instead, it can be argued that this return was in fact profit: an uncertain return as reward for risk,

rather than predetermined interest:

(1) because in fact the exchange rates could turn against the lender before he got his original money back,

thus wiping out any financial gain.

(2) So this was an uncertain return, and thus not usurious, in the eyes of the Church.

vi) Furthermore, as already indicated, many bills of exchange were genuine transfer instruments to pay debts,

(1) and thus were not really interest-bearing loan contracts;

(2) and since the bills were identical in form,

(3) how could one determine their precise nature?

vii) Because of this usury prohibition, inability to charge interest openly,

(1) all bills of exchange were necessarily held to maturity --

(2) and were not sold ahead of time, at discount; because such a discount would be tantamount to admitting the existence of a charge for interest.

f) Thus two complementary forces in the dissemination of the bill of exchange contract:

i) The impact of the usury doctrine, of the intensification of the anti-usury campaign:

(1) that made merchants seek out an alternative loan contract or investment vehicle, namely the bill of

exchange,

(2) by which they could ‘lend money’ and circumvent the usury doctrine,

(3) i.e., earn a return that would not be considered usurious, but at the cost of greater risk (a less certain

return).

ii) The impact of bullionist restrictions on the international flow of precious metals, combined with a higher degree of risk from other factors in shipping precious metals: i.e., the equally important efficacy of the bill-of-exchange

(1) in serving as a transfer instrument to effect long-distance international payments,

(2) without having physically to transport precious metals.

g) How the bill of exchange became a fully negotiable and discountable credit instrument, and thus how discounting arose, in 16th-century Europe, must await our return to the subject of banking and credit in the second term.

h) The Northern Diffusion of the Bill of Exchange Contract in Late-Medieval Europe:

i) the bill of exchange, as an informal holograph letter, was a high-risk credit instrument:

(1) in lacking any provisions for collateral, any official standing in the courts,

Page 21: Reader 01

(2) and thus the legal protection bestowed upon creditors holding legitimate loan contracts (i.e., a nonusurious mutuum or recognizance).

ii) The Italians and Bills of Exchange:

(1) Late-medieval bills of exchange were thus restricted in use to a very small coterie of wealthy merchantbankers,

(2) and thus chiefly Italian, who had full confidence in each other, operating within a closely-knit yet

international network.

(3) Indeed, the bill of exchange was virtually a monopoly of Italian merchants, and especially those Italian merchants engaged in long-distance trade:

(4) Note that throughout European economic history, from the 12th to 20th centuries, international banking The Italian Contributions to Late-Medieval Banking Institutions

1. Deposit and Transfer Banking:

a) This was the earliest form of organized banking by the Italian communes, dating from late 12th

century Italy (Genoa possibly the first).

b) This form of banking was always associated with money-changing:

i) money-changers served two functions, both of which required that they always maintain adequate

security for the storage and safe-keeping of precious metals, for those functions:

(1) they purchased bullion, often in the form of foreign coins, to be re-sold to the prince’s mint; and

(2) they exchanged foreign coins for domestic coins (and sometimes illegally sold foreign coins to those

going abroad, though required to deliver such coins to the mint

(3) Therefore they always had a large inventory of precious metals to be safeguarded.

ii) Because they could offer such security for precious metals, they soon took on the additional function of safeguarding and storing other merchants’ coins and bullion: i.e., they accepted deposits.

iii) They soon discovered that they could safely lend out some portion of moneys deposited with them, since depositors would never demand all their money back at the same time.

iv) From that, they developed the principle of fractional reserve system: i.e., to keep a reserve of say,

one third in coin, to protect deposits, so satisfy day to day demands of depositors

v) The other two thirds could be lent out, usually by entering a credit, in pen, ink, and paper, in a deposit account of the borrower, who could then withdraw or transfer this money.

vi) Interest was evidently paid on deposits and charged on loans; but because of the usury laws the

medieval Italian (and Flemish) bank records do not declare or indicate such interest payments.

c) Moneta di banco:

i) These Italian bankers thus also developed what is called ‘bank money’ (moneta di banco): or bookaccount transfers.

ii) One bank client having a deposit account could instruct his banker to transfer money or bank

credits: from his account to the deposit account of another merchant to whom he owed money.

iii) Originally effected by oral command, these transfers by the 14th or 15th centuries were undertaken

finally by a written command, which developed into the bank cheque, as we know it.

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d) Deposit Banking and Monetary Expansion?

i) In theory, the entire banking system could expand the potential money supply by the reciprocal of the reserve ratio: the expansion would take place through a chain of deposits, loans, expenditures, and

redeposits.

ii) Late-medieval banking, however, did not have such expansionary powers simply because it constituted such a very small segment of market-oriented monetary systems.

(1) Even within its Italian homeland, deposit banking was largely confined to the large urban commercial

centres.

(2) outside of Italy, it spread successfully only to regions dominated by Italian commerce, such as Catalonia and especially Flanders, where Bruges became the commercial and financial capital of northern Europe.

iii) As I noted earlier, according to several historians, only about 10% of adult males in both late-medieval Venice and Bruges had any access to bank credit.

e) Deposit Banking in the Late-Medieval Low Countries:

i) In the 14th century, deposit-banking was introduced by Italian merchants;

(1) but it was soon taken over and developed by native Flemish bankers, who were invariably also moneychangers;

(2) or inn-keepers serving foreign merchants (hostelliers) acting as financial brokers..

ii) In the fifteenth century, the Burgundian government of the Low Countries imposed many severe

restrictions on banking and credit, as part of misguided policies to protect their coinage during periods of

evident bullion scarcities.

iii) In particular, during the Burgundian monetary reform and unification of the Low Countries, in

1433-34, the government curbed independent money-changing, and with that also indigenous depositbanking; subsequently (from the 1460s), they prohibited it entirely.

iv) Evidently, in the Low Countries, deposit-banking did not revive until the 16th century.

f) Late-Medieval England:

i) There are no real signs of genuine deposit banking until the early 17th century, though some

embryonic and unofficial forms evident by the late 16th century?

ii) Why no medieval deposit banking?

(1) Because money-changing, the real source of deposit banking everywhere else, was a strictly enforced

royal monopoly, up to the 17th century [see the second-term topics on banking];

(2) and licenced money-changers, as salaried agents of the crown, were not allowed to engage in banking.

2. The Bill of Exchange: 19

a) The bill of exchange is a uniquely Italian innovation: 20

i) The Italian bill-of-exchange has no known antecedents anywhere: not in the Ancient or Classical

world or from any Asian civilizations (China, India, etc.)

ii) Nor can it be attributed to any borrowing from any contracts of this nature in the Islamic world:

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(1) we saw that such borrowing had been responsible for the origins of the Italian commenda, directly copied or borrowed from the much earlier Arabic qirad contract, which had all the same features in dividing risks and liabilities, sharing profits, etc.

(2) But was the Arabic suftaja contract a possible origin, a precedent? No!

# to be sure, the Arabic suftaja, long predating the Italian bill of exchange, did seem to serve the same

function, in remitting payments from one city to some far distant city, or in arranging a repayment

of a loan in that far distant city: say between Baghdad and Grenada (the least Muslim emirate to

survive, in Iberia, finally conquered by the rulers of the newly united Christian Spain, Ferdinand and

Isabella, in 1492).

# but no exchange of currencies was involved: because in the Arabic (Islamic) world of Spain, North

Africa, and western Asia one universal currency was used: the gold dinar and the silver dirham, so

that any payment made in these currencies in one city involved a remittance or repayment in that

distant city in the same currency

# The bill-of-exchange, however, always involved two different currencies – say, Florentine florins and

English pounds sterling – and a stipulated exchange rate between them: a sum lent or provided in one

currency (florins in Florence) was to be repaid, or payment made, in the other currency (pounds

sterling in London)

iii) Instead, the Italian bill of exchange develops out of the so-called fair-letters of 13th-century western Europe: the instrumentum ex causa cambii, a financial instrument that Italian merchants had been using at the Champagne Fairs in the 13th century

iv) The instrumentum was in fact a formal, fully notarized bond, as a promise to pay, involving three

merchants:

(1) the merchant who advanced the funds, in some Italian currency, to conduct the trade, in some Italian city;

(2) the merchant who borrowed these funds to buy trading goods and to conduct his trade at the Champagne Fairs, accompanying his goods on the way; and

(3) a merchant serving as the agent of the lender who collected the money, in French currency, at the

Champagne Fairs.

v) The letter or bill of exchange was instead an informal command to pay, a principal-agent instrument (not a contract)

(1) by which a merchant A in some Italian city, a principal who borrows money or receives money as a

commercial investment from some other Italian merchant B, who is the other principal

(2) merchant A then orders his banking agent in some foreign city to make payment on his behalf, to the agent there for the merchant B who advanced him the funds.

b) Thus the bill of exchange was both a loan and money transfer instrument, with two uses:21

i) a loan contract: by which a merchant lent money in one city and was subsequently repaid abroad: (1) in another country,

(2) in a different currency, the currency of that foreign country,

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(3) paid by his banking agent in that foreign city

(4) and at a later date, usually about two or three months (the period until redemption was called usance: see the web document on the bill of exchange, and the appendix)

(5) In the example in the handout, a transaction between merchants in Bruges (Flanders) and Barcelona

(Catalonia).

ii) a transfer or remittance instrument: by which, in using the very same type of bill of exchange, a

merchant in one city transferred funds to another city, usually in order to redeem or pay off a debt or some other obligation in that foreign city.

iii) In both contracts: a merchant in city A handed over or ‘delivered’ funds in that city's local currency to another merchant in city A, in order to purchase from that merchant a claim on funds in his foreign bank account, in city B.

c) Note that no coin or money in physical form is sent between the two cities: the actual money is retained locally to finance trade.

i) In this example, as a loan contract, the Italian merchant in Bruges who has borrowed the money, in

Flemish pounds gros or groot (sold a claim on his foreign bank account in Barcelonese currency) uses that money to buy Flemish cloth and finance the cloth shipment to Barcelona for sale there.

ii) After selling the Flemish cloth, he can use the funds received to pay off the loan, to redeem the bill of

exchange, at the Barcelona bank, in local currency: by having his banker there pay the agent for the Italian merchant lender in Bruges.

iii) For the Italian merchant in Bruges to get his money back, in Flemish pounds groot, he required a

second bill of exchange:

(1) his Barcelona banking agent would then buy a bill drawn on Bruges, i.e., advance funds in Barcelona

currency to some other Italian merchant trading with Bruges;

(2) and that second bill would be redeemed later in Flemish pounds groot, which sum would be then credited to the account of the original lender in Bruges.

d) Note from the diagram exactly how the bill of exchange works:

i) The Italian merchant A in Bruges makes a loan in Flemish pounds groot to another merchant in

Bruges, B,

(1) by buying from merchant B a bill of exchange drawn upon his Italian banking agent in Barcelona (banker C), who is called the payer:

(2) i.e., by a ‘letter of payment,’ which instructs that agent banker C in Barcelona (the payer) to redeem the bill (‘honour the bill’) at some specified date for a specified amount of money in Barcelonese currency.

ii) The Italian merchant A in Bruges, having bought this bill, then mails it his own banker agent D in

Barcelona, who is called the payee (receives payment).

iii) The Italian banker D in Barcelona then presents this bill to his fellow Italian banker C in Barcelona

for acceptance; and C then writes on the back of the bill, ‘I accept,’ thus acknowledging his promise and

obligation to pay the specified amount on the due date (redemption date) of the bill, in Barcelonese currency.

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iv) On that redemption date,

(1) banker D (payee) in Barcelona presents the bill to banker C (payer), who then pays D the specified amount in Barcelonese currency.

(2) Banker D will then use those funds to invest in another bill drawn on Bruges, which will work in the same fashion.

e) the interest question:

i) If you regard the gain derived from the second or ‘return’ bill of exchange contract (recambium) as interest, then you can argue that the interest payment on this loan contract was determined by raising, i.e., adjusting, the exchange rate on the two currencies in favour of the lender.

ii) Thus the interest rate was included or ‘hidden’ in the exchange rate, in the manner demonstrated fully in the handout.

iii) As I noted before, Raymond de Roover and many other economic historians have argued that a primary purpose of the bill of exchange as an investment or loan contract was to circumvent the ecclesiastical ban on usury.

iv) But the church was not, of course, ignorant or fooled by this manoeuvre;

(1) as noted before, when the two bills of exchange contracts were simultaneously constructed,

(2) they were immediately condemned as usurious, as so-called ‘dry exchange’.

v) Instead, it can be argued that this return was in fact profit: an uncertain return as reward for risk,

rather than predetermined interest:

(1) because in fact the exchange rates could turn against the lender before he got his original money back,

thus wiping out any financial gain.

(2) So this was an uncertain return, and thus not usurious, in the eyes of the Church.

vi) Furthermore, as already indicated, many bills of exchange were genuine transfer instruments to pay debts,

(1) and thus were not really interest-bearing loan contracts;

(2) and since the bills were identical in form,

(3) how could one determine their precise nature?

vii) Because of this usury prohibition, inability to charge interest openly,

(1) all bills of exchange were necessarily held to maturity --

(2) and were not sold ahead of time, at discount; because such a discount would be tantamount to admitting the existence of a charge for interest.

f) Thus two complementary forces in the dissemination of the bill of exchange contract:

i) The impact of the usury doctrine, of the intensification of the anti-usury campaign:

(1) that made merchants seek out an alternative loan contract or investment vehicle, namely the bill of

exchange,

(2) by which they could ‘lend money’ and circumvent the usury doctrine,

(3) i.e., earn a return that would not be considered usurious, but at the cost of greater risk (a less certain

return).

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ii) The impact of bullionist restrictions on the international flow of precious metals, combined with a higher degree of risk from other factors in shipping precious metals: i.e., the equally important efficacy of the bill-of-exchange

(1) in serving as a transfer instrument to effect long-distance international payments,

(2) without having physically to transport precious metals.

g) How the bill of exchange became a fully negotiable and discountable credit instrument, and thus how discounting arose, in 16th-century Europe, must await our return to the subject of banking and credit in the second term.

h) The Northern Diffusion of the Bill of Exchange Contract in Late-Medieval Europe:

i) the bill of exchange, as an informal holograph letter, was a high-risk credit instrument:

(1) in lacking any provisions for collateral, any official standing in the courts,

(2) and thus the legal protection bestowed upon creditors holding legitimate loan contracts (i.e., a nonusurious mutuum or recognizance).

ii) The Italians and Bills of Exchange:

(1) Late-medieval bills of exchange were thus restricted in use to a very small coterie of wealthy merchantbankers,

(2) and thus chiefly Italian, who had full confidence in each other, operating within a closely-knit yet

international network.

(3) Indeed, the bill of exchange was virtually a monopoly of Italian merchants, and especially those Italian merchants engaged in long-distance trade:

(4) Note that throughout European economic history, from the 12th to 20th centuries, international banking was so closely tied to and a financial subset of international trade, thus dominated by those dominating longdistance trade. was so closely tied to and a financial subset of international trade, thus dominated by those dominating longdistance trade.

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GIOVANNI BOCCACCIO (1313 - 1375)

DECAMERON

GIORNATA PRIMA – dalla INTRODUZIONE

Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nella egregia città di Fiorenza, oltre a ogn'altra italica bellissima, pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de' corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d'inumerabile quantità de' viventi avendo private, senza ristare d'un luogo in uno altro continuandosi, verso l'Occidente miserabilmente s'era ampliata.

E in quella non valendo alcuno senno né umano provedimento, per lo quale fu da molte immondizie purgata la città da oficiali sopra ciò ordinati e vietato l'entrarvi dentro a ciascuno infermo e molti consigli dati a conservazion della sanità, né ancora umili supplicazioni non una volta ma molte e in processioni ordinate, in altre guise a Dio fatte dalle divote persone, quasi nel principio della primavera dell'anno predetto orribilmente cominciò i suoi dolorosi effetti, e in miracolosa maniera, a dimostrare. E non come in Oriente aveva fatto, dove a chiunque usciva il sangue del naso era manifesto segno di inevitabile morte: ma nascevano nel cominciamento d'essa a' maschi e alle femine parimente o nella anguinaia o sotto le ditella certe enfiature, delle quali alcune crescevano come una comunal mela, altre come uno uovo, e alcune più e alcun' altre meno, le quali i volgari nominavan gavoccioli. E dalle due parti del corpo predette infra brieve spazio cominciò il già detto gavocciolo mortifero indifferentemente in ogni parte di quello a nascere e a venire: e da questo appresso s'incominciò la qualità della predetta infermità a permutare in macchie nere o livide, le quali nelle braccia e per le cosce e in ciascuna altra parte del corpo apparivano a molti, a cui grandi e rade e a cui minute e spesse. E come il gavocciolo primieramente era stato e ancora era certissimo indizio di futura morte, così erano queste a ciascuno a cui venieno.

A cura delle quali infermità né consiglio di medico né virtù di medicina alcuna pareva che valesse o facesse profitto: anzi, o che natura del malore nol patisse o che la ignoranza de' medicanti (de' quali, oltre al numero degli scienziati, così di femine come d'uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo) non conoscesse da che si movesse e per consequente debito argomento non vi prendesse, non solamente pochi ne guarivano, anzi quasi tutti infra 'l terzo giorno dalla apparizione de' sopra detti segni, chi più tosto e chi meno e i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano.

E fu questa pestilenza di maggior forza per ciò che essa dagli infermi di quella per lo comunicare insieme s'avventava a' sani, non altramenti che faccia il fuoco alle cose secche o unte quando molto gli sono avvicinate. E più avanti ancora ebbe di male: ché non solamente il parlare e l'usare cogli infermi dava a' sani infermità o cagione di comune morte, ma ancora il toccare i panni o qualunque altra cosa da quegli infermi stata tocca o adoperata pareva seco quella cotale infermità nel toccator transportare.

Maravigliosa cosa è da udire quello che io debbo dire: il che, se dagli occhi di molti e da' miei non fosse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegna udito l'avessi. Dico che di tanta efficacia fu la qualità della pestilenzia narrata nello appiccarsi da uno a altro, che non solamente l'uomo all'uomo, ma questo, che è molto più, assai volte visibilmente fece, cioè che la cosa dell'uomo infermo stato, o morto di tale infermità, tocca da un altro animale fuori della spezie dell'uomo, non solamente della infermità il contaminasse ma quello infra brevissimo spazio uccidesse. Di che gli occhi miei, sì come poco davanti è detto, presero tra l'altre volte un dì così fatta esperienza: che, essendo gli stracci d'un povero uomo da tale infermità morto gittati nella via publica e avvenendosi a essi due porci, e quegli secondo il lor costume prima molto col grifo e poi co' denti presigli e scossiglisi alle guance, in piccola ora appresso, dopo alcuno avvolgimento, come se veleno avesser preso, amenduni sopra li mal tirati stracci morti caddero in terra.

Dalle quali cose e da assai altre a queste simiglianti o maggiori nacquero diverse paure e immaginazioni in quegli che rimanevano vivi, e tutti quasi a un fine tiravano assai crudele era di schifare e di fuggire gl'infermi e le lor cose; e così faccendo, si credeva ciascuno medesimo salute acquistare.

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E erano alcuni, li quali avvisavano che il viver moderatamente e il guardarsi da ogni superfluità avesse molto a così fatto accidente resistere; e fatta brigata, da ogni altro separati viveano, e in quelle case ricogliendosi e racchiudendosi, dove niuno infermo fosse e da viver meglio, dilicatissimi cibi e ottimi vini temperatissimamente usando e ogni lussuria fuggendo, senza lasciarsi parlare a alcuno o volere di fuori di morte o d'infermi alcuna novella sentire, con suoni e con quegli piaceri che aver poteano si dimovano. Altri, in contraria oppinion tratti, affermavano il bere assai e il godere e l'andar cantando attorno e sollazzando e il sodisfare d'ogni cosa all'appetito che si potesse e di ciò che avveniva ridersi e beffarsi esser medicina certissima a tanto male; e così come il dicevano mettevano in opera a lor potere, il giorno e la notte ora a quella taverna ora a quella altra andando, bevendo senza modo e senza misura, e molto più ciò per l'altrui case faccendo, solamente che cose vi sentissero che lor venissero a grado o in piacere E ciò potevan far di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver dovesse, aveva, sì come se', le sue cose messe in abbandono; di che le più delle case erano divenute comuni, e così l'usava lo straniere, pure che ad esse s'avvenisse, come l'avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo proponimento bestiale sempre gl'infermi fuggivano a lor potere.

E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun licito quanto a grado gli era d'adoperare. Molti altri servavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via, non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel bere e nell'altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi, ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle mani chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare, con ciò fosse cosa che l'aere tutto paresse dal puzzo de' morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso e puzzolente.

Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina essere contro alle pestilenze migliore né così buona come il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi, non curando d'alcuna cosa se non di se' , assai e uomini e donne abbandonarono la propia città, le propie case, i lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l'altrui o almeno il lor contado, quasi l'ira di Dio a punire le iniquità degli uomini con quella pestilenza non dove fossero procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa intendesse; o quasi avvisando niuna persona in quella dover rimanere e la sua ultima ora esser venuta.

E come che questi così variamente oppinanti non morissero tutti, non per ciò tutti campavano: anzi, infermandone di ciascuna molti e in ogni luogo, avendo essi stessi, quando sani erano, essemplo dato a coloro che sani rimanevano, quasi abbandonati per tutto languieno. E lasciamo stare che l'uno cittadino l'altro schifasse e quasi niuno vicino avesse dell'altro cura e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano: era con sì fatto spavento questa tribulazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l'un fratello l'altro abbandonava e il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; e (che maggior cosa è e quasi non credibile), li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano.

Per la qual cosa a coloro, de' quali era la moltitudine inestimabile, e maschi e femine, che infermavano, niuno altro sussidio rimase che o la carità degli amici (e di questi fur pochi) o l'avarizia de' serventi, li quali da grossi salari e sconvenevoli tratti servieno, quantunque per tutto ciò molti non fossero divenuti: e quelli cotanti erano uomini o femine di grosso ingegno, e i più di tali servigi non usati, li qual niuna altra cosa servieno che di porgere alcune cose dagl'infermi addomandate o di riguardare quando morieno; e, servendo in tal servigio, se molte volte col guadagno perdeano.

E da questo essere abbandonati gli infermi da' vicini, da' parenti e dagli amici e avere scarsità di serventi, discorse uno uso quasi davanti mai non udito: che niuna, quantunque leggiadra o bella o gentil donna fosse, infermando, non curava d'avere a' suoi servigi uomo, egli si fosse o giovane o altro, e a lui senza alcuna vergogna ogni parte del corpo aprire non altrimenti che a una femina avrebbe fatto, solo che la necessità della sua infermità il richiedesse; il che, in quelle che ne guerirono, fu forse di minore onestà, nel tempo che succedette, cagione. E oltre a questo ne seguio la morte di molti che per avventura, se stati fossero atati , campati sarieno; di che, tra per lo difetto degli opportuni servigi, li quali gl'infermi aver non poteano, e per la forza della pestilenza, era tanta nella città la moltitudine che di dì e di notte morieno, che uno stupore era a udir dire, non che a riguardarlo. Per che, quasi di necessità, cose contrarie a' primi costumi de' cittadini nacquero tra quali rimanean vivi.

Era usanza (sì come ancora oggi veggiamo usare) che le donne parenti e vicine nella casa del morto si ragunavano e quivi con quelle che più gli appartenevano piagnevano; e d'altra parte dinanzi alla casa del morto co' suoi prossimi si ragunavano i suoi vicini e altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chericato; ed egli sopra gli

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omeri se' suoi pari, con funeral pompa di cera e di canti, alla chiesa da lui prima eletta anzi la morte n'era portato. Le quali cose, poi che a montar cominciò la ferocità della pestilenza tutto o in maggior parte quasi cessarono e altre nuove in lor luogo ne sopravennero. Per ciò che, non solamente senza aver molte donne da torno morivan le genti, ma assai n'erano di quelli che di questa vita senza testimonio trapassavano; e pochissimi erano coloro a' quali i pietosi pianti e l'amare lagrime de' suoi congiunti fossero concedute, anzi in luogo di quelle s'usavano per li più risa e motti e festeggiar compagnevole; la quale usanza le donne, in gran parte proposta la donnesca pietà per la salute di loro, avevano ottimamente appresa. Ed erano radi coloro, i corpi de' quali fosser più che da un diece o dodici de' suoi vicini alla chiesa acompagnati; li quali non gli orrevoli e cari cittadini sopra gli omeri portavano, ma una maniera di beccamorti sopravenuti di minuta gente, che chiamar si facevan becchini, la quale questi servigi prezzolata faceva, sottentravano alla bara; e quella con frettolosi passi, non a quella chiesa che esso aveva anzi la morte disposto ma alla più vicina le più volte il portavano, dietro a quattro o a sei cherici con poco lume e tal fiata senza alcuno; li quali con l'aiuto de' detti becchini, senza faticarsi in troppo lungo uficio o solenne, in qualunque sepoltura disoccupata trovavano più tosto il mettevano.

Della minuta gente, e forse in gran parte della mezzana, era il ragguardamento di molto maggior miseria pieno; per ciò che essi, il più o da speranza o da povertà ritenuti nelle lor case, nelle lor vicinanze standosi, a migliaia per giorno infermavano; e non essendo né serviti né atati d'alcuna cosa, quasi senza alcuna redenzione, tutti morivano. E assai n'erano che nella strada pubblica o di dì o di notte finivano, e molti, ancora che nelle case finissero, prima col puzzo de lor corpi corrotti che altramenti facevano a' vicini sentire se' esser morti; e di questi e degli altri che per tutto morivano, tutto pieno.

Era il più da' vicini una medesima maniera servata, mossi non meno da tema che la corruzione de' morti non gli offendesse, che da carità la quale avessero a' trapassati. Essi, e per se' medesimi e con l'aiuto d'alcuni portatori, quando aver ne potevano, traevano dalle lor case li corpi de' già passati, e quegli davanti alli loro usci ponevano, dove, la mattina spezialmente, n'avrebbe potuti veder senza numero chi fosse attorno andato: e quindi fatte venir bare, (e tali furono, che, per difetto di quelle, sopra alcuna tavole) ne portavano.

Né fu una bara sola quella che due o tre ne portò insiememente, né avvenne pure una volta, ma se ne sarieno assai potute annoverare di quelle che la moglie e 'l marito, di due o tre fratelli, o il padre e il figliuolo, o così fattamente ne contenieno. E infinite volte avvenne che, andando due preti con una croce per alcuno, si misero tre o quatro bare, dà portatori portate, di dietro a quella: e, dove un morto credevano avere i preti a sepellire, n'avevano sei o otto e tal fiata più. Né erano per ciò questi da alcuna lagrima o lume o compagnia onorati; anzi era la cosa pervenuta a tanto, che non altramenti si curava degli uomini che morivano, che ora si curerebbe di capre; per che assai manifestamente apparve che quello che il naturale corso delle cose non avea potuto con piccoli e radi danni a' savi mostrare doversi con pazienza passare, la grandezza de'mali eziandio i semplici far di ciò scorti e non curanti.

Alla gran moltitudine de'corpi mostrata, che a ogni chiesa ogni dì e quasi ogn'ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo proprio secondo l'antico costume, si facevano per gli cimiterii delle chiese, poi che ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravegnenti: e in quelle stivati, come si mettono le mercatantie nelle navi a suolo a suolo, con poca terra si ricoprieno infino a tanto che la fossa al sommo si pervenia.

E acciò che dietro a ogni particularità le nostre passate miserie per la città avvenute più ricercando non vada, dico che, così inimico tempo correndo per quella, non per ciò meno d' alcuna cosa risparmiò il circustante contado, nel quale, (lasciando star le castella, che erano nella loro piccolezza alla città) per le sparte ville e per li campi i lavoratori miseri e poveri e le loro famiglie, senza alcuna fatica di medico o aiuto di servidore, per le vie e per li loro colti e per le case, di dì e di notte indifferentemente, non come uomini ma quasi come bestie morieno. Per la qual cosa essi, così nelli loro costumi come i cittadini divenuti lascivi, di niuna lor cosa o faccenda curavano; anzi tutti, quasi quel giorno nel quale si vedevano esser venuti la morte aspettassero, non d'aiutare i futuri frutti delle bestie e delle terre e delle loro passate fatiche, ma di consumare quegli che si trovavano presenti si sforzavano con ogni ingegno. Per che adivenne i buoi, gli asini, le pecore, le capre, i porci, i polli e i cani medesimi fedelissimi agli uomini, fuori delle proprie case cacciati, per li campi (dove ancora le biade abbandonate erano, senza essere, non che raccolte ma pur segate) come meglio piaceva loro se n'andavano. E molti, quasi come razionali , poi che pasciuti erano bene il giorno, la notte alle lor case senza alcuno correggimento di pastore si tornavano satolli.

Che più si può dire (lasciando stare il contado e alla città ritornando) se non che tanta e tal fu la crudeltà del cielo, e forse in parte quella degli uomini, che infra 'l marzo e il prossimo luglio vegnente, tra per la forza della pestifera infermità e per l'esser molti infermi mal serviti o abbandonati né lor bisogni per la paura ch'aveono i sani, oltre a centomilia creature umane si crede per certo dentro alle mura della città di Firenze essere stati di vita tolti, che forse, anzi l'accidente mortifero, non si saria estimato tanti avervene dentro avuti? 0 quanti gran palagi, quante belle case,

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quanti nobili abituri per adietro di famiglie pieni, di signori e di donne, infino al menomo fante rimaser voti! O quante memorabili schiatte, quante ampissime eredità, quante famose ricchezze si videro senza successor debito rimanere! Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali non che altri, ma Galieno, Ipocrate o Esculapio avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono co' lor parenti, compagni e amici, che poi la sera vegnente appresso nell'altro mondo cenaron con li lor passati!

REPRESENTING HISTORY, II

A BRIEF HISTORY OF THE PUPPET THEATRE IN SICILY

The most traditional theatre in Sicily is the puppet theatre. Nobody knows the exact date of its origin. There are two versions: one Greek and the other more recent which came to Sicily through the French who arrived in Naples in l629.

The most important representations of the puppets are those which tell the stories of the Paladins of France. These stories of the Crusades are full of imagination, telling of chivalry, love and hate and terrible battles. They tell of the exploits of the Carolingian heroes - the Paladins who are loved and held in high esteem by the people, in contrast to the hated Saracens. From the very beginning this form of theatre met with great success in Sicily, especially amongst the poor people who recognized in the various characters the kind of people they met every day: the man of power, the rogue, the hero, etc. The puppets are very agile and impetuous in wielding their swords and scimitars; violent and courageous at the same time. They are made of padded wood, dressed in clothes covered with armour: the helmet on

the head, the breast plate, the sword in the right hand and the shield on the left arm with knee guards and jambs on the legs. Only the King, the ladies and the pages are without armour. Each puppet may be recognized by his family crest. For example Orlando wears the Eagle of the Chiaramonti and is dressed in red; Rinaldo wears the Lion and is in green. In the nineteenth century many theatres came into being in Sicily. At the beginning of the twentieth century, there were as many as ll0. Sicily was divided into two schools; the school of Palermo and the school of Catania. The former took the characteristic of marionettes, while the latter adopted the Pupi (or puppets). Pennisi, the founder of the TEATRO DEI PUPI DI ACIREALE at the end of the nineteenth century chose to adopt the Pupi from the school of Catania. In l906, however, he founded the new school of the PUPI DI ACIREALE in which he included the most important characteristics of both schools and also gave a new technical conception of the fighting, more realistic and following the traditional rules of chivalry. Pennisi also introduced a very particular arrangement for the stage. Last but not least is the language typical of and peculiar to the school of Acireale. At the death of Pennisi considered by all to have been a great actor, Macri' took over the school and even surpassed his adoptive father and maestro. Today the Cooperativa Macri' is carried on by his successors and disciples who continue in the same tradition of entertainment without gain as their aim. The stories which are usually performed are those romances of chivalry which take place over many evenings (the Paladins of France about 400 evenings). Each night the 'Puparo' (or puppet speaker) exhibits a poster at the entrance of the theatre with the program. These play-bills of Acireale have become collectors' items and have been published in a book by prof. Rigoli called "EROI DI SICILIA" (Heroes of Sicily).

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THE DEFEAT OF RONCISVALLE AND THE DEATH OF ORLANDO

Free adaptation of the Chanson de Roland (c. 1090) in Two Acts.

La Chanson de Roland is probably the earliest (c. 1090) and certainly the masterpiece of chanson de geste. The poem's probable author was a Norman poet, Turold, whose name is introduced in the last line of the poem. The song deals with the historical Battle of Roncesvalles (Roncevaux) in 778. Though the encounter was actually an insignificant skirmish against the Basques, the poem transforms Roncesvalles into a battle against Saracens and magnifies it to the heroic stature of Thermopylae.

SCENE I – The Court of Saragozza (presentation of the puppets and the performance begins).

The Saracens represented are:

GRANDONIO DI VOLTERRA: The most ferocious of the Saracens who when fighting, does not respect the laws of chivalry but strikes treacherously in the back.

MARSILIO: King of the Saracens, sworn enemy of Charlemagne.

BULGANTE E FALSERONE: Marsilio's two brothers.

The Christians represented are:

CHARLEMAGNE:king of France and Emperor of the Holy Roman Empire.

GANO DI MAGONZA:Charlemagne's brother-in-law, infamous traitor for his ambition to seize the crown of the king of France.

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ASTOLFO:the Englishman who mounted on a hippogriff, rode to the moon to fetch back Orlando's wits which he had lost for the love of a Saracen woman.

TURPINO: Archbishop of Rheims, valorous knight

ORLANDO:Premiere paladin of France, nephew of Charlemagne, the strongest of all, with a fearless and unblemished reputation.

OLIVIERO:Orlando's brother-in-law the bravest and most handsome of the paladines.

Enter Marsilio, Bulugante, Falserone and Grandonio

MARSILIO: We await the arrival of Gano (the drum beats and Gano enters)

GANO:Most generous king and noble lords, no harm shall be done to you if you will become Christians. But afterwards, afterwards we shall contrive a plot which will cost Charlemagne the loss of all his paladins, including Orlando. Hark my advice: hide your soldiers in the hills of Roncisvalle and build three pavillions in the center of the valley where you will pretend to be ready to receive baptism. I will tell Charlemagne that you have at last understood which is true faith and that you are ready to be baptised by the Archbishop Turpino who will be accompanied by all the paladins. I will insist that in order not to humiliate you, the rest of the army must wait four leagues away from Roncisvalle.

When the paladins have entered the valley, you will surround them and will be free to do with them as you will. You must however give me your assurance that after this the throne of France shall be mine and that we shall be friends.

MARSILIO: Your plan is astute and cruel o Christian, but we will carry it out. Go therefore to the Christians and announce our baptisms...ah! ah! our baptism...that of the paladins will be of blood.

GANO:Fare you well, my Lord. (Exit)

SCENE II - Charlemagne's camp. Charlemagne and the Paladins await the return of Gano.

CHARLEMAGNE: (to the Paladins):

We are anxiously awaiting Gano's return who has gone to convert the Saracen Kings who have by now lost all hope of victory (a drum beats Gano enters). What news do you bring?

GANO: My noble liege, know you that Marsilio and his brothers, Bulugante and Falserone together with eight of their relatives will be the first to receive Christian baptism from Turpino who must be accompanied by all the paladins, including Orlando, so that the people do not riot against their sovereigns. They will attend in the plain of Roncisvalle while the Christian army, with you Sire at its head, will wait four leagues from Roncisvalle. When the pagans have been baptized, you Sire will enter triumphantly into Saragozza together with them.

CHARLEMAGNE: And if they were to betray us?

GANO: Orlando will play the oliphant and the army will come and destroy the saracens.

CHARLEMAGNE: It is well Gano; go rest in your tent. After the victory you will be well rewarded.

GANO:(aside, on leaving the stage) Ha...Ha... I have sold these bastards to the Saracens.

CHARLEMAGNE: Valorous Paladins, immortal glory is reserved for you, you will drive out from an ancient kingdom the false faith of Magone and replace it with the true faith of Christ. I will remain four leagues distant from the place of this memorable event. God be with you, my noble lords! Honour and glory to France! Orlando!

ORLANDO: Sire

CHARLEMAGNE: Orlando, you are my premiere paladin, you are my shield and my sword. trust you the command of the enterprise.

ORLANDO: I thank you, my Lord. (to the paladins): Brave paladins of Charlemagne, let us go to Roncisvalle.

SCENE III The valley of Roncisvalle. Enter Grandonio and another Saracen.

GRANDONIO: We anxiously await the flock of Christian sheep who came to baptize us. Ha! Ha! The baptism shall be of blood for the paladins of Charlemagne. We shall kill them all...here they are. Let us go. (Sound of drums).

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Voice of OLIVIERO: Lord Orlando, we are betrayed - a vast array of armed men awaits off stage us. Sound oliphant so that Charlemagne may come with all his army.

ORLANDO: Fear was not my mother, nor was I suckled on the milk thereof. For the Paladins of France to cry for succour would be great shame. Trusty heroes of Charlemagne, will you die as honourable champions or will you live in shame?

PALADINS: We would rather die.

ORLANDO: So -- as we all wish to die in glory -- make you the sign of the Cross and we will assail the Saracens to the cry of "France and St. Denis".

Astolfo goes forth first, followed by the other paladins, all to be treacherously attacked by Grandonio di Volterra. Terrible and furious battle between paladins and saracens. Astolfo dies, then Turpino, Oliviero is mortally wounded.

OLIVIERO: My Lord, captain....

ORLANDO: Come, lean upon me. I will open a breach with my sword so that we may medicate and bind your wounds (he lifts Oliviero).

OLIVIERO: Too late, my Lord, too much blood have I lost. (Orlando weeps and despairs)...do not weep. A warrior must not weep. Wounds are not healed by tears nor are the dead made to rise again. I pray you have care of Alda and tell her not to mourn. For a Christian knight there is no death. (he sighs and dies)

ORLANDO: Oh why have they murdered you? Vile traitors, I swear to God and on the splendour of his Cross, that I shall cause the flow of a river of blood. Durlindana (his sword) thou must not break! Infamous traitors, I will reduce you to dust! (the furious battle between Orlando and the Saracens begins: they surround him, he kills and puts to flight several of them. Grandonio di Volterra appears and tries to stab him in the back. Orlando dodges the blow and confronts him)... Now they flee, they fear to meet me now that I am alone, they run like antelopes at the sight of the leopard. If your vile hearts do not tremble, why do you not come to vindicate Agolante and Gualtieri, Almonte and Troiano, Gradasso and Agramante. It is I who killed them, damned infamous traitors. Gradonio di Volterra, miserable traitor! You have never known how to kill as a warrior on the battle field should kill. You have crawled in the dust like a venomous serpent. Your hour has come Gradonio. It is our turn to battle!

GRANDONIO: To battle! (furious fighting)

ORLANDO: (recovering) Grandonio, if the valour and the temperament in me is not spent, I shall rust my sword in your venom (he strikes him mortally).

GRANDONIO: Kill me... Kill me...

ORLANDO: It would be a cowardly thing to kill a warrior when he is dying. See you Saracen dog, God has sent you the death you deserved, slow, agonizing and painful, and I will leave you time that you shall survive the last moments of life to bear witness to my triumph. (Grandonio dies) ... and may you infamous soul drown in the Styx. (Orlando - from center stage) And now that I am left alone, I shall away to the highest point of Roncisvalle and I will play the oliphant so that Charlemagne may come with the army to vindicate all those that have fallen on the arid soil of France and for Him who wears the diadem of France and the laurels of Italy.

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UMBERTO ECO: FROM THE NAME OF THE ROSE(1980)

The moment I entered I say the member of both legations, complete, facing one another on a series of benches arranged in a hemicycle, the two sides separated by a table where the abbot and Cardinal Bertrand were sitting.

William, whom I followed in order to take notes, placed me among the Minorites, where Michael sat with his followers and other Franciscans of the court of Avignon, for the meeting was not meant to seem a duel between Italians and French, but a debate between supporters of the Franciscan Rule and their critics, all united by sound, Catholic loyalty to the papal court.

With Michael of Cesena were Brother Arnold of Aquitaine, Brother Hugh of Newcastle, and Brother William Alnwick, who had taken part in the Perugia chapter, and also the Bishop of Kaffa and Berengar Talloni, Bonagratia of Bergamo, and other Minorites from the Avignoncourt. On

the opposite side sat Lawrence Decoin, bachelor of Avignon, the Bishop of Padua, and Jean d'Anneaux, doctor of theology in Paris. Next to Bernard Gui, silent and pensive, there was the Dominican Jean de Baune, in Italy called Giovanni Dalbena. Years before, William told me, he had been inquisitor at Narbonne, where he had tried many Beghards; but when he found heresy in a proposition concerning the poverty of Christ, Berengar Talloni, reader in the convent of that city, rose against him and appealed to the Pope. At that time John was still uncertain about this question, so he summoned both men to his court, where they argued without arriving at any conclusion. Thus a short time later the Franciscans took their stand, which I have described, at the Perugia chapter. Finally, there were still others on the side of the Avignonese, including the Bishop of Alborea.

The session was opened by Abo, who deemed it opportune to sum up recent events. He recalled how in the year of our Lord 1322 the general chapter of the Friars Minor, gathered at Perugia under the leadership of Michael of Cesena, had established with mature and diligent deliberation that, to set an example of the perfect life, Christ and, following his teaching, the apostles had never owned anything in common, whether as property or feud, and this truth was a matter of Catholic faith and doctrine, deduced from various passages in the canonical books. Wherefore renunciation of ownership of all things was meritorious and holy, and the early fathers of the church militant had followed this holy rule. The Council of Vienne in 1312 had also subscribed to this truth, and Pope John himself, in 1317, in the constitution regarding the condition of the Friars Minor which begins "Quorundam exigit," had referred to the deliberations of that council as devoutly composed, lucid, sound, and mature. Whence the Perugian chapter, considering that what the apostolic see had always approved as sound doctrine should always be held as accepted, nor should it be strayed from in any way, had merely confirmed that council's decision, with the signature of such masters of sacred theology as Brother William of England, Brother Henry of Germany, Brother Arnold of Aquitaine, provincials and ministers, and also with the seal of Brother Nicholas, minister of France; Brother William Bloc, bachelor; the minister general and the four ministers provincial; Brothers Thomas of Bologna; Brother Peter of the province of Saint Francis; Brother Ferdinand of Castello; and Brother Simon of Touraine. However, Abo added, the following year the Pope issued the decretal Ad conditorem canonum, against which Brother Bonagratia of Bergamo appealed, considering it contrary to the interests of his order. The Pope then took down that decretal from the doors of the church of Avignon where it had been exposed, and revised it in several places. But he actually made it harsher, as was proved by the fact that, as an immediate consequence, Brother Bonagratia was held in prison for a year. Nor could there be any doubts as to thePontiff's severtiy, because that same year he issued the now very well known Cum inter nonnullos, in which the theses of the Perugia chapter were definitively condemned.

Politely interruping Abo at this point, Cardinal Bertrand spoke up, saying we should recall how, to complicate matters and to irritate the Pontiff, in 1324 Louis the Bavarian had intervened with the Declaration of Sachsenhausen, in which for no good reason he confirmed the theses of Perugia (nor was it comprehensible, Bertrand remarked, with a thin smile, that the Emperor should acclaim so enthusiastically a poverty he did not practice in the least), setting himself against the lord Pope, calling him inimicus pacis and saying he was bent on formenting scandal and discord, and finally calling him a heretic, indeed a heresiarch.

"Not exactly," Abo ventured, trying to mediate.

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"In substance, yes," Bertrand said sharply. And he added that it was precisely the Emperor's inopportune meddling that had obliged the lord Pope to issue the decretal Quia quorundam, and that eventually he had sternly bidden Michael of Cesena to appear before him. Michael had sent letters of excuse, declaring himself ill -- something no one doubted -- and had sent in his stead Brother John Fidanza and Brother Umile Custodio from Perugia. But it so happened, the cardinal went on, that the Guelphs of Perugia had informed the Pope that, far from being ill, Brother Michael was in communication with Louis of Bavaria. In any case, what was past was past, and now Brother Michael looked well and serene, and so was expected in Avignon. However, it was better, the cardinal admitted, to consider beforehand, as prudent men from both sides were now doing, what Michael would finally say to the Pope, since everyone's aim was still not to exacerbate but, rather, to settle fraternally a dispute that had no reason to exist between a loving father and his devoted sons, and which until then had been kept ablaze only by interference of secular men, whether emperors or viceroys, who had nothing to do with the questions of Holy Mother Church.

Abo then spoke up and said that, though he was a man of the church and abbot of an order to which the church owed much (a murmur of respect and deference was heard from both sides of the hemicycle), he still did not feel the Emperor should remain aloof from such questions, for the many reasons that Brother William of Baskerville would expound in due course. But, Abo went on, it was nevertheless proper that the first part of the debate should take place between the papal envoys and the representatives of those sons of Saint Francis who, by their very participation in this meeting, showed themselves to be the most devoted sons of the Pope. And then he asked that Brother Michael or his nominee indicate the position he meant to uphold in Avignon.

Michael said that, to his great and joyous emotion, there was in their midst that morning Ubertino of Casale, from whom the Pope himself in 1322, had asked for a thorough report on the question of poverty. And Umbertino could best sum up, with that lucidity, erudition, and devout faith that all recognized in him, the capital points of those ideas which now, unswervingly, were those of the Franciscan order.

Ubertino rose, and as soon as he began to speak, I understood why he had aroused so much enthusiam, both as a preacher and as a courtier. Impassioned in his gesticulation, his voice persuasive, his smile fascinating, his reasoning clear and consequential, he held his listeners fast for all the time he spoke. He began a very learned disquisition on the reasons that supported the Perugia theses. He said that, first of all, it had to be recognized that Christ and the apostles were in a double condition, because they were prelates of the church of the New Testament, and in this respect they possessed, as regards the authority of dispensation and distribution, to give to the poor and to the ministers of the church, as is written in the fourth chapter of the Acts of the Apostles, and this point nobody disputes. But secondarily, Christ and the apostles must be considered as individual persons, the base of every religious perfection, and perfect despisers of the world. And on this score two ways of having are posited, one of which is civil and worldly, which the imperial laws define with the words "in bonis nostris," because we call ours those goods of which we have the defense and which, if taken from us, we have the right to claim. Whereby it is one thing to defend in a civil and worldly sense one's own possession against him who would take it, appealing to the imperial judge (to affirm that Christ and the apostles owned things in this sense is heretical, because, as Matthew says in chapter 5, if any man will sue thee at the law, and take away thy coat, let him have thy cloak also; nor does Luke say any differently in chapter 6, where Christ dismisses from himself all power and lordship and imposes the same on his apostles; and consider further Matthew chapter 19, in which Peter says to the Lord that to follow him they have left everything); but in the other way temporal things can yet be held, for the purpose of common fraternal charity, and in this way Christ and his disciples possessed some goods by natural right, which right by some is called ius poli, that is to say the law of heaven, to sustain nature, which without human intervention is consonant with proper reason, whereas ius fori is power that derives from human covenant. Before the first division of things, as far as ownership was concerned, they were like those things today which are not among anyone's possessions and are granted to him who takes them; things were in a certain sense common to all men, whereas it was only after original sin that our progenitors began to divide up ownership of things, and thus began worldly dominion as we now know it. But Christ and the apostles held things in the first way, and so they had clothing and the bread and fishes, and as Paul says in 1 Timothy: Having food and raiment let us be therewith content. Wherefore Christ and his disciples did not hold these things in possession but in use, their absolute poverty remaining intact. Which had already been recognized by Pope Nicholas II in the decretal Exiit qui seminat.

But on the opposite side Jean d'Anneaux rose to say that Ubertino's positions seemed to him contrary both to proper reason and to the proper interpretation of Scripture. Whereas with goods perishable with use, such as bread and foods, a simple right of use cannot be considered, nor can de-facto use be posited, but only abuse; everything the believers held in common in the primitive church, as is deduced from Acts 2 and 3, they held on the basis of the same type of ownership they had before their conversion; the apostles, after the descent of the Holy Spirit, possessed farms in Judea; the vow of living without property does not extend to what man needs in order to live,

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and when Peter said he had left everything he did not mean he had renounced property; Adam had ownership and property of things; the servant who receives money from his master certainly does not just make use or abuse of it; the words of the Exiit qui seminat to which the Minorites are always referring and which establish that the Friars Minor have only the use of what serves them, without having control and ownership, must be referring only to goods that are not consumed with use; and in fact if the Exiit included perishable goods it would sustain the impossible; de-facto use cannot be distinguished from juridical control; every human right, on the basis of which material goods are owned, is contained in the laws of kings; Christ as a mortal man, from the moment of his conception, was owner of all earthly goods, and as God he received from the Father universal control over everything; he was owner of clothing, food, money for tribute, and offerings of the faithful; and if he was poor, it was not because he had no property, but because he did not receive its fruits; for simple juridical control, separated from the collection of interest, does not enrich the possessor; and finally, even if the Exiit had said otherwise, the Roman Pontiff, in everything concerning faith and morals, can revoke the decisions of his predecessors and can even make contrary assertions.

It was at this point the Brother Jerome, Biship of Kaffa, rose vehemently, his beard shaking with wrath even though he tried to make his words sound conciliatory. He began an argumentation that to me seemed fairly confused. "What I will say to the Holy Father, and myself who will say it, I submit to his correction, because I truly believe John is the vicar of Christ, and for this confession I was seized by the Saracens. And I will refer first to an event recorded by a great doctor, in the dispute that arose one day among monks as to who was the father of Melchizedek. Then the abbot Copes, questioned about this, shook his head and declared: Woe to you, Copes, for you seek only those things that God does not command you to seek and neglect those He does command. There, as is readily deduced from my example, it is so clear that Christ and the Blessed Virgin and the aposles held nothing, individually or in common, that it would be less clear to recognize that Jesus was man and God at the same time, and yet it seems clear to me that anyone denying the evidence of the former must then deny the latter!"

He spoke triumphantly, and I saw William raise his eyes to heaven. I suspect he considered Jerome's syllogism quite defective, and I cannot say he was wrong, but even more defective, it seemed to me, was the infuriated and contrary argumentation of Jean de Baune, who said that he who affirms something about the poverty of Christ affirms what is seen (or not seen) with the eye, whereas to define his simultaneous humanity and divinity, faith intervenes, so that the two propositions cannot be compared.

In reply, Jerome was more acute than his opponent: "Oh, no, dear brother," he said, "I think exactly the opposite is true, because all the Gospels declare Christ was a man and ate and drank, and as his most evident miracles demonstrate, he was also God, and all this is immediately obvious!"

"Magicians and soothsayers also work miracles," de Baune said smugly.

"True," Jerome replied, "but through magic art. Would you compare Christ's miracles to magic art?" The assembly murmured indignantly that they would not consider such a thing. "And finally," Jerome went on, feeling he was now close to victory, "would his lordship the Cardinal del Poggetto want to consider heretical the belief in Christ's poverty, when this proposition is the basis of the Rule of an order such as the Franciscan, whose sons have gone to every realm to preach and shed their blood, from Morocco to India?"

"Holy spirit of Peter of Spain," William muttered,"protect us."

"Most beloved brother," de Baune then cried, taking a step forward, "speak if you will of the blood of your monks, but do not forget, that same tribute has also been paid by religious of other orders..."

"With all due respect to my lord cardinal," Jerome shouted,"no Dominican ever died among the infidels, whereas in my own time alone, nine Minorites have been martyred!"

The Dominican Bishop of Alborea, red in the face, now stood up. "I can prove that before any Minorites were in Tartary, Pope Innocent sent three Dominicans there!

"He did?" Jerome said, snickering. "Well, I know that the Minorites have been in Tartary for eighty years, and they have forty churches throughout the country, wheras the Dominicans have only five churches, all along the coast, and perhaps fifteen monks in all. And that settles the question!"

"It does not settle any question at all," the Bishop of Alborea shouted, "because these Minorites, who produce heretics as bitches produce puppies, claim everything for themselves, boast of martyrs, but have fine churches, sumptuous vestments, and buy and sell like all the other religious!"

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"No, my lord, no," Jerome interrupted, "they do not buy and sell on their own, but through the procurators of the apostolic see, and the procurators have possession, while the Minorites have only the use!"

"Is that so?" the bishop sneered. "And how many times, then, have you sold without procurators? I know the story of some farms that--"

"If I did so, I was wrong," Jerome hastily interrupted, "not to turn that over to the order may have been a weakness on my part!"

Venerable brothers," Abo then intervened, "our problem is not whether the Minorites are poor, but whether our Lord was poor...."

"Well, then" -- at this point Jerome raised his voice again -- "on that question I have an argument that cuts like a sword...."

"Saint Francis, protect thy sons..." William said, without much confidence.

"The argument," Jerome continued, "is that the Orientals and the Greeks, far more familiar than we with the doctrine of the holy fathers, are convinced of the poverty of Christ. And if those heretics and schismatics so clearly uphold such a clear truth, do we want to be more heretical and schismatical than they, by denying it? These Orientals if they heard some of our number preaching against this truth, would stone them!"

"What are you saying?" the Bishop of Alborea quipped. "Why, then, do they not stone the Dominicans, who preach precisely against this?"

"Dominicans? Why, no one has ever seen them down there!"

Alborea, his face purple, observed that this monk Jerome had been in Greece perhaps fifteen years, whereas he had been there since his boyhood. Jerome replied that the Dominican Alborea might perhaps have been in Greece, but living a sybaritic life in fine bishops' palaces, whereas he, a Franciscan, had been there not fifteen years, but twenty-two, and had preached before the Emperor in Constantinople. Then Alborea, running short on arguments, started to cross the space that separated him from the Minorites, indicating in a loud voice and with words I dare not repeat his firm intention to pull off the beard of the Bishop of Kaffa, whose masculinity he called into question, and whom he planned to punish, by the logic of an eye for an eye, shoving that beard in a certain place.

The other Minorites rushed to form a barrier and defend their brother; the Avignonese thought it useful to lend the Dominican a hand, and (Lord, have mercy on the best among thy sons!) a brawl ensued, which the abbot and the cardinal tried to quell. In the tumult that followed, Minorites and Dominicans said grave things to one another, as if each were a Christian fighting the Saracens. The only ones who remained in their seats were William, on one side, and Bernard Gui, on the other. William seemed sad, and Bernard happy, if you can call happiness the faint smile that curled the inquisitor's lip.

"Are there no better arguments," I asked my master, as Alborea tugged at the beard of the Bishop of Kaffa, "to prove or refute the poverty of Christ?"

"Why, you can affirm both positions, my good Adso,"William said, "and you will never be able to establish on the basis of the Gospels whether, and to what extent, Christ considered as his property the tunic he wore, which he then perhaps threw away when it was worn out. And, if you like, the doctrine of Thomas Aquinas on property is bolder than that of us Minorites. We say: We own nothing and have everything in use. He said: Consider yourselves also owners, provided that, if anyone lacks what you possess, you grant him its use, and out of obligation, not charity. But the question is not whether Christ was poor: it is whether the church must be poor. And 'poor' does not so much mean owning a palace or not; it means, rather keeping or renouncing the right to legislate on earthly matters."

"Then this," I said, "is why the Emperor is so interested in what the Minorites say about poverty."

"Exactly. The Minorites are playing the Emperor's game against the Pope. But Marsilius and I consider it a two-sided game, and we would like the empire to support our view and serve our idea of human rule."

"And will you say this when you are called on to speak?"

"If I say it I fulfill my mission, which was to expound the opinions of the imperial theologians. But if I say it my mission fails, because I ought to be facilitating a second meeting in Avignon, and I don't believe John would agree to my going there to say these things."

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"And so--?

"And so I am trapped between two opposing forces, like an ass who does not know which of two sacks of hay to eat. The time is not ripe. Marsilius raves of an impossible transformation, immediately; but Louis is no better than his predecessors, even if for the present he remains the only bulwark against a wretch like John. Perhaps I shall have to speak, unless they end up killing one another first. In any case, Adso, write it all down: Let at least some trace remain of what is happening today."

As we were speaking -- and truly I do not know how we managed to hear each other -- the dispute reached its climax. The archers intervened, at a sign from Bernard Gui, to keep the two factions apart. But like besiegers and besieged, on both sides of the walls of a fortress, they hurled insults and rebuttals at one another, which I record here at random, unable to attribute them to specific speakers, and with the premise that the phrases were not uttered in turn, as would happen in a dispute in my country, but in Mediterranen fashion, one overlapping another, like the waves of an angry sea.

"The Gospel says Christ had a purse!"

"Shut up! You people pain that purse even on crucifixes! What do you say, then, of the fact that our Lord, when he entered Jerusalem, went back every night to Bethany?"

"If our Lord chose to go and sleep in Bethany, who are you to question his decision?

"No, you old ass, our Lord returned to Bethany because he had no money to pay for an inn in Jerusalem!"

"Bonagratia, you're the ass here! What did our Lord eat in Jerusalem?

"Would you say, then, that a horse who receives oats from his master to keep alive is the owner of the oats?"

"You see? You compare Christ to a horse...."

"No, you are the one who compares Christ to a simoniacal prelate of your court, vessel of dung!"

"Really? And how many lawsuits has the holy see had to undertake to protect your property?"The property of the church, not ours! We had it in use!"

"In use to spend, to build beautiful churches with gold statues, you hypocrites, white sepulchers, sinks of iniquity! You know well that charity, not poverty, is the principle of the perfect life!"

"That is what you glutton Thomas said!"

"Mind your words, villain! The man you call 'glutton' is a saint of the holy Roman church!"

"Saint, my foot! Canonized by John to spite the Franciscans! Your Pope can't create saints, because he's a heretic! No, a heresiarch!"

"We've heard that one before! Words spoken by that Bavarian puppet at Sachsenhausen, rehearsed by your Ubertino!"

"Mind how you speak, pig, son of the whore of Babylon and other strumpets as well! You know Umbertino wasn't with the Emperor that year: he was right there in Avignon, in the service of Cardinal Orsini, and the Pope was sending him as a messenger to Aragon!"

"I know, I know, he took his vow of poverty at the cardinal's table, as he now lives in the richest abbey of the peninsula! Ubertino, if you weren't there, who prompted Louis to use your writings?"

"Is it my fault if Louis reads my writings? Surely he cannot read yours, you illiterate!"

"I? Illiterate? Was your Francis a literate, he who spoke with geese?"

"You blaspheme!"

"You're the blasphemer; you know the keg ritual!"

"I have never seen such a thing, and you know it!"

"Yes, you did, you and your little friars, when you slipped into the bed of Clare of Montefalco!"

"May God strike you! I was inquisitor at that time, and Clare had already died in the odor sanctity!"

"Clare gave off the odor of sanctity, but you were sniffing another odor when you sang matins to the nuns!"

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"Go on, go on, the wrath of God will reach you, as it will reach your master, who has given welcome to two heretics like that Ostrogoth Eckhart and that English necromancer you call Branucerton!"

"Venerable brothers, venerable brothers!" Cardinal Bertrand and the abbot shouted.

GIUSEPPE VERDI

SIMON BOCCANEGRA (VENICE, FENICE, 1857)

GENOVA XIV CENTURY

ACT I

Scene Ten.

The Council Chamber in the Doge's Palace. The Doge is seated on the ducal throne; on one side twelve councilors from the nobles; on the other twelve councilors from the people. Seated separately are four maritime consuls and the constables. Paolo and Pietro are on the back benches of the people's party. A herald. First finale. [19]

DOGE

My council, the noble king of Tartary

Has sent you pledges of peace and costly gifts,

And announces that the Black Sea welcomes the

Ships of Liguria.

Do you accept this?

COUNCILORS

Yes.

DOGE

And now, I request Another, more generous, decision.

COUNCILORS

Tell us.

DOGE

The very voice which thundered once on

Rienzi,

With a prophecy of glory and his destruction

Thunders now over Genoa. Here is a message

(holding up a letter)

From the hermit of Sorga. He is requesting

Peace for the Venetians...

PAOLO

(interrupting)

Let Petrarch stick to his poems

And sing of the beauty of his fair girl.

COUNCILORS

(fiercely)

War now with Venice!

DOGE

With such a hideous shout

Between the two shores of Italy

Cain lifts a club soaked with the blood of

our people!

Adria and Liguria have a homeland in common.

COUNCILORS

It's our homeland,

Genoa.

There is a very distant offstage noise of a crowd.

COUNCILORS

Where is that noise from?

PAOLO

From the piazza dei Fieschi.

COUNCILORS

(getting to their feet)

It's a rebellion!

The noise of the crowd approaches.

PAOLO

(still at the window, where Pietro has joined him)

See! There's a crowd of people fleeing.

DOGE

But listen.

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PAOLO

(listening)

I cannot catch a word...

THE CROWD

Kill him! Kill him!

PAOLO

(to Pietro)

It's him.

DOGE

(hearing this)

Who?

PIETRO

Look.

DOGE

(looking)

Heavens! Gabriele Adorno

Is pursued by the rabble...and at his side

There's a noble fighting. Send me a herald.

PIETRO

(quietly)

Flee or you're done for.

DOGE

(watching Paolo leave)

Consuls of the Sea,

Make sure that all doors are guarded!

You hear!

It's treachery to flee.

Paolo stops, confused.

THE CROWD

(offstage)

Death to the nobles!

NOBLE COUNCILORS

(drawing their swords)

To battle!

THE CROWD

(offstage)

Long live the people's cause!

COUNCILORS OF THE PEOPLE

(drawing their swords)

The people!

DOGE

What's that? You also?

You, here!! Is this a challenge?

THE CROWD

(offstage)

Death to the Doge!

DOGE

(proudly)

Death to the Doge? Very well.

(to the herald)

You, herald, open

The gates of the palace...tell the crowd

Of nobles and plebeians I do not fear them,

That I have heard their threats...here I

await them.

(to the Councilors, who obey)

Now take your swords and sheathe them

THE CROWD

(offstage)

Battle and plunder!

Burn all the houses!

To the gallows!

To the pillory!

A long trumpet blast.

DOGE

Now comes the trumpet of the herald. He's

speaking...

Everyone stands listening. Silence.

All now is silent.

A VOICE FROM THE CROWD

Evviva!

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THE CROWD

(approaching, still offstage)

Evviva Simone!

DOGE

Here comes the rabble!

Scene Eleven. The crowd bursts in - men (plebeians), women and children, etc.. They drag in Adorno and Fiesco.

THE CROWD

For vengeance! For vengeance!

Blood calls out for vengeance!

Kill the murdering lord! The man must be

killed!

DOGE

(ironically)

Is this really the voice of all the people?

From the distance a hurricane in spate, but

closer

A cry of women, a shout of children. Adorno,

Why's your sword in your hand?

GABRIELE

I've killed the villain

Lorenzino.

THE CROWD

You shall die!

GABRIELE

He was abducting

Young Amelia.

DOGE

(aside)

(Oh no!)

THE CROWD

Liar!

GABRIELE

That coward,

Before he died, said he was hired to do the

crime

By a man of power.

PIETRO

(to Paolo)

(Ah, you're discovered!)

DOGE

(anxiously)

What was his name?

GABRIELE

(staring at the Doge with deep irony)

Rest easy! The man was dying!

He never told me.

DOGE

What do you mean?

GABRIELE

(with terrible ferocity)

By heaven!

All the power lies with you!

DOGE

(to Gabriele)

How dare you!

GABRIELE

(threatening the Doge)

You villainous

Abductor of Women!

THE Councilors

Disarm him!

GABRIELE

(freeing himself as though about to strike the Doge)

Murdering corsair with a crown! Die!

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Scene Twelve. The aforesaid, with Amelia

AMELIA

(rushing between Gabriele and the Doge)

Then kill me!

DOGE, FIESCO, GABRIELE

Amelia!

THE Councilors AND THE CROWD

Amelia!

AMELIA

O Doge...ah, save him...

Save him, my lord, I beg.

DOGE

(to the guards who have seized Gabriele to disarm him)

Let no one harm him.

Pride has subsided. The sound of sorrow

Speaks to my affection and says: do what she asks you...

Amelia, say how you came to be captured

And how you were able to flee from the danger.

AMELIA

The evening was falling, the air was enchanting

I went for a walk by the shore of the sea.

Three ruffians took hold of me; a ship lay in waiting.

I was suffocating and I could not shout.

I fainted and the next I knew, when I recovered,

I found I'd been taken to the house of Lorenzo.

ALL

Lorenzo!

AMELIA

And I was his captive - I saw i was the

Villain's captive. I already knew what a

coward he was.

Simone, I told him, knows all that you're

plotting.

Release me this instant or hope for the worst.

He started in terror and quickly released me.

The threat was enough then to save me

from worse.

ALL

The villain! He richly deserved what he suffered.

AMELIA

There's someone more evil who's still

going free.

ALL

Who is it?

AMELIA

He can hear me. I see now his lips

Have grown ashen.

GABRIELE, DOGE

Who is it?

THE CROWD

(threatening)

A patrician.

NOBLES

(threatening)

A plebeian.

THE CROWD

(To the nobles)

Away with the nobles!

AMELIA

What terror is threatened?

NOBLES

(to the crowd)

Away with the rabble!

AMELIA

No more!

DOGE

(with all his might)

Murdering brothers!!!

People! Patricians! Progeny

Of a ferocious history,

Inheritors of hatred

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Of the Spinola and Doria.

Broad though the ocean's empire lies,

Calling for deeds of heroes,

You must prefer you squabbles-

you tear yourselves apart.

I weep for you. The sun is so

Gentle upon your hillsides.

Vainly the flowers blossom,

Vainly the fruits are spilling.

I weep. In vain the olive

Swells in the silver groves.

All that I ask is peace, now!

All that I ask is love!

THE Councilors AND THE CROWD

(their eyes turned to the Doge)

See how his words are moving

To make our anger calm,

Like gentle breezes blowing

After the thunderstorm

AMELIA

(to Fiesco)

(Calm now! Oh, let me beg you,

Give up your fierce disdain,

Calm now! Oh, feel it - a sense of,

A love of fatherland.)

GABRIELE

(Amelia is safe! She loves me!

Oh, thank the Lord of Heaven!

All other strong desires

Are far from my faithful heart.)

FIESCO

(What can my country hope for?

A life of shame and misery.

See how the city languishes

Within a pirate's fist.)

PIETRO

(to Paolo)

(Everything's lost! Escape then!

Look to your safety now!)

PAOLO

(to Pietro)

(No - I am filled with poison.

My revenge is due.)

GABRIELE

(giving up his sword to the Doge)

Here, take my sword.

DOGE

For tonight you will be prisoner here,

Until the plot has been discovered.

No, you keep your noble weapon.

I need no more than your assurance.

GABRIELE

You have it!

DOGE

(with terrible authority)

Paolo!

PAOLO

(emerging from the crowd in confusion)

My master!

DOGE

(with awe inspiring majesty and ever increasing ferocity)

In you is vested

The majesty of the people's law; your loyalty

Is a guarantee for all the city,

I need some help from you...within this

palace a coward

Hates me, and now his face grows pale.

Here is my hand: already I can reach him.

I know his name...

I know the fear he suffers.

You, in the sight of all Heaven and in my sight,

Bear witness with me. Now on the villain's

head

Let my curse fall like thunder:

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He's cursed forever!

(darkly and terribly to Paolo)

Now you repeat the oath.

PAOLO

(terrified and trembling)

He's cursed forever... (oh, horror!)

ALL THE OTHERS

He's cursed forever!!

Everyone gradually disperses, repeating the curse

PAOLO

(Oh, no!)

He runs off.

ARGUING WITH HISTORY

PETRARCH IN BABYLON

CXIV

From that dire Babylon, from where is run

Away all shame, from where all good is gone,

Dwelling of misery, mother of strife,

I fled to lengthen the course of my life. Here I am all alone: and by Love's powers

Now I pluck rhymes, now the small grass and flowers,

Talking to him, and of a better station

Forever thinking, this is my salvation. I do not care for men, nor for luck's tide,

And not much for myself or trivial jumble,

I am not cold or warm inside, outside. I only want two people: and one ready

To bring to me a heart peaceful and humble,

The other feet now more than ever steady.

CXXXVI

May fire from heaven rain down on your tresses, wicked one,

since doing ill pleases you so, who after eating acorns and

drinking from the river have become great and rich by making others poor, nest of treachery, where is hatched whatever evil is spread

through the world today, slave of wine, bed, and food, in whom

intemperance shows its utmost power! Through your chambers young girls and old men go frisking,

and Beelzebub in the midst with the bellows and fire and mirrors. And you were not brought up amid pillows in the shade, but

naked to the wind and barefoot among the thorns; now you live

in such a way - may the stink of it reach God!

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CXXXVII

The greedy Babylon has filled her bag

With the anger of God and her foul vices,

So that it bursts, and in gods' place entices

Not Pallas, Jove, but Venus,' Bacchus' tag. Waiting for reason, I despair and brood;

But I see a new sultan come to her,

Who shall make, not as early as I would,

One single see, in Baldacco the chair. Her idols shall be shattered in the earth,

And the arrogant towers fighting our creeds,

And their keepers, shall burn outside, inside. The noble souls with virtue on their side

Shall fill the world; we shall see its rebirth

Figured with gold and with the ancient deeds.

CXXXVIII Fountain of sorrow, dwelling of revolts,

The school of errors, place of heresy,

Once Rome, now Babylon wicked and false,

For which the world suffers in infamy; O forge of treacheries, o cruel jail

Where the good die, the bad prosper and scream,

Hell of the living, a wonder it will seem

If in the end Christ's wrath does not prevail. Founded on chaste and humble poverty,

Against your founders you lift up your horn,

Shameless strumpet: your hope, where can it be? In your adulteries? In the ill-born

Measureless wealth? Constantine will not come,

But let him take away his guilty home.

DANTE ALIGHIERI (1265 – 132L)

ON WORLD GOVERNMENT

I I have now made clear enough that the proper work of mankind taken as a whole is to exercise continually its entire capacity for intellectual growth, first, in theoretical matters, and, secondarily, as an extension of theory, in practice. And since the part is a sample of the whole, and since individual men find that they grow in prudence and wisdom when they can sit quietly, it is evident that mankind, too, is most free and easy to carry on its work when it enjoys the quiet and tranquility of peace. Man's work is almost divine ("Thou hast made him a little lower than the angels"), and it is clear that of all the things that have been ordained for our happiness, the greatest is universal peace.

[From: On World-Government, I,4]

II ... Human society is a totality in relation to its parts, but is itself a part of another totality. For it is the totality of particular states and peoples, as we have seen, but it is obviously a mere part of the whole universe. Therefore, as through it the lower parts of human society are well-ordered, so it, too, should fit into the order of the universe as a whole. But its parts are well-ordered only on the basis of a single principle (this follows from all we have said), and hence it too must be well-ordered on the basis of a single principle, namely, through its governor, God, who is the absolute world-government. Hence we conclude that a single world-government is necessary for the well-being of the world.

Things are at their best when they go according to the intention of their original mover, who is God. And this is self-evident to all except those who deny that the divine goodness achieves the highest perfection. In the intention of God every creature exists to represent the divine likeness in so far as its nature makes this possible. According to what is said: "Let us make man after our image and likeness." Though we cannot speak of the divine "image" as

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being in things lower than man, we can speak of anything as being in his "likeness," since the whole universe is nothing but a kind of imprint of the divine goodness. Therefore, mankind exists at its best when it resembles God as much as it can. But mankind resembles God most when it is most unified, for the true ground of unity exists in Him alone, as is written: "Hear, O Israel, the Lord thy God is one." But mankind is then most one when it is unified into a single whole; which is possible only when it submits wholly to a single government, as is self-evident. Therefore mankind in submitting to a single government most resembles God and most nearly exists according to the divine intention, which is the same as enjoying well-being...

[From: On World-Government, I, 7&8]

III Twofold, therefore, are the ends which unerring Providence has ordained for man: the bliss of this life, which consists in the functioning of his own powers, and which is typified by the earthly Paradise; and the bliss of eternal life, which consists in the enjoyment of that divine vision to which he cannot attain by his own powers, except they be aided by the divine light, and this state is made intelligible by the celestial Paradise. These two states of bliss, like two different goals, man must reach by different ways. For we come to the first as we follow the philosophical teachings, applying them according to our moral and intellectual capacities; and we come to the second as we follow the spiritual teachings which transcend human reason according to our theological capacities, faith, hope, and charity. Though these two goals and their ways are made plain to us, the one by human reason, which as it is used by the philosophers makes all these things known to us, the other by the Holy Spirit, which through the prophets, through the holy writers, through Jesus Christ the Son of God coeternal with the Spirit, and through his disciples, has revealed to us whatever supernatural truths we need, yet man's greed would keep them from us were not men like horses in their animal vagaries, kept on the road by bit and rein. Thus the reins of man are held by a double driver according to man's twofold end; one is the supreme pontiff, who guides mankind with revelations to life eternal, and the other is the emperor, who guides mankind with philosophical instructions to temporal happiness. And since none or very few (and these with difficulty) can reach this goal, unless a free mankind enjoys the tranquility of peace and the waves of distracting greed are stilled, this must be the constant aim of him who guides the globe and whom we call Roman Prince, in order that on this threshing floor of life mortals may exist free and in peace.

And inasmuch as the condition of our globe depends on the order inherent in the revolving heavens, it is needful to have the useful teachings of liberty and peace adapted to times and places by one supervisor, to whom the total state of the heavens is visible at once; and He alone is such a being who in his providence sees to it that all things are ordered as he himself has preordained. If this be the case, God alone elects, he alone establishes governments, for he has none above him...

It is now clear that the authority for temporal world-government must come directly, without intermediary, from the universal Fount of authority, which, though it flows pure from a single spring, spills over into many channels out of the abundance of its goodness. And so I see that I have reached the mark set before us. For the truth is now unfolded concerning the basic questions in our inquiry, whether for the world's well-being a single government must be established over it, and whether the Roman people has a right to its imperial power, and whether, lastly, the authority for world-government comes directly from God or through some other. However, the truth concerning this last question must not be interpreted so strictly as to imply that the Roman government is in no way subject to the Roman pontificate, for in some ways our mortal happiness is ordered for the sake of immortal happiness. Caesar therefore owes to Peter the piety which a first-born son owes to his father. And so, in the light of paternal grace, this government will better enlighten our globe, over which it rules through Him alone who is the ruler of all things spiritual and temporal.

[From: On World Government, III, l6]

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REPRESENTING REPRESENTATION

GIORGIO VASARI da LE VITE... (1550) PROEMIO:

Giorgio Vasari, a Florentine architect, painter and writer. His Lives of the Most Eminent Painters, Sculptors and Architects, a monumental work on the history of Italian art from the Middle Ages to his own times, was first published in l550.

PROEMIO

Solevano gli spiriti egregii in tutte le azzioni loro, per uno acceso desiderio di gloria, non perdonare ad alcuna fatica, quantunche gravissima, per condurre le opere loro a quella perfezzione che le rendesse stupende e maravigliose a tutto il mondo; né la bassa fortuna di molti poteva ritardare i loro sforzi del pervenire a' sommi gradi, sí per vivere onorati e sí per lasciare ne' tempi avenire eterna fama d'ogni rara loro eccellenza. Et ancora che di cosí laudabile studio e desiderio fussero in vita altamente premiati dalla liberalità de' principi e dalla virtuosa ambizione delle republiche, e dopo morte ancora perpetuati nel conspetto del mondo con le testimonianze delle statue, delle sepulture, delle medaglie et altre memorie simili, la voracità del tempo nondimeno si vede manifestamente che non solo ha scemate le opere proprie e le altrui onorate testimonanze di una gran parte, ma cancellato e spento i nomi di tutti quelli che ci sono stati serbati da qualunque altra cosa che dalle sole vivacissime e pietosissime penne delli scrittori. La qual cosa piú volte meco stesso considerando e conoscendo, non solo con l'esempio degli antichi, ma de' moderni ancora, che i nomi di moltissimi vecchi e moderni architetti, scultori e pittori insieme con infinite bellissime opere loro in diverse parti di Italia si vanno dimenticando e consumando a poco a poco e di una maniera, per il vero, che ei non se ne può giudicare altro che una certa morte molto vicina, per difenderli il piú che io | posso da questa seconda morte, e mantenergli piú lungamente che sia possibile nelle memorie de' vivi, avendo speso moltissimo tempo in cercar quelle, usato diligenzia grandissima in ritrovare la patria, l'origine e le azzioni degli artefici e con fatica grande ritrattole dalle relazioni di molti uomini vecchi e da diversi ricordi e scritti lasciati dagli eredi di quelli in preda della polvere e cibo de' tarli, e ricevutone finalmente et utile e piacere, ho giudicato conveniente, anzi debito mio, farne quella memoria che per il mio debole ingegno e per il poco giudizio si potrà fare. Ad onore dunque di coloro che già sono morti, e beneficio di tutti gli studiosi, principalmente di queste tre arti eccellentissime architettura, scultura e pittura, scriverrò le vite delli artefici di ciascuna, secondo i tempi che ei sono stati, di mano in mano da Cimabue insino ad oggi; non toccando altro degli antichi se non quanto facessi al proposito nostro, per non se ne poter dire piú che se ne abbino detto quei tanti scrittori che sono pervenuti alla età nostra. Tratterò bene di molte cose che si appartengono al magistero di qual si è l'una delle arti dette; ma prima che io venga a' segreti di quelle o alla istoria delli artefici, mi par giusto toccare in parte una disputa, nata e nutrita tra molti senza proposito, del principato e nobilità, non della architettura, che questa hanno lasciata da parte, ma della scultura e della pittura, essendo per l'una e l'altra parte addotte, se non tutte almeno molte ragioni degne di essere udite e per gli artefici loro considerate. Dico dunque che gli scultori, come dotati forse dalla natura e dallo esercizio dell'arte di migliore complessione, di piú sangue e di piú forze e per questo piú arditi et animosi de' nostri pittori, cercando di attribuire il piú onorato grado alla arte loro, arguiscono e | provano la nobilità della scultura primieramente dalla antichità sua, per aver il grande Iddio fatto lo uomo, che fu la prima scoltura, dicono che la scultura abbraccia molte piú arti come congeneri e ne ha molte piú sottoposte che la pittura, come il basso rilievo, il far di terra, di cera o di stucco, di legno, d'avorio, il gettare de' metalli, ogni ceselamento, il lavorare di incavo o di rilievo nelle pietre fini e negli acciai, et altre molte, le quali e di numero e di maestria avanzano quelle della pittura; et allegando ancora che quelle cose che si difendono piú e meglio dal tempo e piú si conservano all'uso degli uomini, a beneficio e servizio de' quali elle son fatte, sono senza dubbio piú utili e piú degne d'esser tenute care et onorate che non sono l'altre, affermano la scultura essere tanto piú nobile della pittura, quanto ella è piú atta a conservare e sé et il nome di chi è celebrato da lei ne' marmi e ne' bronzi contro a tutte le ingiurie del tempo e della aria, che non è essa pittura, la quale di sua natura pure, non che per gli accidenti di fuora, perisce nelle piú riposte e piú sicure stanze che abbino saputo dar loro gli architettori. Vogliano eziandio che il minor numero loro, non solo degli artefici eccellenti, ma degli ordinari, rispetto allo infinito numero de' pittori, arguisca la loro maggiore nobilità, dicendo che la scultura vuole una certa migliore disposizione e di animo e di corpo, il che rado si truova congiunto insieme; dove la pittura si contenta d'ogni debole complessione purché abbia la man sicura se non gagliarda; e che questo intendimento loro si pruova similmente da' maggior pregi citati particularmente da Plinio, da gli amori causati dalla maravigliosa bellezza di alcune statue e dal giudizio di colui che fece la statua della scultura di oro e quella della pittura d'argento e pose quella alla de|stra e questa alla sinistra. Né lasciano ancora di allegare le difficultà: prima dell'aver la materia subbietta come i marmi et i metalli e la valuta loro rispetto alla facilità

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dell'avere le tavole, le tele et i colori a piccolissimi pregi et in ogni luogo; di poi le estreme e gravi fatiche del maneggiare i marmi et i bronzi per la gravezza loro e del lavorargli per quella de gli strumenti, rispetto alla leggerezza de' pennegli, degli stili e delle penne, disegnatoi e carboni, oltra che di loro si affatica lo animo con tutte le parti del corpo; et è cosa gravissima rispetto alla quieta e leggére opera dello animo e della mano sola del dipintore. Fanno appresso grandissimo fondamento sopra lo essere le cose tanto piú nobili e piú perfette, quanto elle si accostano piú al vero e dicono che la scultura imita la forma vera e mostra le sue cose girandole intorno a tutte le vedute, dove la pittura, per essere spianata con semplicissimi lineamenti di pennello e non avere che un lume solo, non mostra che una apparenza sola. Né hanno rispetto a dire molti di loro che la scultura è tanto superiore alla pittura quanto il vero alla bugia. Ma per la ultima e piú forte ragione adducono che allo scultore è necessario non solamente la perfezzione del giudizio ordinaria, come al pittore, ma assoluta e subita, di maniera che ella conosca sin dentro a' marmi l'intero appunto di quella figura che essi intendono di cavarne, e possa senza altro modello prima fare molte parti perfette, che e' le accompagni et unisca insieme, come ha fatto divinamente già Michelagnolo. Avvenga che mancando di questa felicità di giudizio, fanno agevolmente e spesso di quelli inconvenienti che non hanno rimedio, e che fatti, son sempre testimonii degli errori dello scarpello o del poco giudizio dello scultore. La qual cosa non avviene a' pittori: percioché ad ogni erro|re di pennello o mancamento di giudizio che venisse lor fatto, hanno tempo, conoscendoli da per loro o avertiti da altri possono ricoprirli e medicarli con il medesimo pennello che lo aveva fatto, il quale, nelle man loro, ha questo vantaggio da gli scarpelli dello scultore: che egli non solo sana, come faceva il ferro della lancia di Achille, ma lascia senza margine le sue ferite.

Alle quali cose rispondendo i pittori non senza sdegno, dicono primieramente che, volendo gli scultori considerare la cosa in sagrestia, la prima nobilità è la loro, e che gli scultori si ingannano di gran lunga a chiamare opera loro la statua del primo padre, essendo stata fatta di terra, l'arte della quale operazione mediante il suo levare e porre non è manco de' pittori che di altri, e fu chiamata plastice da' Greci e fictoria da' Latini, e da Prassitele fu giudicata madre della scultura, del getto e del cesello; cosa che fa la scultura veramente nipote alla pittura, con ciò sia che la plastice e la pittura naschino insieme e subito dal disegno. Et esaminata fuori di sagrestia, dicono che tante sono e sí varie le opinioni de' tempi, che male si può credere piú all'una che all'altra, e che considerato finalmente questa nobilità dove e' vogliono, nell'uno de' luoghi perdono e nell'altro non vincono, sí come nel Proemio delle Vite piú chiaramente potrà vedersi. Appresso per riscontro delle arti congeneri e sottoposte alla scultura, dicono averne molte piú di loro, come che la pittura abbracci la invenzione della istoria, la difficilissima arte degli scorti, tutti i corpi della architettura per poter fare i casamenti e la prospettiva, il colorire a tempera, l'arte del lavorare in fresco, differente e vario da tutti gli altri, similmente il lavorare a olio, in legno, in pietra, in tele et il miniare, arte differente da tutte, le finestre di vetro, il musaico de' vetri, il | commetter le tarsie di colori faccendone istorie con i legni tinti, che è pittura, lo sgraffire le case con il ferro, il niello e le stampe di rame, membri della pittura, gli smalti de gli orefici, il commetter l'oro alla damaschina, il dipigner le figure invetriate e fare ne' vasi di terra istorie et altre figure che reggono alla acqua, il tessere i broccati con le figure e' fiori e la bellissima invenzione degli arazzi tessuti, che fa commodità e grandezza, potendo portar la pittura in ogni luogo e salvatico e domestico, senza che in ogni genere che bisogna essercitarsi, il disegno, che è disegno nostro, lo adopra ognuno. Sí che molti piú membri ha la pittura e piú utili, che non ha la scultura. Non niegano la etternità poi, che cosí la chiamano, delle sculture. Ben dicono questo non esser privilegio che faccia l'arte piú nobile che ella si sia di sua natura, per essere semplicemente della materia; e che se la lunghezza della vita desse alle anime nobilità, il pino tra le piante et il cervio tra gli animali arebbon la anima oltramodo piú nobile che non ha l'uomo. Nonostante che ei potessino addurre una simile etternità e nobiltà di materia ne' musaici loro, per vedersene delli antichissimi quanto le piú antiche sculture che siano in Roma, et essendosi usato di farli di gioie e pietre fini. E quanto al piccolo o minor numero loro, affermano che ciò non è perché la arte ricerchi miglior disposizione di corpo et il giudizio maggiore, ma che ei depende in tutto da la povertà delle sustanzie loro e dal poco favore o avarizia, che vogliamo chiamarlo, de gli uomini ricchi, i quali non fanno loro commodità de' marmi o danno occasione di lavorare, come si può credere e vedesi che si fece ne' tempi antichi, quando la scultura venne al sommo grado. Et è manifesto che chi non può consumare o gittar via non piccola quantità di marmi e pietre forti, le | quali costano pure assai, non può fare quella pratica nella arte che si conviene, chi non vi fa la pratica non la impara e chi non la impara non può fare bene. Per la qual cosa doverrebono escusare piú tosto con queste cagioni la imperfezzione et il poco numero degli eccellenti che cercare di trarre da esse sotto uno altro colore la nobiltà. Quanto a' maggior pregi delle sculture, rispondono che, quando i loro fussino bene minori, non hanno a compartirli, contentandosi di un putto che macini loro i colori e porga i pennelli o le predelle di poca spesa, dove gli scultori, oltre alla valuta grande della materia, vogliono di molti aiuti e mettono piú tempo in una sola figura, che non fanno essi in molte e molte; per il che appariscano i pregi loro essere piú della qualità e durazione di essa materia, delli aiuti che ella vuole a condursi e del tempo che vi si mette a lavorarla, che della eccellenzia della arte stessa. E quando questa non serva né si truovi prezzo maggiore, come sarebbe facil cosa a chi volessi diligentemente considerarla, truovino un prezzo maggiore del maraviglioso, bello e vivo dono, che alla virtuosissima et eccellentissima opera di Apelle fece Alessandro il Magno donandoli non tesori grandissimi o stato,

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ma la sua amata e bellissima Campsaspe; et avvertischino di piú, che Alessandro era giovane, innamorato di lei e naturalmente a gli affetti di Venere sottoposto, e re insieme e greco, e poi ne faccino quel giudizio che piace loro. Agli amori di Pigmalione e di quelli altri scelerati non degni piú d'essere uomini, citati per pruova della nobilità della arte, non sanno che si rispondere se da una grandissima cecità di mente e da una sopra ogni natural modo sfrenata libidine si può fare argumento di nobiltà. E di quel non so chi allegato dagli scultori d'aver fatto la scultura d'oro e la pittura di argento, come di sopra, con|sentono che, se egli avessi dato tanto segno di giudizioso quanto di ricco, non sarebbe da disputarla. E concludono finalmente che lo antico vello dello oro, per celebrato che e' sia, non vestí però altro che un montone senza intelletto; per il che né il testimonio delle ricchezze né quello delle voglie disoneste ma delle lettere, dello esercizio, della bontà e del giudizio son quelli a chi si debbe attendere. Né rispondono altro alla dificultà dello avere i marmi et i metalli, se non che questo nasce da la povertà propria e dal poco favore de' potenti, come si è detto, e non da grado di maggiore nobilità. Alle estreme fatiche del corpo et a' pericoli proprii e delle opere loro, ridendo e senza alcun disagio rispondono che se le fatiche et i pericoli maggiori arguiscono maggiore nobilità, l'arte del cavare i marmi de le viscere de' monti, per adoperare i conii, i pali e le mazze, sarà piú nobile della scultura, quella del fabbro avanzerà lo orefice e quella del murare la architettura. E dicono appresso che le vere difficultà stanno piú nello animo che nel corpo, onde quelle cose che di lor natura hanno bisogno di studio e di sapere maggiore, son piú nobili et eccellenti di quelle che piú si servono della forza del corpo; e che valendosi i pittori della virtú dell'animo piú di loro, questo primo onore si appartiene alla pittura. Agli scultori bastano le seste o le squadre a ritrovare e riportare tutte le proporzioni e misure che egli hanno di bisogno; a' pittori è necessario, oltre al sapere bene adoperare i sopradetti strumenti, una accurata cognizione di prospettiva, per avere a porre mille altre cose che paesi o casamenti; oltra che bisogna aver maggior giudicio per la quantità delle figure in una storia dove può nascer piú errori che in una sola statua. Allo scultore basta aver notizia delle vere forme e fattezze de' corpi solidi e palpabili e sottoposti in tutto al tatto | e di quei soli ancora che hanno chi gli regge; al pittore è necessario non solo conoscere le forme di tutti i corpi retti e non retti, ma di tutti i trasparenti et impalpabili; et oltra questo bisogna ch'e' sappino i colori che si convengono a' detti corpi, la moltitudine e la varietà de' quali, quanto ella sia universalmente e proceda quasi in infinito, lo dimostrano meglio che altro i fiori et i frutti oltre a' minerali; cognizione sommamente difficile ad acquistarsi et a mantenersi per la infinita varietà loro. Dicono ancora che dove la scultura per la inobbedienzia et imperfezzione della materia non rappresenta gli affetti dello animo se non con il moto, il quale non si stende però molto in lei, e con la fazione stessa de' membri, né anche tutti i pittori gli dimostrano con tutti i moti, che sono infiniti, con la fazione di tutte le membra per sottilissime che elle siano, ma che piú? con il fiato stesso e con gli spiriti della vista. E che a maggiore perfezzione del dimostrare non solamente le passioni e gli affetti dello animo, ma ancora gli accidenti a venire, come fanno i naturali, oltre alla lunga pratica della arte bisogna loro avere una intera cognizione di essa fisionomia, della quale basta solo allo scultore la parte che considera la quantità e forma de' membri, senza curarsi della qualità de' colori, la cognizion de' quali, chi giudica dagli occhi conosce quanto ella sia utile e necessaria alla vera imitazione della natura, alla quale chi piú si accosta è piú perfetto. Appresso soggiungono che dove la scultura, levando a poco a poco, in un medesimo tempo dà fondo et acquista rilievo a quelle cose che hanno corpo di lor natura, e servesi del tatto e del vedere, i pittori in due tempi danno rilievo e fondo al piano con lo aiuto di un senso solo; la qual cosa quando ella è stata fatta da persona intelligente della arte, con piacevolissimo inganno ha fatto | rimanere molti grandi uomini, per non dire degli animali; il che non si è mai veduto della scultura, per non imitare la natura in quella maniera che si possa dire tanto perfetta quanto è la loro. E finalmente, per rispondere a quella intera et assoluta perfezzione di giudizio che si richiede alla scultura, per non aver modo di aggiugnere dove ella leva, affermando prima che tali errori sono, come ei dicano, incorrigibili, né si può rimediare loro senza le toppe, le quali, cosí come ne' panni son cose da poveri di roba, nelle sculture e nelle pitture similmente son cose da poveri di ingegno e di giudizio. Di poi che la pazienzia con un tempo conveniente, mediante i modelli, le centine, le squadre, le seste et altri mille ingegni e strumenti da riportare, non solamente gli difendano dagli errori, ma fanno condur loro il tutto alla sua perfezzione, concludono che questa difficultà che ei mettano per la maggiore, è nulla o poco rispetto a quelle che hanno i pittori nel lavorare in fresco; e che la detta perfezzione di giudizio non è punto piú necessaria alli scultori che a' pittori, bastando a quelli condurre i modelli buoni di cera, di terra o d'altro, come a questi i loro disegni in simili materie pure o ne' cartoni; e che finalmente quella parte che riduce a poco a poco loro i modelli ne' marmi, è piú tosto pazienzia che altro. Ma chiamisi giudizio, come vogliono gli scultori, se egli è piú necessario a chi lavora in fresco che a chi scarpella ne' marmi. Percioché in quello non solamente non ha luogo né la pazienzia né il tempo per essere capitalissimi nimici della unione della calcina e de' colori, ma perché l'occhio non vede i colori veri insino a che la calcina non è ben secca, né la mano vi può avere giudizio d'altro che del molle o secco; di maniera che chi lo dicessi lavorare al buio o con occhiali di colori diversi dal vero, non credo che | errasse di molto; anzi non dubito punto che tal nome non se li convenga piú che al lavoro d'incavo, al quale per occhiali, ma giusti e buoni, serve la cera. E dicono che a questo lavoro è necessario avere un giudizio risoluto, che antivegga la fine nel molle e quale egli abbia a tornar poi secco. Oltra che non si può abbandonare il lavoro, mentre che la calcina tiene de 'l fresco, e bisogna

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resolutamente fare in un giorno quello che fa la scultura in un mese. E chi non ha questo giudizio e questa eccellenzia, si vede nella fine del lavoro suo o co 'l tempo le toppe, le macchie, i rimessi et i colori soprapposti o ritocchi a secco, che è cosa vilissima; perché vi si scuoprono poi le muffe e fanno conoscere la insufficienzia et il poco sapere dello artefice suo, sí come fanno bruttezza i pezzi rimessi nella scultura. Soggiungono ancora che dove gli scultori fanno insieme due o tre figure al piú d'un marmo solo, essi ne fanno molte in una tavola sola, con quelle tante e sí varie vedute che coloro dicono che ha una statua sola, ricompensando con la varietà delle positure, scorci et attitudini loro il potersi vedere intorno intorno quelle degli scultori. Affermano oltra di ciò che la pittura non lascia elemento alcuno che non sia ornato e ripieno di tutte le eccellenzie che la natura ha dato loro; dando la sua luce o le sue tenebre alla aria, con tutte le sue varietà et impressioni et empiendola insieme di tutte le sorti degli ucelli; alle acque la trasparenza, i pesci, i muschi, le schiume, il variare delle onde, le navi e l'altre sue passioni; alla terra i monti, i piani, le piante, i frutti, i fiori, gli animali, gli edifizii, con tanta moltitudine di cose e varietà delle forme loro e de' veri colori, che la natura stessa molte volte n'ha maraviglia; e dando finalmente al fuoco tanto di caldo e di luce, che e' si vede manifestamente ardere le cose e quasi | tremolando nelle sue fiamme, rendere in parte luminose le piú oscure tenebre della notte. Per le quali cose par loro potere giustamente conchiudere e dire che, contraposto le difficultà degli scultori alle loro, le fatiche del corpo alle fatiche dello animo, la imitazione circa la forma sola alla imitazione della apparenzia circa la quantità e la qualità che viene a lo occhio, il poco numero delle cose dove la scultura può dimostrare e dimostra la virtú sua allo infinito di quelle che la pittura ci rappresenta, oltra il conservarle perfettamente allo intelletto e farne parte in que' luoghi che la natura non ha fatto ella, e contrapesato finalmente le cose dell'una alle cose dell'altra, la nobiltà della scultura quanto a lo ingegno, a la invenzione et a 'l giudizio degli artefici suoi, non corrisponde a gran pezzo a quella che ha e merita la pittura. E questo è quello che per l'una e per l'altra parte mi è venuto a gli orecchi degno di considerazione.

Ma perché a me pare che gli scultori abbino parlato con troppo ardire et i pittori con troppo sdegno, per avere io assai tempo considerato le cose della scultura et essermi esercitato sempre nella pittura, quantunche piccolo sia forse il frutto che se ne vede, nondimeno, e per quel tanto che egli è e per la impresa di questi scritti giudicando mio debito dimostrare il giudizio che nello animo mio ne ho fatto sempre, e vaglia la autorità mia quanto ella può, dirò sopra tal disputa sicuramente e brevemente il parer mio; persuadendomi di non sottentrare a carico alcuno di prosunzione o di ignoranzia, non trattando io de l'arti altrui, come hanno già fatto molti per apparire nel vulgo intelligenti di tutte le cose mediante le lettere, e come tra gli altri avvenne a Formione peripatetico in Efeso che, ad ostentazione della eloquenzia sua predicando e disputando de le virtú e | parti dello eccellente capitano, non meno de la prosunzione che de la ignoranzia sua fece ridere Annibale. Dico adunque che la scultura e la pittura per il vero sono sorelle, nate di un padre, che è il disegno, in un sol parto et ad un tempo; e non precedono l'una alla altra se non quanto la virtú e la forza di coloro che le portano addosso fa passare l'uno artefice innanzi a l'altro, e non per differenzia o grado di nobiltà che veramente si truovi infra di loro. E se bene per la diversità della essenzia loro hanno molte agevolezze, non sono elleno però né tante, né di maniera che elle non venghino giustamente contrapesate insieme, e non si conosca la passione o la caparbietà piú tosto che il giudizio di chi vuole che l'una avanzi l'altra. Laonde a ragione si può dire che una anima medesima regga due corpi; et io per questo conchiudo che male fanno coloro che si ingegnano di disunirle e di separarle l'una da l'altra. De la qual cosa volendoci forse sgannare il cielo e mostrarci la fratellanza e la unione di queste due nobilissime arti, ha in diversi tempi fattoci nascere molti scultori che hanno dipinto, e molti pittori che hanno fatto de le sculture; come si vedrà nella vita di Antonio del Pollaiuolo, di Lionardo da Vinci e di molti altri di già passati. Ma nella nostra età ci ha prodotto la bontà divina Michelagnolo Buonarroti, nel quale amendue queste arti sí perfette rilucono e sí simili et unite insieme appariscono, che i pittori de le sue pitture stupiscono e gli scultori le sculture fatte da lui ammirano e reveriscono sommamente. A costui, perché egli non avesse forse a cercare da altro maestro dove agiatamente collocare le figure fatte da lui, ha la natura donato sí fattamente la scienzia della architettura che, senza avere bisogno di altrui, può e vale da sé solo et a queste et a quelle imagini da lui formate dare ono|rato luogo et ad esse conveniente; di maniera che egli meritamente debbe esser detto scultore unico, pittore sommo et eccellentissimo architettore, anzi della architettura vero maestro. E ben possiamo certo affermare che e' non errano punto coloro che lo chiamano divino, poiché divinamente ha egli in sé solo raccolte le tre piú lodevoli arti e le piú ingegnose che si truovino tra' mortali, e con esse ad esempio d'uno Idio infinitamente ci può giovare. E tanto basti per la disputa fatta dalle parti e per la nostra opinione.

E tornando oramai a 'l primo proposito, dico che, volendo per quanto si estendono le forze mie, trarre da la voracissima bocca del tempo i nomi degli scultori, pittori et architetti che da Cimabue in qua sono stati in Italia di qualche eccellenzia notabile, e desiderando che questa mia fatica sia non meno utile che io me la sia proposta piacevole, mi pare necessario, avanti che e' si venga a la istoria, fare sotto brevità una introduzzione a quelle tre arti nelle quali valsero coloro di chi io debbo scrivere le vite; a cagione che ogni gentile spirito intenda primieramente le cose piú notabili delle loro professioni, et appresso con piacere et utile maggiore possa conoscere apertamente in

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che e' fussero tra sé differenti, e di quanto ornamento e comodità alle patrie loro et a chiunque volse valersi de la industria e sapere di quelli.

Comincerommi dunque da l'architettura, come da la piú universale e piú necessaria et utile agli uomini, et al servizio et ornamento della quale sono l'altre due; e brevemente dimostrerrò la diversità delle pietre, le maniere o modi dello edificare con le loro proporzioni, et a che si conoschino le buone fabbriche e bene intese. Appresso, ragionando de la scultura, dirò come le statue si lavorino, la forma e la proporzione che si aspetta loro; e quali siano le buone sculture, | con tutti gli ammaestramenti piú segreti e piú necessarii. Ultimamente discorrendo de la pittura, dirò de 'l disegno, de' modi del colorire, de 'l perfettamente condurre le cose, de la qualità di esse pitture e di qualunche cosa che da questa dependa, de' musaici d'ogni sorte, de 'l niello, de gli smalti, de' lavori a la damaschina e finalmente poi de le stampe delle pitture. E cosí mi persuado che queste fatiche mie diletteranno coloro che non sono di questi esercizii, e diletteranno e gioveranno a chi ne ha fatto professione. Perché, oltra che nella introduzzione rivedranno i modi dello operare, e nelle vite di essi artefici impareranno dove siano l'opere loro et a conoscere agevolmente la perfezzione o imperfezzione di quelle e discernere tra maniera e maniera, e' potranno accorgersi ancora quanto meriti lode et onore chi con le virtú di sí nobili arti accompagna onesti costumi e bontà di vita; et accesi di quelle laudi che hanno conseguite i sí fatti, si alzeranno essi ancora a la vera gloria. Né si caverà poco frutto de la storia, vera guida e maestra delle nostre azzioni, leggendo la varia diversità di infiniti casi occorsi a gli artefici, qualche volta per colpa loro e molte altre della fortuna. Resterebbemi a fare scusa de lo avere alle volte usato qualche voce non ben toscana, de la qual cosa non vo' parlare, avendo avuto sempre piú cura di usare le voci et i vocaboli particulari e proprii delle nostre arti che i leggiadri o gli snelli della delicatezza degli scrittori. Siami lecito adunche usare nella propria lingua le proprie voci de' nostri artefici, e contentisi ognuno de la buona volontà mia, la quale si è mossa a fare questo effetto, non per insegnare ad altri, che non so per me, ma per desiderio di conservare almanco questa memoria degli artefici piú celebrati, poiché in tante decine di anni non ho saputo vedere | ancora chi n'abbia fatto molto ricordo. Con ciò sia che io ho piú tosto voluto con queste rozze fatiche mie, ombreggiando gli egregii fatti loro, renderli in qualche parte l'obligo che io tengo alle opere sue che mi sono state maestre ad imparare quel tanto che io so, che malignamente, vivendo in ozio, esser censore delle opere altrui, accusandole e riprendendole come i nostri spesso costumano. Ma egli è già tempo di venire a lo effetto.

GIOTTO (1266 - 1337)

Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura, la quale continuamente per essempio serve a quegli che, cavando il buono da le parti di lei piú mirabili e belle, di contrafarla sempre s'ingegnano, il medesimo si deve avere a Giotto. Perché, essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture et i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono, quella ch'era per mala via, resuscitò, e redusse ad una forma da chiamar buona. E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sí dottamente, che 'l disegno, del quale poca o nessuna cognizione avevano gli uomini di que' tempi, mediante sí buono artefice, ritornasse del tutto in vita. E nientedimeno i principii di sí grande uomo furono nel contado di Fiorenza, vicino alla città XIIII miglia. Era l'anno MCCLXXVI nella villa di Vespignano uno lavoratore di terre, il cui nome fu Bondone, il quale era tanto di buona fama nella vita e sí valente nell'arte della agricoltura, che nessuno che intorno a quelle ville abitasse era stimato piú di lui. Costui, nello aconciare tutte le cose, era talmente ingegnoso e d'assai, che dove i ferri del suo mestiero adoperava, piú tosto che rusticalmente adoperati e' paressino, ma da una mano che

gentil fussi d'un valente orefice o intagliatore, mostravano essere esercitati. A costui fece la natura dono d'un figliuolo, il | quale egli per suo nome alle fonti fece nominare Giotto. Questo fanciullo, crescendo d'anni, con

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bonissimi costumi e documenti mostrava in tutti gli atti, ancora fanciulleschi, una certa vivacità e prontezza d'ingegno straordinario ad una età puerile. E non solo per questo invaghiva Bondone, ma i parenti e tutti coloro che nella villa e fuori lo conoscevano. Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di X anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando in un luogo e quando in un altro l'andava pasturando, e venutagli inclinazione da la natura dell'arte del disegno, spesso per le lastre, et in terra per la rena, disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale, o vero che gli venissi in fantasia. E cosí avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, transferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza, dove egli era in gran pregio, trovò nella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e, con un sasso un poco apuntato, ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo estinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue, e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco. Rispose il fanciullo che, se il padre suo ne fosse contento, ch'egli contentissimo ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di singular grazia glielo concesse. Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della natura, che ne' tempi suoi sbandí affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, et introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d'anni non s'era | usato. Onde, ancor oggi dí, si vede ritratto, nella cappella del Palagio del Podestà di Fiorenza, l'effigie di Dante Alighieri, coetaneo et amico di Giotto, et amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittore impresse; come tratta Messer Giovanni Boccaccio in sua lode, nel prologo della novella di Messere Forese da Rabatta e di Giotto.

Furono le sue prime pitture nella Badia di Fiorenza, la cappella dello altar maggiore, nella quale fece molte cose tenute belle; ma particularmente in una storia della Nostra Donna, quando ella è annunziata da l'Angelo, nella quale contrafece lo spavento e la paura, che nel salutarla Gabriello la fé mettere con grandissimo timore quasi in fuga. Et in Santa Croce quattro cappelle, tre poste fra la sagrestia e la cappella grande: nella prima, e dove si suonono oggi le campane, vi è fatto di sua mano la vita di San Francesco, e l'altre due, una è della famiglia de' Peruzzi e l'altra de' Giugni, et un'altra dall'altra parte di essa cappella grande. Nella cappella ancora de' Baroncelli è una tavola a tempera, con diligenza da lui finita, dentrovi l'Incoronazione di Nostra Donna con grandissimo numero di figure picciole et un coro d'angeli e di santi, fatta con diligenzia grandissima, et in lettere d'oro scrittovi il nome suo. Onde gli artefici, che consideraranno in che tempo questo maraviglioso pittore, senza alcun lume della maniera, diede principio al buon modo di disegnare e del colorire, saranno sforzati averlo in perpetua venerazione. Sono ancora in detta chiesa altre tavole, et in fresco molte altre figure, come sopra il sepolcro di marmo di Carlo Ma<r>supini aretino, un Crocifisso con la Nostra Donna e San Giovanni e la Magdalena a' piè della Croce. E da l'altra banda della chiesa, sopra la sepoltura di Lionardo Aretino, una Nunziata verso l'altare maggiore, | la quale è stata ricolorita da altri pittori moderni, come nel refettorio uno albero di croce e storie di San Lodovico et un Cenacolo; e nella sagrestia, ne gli armarii, storie di Cristo e di San Francesco. Nel Carmino, alla cappella di San Giovanni Batista, lavorate in fresco tutte le storie della vita sua, e nella Parte Guelfa di Fiorenza una storia della fede cristiana in fresco, dipinta perfettissimamente. Fu condotto ad Ascesi a finir l'opera cominciata da Cimabue, dove passando da Arezzo lavorò nella pieve la cappella di San Francesco sopra il battesimo, et in una colonna tonda, vicino a un capitello corinzio antico bellissimo, dipinse un San Francesco e San Domenico. Al duomo fuor d'Arezzo una cappelluccia, dentrovi la Lapidazione di Santo Stefano con bel componimento di figure. Finite queste opere si condusse ad Ascesi, a l'opra cominciata da Cimabue, dove acquistò grandissima fama, per la bontà delle figure che in quella opera fece, nelle quali si vede ordine, proporzione, vivezza e facilità donatagli dalla natura e dallo studio accresciuta, percioché era Giotto studiosissimo e di continuo lavorava. Et allora dipinse nella chiesa di Santa Maria de gli Agnoli e, nella chiesa d'Ascesi de' frati minori, tutta la chiesa dalla banda di sotto. Sentí tanta fama e grido di questo mirabile artefice Papa Benedetto XII da Tolosa che, volendo fare in San Pietro di Roma molte pitture per ornamento di quella chiesa, mandò in Toscana un suo cortigiano, che vedesse che uomo era questo Giotto e l'opere sue, e non solamente di lui, ma ancora degli altri maestri che fussino tenuti eccellenti nella pittura e nel musaico. Costui, avendo parlato a molti maestri in Siena, et avuti disegni da loro, capitò in Fiorenza per vedere l'opere di Giotto e pigliar pratica seco; e cosí una mattina, arrivato in bot|tega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del papa et in che modo e' si voleva valere dell'opera sua. Et in ultimo lo richiese che voleva un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che cortesissimo era, squadrato il cortigiano prese un foglio di carta et in quello, con un pennello che egli aveva in mano tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sí pari di sesto e di proffilo, che fu a vederlo una maraviglia grandissima. E poi, ghignando, volto al cortigiano gli disse: “Eccovi il disegno”. Tennesi beffato il mandato del papa, dicendo: “Ho io <a> avere altro disegno che questo?” Rispose Giotto: “Assai e pur troppo è quel che io ho fatto: mandatelo a Roma insieme con gli altri e vedrete se sarà conosciuto”. Partissi il cortigiano da Giotto, e quanto e' pigliasse mal volentieri questo assunto, dubitando non essere uccellato a Roma, ne fece segno co 'l non esser satisfatto nel suo partire; pure, uscito di bottega e mandato al papa tutti e' disegni, scrivendo in ciascuno il nome e di chi mano egli erano, tanto fece nel

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tondo disegnato da Giotto e nella maniera che egli l'aveva girato, senza muovere il braccio e senza seste, fu conosciuto dal papa e da molti cortigiani intendenti quanto egli avanzasse di eccellenzia tutti gli altri artefici de' suoi tempi. E perciò, divulgata<s>i questa cosa, ne nacque quel proverbio familiare e molto ancora ne' nostri tempi usato: “Tu sei piú tondo che l'O di Giotto”. Il quale proverbio non solo per il caso donde nacque si può dir bello, ma molto piú per il suo significato, che consiste nella ambiguità del tondo, che oltra a la figura circulare perfetta significa ancora tardità e grossezza d'ingegno. Fecelo dunque il predetto papa venire a Roma, onorandolo grandemente e con premi riconoscendolo, dove fece la Tribuna | di San Pietro et uno angelo di sette braccia, dipinto sopra l'organo, e molte altre pitture, parte ristaurate da altri a' nostri dí, e parte nel rifondare le mura nuove, disfatte, e traportate da lo edificio del vecchio San Piero fin sotto l'organo; come una Nostra Donna che era in su<r> un muro, il quale, perché ella non andasse per terra, fu tagliato attorno et allacciato co' travi e ferri, e murata di poi per la sua bellezza dalla pietà et amore che portava all'arte il gentilissimo Messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, con altre restaurazioni moderne di pittura e di stucchi per abellire questa opera di Giotto. Fu di sua mano la nave del musaico, fatta sopra le tre porte del portico, nel cortile di San Pietro, la quale fu sí maravigliosa, et in quel tempo di tal disegno, d'ordine e di perfezzione, che le lode universalmente datele da gli artefici e da altri intendenti ingegni meritamente se le convengono. Fu chiamato a Napoli dal Re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle, nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono. Dove ancora, in una cappella, sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli (per quanto si dice) da Dante, fuor uscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti. Nel Castello de l'Uovo fece ancora molte opere, e particularmente la cappella di detto Castello. E fu sí da quel re amato, che oltra la pittura pigliò grandissimo piacere del suo ragionamento, avendo egli alcuni motti et alcune risposte molto argute, come fu quando dicendogli un giorno il re che lo voleva fare il prim'uomo di Napoli, “E per ciò”, gli rispose Giotto, “son io alloggiato vicino a Porta Reale per esser il primo di Napoli”. Et un'altra volta, dicendogli il re: “Giotto, s'io fusse in te, ora che fa caldo, tralasserei un poco il dipignere”, rispose: “Et | io, se fussi in voi, farei il medesimo”. Fecegli dunque fare molte cose in una sala che il Re Alfonso Primo ruinò per fare il castello, e cosí nella Incoronata. Dicesi che gli fu fatto dal re dipignere per capriccio il suo reame, per che Giotto gli dipinse uno asino imbastato, che teneva a' piedi un altro basto nuovo e, fiutandolo, faceva segno di desiderarlo; e su l'uno e l'altro basto era la corona reale e lo scettro della podestà. Domandato dunque Giotto da 'l re, nel presentargli questa pittura, de 'l significato di quella, rispose tali i sudditi suoi essere e tale il suo regno, nel quale ogni giorno nuovo signore desideravano. Ora, partitosi da Napoli, fu intertenuto in Roma dal Signor Malatesta da Rimini, che condottolo nella sua città moltissime cose nella chiesa di San Francesco gli fece dipignere; le quali da Sigismondo, figliuolo di Pandolfo, che rifece la chiesa tutta di nuovo, furono guaste e rovinate. Fece ancora nel chiostro di detto luogo, a l'incontro della facciata della chiesa, la istoria della Beata Michilina a fresco, che fu una delle piú belle et eccellenti cose che Giotto facesse, per le leggiadrissime considerazioni che ebbe questo rarissimo artefice nel dipignerla. Perché, oltra la bellezza de' panni, e la grazia e la vivezza delle teste de gli uomini e delle donne, che sono vivissime e miracolose, egli è cosa singularissima una giovane che v'è, bellissima quanto piú esser si possa, la quale, per liberarsi da la calumnia dello adulterio, giura sopra di un libro, con gli occhi fissi negli occhi del proprio marito, che giurar la faceva per diffidanza d'un figliuol nero partorito da lei, il quale in nissun modo che suo fusse poteva credere. Costei (cosí come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso) fa conoscere, con la pietà della fronte e de gli occhi, a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenzia | e la simplicità sua, et il torto che se le faceva in farla giurare, e nel publicarla a torto per meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quel ch'espresse questo ingegnosissimo artefice in un infermo di certe piaghe; dove tutte le femmine che vi sono dattorno, offese dal puzzo, fanno certi torcimenti schifosi, i piú graziati del mondo. Et in un altro quadro vi si veggono scorti bellissimi fra una quantità di poveri attratti; et è maravigliosissimo l'atto che fa la sopradetta beata a certi usurai, che le sborsano i danari della vendita delle sue possessioni, per dargli a' poveri, e le pare che i denari di costor putino; e vi è uno che, mentre quegli annovera, pare ch'accenni al notaio che scriva, e co 'l tenere le mani sopra i denari, fa conoscere, con garbatissima considerazione, l'affezzione e l'avarizia sua. Mostrò Giotto in tre figure, che in aria sostengano l'abito di San Francesco, figurate per l'obedienza e la pazienzia e la povertà, molta bella maniera di panni, i quali con bello andare di pieghe, morbidamente colorite, fanno conoscere a coloro che le mirano, che egli era nato per dar luce all'arte della pittura. Ritrasse di naturale il signor Malatesta in una nave, che pare vivissimo; et alcuni marinai et altre genti che, di prontezza e di affetto nelle attitudini loro, fanno conoscere l'eccellenzia di Giotto, come si vede in una figura, che parlando con alcuni si mette una mano al viso, sputando in mare. E certamente, fra tutte le cose fatte da Giotto in pittura, questa si può dire essere una delle migliori, perché non vi è figura, in cosí gran numero di figure, che non abbia in sé grandissimo e bell'artificio, e non sia posta con capricciosa attitudine. E però non mancò il Signor Malatesta, vistosi nascere nella sua città una delle piú belle cose del mondo, premiarlo e magnificamente lodarlo. Finiti i lavori di quel si|gnore, pregato da un prior fiorentino, che allora nella chiesa di San Cataldo, in quella città, era da' suoi superiori mandato, che egli volesse dipignerli, fuor della porta della chiesa, un San Tomaso d'Aquino che a' suoi frati leggesse la lezzione, esso per l'amicizia che seco aveva non mancò di satisfarlo, faccendoli una

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pittura molto lodevole. E di quivi partito andò a Ravenna, et in San Giovanni Vangelista fece una cappella a fresco lodata molto. Tornossi poi con grandissimo onore e con grandissima facultà a Fiorenza, dove in San Marco fece un Crocifisso in sul legno grande lavorato a tempera, maggiore che 'l naturale, in campo d'oro, il quale fu messo a mano destra in chiesa; et un simile ne fece in Santa Maria Novella, sul quale Puccio Capanna suo creato in compagnia di lui lavorò, et ancora oggidí è locato sopra la porta maggiore nell'intrata della chiesa. Dipinse in fresco nel medesimo luogo un San Lodovico, sopra al tramezzo della chiesa a man destra, sotto la sepoltura de' Gaddi; e ne' frati umiliati in Ogni Santi una cappella e quattro tavole. E fra l'altre una, dentrovi una Nostra Donna, con molti angeli attorno et il figliuolo in braccio; et un Crocifisso grande in legno, da 'l quale Puccio Capanna, pigliando il disegno, molti per tutta Italia ne lavorò, avendo presa molto la pratica e la maniera di Giotto. Nel tramezzo della chiesa in detto luogo è appoggiata una tavolina a tempera, dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno e vivacità dentrovi la Morte di Nostra Donna, con gli Apostoli che fanno l'essequie, e Cristo che l'anima in braccio tiene; da gl'artefici pittori molto lodata, e particularmente da Michel Agnolo Buonaroti, attribuendole la proprietà della storia essere molto simile al vero. Oltra che le attitudini nelle figure con grandissima grazia dello arte|fice sono espresse. E veramente fu in que' tempi un miracolo il vedere in Giotto tanta vaghezza nel dipignere e considerare ch'egli avesse appreso quest'arte senza maestro.

Avvenne che, per aver Giotto nel disegno fatto una bellissima pratica, li fu fatto fare molti disegni, e non solamente per pitture, ma per fare delle sculture ancora; come quando l'Arte de' Mercatanti volse far gettar di bronzo le porte del Batisteo di San Giovanni, egli disegnò per Andrea Pisano tutte le storie di San Giovanni Batista, ch'è quella porta che volta oggi verso la Misericordia. Ma quanto e' valesse nella architettura lo dimostrò nel modello del campanile di Santa Maria del Fiore, che essendo mancato di vita Arnolfo Todesco, capo di quella fabrica, e desiderando gli operai di quella chiesa, e la Signoria di quella città, che si facesse il campanile, Giotto ne fece fare co 'l suo disegno un modello di quella maniera todesca che in quel tempo si usava, e per averlo egli ben considerato, inoltre disegnò tutte le storie che andavano per ornamento in quella opera. E cosí scompartí di colori bianchi, rossi e neri in sul modello, tutti que' luoghi dove avevano andare le pietre et i fregi, con grandissima diligenzia, et ordinò che 'l circuito da basso fussi in giro di larghezza de braccia 100, ciò è braccia 25 per ciascuna faccia e l'altezza braccia 144; nella quale opera fu messo mano l'anno MCCCXXXIIII e seguitata del continuo, ma non sí che Giotto la potessi veder finita, interponendosi la morte sua. Mentre che questa opera si andava fabricando, fece egli, nelle Monache di San Giorgio, una tavola, e nella Badia di Fiorenza, in uno arco sopra la porta di dentro alla chiesa, tre mezze figure, oggi dalla ignoranzia d'uno abbate fatte imbiancare per illuminare la chiesa. Nella sala grande del Podestà di Fiorenza, per mettere paura a i | popoli dipinse il commune ch'è rubato da molti; dove in forma di giudice con lo scettro in mano a sedere lo figura, e le bilance pari sopra la testa, per le giuste ragioni ministrate da esso, et aiutato da quattro figure, dalla Fortezza con l'animo, dalla Prudenzia con le leggi, dalla Giustizia con l'armi e dalla Temperanza con le parole; pittura bella et invenzione garbata, propria e verisimile. Partissi di Fiorenza per fare nel Santo di Padova alcune cappelle, dove molto dimorò, perché fece ancora nel luogo dell'arena una Gloria Mondana, la quale gli diede molto onore. Et a Milano trasferitosi quivi ancor lavorò, et a Fiorenza ritornatosi, alli VIII di gennaio nel MCCCXXXVI rese l'anima a Dio, onde da gli artefici pianto et a' suoi cittadini assai doluto, non senza portarlo alla sepoltura con quelle esequie onorevoli che a una tanta virtú com'era quella di Giotto si convenissi, et a una patria come Fiorenza, degna d'uno ingegno mirabile come il suo. E cosí quel giorno non restò uomo, piccolo o grande, che non facesse segno con le lacrime o co 'l dolersi della perdita di tanto uomo. Il quale, per le rare virtú che in lui risplenderono, meritò, ancora che e' fosse nato di sangue vile, lode e fama certo chiarissima.

Il campanile di Santa Maria del Fiore fu seguitato e tirato avanti da Taddeo Gaddi suo discepolo, in su lo stesso modello di Giotto. Et è opinione di molti, e non isciocca, che egli desse opera alla scoltura ancora, attribuendogli ch'e' facesse due storiette di marmo che sono in detto campanile, dove si figurano i modi et i principii dell'arti, ancora che altri dichino solamente il disegno di tali storie essere di sua mano. Restò in memoria della sua sepoltura in Santa Maria del Fiore, dalla banda sinistra entrando in chiesa, un mattone di marmo, dove è sepolto il corpo suo.

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REPRESENTING THE SELF

DANTE: VITA NUOVA

III. Poi che furono passati tanti die, che appunto erano compiuti li nove anni appresso l'apparimento soprascritto di questa gentilissima, ne l'ultimo di questi die avvenne che questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne, le quali erano di più lunga etade; e passando per una via, volse li occhi verso quella parte ov'io era molto pauroso, e per la sua ineffabile cortesia, la quale è oggi meritata nel grande secolo, mi salutoe molto virtuosamente, tanto che me parve allora vedere tutti li termini de la beatitudine. L'ora che lo suo dolcissimo salutare mi giunse, era fermamente nona di quello giorno; e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti, e ricorsi a lo solingo luogo d'una mia camera, e puòsimi a pensare di questa cortesissima. [III] E pensando di lei mi sopragiunse uno soave sonno, ne lo quale m'apparve una maravigliosa visione, che me parea vedere ne la mia camera una nèbula di colore di fuoco, dentro a la quale io discernea una figura d'uno segnore di pauroso aspetto a chi la guardasse; e pareami con tanta letizia, quanto a sé, che mirabile cosa era; e ne le sue parole dicea molte cose, le quali io non intendea se non poche; tra le quali intendea queste: «Ego dominus tuus». Ne le sue braccia mi parea vedere una persona dormire nuda, salvo che involta mi parea in uno drappo sanguigno leggeramente; la quale io riguardando molto intentivamente, conobbi ch'era la donna de la salute, la quale m'avea lo giorno dinanzi degnato di salutare. E ne l'una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa, la quale ardesse tutta; e pareami che mi dicesse queste parole: «Vide cor tuum». E quando elli era stato alquanto, pareami che disvegliasse questa che dormia; e tanto si sforzava per suo ingegno, che la facea mangiare questa cosa che in mano li ardea, la quale ella mangiava dubitosamente. Appresso ciò, poco dimorava che la sua letizia si convertia in amarissimo pianto; e così piangendo, si ricogliea questa donna ne le sue braccia, e con essa mi parea che si ne gisse verso lo cielo; onde io sostenea sì grande angoscia, che lo mio deboletto sonno non poteo sostenere, anzi si ruppe e fui disvegliato. E mantenente cominciai a pensare, e trovai che l'ora ne la quale m'era questa visione apparita, era la quarta de la notte stata; sì che appare manifestamente ch'ella fue la prima ora de le nove ultime ore de la notte. Pensando io a ciò che m'era apparuto, propuosi di farlo sentire a molti, li quali erano famosi trovatori in quello tempo: e con ciò fosse cosa che io avesse già veduto per me medesimo l'arte del dire parole per rima, propuosi di fare uno sonetto, ne lo quale io salutasse tutti li fedeli d'Amore; e pregandoli che giudicassero la mia visione, scrissi a loro ciò che io avea nel mio sonno veduto. E cominciai allora questo sonetto, lo quale comincia: A ciascun'alma presa.

A ciascun'alma presa, e gentil core, nel cui cospetto ven lo dir presente, in ciò che mi rescrivan suo parvente salute in lor segnor, cioè Amore. 5 Già eran quasi che atterzate l'ore del tempo che onne stella n'è lucente, quando m'apparve Amor subitamente cui essenza membrar mi dà orrore. Allegro mi sembrava Amor tenendo 10 meo core in mano, e ne le braccia avea madonna involta in un drappo dormendo. Poi la svegliava, e d'esto core ardendo lei paventosa umilmente pascea: appresso gir lo ne vedea piangendo.

Questo sonetto si divide in due parti; che la prima parte saluto e domando risponsione, ne la seconda significo a che si dee rispondere. La seconda parte comincia quivi: Già eran.

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A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenzie; tra li quali fue risponditore quelli cui io chiamo primo de li miei amici, e disse allora uno sonetto, lo quale comincia: Vedesti al mio parere onne valore. E questo fue quasi lo principio de l'amistà tra lui e me, quando elli seppe che io era quelli che li avea ciò mandato. Lo verace giudicio del detto sogno non fue veduto allora per alcuno, ma ora è manifestissimo a li più semplici.

IV. Da questa visione innanzi cominciò lo mio spirito naturale ad essere impedito ne la sua operazione, però che l'anima era tutta data nel pensare di questa gentilissima; onde io divenni in picciolo tempo poi di sì fràile e debole condizione, che a molti amici pesava de la mia vista; e molti pieni d'invidia già si procacciavano di sapere di me quello che io volea del tutto celare ad altrui. Ed io, accorgendomi del malvagio domandare che mi faceano, per la volontade d'Amore, lo quale mi comandava secondo lo consiglio de la ragione, rispondea loro che Amore era quelli che così m'avea governato. Dicea d'Amore, però che io portava nel viso tante de le sue insegne, che questo non si potea ricovrire. E quando mi domandavano: «Per cui t'ha così distrutto questo Amore?», ed io sorridendo li guardava, e nulla dicea loro.

V. Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s'udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine: e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse. Onde molti s'accorsero de lo suo mirare; ed in tanto vi fue posto mente, che, partendomi da questo luogo, mi sentio dicere appresso di me: «Vedi come cotale donna distrugge la persona di costui»; e nominandola, eo intesi che dicea di colei che mezzo era stata ne la linea retta che movea da la gentilissima Beatrice e terminava ne li occhi miei. Allora mi confortai molto, assicurandomi che lo mio secreto non era comunicato lo giorno altrui per mia vista. E mantenente pensai di fare di questa gentile donna schermo de la veritade; e tanto ne mostrai in poco tempo, che lo mio secreto fue creduto sapere da le più persone che di me ragionavano. Con questa donna mi celai alquanti anni e mesi; e per più fare credente altrui, feci per lei certe cosette per rima, le quali non è mio intendimento di scrivere qui, se non in quanto facesse a trattare di quella gentilissima Beatrice; e però le lascerò tutte, salvo che alcuna cosa ne scriverò che pare che sia loda di lei.

VI. Dico che in questo tempo che questa donna era schermo di tanto amore, quanto da la mia parte, sì mi venne una volontade di volere ricordare lo nome di quella gentilissima ed acompagnarlo di molti nomi di donne, e spezialmente del nome di questa gentile donna. E presi li nomi di sessanta le più belle donne de la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire, e compuosi una pìstola sotto forma di serventese, la quale io non scriverò: e non n'avrei fatto menzione, se non per dire quello che, componendola, maravigliosamente addivenne, cioè che in alcuno altro numero non sofferse lo nome de la mia donna stare, se non in su lo nove, tra li nomi di queste donne.

XI. Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m'avesse offeso; e chi allora m'avesse domandato di cosa alcuna, la mia risponsione sarebbe stata solamente Amore, con viso vestito d'umilitade. E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d'amore, distruggendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso, e dicea loro: «Andate a onorare la donna vostra»; ed elli si rimanea nel luogo loro. E chi avesse voluto conoscere Amore, fare lo potea, mirando lo tremare de li occhi miei. E quando questa gentilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potesse obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi per soverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo, lo quale era tutto allora sotto lo suo reggimento, molte volte si movea come cosa grave inanimata. Sì che appare manifestamente che ne le sue salute abitava la mia beatitudine, la quale molte volte passava e redundava la mia capacitade.

XII. Ora, tornando al proposito, dico che poi che la mia beatitudine mi fue negata, mi giunse tanto dolore, che, partito me da le genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d'amarissime lagrime. E poi che alquanto mi fue sollenato questo lagrimare, misimi ne la mia camera, là ov'io potea lamentarmi sanza essere udito; e quivi, chiamando misericordia a la donna de la cortesia, e dicendo «Amore, aiuta lo tuo fedele», m'addormentai come uno pargoletto battuto lagrimando...

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XVIII. Con ciò sia cosa che per la vista mia molte persone avessero compreso lo secreto del mio cuore, certe donne, le quali adunate s'erano, dilettandosi l'una ne la compagnia de l'altra, sapeano bene lo mio cuore, però che ciascuna di loro era stata a molte mie sconfitte; ed io passando appresso di loro, sì come da la fortuna menato, fui chiamato da una di queste gentili donne. La donna che m'avea chiamato, era donna di molto leggiadro parlare; sì che quand'io fui giunto dinanzi da loro, e vidi bene che la mia gentilissima donna non era con esse, rassicurandomi le salutai, e domandai che piacesse loro. Le donne erano molte, tra le quali n'avea certe che si rideano tra loro. Altre v'erano che mi guardavano, aspettando che io dovessi dire. Altre v'erano che parlavano tra loro. De le quali una, volgendo li suoi occhi verso me e chiamandomi per nome, disse queste parole: «A che fine ami tu questa tua donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo». E poi che m'ebbe dette queste parole, non solamente ella, ma tutte l'altre cominciaro ad attendere in vista la mia risponsione. Allora dissi queste parole loro: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, ché era fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno». Allora queste donne cominciaro a parlare tra loro; e sì come talora vedemo cadere l'acqua mischiata di bella neve, così mi parea udire le loro parole uscire mischiate di sospiri. E poi che alquanto ebbero parlato tra loro, anche mi disse questa donna che m'avea prima parlato, queste parole: «Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sia questa tua beatitudine». Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: «In quelle parole che lodano la donna mia». Allora mi rispuose questa che mi parlava: «Se tu ne dicessi vero, quelle parole che tu n'hai dette in notificando la tua condizione, avrestù operate con altro intendimento». Onde io, pensando a queste parole, quasi vergognoso mi partìo da loro, e venia dicendo fra me medesimo: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?». E però propuosi di prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima; e pensando molto a ciò, pareami avere impresa troppo alta matera quanto a me, sì che non ardia di cominciare; e così dimorai alquanti dì con disiderio di dire e con paura di cominciare.

XIX. Avvenne poi che passando per uno cammino, lungo lo quale sen gìa uno rivo chiaro molto, a me giunse tanta volontade di dire, che io cominciai a pensare lo modo ch'io tenesse; e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine. Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa, e disse: Donne ch'avete intelletto d'amore. Queste parole io ripuosi ne la mente con grande letizia, pensando di prenderle per mio cominciamento; onde poi ritornato a la sopradetta cittade, pensando alquanti die, cominciai una canzone con questo cominciamento, ordinata nel modo che si vedrà di sotto ne la sua divisione. La canzone comincia: Donne ch'avete.

Donne ch'avete intelletto d'amore,

i' vo' con voi de la mia donna dire,

non perch'io creda sua laude finire,

ma ragionar per isfogar la mente.

5 Io dico che pensando il suo valore,

Amor sì dolce mi si fa sentire,

che s'io allora non perdessi ardire,

farei parlando innamorar la gente:

E io non vo' parlar sì altamente,

10 ch'io divenisse per temenza vile;

ma tratterò del suo stato gentile

a respetto di lei leggeramente,

donne e donzelle amorose, con vui,

ché non è cosa da parlarne altrui.

15 Angelo clama in divino intelletto

e dice: «Sire, nel mondo si vede

maraviglia ne l'atto che procede

d'un'anima che 'nfin quassù risplende».

Lo cielo, che non have altro difetto

20 che d'aver lei, al suo segnor la chiede,

e ciascun santo ne grida merzede.

Sola Pietà nostra parte difende,

ché parla Dio, che di madonna intende:

«Diletti miei, or sofferite in pace

25 che vostra spene sia quanto me piace

là ov' è alcun che perder lei s'attende,

e che dirà ne lo inferno: «O malnati,

io vidi la speranza de' beati».

Madonna è disiata in sommo cielo:

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30 or vòi di sua virtù farvi savere.

Dico, qual vuol gentil donna parere

vada con lei, chè quando va per via,

gitta nei cor villani Amore un gelo,

per che onne lor pensero agghiaccia e père;

35 e qual soffrisse di starla a vedere

diverria nobil cosa, o si morria;

E quando trova alcun che degno sia

di veder lei, quei prova sua vertute,

ché li avvien ciò che li dona salute,

40 e sì l'umilia ch'ogni offesa oblia.

Ancor l'ha Dio per maggior grazia dato

che non pò mal finir chi l'ha parlato.

Dice di lei Amor: «Cosa mortale

come esser pò sì adorna e sì pura?»

45 Poi la reguarda, e fra se stesso giura

che Dio ne 'ntenda di far cosa nova.

Color di perle ha quasi in forma, quale

convene a donna aver, non for misura;

ella è quanto de ben pò far natura;

50 per esemplo di lei bieltà si prova.

De li occhi suoi, come ch'ella li mova,

escono spirti d'amore inflammati,

che fèron li occhi a qual che allor la guati,

e passan sì che 'l cor ciascun retrova:

55 voi le vedete Amor pinto nel viso,

là 've non pote alcun mirarla fiso.

Canzone, io so che tu girai parlando

a donne assai, quand'io t'avrò avanzata.

Or t'ammonisco, perch'io t'ho allevata

60 per figliuola d'Amor giovane e piana,

che là ove giugni tu dichi pregando:

«Insegnàtemi gir, ch'io son mandata

a quella di cui laude so' adornata».

E se non vuoli andar sì come vana,

65 non restare ove sia gente villana;

ingègnati, se puoi, d'esser palese

solo con donne o con omo cortese,

che ti merranno là per via tostana.

Tu troverai Amor con esso lei;

70 raccomàndami a lui come tu dei.

Questa canzone, acciò che sia meglio intesa, la dividerò più artificiosamente che l'altre cose di sopra. E però prima ne fo tre parti: la prima parte è proemio de le sequenti parole; la seconda è lo intento trattato; la terza è quasi una serviziale de le precedenti parole. La seconda comincia quivi: Angelo clama; la terza quivi: Canzone, io so che. La prima parte si divide in quattro: ne la prima dico a cu' io dicer voglio de la mia donna, e perché io voglio dire; ne la seconda dico quale me pare avere a me stesso quand'io penso lo suo valore, e com'io direi s'io non perdessi l'ardimento; ne la terza dico come credo dire di lei, acciò ch'io non sia impedito da viltà; ne la quarta, ridicendo anche a cui ne intenda dire, dico la cagione per che dico a loro. La seconda comincia quivi: Io dico; la terza quivi: E io non vo' parlar; la quarta: donne e donzelle. Poscia quando dico: Angelo clama, comincio a trattare di questa donna. E dividesi questa parte in due: ne la prima dico che di lei si comprende in cielo; ne la seconda dico che di lei si comprende in terra, quivi: Madonna è disiata. Questa seconda parte si divide in due; che ne la prima dico di lei quanto da la parte de la nobilitade de la sua anima, narrando alquanto de le sue vertudi effettive che de la sua anima procedeano; ne la seconda dico di lei quanto da la parte de la nobilitade del suo corpo, narrando alquanto de le sue bellezze, quivi: Dice di lei Amor. Questa seconda parte si divide in due: che ne la prima dico d'alquante bellezze che sono secondo tutta la persona; ne la seconda dico d'alquante bellezze che sono secondo diterminata parte de la persona, quivi: De li occhi suoi. Questa seconda parte si divide in due: che ne l'una dico deli occhi, li quali sono principio d'amore; ne la seconda dico de la bocca, la quale è fine d'amore. E acciò che quinci si lievi ogni vizioso pensiero, ricòrdisi chi ci legge che di sopra è scritto che lo saluto di questa donna, lo quale era de le operazioni de la bocca sua, fue fine de li miei desiderii mentre ch'io lo potei ricevere. Poscia quando dico: Canzone, io so che tu, aggiungo una stanza quasi come ancella de l'altre, ne la quale dico quello che di questa mia canzone desidero; e però che questa ultima parte è lieve a intendere, non mi travaglio di più divisioni. Dico bene che, a più aprire lo intendimento di questa canzone, si converrebbe usare di più minute divisioni; ma tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d'avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s'elli avvenisse che molti le potessero audire.

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XXIII. Appresso ciò per pochi dì, avvenne che in alcuna parte de la mia persona mi giunse una dolorosa infermitade, onde io continuamente soffersi per nove dì amarissima pena; la quale mi condusse a tanta debolezza, che me convenia stare come coloro li quali non si possono muovere. Io dico che ne lo nono giorno, sentendo me dolere quasi intollerabilmente, a me giunse uno pensero, lo quale era de la mia donna. E quando èi pensato alquanto di lei, ed io ritornai pensando a la mia debilitata vita; e veggendo come leggero era lo suo durare, ancora che sana fosse, sì cominciai a piangere fra me stesso di tanta miseria. Onde, sospirando forte, dicea fra me medesimo: «Di necessitade convene che la gentilissima Beatrice alcuna volta si muoia». E però mi giunse uno sì forte smarrimento, che chiusi li occhi e cominciai a travagliare sì come farnetica persona ed a imaginare in questo modo; che ne lo incominciamento de lo errare che fece la mia fantasia, apparvero a me certi visi di donne scapigliate, che mi diceano: «Tu pur morrai»; e poi, dopo queste donne, m'apparvero certi visi diversi e orribili a vedere, li quali mi diceano: «Tu se' morto». Così cominciando ad errare la mia fantasia, venni a quello ch'io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami vedere lo sole oscurare, sì che le stelle si mostravano di colore ch'elle mi faceano giudicare che piangessero; e pareami che li uccelli volando per l'aria cadessero morti, e che fossero grandissimi terremuoti. E maravigliandomi in cotale fantasia, e paventando assai, imaginai alcuno amico che mi venisse a dire: «Or non sai? la tua mirabile donna è partita di questo secolo». Allora cominciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere lagrime. Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine d'angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero gloriosamente, e le parole del loro canto mi parea udire che fossero queste: Osanna in excelsis; ed altro non mi parea udire. Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse: «Vero è che morta giace la nostra donna». E per questo mi parea andare per vedere lo corpo ne lo quale era stata quella nobilissima e beata anima; e fue sì forte la erronea fantasia, che mi mostrò questa donna morta: e pareami che donne la covrissero, cioè la sua testa, con uno bianco velo; e pareami che la sua faccia avesse tanto aspetto d'umilitade che parea che dicesse: «Io sono a vedere lo principio de la pace». In questa imaginazione mi giunse tanta umilitade per vedere lei, che io chiamava la Morte, e dicea: «Dolcissima Morte, vieni a me, e non m'essere villana, però che tu dèi essere gentile, in tal parte se' stata! Or vieni a me, che molto ti desidero; e tu lo vedi, ché io porto già lo tuo colore». E quando io avea veduto compiere tutti li dolorosi mestieri che a le còrpora de li morti s'usano di fare, mi parea tornare ne la mia camera, e quivi mi parea guardare verso lo cielo; e sì forte era la mia imaginazione, che piangendo incominciai a dire con verace voce: «Oi anima bellissima, come è beato colui che ti vede!». E dicendo io queste parole con doloroso singulto di pianto, e chiamando la Morte che venisse a me, una donna giovane e gentile, la quale era lungo lo mio letto, credendo che lo mio piangere e le mie parole fossero solamente per lo dolore de la mia infermitade, con grande paura cominciò a piangere. Onde altre donne che per la camera erano, s'accorsero di me, che io piangea, per lo pianto che vedeano fare a questa; onde faccendo lei partire da me, la quale era meco di propinquissima sanguinitade congiunta, elle si trassero verso me per isvegliarmi, credendo che io sognasse, e dicèanmi: «Non dormire più» e «Non ti sconfortare». E parlandomi così, sì mi cessò la forte fantasia entro in quello punto ch'eo volea dicere: «O Beatrice, benedetta sie tu»; e già detto avea «O Beatrice», quando riscotendomi apersi li occhi, e vidi che io era ingannato. E con tutto che io chiamasse questo nome, la mia voce era sì rotta dal singulto del piangere, che queste donne non mi potero intendere, secondo il mio parere; e avvegna che io vergognasse molto, tuttavia per alcuno ammonimento d'Amore mi rivolsi a loro. E quando mi videro, cominciaro a dire: «Questi pare morto», e a dire tra loro: «Procuriamo di confortarlo»; onde molte parole mi diceano da confortarmi, e talora mi domandavano di che io avesse avuto paura. Onde io essendo alquanto riconfortato, e conosciuto lo fallace imaginare, rispuosi a loro: «Io vi diròe quello ch'i' hoe avuto». Allora, cominciandomi dal principio infino a la fine, dissi loro quello che veduto avea, tacendo lo nome di questa gentilissima. Onde poi sanato di questa infermitade, propuosi di dire parole di questo che m'era addivenuto, però che mi parea che fosse amorosa cosa da udire; e però ne dissi questa canzone: Donna pietosa, e di novella etate, ordinata sì come manifesta la infrascritta divisione.

Donna pietosa, e di novella etate,

adorna assai di gentilezze umane,

che era là 'v'io chiamava spesso Morte,

veggendo li occhi miei pien di pietate,

5 e ascoltando le parole vane, si mosse con paura a pianger forte; E altre donne, che si fuoro accorte di me per quella che meco piangia, fecer lei partir via,

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10 e appressârsi per farmi sentire.

Qual dicea: «Non dormire»,

e qual dicea: «Perché sì ti sconforte?»

Allor lassai la nova fantasia,

chiamando il nome de la donna mia.

15 Era la voce mia sì dolorosa

e rotta sì da l'angoscia del pianto,

ch'io solo intesi il nome nel mio core;

e con tutta la vista vergognosa

ch'era nel viso mio giunta cotanto,

20 mi fece verso lor volgere Amore.

Elli era tale a veder mio colore,

che facea ragionar di morte altrui:

«Deh, consoliam costui,»

pregava l'una l'altra umilemente;

25 e dicevan sovente:

«Che vedestù, che tu non hai valore?»

E quando un poco confortato fui,

io dissi: «Donne, dicerollo a vui.

Mentr'io pensava la mia frale vita,

30 e vedea 'l suo durar com'è leggero,

piànsemi Amor nel core, ove dimora;

per che l'anima mia fu sì smarrita,

che sospirando dicea nel pensero:

- Ben converrà che la mia donna mora! -

35 Io presi tanto smarrimento allora,

ch'io chiusi li occhi vilmente gravati,

e furon sì smagati

li spirti miei, che ciascun giva errando;

e poscia imaginando,

40 di conoscenza e di verità fora,

visi di donne m'apparver crucciati,

che mi dicean pur: - Morràti, morràti -.

Poi vidi cose dubitose molte,

nel vano imaginare ov'io entrai;

45 ed esser mi parea non so in qual loco,

e veder donne andar per via disciolte,

qual lagrimando, e qual traendo guai,

che di tristizia saettavan foco.

Poi mi parve vedere a poco a poco

50 turbar lo sole ed apparir la stella,

e pianger elli ed ella;

cader li augelli volando per l'âre,

e la terra tremare;

ed omo apparve scolorito e fioco,

55 dicendomi: - Che fai? Non sai novella?

morta è la donna tua, ch'era sì bella -.

Levava li occhi miei bagnati in pianti,

e vedea (che parean pioggia di manna)

li angeli che tornavan suso in cielo,

60 ed una nuvoletta avean davanti,

dopo la qual gridavan tutti: Osanna;

e s'altro avesser detto, a voi dirèlo.

Allor diceva Amor: - Più nol ti celo;

vieni a veder nostra donna che giace. -

65 Lo imaginar fallace

mi condusse a veder madonna morta;

e quand'io l'avea scorta,

vedea che donne la covrìan d'un velo;

ed avea seco umilità verace,

70 che parea che dicesse: - Io sono in pace. -

Io divenia nel dolor sì umile,

veggendo in lei tanta umiltà formata,

ch'io dicea: - Morte, assai dolce ti tegno;

tu dèi omai esser cosa gentile,

75 poi che tu se' ne la mia donna stata,

e dèi aver pietate e non disdegno.

Vedi che sì desideroso vegno

d'esser de' tuoi, ch'io ti somiglio in fede.

Vieni, ché 'l cor te chiede.-

80 Poi mi partìa, consumato ogne duolo;

e quand'io era solo,

dicea, guardando verso l'alto regno:

- Beato, anima bella, chi te vede! -

Voi mi chiamaste allor, vostra merzede.»

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Questa canzone ha due parti: ne la prima dico, parlando a indiffinita persona, come io fui levato d'una vana fantasia da certe donne, e come promisi loro di dirla; ne la seconda dico come io dissi a loro. La seconda comincia quivi: Mentr'io pensava. La prima parte si divide in due: ne la prima dico quello che certe donne, e che una sola, dissero e fecero per la mia fantasia, quanto è dinanzi che io fossi tornato in verace condizione; ne la seconda dico quello che queste donne mi dissero, poi che io lasciai questo farneticare; e comincia questa parte quivi: Era la voce mia. Poscia quando dico: Mentr'io pensava, dico come io dissi loro questa mia imaginazione. Ed intorno a ciò foe due parti: ne la prima dico per ordine questa imaginazione; ne la seconda, dicendo a che ora mi chiamaro, le ringrazio chiusamente; e comincia quivi questa parte: Voi mi chiamaste.

XXV. Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle onne dubitazione, e dubitare potrebbe di ciò che io dico d'Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustanzia intelligente ma sì come fosse sustanzia corporale: la quale cosa, secondo la veritate, è falsa; ché Amore non è per sé sì come sustanzia, ma è uno accidente in sustanzia. E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora sì come se fosse uomo, appare per tre cose che dico di lui. Dico che lo vidi venire; onde, con ciò sia cosa che venire dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo Filosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, e anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie de l'uomo, e spezialmente essere risibile; e però appare ch'io ponga lui essere uomo. A cotale cosa dichiarare, secondo che è buono a presente, prima è da intendere che anticamente non erano dicitori d'amore in lingua volgare, anzi erano dicitori d'amore certi poete in lingua latina; tra noi, dico (avvegna forse che tra altra gente addivenisse e addivegna ancora, sì come in Grecia), non volgari ma litterati poete queste cose trattavano. E non è molto numero d'anni passati, che appariro prima questi poete volgari; ché dire per rima in volgare tanto è quanto dire per versi in latino, secondo alcuna proporzione. E segno che sia picciolo tempo, è che, se volemo cercare in lingua d'oco e in quella di sì, noi non troviamo cose dette anzi lo presente tempo per cento e cinquanta anni. E la cagione per che alquanti grossi ebbero fama di sapere dire, è che quasi fuoro li primi che dissero in lingua di sì. E lo primo che cominciò a dire sì come poeta volgare, si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna, a la quale era malagevole d'intendere li versi latini. E questo è contra coloro che rìmano sopra altra matera che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d'amore. Onde, con ciò sia cosa che a li poete sia conceduta maggiore licenza di parlare che a li prosaici dittatori, e questi dicitori per rima non siano altro che poete volgari, degno e ragionevole è che a loro sia maggiore licenzia largita di parlare che a li altri parlatori volgari; onde, se alcuna figura o colore rettorico è conceduto a li poete, conceduto è a li rimatori. Dunque, se noi vedemo che li poete hanno parlato a le cose inanimate sì come se avessero senso e ragione, e fàttele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere, cioè che detto hanno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustanzie ed uomini; degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione, la quale poi sia possibile d'aprire per prosa. Che li poete abbiano così parlato come detto è, appare per Virgilio; lo quale dice che Juno, cioè una dea nemica de li Troiani, parlòe ad Eolo, segnore de li venti, quivi nel primo de lo Eneida: Eole, namque tibi, e che questo segnore le rispuose, quivi: Tuus, o regina, quid optes explorare labor; mihi jussa capessere fas est. Per questo medesimo poeta parla la cosa che non è animata a le cose animate, nel terzo de lo Eneida, quivi: Dardanide duri. Per Lucano parla la cosa animata a la cosa inanimata, quivi: Multum, Roma, tamen, debes civilibus, armis. Per Orazio parla l'uomo a la sua scienzia medesima, sì come ad altra persona; e non solamente sono parole d'Orazio, ma dìcele quasi recitando lo modo del buono Omero, quivi ne la sua Poètria: Dic mihi, Musa, virum. Per Ovidio parla Amore, sì come se fosse persona umana, ne lo principio de lo libro c'ha nome Libro di Remedio d'Amore, quivi: Bella mihi, video, bella parantur, ait. E per questo puote essere manifesto a chi dubita in alcuna parte di questo mio libello. E acciò che non ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rìmano dèono parlare così, non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rìmano stoltamente.

XXVI. Questa gentilissima donna, di cui ragionato è ne le precedenti parole, venne in tanta grazia de le genti, che quando passava per via, le persone correano per vedere lei; onde mirabile letizia me ne giungea. E quando ella fosse presso d'alcuno, tanta onestade giungea nel cuore di quello, che non ardia di levare li occhi, né di rispondere a lo suo saluto; e di questo molti, sì come esperti, mi potrebbero testimoniare a chi non lo credesse. Ella coronata e vestita d'umilitade s'andava, nulla gloria mostrando di ciò ch'ella vedea e udia. Diceano molti, poi che passata era: «Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo». E altri diceano: «Questa è una maraviglia; che benedetto

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sia lo Segnore, che sì mirabilemente sae adoperare!». Io dico ch'ella si mostrava sì gentile e sì piena di tutti li piaceri, che quelli che la miravano comprendeano in loro una dolcezza onesta e soave, tanto che ridìcere non lo sapeano; né alcuno era lo quale potesse mirare lei, che nel principio nol convenisse sospirare. Queste e più mirabili cose da lei procedeano virtuosamente: onde io pensando a ciò, volendo ripigliare lo stilo de la sua loda, propuosi di dicere parole, ne le quali io dessi ad intendere de le sue mirabili ed eccellenti operazioni; acciò che non pur coloro che la poteano sensibilmente vedere, ma li altri sappiano di lei quello che le parole ne possono fare intendere. Allora dissi questo sonetto, lo quale comincia: Tanto gentile.

Tanto gentile e tanto onesta pare

la donna mia, quand'ella altrui saluta,

ch'ogne lingua deven tremando muta,

e li occhi no l'ardiscon di guardare.

5 Ella si va, sentendosi laudare,

benignamente d'umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.

Mòstrasi sì piacente a chi la mira,

10 che dà per li occhi una dolcezza al core,

che 'ntender no la può chi non la prova:

e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d'amore,

che va dicendo a l'anima: «Sospira!»

Questo sonetto è sì piano ad intendere, per quello che narrato è dinanzi, che non abbisogna d'alcuna divisione; e però lassando lui, [XXVII] dico che questa mia donna venne in tanta grazia, che non solamente ella era onorata e laudata, ma per lei erano onorate e laudate molte. Ond'io, veggendo ciò e volendo manifestare a chi ciò non vedea, propuosi anche di dire parole ne le quali ciò fosse significato: e dissi allora questo altro sonetto, che comincia: Vede perfettamente ogne salute, lo quale narra di lei come la sua vertude adoperava ne l'altre, sì come appare ne la sua divisione.

Vede perfettamente ogne salute

chi la mia donna tra le donne vede;

quelle che vanno con lei son tenute

di bella grazia a Dio render merzede.

5 E sua bieltate è di tanta vertute,

che nulla invidia a l'altre ne procede,

anzi le face andar seco vestute

di gentilezza d'amore e di fede.

La vista sua fa ogne cosa umile;

10 e non fa sola sé parer piacente,

ma ciascuna per lei riceve onore.

Ed è ne li atti suoi tanto gentile,

che nessun la si può recare a mente,

che non sospiri in dolcezza d'amore.

Questo sonetto ha tre parti: ne la prima dico tra che gente questa donna più mirabile parea; ne la seconda dico sì come era graziosa la sua compagnia; ne la terza dico di quelle cose che vertuosamente operava in altrui. La seconda parte comincia quivi: quelle che vanno; la terza quivi: E sua bieltate. Questa ultima parte si divide in tre: ne la prima dico quello che operava ne le donne, cio è per loro medesime; ne la seconda dico quello che operava in loro per altrui; ne la terza dico come non solamente ne le donne, ma in tutte le persone, e non solamente ne la sua presenzia, ma ricordandosi di lei, mirabilmente operava. La seconda comincia quivi: La vista sua; e la terza quivi: Ed è ne li atti.

XXVIII. [XXIX] Quomodo sedet sola civitas plena populo! facta est quasi vidua domina gentium. Io era nel proponimento ancora di questa canzone, e compiuta n'avea questa soprascritta stanzia, quando lo signore de la giustizia chiamòe questa gentilissima a gloriare sotto la insegna di quella regina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenzia ne le parole di questa Beatrice beata. E avvegna che forse piacerebbe a presente trattare alquanto de la sua partita da noi, non è lo mio intendimento di trattarne qui per tre ragioni: la prima è che ciò non è del presente proposito, se volemo guardare nel proemio che precede questo libello; la seconda si è che, posto che fosse del presente proposito, ancora non sarebbe sufficiente la mia lingua a trattare, come si converrebbe, di ciò;

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la terza si è che, posto che fosse l'uno e l'altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae: e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore. Tuttavia, però che molte volte lo numero del nove ha preso luogo tra le parole dinanzi, onde pare che sia non sanza ragione, e ne la sua partita cotale numero pare che avesse molto luogo, convènesi di dire quindi alcuna cosa, acciò che pare al proposito convenirsi. Onde prima dicerò come ebbe luogo ne la sua partita, e poi n'assegnerò alcuna ragione, per che questo numero fue a lei cotanto amico.

REPRESENTING ANOTHER REALITY

DANTE ALIGHIERI

INFERNO, CANTO III

[Inscription on the Gate of Hell]

"Through me is the way into the doleful city; through me the way into the eternal pain; through me the way among the people lost. Justice moved my High Maker; Divine Power made me, Wisdom Supreme, and Primal Love. Before me were no things created, but eternal and eternal I endure: leave all hope, ye that enter." [From: Divine Comedy, Inferno, III, l-9]

__________________ Notes 1.Power, Wisdom and Love -- the Holy Trinity, the Triune God. 2.The "eternal things" are first matter, the angels and the heavens.

INFERNO, CANTO VII

[Fortune]

"Master," I said to him, "now tell me also:

this Fortune, of which thou hintest to me;

what is she, that has the good things of the

world thus within her clutches?"

And he to me: "O foolish creatures, how great

is this ignorance that falls upon ye! Now I

wish thee to receive my judgment of her.

He whose wisdom is transcendent over all, made

the heavens and gave them guides, so that

every part shines to every part,

equally distributing the light; in like manner, for

worldly splendours, he ordained a general

minister and guide,

to change betimes the vain possessions, from people

to people, and from one kindred to another,

beyond the hindrance of human wisdom:

hence one people commands, another languishes;

obeying her sentence, which is hidden like the

serpent in the grass.

[From: Divine Comedy, Inferno, VII, 67-84]

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INFERNO, CANTO V

No sooner had the wind bent them toward us

than I urged on my voice: "O battered souls,

if One does not forbid it, speak with us."

Even as doves when summoned by desire,

borne forward by their will, move through the air

with wings uplifted, still, to their sweet nest,

those spirits left the ranks where Dido suffers,

approaching us through the malignant air;

so powerful had been my loving cry.

"O living being, gracious and benign,

who through the darkened air have come to visit

our souls that strained the world with blood, if He

who rules the universe were friend to us,

then we should pray to Him to give you peace,

for you have pitied our atrocious state.

Whatever pleases you to hear and speak

will please us, too, to hear and speak with you,

now while the wind is silent, in this place.

The land where I was born lies on that shore

to which the Po together with the waters

that follow it descends to final rest.

Love, that can quickly seize the gentle heart,

took hold of him because of the fair body

taken from me - how that was done still wounds me.

Love, that releases no beloved from loving,

took hold of me so strongly through his beauty

that, as you see, it has not left me yet.

Love led the two of us unto one death.

Caïna waits for him who took our life."

These words were borne across from them to us

When I had listened to those injured souls,

I bent my head and held it low until

the poet asked of me: "What are you thinking?"

When I replied, my words began: "Alas,

how many gentle thoughts, how deep a longing,

had led them to the agonizing pass!"

Then I addressed my speech again to them,

and I began: "Francesca, your afflictions

move me to tears of sorrow and of pity.

But tell me, in the time of gentle sighs,

with what and in what way did Love allow you

to recognize your still uncertain longings?"

And she to me; "There is no greater sorrow

than thinking back upon a happy time

in misery - and this your teacher knows.

Yet if you long so much to understand

the first root of our love, then I shall tell

my tale to you as one who weeps and speaks.

One day, to pass the time away, we read

of Lancelot - how love had overcome him.

We were alone, and we suspected nothing.

And time and time again that reading led

our eyes to meet, and made our faces pale,

and yet one point alone defeated us.

When we had read how the desired smile

was kissed by one who was so true a lover,

this one, who never shall be parted from me,

while all his body trembled, kissed my mouth.

A Gallehault indeed, that book and he who wrote it, too; that day we read no more."

And while one spirit said these words to me,

the other wept, so that - because of pity -

I fainted, as if I had met my death.

And then I fell as a dead body falls.

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INFERNO, CANTO IX

And he said more, but I cannot remember

because my eyes had wholly taken me

to that high tower with the glowing summit

where , at one single point, there suddenly

stood three infernal Furies flecked with blood,

who had the limbs of women and their ways but wore, as girdles, snakes of deepest green;

small serpents and horned vipers formed their hairs,

and these were used to bind their bestial temples.

And he, who knew these handmaids well - they served

the Queen of never-ending lamentation -

said: "Look at the ferocious Erinyes!

That is Megaera on the left, and she

who weeps upon the right, that is Allecto;

Tisiphone's between them." He was done.

Each Fury tore her breast with taloned nails;

each, with her palms, beat on herself and wailed

so loud that I, in fear, drew near the poet.

"Just let Medusa come; then we shall turn

him into stone," they all cried, looking down;

"we should have punished Theseus' assault."

"Turn round and keep your eyes shut fast, for should

the Gorgon shown herself and you behold her,

never again would you return above,"

my master said; and he himself turned me

around and, not content with just my hands,

used his as well to cover up my eyes.

O you possessed of sturdy intellects,

observe the teaching that is hidden here

beneath the veil of verses so obscure.

And now, across the turbid waves, there passed

a reboantic fracas - horrid sound,

enough to make both of the shorelines quake:

a sound not other than a wind's when, wild

because it must contend with warmer currents,

it strikes against the forest without let,

shattering, beating down, bearing off branches,

as it moves proudly, clouds of dust before it,

and puts to flight both animals and shepherds.

He freed my eyes and said: "Now let your optic

nerve turn directly toward that ancient foam,

there where the mist is thickest and most acrid."

As frogs confronted by their enemy,

the snake, will scatter underwater till

each hunches in a heap along the bottom,

so did the thousand ruined souls I say

take flight before a figure crossing Styx

who walked as if on land and with dry soles.

He thrust away the thick air from his face,

waving his left hand frequently before him;

that seemed the only task that wearied him.

I knew well he was Heaven's messenger,

and I turned toward my master; and he made

a sign that I be still and bow before him.

How full of high disdain he seemed to me!

He came up to the gate, and with a wand,

he opened it, for there was no resistance.

"O you cast out of Heaven, hatred crowd,"

were his first words upon that horrid threshold,

'why do you harbor this presumptuousness?

Why are you so reluctant to endure

that Will whose aim can never be cut short,

and which so often added to your hurts?

What good is it to thrust against the fates?

Your Cerberus, if you remember well,

for that, had both his throat and chin stripped clean."

At that he turned and took the filthy road,

and did not speak to us, but had the look

of one who is obsessed by other cares

than those that press and gnaw at those before him;

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and we moved forward, on into the city,

in safety, having heard his holy words.

We made our way inside without a struggle;

and I, who wanted so much to observe

the state of things that such a fortress guarded,

INFERNO, CANTO XIII

[The Wood of the Suicides: Pier delle Vigne]

The Seventh Circle of Hell, where the sins of Violence are punished, is divided into three sections, or rings. The first ring contains the souls of the Violent against others (tyrants, murderers, highwaymen). They are immersed for eternity (up to the waist, throat, eyebrows, according to the different degrees of their guilt) in a river of steaming blood. The second ring is the eternal abode of the Suicides (suicide = violence against one's self). Their souls have taken root in the ground, and become stunted trees, with withered leaves and branches. Together with them are the souls of the Squanderers (squandering = violence against one's possessions), all naked and torn, ceaselessly rushing through the thick wood, pursued by female hounds. The third ring is a plain of burning sand; the place appointed for the eternal punishment of the Violent against God (Blasphemers), against Nature (Homosexuals), against Nature and Art (Usurers). A Rain of Fire is falling upon them all. Among the suicides, in the second ring, is Pier delle Vigne, a high official at the court of Frederick II.

Not green the foliage, but of colour dusky; not

smooth the branches, but gnarled and warped;

apples none were there, but withered sticks with poison.

...............................................................

Here the unseemly Harpies make their nests

...............................................................

Wide wings they have, and necks and faces human,

feet with claws, and their large belly feathered;

they make rueful cries on the strange trees.

The kind Master began to say to me: "Before

thou goest farther, know that thou art in the

second round: and shalt be, until

thou comest to the horrid sand. Therefore look

well, and thou shalt see things which would

take away belief from my speech."

Already I heard wailings uttered on every side,

and saw no one to make them: wherefore I,

all bewildered, stood still.

I think he thought that I was thinking so many

voices came, amongst those stumps, from people

who hid themselves on our account.

Therefore the Master said: "If thou breakest

off any little shoot from one of these plants,

the thoughts, which thou hast, will all become defective."

Then I stretched my hand a little forward, and

plucked a branchlet from a great thorn; and the

trunk of it cried, "Why dost thou rend me?"

And when it had grown dark with blood, it again

began to cry: "Why dost thou tear me? hast

thou no breath of pity?

Men we were, and now are turned to trees:

truly thy hand should be more merciful, had

we been souls of serpents."1

As a green brand, that is burning at one end, at

the other drops, and hisses with the wind which

is escaping:

so from that broken splint, words and blood came

forth together: whereat I let fall the top, and

stood like one who is afraid.

"If he, O wounded spirit," my Sage replied,

"could have believed before, what he has seen

only in my verse,2

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he would not have stretched forth his hand against

thee; but the incredibility of the thing made

me prompt him to do what grieves myself.

But tell him who thou wast; so that, to make

thee some amends, he may refresh thy fame up in

the world, to which he is permitted to return."

And the trunk: "Thou so allurest me with thy

sweet words, that I cannot keep silent; and let

it not seem burdensome to you, if I enlarge a little in discourse.

I am he, who held both keys of Frederick's

heart, and turned them, locking and unlocking

so softly,

that from his secrets I excluded almost every other

man;3 so great fidelity I bore to the glorious

office, that I lost thereby both sleep and life.

The harlot,4 that never from Caesar's dwelling

turned her adulterous eyes, common bane, and

vice of courts,

inflamed all minds against me; and these, being

inflamed, so inflamed Augustus, that my joyous

honours were changed to dismal sorrows.

My soul, in its disdainful mood, thinking to escape

disdain by death, made me, though just,

unjust against myself.

By the new roots of this tree, I swear to you,

never did I break faith to my lord, who was

so worthy of honour.

And if any of you return to the world, strengthen

the memory of me, which still lies prostrate

from the blow that envy gave it."

The poet listened awhile, and then said to me:

"Since he is silent, lose not the hour; but speak,

and ask him, if thou wouldst know more."

Whereat I to him: "Do thou ask him farther,

respecting what thou thinkest will satisfy me;

for I could not, such pity is upon my heart."

He therefore resumed: "So may the man do

freely for thee what thy words entreat him, O

imprisoned spirit, please thee

tell us farther, how the soul gets bound up in these

knots; and tell us, if thou mayest, whether

any ever frees itself from such members."

Then the trunk blew strongly, and soon that wind

was changed into these words: "Briefly shall

you be answered.

When the fierce spirit quits the body, from

which it has torn itself, Minos sends it to

the seventh gulf.

It falls into the wood, and no place is chosen for

it; but wherever fortune flings it, there it

sprouts, like grain of spelt;

shoots up to a sapling, and to a savage plant;

the Harpies, feeding then upon its leaves, give

pain, and to the pain an outlet.

Like the others, we shall go for our spoils, but

not to the end that any may be clothed with them again:

for it is not just that a man have what he takes from himself.

Hither shall we drag them, and through the

mournful wood our bodies shall be suspended,

each on the thorny tree of its tormented shade."

We still were listening to the trunk, thinking it

would tell us more, when by a noise we were

surprised;

like one who feels the boar and chase approaching

to his stand, who hears the beasts and the

branches crashing.

And, lo! on the left hand, two spirits, naked

and torn, fleeing so violently that they broke

every fan of the wood.

The foremost: "Come now, come, O death!"

And the other, who thought himself too slow,

cried: "Lano, thy legs were not so ready

at the jousts of Toppo." and since his breath

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perhaps was failing him, of himself and of a

bush he made one group.

Behind them, the wood was filled with black

branches, eager and fleet, as greyhounds that

have escaped the leash.

Into him, who squatted, they thrust their teeth,

and rent him piece by piece; then carried off

his miserable limbs.5

My Guide now took me by the hand, and led

me to the bush, which was lamenting through

its bleeding fractures, in vain.

"O Jacomo da Sant'Andrea!" it cried,6 "what

hast thou gained by making me thy screen?

what blame have I of thy sinful life?"

When the Master had stopped beside it, he said:

"Who wast thou, who, through so many wounds,

blowest forth with blood thy dolorous speech?"

And he to us: "Ye spirits, who are come to see

the ignominious mangling which has thus dis-

joined my leaves from me,

O gather them to the foot of the dismal shrub!

I was of the city that changed its first patron for

the Baptist, on which account he

with his art will always make it sorrowful; and

were it not that at the passage of the Arno

there yet remains some semblance of him,

those citizens, who afterwards rebuilt it on the

ashes left by Attila, would have laboured in

vain. I made a gibbet for myself of my own dwelling.'7

[From: Divine Comedy, Inferno, XIII, 4-l5l] ______________________________

Notes

1.The speaker is Pier delle Vigne (ca. ll90-l249) minister of the Emperor Frederick II. Till the year l247 he enjoyed the utmost confidence of his master. But suddenly he fell into disgrace (the reason usually given being that he plotted with Pope Innocent IV, against Frederick); he was blinded and imprisoned and eventually committed suicide.

2.See Aen. iii.22, sqq. The episode of Aeneas and Polydorus evidently served Dante as a model for the present passage.

3.When at the height of his power, Pier was often compared to his namesake, the Apostle Peter. This explains the reminiscence of Matthew xvi. l9 in these verses, the chiavi being, of course, the keys of punishment and mercy.

4. The harlot is Envy.

5.Jacomo da Sant'Andrea, of Padua, was notorious for the extraordinary way in which he wasted his own and other people's substance. Lano, a Sienese, was another spendthrift. Having squandered his fortune, he courted death at a ford called Pieve del Toppo (near Arezzo).

6.This speaker has not been identified.

7.In pagan times the patron of Florence was Mars, but when the Florentines were converted to Christianity they built a church in the place of the temple that had been raised in his honour, and dedicated it to St. John the Baptist. The statue of Mars was first stowed away in a tower near the Arno, into which river it fell when the city was destroyed by Attila. It was subsequently re-erected on the Ponte Vecchio, though in a mutilated state; but for this circumstance, so the superstition ran, the Florentines would never have succeeded in rebuilding the city. As it was, they attributed the unceasing strife within their walls to the offended dignity of the heathen God.

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INFERNO, CANTO XXVI

[The Evil Counselors: Ulysses]

(The Eighth Circle of Hell, the circle of Fraud, is divided (in successive rings) into ten deep chasms, resembling the ditches which begird a fortress, and each containing a different class of sinners. Across these chasms, and the banks which separate them from one another, run cliffs, forming lines of roads and bridges that also resemble those by which a fortress is entered from different sides. The Eighth Chasm is the eternal abode of the Evil Counselors. Their souls are wrapt in Tongues of Fire, which torment them by their burning and steal them from view. One of these Flames has a double tip and conceals the souls of Ulysses and Diomede, the two heroes of the Homeric tradition.)

As many fireflies as the peasant who is resting on

the hill -- at the time that he who lights the

world least hides his face from us,1

when the fly yields to the gnat -- sees down along

the valley, there perchance where he gathers

grapes and tills:

with flames thus numerous the eighth chasm was

all gleaming, as I perceived, so soon as I came

to where the bottom showed itself.

And as he,2 who was avenged by the bears, saw

Elijah's chariot at its departure, when the

horses rose erect to heaven, --

for he could not so follow it with his eyes as to

see other than the flame alone, like a little

cloud, ascending up:

thus moved each of those flames along the gullet

of the foss, for none of them shows the theft,

and every flame steals a sinner.

I stood upon the bridge, having risen so to look,

that, if I had not caught a rock, I should have

fallen down without being pushed.

And the Guide, who saw me thus attent, said:

"Within those fires are the spirits; each

swathes himself with that which burns him."

"Master," I replied, "from hearing thee I feel

more certain; but had already discerned it to

be so, and already wished to say to thee:

Who is in that fire, which comes so parted at the

top, as if it rose from the pyre where Eteocles

with his brother was placed?"3

He answered me: "Within it there Ulysses is

tortured, and Diomede; and thus they run

together in punishment, as erst in wrath;

and in their flame they groan for the ambush of

the horse, that made the door by which the

noble seed of the Romans came forth;

within it they lament the artifice, whereby Dei-

damia in death still sorrows for Achilles; and

there for the Palladium they suffer punishment."4

"If they within those sparks can speak," said I,

"Master! I pray thee much, and repray that

my prayer may equal a thousand,

deny me not to wait until the horned flame comes

hither; thou seest how with desire I bend me

towards it."

and he to me: "Thy request is worthy of much

praise, and therefore I accept it; but do thou

refrain thy tongue.

Let me speak: for I have conceived what thou

wishest; and they, perhaps, because they were

Greeks, might disdain thy words."

After the flame had come where time and place

seemed fitting to my Guide, I heard him speak

in this manner:

"O ye, two in one fire! if I merited of you

whilst I lived, if I merited of you much or

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little,

when on earth I wrote the High Verses, move

ye not; but let the one of you tell where he,

having lost himself, went to die."

The greater horn of the ancient flame began to

shake itself, murmuring, just like a flame that

struggles with the wind.

Then carrying to and from the top, as if it were

the tongue that spake, threw forth a voice, and

said: "When

I departed from Circe, who beyond a year detained

me there near Gaeta,5 ere Aeneas thus

had named it,

neither fondness for my son, nor reverence for

my aged father,6 nor the due love that should

have cheered Penelope,

could conquer in me the ardour that I had to

gain experience of the world, and of human

vice and worth;

I put forth on the deep open sea, with but one

ship, and with that small company, which had

not deserted me.

both the shores I saw as far as Spain, far as

Morocco; and saw Sardinia and the other

isles which that sea bathes round.

I and my companions were old and tardy, when

we came to that narrow pass, where Hercules

assigned his landmarks

to hinder man from venturing farther: on the

right hand, I left Seville; on the other, had

already left Ceuta.

'O brothers!' I said, 'who through a hundred

thousand dangers have reached the West, deny

not, to this the brief vigil

of your senses that remains, experience of the

unpeopled world behind the Sun.

Consider your origin: ye were not formed to

live like brutes, but to follow virtue and

knowledge.'

With this brief speech I made my companions so

eager for the voyage, that I could hardly then

have checked them;

and, turning the poop towards morning, we of

our oars made wings for the foolish flight,

always gaining on the left.

Night already saw the other pole, with all its

stars; and ours so low, that it rose not from

the ocean floor.

Five times the light beneath the Moon had been

rekindled and quenched as oft, since we had

entered on the arduous passage,

when there appeared to us a Mountain, dim with

distance; and to me it seemed the highest I

had ever seen.

We joyed, and soon our joy was turned to grief:

for a tempest rose from the new land, and

struck the forepart of our ship.

Three times it made her whirl round with all

the waters; at the fourth, made the poop rise up and prow

go down, as pleased Another, till the sea was closed above us."7

[From: Divine Comedy, Inferno, XXVI, 25-l42] ___________________________-

Notes

1.In the summertime, when the days are longest.

2.Elisha, having seen Elijah carried up to heaven in a chariot of fire, was mocked by little children, who were devoured by bears, as a punishment for having scoffed at him (2 Kings ii. II, l2, 23,24).

3. Eteocles and Polynices, sons of Oedipus, King of Thebes, quarrelled over the succession to the throne. This dispute gave rise to the war of the Seven against Thebes, in the course of which the brothers slew each other in

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single combat. Their hatred continued after death, for, according to Statius (Thebaid xii. 429,sqq.), the very flame of their funeral pyre was divided.

4.The Wooden Horse, in which were concealed the Greeks who opened the gates of Troy to their countrymen, thus raising the siege and causing Aeneas and his followers to leave the city. -- Deidamia, daughter of Lycomedes, King of Scyros, at whose court Thetis had left her son Achilles in female disguise, to prevent his taking part in the expedition against Troy. After Deidamia had become enamoured of Achilles and borne him a son, Ulysses discovered the hero's secret and induced him to sail for Troy, whereupon Deidamia died of grief. -- The Palladium, a statue of Pallas, was stolen by Ulysses because the fortunes of Troy were supposed to depend on it.

5.Gaeta, a town in southern Italy, near Naples, thus named by Aeneas after his nurse, Caïeta (Aen. vii. l-4). Circe, daughter of the Sun, was a sorceress who turned men into beasts. Ulysses visited her and compelled her to restore her victims to human form.

6.The name of Ulysses' father was Laertes, that of his son Telemachus.

7.This account of Ulysses' voyage is entirely of Dante's invention. The "columns of Hercules" (Strait of Gibraltar) were regarded as the limit of the habitable world. Verses l27-l29 indicate that the ship had crossed the equator. The western mountain is the mountain-island of Purgatory.

INFERNO, CANTO XXXIII

Still the Ninth Circle, Second Ring. Ugolino's tale of his and his sons' death in a Pisan prison. Dante's invective against Pisa. The Third Ring, Ptolomea, where Traitors against their Guests jut out from ice, their eyes sealed by frozen tears. Fra Alberigo and Branca Doria, still alive on earth but already in Hell.

That sinner raised his mouth from his fierce meal,

then used the head that he had ripped apart

in back: he wiped his lips upon its hair.

Then he began: "You want me to renew

despairing pain that presses at my heart

even as I think back, before I speak.

But if my words are seed from which the fruit

is infamy for this betrayer whom

I gnaw, you'll see me speak and weep at once.

I don't know who you are or in what way

you've come down here; and yet you surely seem -

from what I hear - to be a Florentine.

You are to know I was Count Ugolino,

and this one here, Archbishop Ruggieri;

and now I'll tell you why I am his neighbor.

There is no need to tell you that, because

of his malicious tricks, I first was taken

and then was killed - since I had trusted him;

however, that which you cannot have heard -

that is, the cruel death devised for me -

you now shall hear and know if he has wronged me.

A narrow hole, a window in the cage

which takes its name from me, the Cage of Hunger

a tower where still others will be locked,

had, through its opening, already showed me

several moons, when I dreamed that bad dream

which rent the curtain of the future for me.

This man appeared to me as lord and master;

he hunted down the wolf and its young whelps

upon the mountain that prevents the Pisans

from seeing Lucca; and with lean and keen

and practiced hounds, he'd sent up front, before him,

Gualandi and Sismondi and Lanfranchi.

But after a brief course, it seemed to me

that both the father and the sons were weary;

I seemed to see their flanks torn by sharp fangs.

When I awoke at daybreak, I could hear

my sons, who were together with me there,

weeping within their sleep, asking for bread.

You would be cruel indeed if, thinking what

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my heart foresaw, you don't already grieve;

and if you don't weep now, when would you weep?

They were awake by now; the hour drew near

at which our food was usually brought,

and each, because of what he'd dreamed, was anxious;

below, I heard them nailing up the door

of what appalling tower; without a word,

I looked into the faces of my sons.

I did not weep; within, I turned to stone.

They wept; and my poor little Anselm said:

'Father, you look so...What is wrong with you?

At that I shed no tears and - all day long

and through the night that followed - did not answer

until another sun had touched the world.

As soon as a thin ray had made its way

into that sorry prison, and I saw,

reflected in four faces, my own gaze,

out of my grief, I bit at both my hands;

and they, who thought I'd done that out of hunger,

immediately rose and told me: 'Father,

it would be far less painful for us if

you ate of us; for you clothed us in this

sad flesh - it is for you to strip it off.'

Then I grew calm, to keep them from more sadness;

through that day and the next, we all were silent;

O hard earth, why did you not open?

But after we had reached the fourth day, Gaddo,

throwing himself, outstretched, down at my feet,

implored me: 'Father, why do you not help me?'

And there he died; and just as you see me,

I saw the other three fall one by one

between the fifth day and the sixth; at which,

now blind, I started groping over each;

and after they were dead, I called them for

two days; then fasting had more force than grief."

When he had spoken this, with eyes awry,

again he gripped the sad skull in his teeth,

which, like a dog's were strong down to the bone.

Ah, Pisa, you the scandal of the peoples

of that fair land where si is heard, because

your neighbors are so slow to punish you,

may, then, Caprara and Gorgona move

and build a hedge across the Arno's mouth,

so that it may drown every soul in you!

For if Count Ugolino was reputed

to have betrayed your fortresses, there was

no need to have his sons endure such torment.

INFERNO, CANTO XXXIV

The Ninth Circle, Fourth Ring, called Judecca, where Traitors against their Benefactors are fully covered by ice. Dis, or Lucifer, emperor of that kingdom, his three months rendering Judas, Brutus, and Cassius. Descent of Virgil and Dante down Lucifer's body to the other , southern hemisphere. Their vision of the stars.

"Vexilla regis prodeunt inferni

toward us; and therefore keep your eyes ahead,"

my master said, "to see if you can spy him."

Just as, when night falls on our hemisphere

or when a heavy fog is blowing thick.

a windmill seems to wheel when seen far off,

so then I seemed to see that sort of structure.

And next, because the wind was strong, I shrank

behind my guide; there was no other shelter.

And now - with fear I set it down in meter -

I was where all the shades were fully covered

but visible as wisps of straw in glass.

There some lie flat and others stand erect,

one on his head, and one upon his soles;

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and some bend face to feet, just like a bow.

But after we had made our way ahead,

my master felt he now should have me see

that creature who was once a handsome presence;

he stepped aside and made me stop, and said:

"Look! Here is Dis, and this the place where you

will have to arm yourself with fortitude."

O reader, do not ask of me how I

grew faint and frozen then - I cannot write it:

all words would fall far short of what it was.

I did not die, and I was not alive;

think for yourself, if you have any wit,

what I became, deprived of life and death.

The emperor of the despondent kingdom

so towered from the ice, up from midchest,

that I match better with a giant's breadth

than giants match the measure of his arms:

now you can gauge the size of all of him

if it is in proportion to such parts.

If he was once as handsome as he now

is ugly and, despite that, raised his brows

against his Maker, one can understand

how every sorrow has its source in him!

I marveled when I saw that, on his head,

he had three faces: one - in front - bloodred;

and then another two that, just above

the midpoint of each shoulder, joined the first;

and at the crown, all three were reattached;

the right looked somewhat yellow, somewhat white;

the left in its appearance was like those

who come from where the Nile, descending, flows.

Beneath each face of his, two wings spread out,

as broad as suited so immense a bird:

I've never seen a ship with sails so wide.

They had no feathers, but were fashioned like

a bat's; and he was agitating them

so that three winds made their way out from him -

and all Cocytus froze before those winds.

He wept out of six eyes; and down three chins,

tears gushed together with a bloody froth.

Within each mouth - he used it like a grinder -

with gnashing teeth he tore to bits a sinner,

so that he brought much pain to three at once.

The forward sinner found that biting nothing

when matched against the clawing, for at times

his back was stripped completely of its hide.

"That soul up there who has to suffer most,"

my master said: "Judas Iscariot -

his head inside, he jerks his legs without.

Of those two others, with their heads beneath,

the one who hangs from that black snout is Brutus -

see how he writhes and does not say a word!

That other, who seems so robust, is Cassius.

But night is come again, and it is time

for us to leave; we have seen everything."

PURGATORIO, CANTO I

[The Branch of Rush]

(Humility)

When we came there where the dew is striving

with the sun, being at a place where, in the

cool air, slowly it is scattered;

both hands outspread, gently my Master laid

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upon the sweet grass; wherefore I who was

ware of his purpose,

raised towards him my tear-stained cheeks: there

made he all revealed my hue which Hell had

hidden.

We came then on to the desert shore, that never

saw man navigate its waters who thereafter

knew return.

There he girded me even as it pleased Another:

O marvel! that such as he plucked the lowly

plant,1 even such did it forthwith spring up

again, there whence he tore it.

[From: Divine Comedy, Purgatorio, I, l2l-l36]

Note

1.The lowly plant is the Rush, symbolizing Humility.

PURGATORIO, CANTO XXX

[Beatrice]

Ere now have I seen, at dawn of day the

eastern part all rosy red, and the rest of

heaven adorned with fair clear sky,

and the face of the sun rise shadowed, so that by

the tempering of the mists the eye long time

endured him:

so within a cloud of flowers, which rose from

the angelic hands and fell down again within

and without,

olive-crowned over a white veil, a lady appeared

to me, clad, under a green mantle, with hue

of living flame.1

[From: Divine Comedy, Purgatorio, XXX, 22-33]

Note

1. The three colours of Beatrice's dress stand for Faith (white), Hope (green), Charity (red), which are the three Theological, or Christian, Virtues.

PARADISO, CANTO XXXIII

[The Vision of God]

In the profound and shining being of the deep

light appeared to me three circles, of three

colours and one magnitude;1

one by the second as Iris by Iris seemed reflected,

and the third seemed a fire breathed

equally from one and from the other.2

Oh but how scant the utterance, and how faint,

to my conception! and it, to what I saw, is

such that it sufficeth not to call it little.

O Light eternal who only in thyself abidest, only

thyself dost understand, and self-understood,

self-understanding, turnest love on and smilest

at thyself!

That circling which appeared in thee to be

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conceived as a reflected light, by mine eyes

scanned some little,

in itself, of its own colour, seemed to be painted

with our effigy,3 and thereat my sight was all

committed to it.

As the geometer who all sets himself to measure

the circle and who findeth not,4 think as he

may, the principle he lacketh;

such was I at this new seen spectacle; I would

perceive how the image consorteth with the

circle, and how it settleth there;

but not for this were my proper wings, save

that my mind was smitten by a flash wherein

its will came to it.

To the high fantasy here power failed; but

already my desire and will were rolled --

even as a wheel that moveth equally -- by the

Love that moves the sun and the other stars.5

[From: Divine Comedy, Paradiso, XXXIII, ll5-l45]

Notes

1. The threefold oneness of God is disclosed by the symbol of three mysterious rings -- three distinct circles of three different colours, but occupying exactly the same place.

2."The third": the Holy Ghost, who emanates equally from Father and Son.

3.The second ring, depicting in itself, with its own colour, the figure of mankind, reveals the human nature in Christ and its absolute fusion with the divine.

4.The problem is the squaring of the circle.

5.At this point a sudden flash of Grace for one instant illumines the beholder with full understanding, and his individual will is merged in the World-Will of the Creator.

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FRANCESCO PETRARCA (L304 - L374)

MOUNT VENTOUX

Mount Ventoux (Windy) in Southern France. -- This letter, written when Petrarch was about thirty-two years old, is addressed to Dionysius of Borgo San Sepolcro, who was an Augustinian monk and a professor of theology at the University of Paris. Petrarch made him his spiritual confidant and received from him, in addition to spiritual counsels, a copy of St. Agustine's Confessions, to which reference is made in the course of the letter.

Today I made the ascent of the highest mountain in this region, which is not improperly called Ventosum.1 My only motive was the wish to see what so great an elevation had to offer. I have had the expedition in mind for many years; for, as you know, I have lived in this region from infancy, having been cast here by that fate which determines the affairs of men. Consequently the mountain, which is visible from a great distance, was ever before my eyes, and I conceived the plan of some time doing what I have at last accomplished today... When I came to look about for a companion I found, strangely enough, that hardly one among my friends seemed suitable, so rarely do we meet with just the right combination of personal tastes and characteristics, even among those who are dearest to us. This one was too apathetic, that one over-anxious; this one too slow, that one too hasty; one was too sad, another over-cheerful; one more simple, another more sagacious, than I desired. I feared this one's taciturnity and that one's loquacity. The heavy deliberation of some repelled me as much as the lean incapacity of others. I rejected those who were likely to irritate me by a cold want of interest, as well as those who might weary me by their excessive enthusiasm. Such defects,

however grave, could be borne with at home, for charity suffereth all things, and friendship accepts any burden; but it is quite otherwise on a journey, where every weakness becomes much more serious. So, as I was bent upon pleasure and anxious that my enjoyment should be unalloyed, I looked about me with unusual care, balanced against one another the various characteristics of my friends, and without committing any breach of friendship I silently condemned every trait which might prove disagreeable on the way. And -- would you believe it? -- I finally turned homeward for aid, and proposed the ascent to my only brother, who is younger than I, and with whom you are well acquainted. He was delighted and gratified beyond measure by the thought of holding the place of a friend as well as of a brother.

At the time fixed we left the house, and by evening reached Malaucène, which lies at the foot of the mountain, to the north. Having rested there a day, we finally made the ascent this morning, with no companions except two servants; and a most difficult task it was. The mountain is a very steep and almost inaccessible mass of stony soil... It was a long day, the air fine. We enjoyed the advantages of vigour of mind and strength and agility of body, and everything else essential to those engaged in such an undertaking, and so had no other difficulties to face than those of the region itself. We found an old shepherd in one of the mountain dales, who tried, at great length, to dissuade us from the ascent, saying that some fifty years before he had, in the same ardour of youth, reached the summit, but had gotten for his pains nothing except fatigue and regret, and clothes and body torn by the rocks and briars. No one, so far as he or his companions knew, had ever tried the ascent before or after him. But his counsels increased rather than diminished our desire to proceed, since youth is suspicious of warnings. So the old, man, finding that his efforts were in vain, went a little way with us, and pointed out a rough path among the rocks, uttering many admonitions, which he continued to send after us even after we had left him behind. Surrendering to him all such garments or other possessions as might prove burdensome to us, we made ready for the ascent, and started off at a good pace. But, as usually happens, fatigue quickly followed upon our excessive exertion, and we soon came to a halt at the top of a certain cliff. Upon starting on again we went more slowly, and I especially advanced along the rocky way with a more deliberate step. While my brother chose a direct path straight up the ridge, I weakly took an easier one which really descended. When I was called back, and the right road was shown me, I replied that I hoped to find a better way round on the other side, and that I did not mind going farther if the path were only less steep. This was just an excuse for my laziness; and when the others had already reached a considerable height I was still wandering in the valleys. I had failed to find an easier path, and had only increased the distance and difficulty of the ascent. At last I became disgusted with the intricate way I had chosen, and resolved to ascend without more ado. When I reached my brother, who, while waiting for me, had had ample opportunity for rest, I was tired and irritated. We walked along together for a time, but hardly had we passed the first spur when I forgot about the circuitous route which I had just tried, and took a lower one again. Once more I followed an easy, roundabout path

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through winding valleys, only to find myself soon in my old difficulty. I was simply trying to avoid the exertion of the ascent; but no human ingenuity can

alter the nature of things, or cause anything to reach a height by going down. Suffice it to say that, much to my vexation and my brother's amusement, I made this same mistake three times or more during a few hours.

After being frequently misled in this way, I finally sat down in a valley and transferred my winged thoughts from things corporeal to the immaterial, addressing myself as follows: -- "What thou hast repeatedly experienced today in the ascent of this mountain, happens to thee, as to many, in the journey toward the blessed life. But this is not so readily perceived by men, since the motions of the body are obvious and external while those of the soul are invisible and hidden. Yes, the life which we call blessed is to be sought for on a high eminence, and strait is the way that leads to it. Many, also, are the hills that lie between, and we must ascend, by a glorious stairway, from strength to strength. At the top is at once the end of our struggles and the goal for which we are bound. All wish to reach this goal, but, as Ovid says, 'To wish is little; we must long with the utmost eagerness to gain our end', Thou certainly dost ardently desire, as well as simply wish, unless thou deceivest thyself in this matter, as in so many others. What then, doth hold thee back? Nothing, assuredly, except that thou wouldst take a path which seems, at first thought, more easy, leading through low and worldly pleasures. But nevertheless in the end, after long wanderings, thou must perforce either climb the steeper path, under the burden of tasks foolishly deferred, to its blessed culmination, or lie down in the valley of thy sins, and ( I shudder to think of it), if the shadow of death overtake thee, spend an eternal night amid constant torments". These thoughts stimulated both body and mind in a wonderful degree for facing the difficulties which yet remained. Oh, that I might traverse in spirit that other road for which I long day and night, even as today I overcame material obstacles by my bodily exertions! And I know not why it should not be far easier, since the swift immortal soul can reach its goal in the twinkling of an eye, without passing through space, while my progress today was necessarily slow, dependent as I was upon a failing body weighed down by heavy members.

One peak of the mountain, the highest of all, the country people call 'Sonny' why, I do not know, unless by antiphrasis, as I have sometimes suspected in other instances; for the peak in question would seem to be the father of all the surrounding ones. On its top is a little level place, and there we could at last rest our tired bodies.

Now, my father, since you have followed the thoughts that spurred me on my ascent, listen to the rest of the story, and devote one hour, I pray you, to reviewing the experiences of my entire day. At first, owing to the unaccustomed quality of the air and the effect of the great sweep of view spread out before me, I stood like one dazed. I beheld the clouds under our feet, and what I had read of Athos and Olympus seemed less incredible as I myself witnessed the same things from a mountain of less fame. I turned my eyes toward Italy, whither my heart most inclined. The Alps, rugged and snow-capped, seemed to rise close by, although they were really at a great distance; the very same Alps through which that fierce enemy of the Roman name once made his way, bursting the rocks, if we may believe the report, by the application of vinegar. I sighed, I must confess, for the skies of Italy, which I beheld rather with my mind than with my eyes. An inexpressible longing came over me to see once more my friends and my country. At the same time, I reproached myself for this double weakness, springing, as it did, from a soul not yet steeled to manly resistance. And yet there were excuses for both of these cravings, and a number of distinguished writers might be summoned to support me.

Then a new idea took possession of me, and I shifted my thoughts to a consideration of time rather than place. "Today it is ten years since, having completed thy youthful studies, thou didst leave Bologna. Eternal God! In the name of immutable wisdom, think what alterations in thy character this intervening period has beheld! I pass over a thousand instances. I am not yet in safe harbour where I can calmly recall past storms. The time may come when I can review in due order all the experiences of the past, saying with St. Augustine, I desire to recall my foul actions and the carnal corruption of my soul, not because I love them, but that I may the more love thee, O my God'. Much that is doubtful and evil still clings to me, but what I once loved, that I love no longer. And yet what am I saying? I still love it, but with shame, but with heaviness of heart. Now, at last, I have confessed the truth. So it is. I love, but love what I would not love, what I would that I might hate. Though loath to do so, though constrained, though sad and sorrowing, still I do love, and I feel in my miserable self the truth of the well known words, 'I will hate if I can; if not, I will love against my will'...

These and similar reflections occurred to me, my father. I rejoiced in my progress, mourned my weaknesses, and commiserated the universal instability of human conduct. I had well-nigh forgotten where I was and our object in coming; but at last I dismissed my anxieties, which were better suited to other surroundings, and resolved to look about me and see what we had come to see. The sinking sun and the lengthening shadows of the mountain were already warning us that the time was near at hand when we must go. As if suddenly wakened from sleep, I turned

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about and gazed toward the west. I was unable to discern the summits of the Pyrenees, which form the barrier between France and Spain; not because of any intervening obstacle that I know of but owing simply to the insufficiency of our mortal vision. But I could see with the utmost clearness, off to the right the mountains of the region about Lyons, and to the left the bay of Marseilles and the waters that lash the shores of Aigues Mortes, altho' all these places were so distant that it would require a journey of several days to reach them. Under our very eyes flowed the Rhone.

While I was thus dividing my thoughts, now turning my attention to some terrestrial object that lay before me, now raising my soul, as I had done my body, to higher planes, it occurred to me to look into my copy of St. Augustine's Confessions, a gift that I owe to your love, and that I always have about me, in memory of both the author and the giver. I opened the compact little volume, small indeed in size, but of infinite charm, with the intention of reading whatever came to hand, for I could happen upon nothing that would be otherwise than edifying and devout. Now it chanced that the tenth book presented itself. My brother, waiting to hear something of St. Augustine's from my lips, stood attentively by. I call him, and God too, to witness that where I first fixed my eyes it was written: "And men go about to wonder at the heights of the mountains, and the mighty waves of the sea, and the wide sweep of rivers, and the circuit of the ocean, and the revolution of the stars, but themselves they consider not." I was abashed, and, asking my brother (who was anxious to hear more), not to annoy me, I closed the book, angry with myself that I should still be admiring earthly things who might long ago have learned from even the pagan philosophers that nothing is wonderful but the soul, which, when great itself, finds nothing great outside itself. Then, in truth, I was satisfied that I had seen enough of the mountain; I turned my inward eye upon myself, and from that time not a syllable fell from my lips until we had reached the bottom again...

[From: Familiarum Rerum, IV,1]

RIME SPARSE

I Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono Voi ch'ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond'io nudriva 'l core in sul mio primo giovenile errore quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono, del vario stile in ch'io piango et ragiono fra le vane speranze e 'l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono. Ma ben veggio or sí come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno; et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto, e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.

[From: Canzoniere, I]

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CXXIX Di pensier in pensier, di monte in monte

Di pensier in pensier, di monte in monte mi guida Amor, ch'ogni segnato calle provo contrario a la tranquilla vita. Se 'n solitaria piaggia, rivo o fonte, se 'nfra duo poggi siede ombrosa valle, ivi s'acqueta l'alma sbigottita; et come Amor l'envita, or ride, or piange, or teme, or s'assecura; e 'l volto che lei segue ov'ella il mena si turba et rasserena, et in un esser picciol tempo dura; onde a la vista huom di tal vita experto diria: Questo arde, et di suo stato è incerto. Per alti monti et per selve aspre trovo qualche riposo: ogni habitato loco è nemico mortal degli occhi miei. A ciascun passo nasce un penser novo de la mia donna, che sovente in gioco gira 'l tormento ch'i' porto per lei; et a pena vorrei cangiar questo mio viver dolce amaro, ch'i' dico: Forse anchor ti serva Amore ad un tempo migliore; forse, a te stesso vile, altrui se' caro. Et in questa trapasso sospirando: Or porrebbe esser vero? or come? or quando? Ove porge ombra un pino alto od un colle talor m'arresto, et pur nel primo sasso disegno co la mente il suo bel viso. Poi ch'a me torno, trovo il petto molle de la pietate; et alor dico: Ahi lasso, dove se' giunto! et onde se' diviso! Ma mentre tener fiso posso al primo pensier la mente vaga, et mirar lei, et obliar me stesso, sento Amor sí da presso,

che del suo proprio error l'alma s'appaga: in tante parti et sí bella la veggio, che se l'error durasse, altro non cheggio. I' l'ò piú volte (or chi fia che mi 'l creda?) ne l'acqua chiara et sopra l'erba verde veduto viva, et nel tronchon d'un faggio e 'n bianca nube, sí fatta che Leda avria ben detto che sua figlia perde, come stella che 'l sol copre col raggio; et quanto in piú selvaggio loco mi trovo e 'n piú deserto lido, tanto piú bella il mio pensier l'adombra. Poi quando il vero sgombra quel dolce error, pur lí medesmo assido me freddo, pietra morta in pietra viva, in guisa d'uom che pensi et pianga et scriva. Ove d'altra montagna ombra non tocchi, verso 'l maggiore e 'l piú expedito giogo tirar mi suol un desiderio intenso; indi i miei danni a misurar con gli occhi comincio, e 'ntanto lagrimando sfogo di dolorosa nebbia il cor condenso, alor ch'i' miro et penso quanta aria dal bel viso mi diparte che sempre m'è sí presso et sí lontano. Poscia fra me pian piano: Che sai tu, lasso? Forse in quella parte or di tua lontananza si sospira. Et in questo penser l'alma respira. Canzone, oltra quell'alpe là dove il ciel è piú sereno et lieto mi rivedrai sovr'un ruscel corrente, ove l'aura si sente d'un fresco et odorifero laureto. Ivi è 'l mio cor, et quella che 'l m'invola; qui veder poi l'imagine mia sola.

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SONETTI

1 Era il giorno ch'al sol si scoloraro per la pietà del suo Factore i rai, quando i' fui preso, et non me ne guardai, ché i be' vostr'occhi, donna, mi legaro. Tempo non mi parea da far riparo contra' colpi d'Amor: però m'andai secur, senza sospetto; onde i miei guai nel commune dolor s'incominciaro. Tròvommi Amor del tutto disarmato, et aperta la via per gli occhi al core, che di lagrime son fatti uscio et varco: però, al mio parer, non li fu honore ferir me de saetta in quello stato, a voi armata non mostrar pur l'arco. 2 Se la mia vita da l'aspro tormento si può tanto schermire, et dagli affanni, ch'i' veggia per vertù degli ultimi anni, donna, de' be' vostr'occhi il lume spento, e i cape' d'oro fin farsi d'argento, et lassar le ghirlande e i verdi panni, e 'l viso scolorir, che ne' miei danni a·llamentar mi fa pauroso et lento: pur mi darà tanta baldanza Amore ch'i' vi discovrirò de' mei martiri qua' sono stati gli anni e i giorni et l'ore; et se 'l tempo è contrario ai be' desiri, non fia ch'almen non giunga al mio dolore alcun soccorso di tardi sospiri. 3 Mille fiate, o dolce mia guerrera, per aver co' begli occhi vostri pace v'aggio proferto il cor; mâ voi non piace mirar sì basso colla mente altera. Et se di lui fors'altra donna spera, vive in speranza debile et fallace: mio, perché sdegno ciò ch'a voi dispiace, esser non può già mai così com'era. Or s'io lo scaccio, et e' non trova in voi ne l'exilio infelice alcun soccorso, né sa star sol, né gire ov'altri il chiama, poria smarrire il suo natural corso: che grave colpa fia d'ambeduo noi, et tanto più de voi, quanto più v'ama. 4 Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human l'arena stampi. Altro schermo non trovo che mi scampi dal manifesto accorger de le genti, perché negli atti d'alegrezza spenti di fuor si legge com'io dentro avampi: sì ch'io mi credo omai che monti et piagge et fiumi et selve sappian di che tempre

sia la mia vita, ch'è celata altrui. Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch'Amor non venga sempre ragionando con meco, et io co·llui. 5 Benedetto sia 'l giorno, e 'l mese, et l'anno, et la stagione, e 'l tempo, et l'ora, e 'l punto, e 'l bel paese, e 'l loco ov'io fui giunto da' duo begli occhi che legato m'ànno; et benedetto il primo dolce affanno ch'i' ebbi ad esser con Amor congiunto, et l'arco, et le saette ond'i' fui punto, et le piaghe che 'nfin al cor mi vanno. Benedette le voci tante ch'io chiamando il nome de mia donna ò sparte, e i sospiri, et le lagrime, e 'l desio; et benedette sian tutte le carte ov'io fama l'acquisto, e 'l pensier mio, ch'è sol di lei, sì ch'altra non v'à parte. 6 Per mirar Policleto a prova fiso con gli altri ch'ebber fama di quell'arte mill'anni, non vedrian la minor parte de la beltà che m'ave il cor conquiso. Ma certo il mio Simon fu in paradiso onde questa gentil donna si parte: ivi la vide, et la ritrasse in carte per far fede qua giù del suo bel viso. L'opra fu ben di quelle che nel cielo si ponno imaginar, non qui tra noi, ove le membra fanno a l'alma velo. Cortesia fe'; né la potea far poi che fu disceso a provar caldo et gielo, et del mortal sentiron gli occhi suoi. 7 Io amai sempre, et amo forte anchora, et son per amar più di giorno in giorno quel dolce loco, ove piangendo torno spesse fiate, quando Amor m'accora. Et son fermo d'amare il tempo et l'ora ch'ogni vil cura mi levâr d'intorno; et più colei, lo cui bel viso adorno di ben far co' suoi exempli m'innamora. Ma chi pensò veder mai tutti insieme per assalirmi il core, or quindi or quinci, questi dolci nemici, ch'i' tant'amo? Amor, con quanto sforzo oggi mi vinci! Et se non ch'al desio cresce la speme, i' cadrei morto, ove più viver bramo.

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8 Erano i capei d'oro a l'aura sparsi che 'n mille dolci nodi gli avolgea, e 'l vago lume oltra misura ardea di quei begli occhi, ch'or ne son sì scarsi; e 'l viso di pietosi color' farsi, non so se vero o falso, mi parea: i' che l'ésca amorosa al petto avea, qual meraviglia se di sùbito arsi? Non era l'andar suo cosa mortale, ma d'angelica forma; et le parole sonavan altro, che pur voce humana. Uno spirto celeste, un vivo sole fu quel ch'i' vidi; et se non fosse or tale, piagha per allentar d'arco non sana. 9 Amor m'à posto come segno a strale, come al sol neve, come cera al foco, et come nebbia al vento; et son già roco, donna, mercé chiamando, et voi non cale. Dagli occhi vostri uscìo 'l colpo mortale, contra cui non mi val tempo né loco; da voi sola procede, et parvi un gioco, il sole e 'l foco e 'l vento ond'io son tale. I pensier' son saette, e 'l viso un sole, e 'l desir foco: e 'nseme con quest'arme mi punge Amor, m'abbaglia et mi distrugge; et l'angelico canto et le parole, col dolce spirto ond'io non posso aitarme, son l'aura inanzi a cui mia vita fugge. 10 Pace non trovo, et non ò da far guerra; e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio; et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra; et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio. Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra, né per suo mi riten né scioglie il laccio; et non m'ancide Amore, et non mi sferra, né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio. Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido; et bramo di perir, et cheggio aita; et ò in odio me stesso, et amo altrui. Pascomi di dolor, piangendo rido; egualmente mi spiace morte et vita: in questo stato son, donna, per voi. 11 In qual parte del ciel, in quale ydea era l'exempio, onde Natura tolse quel bel viso leggiadro, in ch'ella volse mostrar qua giù quanto lassù potea? Qual nimpha in fonti, in selve mai qual dea, chiome d'oro sì fino a l'aura sciolse? quando un cor tante in sé vertuti accolse? benché la somma è di mia morte rea. Per divina bellezza indarno mira chi gli occhi de costei già mai non vide come soavemente ella gli gira; non sa come Amor sana, et come ancide,

chi non sa come dolce ella sospira, et come dolce parla, et dolce ride. 12 Lieti fiori et felici, et ben nate herbe che madonna pensando premer sòle; piaggia ch'ascolti sue dolci parole, et del bel piede alcun vestigio serbe; schietti arboscelli et verdi frondi acerbe, amorosette et pallide viole; ombrose selve, ove percote il sole che vi fa co' suoi raggi alte et superbe; o soave contrada, o puro fiume, che bagni il suo bel viso et gli occhi chiari et prendi qualità dal vivo lume; quanto v'invidio gli atti honesti et cari! Non fia in voi scoglio omai che per costume d'arder co la mia fiamma non impari. 13 Or che 'l ciel et la terra e 'l vento tace et le fere e gli augelli il sonno affrena, Notte il carro stellato in giro mena et nel suo letto il mar senz'onda giace, vegghio, penso, ardo, piango; et chi mi sface sempre m'è inanzi per mia dolce pena: guerra è 'l mio stato, d'ira et di duol piena, et sol di lei pensando ò qualche pace. Così sol d'una chiara fonte viva move 'l dolce et l'amaro ond'io mi pasco; una man sola mi risana et punge; e perché 'l mio martir non giunga a riva, mille volte il dì moro et mille nasco, tanto da la salute mia son lunge. 14 Se 'l dolce sguardo di costei m'ancide, et le soavi parolette accorte, et s'Amor sopra me la fa sì forte sol quando parla, over quando sorride, lasso, che fia, se forse ella divide, o per mia colpa o per malvagia sorte, gli occhi suoi da Mercé, sì che di morte, là dove or m'assicura, allor mi sfide? Però s'i' tremo, et vo col cor gelato, qualor veggio cangiata sua figura, questo temer d'antiche prove è nato. Femina è cosa mobil per natura: ond'io so ben ch'un amoroso stato in cor di donna picciol tempo dura. 15 Tra quantunque leggiadre donne et belle giunga costei ch'al mondo non à pare, col suo bel viso suol dell'altre fare quel che fa 'l dì de le minori stelle. Amor par ch'a l'orecchie mi favelle, dicendo: Quanto questa in terra appare, fia 'l viver bello; et poi 'l vedrem turbare, perir vertuti, e 'l mio regno con elle. Come Natura al ciel la luna e 'l sole,

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a l'aere i vènti, a la terra herbe et fronde, a l'uomo et l'intellecto et le parole, et al mar ritollesse i pesci et l'onde: tanto et più fien le cose oscure et sole, se Morte li occhi suoi chiude et asconde. 16 Onde tolse Amor l'oro, et di qual vena, per far due treccie bionde? e 'n quali spine colse le rose, e 'n qual piaggia le brine tenere et fresche, et die' lor polso et lena? onde le perle, in ch'ei frange et affrena dolci parole, honeste et pellegrine? onde tante bellezze, et sì divine, dì quella fronte, più che 'l ciel serena? Da quali angeli mosse, et di qual spera, quel celeste cantar che mi disface, sì che m'avanza omai da disfar poco? Di qual sol nacque l'alma luce altera di que' belli occhi ond'io ò guerra et pace, che mi cuocono il cor in ghiaccio e 'n foco? 17 Passer mai solitario in alcun tetto non fu quant'io, né fera in alcun bosco, ch'i' non veggio 'l bel viso, et non conosco altro sol, né quest'occhi ànn'altro obiecto. Lagrimar sempre è 'l mio sommo diletto, il rider doglia, il cibo assentio et tòsco, la notte affanno, e 'l ciel seren m'è fosco, et duro campo di battaglia il letto. Il sonno è veramente, qual uom dice, parente de la morte, e 'l cor sottragge a quel dolce penser che 'n vita il tene. Solo al mondo paese almo, felice, verdi rive fiorite, ombrose piagge, voi possedete, et io piango, il mio bene. 18 La sera desiare, odiar l'aurora soglion questi tranquilli et lieti amanti; a me doppia la sera et doglia et pianti, la matina è per me più felice hora: ché spesso in un momento apron allora l'un sole et l'altro quasi duo levanti, di beltate et di lume sì sembianti, ch'anco il ciel de la terra s'innamora; come già fece allor che' primi rami verdeggiâr, che nel cor radice m'ànno, per cui sempre altrui più che me stesso ami. Così di me due contrarie hore fanno; et chi m'acqueta è ben ragion ch'i' brami, et tema et odî chi m'adduce affanno. 19 Gli occhi di ch'io parlai sì caldamente, et le braccia et le mani e i piedi e 'l viso, che m'avean sì da me stesso diviso, et fatto singular da l'altra gente;

le crespe chiome d'òr puro lucente e 'l lampeggiar de l'angelico riso, che solean fare in terra un paradiso, poca polvere son, che nulla sente. Et io pur vivo, onde mi doglio et sdegno, rimaso senza 'l lume ch'amai tanto, in gran fortuna e 'n disarmato legno. Or sia qui fine al mio amoroso canto: secca è la vena de l'usato ingegno, et la cetera mia rivolta in pianto. 20 Quanta invidia io ti porto, avara terra, ch'abbracci quella cui veder m'è tolto, et mi contendi l'aria del bel volto, dove pace trovai d'ogni mia guerra! Quanta ne porto al ciel, che chiude et serra et sì cupidamente à in sé raccolto lo spirto da le belle membra sciolto, et per altrui sì rado si diserra! Quanta invidia a quell'anime che 'n sorte ànno or sua santa et dolce compagnia la qual io cercai sempre con tal brama! Quant'a la dispietata et dura Morte, ch'avendo spento in lei la vita mia, stassi ne' suoi begli occhi, et me non chiama! 21 Zephiro torna, e 'l bel tempo rimena e i fiori et l'erbe, sua dolce famiglia, et garrir Progne et pianger Philomena, et primavera candida et vermiglia. Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena; Giove s'allegra di mirar sua figlia; l'aria et l'acqua et la terra è d'amor piena; ogni animal d'amar si riconsiglia. Ma per me, lasso, tornano i più gravi sospiri, che del cor profondo tragge quella ch'al ciel se ne portò le chiavi; et cantar augelletti, et fiorir piagge, e 'n belle donne honeste atti soavi sono un deserto, et fere aspre et selvagge. 22 Vago augelletto che cantando vai, over piangendo, il tuo tempo passato, vedendoti la notte e 'l verno a lato e 'l dì dopo le spalle e i mesi gai, se, come i tuoi gravosi affanni sai, così sapessi il mio simile stato, verresti in grembo a questo sconsolato a partir seco i dolorosi guai. I' non so se le parti sarian pari, ché quella cui tu piangi è forse in vita, di ch'a me Morte e 'l ciel son tanto avari; ma la stagione et l'ora men gradita, col membrar de' dolci anni et de li amari, a parlar teco con pietà m'invita.

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GIOVANNI BOCCACCIO (L3L3 - L375)

DECAMERON

PROEMIO

COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE IN DIECI DI' DETTE DA SETTE DONNE E DA TRE GIOVANI UOMINI. Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.

Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn'altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sè medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sè nella mente m'ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette né suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso . Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de'benefici già ricevuti, datimi da coloro à quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall'altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostenta mento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia à bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto. E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro à dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri, dà piaceri, dà comandamenti de'padri, delle madri, de'fratelli e de'mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora , seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de'quali modi ciascuno ha forza di

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trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sè e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore. Adunque, acciò che in parte per me s'ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all'altre è assai l'ago e '1 fuso e l'arcolaio,intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso, tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto. Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così né moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia; a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi dà suoi legami m'ha conceduto il potere attendere à lor piaceri.

GIORNATA PRIMA - INTRODUZIONE

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A me medesimo incresce andarmi tanto tra tante miserie ravolgendo l’per che, volendo omai lasciare star quella parte di quelle che io acconciamente posso schifare, dico che, stando in questi termini la nostra città, d'abitatori quasi vota, addivenne, sì come io poi da persona degna di fede sentii, che nella venerabile chiesa di Santa Maria Novella, un martedì mattina, non essendovi quasi alcuna altra persona, uditi li divini ufici in abito lugubre quale a sì fatta stagione si richiedea, si ritrovarono sette giovani donne tutte l'una all'altra o per amistà o per vicinanza o per parentado congiunte, delle quali niuna il venti e ottesimo anno passato avea né era minor di diciotto, savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forma e ornata di costumi e di leggiadra onestà. Li nomi delle quali io in propria forma racconterei, se giusta cagione da dirlo non mi togliesse, la quale è questa: che io non voglio che per le raccontate cose da loro, che seguono, e per l'ascoltare nel tempo avvenire alcuna di loro possa prender vergogna, essendo oggi alquanto ristrette le leggi al piacere che allora, per le cagioni di sopra mostrate, erano non che alla loro età ma a troppo più matura larghissime; né ancora dar materia agl'invidiosi, presti a mordere"' ogni laudevole vita, di diminuire in niuno atto l'onestà delle valorose donne con isconci parlari. E però, acciò che quello che ciascuna dicesse senza confusione si possa comprendere

appresso, per nomi alle qualità di ciascuna convenienti o in tutto o in parte intendo di nominarle: delle quali la prima, e quella che di più età era, Pampinea chiameremo e al seconda Fiammetta, Filomena la terza e la quarta Emilia, e appresso Lauretta diremo alla quinta e alla sesta Neifile, e l'ultima Elissa non senza cagion nomeremo.

Le quali, non già da alcuno proponimento tirate ma per caso in una delle parti della chiesa adunatesi, quasi in cerchio a seder postesi, dopo più sospiri lasciato stare il dir de' paternostri, seco delle qualità del tempo molte e varie cose cominciarono a ragionare.

E dopo alcuno spazio, tacendo l'altre, così Pampinea cominciò a parlare: - Donne mie care, voi potete, così come io, molte volte avere udito che a niuna persona fa ingiuria chi onestamente usa la sua ragione. Natural ragione è, di ciascuno che ci nasce, la sua vita quanto può aiutare e conservare e difendere: e concedesi questo tanto, che alcuna volta è già addivenuto che, per guardar quella, senza colpa alcuna si sono uccisi degli uomini. E se questo concedono le leggi, nelle sollecitudini delle quali è il ben vivere d'ogni mortale, quanto maggiormente, senza offesa d'alcuno, è a noi e a qualunque altro onesto alla conservazione della nostra vita prendere quegli rimedii che noi possiamo? Ognora che io vengo ben raguardando alli nostri modi di questa mattina e ancora di più a quegli di più altre passate e pensando chenti e quali li nostri ragionamenti sieno, io comprendo, e voi similemente il potete prendere, ciascuna di noi di se medesima dubitare: né di ciò mi maraviglio niente, ma maravigliomi forte, avvedendomi ciascuna di noi aver sentimento di donna, non prendersi per voi a quello di che ciascuna di voi

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E perciò, acciò che noi per ischifaltà o per traccuttaggine non cadessimo in quello, di che noi per avventura per alcuna maniera, volendo, potremmo scampare ( non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe), io giudicherei ottimamente fatto che noi, sì come noi siamo, sì come molti innanzi a noi hanno fatto e fanno, di questa terra uscissimo; e, fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri, onestamente a' nostri luoghi in contado, de' quali a ciascuna di noi è gran copia, ce ne andassimo a stare; e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo.

meritamente teme alcun compenso . Noi dimoriamo qui, al parer mio, non altramente che se essere volessimo o dovessimo testimonie di quanti corpi morti ci sieno alla sepoltura recati o d'ascoltare se i frati di qua entro, de' quali il numero è quasi venuto al niente, alle debite ore cantino i loro ufici, o a dimostrare a qualunque ci apparisce, né nostri abiti, la qualità e la quantità delle nostre miserie. E, se di quinci usciamo, o veggiamo corpi morti o infermi trasportarsi dattorno, o veggiamo coloro li quali per li loro difetti l'autorità delle publiche leggi già condannò ad essilio, quasi quelle schernendo, per ciò che sentono gli essecutori di quelle o morti o malati, con dispiacevoli impeti per la terra discorrere, o la feccia della nostra città, del nostro sangue riscaldata, chiamarsi becchini e in strazio di noi andar cavalcando e discorrendo per tutto, con disoneste canzoni rimproverandoci i nostri danni. Né altra cosa alcuna ci udiamo, se non: - I cotali son morti - , e - Gli altrettali sono per morire -; e, se ci fosse chi fargli, per tutto dolorosi pianti udiremmo.

E, se alle nostre case torniamo, non so se a voi così come a me adiviene: io, di molta famiglia, niuna altra persona in quella se non la mia fante trovando, impaurisco e quasi tutti i capelli addosso mi sento arricciare; e parmi, dovunque io vado o dimoro per quella, l'ombre di coloro che sono trapassati vedere, e non con quegli visi che io soleva, ma con una vista orribile, non so donde il loro nuovamente venuta, spaventarmi.

Per le quali cose, e qui e fuori di qui e in casa mi sembra star male; e tanto più ancora quanto egli mi pare che niuna persona, la quale abbia alcun polso e dove possa andare, come noi abbiamo, ci sia rimasa altri che noi. E ho sentito e veduto più volte, ( se pure alcuni ce ne sono) quegli cotali, senza fare distinzione alcuna dalle cose oneste a quelle che oneste non sono, solo che l'appetito le cheggia, e soli e accompagnati, e di dì e di notte, quelle fare che più di diletto lor porgono. E non che le solite persone, ma ancora le racchiuse ne' monisteri, faccendosi a credere che quello a lor si convenga e non si disdica che all'altre, rotte della obedienza le leggi, datesi a' diletti carnali, in tal guisa avvisando scampare, son divenute lascive e dissolute.

E se così è (che essere manifestamente si vede) che faccian noi qui? che attendiamo? che sognamo? perché più pigre e lente alla nostra salute, che tutto il rimanente de' cittadini, siamo? reputianci noi men care che tutte l'altre? o crediam la nostra vita con più forti catene esser legata al nostro corpo che quella degli altri sia, e così di niuna cosa curar dobbiamo, la quale abbia forza d'offenderla? Noi erriamo, noi siamo ingannate; che bestialità è la nostra se così crediamo; quante volte noi ci vorrem ricordare chenti e quali sieno stati i giovani e le donne vinte da questa crudel pestilenza, noi ne vedremo apertissimo argomento.

Quivi s'odono gli uccelletti cantare, veggionvisi verdeggiare i colli e le pianure, e i campi pieni di biade non altramenti ondeggiare che il mare, e d'alberi ben mille maniere, e il cielo più apertamente, il quale, ancora che crucciato ne sia, non per ciò le sue bellezze eterne ne nega, le quali molto più belle sono a riguardare che le mura vote della nostra città. Ed evvi oltre a questo l'aere assai più fresco, e di quelle cose che alla vita bisognano in questi tempi v'è la copia maggiore, e minore il numero delle noie. Per ciò che, quantunque quivi così muoiano i lavoratori come qui fanno i cittadini, v'è tanto minore il dispiacere quanto vi sono, più che nella città, rade le case e gli abitanti. E qui d'altra parte, se io ben veggio, noi non abbandoniam persona, anzi ne possiamo con verità dire molto più tosto abbandonate; per ciò che i nostri, o morendo o da morte fuggendo, quasi non fossimo loro, sole in tanta afflizione n'hanno lasciate.

Niuna riprensione adunque può cadere in cotal consiglio seguire; dolore e noia e forse morte, non seguendolo, potrebbe avvenire. E per ciò, quando vi paia, prendendo le nostre fanti e con le cose oportune faccendoci seguitare, oggi in questo luogo e domane in quello quella alle grezza e festa prendendo che questo tempo può porgere, credo che sia ben fatto a dover fare; e tanto dimorare in tal guisa, che noi veggiamo (se prima da morte non siam sopragiunte ) che fine il cielo riserbi a queste cose. E ricordivi che egli non si disdice più a noi l'onesta mente andare, che faccia a gran parte dell'altre lo star disonestamente.

L'altre donne, udita Pampinea, non solamente il suo consiglio lodarono, ma disiderose di seguitarlo avevan già più particularmente tra se' cominciato a trattar del modo, quasi, quindi levandosi da sedere, a mano a mano dovessero entrare in cammino. Ma Filomena, la quale discretissima era, disse: - Donne, quantunque ciò che ragiona Pampinea sia ottimamente detto, non è per ciò così da correre a farlo, come mostra che voi vogliate fare. Ricordivi che noi siamo tutte femine, e non ce n'ha niuna sì fanciulla, che non possa ben conoscere come le femine sien ragionate insieme e senza la provedenza d'alcuno uomo si sappiano regolare. Noi siamo mobili, riottose, sospettose,

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pusillanime e paurose; per le quali cose io dubito forte, se noi alcuna altra guida non prendiamo che la nostra, che questa compagnia non si dissolva troppo più tosto, e con meno onor di noi, che non ci bisognerebbe; e per ciò è buono a provederci avanti che cominciamo.

Disse allora Elissa:

- Veramente gli uomini sono delle femine capo e senza l'ordine loro rare volte riesce alcuna nostra opera a laudevole fine; ma come possiam noi aver questi uomini? Ciascuna di noi sa che de' suoi son la maggior parte morti, e gli altri che vivi rimasi sono, chi qua e chi là in diverse brigate, senza saper noi dove, vanno fuggendo quello che noi cerchiamo di fuggire; e il prender gli strani non saria convenevole; per che, se alla nostra salute, vogliamo andar dietro, trovare si convien modo di sì fattamente ordinarci che, dove per diletto e per riposo andiamo, noia e scandalo non ne segua.

Mentre tralle donne erano così fatti ragionamenti, e ecco entrar nella chiesa tre giovani non per ciò tanto che meno di venticinque anni fosse l'età di colui che più giovane era di loro; ne quali né perversità di tempo né perdita d'amici o di parenti né paura di se medesimi avea potuto amor, non che spegnere, ma raffreddare. De' quali, l'uno era chiamato Panfilo, e Filostrato il secondo, e l'ultimo Dioneo, assai piacevole e costumato ciascuno; e andavano cercando per loro somma consolazione, in tanta turbazione di cose, di vedere le loro donne, le quali per ventura tutte e tre erano tra le predette sette, come che dell'altre alcune ne fossero congiunte parenti d'alcuni di loro. Né prima esse agli occhi corsero di costoro, che costoro furono da esse veduti; per che Pampinea allor cominciò sorridendo:

- Ecco che la fortuna a' nostri cominciamenti è favorevole, e hacci davanti posti discreti giovani e valorosi, li quali volentieri e guida e servidor ne saranno, se di prendergli a questo uficio non schiferemo.

Neifile allora, tutta nel viso divenuta per vergogna vermiglia, per ciò che l'una era di quelle che dall'un de giovani era amata, disse:

- Pampinea, per Dio, guarda ciò che tu dichi; io conosco assai apertamente niuna altra cosa che tutta buona dir potersi di qualunque s'è l'uno di costoro, e credogli a troppo maggior cosa che questa non è sofficienti; e similmente avviso loro buona compagnia e onesta dover tenere non che a noi, ma a molto più belle e più care che noi non siamo. Ma, per ciò che assai manifesta cosa è loro essere d'alcune che qui ne sono innamorati, temo che infamia e riprensione, senza nostra colpa o di loro, non ce ne segua se gli meniamo.

Disse allora Filomena:

- Questo non monta niente: là dove io onestamente viva né mi rimorda d'alcuna cosa la coscienza, parli chi vuole in contrario; Iddio e la verità l'arme per me prenderanno. Ora, fossero essi pur già disposti a venire, ché veramente, come Pampinea disse, potremmo dire la fortuna essere alla nostra andata favoreggiante.

L'altre, udendo costei così fattamente parlare, non solamente si tacquero ma con consentimento concorde tutte dissero che essi fosser chiamati e loro si dicesse la loro intenzione e pregassersi che dovesse loro piacere in così fatta andata lor tener compagnia. Per che senza più parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a alcun di loro per consanguinità era congiunta, verso loro, che fermi stavano a riguardarle, si fece e, con lieto viso salutatigli, loro la lor disposizione fe' manifesta, e pregogli per parte di tutte che con puro e fratellevole animo a tener loro compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero primieramente essere beffati; ma, poi che videro che da dovero parlava la donna, rispuosero lietamente se' essere apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all'opera, anzi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato là dove intendevan d'andare, la seguente mattina, cioè il mercoledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti della città, si misero in via; né oltre a due piccole miglia si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquanto alle nostre strade, di varii albuscelli e piante tutte di verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo della quale era un palagio con bello e gran cortile nel mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascuna verso di se' bellissima e di liete dipinture raguardevole e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravigliosi e con pozzi d'acque freschissime e con volte piene di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a sobrie e oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle camere i letti fatti, e ogni cosa di fiori, quali nella stagione si potevano avere, piena e di giunchi giuncata, la vegnente brigata trovò con suo non poco piacere.

*** *** ***

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E postisi nella prirna giunta a sedere, disse Dioneo, il quale oltre a ogni altro era piacevole giovane e pieno di motti:- Donne, il vostro senno, più che il nostro avvedimento ci ha qui guidati. Io non so quello che de' vostri pensieri voi v'intendete di fare; li miei lasciai io dentro dalla porta della città allora che io con voi poco fa me ne uscì fuori; e per ciò, o voi a sollazzare e a ridere e a cantare con meco insieme vi disponete (tanto, dico, quanto alla vostra dignità s'appartiene), o voi mi licenziate che io per li miei pensieri mi ritorni e steami nella città tribolata.-

A cui Pampinea, non d'altra maniera che se similmente tutti i suoi avesse da se' cacciati, lieta rispose:

- Dioneo, ottimamente parli: festevolmente viver si vuole, né altra cagione dalle tristizie ci ha fatto fuggire. Ma, per ciò che le cose che sono senza modo non possono lungamente durare, io, che cominciatrice fui de' ragionamenti da' quali questa così bella compagnia è stata fatta pensando al continuare della nostra letizia, estimo che di necessità sia convenire esser tra noi alcuno principale, il quale noi e onoriamo e ubbidiamo come maggiore, nel quale ogni pensiero stea di doverci a lietamente viver disporre. E acciò che ciascun pruovi il peso della sollecitudine insieme col piacere della

maggioranza, e per conseguente, d'una parte e d'altra tratto, non possa, chi nol pruova, invidia avere alcuna, dico che a ciascun per un giorno s'attribuisca e '1 peso e l'onore; e chi il primo di noi esser debba nella elezion di noi tutti sia; di quelli che seguiranno, come l'ora del vespro s'avvicinerà, quegli o quella che a colui o a colei piacerà, che quel giorno avrà avuta la signoria; e questo cotale, secondo il suo arbitrio, del tempo che la sua signoria dee bastare, del luogo e del modo nel quale a vivere abbiamo ordini e disponga.

Queste parole sommamente piacquero e ad una voce lei per reina del primo giorno elessero; e Filomena, corsa prestamente ad uno alloro, per ciò che assai volte aveva udito ragionare di quanto onore le frondi di quello eran degne e quanto degno d'onore facevano chi n'era meritamente incoronato, di quello alcuni rami colti, ne le fece una ghirlanda onorevole e apparente, la quale messale sopra la testa, fu poi mentre durò la lor compagnia manifesto segno a ciascuno altro della real signoria e maggioranza.

Pampinea, fatta reina, comandò che ogni uom tacesse, avendo già fatti i famigliari de' tre giovani e le loro fanti, che eran quattro, davanti chiamarsi, e tacendo ciascun, disse:

- Acciò che io prima essemplo dea a tutte voi, per lo quale, di bene in meglio procedendo, la nostra compagnia con ordine e con piacere e senza alcuna vergogna viva e duri quanto a grado ne fia, io primieramente costituisco Parmeno, famigliar di Dioneo, mio siniscalco, e a lui la cura e la sollecitudine di tutta la nostra famiglia commetto e ciò che al servigio della sala appartiene. Sirisco, famigliar di Panfilo, voglio che di noi sia spenditore e tesoriere e di Parmeno seguiti i comandamenti. Tindaro al servigio di Filostrato e degli altri due attenda nelle camere loro, qualora gli altri, intorno a' loro ufici impediti, attendere non vi potessero. Misia mia fante, e Licisca, di Filomena, nella cucina saranno continue e quelle vivande diligentemente apparecchieranno che per Parmeno loro saranno imposte. Chimera, di Lauretta, e Stratilia, di Fiammetta, al governo delle camere delle donne intente vogliamo che stieno e alla nettezza de' luoghi dove staremo; e ciascuno generalmente, per quanto egli avrà cara la nostra grazia, vogliamo e comandiamo che si guardi, dove che egli vada, onde che egli torni, che egli oda o vegga, niuna novella, altro che lieta, ci rechi di fuori.

E questi ordini sommariamente dati, li quali da tutti commendati furono, lieta drizzata in piè disse:

- Qui sono giardini, qui sono pratelli, qui altri luoghi dilettevoli assai, per li quali ciascuno a suo piacer sollazzando si vada, e come terza suona, ciascun qui sia, acciò che per lo fresco si mangi.

Licenziata adunque dalla nuova reina la lieta brigata, li giovani insieme colle belle donne, ragionando dilettevoli cose, con lento passo si misono per uno giardino, belle ghirlande di varie frondi faccendosi e amorosamente cantando.

E poi che in quello tanto fur dimorati quanto di spazio dalla reina avuto aveano, a casa tornati, trovarono Parmeno studiosamente aver dato principio al suo uficio, per ciò che, entrati in sala terrena, quivi le tavole messe videro con tovaglie bianchissime e con bicchieri che d'ariento parevano, e ogni cosa di fiori di ginestra coperta; per che, data l'acqua alle mani, come piacque alla reina, secondo il giudicio di Parmeno tutti andarono a sedere.

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Le vivande dilicatamente fatte vennero e finissimi vini fur presti; e senza più chetamente li tre famigliari servirono le tavole. Dalle quali cose, per ciò che belle e ordinate erano rallegrato ciascuno, con piacevoli motti e con festa mangiarono. E levate le tavole (con ciò fosse cosa che tutte le donne carolar sapessero e similmente i giovani e parte di loro ottima mente e sonare e cantare), comandò la reina che gli strumenti venissero; e per comandamento di lei Dioneo preso un liuto e la Fiammetta una viuola, cominciarono soavemente una danza a sonare. Per che la reina coll'altre donne, insieme co' due giovani presa una carola, con lento passo, mandati i famigliari a mangiare, a carolar cominciarono; e quella finita, canzoni vaghette e liete cominciarono a cantare.

E in questa maniera stettero tanto che tempo parve alla reina d'andare a dormire: per che, data a tutti la licenzia, li tre giovani alle lor camere, da quelle delle donne separate, se n'andarono, le quali co' letti ben fatti e così di fiori piene come la sala trovarono, e simigliantemente le donne le loro; per che, spogliatesi, s'andarono a riposare.

Non era di molto spazio sonata nona, che la reina, levatasi, tutte l'altre fece levare, e similmente i giovani, affermando esser nocivo il troppo dormire di giorno; e così se n'andarono in uno pratello, nel quale l'erba era verde e grande né vi poteva d'alcuna parte il sole; e quivi sentendo un soave venticello venire, sì come volle la lor reina, tutti sopra la verde erba si puosero in cerchio a sedere, a' quali ella disse così:

- Come voi vedete, il sole è alto e il caldo è grande, né altro s'ode che le cicale su per gli ulivi; per che l'andare al presente in alcun luogo sarebbe senza dubbio sciocchezza. Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo. Voi non avrete compiuta ciascuno di dire una sua novelletta, che il sole fia declinato e il caldo mancato, e potremo dove più a grado vi fia andare prendendo diletto; e per ciò, quando questo che io dico vi piaccia (ché disposta sono in ciò di seguire il piacer vostro), faccianlo; e dove non vi piacesse, ciascuno infino all'ora del vespro quello faccia che più gli piace. Le donne parimente e gli uomini tutti lodarono il novellare.

- Adunque, disse la reina, se questo vi piace, per questa Giornata prima voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado.

E rivolta a Panfilo, il quale alla sua destra sedea, piacevolmente gli disse che con una delle sue novelle all'altre desse principio. Laonde Panfilo, udito il comandamento, prestamente, essendo da tutti ascoltato, cominciò così.

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Giovanni Boccaccio

DECAMERON ACCORDING TO HOLLYWOOD

COMINCIA IL LIBRO CHIAMATO DECAMERON, COGNOMINATO PRENCIPE GALEOTTO, NEL QUALE SI CONTENGONO CENTO NOVELLE IN DIECI DI' DETTE DA SETTE DONNE E

DA TRE GIOVANI UOMINI.

Umana cosa è aver compassione degli afflitti: e come che a ciascuna persona stea bene, a coloro è massimamente richiesto li quali già hanno di conforto avuto mestiere e hannol trovato in alcuni; fra quali, se alcuno mai n'ebbe bisogno o gli fu caro o già ne ricevette piacere, io sono uno di quegli. Per ciò che, dalla mia prima giovinezza infino a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore, forse più assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto più reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava un tempo stare, più di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea. Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto.

Ma sì come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn'altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sè medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sè nella mente m'ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette né suoi più cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso .

Ma quantunque cessata sia la pena, non per ciò è la memoria fuggita de'benefici già ricevuti, datimi da coloro à quali per benivolenza da loro a me portata erano gravi le mie fatiche: ne passerà mai, sì come io credo, se non per morte. E per ciò che la gratitudine, secondo che io credo, trall'altre virtù è sommamente da commendare e il contrario da biasimare, per non parere ingrato ho meco stesso proposto di volere, in quel poco che per me si può, in cambio di ciò che io ricevetti, ora che libero dir mi posso, e se non a coloro che me atarono alli quali per avventura per lo lor senno o per la loro buona ventura non abbisogna, a quegli almeno a qual fa luogo, alcuno alleggiamento prestare. E quantunque il mio sostenta mento, o conforto che vogliam dire, possa essere e sia à bisognosi assai poco, nondimeno parmi quello doversi più tosto porgere dove il bisogno apparisce maggiore, sì perché più utilità vi farà e si ancora perché più vi fia caro avuto.

E chi negherà questo, quantunque egli si sia, non molto più alle vaghe donne che agli uomini convenirsi donare? Esse dentro à dilicati petti, temendo e vergognando, tengono l'amorose fiamme nascose, le quali quanto più di forza abbian che le palesi coloro il sanno che l'hanno provate: e oltre a ciò, ristrette dà voleri, dà piaceri, dà comandamenti de'padri, delle madri, de'fratelli e de'mariti, il più del tempo nel piccolo circuito delle loro camere racchiuse dimorano e quasi oziose sedendosi, volendo e non volendo in una medesima ora , seco rivolgendo diversi pensieri, li quali non è possibile che sempre sieno allegri. E se per quegli alcuna malinconia, mossa da focoso disio, sopravviene nelle lor menti, in quelle conviene che con grave noia si dimori, se da nuovi ragionamenti non è rimossa: senza che elle sono molto men forti che gli uomini a sostenere; il che degli innamorati uomini non avviene, sì come noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quello, per ciò che a loro, volendo essi, non manca l'andare a torno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de'quali modi ciascuno ha forza di trarre, o in tutto o in parte, l'animo a sè e dal noioso pensiero rimuoverlo almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale, con un modo o con altro, o consolazion sopraviene o diventa la noia minore.

Adunque, acciò che in parte per me s'ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, per ciò che all'altre è assai l'ago e '1 fuso e l'arcolaio,intendo di raccontare cento novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e di tre giovani nel pistelenzioso, tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate al lor diletto.

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Nelle quali novelle piacevoli e aspri casi d'amore e altri fortunati avvenimenti si vederanno così né moderni tempi avvenuti come negli antichi; delle quali le già dette donne, che queste leggeranno, parimente diletto delle sollazzevoli cose in quelle mostrate e utile consiglio potranno pigliare, in quanto potranno cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare: le quali cose senza passamento di noia non credo che possano intervenire. Il che se avviene, che voglia Idio che così sia; a Amore ne rendano grazie, il quale liberandomi dà suoi legami m'ha conceduto il potere attendere à lor piaceri.

GIORNATA SECONDA - NOVELLA DECIMA

Paganino da Monaco ruba la moglie a messer Ricciardo da Chinzica, il quale, sappiendo dove ella è, va e diventa amico di Paganino. Raddomandagliele, ed egli, dove ella voglia, gliele concede. Ella non vuol con lui tornare, e, morto messer Ricciardo, moglie di Paganin diviene.

Ciascuno della onesta brigata sommamente commendò per bella la novella dalla loro reina contata, e massimamente Dioneo, al quale solo per la presente giornata restava il novellare. Il quale, dopo molte commendazioni di quella fatte, disse.

Belle donne, una parte della novella della reina m'ha fatto mutare consiglio di dirne una che all'animo m'era, a doverne un'altra dire; e questa è la bestialità di Bernabò, come che bene ne gli avvenisse, e di tutti gli altri che quello si danno a credere che esso di creder mostrava, cioè che essi andando per lo mondo e con questa e con quella ora una volta ora un'altra sollazzandosi, s'imaginano che le donne a casa rimase si tengano le mani a cintola, quasi noi non conosciamo, che tra esse nasciamo e cresciamo e stiamo, di che elle sien vaghe. La qual dicendo, ad un'ora vi mosterrò chente sia la sciocchezza di questi cotali, e quanto ancora sia maggiore quella di coloro li quali, sé più che la natura possenti estimando, si credono quello con dimostrazioni favolose potere che essi non possono, e sforzansi d'altrui recare a quello che essi sono, non patendolo la natura di chi è tirato.

Fu dunque in Pisa un giudice, più che di corporal forza dotato d'ingegno, il cui nome fu messer Ricciardo di Chinzica, il qual, forse credendosi con quelle medesime opere sodisfare alla moglie che egli faceva agli studi, essendo molto ricco, con non piccola sollicitudine cercò d'avere bella e giovane donna per moglie; dove e l'uno e l'altro, se così avesse saputo consigliar sé come altrui faceva, doveva fuggire. E quello gli venne fatto, per ciò che messer Lotto Gualandi per moglie gli diede una sua figliuola, il cui nome era Bartolomea, una delle più belle e delle più vaghe giovani di Pisa, come che poche ve n'abbiano che lucertole verminare non paiano. La quale il giudice menata con grandissima festa a casa sua, e fatte le nozze belle e magnifiche, pur per la prima notte incappò una volta per consumare il matrimonio a toccarla, e di poco fallò che egli quella una non fece tavola; il quale poi la mattina, sì come colui che era magro e secco e di poco spirito, convenne che con vernaccia e con confetti ristorativi e con altri argomenti nel mondo si ritornasse.

Or questo messer lo giudice, migliore stimatore delle sue forze divenuto che stato non era avanti, incominciò ad insegnare a costei un calendario buono da fanciulli che stanno a leggere, e forse già stato fatto a Ravenna. Per ciò che, secondo che egli le mostrava, niun dì era che non solamente una festa, ma molte non ne fossero; a reverenza delle quali per diverse cagioni mostrava l'uomo e la donna doversi astenere da così fatti congiugnimenti, sopra questi aggiugnendo digiuni e quattro tempora e vigilie d'apostoli e di mille altri santi, e venerdì e sabati, e la domenica del Signore e la quaresima tutta, e certi punti della luna e altre eccezioni molte, avvisandosi forse che così feria far si convenisse con le donne nel letto, come egli faceva talvolta piatendo alle civili. E questa maniera (non senza grave malinconia della donna, a cui forse una volta ne toccava il mese e appena) lungamente tenne, sempre guardandola bene, non forse alcuno altro le 'nsegnasse conoscere li dì da lavorare, come egli l'aveva insegnate le feste.

Avvenne che, essendo il caldo grande, a messer Ricciardo venne disidero d'andarsi a diportare ad un suo luogo molto bello vicino a Montenero, e quivi per prendere aere, dimorarsi alcun giorno, e con seco menò la sua bella donna. E quivi standosi, per darle alcuna consolazione, fece un giorno pescare, e sopra due barchette, egli in su una co'pescatori ed ella in su un'altra con altre donne, andarono a vedere; e tirandogli il diletto, parecchi miglia, quasi senza accorgersene, n'andarono infra mare.

E mentre che essi più attenti stavano a riguardare, subito una galeotta di Paganin da Mare, allora molto famoso corsale, sopravenne; e vedute le barche, si dirizzò a loro; le quali non poteron sì tosto fuggire, che Paganin non giugnesse quella ove eran le donne; nella quale veggendo la bella donna, senza altro volerne, quella, veggente messer Ricciardo che già era in terra, sopra la sua galeotta posta, andò via. La qual cosa veggendo messer lo giudice, il quale era sì geloso che temeva dello aere stesso, se esso fu dolente non è da domandare. Egli senza pro, e in Pisa e altrove, si dolfe della malvagità de'corsari, senza sapere chi la moglie tolta gli avesse o dove portatola.

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A Paganino, veggendola così bella, parve star bene; e, non avendo moglie, si pensò di sempre tenersi costei, e lei, che forte piagnea, cominciò dolcemente a confortare. E venuta la notte, essendo a lui il calendaro caduto da cintola e ogni festa o feria uscita di mente, la cominciò a confortare co'fatti, parendogli che poco fossero il dì giovate ]e parole; e per sì fatta maniera la racconsolò, che, prima che a Monaco giugnessero, il giudice e le sue leggi le furono uscite di mente, e cominciò a viver più lietamente del mondo con Paganino. Il quale, a Monaco menatala, oltre alle consolazioni che di dì e di notte le dava, onoratamente come sua moglie la tenea.

Poi a certo tempo pervenuto agli orecchi di messer Ricciardo dove la sua donna fosse, con ardentissimo disidero, avvisandosi niun interamente saper far ciò che a ciò bisognava, esso stesso dispose d'andar per lei, disposto a spendere per lo riscatto di lei ogni quantità di denari; e, messosi in mare, se n'andò a Monaco, e quivi la vide ed ella lui; la quale poi la sera a Paganino il disse e lui della sua intenzione informò.

La seguente mattina messer Ricciardo, veggendo Paganino, con lui s'accontò e fece in poca d'ora una gran dimestichezza e amistà, infignendosi Paganino di conoscerlo e aspettando a che riuscir volesse. Per che, quando tempo parve a messer Ricciardo, come meglio seppe e il più piacevolmente, la cagione per la quale venuto era gli discoperse, pregandolo che quello che gli piacesse prendesse e la donnagli rendesse. Al quale Paganino con lieto viso rispose:

- Messere, voi siate il ben venuto, e rispondendo in brieve, vi dico così : egli è vero che io ho una giovane in casa, la qual non so se vostra moglie o d'altrui si sia, per ciò che voi io non conosco, né lei altressì se non in tanto quanto ella è meco alcun tempo dimorata. Se voi siete suo marito, come voi dite, io, perciò che piacevol gentil uom mi parete, vi menerò da lei, e son certo che ella vi conoscerà bene. Se essa dice che così sia come voi dite e vogliasene con voi venire, per amor della vostra piacevolezza quello che voi medesimo vorrete per riscatto di lei mi darete; ove così non fosse, voi fareste villania a torre, per ciò che io son giovane uomo e posso così come un altro tenere una femina, e spezialmente lei che è la più piacevole che io vidi mai.

Disse allora messer Ricciardo: - Per certo ella è mia moglie, e se tu mi meni dove ella sia, tu il vedrai tosto; ella mi si gittarà incontanente al

collo; e per ciò non domando che altramenti sia se non come tu medesimo hai divisato. - Adunque,- disse Paganino- andiamo. Andatisene adunque nella casa di Paganino e stando in una sua sala, Paganino la fece chiamare, ed ella vestita e

acconcia uscì d'una camera e quivi venne dove messer Ricciardo con Paganino era, né altramenti fece motto a messer Ricciardo che fatto s'avrebbe ad un altro forestiere che con Paganino in casa sua venuto fosse. Il che vedendo il giudice, che aspettava di dovere essere con grandissima festa ricevuto da lei, si maravigliò forte, e seco stesso cominciò a dire: - Forse che la malinconia e il lungo dolore che io ho avuto, poscia che io la perdei m'ha si trasfigurato che ella non mi riconosce - Per che egli disse:

- Donna, caro mi costa il menarti a pescare, per ciò che simil dolore non si sentì mai a quello che io ho poscia portato che io ti perdei, e tu non pare che mi riconoschi, sì salvaticamente motto mi fai. Non vedi tu che io sono il tuo messer Ricciardo, venuto qui per pagare ciò che volesse questo gentile uomo, in casa cui noi siamo, per riaverti e per menartene; ed egli, la sua mercè, per ciò che io voglio, mi ti rende?

La donna rivolta a lui, un cotal pocolin sorridendo, disse: - Messere, dite voi a me? Guardate che voi non m'abbiate colta in iscambio, chè, quanto è io, non mi ricordo

che io vi vedessi giammai. Disse messer Ricciardo: - Guarda ciò. che tu dì , guatami bene; se tu ti vorrai bene ricordare, tu vedrai bene che io sono il tuo Ricciardo

di Chinzica. La donna disse: - Messere, voi mi perdonerete, forse non è egli così onesta cosa a me, come voi v'imaginate, il molto guardarvi,

ma io v'ho nondimeno tanto guardato, che io conosco che io mai più non vi vidi. Imaginossi messer Ricciardo che ella questo facesse per tema di Paganino, di non volere in sua presenza

confessare di conoscerlo; per che, dopo alquanto, chiese di grazia a Paganino che in camera solo con esso lei le potesse parlare. Paganin disse che gli piacea, sì veramente che egli non la dovesse contra suo piacere baciare; e alla donna comandò

che con lui in camera andasse e udisse ciò che egli volesse dire, e come le piacesse gli rispondesse. Andatisene adunque in camera la donna e messer Ricciardo soli, come a seder si furon posti, incominciò messer

Ricciardo a dire:

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- Deh, cuor del corpo mio, anima mia dolce, speranza mia, or non riconosci tu Ricciardo tuo che t'ama più che sé medesimo? Come può questo essere? Son io così trasfigurato? Deh, occhio mio bello, guatami pure un poco.

La donna incominciò a ridere e, senza lasciarlo dir più , disse: - Ben sapete che io non sono sì smimorata, che io non conosca che voi siete messer Ricciardo di Chinzica mio

marito; ma voi, mentre che io fu'con voi, mostraste assai male di conoscer me, per ciò che se voi eravate savio o sete, come volete esser tenuto, dovavate bene aver tanto conoscimento, che voi dovavate vedere che io era giovane e fresca e gagliarda, e per conseguente conoscere quello che alle giovani donne, oltre al vestire e al mangiar, bene che elle per vergogna nol dicano, si richiede; il che come voi il faciavate? voi il vi sapete.

E s'egli v'era più a grado lo studio delle leggi che la moglie, voi non dovavate pigliarla; benché a me non parve mai che voi giudice foste, anzi mi paravate un banditore di sagre e di feste, sì ben le sapavate, e le digiune e le vigilie. E dicovi che se voi aveste tante feste fatte fare a'lavoratori che le vostre possessioni lavorano, quante faciavate fare a colui che il mio piccol campicello aveva a lavorare, voi non avreste mai ricolto granello di grano. Sonmi abbattuta a costui che ha voluto Iddio, sì come pietoso ragguardatore della mia giovanezza, col quale io mi sto in questa camera, nella qual non si sa che cosa festa sia (dico di quelle feste che voi, più divoto a Dio che a'servigi delle donne, cotante celebravate), né mai dentro a quello uscio entrò né sabato né venerdì né vigilia né quattro tempora né quaresima, ch'è così lunga, anzi di dì e di notte ci si lavora e battecisi la lana; e poi che questa notte sonò mattutino, so bene come il fatto andò da una volta in su. E però con lui intendo di starmi e di lavorare mentre sarò giovane; e le feste e le perdonanze e i digiuni serbarmi a far quando sarò vecchia; e voi colla buona ventura sì ve n'andate il più tosto che voi potete, e senza me fate feste quante vi piace.

Messer Ricciardo, udendo queste parole, sosteneva dolore incomportabile, e disse, poi che lei tacer vide: - Deh, anima mia dolce, che parole son quelle che tu dì ? Or non hai tu riguardo all'onore de'parenti tuoi e al

tuo? Vuo'tu innanzi star qui per bagascia di costui e in peccato mortale, che a Pisa mia moglie? Costui, quando tu gli sarai rincresciuta, con gran vitupero di te medesima ti caccerà via; io t'avrò sempre cara, e sempre, ancora che io non volessi, sarai donna della casa mia. Dei tu per questo appetito disordinato e disonesto lasciar l'onor tuo e me, che t'amo più che la vita mia? Deh, speranza mia cara, non dir più così , voglitene venir con meco; io da quinci innanzi, poscia che io conosco il tuo disidero, mi sforzerò; e però, ben mio dolce, muta consiglio e vientene meco, ché mai ben non sentii poscia che tu tolta mi fosti.

A cui la donna rispose: - Del mio onore non intendo io che persona, ora che non si può, sia più di me tenera; fossonne stati i parenti

miei quando mi diedero a voi! li quali se non furono allora del mio, io non intendo d'essere al presente del loro; e se io ora sto in peccato mortaio, io starò quando che sia in peccato pestello: non ne siate più tenero di me. E dicovi così , che qui mi pare esser moglie di Paganino, e a Pisa mi pareva esser vostra bagascia, pensando che per punti di luna e per isquadri di geometria si convenivano tra voi e me congiugnere i pianeti, dove qui Paganino tutta la notte mi tiene in braccio e strignemi e mordemi, e come egli mi conci Iddio ve 'l dica per me. Anche dite voi che vi sforzerete: e di che? di farla in tre pace, e rizzare a mazzata? Io so che voi siete divenuto un prò cavaliere poscia che io non vi vidi. Andate, e sforzatevi di vivere; ché mi pare anzi che no che voi ci stiate a pigione, sì tisicuzzo e tristanzuol mi parete. E ancor vi dico più , che quando costui mi lascerà (ché non mi pare a ciò disposto, dove io voglia stare), io non intendo per ciò di mai tornare a voi, di cui, tutto premendovi, non si farebbe uno scodellin di salsa; per ciò che con mio grandissimo danno e interesse vi stetti una volta; per che in altra parte cercherei mia civanza. Di che da capo vi dico che qui non ha festa né vigilia; laonde io intendo di starmi; e per ciò, come più tosto potete, v'andate con Dio, se non che io griderò che voi mi vogliate sforzare.

Messer Ricciardo, veggendosi a mal partito e pure allora conoscendo la sua follia d'aver moglie giovane tolta essendo spossato, dolente e tristo s'uscì della camera e disse parole assai a Paganino, le quali non montarono un frullo. E ultimamente, senza alcuna cosa aver fatta, lasciata la donna, a Pisa si ritornò, e in tanta mattezza per dolor cadde che, andando per Pisa, a chiunque il salutava o d'alcuna cosa il domandava, niuna altra cosa rispondeva se non: - Il mal foro non vuol festa- ; e dopo non molto tempo si morì . Il che Paganin sentendo, e conoscendo l'amore che la donna gli portava, per sua legittima moglie la sposò, e senza mai guardar festa o vigilia o fare quaresima, quanto le gambe ne gli poteron portare, lavorarono e buon tempo si diedono. Per la qual cosa, donne mie care, mi pare che ser Bernabò disputando con Ambrogiuolo cavalcasse la capra in verso il chino.

GIORNATA SECONDA - NOVELLA NONA

Bernabò da Genova, da Ambrogiuolo ingannato, perde il suo e comanda che la moglie innocente sia uccisa. Ella scampa, e in abito d'uomo serve il soldano; ritrova lo 'ngannatore, e Bernabò conduce in Alessandria, dove lo ngannatore punito, ripreso abito feminile, col marito ricchi si tornano a Genova

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Avendo Elissa colla sua compassionevole novella il suo dover fornito, Filomena reina, la quale bella e grande era della persona, e nel viso più che altra piacevole e ridente, sopra sé recatasi, disse:

- Servar si vogliono i patti a Dioneo, e però, non restandoci altri che egli e io a novellare, io dirò prima la mia, ed esso, che di grazia il chiese, l'ultimo fia che dirà- ; e questo detto, così cominciò.

Suolsi tra'volgari spesse volte dire un cotal proverbio, che lo 'ngannatore rimane a piè dello 'ngannato; il quale non pare che per alcuna ragione si possa mostrare esser vero, se per gli accidenti che avvengono non si mostrasse. E per ciò seguendo la proposta, questo insiememente, carissime donne, esser vero come si dice m'è venuto in talento di dimostrarvi; né vi dovrà esser discaro d'averlo udito, acciò che dagli 'ngannatori guardar vi sappiate.

Erano in Parigi in uno albergo alquanti grandissimi mercatanti italiani, qual per una bisogna e qual per un'altra, secondo la loro usanza; e avendo una sera fra l'altre tutti lietamente cenato, cominciarono di diverse cose a ragionare; e d'un ragionamento in altro travalicando, pervennero a dire delle lor donne, le quali alle lor case avevan lasciate. E motteggiando cominciò alcuno a dire:

- Io non so come la mia si fa, ma questo so io bene, che quando qui mi viene alle mani alcuna giovinetta che mi piaccia, io lascio stare dall'un de'lati l'amore il quale io porto a mia mogliere, e prendo di questa qua quel piacere che io posso.

L'altro rispose: - E io fo il simigliante, perciò che se io credo che la mia donna alcuna sua ventura procacci, ella il fa, e se io nol

credo, sì 'l fa; e per ciò a fare a far sia; quale asino dà in parete, tal riceve. Il terzo quasi in questa medesima sentenzia parlando pervenne; e brievemente tutti pareva che a questo

s'accordassero, che le donne lasciate da loro non volessero perder tempo. Un solamente, il quale avea nome Bernabò Lomellin da Genova, disse il contrario, affermando sé di spezial

grazia da Dio avere una donna per moglie la più compiuta di tutte quelle virtù che donna o ancora cavaliere in gran parte o donzello dee avere, che forse in Italia ne fosse un'altra; per ciò che ella era bella del corpo e giovine ancora assai e destra e atante della persona, né alcuna cosa era che a donna appartenesse, sì come di lavorar lavorii di seta e simili cose, che ella non facesse meglio che alcun'altra. Oltre a questo niuno scudiere, o famigliar che dir vogliamo, diceva trovarsi, il quale meglio né più accortamente servisse ad una tavola d'un signore, che serviva ella, sì come colei che era costumatissima savia e discreta molto. Appresso questo la commendò meglio sapere cavalcare un cavallo, tenere uno uccello, leggere e scrivere e fare una ragione, che se un mercatante fosse; e da questo, dopo molte altre lode, pervenne a quello di che quivi si ragionava, affermando con saramento niun'altra più onesta né più casta potersene trovar di lei; per la qual cosa egli credeva certamente che, se egli diece anni o sempre mai fuor di casa dimorasse, che ella mai a così fatte novelle non intenderebbe con altro uomo.

Era, tra questi mercatanti che così ragionavano, un giovane mercatante, chiamato Ambrogiuolo da Piagenza, il quale di questa ultima loda che Bernabò avea data alla sua donna cominciò a far le maggior risa del mondo, e gabbando il domandò se lo 'mperadore gli avea questo privilegio più che a tutti gli altri uomini conceduto.

Bernabò, un poco turbatetto, disse che non lo 'mperadore ma Iddio, il quale poteva un poco più che lo 'mperadore, gli avea questa grazia conceduta.

Allora disse Ambrogiuolo: - Bernabò, io non dubito punto che tu non ti creda dir vero; ma, per quello che a me paia, tu hai poco riguardato

alla natura delle cose; per ciò che, se riguardato v'avessi, non ti sento di sì grosso ingegno che tu non avessi in quella cognosciuto cose che ti farebbono sopra questa materia più temperatamente parlare. E per ciò che tu non creda che noi, che molto largo abbiamo delle nostre mogli parlato, crediamo avere altra moglie o altrimenti fatta che tu, ma da uno naturale avvedimento mossi così abbiam detto, voglio un poco con teco sopra questa materia ragionare.

Io ho sempre inteso l'uomo essere il più nobile animale che tra'mortali fosse creato da Dio, e appresso la femina; ma l'uomo, sì come generalmente si crede e vede per opere, è più perfetto; e avendo più di perfezione, senza alcun fallo dee avere più di fermezza e così ha, per ciò che universalmente le femine sono più mobili, e il perché si potrebbe per molte ragioni naturali dimostrare, le quali al presente intendo di lasciare stare. Se l'uomo adunque è di maggior fermezza e non si può tenere che non condiscenda, lasciamo stare ad una che 'l prieghi, ma pure a non disiderare una che gli piaccia, e oltre al disidero, di far ciò che può acciò che con quella esser possa, e questo non una volta il mese, ma mille il giorno avvenirgli; che speri tu che una donna naturalmente mobile, possa fare a'prieghi, alle lusinghe, a'doni, a mille altri modi che userà uno uomo savio che l'ami? Credi che ella si possa tenere? Certo, quantunque tu te l'affermi, io non credo che tu 'l creda; e tu medesimo dì che la moglie tua è femina e ch'ella è di carne e d'ossa come sono l'altre. Per che, se così è, quegli medesimi disideri deono essere i suoi e quelle medesime forze che nell'altre sono a resistere a questi naturali appetiti; per che possibile è, quantunque ella sia

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onestissima, che ella quello che l'altre faccia; e niuna cosa possibile è così acerbamente da negare, o da affermare il contrario a quella, come tu fai.

Al quale Bernabò rispose e disse: - Io son mercatante e non fisofolo, e come mercatante risponderò. E dico che io conosco ciò che tu dì potere

avvenire alle stolte, nelle quali non è alcuna vergogna; ma quelle che savie sono hanno tanta sollecitudine dello onor loro, che elle diventan forti più che gli uomini, che di ciò non si curano, a guardarlo; e di queste così fatte è la mia.

Disse Ambrogiuolo: - Veramente, se per ogni volta che elle a queste così fatte novelle attendono, nascesse loro un corno nella

fronte, il quale desse testimonianza di ciò che fatto avessero, io mi credo che poche sarebber quelle che v'attendessero; ma, non che il corno nasca, egli non se ne pare a quelle che savie sono né pedata né orma; e la vergogna e 'l guastamento del l'onore non consiste se non nelle cose palesi; per che, quando possono occultamente, il fanno, o per mattezza lasciano. E abbi questo per certo che colei sola è casta, la quale o non fu mai da alcun pregata, o se pregò, non fu esaudita. E quantunque io conosca per naturali e vere ragioni così dovere essere, non ne parlerei io così appieno come io fo, se io non ne fossi molte volte e con molte stato alla pruova. E dicoti così , che se io fossi presso a questa tua così santissima donna, io mi crederrei in brieve spazio di tempo recarla a quello che io ho già dell'altre recate.

Bernabò turbato rispose: - Il quistionar con parole potrebbe distendersi troppo; tu diresti e io direi, e alla fine niente monterebbe. Ma poi

che tu dì che tutte sono così pieghevoli e che 'l tuo ingegno è cotanto, acciò che io ti faccia certo della onestà della mia donna, io son disposto che mi sia tagliata la testa se tu mai a cosa che ti piaccia in cotale atto la puoi conducere; e se tu non puoi, io non voglio che tu perda altro che mille fiorin d'oro.

Ambrogiuolo, già in su la novella riscaldato, rispose: - Bernabò, io non so quello ch'io mi facessi del tuo sangue se io vincessi; ma se tu hai voglia di vedere pruova

di ciò che io ho già ragionato, metti cinquemilia fiorin d'oro de'tuoi, che meno ti deono esser cari che la testa, contro a mille de'miei; e dove tu niuno termine poni, io mi voglio obbligare d'andare a Genova e infra tre mesi dal dì che io mi partirò di qui aver della tua donna fatta mia volontà, e in segno di ciò recarne meco delle sue cose più care e sì fatti e tanti indizi che tu medesimo confesserai esser vero; sì veramente che tu mi prometterai sopra la tua fede infra questo termine non venire a Genova né scrivere a lei alcuna cosa di questa materia.

Bernabò disse che gli piacea molto; e quantunque gli altri mercatanti, che quivi erano, s'ingegnassero di sturbar questo fatto, conoscendo che gran male ne potea nascere, pure erano de'due mercatanti sì gli animi accesi, che, oltre al voler degli altri, per belle scritte di lor mano s'obbligarono ]'uno all'altro.

E fatta la obbligagione, Bernabò rimase e Ambrogiuolo quanto più tosto potè se ne venne a Genova. E dimoratovi alcun giorno e con molta cautela informatosi del nome della contrada e de'costumi della donna, quello e più ne 'ntese che da Bernabò udito n'avea; per che gli parve matta impresa aver fatta. Ma pure, accontatosi con una povera femina che molto nella casa usava e a cui la donna voleva gran bene, non potendola ad altro inducere, con denari la corruppe e a lei in una cassa artificiata a suo modo si fece portare, non solamente nella casa, ma nella camera della gentil donna; e quivi, come se in alcuna parte andar volesse, la buona femina, secondo l'ordine datole da Ambrogiuolo, la raccomandò per alcun dì .

Rimasa adunque la cassa nella camera e venuta la notte, all'ora che Ambrogiuolo avvisò che la donna dormisse, con certi suoi ingegni apertala, chetamente nella camera uscì , nella quale un lume acceso avea. Per la qual cosa egli il sito della camera, le dipinture e ogni altra cosa notabile che in quella era cominciò a ragguardare e a fermare nella sua memoria.

Quindi, avvicinatosi al letto e sentendo che la donna e una piccola fanciulla, che con lei era, dormivan forte, pianamente scopertola tutta, vide che così era bella ignuda come vestita, ma niuno segnale da potere rapportare le vide, fuori che uno ch'ella n'avea sotto la sinistra poppa, ciò era un neo d'intorno al quale erano alquanti peluzzi biondi come oro; e, ciò veduto, chetamente la ricoperse, come che, così bella vedendola, in disiderio avesse di mettere in avventura la vita sua e coricarlesi allato. Ma pure, avendo udito lei essere così cruda e alpestra intorno a quelle novelle, non s'arrischiò; e statosi la maggior parte della notte per la camera a suo agio, una borsa e una guarnacca d'un suo forziere trasse e alcuno anello e alcuna cintura, e ogni cosa nella cassa sua messa, egli altressì vi si ritornò, e così la serrò come prima stava; e in questa maniera fece due notti, senza che la donna di niente s'accorgesse.

Vegnente il terzo dì , secondo l'ordine dato, la buona femina tornò per la cassa sua e colà la riportò onde levata l'avea; della quale Ambrogiuolo uscito, e contentata secondo la promessa la femina, quanto più tosto potè con quelle cose si tornò a Parigi avanti il termine preso. Quivi, chiamati que'mercatanti che presenti erano stati alle parole e al

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metter de'pegni, presente Bernabò, disse sé aver vinto il pegno tra lor messo, perciò che fornito aveva quello di che vantato s'era; e che ciò fosse vero, primieramente disegnò la forma della camera e le dipinture di quella, e appresso mostrò le cose che di lei aveva seco recate, affermando da lei averle avute.

Confessò Bernabò così esser fatta la camera come diceva e oltre a ciò sé riconoscere quelle cose veramente della sua donna essere state; ma disse lui aver potuto da alcuno de'fanti della casa sapere la qualità della camera e in simil maniera avere avute le cose; per che, se altro non dicea, non gli parea che questo bastasse a dovere aver vinto.

Per che Ambrogiuolo disse: - Nel vero questo doveva bastare; ma, poi che tu vuogli che io più avanti ancora dica, e io il dirò. Dicoti che

madonna Zinevra tua mogliere ha sotto la sinistra poppa un neo ben grandicello, dintorno al quale son forse sei peluzzi biondi come oro.

Quando Bernabò udì questo, parve che gli fosse dato d'un coltello al cuore, siffatto dolore sentì ; e tutto nel viso cambiato, eziandio se parola non avesse detta, diede assai manifesto segnale ciò esser vero che Ambrogiuolo diceva, e dopo alquanto disse:

- Signori, ciò che Ambrogiuolo dice è vero; e perciò, avendo egli vinto, venga qualor gli piace e sì si paghi- ; e così fu il dì seguente Ambrogiuolo interamente pagato.

E Bernabò, da Parigi partitosi, con fellone animo contro alla donna verso Genova se ne venne. E appressandosi a quella non volle in essa entrare, ma si rimase ben venti miglia lontano ad essa ad una sua possessione; e un suo famigliare, in cui molto si fidava, con due cavalli e con sue lettere mandò a Genova, scrivendo alla donna come tornato era e che con lui a lui venisse; e al famiglio segretamente impose che, come in parte fosse colla donna che migliore gli paresse, senza niuna misericordia la dovesse uccidere e a lui tornarsene.

Giunto adunque il famigliare a Genova e date le lettere e fatta l'ambasciata, fu dalla donna con gran festa ricevuto, la quale la seguente mattina, montata col famigliare a cavallo, verso la sua possessione prese il cammino. E camminando insieme e di varie cose ragionando, pervennero in uno vallone molto profondo e solitario e chiuso d'alte grotte e d'alberi, il quale parendo al famigliare luogo da dovere sicuramente per sé fare il comandamento del suo signore, tratto fuori il coltello e presa la donna per lo braccio, disse:

- Madonna, raccomandate l'anima vostra a Dio, ché a voi, senza passar più avanti, convien morire. La donna, vedendo il coltello e udendo le parole, tutta spaventata disse: - Mercè per Dio! anzi che tu mi uccida, dimmi di che io t'ho offeso, che tu uccider mi debbi. - Madonna,- disse il famigliare- me non avete offeso d'alcuna cosa; ma di che voi offeso abbiate il vostro marito

io nol so, se non che egli mi comandò che, senza alcuna misericordia aver di voi, io in questo cammin v'uccidessi; e se io nol facessi, mi minacciò di farmi impiccar per la gola. Voi sapete bene quant'io gli son tenuto, e come io di cosa che egli m'imponga possa dir di no; sallo Iddio che di voi m'incresce, ma io non posso altro.

A cui la donna piagnendo disse: - Ahi mercé per Dio! non volere divenire micidiale di chi mai non t'offese, per servire altrui. Iddio, che tutto

conosce, sa che io non feci mai cosa per la quale io dal mio marito debbia così fatto merito ricevere. Ma lasciamo ora star questo; tu puoi, quando tu vogli, ad una ora piacere a Dio e al tuo signore e a me in questa maniera: che tu prenda questi miei panni, e solamente il tuo farsetto e un cappuccio; e con essi torni al mio e tuo signore, e dichi che tu m'abbi uccisa; e io ti giuro, per quella salute la quale tu donata m'avrai, che io mi dileguerò e andronne in parte che mai né a lui né a te né in queste contrade di me perverrà alcuna novella.

Il famigliare, che mal volentieri l'uccidea, leggiermente divenne pietoso; per che, presi i drappi suoi e datole un suo farsettaccio e un cappuccio, e lasciatile certi denari li quali essa avea, pregandola che di quelle contrade si dileguasse, la lasciò nel vallone e a piè, e andonne al signor suo, al qual disse che il suo comandamento non solamente era fornito, ma che il corpo di lei morto aveva tra parecchi lupi lasciato.

Bernabò dopo alcun tempo se ne tornò a Genova e, saputosi il fatto, forte fu biasimato. La donna, rimasa sola e sconsolata, come la notte fu venuta, contraffatta il più che potè, n'andò ad una villetta

ivi vicina, e quivi da una vecchia procacciato quello che le bisognava, racconciò il farsetto a suo dosso, e fattol corto, e fattosi della sua camicia un paio di pannilini, e i capelli tondutosi e trasformatasi tutta in forma d'un matinaro, verso il mare se ne venne; dove per avventura trovò un gentile uomo catalano, il cui nome era segner En Cararch, il quale d'una sua nave, la quale alquanto di quivi era lontana, in Albegna disceso era a rinfrescarsi ad una fontana. Col quale entrata in parole, con lui s'acconciò per servidore, e salissene sopra la nave, faccendosi chiamar Sicuran da Finale. Quivi, di miglior panni rimesso in arnese dal gentile uomo, lo 'ncominciò a servir sì bene e sì acconciamente, che egli gli venne oltre modo a grado.

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Avvenne, ivi a non gran tempo, che questo catalano con un suo carico navicò in Alessandria e portò certi falconi pellegrini al soldano, e presentogliele; al quale il soldano avendo alcuna volta dato mangiare, e veduti i costumi di Sicurano, che sempre a servir l'andava, e piaciutigli, al catalano il domandò; e quegli, ancora che grave gli paresse, gliele lasciò.

Sicurano in poco di tempo non meno la grazia e l'amor del soldano acquistò col suo bene adoperare, che quella del catalano avesse fatto. Per che in processo di tempo avvenne che, dovendosi in un certo tempo dell'anno, a guisa d'una fiera, fare una gran ragunanza di mercatanti e cristiani e saracini in Acri, la quale sotto la signoria del soldano era; acciò che i mercatanti e le mercatantie sicure stessero, era il soldano sempre usato di mandarvi, oltre agli altri suoi uficiali, alcuno de'suoi grandi uomini con gente che alla guardia attendesse. Nella qual bisogna, sopravvegnendo il tempo, diliberò di mandare Sicurano il quale già ottimamente la lingua sapeva; e così fece.

Venuto adunque Sicurano in Acri signore e capitano della guardia de'mercatanti e della mercatantia, e quivi bene e sollicitamente faccendo ciò che al suo uficio apparteneva, e andando dattorno veggendo, e molti mercatanti e ciciliani e pisani e genovesi e viniziani e altri italiani vedendovi, con loro volentieri si dimesticava per rimembrarza della contrada sua.

Ora avvenne, tra l'altre volte, che, essendo egli ad un fondaco di mercatanti viniziani smontato, gli vennero vedute tra altre gioie una borsa e una cintura, le quali egli prestamente riconobbe essere state sue, e maravigliossi; ma, senza altra vista fare, piacevolmente domandò di cui fossero e se vendere si voleano.

Era quivi venuto Ambrogiuolo da Piagenza con molta mercatantia in su una nave di viniziani, il quale, udendo che il capitano della guardia domandava di cui fossero, si trasse avanti e ridendo disse:

- Messere, le cose son mie e non le vendo; ma s'elle vi piacciono, io le vi donerò volentieri. Sicurano, vedendol ridere, suspicò non costui in alcuno atto l'avesse raffigurato; ma pur, fermo viso faccendo,

disse: - Tu ridi forse, perché vedi me uom d'arme andar domandando di queste cose feminili? Disse Ambrogiuolo: - Messere, io non rido di ciò, ma rido del modo ne quale io le guadagnai. A cui Sicuran disse: - Deh, se Iddio ti dea buona ventura, se egli non è disdicevole, diccelo come tu le guadagnasti. - Messere,- disse Ambrogiuolo- queste mi donò con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova chiamata

madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin, una notte che io giacqui con lei, e pregommi che per suo amore io le tenessi. Ora risi io, per ciò che egli mi ricordò della sciocchezza di Bernabò, il qual fu di tanta follia che mise cinquemilia fiorin d'oro contro a mille che io la sua donna non recherei a'miei piaceri; il che io feci e vinsi il pegno; ed egli, che più tosto sé della sua bestialità punir dovea che lei d'aver fatto quello che tutte le femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene, per quello che io abbia poi sentito, la fece uccidere.

Sicurano, udendo questo, prestamente comprese qual fosse la cagione dell'ira di Bernabò verso lei e manifestamente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione; e seco pensò di non lasciargliele portare impunita.

Mostrò adunque Sicurano d'aver molto cara questa novella, e artatamente prese con costui una stretta dimestichezza, tanto che per gli suoi conforti Ambrogiuolo, finita la fiera, con essolui e con ogni sua cosa se n'andò in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un fondaco e misegli in mano de'suoi denari assai; per che egli, util grande veggendosi, vi dimorava volentieri.

Sicurano, sollicito a volere della sua innocenzia far chiaro Bernabò, mai non riposò infino a tanto che con opera d'alcuni grandi mercatanti genovesi che in Alessandria erano, nuove cagioni trovando, non l'ebbe fatto venire; il quale, in assai povero stato essendo, ad alcun suo amico tacitamente fece ricevere, infino che tempo gli paresse a quel fare che di fare intendea.

Avea già Sicurano fatta raccontare ad Ambrogiuolo la novella davanti al soldano, e fattone al soldano prendere piacere; ma poi che vide quivi Bernabò, pensando che alla bisogna non era da dare indugio, preso tempo convenevole, dal soldano impetrò che davanti venir si facesse Ambrogiuolo e Bernabò, e in presenzia di Bernabò, se agevolmente fare non si potesse, con severità da Ambrogiuolo si traesse il vero come stato fosse quello di che egli della moglie di Bernabò si vantava.

Per la qual cosa, Ambrogiuolo e Bernabò venuti, il soldano in presenzia di molti con rigido viso ad Ambrogiuol comandò che il vero dicesse come a Bernabò vinti avesse cinquemilia fiorin d'oro; e quivi era presente Sicurano, in cui Ambrogiuolo più avea di fidanza, il quale con viso troppo più turbato gli minacciava gravissimi tormenti se nol dicesse. Per che Ambrogiuolo, da una parte e d'altra spaventato e ancora alquanto costretto, in presenzia di Bernabò

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e di molti altri, niuna pena più aspettandone che la restituzione di fiorini cinquemilia d'oro e delle cose, chiaramente, come stato era il fatto, narrò ogni cosa.

E avendo Ambrogiuolo detto, Sicurano, quasi esecutore del soldano, in quello rivolto a Bernabò disse: - E tu che facesti per questa bugia alla tua donna? A cui Bernabò rispose:

- Io, vinto dalla ira della perdita de'miei denari e dall'onta della vergogna che mi parea avere ricevuta dalla mia donna, la feci ad un mio famigliare uccidere; e, secondo che egli mi rapportò, ella fu prestamente divorata da molti lupi.

Queste cose così nella presenzia del soldan dette e da lui tutte udite e intese, non sappiendo egli ancora a che Sicurano, che questo ordinato avea e domandato, volesse riuscire, gli disse Sicurano:

- Signor mio assai chiaramente potete conoscere quanto quella buona donna gloriar si possa d'amante e di marito; ché l'amante ad una ora lei priva d'onore, con bugie guastando la fama sua, e diserta il marito di lei; e il marito, più credulo alle altrui falsità che alla verità da lui per lunga esperienza potuta conoscere, la fa uccidere e mangiare a'lupi; e oltre a questo tanto il bene e l'amore che l'amico e 'l marito le porta, che, con lei lungamente dimorati, niuno la conosce. Ma per ciò che voi ottimamente conosciate quello che ciascun di costoro ha meritato, ove voi mi vogliate di spezial grazia fare di punire lo 'ngannatore e perdonare allo 'ngannato, io la farò qui in vostra e in loro presenzia venire.

Il soldano, disposto in questa cosa di volere in tutto compiacere a Sicurano, disse che gli piacea e che facesse la donna venire. Maravigliossi forte Bernabò, il quale lei per fermo morta credea; e Ambrogiuolo, già del suo male indovino, di peggio avea paura che di pagar denari, né sapea che si sperare o che più temere, perché quivi la donna venisse, ma più con maraviglia la sua venuta aspettava.

Fatta adunque la concessione dal soldano a Sicurano, esso, piagnendo e in ginocchion dinanzi al soldan gittatosi, quasi ad una ora la maschil voce e il più voler maschio parere si partì , e disse:

- Signor mio, io sono la misera sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando in forma d'uom per lo mondo, da questo traditor d'Ambrogiuol falsamente e reamente vituperata, e da questo crudele e iniquo uomo data ad uccidere ad un suo fante e a mangiare a'lupi.

E stracciando i panni dinanzi e mostrando il petto, sé esser femina e al soldano e a ciascuno altro fece palese; rivolgendosi poi ad Ambrogiuolo, ingiuriosamente domandandolo quando mai, secondo che egli avanti si vantava, con lei giaciuto fosse. Il quale, già riconoscendola, e per vergogna quasi mutolo divenuto, niente dicea.

Il soldano, il qual sempre per uomo avuta l'avea, questo vedendo e udendo, venne in tanta maraviglia, che più volte quello che egli vedeva e udiva credette più tosto esser sogno che vero. Ma pur, poi che la maraviglia cessò, la verità conoscendo, con somma laude la vita e la constanzia e i costumi e la virtù della Zinevra, infino allora stata Sicuran chiamata, commendò. E, fattili venire onorevolissimi vestimenti femminili e donne che compagnia le tenessero, secondo la dimanda fatta da lei, a Bernabò perdonò la meritata morte.

Il quale, riconosciutola, a'piedi di lei si gittò piagnendo e domandando perdonanza, la quale ella, quantunque egli maldegno ne fosse, benignamente gli diede, e in piede il fece levare, teneramente sì come suo marito abbracciandolo.

Il soldano appresso comandò che incontanente Ambrogiuolo in alcuno alto luogo della città fosse al sole legato ad un palo e unto di mele, né quindi mai, infino a tanto che per sé medesimo non cadesse, levato fosse; e così fu fatto. Appresso questo, comandò che ciò che d'Ambrogiuolo stato era fosse alla donna donato; che non era sì poco che oltre a diecimilia dobbre non valesse; ed egli, fatta apprestare una

bellissima festa, in quella Bernabò, come marito di madonna Zinevra, e madonna Zinevra sì come valorosissima donna, onorò, e donolle che in gioie e che in vasellamenti d'oro e d'ariento e che in denari, quello che valse meglio d'altre diecemilia dobbre.

E, fatto loro apprestare un legno, poi che finita fu la festa per loro fatta, gli licenziò di potersi tornare a Genova al lor piacere; dove ricchissimi e con grande allegrezza tornarono, e con sommo onore ricevuti furono, e spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si credeva che morta fosse; e sempre di gran virtù e da molto, mentre visse, fu reputata.

Ambrogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e unto di mele, con sua grandissima angoscia dalle mosche e dalle vespe e da'tafani, de'quali quel paese è copioso molto, fu non solamente ucciso, ma infino all'ossa divorato; le quali bianche rimase e a'nervi appiccate, poi lungo tempo, senza esser mosse, della sua malvagità fecero a chiunque le vide testimonianza. E così rimase lo 'ngannatore a piè dello 'ngannato.

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GIORNATA TERZA - NOVELLA NONA

Giletta di Nerbona guerisce il re di Francia d'una fistola; domanda per marito Beltramo di Rossiglione, il quale, contra sua voglia sposatala, a Firenze se ne va per isdegno, dove vagheggiando una giovane, in persona di lei Giletta giacque con lui ed ebbene due figliuoli; per che egli poi, avutola cara, per moglie la tenne.

Restava, non volendo il suo privilegio rompere a Dioneo, solamente a dire alla reina, con ciò fosse cosa che già finita fosse la novella di Lauretta. Per la qual cosa essa, senza aspettar d'essere sollicitata da'suoi, così tutta vaga cominciò a parlare.

Chi dirà novella omai che bella paia, avendo quella di Lauretta udita? Certo vantaggio ne fu che ella non fu la primiera, ché poche poi dell'altre ne sarebbon piaciute, e così spero che avverrà di quelle che per questa giornata sono a raccontare. Ma pure, chente che ella si sia, quella che alla proposta materia m'occorre vi conterò.

Nel reame di Francia fu un gentile uomo, il quale chiamato fu Isnardo, conte di Rossiglione, il quale, per ciò che poco sano era, sempre appresso di sé teneva un medico, chiamato maestro Gerardo di Nerbona. Aveva il detto conte un suo figliuol piccolo senza più, chiamato Beltramo, il quale era bellissimo e piacevole, e con lui altri fanciulli della sua età s'allevavano, tra'quali era una fanciulla del detto medico, chiamata Giletta; la quale infinito amore e oltre al convenevole della tenera età fervente pose a questo Beltramo. Al quale, morto il conte e lui nelle mani del re lasciato, ne convenne andare a Parigi; di che la giovinetta fieramente rimase sconsolata; e non guari appresso, essendosi il padre di lei morto, se onesta cagione avesse potuta avere, volentieri a Parigi per veder Beltramo sarebbe andata; ma essendo molto guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via non vedea.

Ed essendo ella già d'età da marito, non avendo mai potuto Beltramo dimenticare, molti, a'quali i suoi parenti l'avevan voluta maritare, rifiutati n'avea senza la cagion dimostrare.

Ora avvenne che, ardendo ella dello amor di Beltramo più che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva ch'era divenuto, le venne sentita una novella, come al re di Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto ed era male stata curata, gli era rimasa una fistola, la quale di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né s'era ancor potuto trovar medico, come che molti se ne fossero esperimentati, che di ciò l'avesse potuto guerire, ma tutti l'avean peggiorato, per la qual cosa il re, disperatosene, più d'alcun non voleva né consiglio né aiuto. Di che la giovane fu oltremodo contenta, e pensossi non solamente per questo aver ligittima cagione d'andar a Parigi, ma, se quella infermità fosse che ella credeva, leggiermente poterle venir fatto d'aver Beltram per marito. Laonde, sì come colei che già dal padre aveva assai cose apprese, fatta sua polvere di certe erbe utili a quella infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a Parigi n'andò. Né prima altro fece che ella s'ingegnò di veder Beltramo; e appresso nel cospetto del re venuta, di grazia chiese che la sua infermità gli mostrasse. Il re veggendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe disdire, e mostrogliele. Come costei l'ebbe veduta, così incontanente si confortò di doverlo guerire, e disse:

- Monsignore, quando vi piaccia, senza alcuna noia o fatica di voi, io ho speranza in Dio d'avervi in otto giorni di questa infermità renduto sano.

Il re si fece in sé medesimo beffe delle parole di costei dicendo: - Quello che i maggiori medici del mondo non hanno potuto né saputo, una giovane femina come il potrebbe sapere? - Ringraziolla adunque della sua buona volontà e rispose che proposto avea seco di più consiglio di medico non seguire.

A cui la giovane disse: - Monsignore, voi schifate la mia arte, perché giovane e femina sono; ma io vi ricordo che io non medico colla

mia scienzia, anzi collo aiuto d'lddio e colla scienzia del maestro Gerardo nerbonese, il quale mio padre fu e famoso medico mentre visse.

Il re allora disse seco: - Forse m'è costei mandata da Dio; perché non pruovo io ciò che ella sa fare, poi dice senza noia di me in picciol tempo guerirmi? - E accordatosi di provarlo, disse:

- Damigella, e se voi non ci guerite, faccendoci rompere il nostro proponimento, che volete voi che ve ne segua?

- Monsignore, - rispose la giovane - fatemi guardare; e se io infra otto giorni non vi guerisco, fatemi bruciare; ma se io vi guerisco, che merito me ne seguirà?

A cui il re rispose: - Voi ne parete ancor senza marito; se ciò farete, noi vi mariteremo bene e altamente. Al quale la giovane disse: - Monsignore, veramente mi piace che voi mi maritiate, ma io voglio un marito tale quale io vi domanderò,

senza dovervi domandare alcun de'vostri figliuoli o della casa reale.

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Il re tantosto le promise di farlo. La giovane cominciò la sua medicina, e in brieve anzi il termine l'ebbe condotto a sanità. Di che il re, guerito

sentendosi, disse: - Damigella, voi avete ben guadagnato il marito. A cui ella rispose: - Adunque, monsignore, ho io guadagnato Beltramo di Rossiglione, il quale infino nella mia puerizia io

cominciai ad amare e ho poi sempre sommamente amato. Gran cosa parve al re dovergliele dare; ma, poi che promesso l'avea, non volendo della sua fè mancare, se '1

fece chiamare e sì gli disse: - Beltramo, voi siete omai grande e fornito. Noi vogliamo che voi torniate a governare il vostro contado e con

voi ne meniate una damigella, la qual noi v'abbiamo per moglie data. Disse Beltramo: - E chi è la damigella, monsignore? A cui il re rispose: - Ella è colei la qual n'ha con le sue medicine sanità renduta. Beltramo, il quale la conosceva e veduta l'avea, quantunque molto bella gli paresse, conoscendo lei non esser di

legnaggio che alla sua nobiltà bene stesse, tutto sdegnoso disse: - Monsignore, dunque mi volete voi dar medica per mogliere? Già a Dio non piaccia che io sì fatta femina

prenda giammai. A cui il re disse: - Dunque volete voi che noi vegniamo meno di nostra fede, la qual noi per riaver sanità donammo alla

damigella, che voi in guiderdon di ciò domandò per marito? - Monsignore, - disse Beltramo - voi mi potete torre quant'io tengo, e donarmi, sì come vostro uomo, a chi vi

piace; ma di questo vi rendo sicuro che mai io non sarò di tal maritaggio contento. - Sì sarete, - disse il re - per ciò che la damigella è bella e savia e amavi molto; per che speriamo che molto più

lieta vita con lei avrete che con una donna di più alto legnaggio non avreste. Beltramo si tacque, e il re fece fare l'apparecchio grande per la festa delle nozze. E venuto il giorno a ciò

determinato, quantunque Beltramo mal volentieri il facesse, nella presenzia del re la damigella sposò, che più che sé l'amava. E questo fatto, come colui che seco già pensato avea quello che far dovesse, dicendo che al suo contado tornar si voleva e quivi consumare il matrimonio, chiese commiato al re; e montato a cavallo, non nel suo contado se n'andò, ma se ne venne in Toscana. E saputo che i fiorentini guerreggiavano co'sanesi, ad essere in lor favore si dispose; dove, lietamente ricevuto e con onore, fatto di certa quantità di gente capitano e da loro avendo buona provisione, al loro servigio si rimase e fu buon tempo.

La novella sposa, poco contenta di tal ventura, sperando di doverlo, per suo bene operare, rivocare al suo contado, se ne venne a Rossiglione, dove da tutti come lor donna fu ricevuta. Quivi trovando ella, per lo lungo tempo che senza conte stato v'era, ogni cosa guasta e scapestrata, sì come savia donna, con gran diligenzia e sollicitudine ogni cosa rimise in ordine; di che i suggetti si contentaron molto e lei ebbero molto cara e poserle grande amore, forte biasimando il conte di ciò ch'egli di lei non si contentava.

Avendo la donna tutto racconcio il paese, per due cavalieri al conte il significò, pregandolo che, se per lei stesse di non venire al suo contado, gliele significasse, ed ella per compiacergli si partirebbe. Alli quali esso durissimo disse:

- Di questo faccia ella il piacer suo; io per me vi tornerò allora ad esser con lei che ella questo anello avrà in dito, e in braccio figliuol di me acquistato.

Egli aveva l'anello assai caro, né mai da sé il partiva, per alcuna virtù che stato gli era dato ad intendere ch'egli avea.

I cavalieri intesero la dura condizione posta nelle due quasi impossibili cose; e veggendo che per loro parole dal suo proponimento nol potevan rimovere, si tornarono alla donna e la sua risposta le raccontarono. La quale, dolorosa molto, dopo lungo pensiero diliberò di voler sapere se quelle due cose potesser venir fatt'e dove, acciò che per conseguente il marito suo riavesse. E avendo quello che far dovesse avvisato, ragunati una parte de'maggiori e de'migliori uomini del suo contado, loro assai ordinatamente e con pietose parole raccontò ciò che già fatto avea per amor del conte, e mostrò quello che di ciò seguiva; e ultimamente disse che sua intenzion non era che per la sua

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dimora quivi il conte stesse in perpetuo essilio, anzi intendeva di consumare il rimanente della sua vita in peregrinaggi e in servigi misericordiosi per la salute dell'anima sua; e pregogli che la guardia e il governo del contado prendessero e al conte significassero lei avergli vacua ed espedita lasciata la possessione, e dileguatasi con intenzione di mai in Rossiglione non tornare.

Quivi, mentre ella parlava, furon lagrime sparte assai dai buoni uomini e a lei porti molti prieghi che le piacesse di mutar consiglio e di rimanere; ma niente montarono. Essa, accomandati loro a Dio, con un suo cugino e con una sua cameriera in abito di peregrini, ben forniti a denari e care gioie, senza sapere alcuno ove ella s'andasse, entrò in cammino, né mai ristette sì fu in Firenze; e quivi per avventura arrivata in uno alberghetto, il quale una buona donna vedova teneva, pianamente a guisa di povera peregrina si stava, disiderosa di sentire novelle del suo signore.

Avvenne adunque che il seguente dì ella vide davanti allo albergo passare Beltramo a cavallo con sua compagnia, il quale quantunque ella molto ben conoscesse, nondimeno domandò la buona donna dello albergo chi egli fosse. A cui l'albergatrice rispose:

- Questi è un gentile uom forestiere, il quale si chiama il conte Beltramo, piacevole e cortese e molto amato in questa città; ed è il più innamorato uom del mondo d'una nostra vicina, la quale è gentil femina, ma è povera. Vero è che onestissima giovane è, e per povertà non si marita ancora, ma con una sua madre, savissima e buona donna, si sta; e forse, se questa sua madre non fosse, avrebbe ella già fatto di quello che a questo conte fosse piaciuto.

La contessa, queste parole intendendo, raccolse bene; e più tritamente essaminando vegnendo ogni particularità, e bene ogni cosa compresa fermò il suo consiglio; e apparata la casa e '1 nome della donna e della sua figliuola dal conte amata, un giorno tacitamente in abito peregrino là se n'andò; e la donna e la sua figliuola trovate assai poveramente, salutatele, disse alla donna, quando le piacesse, le volea parlare.

La gentil donna, levatasi, disse che apparecchiata era d'udirla; ed entratesene sole in una sua camera e postesi a sedere, cominciò la contessa:

- Madonna, e'mi pare che voi siate delle nimiche della fortuna, come sono io; ma, dove voi voleste, per avventura voi potreste voi e me consolare.

La donna rispose che niuna cosa disiderava quanto di consolarsi onestamente. Seguì la contessa: - A me bisogna la vostra fede, nella quale se io mi rimetto e voi m'ingannaste, voi guastereste i vostri fatti e i

miei. - Sicuramente, - disse la gentil donna - ogni cosa che vi piace mi dite, ché mai da me non vi troverete ingannata. Allora la contessa, cominciatasi dar suo primo innamoramento, chi ell'era e ciò che intervenuto l'era infino a

quel giorno le raccontò per sì fatta maniera, che la gentil donna, dando fede alle sue parole, sì come quella che già in parte udite l'aveva da altrui, cominciò di lei ad aver compassione. E la contessa, i suoi casi raccontati, seguì:

- Udite adunque avete tra l'altre mie noie quali sieno quelle due cose che aver mi convien, se io voglio avere il mio marito, le quali niuna altra persona conosco che far me le possa aver, se non voi, se quello è vero che io intendo, cioè che '1 conte mio marito sommamente ami vostra figliuola.

A cui la gentil donna disse: - Madonna, se il conte ama mia figliuola io nol so, ma egli ne fa gran sembianti; ma che poss'io per ciò in

questo adoperare che voi disiderate? - Madonna, - rispose la contessa - io il vi dirò; ma primieramente vi voglio mostrar quello che io voglio che ve

ne segua, dove voi mi serviate. Io veggio vostra figliuola bella e grande da marito, e per quello che io abbia inteso e comprender mi paia, il non aver ben da maritarla ve la fa guardare in casa. Io intendo che, in merito del servigio che mi farete, di darle prestamente de'miei denari quella dote che voi medesima a maritarla onorevolmente stimerete che sia convenevole.

Alla donna, sì come bisognosa, piacque la profferta, ma tuttavia, avendo l'animo gentil, disse: - Madonna, ditemi quello che io posso per voi operare, e, se egli sarà onesto a me, io il farò volentieri, e voi

appresso farete quello che vi piacerà. Disse allora la contessa: - A me bisogna che voi, per alcuna persona di cui voi vi fidiate, facciate al conte mio marito dire che vostra

figliuola sia presta a fare ogni suo piacere, dove ella possa esser certa che egli così l'ami come dimostra; il che ella non crederà mai, se egli non le manda l'anello il quale egli porta in mano e che ella ha udito ch'egli ama cotanto; il quale se egli '1 vi manda, voi '1 mi donerete. E appresso gli manderete a dire vostra figliuola essere apparecchiata di fare il piacer suo, e qui il farete occultamente venire e nascosamente me in iscambio di vostra figliuola gli metterete

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al lato. Forse mi farà Iddio grazia d'ingravidare; e così appresso, avendo il suo anello in dito e il figliuolo in braccio da lui generato, io il racquisterò e con lui dimorerò come moglie dee dimorar con marito, essendone voi stata cagione.

Gran cosa parve questa alla gentil donna, temendo non forse biasimo ne seguisse alla figliuola; ma pur pensando che onesta cosa era il dare opera che la buona donna riavesse il suo marito e che essa ad onesto fine a far ciò si mettea, nella sua buona e onesta affezion confidandosi, non solamente di farlo promise alla contessa, ma infra pochi giorni con segreta cautela, secondo l'ordine dato da lei, ed ebbe l'anello (quantunque gravetto paresse al conte) e lei in iscambio della figliuola a giacer col conte maestrevolmente mise.

Ne'quali primi congiugnimenti affettuosissimamente dal conte cercati, come fu piacer di Dio, la donna ingravidò in due figliuoli maschi, come il parto al suo tempo venuto fece manifesto. Né solamente d'una volta contentò la gentil donna la contessa degli abbracciamenti del marito, ma molte, sì segretamente operando, che mai parola non se ne seppe; credendosi sempre il conte non con la moglie, ma con colei la quale egli amava essere stato. A cui, quando a partir si venia la mattina, avea parecchi belle e care gioie donate, le quali tutte diligentemente la contessa guardava.

La quale, sentendosi gravida, non volle più la gentil donna gravare di tal servigio, ma le disse: - Madonna, la Dio mercé e la vostra, io ho ciò che io disiderava, e per ciò tempo è che per me si faccia quello

che v'aggraderà, acciò che io poi me ne vada. La gentil donna le disse che, se ella aveva cosa che l'aggradisse, che le piaceva; ma che ciò ella non avea fatto

per alcuna speranza di guiderdone, ma perché le pareva doverlo fare a voler ben fare. A cui la contessa disse: - Madonna, questo mi piace bene, e così d'altra parte io non intendo di donarvi quello che voi mi domanderete

per guiderdone, ma per far bene, ché mi pare che si debba così fare. La gentil donna allora, da necessità costretta, con grandissima vergogna cento lire le domandò per maritar la

figliuola. La contessa, cognoscendo la sua vergogna e udendo la sua cortese domanda, le ne donò cinquecento e tanti belli e cari gioielli, che valevano per avventura altrettanto; di che la gentil donna vie più che contenta, quelle grazie che maggiori potè alla contessa rendè, la quale da lei partitasi se ne tornò allo albergo.

La gentil donna, per torre materia a Beltramo di più né mandare né venire a casa sua, insieme con la figliuola se n'andò in contado a casa di suoi parenti; e Beltramo ivi a poco tempo da'suoi uomini richiamato, a casa sua, udendo che la contessa s'era dileguata, se ne tornò.

La contessa, sentendo lui di Firenze partito e tornato nel suo contado, fu contenta assai, e tanto in Firenze dimorò che '1 tempo del parto venne, e partorì due figliuoli maschi simigliantissimi al padre loro, e quegli fe'dilingentemente nudrire. E quando tempo le parve, in cammino messasi, senza essere da alcuna persona conosciuta con essi a Monpolier se ne venne; e quivi più giorni riposata, e del conte e dove fosse avendo spiato, e sentendo lui il dì d'Ognissanti in Rossiglione dover fare una gran festa di donne e di cavalieri, pure in forma di peregrina, come usata n'era, là se n'andò.

E sentendo le donne e'cavaleri nel palagio del conte adunati per dovere andare a tavola, senza mutare abito, con questi suoi figlioletti in braccio salita in su la sala, tra uomo e uomo là se n'andò dove il conte vide, e gittataglisi a'piedi disse piagnendo:

- Signor mio, io sono la tua sventurata sposa, la quale, per lasciar te tornare e stare in casa tua, lungamente andata son tapinando. Io ti richieggo per Dio che le condizioni postemi per li due cavalieri che io ti mandai, tu le mi osservi; ed ecco nelle mie braccia non un sol figliuol di te, ma due, ed ecco qui il tuo anello. Tempo è adunque che io debba da te, sì come moglie esser ricevuta secondo la tua promessa.

Il conte, udendo questo, tutto misvenne, e riconobbe l'anello e i figliuoli ancora, sì simili erano a lui; ma pur disse:

- Come può questo essere intervenuto? La contessa, con gran meraviglia del conte e di tutti gli altri che presenti erano, ordinatamente ciò che stato era,

e come, raccontò. Per la qual cosa il conte, conoscendo lei dire il vero e veggendo la sua perseveranza e il suo senno e appresso due così be'figlioletti; e per servar quello che promesso avea e per compiacere a tutti i suoi uomini e alle donne, che tutti pregavano che lei come sua ligittima sposa dovesse omai raccogliere e onorare, pose giù la sua ostinata gravezza e in piè fece levar la contessa, e lei abbracciò e baciò e per sua ligittima moglie riconobbe, e quegli per suoi figliuoli. E fattala di vestimenti a lei convenevoli rivestire, con grandissimo piacere di quanti ve n'erano e di tutti gli altri suoi vassalli che ciò sentirono, fece, non solamente tutto quel dì ma più altri grandissima festa; e da quel dì innanzi, lei sempre come sua sposa e moglie onorando, l'amò e sommamente ebbe cara.

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NYTimes, October 5, 1971

THE DECAMERON, directed by Pier Paolo Pasolini; screenplay (Italian with English subtitles) by Mr. Pasolini; director of photography, Tonino Delli Colli; produced by Alberto Grimaldi; distributed by United Artists. Running time: 101 minutes. By VINCENT CANBY Pier Paolo Pasolini, the Italian director, has always been something of a puzzle for American critics, not simply because we have to reconcile his announced Marxism with what appears to be a kind of reformed Christianity (as reflected by the neo-realistic "The Gospel According to St. Matthew," as well as by the austerely allegorical "Teorema"), but because he forces us to keep shifting critical gears. No three

Pasolinis are ever quite alike. At best, they come in pairs, like "Oedipus Rex" and "Medea," neither of which have yet been released here. There is, however, a peculiar kind of romanticism throughout all of his films. It is a middle-class romanticism that idealizes the spiritual and emotional freedom that Pasolini sees in what we used to call The Common Man, who, in slightly more straightforward, class-conscious Europe, is still The Peasant. As if he were some medieval maiden locked in a tower, Pasolini seems to long for the freedom to do what the simple folk do, which, to Pasolini, evokes sexual liberation as much as anything else. In none of his films has this been more apparent than in his marvelous new work, "The Decameron," which is as close to being uninhibited and joyful as anything he's ever done. Taking 10 tales out of the 100 in Boccaccio's "Decameron," Pasolini has created one of the most beautiful, turbulent and uproarious panoramas of early Renaissance life ever put on film. It is also one of the most obscene, if obscene defines something that is offensive to ordinary concepts of chastity, delicacy and decency, although I'd hardly call the film offensive to morals. Pasolini's "Decameron" is faithful to the original texts, but it is not Boccaccio's. This is not because Pasolini has dispensed with Boccaccio's frame, which has seven women and three men, refugees from the plague that settled on Florence in 1348, each tell one story a day for the 10 days they are marooned in country villa. Pasolini uses no frame except a single setting, Naples, where the stories grow one out of the other as do the scenes in a frieze. Rather, the difference between the two works has to do with the difference between the two works has to the delicate euphemisms of Boccaccio's storytellers become the blunt unequivocal images of filmed reality. The difference also has to do with Pasolini's conscious recreation of a world that is as strange and bizarre as that of the pre-Christian "Fellini Satyricon," which Pasolini's film recalls by its pagan beauty, and by its concern with life as art, if not by its comic temperament. In his "Satyricon," Fellini contented himself by playing God, the artist, off screen. Pasolini is not quite so modest. About halfway through "The Decameron" he himself shows up as Giotto, one of the founding fathers of the Renaissance. Thereafter we see him periodically, surrounded by his students, at work on a giant fresco, the holy faces of which are those of the thieves, whores, merchants, nuns, friars, rubes, deceived husband and not-so-virginal lovers, whose stories we've been watching. When his work is finally completed, Giotto is spent, drained, empty of feeling. "Why produce a work of art," he says to himself, "when it's so nice to dream about it?" Pasolini's dream is composed of the tales he tells us, takes as its theme a frenzied Giotto nightmare, in which the artist's religious visions are overwhelmed by the more attractive visions of a pagan orgy. With the exception of Franco Citti, Ninetto Davoli and Silvana Mangano (who appears in an unbilled cameo), the are all either extraordinarily beautiful or extraordinarily ugly, as if they were different classes of beings. There is, however, something about their awkwardness and self-consciousness that gives a special dimension of truth to the film itself.

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Giovanni Boccaccio

DECAMERON ACCORDING TO PASOLINI

Day 1, Story 1 - Ser Ciappelletto Day 2, Story 5 - Andreuccio Day 3, Story 1 - Masetto Day 4, Story 5 - Lisabetta Day 5, Story 4 - Caterina Day 6, Story 5 - Giotto Day 7, Story 2 - Peronella Day 7, Story 10 - Tingoccio Day 9, Story 10 - Don Gianni

GIORNATA PRIMA - NOVELLA PRIMA

Ser Cepperello con una falsa confessione inganna uno santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è morto reputato per santo e chiamato san Ciappelletto.

Convenevole cosa è, carissime donne, che ciascheduna cosa la quale l'uomo fa, dallo ammirabile e santo nome di Colui il quale di tutte fu facitore le dea principio. Per che, dovendo io al nostro novellare, sì come primo, dare cominciamento, intendo da una delle sue maravigliose cose incominciare, acciò che, quella udita, la nostra speranza in lui, sì come in cosa impermutabile, si fermi e sempre sia da noi il suo nome lodato.

Manifesta cosa è che, sì come le cose temporali tutte sono transitorie e mortali, così in se' e fuor di se' essere piene di noia e d'angoscia e di fatica e ad infiniti pericoli soggiacere; alle quali senza niuno fallo né potremmo noi, che viviamo mescolati in esse e che siamo parte d'esse, durare né ripararci, se spezial grazia di Dio forza e avvedimento non ci prestasse. La quale a noi e in noi non è da credere che per alcuno nostro merito discenda, ma dalla sua propia benignità mossa e da prieghi di coloro impetrata che, sì come noi siamo, furon mortali, e bene i suoi piaceri mentre furono in vita seguendo, ora con lui etterni sono divenuti e beati; alli quali noi medesimi, sì come a procuratori informati per esperienza della nostra fragilità, forse non audaci di porgere i prieghi nostri nel cospetto di tanto giudice, delle cose le quali a noi reputiamo opportune gli porgiamo.

E ancora più in questo lui verso noi di pietosa liberalità pieno discerniamo, che, non potendo l'acume dell'occhio mortale nel segreto della divina mente trapassare in alcun modo, avvien forse tal volta che, da oppinione ingannati, tale dinanzi alla sua maestà facciamo procuratore, che da quella con etterno essilio è scacciato; e nondimeno esso, al quale niuna cosa è occulta, più alla purità del pregator riguardando che alla sua ignoranza o allo essilio del pregato, così come se quegli fosse nel suo conspetto beato, esaudisce coloro che 'l priegano. Il che manifestamente potrà apparire nella novellala quale di raccontare intendo; manifestamente dico, non il giudicio di Dio, ma quel degli uomini seguitando.

Ragionasi adunque che essendo Musciatto Franzesi di ricchissimo e gran mercatante in Francia cavalier divenuto e dovendone in Toscana venire con messer Carlo Senzaterra, fratello del re di Francia, da papa Bonifazio

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addomandato e al venir promosso, sentendo egli gli fatti suoi, sì come le più volte son quegli de' mercatanti, molto intralciati in qua e in là e non potersi di leggiere né subitamente stralciare, pensò quegli commettere a più persone; e a tutti trovò modo; fuor solamente in dubbio gli rimase cui lasciar potesse sofficiente a riscuoter suoi crediti fatti a più borgognoni.

E la cagion del dubbio era il sentire li borgognoni uomini riottosi e di mala condizione e misleali; e a lui non andava per la memoria chi tanto malvagio uom fosse, in cui egli potesse alcuna fidanza avere che opporre alla loro malvagità si potesse.

E sopra questa essaminazione pensando lungamente stato, gli venne a memoria un ser Cepperello da Prato, il qual molto alla sua casa in Parigi si riparava. Il quale, per ciò che piccolo di persona era e molto assettatuzzo, non sappiendo li franceschi che si volesse dire Cepperello, credendo che cappello, cioè ghirlanda, secondo il loro volgare, a dir venisse, per ciò che piccolo era come dicemmo, non Ciappello, ma Ciappelletto il chiamavano; e per Ciappelletto era conosciuto per tutto, là dove pochi per ser Cepperello il conoscieno.

Era questo Ciappelletto di questa vita: egli, essendo notaio, avea grandissima vergogna quando uno de' suoi strumenti (come che pochi ne facesse) fosse altro che falso trovato; de' quali tanti avrebbe fatti di quanti fosse stato richiesto, e quelli più volentieri in dono che alcun altro grandemente salariato. Testimonianze false con sommo diletto diceva, richiesto e non richiesto; e dandosi a que' tempi in Francia a' saramenti grandissima fede, non curandosi fargli falsi, tante quistioni malvagiamente vincea a quante a giurare di dire il vero sopra la sua fede era chiamato. Aveva oltre modo piacere, e forte vi studiava, in commettere tra amici e parenti e qualunque altra persona mali e inimicizie e scandali, de' quali quanto maggiori mali vedeva seguire tanto più d'allegrezza prendea. Invitato ad un omicidio o a qualunque altra rea cosa, senza negarlo mai, volenterosamente v'andava; e più volte a fedire e ad uccidere uomini colle propie mani si trovò volentieri. Bestemmiatore di Dio e de' santi era grandissimo; e per ogni piccola cosa, sì come colui che più che alcun altro era iracundo. A chiesa non usava giammai; e i sacramenti di quella tutti, come vil cosa, con abominevoli parole scherniva; e così in contrario le taverne e gli altri disonesti luoghi visitava volentieri e usavagli.

Delle femine era così vago come sono i cani de' bastoni; del contrario più che alcun altro tristo uomo si dilettava. Imbolato avrebbe e rubato con quella conscienzia che un santo uomo offerrebbe. Gulosissimo e bevitore grande, tanto che alcuna volta sconciamente gli facea noia. Giuocatore e mettitor di malvagi dadi era solenne. Perché mi distendo io in tante parole? Egli era il piggiore uomo forse che mai nascesse. La cui malizia lungo tempo sostenne la potenzia e lo stato di messer Musciatto, per cui molte volte e dalle private persone, alle quali assai sovente faceva ingiuria, e dalla corte, a cui tuttavia la facea, fu riguardato.

Venuto adunque questo ser Cepperello nell'animo a messer Musciatto, il quale ottimamente la sua vita conosceva, si pensò il detto messer Musciatto costui dovere essere tale quale la malvagità de' borgognoni il richiedea; e perciò, fattolsi chiamare, gli disse così:

- Ser Ciappelletto, come tu sai, io sono per ritrarmi del tutto di qui, e avendo tra gli altri a fare co' borgognoni, uomini pieni d'inganni, non so cui io mi possa lasciare a riscuotere il mio da loro più convenevole di te; e perciò, con ciò sia cosa che tu niente facci al presente, ove a questo vogli intendere, io intendo di farti avere il favore della corte e di donarti quella parte di ciò che tu riscoterai che convenevole sia.

Ser Ciappelletto, che scioperato si vedea e male agitato delle cose del mondo e lui ne vedeva andare che suo sostegno e ritegno era lungamente stato, senza niuno indugio e quasi da necessità costretto si diliberò, e disse che volea volentieri.

Per che, convenutisi insieme, ricevuta ser Ciappelletto la procura e le lettere favorevoli del re, partitosi messer Musciatto, n'andò in Borgogna dove quasi niuno il conoscea; e quivi, fuor di sua natura, benignamente e mansuetamente cominciò a voler riscuotere e fare quello per che andato v'era, quasi si riserbasse l'adirarsi al da sezzo.

E così faccendo, riparandosi in casa di due fratelli fiorentini, li quali quivi ad usura prestavano e lui per amor di messer Musciatto onoravano molto, avvenne che egli infermò; al quale i due fratelli fecero prestamente venire medici e fanti che il servissero e ogni cosa opportuna alla sua santà racquistare.

Ma ogni aiuto era nullo, per ciò che 'l buono uomo, il quale già era vecchio e disordinatamente vivuto, secondo che i medici dicevano, andava di giorno in giorno di male in peggio, come colui ch'aveva il male della morte; di che li due fratelli si dolevan forte.

E un giorno, assai vicini della camera nella quale ser Ciappelletto giaceva infermo, seco medesimi cominciarono a ragionare:

- Che farem noi- diceva l'uno all'altro- di costui? Noi abbiamo dei fatti suoi pessimo partito alle mani, per ciò che il mandarlo fuori di casa nostra così infermo ne sarebbe gran biasimo e segno manifesto di poco senno,

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veggendo la gente che noi l'avessimo ricevuto prima, e poi fatto servire e medicare così sollecitamente, e ora, senza potere egli aver fatta cosa alcuna che dispiacere ci debba, così subitamente di casa nostra e infermo a morte vederlo mandar fuori. D'altra parte, egli è stato sì malvagio uomo che egli non si vorrà confessare né prendere alcuno sacramento della Chiesa; e, morendo senza confessione, niuna chiesa vorrà il suo corpo ricevere, anzi sarà gittato a' fossi a guisa d'un cane. E, se egli si pur confessa, i peccati suoi son tanti e sì orribili che il simigliante n'avverrà, per ciò che frate né prete ci sarà che 'l voglia né possa assolvere; per che, non assoluto, anche sarà gittato a' fossi. E se questo avviene, il popolo di questa terra, il quale sì per lo mestier nostro, il quale loro pare iniquissimo e tutto 'l giorno ne dicon male, e sì per la volontà che hanno di rubarci, veggendo ciò, si leverà a romore e griderrà: - Questi lombardi cani, li quali a chiesa non sono voluti ricevere, non ci si vogliono più sostenere - ; e correrannoci alle case e per avventura non solamente l'avere ci ruberanno, ma forse ci torranno oltre a ciò le persone; di che noi in ogni guisa stiam male, se costui muore.

Ser Ciappelletto, il quale, come dicemmo, presso giacea là dove costoro così ragionavano, avendo l'udire sottile, sì come le più volte veggiamo avere gl'infermi, udì ciò che costoro di lui dicevano; li quali egli si fece chiamare, e disse loro:

- Io non voglio che voi di niuna cosa di me dubitiate né abbiate paura di ricevere per me alcun danno. Io ho inteso ciò che di me ragionato avete e son certissimo che così n'avverrebbe come voi dite, dove così andasse la bisogna come avvisate; ma ella andrà altramenti. Io ho, vivendo, tante ingiurie fatte a Domenedio che, per farnegli io una ora in su la mia morte, né più né meno ne farà. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n'è, e lasciate fare a me, ché fermamente io acconcerò i fatti vostri e i miei in maniera che starà bene e che dovrete esser contenti.

I due fratelli, come che molta speranza non prendessono di questo, nondimeno se n'andarono ad una religione di frati e domandarono alcuno santo e savio uomo che udisse la confessione d'un lombardo che in casa loro era infermo; e fu lor dato un frate antico di santa e di buona vita e gran maestro in Iscrittura e molto venerabile uomo, nel quale tutti i cittadini grandissima e spezial divozione aveano, e lui menarono.

Il quale, giunto nella camera dove ser Ciappelletto giacea e allato postoglisi a sedere, prima benignamente il cominciò a confortare, e appresso il domandò quanto tempo era che egli altra volta confessato si fosse. Al quale ser Ciappelletto, che mai confessato non s'era, rispose:

- Padre mio, la mia usanza suole essere di confessarmi ogni settimana almeno una volta, senza che assai sono di quelle che io mi confesso più; è il vero che poi ch'io infermai, che son presso a otto dì, io non mi confessai, tanta è stata la noia che la infermità m'ha data.

Disse allora il frate: - Figliuol mio, bene hai fatto, e così si vuol fare per innanzi; e veggio che, poi sì spesso ti confessi, poca fatica

avrò d'udire o di domandare. Disse ser Ciappelletto: - Messer lo frate, non dite così; io non mi confessai mai tante volte né sì spesso, che io sempre non mi volessi

confessare generalmente di tutti i miei peccati che io mi ricordassi dal dì ch'i' nacqui infino a quello che confessato mi sono; e per ciò vi priego, padre mio buono, che così puntualmente d'ogni cosa mi domandiate come se mai confessato non mi fossi. E non mi riguardate perch'io infermo sia, ché io amo molto meglio di dispiacere a queste mie carni che, faccendo agio loro, io facessi cosa che potesse essere perdizione della anima mia, la quale il mio Salvatore ricomperò col suo prezioso sangue.

Queste parole piacquero molto al santo uomo e parvongli argomento di bene disposta mente; e poi che a ser Ciappelletto ebbe molto commendato questa sua usanza, il cominciò a domandare se egli mai in lussuria con alcuna femina peccato avesse. Al qual ser Ciappelletto sospirando rispose:

- Padre mio, di questa parte mi vergogno io di dirvene il vero, temendo di non peccare in vanagloria. Al quale il santo frate disse: - Dì sicuramente, ché il ver dicendo né in confessione né in altro atto si pecco' giammai. Disse allora ser Ciappelletto: - Poiché voi di questo mi fate sicuro, e io il vi dirò: io son così vergine come io uscì del corpo della mamma

mia. - Oh benedetto sia tu da Dio!- disse il frate- come bene hai fatto! e, faccendolo, hai tanto più meritato, quanto,

volendo, avevi più d'arbitrio di fare il contrario che non abbiam noi e qualunque altri son quegli che sotto alcuna regola sono costretti.

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E appresso questo il domandò se nel peccato della gola aveva a Dio dispiaciuto; al quale, sospirando forte, ser Ciappelletto rispose del sì, e molte volte; perciò che con ciò fosse cosa che egli, oltre a' digiuni delle quaresime che nell'anno si fanno dalle divote persone, ogni settimana almeno tre dì fosse uso di digiunare in pane e in acqua, con quello diletto e con quello appetito l'acqua bevuta avea, e spezialmente quando avesse alcuna fatica durata o adorando o andando in pellegrinaggio, che fanno i gran bevitori il vino; e molte volte aveva disiderato d'avere cotali insalatuzze d'erbucce, come le donne fanno quando vanno in villa; e alcuna volta gli era paruto migliore il mangiare che non pareva a lui che dovesse parere a chi digiuna per divozione, come digiunava egli.

Al quale il frate disse: - Figliuol mio, questi peccati sono naturali e sono assai leggieri; e per ciò io non voglio che tu ne gravi più la

conscienzia tua che bisogni. Ad ogni uomo addiviene, quantunque santissimo sia, il parergli dopo lungo digiuno buono il manicare, e dopo la fatica il bere.

- Oh! - disse ser Ciappelletto- padre mio, non mi dite questo per confortarmi; ben sapete che io so che le cose che al servigio di Dio si fanno, si deono fare tutte nettamente e senza alcuna ruggine d'animo; e chiunque altri menti le fa, pecca.

Il frate contentissimo disse: - E io son contento che così ti cappia nell'animo, e piacemi forte la tua pura e buona conscienzia in ciò. Ma,

dimmi: in avarizia hai tu peccato, disiderando più che il convenevole, o tenendo quello che tu tener non dovesti? Al quale ser Ciappelletto disse: - Padre mio, io non vorrei che voi guardaste perché io sia in casa di questi usurieri: io non ci ho a far nulla; anzi

ci era venuto per dovergli ammonire e gastigare e torgli da questo abbominevole guadagno; e credo mi sarebbe venuto fatto, se Iddio non m'avesse così visitato. Ma voi dovete sapere che mio padre mi lasciò ricco uomo, del cui avere, come egli fu morto, diedi la maggior parte per Dio; e poi, per sostentare la vita mia e per potere aiutare i poveri di Cristo, ho fatte mie picciole mercatantie, e in quelle ho desiderato di guadagnare, e sempre co' poveri di Dio quello che ho guadagnato ho partito per mezzo, l'una metà convertendo né miei bisogni, l'altra metà dando loro; e di ciò m'ha sì bene il mio Creatore aiutato che io ho sempre di bene in meglio fatti i fatti miei.

- Bene hai fatto,- disse il frate - ma come ti se' tu spesso adirato? - Oh!- disse ser Ciappelletto- cotesto vi dico io bene che io ho molto spesso fatto. E chi se ne potrebbe tenere,

veggendo tutto il dì gli uomini fare le sconce cose, non servare i comandamenti di Dio, non temere i suoi giudici? Egli sono state assai volte il dì che io vorrei più tosto essere stato morto che vivo, veggendo i giovani andare dietro alle vanità e vedendogli giurare e spergiurare, andare alle taverne, non visitare le chiese e seguir più tosto le vie del mondo che quella di Dio.

Disse allora il frate: - Figliuol mio, cotesta è buona ira, né io per me te ne saprei penitenzia imporre. Ma, per alcuno caso, avrebbeti

l'ira potuto inducere a fare alcuno omicidio o a dire villania a persona o a fare alcun'altra ingiuria? A cui ser Ciappelletto rispose: - Ohimè, messere, o voi mi parete uom di Dio: come dite voi coteste parole? o s'io avessi avuto pure un

pensieruzzo di fare qualunque s'è l'una delle cose che voi dite, credete voi che io creda che Iddio m'avesse tanto sostenuto? Coteste son cose da farle gli scherani e i rei uomini, de' quali qualunque ora io n'ho mai veduto alcuno, sempre ho detto: - Va che Dio ti converta -

Allora disse il frate: - Or mi dì, figliuol mio, che benedetto sia tu da Dio: hai tu mai testimonianza niuna falsa detta contro alcuno o

detto mal d'altrui o tolte dell'altrui cose senza piacer di colui di cui sono? - Mai, messere, sì,- rispose ser Ciappelletto- che io ho detto male d'altrui; per ciò che io ebbi già un mio vicino

che, al maggior torto del mondo, non faceva altro che battere la moglie, sì che io dissi una volta mal di lui alli parenti della moglie, sì gran pietà mi venne di quella cattivella, la quale egli, ogni volta che bevuto avea troppo, conciava come Dio vel dica.

Disse allora il frate: - Or bene, tu mi di' che se' stato mercatante: ingannasti tu mai persona così come fanno i mercatanti? - Gnaffe,- disse ser Ciappelletto- messer sì; ma io non so chi egli si fu, se non che uno, avendomi recati danari

che egli mi dovea dare di panno che io gli avea venduto, e io messogli in una mia cassa senza annoverare, ivi bene ad un mese trovai ch'egli erano quattro piccioli più che essere non doveano; per che, non rivedendo colui e avendogli serbati bene uno anno per rendergliele, io gli diedi per l'amor di Dio.

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Disse il frate: - Cotesta fu piccola cosa; e facesti bene a farne quello che ne facesti. E, oltre a questo, il domandò il santo frate di molte altre cose, delle quali di tutte rispose a questo modo. E

volendo egli già procedere all'assoluzione, disse ser Ciappelletto: - Messere, io ho ancora alcun peccato che io non v'ho detto. Il frate il domandò quale; ed egli disse: - Io mi ricordo che io feci al fante mio un sabato dopo nona spazzare la casa, e non ebbi alla santa domenica

quella reverenza che io dovea. - Oh!- disse il frate- figliuol mio, cotesta è leggier cosa. - Non,- disse ser Ciappelletto- non dite leggier cosa, ché la domenica è troppo da onorare, però che in così fatto

dì risuscitò da morte a vita il nostro Signore. Disse allora il frate: - O altro hai tu fatto? - Messer sì,- rispose ser Ciappelletto- ché io, non avvedendomene, sputai una volta nella chiesa di Dio. Il frate cominciò a sorridere e disse: - Figliuol mio, cotesta non è cosa da curarsene: noi, che siamo religiosi, tutto il dì vi sputiamo. Disse allora ser Ciappelletto: - E voi fate gran villania, per ciò che niuna cosa si convien tener netta come il santo tempio, nel quale si rende

sacrificio a Dio. E in brieve de' così fatti ne gli disse molti, e ultimamente cominciò a sospirare, e appresso a piagner forte, come

colui che il sapeva troppo ben fare quando volea. Disse il santo frate: - Figliuol mio, che hai tu? Rispose ser Ciappelletto: - Ohimè, messere, ché un peccato m'è rimaso, del quale io non mi confessai mai, sì gran vergogna ho di doverlo

dire; e ogni volta ch'io me ne ricordo piango come voi vedete, e parmi essere molto certo che Iddio mai non avrà misericordia di me per questo peccato.

Allora il santo frate disse: - Va via, figliuol, che è ciò che tu dì? Se tutti i peccati che furon mai fatti da tutti gli uomini, o che si debbon

fare da tutti gli uomini mentre che il mondo durerà, fosser tutti in uno uom solo, ed egli ne fosse pentuto e contrito come io veggio te, si è tanta la benignità e la misericordia di Dio che, confessandogli egli, gliele perdonerebbe liberamente; e per ciò dillo sicuramente.

Disse allora ser Ciappelletto, sempre piagnendo forte: - Ohimè, padre mio, il mio è troppo gran peccato, e appena posso credere, se i vostri prieghi non ci si

adoperano, che egli mi debba mai da Dio esser perdonato. A cui il frate disse: - Dillo sicuramente, ché io ti prometto di pregare Iddio per te. Ser Ciappelletto pur piagnea e nol dicea, e il frate pur il confortava a dire. Ma poi che ser Ciappelletto

piagnendo ebbe un grandissimo pezzo tenuto il frate così sospeso, ed egli gittò un gran sospiro e disse: - Padre mio, poscia che voi mi promettete di pregare Iddio per me, e io il vi dirò. Sappiate che, quando io era

piccolino, io bestemmiai una volta la mamma mia- ; e così detto ricominciò a piagnere forte. Disse il frate: - O figliuol mio, or parti questo così grande peccato? Oh! gli uomini bestemmiano tutto 'l giorno Iddio, e sì

perdona egli volentieri a chi si pente d'averlo bestemmiato; e tu non credi che egli perdoni a te questo? Non piagner, confortati, ché fermamente, se tu fossi stato un di quegli che il posero in croce, avendo la contrizione ch'io ti veggio, sì ti perdonerebbe egli.

Disse allora ser Ciappelletto: - Ohimè, padre mio, che dite- voi? La mamma mia dolce, che mi portò in corpo nove mesi il dì e la notte e

portommi in collo più di cento volte! troppo feci male a bestemmiarla e troppo è gran peccato; e se voi non pregate Iddio per me, egli non mi sarà perdonato.

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Veggendo il frate non essere altro restato a dire a ser Ciappelletto, gli fece l'assoluzione e diedegli la sua benedizione, avendolo per santissimo uomo, sì come colui che pienamente credeva esser vero ciò che ser Ciappelletto avea detto.

E chi sarebbe colui che nol credesse, veggendo uno uomo in caso di morte dir così? E poi, dopo tutto questo, gli disse:

- Ser Ciappelletto, coll'aiuto di Dio voi sarete tosto sano; ma se pure avvenisse che Iddio la vostra benedetta e ben disposta anima chiamasse a se', piacev'egli che 'l vostro corpo sia sepellito al nostro luogo?

Al quale ser Ciappelletto rispose: - Messer sì; anzi non vorre' io essere altrove, poscia che voi mi avete promesso di pregare Iddio per me; senza

che io ho avuta sempre spezial divozione al vostro ordine. E per ciò vi priego che, come voi al vostro luogo sarete, facciate che a me vegna quel veracissimo corpo di Cristo, il qual voi la mattina sopra l'altare consecrate; per ciò che (come che io degno non ne sia) io intendo colla vostra licenzia di prenderlo, e appresso la santa e ultima unzione, acciò che io, se vivuto son come peccatore, almeno muoia come cristiano.

Il santo uomo disse che molto gli piacea e che egli dicea bene, e farebbe che di presente gli sarebbe apportato; e così fu.

Li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto gl'ingannasse, s'eran posti appresso ad un tavolato, il quale la camera dove ser Ciappelletto giaceva divideva da un'altra, e ascoltando leggiermente udivano e intendevano ciò che ser Ciappelletto al frate diceva; e aveano alcuna volta sì gran voglia di ridere, udendo le cose le quali egli confessava d'aver fatte, che quasi scoppiavano, e fra se' talora dicevano:

- Che uomo è costui, il quale né vecchiezza né infermità né paura di morte alla qual si vede vicino, né ancora di Dio dinanzi al giudicio del quale di qui a picciola ora s'aspetta di dovere essere, dalla sua malvagità l'hanno potuto rimuovere, né far ch'egli così non voglia morire come egli è vivuto?

Ma pur vedendo che sì aveva detto che egli sarebbe a sepoltura ricevuto in chiesa, niente del rimaso si curarono.

Ser Ciappelletto poco appresso si comunico', e peggiorando senza modo, ebbe l'ultima unzione; e poco passato vespro, quel dì stesso che la buona confessione fatta avea, si morì. Per la qual cosa li due fratelli, ordinato di quello di lui medesimo come egli fosse onorevolmente sepellito, e man datolo a dire al luogo de' frati, e che essi vi venissero la sera a far la vigilia secondo l'usanza e la mattina per lo corpo, ogni cosa a ciò opportuna disposero.

Il santo frate che confessato l'avea, udendo che egli era trapassato, fu insieme col priore del luogo, e fatto sonare a capitolo, alli frati ragunati in quello mostrò ser Ciappelletto essere stato santo uomo, secondo che per la sua confessione conceputo avea; e sperando per lui Domenedio dover molti miracoli dimostrare, persuadette loro che con grandissima reverenzia e divozione quello corpo si dovesse ricevere. Alla qual cosa il priore e gli altri frati creduli s'accordarono; e la sera, andati tutti là dove il corpo di ser Ciappelletto giaceva, sopr'esso fecero una grande e solenne vigilia; e la mattina, tutti vestiti co' camici e co' pieviali, con libri in mano e con le croci innanzi, cantando, andaron per questo corpo e con grandissima festa e solennità il recarono alla lor chiesa, seguendo quasi tutto il popolo della città, uomini e donne. E nella chiesa postolo, il santo frate che confessato l'avea, salito in sul pergamo, di lui cominciò e della sua vita, de' suoi digiuni, della sua virginità, della sua simplicità e innocenzia e santità maravigliose cose a predicare, tra l'altre cose narrando quello che ser Ciappelletto per lo suo maggior peccato piagnendo gli avea confessato, e come esso appena gli avea potuto mettere nel capo che Iddio gliele dovesse perdonare, da questo volgendosi a riprendere il popolo che ascoltava, dicendo:

- E voi, maledetti da Dio, per ogni fuscello di paglia che vi si volge tra' piedi bestemmiate Iddio e la Madre, e tutta la corte di paradiso.

E oltre a queste, molte altre cose disse della sua lealtà e della sua purità; e in brieve colle sue parole, alle quali era dalla gente della contrada data intera fede, sì il mise nel capo e nella divozion di tutti coloro che v'erano che, poi che fornito fu l'uficio, colla maggior calca del mondo da tutti fu andato a baciargli i piedi e le mani, e tutti i panni gli furono in dosso stracciati, tenendosi beato chi pure un poco di quegli potesse avere; e convenne che tutto il giorno così fosse tenuto, acciò che da tutti potesse essere veduto e visitato. Poi, la vegnente notte, in una arca di marmo sepellito fu onorevolmente in una cappella, e a mano a mano il dì seguente vi cominciarono le genti ad andare e ad accender lumi e ad adorarlo, e per conseguente a botarsi e ad appiccarvi le imagini della cera secondo la promession fatta.

E in tanto crebbe la fama della sua santità e divozione a lui, che quasi niuno era, che in alcuna avversità fosse, che ad altro santo che a lui si botasse, e chiamaronlo e chiamano san Ciappelletto; e affermano molti miracoli Iddio aver mostrati per lui e mostrare tutto giorno a chi divotamente si raccomanda a lui.

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Così adunque visse e morì ser Cepperello da Prato e santo divenne come avete udito. Il quale negar non voglio essere possibile lui essere beato nella presenza di Dio, per ciò che, come che la sua vita fosse scelerata e malvagia, egli potè in su l'estremo aver sì fatta contrizione, che per avventura Iddio ebbe misericordia di lui e nel suo regno il ricevette; ma, per ciò che questo n'è occulto, secondo quello che ne può apparire ragiono, e dico costui più tosto dovere essere nelle mani del diavolo in perdizione che in paradiso. E se così è, grandissima si può la benignità di Dio cognoscere verso noi, la quale non al nostro errore, ma alla purità della fede riguardando, così faccendo noi nostro mezzano un suo nemico, amico credendolo, ci esaudisce, come se ad uno veramente santo per mezzano della sua grazia ricorressimo. E per ciò, acciò che noi per la sua grazia nelle presenti avversità e in questa compagnia così lieta siamo sani e salvi servati, lodando il suo nome nel quale cominciata l'abbiamo, lui in reverenza avendo, né nostri bisogni gli ci raccomandiamo, sicurissimi d'essere uditi.

E qui si tacque.

GIORNATA SECONDA - NOVELLA QUINTA

Andreuccio da Perugia, venuto a Napoli a comperar cavalli, in una notte da tre gravi accidenti soprapreso, da tutti scampato con un rubino si torna a casa sua

Le pietre da Landolfo trovate - cominciò la Fiammetta, alla quale del novellar toccava - m'hanno alla memoria tornata una novella non guari meno di pericoli in sé contenente che la narrata dalla Lauretta, ma in tanto differente da essa, in quanto quegli forse in più anni e questi nello spazio d'una sola notte addivennero, come udirete.

Fu, secondo che io già intesi, in Perugia un giovane il cui nome era Andreuccio di Pietro, cozzone di cavalli; il quale, avendo inteso che a Napoli era buon mercato di cavalli, messisi in borsa cinquecento fiorin d'oro, non essendo mai più fuori di casa stato, con altri mercatanti là se n'andò: dove giunto una domenica sera in sul vespro , dall'oste suo informato la seguente mattina fu in sul Mercato , e molti ne vide e assai ne gli piacquero e di più e più mercato tenne , né di niuno potendosi accordare , per mostrare che per comperar fosse, sì come rozzo e poco cauto più volte in presenza di chi andava e di chi veniva trasse fuori questa sua borsa de'fiorini che aveva.

E in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata, avvenne che una giovane ciciliana bellissima, ma disposta per piccol pregio a compiacere a qualunque uomo, senza vederla egli, passò appresso di lui e la sua borsa vide e subito seco disse: - Chi starebbe meglio di me se quegli denari fosser miei?- e passò oltre.

Era con questa giovane una vecchia similmente ciciliana, la quale, come vide Andreuccio, lasciata oltre la giovane andare, affettuosamente corse a abbracciarlo: il che la giovane veggendo, senza dire alcuna cosa, da una delle parti la cominciò a attendere. Andreuccio, alla vecchia rivoltosi e conosciutala, le fece gran festa, e promettendogli essa di venire a lui all'albergo, senza quivi tenere troppo lungo sermone, si partì : e Andreuccio si tornò a mercatare ma niente comperò la mattina.

La giovane, che prima la borsa d'Andreuccio e poi la contezza della sua vecchia con lui aveva veduta, per tentare se modo alcuno trovar potesse a dovere aver quelli denari, o tutti o parte, cautamente incominciò a domandare chi colui fosse o donde e che quivi facesse e come il conoscesse. La quale ogni cosa così particularmente de'fatti d'Andreuccio le disse come avrebbe per poco detto egli stesso, sì come colei che lungamente in Cicilia col padre di lui e poi a Perugia dimorata era, e similmente le contò dove tornasse e perché venuto fosse.

La giovane, pienamente informata e del parentado di lui e de'nomi, al suo appetito fornire con una sottil malizia, sopra questo fondò la sua intenzione, e a casa tornatasi, mise la vecchia in faccenda per tutto il giorno acciò che a Andreuccio non potesse tornare; e presa una sua fanticella, la quale essa assai bene a così fatti servigi aveva ammaestrata, in sul vespro la mandò all'albergo dove Andreuccio tornava. La qual, quivi venuta, per ventura lui medesimo e solo trovò in su la porta e di lui stesso il domandò. Alla quale dicendole egli che era desso, essa, tiratolo da parte, disse:

- Messere, una gentil donna di questa terra, quando vi piacesse, vi parleria volentieri- . Il quale ve vedendola, tutto postosi mente e parendogli essere un bel fante della persona, s'avvisò questa donna

dover di lui essere innamorata, quasi altro bel giovane che egli non si trovasse allora in Napoli, e prestamente rispose che era apparecchiato e domandolla dove e quando questa donna parlargli volesse. A cui la fanticella rispose:

- Messere, quando di venir vi piaccia, ella v'attende in casa sua- . Andreuccio presto, senza alcuna cosa dir nell'albergo, disse: - Or via mettiti avanti, io ti verrò appresso- .

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Laonde la fanticella a casa di costei il condusse, la quale dimorava in una contrada chiamata Malpertugio, la quale quanto sia onesta contrada il nome medesimo il dimostra. Ma esso, niente di ciò sappiendo né suspicando, credendosi in uno onestissimo luogo andare e a una cara donna, liberamente, andata la fanticella avanti, se n'entrò nella sua casa; e salendo su per le scale, avendo la fanticella già sua donna chiamata e detto - Ecco Andreuccio- , la vide in capo della scala farsi a aspettarlo.

Ella era ancora assai giovane, di persona grande e con bellissimo viso, vestita e ornata assai orrevolemente; alla quale come Andreuccio fu presso, essa incontrogli da tre gradi discese con le braccia aperte, e avvinghiatogli il collo alquanto stette senza alcuna cosa dire, quasi da soperchia tenerezza impedita; poi lagrimando gli basciò la fronte e con voce alquanto rotta disse:

- O Andreuccio mio, tu sii il ben venuto!- Esso, maravigliandosi di così tenere carezze, tutto stupefatto rispose: - Madonna, voi siate la ben trovata!- Ella appresso, per la man presolo, suso nella sua sala il menò e di quella, senza alcuna cosa parlare, con lui

nella sua camera se n'entrò, la quale di rose, di fiori d'aranci e d'altri odori tutta oliva , là dove egli un bellissimo letto incortinato e molte robe su per le stanghe, secondo il costume di là , e altri assai belli e ricchi arnesi vide; per le quali cose, sì come nuovo, fermamente credette lei dovesse essere non men che gran donna. E postisi a sedere insieme sopra una cassa che appiè del suo letto era, così gli cominciò a parlare:

- Andreuccio, io sono molto certa che tu ti maravigli e delle carezze le quali io ti fo e delle mie lagrime, sì come colui che non mi conosci e per avventura mai ricordar non m'udisti. Ma tu udirai tosto cosa la quale più ti farà forse maravigliare, sì come è che io sia tua sorella; e dicoti che, poi che Idio m'ha fatta tanta grazia che io anzi la mia morte ho veduto alcuno de'miei fratelli, come che io disideri di vedervi tutti, io non morrò a quella ora che io consolata non muoia. E se tu forse questo mai più non udisti, io tel vo'dire. Pietro, mio padre e tuo, come io credo che tu abbi potuto sapere, dimorò lungamente in Palermo, e per la sua bontà e piacevolezza vi fu e è ancora da quegli che il conobbero amato assai. Ma tra gli altri che molto l'amarono, mia madre, che gentil donna fu e allora era vedova, fu quella che più l'amò, tanto che, posta giù la paura del padre e de'fratelli e il suo onore, in tal guisa con lui si dimestico', che io ne nacqui e sonne qual tu mi vedi.

Poi, sopravenuta cagione a Pietro di partirsi di Palermo e tornare in Perugia, me con la mia madre piccola fanciulla lasciò, né mai, per quello che io sentissi, più né di me né di lei si ricordò: di che io, se mio padre stato non fosse, forte il riprenderei avendo riguardo alla ingratitudine di lui verso mia madre mostrata (lasciamo stare allo amore che a me come a sua figliola non nata d'una fante né di vil femina dovea portare), la quale le sue cose e sé parimente, senza sapere altrimenti chi egli si fosse, da fedelissimo amor mossa rimise nelle sue mani.

Ma che è?. Le cose mal fatte e di gran tempo passate sono troppo più agevoli a riprendere che a emendare: la cosa andò pur così . Egli mi lasciò piccola fanciulla in Palermo, dove, cresciuta quasi come io mi sono, mia madre, che ricca donna era, mi diede per moglie a uno da Gergenti, gentile uomo e da bene, il quale per amor di mia madre e di me tornò a stare a Palermo; e quivi, come colui che è molto guelfo cominciò a avere alcuno trattato col nostro re Carlo. Il quale, sentito dal re Federigo prima che dare gli si potesse effetto, fu cagione di farci fuggire di Cicilia quando io aspettava essere la maggior cavalleressa che mai in quella isola fosse; donde, prese quelle poche cose che prender potemmo (poche dico per rispetto alle molte le quali avavamo), la sciate le terre e li palazzi, in questa terra ne rifuggimmo, dove il re Carlo verso di noi trovammo sì grato che, ristoratici in parte li danni li quali per lui ricevuti avavamo, e possessioni e case ci ha date, e dà continuamente al mio marito, e tuo cognato che è, buona provisione, sì come tu potrai ancor vedere. E in questa maniera son qui, dove io, la buona mercé di Dio e non tua , fratel mio dolce, ti veggio -.

E così detto, da capo il rabbracciò e ancora teneramente lagrimando gli basciò la fronte. Andreuccio, udendo questa favola così ordinatamente, così compostamente detta da costei, alla quale in niuno

atto moriva la parola tra'denti né balbettava la lingua, e ricordandosi esser vero che il padre era stato in Palermo e per se medesimo de'giovani conoscendo i costumi, che volentieri amano nella giovanezza, e veggendo le tenere lagrime, gli abbracciari e gli onesti basci, ebbe ciò che ella diceva più che per vero: e poscia che ella tacque, le rispose:

- Madonna, egli non vi dee parer gran cosa se io mi maraviglio: per ciò che nel vero, o che mio padre, per che che egli sel facesse, di vostra madre e di voi non ragionasse giammai, o che, se egli ne ragionò, a mia notizia venuto non sia, io per me niuna coscienza aveva di voi se non come se non foste; e emmi tanto più caro l'avervi qui mia sorella trovata, quanto io ci sono più solo e meno questo sperava. E nel vero io non conosco uomo di sì alto affare al quale voi non doveste esser cara, non che a me che un picciolo mercatante sono. Ma d'una cosa vi priego mi facciate chiaro: come sapeste voi che io qui fossi?"

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Al quale ella rispose: - Questa mattina mel fè sapere una povera femina la qual molto meco si ritiene, per ciò che con nostro padre, per quello che ella mi dica, lungamente e in Palermo e in Perugia stette, e se non fosse che più onesta cosa mi parea che tu a me venissi in casa tua che io a te nell'altrui, egli ha gran pezza che io a te venuta sarei - .

Appresso queste parole ella cominciò distintamente a domandare di tutti i suoi parenti nominatamente, alla quale di tutti Andreuccio rispose, per questo ancora più credendo quello che meno di creder gli bisognava.

Essendo stati i ragionamenti lunghi e il caldo grande, ella fece venire greco e confetti e fè dar bere a Andreuccio; il quale dopo questo partir volendosi, per ciò che ora di cena era, in niuna guisa il sostenne, ma sembiante fatto di forte turbarsi abbracciandol disse:

- Ahi lassa me, ché assai chiaro conosco come io ti sia poco cara! Che è a pensare che tu sii con una tua sorella mai più da te non veduta, e in casa sua, dove, qui venendo, smontato esser dovresti, e vogli di quella uscire per andare a cenare all'albergo? Di vero tu cenerai con esso meco: e perché mio marito non ci sia, di che forte mi grava, io ti saprò bene secondo donna fare un poco d'onore - .

Alla quale Andreuccio, non sappiendo altro che rispondersi, disse: - Io v'ho cara quanto sorella si dee avere, ma se io non ne vado, io sarò tutta sera aspettato a cena e farò villania. Ed ella allora disse: - Lodato sia Idio, se io non ho in casa per cui mandare a dire che tu non sii aspettato! benché tu faresti assai

maggior cortesia, e tuo dovere, mandare a dire a'tuoi compagni che qui venissero a cenare, e poi, se pure andare te ne volessi, ve ne potresti tutti andar di brigata -.

Andreuccio rispose che de'suoi compagni non volea quella sera, ma, poi che pure a grado l'era, di lui facesse il piacer suo. Ella allora fè vista di mandare a dire all'albergo che egli non fosse atteso a cena; e poi, dopo molti altri ragionamenti, postisi a cena e splendidamente di più vivande serviti, astutamente quella menò per lunga infino alla notte obscura; ed essendo da tavola levati e Andreuccio partir volendosi, ella disse che ciò in niuna guisa sofferrebbe , per ciò che Napoli non era terra da andarvi per entro di notte, e massimamente un forestiere; e che come che egli a cena non fosse atteso aveva mandato a dire, così aveva dello albergo fatto il somigliante.

Egli, questo credendo e dilettandogli, da falsa credenza ingannato, d'esser con costei, stette. Furono adunque dopo cena i ragionamenti molti e lunghi non senza cagione tenuti; e essendo della notte una parte passata, ella, lasciato Andreuccio a dormire nella sua camera con un piccol fanciullo che gli mostrasse se egli volesse nulla, con le sue femine in un'altra camera se n'andò.

Era il caldo grande: per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimasto, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell'uno de'canti della camera gli mostrò uno uscio e disse:

- Andate là entro - . Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla

contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n'andò quindi giuso: e di tanto l'amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s'imbrattò. Il quale luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mostrerò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo: sopra due travicelli, tra l'una casa e l'altra posti, alcune tavole eran confitte e il luogo da seder posto, delle quali tavole quella che con lui cadde era l'una.

Ritrovandosi adunque là giù nel chiassetto Andreuccio, dolente del caso, cominciò a chiamare il fanciullo; ma il fanciullo, come sentito l'ebbe cadere, così corse a dirlo alla donna. La quale, corsa alla sua camera, prestamente cercò se i suoi panni v'erano; e trovati i panni e con essi i denari, li quali esso non fidandosi mattamente sempre portava addosso, avendo quello a che ella di Palermo, sirocchia d'un perugin faccendosi, aveva teso il lacciuolo, più di lui non curandosi prestamente andò a chiuder l'uscio del quale egli era uscito quando cadde.

Andreuccio, non rispondendogli il fanciullo, cominciò più forte a chiamare: ma ciò era niente. Per che egli, già sospettando e tardi dello inganno cominciandosi a accorgere salito sopra un muretto che quello chiassolino dalla strada chiudea e nella via disceso, all'uscio della casa, il quale egli molto ben riconobbe, se n'andò, e quivi invano lungamente chiamò e molto il dimenò e percosse . Di che egli piagnendo, come colui che chiara vedea la sua disavventura, cominciò a dire:

- Oimè lasso, in come piccol tempo ho io perduti cinquecento fiorini e una sorella!-

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E dopo molte altre parole, da capo cominciò a battere l'uscio e a gridare; e tanto fece così che molti de'circunstanti vicini, desti, non potendo la noia sofferire, si levarono; e una delle servigiali della donna, in vista tutta sonnocchiosa, fattasi alla finestra proverbiosamente disse:

- Chi picchia là giù ?- - Oh! - disse Andreuccio - o non mi conosci tu? Io sono Andreuccio, fratello di madama Fiordaliso- . Al quale ella rispose: - Buono uomo, se tu hai troppo bevuto, va dormi e tornerai domattina; io non so che

Andreuccio né che ciance son quelle che tu dì ; va in buona ora e lasciaci dormir, se ti piace- . - Come- disse Andreuccio - non sai che io mi dico? Certo sì sai; ma se pur son così fatti i parentadi di Cicilia,

che in sì piccol termine si dimentichino, rendimi almeno i panni miei li quali lasciati v'ho, e io m'andrò volentier con Dio- .

Al quale ella quasi ridendo disse: - Buono uomo, e'mi par che tu sogni- , e il dir questo e il tornarsi dentro e chiuder la finestra fu una cosa. Di che

Andreuccio, già certissimo de'suoi danni, quasi per doglia fu presso a convertire in rabbia la sua grande ira e per ingiuria propose di rivolere quello che per parole riaver non potea; per che da capo, presa una gran pietra, con troppi maggior colpi che prima fieramente cominiciò a percuotere la porta. La qual cosa molti de'vicini avanti destisi e levatisi, credendo lui essere alcuno spiacevole il quale queste parole fingesse per noiare quella buona femina, recatosi a noia il picchiare il quale egli faceva, fattisi alle finestre, non altramenti che a un can forestiere tutti quegli della contrada abbaiano adosso, cominciarono a dire:

- Questa è una gran villania a venire a questa ora a casa le buone femine e dire queste ciance; deh! va con Dio, buono uomo; lasciaci dormir, se ti piace; e se tu hai nulla a far con lei, tornerai domane, e non ci dar questa seccaggine stanotte-

Dalle quali parole forse assicurato uno che dentro dalla casa era, ruffiano della buona femina, il quale egli né veduto né sentito avea, si fece alle finestre e con una boce grossa, orribile e fiera disse:

- Chi è laggiù ?- Andreuccio, a quella voce levata la testa, vide uno il quale, per quel poco che comprender potè, mostrava di

dovere essere un gran bacalare, con una barba nera e folta al volto, e come se del letto o da alto sonno si levasse sbadigliava e stropicciavasi gli occhi: a cui egli, non senza paura, rispose:

- Io sono un fratello della donna di là entro- . Ma colui non aspettò che Andreuccio finisse la risposta, anzi più rigido assai che prima disse: - Io non so a che io mi tegno che io non vegno là giù , e deati tante bastonate quante io ti vegga muovere, asino

fastidioso e ebriaco che tu dei essere, che questa notte non ci lascerai dormire persona- ; e tornatosi dentro serrò la finestra.

Alcuni de'vicini, che meglio conoscieno la condizion di colui, umilmente parlando a Andreuccio dissono: - Per Dio, buono uomo, vatti con Dio, non volere stanotte essere ucciso costì : vattene per lo tuo migliore- . Laonde Andreuccio, spaventato dalla voce di colui e dalla vista e sospinto da'conforti di coloro li quali gli

pareva che da carità mossi parlassero, doloroso quanto mai alcuno altro e de'suoi denar disperato, verso quella parte onde il dì aveva la fanticella seguita, senza sa per dove s'andasse, prese la via per tornarsi all'albergo. E a se medesimo dispiacendo per lo puzzo che a lui di lui veniva, disideroso di volgersi al mare per lavarsi, si torse a man sinistra e su per una via chiamata la Ruga Catalana si mise. E verso l'alto della città andando, per ventura davanti si vide due che verso di lui con una lanterna in mano venieno li quali temendo non fosser della famiglia della corte o altri uomini a mal far disposti, per fuggirli, in un casolare, il qual si vide vicino, pianamente ricoverò. Ma costoro, quasi come a quello proprio luogo inviati andassero, in quel medesimo casolare se n'entrarono; e quivi l'un di loro, scaricati certi ferramenti che in collo avea, con l'altro insieme gl'incominciò a guardare, varie cose sopra quegli ragionando. E mentre parlavano, disse l'uno:

- Che vuol dir questo? Io sento il maggior puzzo che mai mi paresse sentire- ; e questo detto alzata alquanto la lanterna, ebbe veduto il cattivel d'Andreuccio, e stupefatti domandar: - Chi è là?-

Andreuccio taceva, ma essi avvicinatiglisi con lume il domandarono che quivi così brutto facesse: alli quali Andreuccio ciò che avvenuto gli era narrò interamente. Costoro, imaginando dove ciò gli potesse essere avvenuto, dissero fra sè: - Veramente in casa lo scarabone Buttafuoco fia stato questo- . E a lui rivolti, disse l'uno:

- Buono uomo, come che tu abbi perduti i tuoi denari, tu molto a lodare Idio che quel caso ti venne che tu cadesti né potesti poi in casa rientrare: per ciò che, se caduto non fossi, vivi sicuro che, come prima adormentato ti fossi, saresti stato amazzato e co'denari avresti la persona perduta. Ma che giova oggimai di piagnere? Tu ne potresti

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così riavere un denaio come avere delle stelle del cielo: ucciso ne potrai tu bene essere, se colui sente che tu mai ne facci parola- .

E detto questo, consigliatisi alquanto, gli dissero: - Vedi, a noi è presa compassion di te: e per ciò, dove tu vogli con noi essere a fare alcuna cosa la quale a fare

andiamo, egli ci pare esser molto certi che in parte ti toccherà il valere di troppo più che perduto non hai - Andreuccio, sì come disperato, rispuose ch'era presto. Era quel dì sepellito uno arcivescovo di Napoli, chiamato messer Filippo Minutolo, era stato sepellito con

ricchissimi ornamenti e con uno rubino in dito il quale valeva oltre cinquecento fiorin d'oro, il quale costoro volevano andare a spogliare; e così a Andreuccio fecer veduto. Laonde Andreuccio, più cupido che consigliato, con loro si mise in via; e andando verso la chiesa maggiore, e Andreuccio putendo forte, disse l'uno:

- Non potremmo noi trovar modo che costui si lavasse un poco dove che sia, che egli non putisse così fieramente?-

Disse l'altro: - Sì , noi siam qui presso a un pozzo al quale suole sempre esser la carrucola e un gran secchione; andianne là e

laverenlo spacciatamente. Giunti a questo pozzo trovarono che la fune v'era ma il secchione n'era stato levato: per che insieme

diliberarono di legarlo alla fune e di collarlo nel pozzo, e egli là giù si lavasse e, come lavato fosse, crollasse la fune e essi il tirerebber suso; e così fecero.

Avvenne che, avendol costor nel pozzo collato, alcuni della famiglia della signoria, li quali e per lo caldo e perché corsi erano dietro a alcuno avendo sete, a quel pozzo venieno a bere: li quali come quegli due videro, incontanente cominciarono a fuggire, li famigliari che quivi venivano a bere non avendogli veduti.

Essendo già nel fondo del pozzo Andreuccio lavato, dimenò la fune. Costoro assetati, posti giù lor tavolacci e loro armi e lor gonnelle, cominciarono la fune a tirare credendo a quella il secchion pien d'acqua essere appicato.

Come Andreuccio si vide alla sponda del pozzo vicino così , lasciata la fune, con le mani si gittò sopra quella. La qual cosa costoro vedendo, da subita paura presi, senza altro dir lasciaron la fune e cominciarono quanto più poterono a fuggire: di che Andreuccio si maravigliò forte, e se egli non si fosse bene attenuto, egli sarebbe infin nel fondo caduto forse non senza suo gran danno o morte; ma pure uscitone e queste arme trovate, le quali egli sapeva che i suoi compagni non avean portate, ancora più s'incominciò a maravigliare. Ma dubitando e non sappiendo che, della sua fortuna dolendosi, senza alcuna cosa toccar quindi diliberò di partirsi: e andava senza saper dove.

Così andando si venne scontrato in que'due suoi compagni, li quali a trarlo del pozzo venivano; e come il videro, maravigliandosi forte, il domandarono chi del pozzo l'avesse tratto. Andreuccio rispose che non sapea, e loro ordinatamente disse come era avvenuto e quello che trovato aveva fuori del pozzo. Di che costoro, avvisatisi come stato era, ridendo gli contarono perché s'eran fuggiti e chi stati eran coloro che su l'avean tirato. E senza più parole fare, essendo già mezzanotte, n'andarono alla chiesa maggiore, e in quella assai leggiermente entrarono e furono all'arca, la quale era di marmo e molto grande; e con lor ferro il coperchio, ch'era gravissimo, sollevaron tanto quanto uno uomo vi potesse entrare, e puntellaronlo. E fatto questo, cominciò l'uno a dire:

- Chi entrerà dentro?- A cui l'altro rispose: - Non io- . - Nè io- disse colui - ma entrivi Andreuccio-. - Questo non farò io- disse Andreuccio. Verso il quale ammenduni costoro rivolti dissero: - Come non v'enterrai? In fè di Dio, se tu non v'entri, noi ti darem tante d'uno di questi pali di ferro sopra la

testa, che noi ti farem cader morto- . Andreuccio temendo v'entrò, e entrandovi pensò seco: - Costoro mi ci fanno entrare per ingannarmi, per ciò

che, come io avrò loro ogni cosa dato, mentre che io penerò a uscir dall'arca, essi se ne andranno pe'fatti loro e io rimarrò senza cosa alcuna- . E per ciò s'avisò di farsi innanzi tratto la parte sua; e ricordatosi del caro anello che aveva loro udito dire, come fu giù disceso così di dito il trasse all'arcivescovo e miselo a sè; e poi dato il pasturale e la mitra è guanti e spogliatolo infino alla camiscia, ogni cosa diè loro dicendo che più niente v'avea.

Costoro, affermando che esser vi doveva l'anello, gli dissero che cercasse per tutto: ma esso rispondendo che non trovava e sembiante facendo di cercarne, alquanto li tenne ad aspettare. Costoro che d'altra parte eran sì come lui maliziosi ,dicendo pur che ben cercasse preso tempo, tirarono via il puntello che il coperchio dell'arca sostenea, e fuggendosi lui dentro dall'arca lasciaron racchiuso.

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La qual cosa sentendo Andreuccio, qual egli allor divenisse ciascun sel può pensare. Egli tentò più volte e col capo e con le spalle se alzare potesse il coperchio, ma invano si faticava: per che da

grave dolor vinto, venendo meno cadde sopra il morto corpo dell'arcivescovo; e chi allora veduti gli avesse malagevolmente avrebbe conosciuto chi più si fosse morto, o l'arcivescovo o egli. Ma poi che in sé fu ritornato, dirottissimamente cominciò a piagnere, veggendosi quivi senza dubbio all'un de'due fini dover pervenire: o in quella arca, non venendovi alcuni più a aprirla, di fame e di puzzo tra'vermini del morto corpo convenirlo morire, o vegnendovi alcuni e trovandovi lui dentro, sì come ladro dovere essere appiccato.

E in così fatti pensieri e doloroso molto stando, sentì per la chiesa andar genti e parlar molte persone, le quali sì come gli avvisava, quello andavano a fare che esso co'suoi compagni avean già fatto: di che la paura gli crebbe forte. Ma poi che costoro ebbero l'arca aperta e puntellata, in quistion caddero chi vi dovesse entrare, e niuno il voleva fare; pur dopo lunga tencione un prete disse:

- Che paura avete voi? credete voi che egli vi manuchi? Li morti non mangian uomini: io v'entrerò dentro io - . E così detto, posto il petto sopra l'orlo dell'arca, volse il capo in fuori e dentro mandò le gambe per doversi

giuso calare. Andreuccio, questo vedendo, in piè levatosi prese il prete per l'una delle gambe e fè sembiante di volerlo giù

tirare. La qual cosa sentendo il prete mise uno strido grandissimo e presto dell'arca si gittò fuori; della qual cosa tutti gli altri spaventati, lasciata l'arca aperta, non altramente a fuggir cominciarono che se da centomilia diavoli fosser perseguitati.

La qual cosa veggendo Andreuccio, lieto oltre a quello che sperava, subito si gittò fuori e per quella via onde era venuto se ne uscì dalla chiesa; e già avvicinandosi al giorno, con quello anello in dito andando all'avventura, pervenne alla marina e quindi al suo albergo si abbattè ; dove li suoi compagni e l'albergatore trovò tutta la notte stati in sollecitudine de'fatti suoi. A'quali ciò che avvenuto gli era raccontato, parve per lo consiglio dell'oste loro che costui incontanente si dovesse di Napoli partire; la qual cosa egli fece prestamente e a Perugia tornossi, avendo il suo investito in uno anello, dove per comperare cavalli era andato.

GIORNATA TERZA - NOVELLA PRIMA

Masetto da Lamporecchio si fa mutolo e diviene ortolano di uno monistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui.

Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane è sopra il capo posta la benda bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina né più senta de'feminili appetiti se non come se di pietra l'avesse fatta divenire il farla monaca; e se forse alcuna cosa contra questa lor credenza n'odono, così si turbano come se contra natura un grandissimo e scelerato male fosse stato commesso, non pensando né volendo aver rispetto a sé medesimi, li quali la piena licenzia di poter far quel che vogliono non può saziare, né ancora alle gran forze dell'ozio e della solitudine. E similmente sono ancora di quegli assai che credono troppo bene che la zappa e la vanga e le grosse vivande e i disagi tolgano del tutto a'lavoratori della terra i concupiscibili appetiti e rendan loro d'intelletto e d'avvedimento grossissimi. Ma quanto tutti coloro che così credono sieno ingannati, mi piace, poi che la reina comandato me l'ha, non uscendo della proposta fatta da lei, di farvene più chiare con una piccola novelletta.

In queste nostre contrade fu, ed è ancora, un monistero di donne assai famoso di santità (il quale io non nomerò per non diminuire in parte alcuna la fama sua), nel quale, non ha gran tempo, non essendovi allora più che otto donne con una badessa, e tutte giovani, era un buono omicciuolo d'un loro bellissimo giardino ortolano, il quale, non contentandosi del salario, fatta la ragion sua col castaldo delle donne, a Lamporecchio, là ond'egli era, se ne tornò.

Quivi, tra gli altri che lietamente il raccolsono, fu un giovane lavoratore forte e robusto e, secondo uom di villa, con bella persona e con viso assai piacevole, il cui nome era Masetto; e domandollo dove tanto tempo stato fosse. Il buono uomo, che Nuto avea nome, gliele disse. Il quale Masetto domandò, di che egli il monistero servisse. A cui Nuto rispose:

- Io lavorava un loro giardino bello e grande e, oltre a questo, andava alcuna volta al bosco per le legne, attigneva acqua e faceva cotali altri servigetti; ma le donne mi davano sì poco salaro, che io non ne potevo appena pure pagare i calzari. E, oltre a questo, elle son tutte giovani e parmi ch'elle abbiano il diavolo in corpo, ché non si può far cosa niuna al lor modo; anzi, quand'io lavorava alcuna volta l'orto, l'una diceva: - Pon qui questo -; e l'altra: - Pon qui quello -; e l'altra mi toglieva la zappa di mano e diceva: - Questo non sta bene -; e davanmi tanta seccaggine, che io lasciava stare il lavorio e uscivami dell'orto; sì che, tra per l'una cosa e per l'altra, io non vi volli

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star più e sonmene venuto. Anzi mi pregò il castaldo loro, quando io me ne venni, che, se io n'avessi alcuno alle mani che fosse da ciò, che io gliele mandassi, e io gliele promisi; ma tanto il faccia Dio san delle reni, quanto io o ne procaccerò o ne gli manderò niuno.

A Masetto, udendo egli le parole di Nuto, venne nell'animo un disidero sì grande d'esser con queste monache, che tutto se ne struggea, comprendendo per le parole di Nuto che a lui dovrebbe poter venir fatto di quello che egli disiderava. E avvisandosi che fatto non gli verrebbe se a Nuto ne dicesse niente, gli disse:

- Deh come ben facesti a venirtene! Che è un uomo a star con femine? Egli sarebbe meglio a star con diavoli: elle non sanno delle sette volte le sei quello che elle si vogliono elleno stesse.

Ma poi, partito il lor ragionare, cominciò Masetto a pensare che via dovesse tenere a dovere potere esser con loro; e conoscendo che egli sapeva ben fare quegli servigi che Nuto diceva, non dubitò di perder per quello, ma temette di non dovervi esser ricevuto per ciò che troppo era giovane e appariscente. Per che, molte cose divisate seco, imaginò: - Il luogo è assai lontano di qui e niuno mi vi conosce; se io so far vista d'esser mutolo, per certo io vi sarò ricevuto -. E in questa imaginazione fermatosi, con una sua scure in collo, senza dire ad alcuno dove s'andasse, in guisa d'un povero uomo se n'andò al monistero; dove pervenuto, entrò dentro e trovò per ventura il castaldo nella corte; al quale faccendo suoi atti come i mutoli fanno, mostrò di domandargli mangiare per l'amor di Dio e che egli, se bisognasse, gli spezzerebbe delle legne.

Il castaldo gli diè da mangiar volentieri, e appresso questo gli mise innanzi certi ceppi che Nuto non avea potuto spezzare, li quali costui, che fortissimo era, in poca d'ora ebbe tutti spezzati. Il castaldo, che bisogno avea d'andare al bosco, il menò seco, e quivi gli fece tagliate delle legne; poscia, messogli l'asino innanzi, con suoi cenni gli fece intendere che a casa ne le recasse.

Costui il fece molto bene, per che il castaldo a far fare certe bisogne che gli eran luogo più giorni vel tenne. De quali avvenne che uno dì la badessa il vide, e domandò il castaldo chi egli fosse. Il quale le disse:

- Madonna, questi è un povero uomo mutolo e sordo, il quale un di questi dì ci venne per limosina, sì che io gli ho fatto bene, e hogli fatte fare assai cose che bisogno c'erano. Se egli sapesse lavorar l'orto e volesseci rimanere, io mi credo che noi n'avremmo buon servigio, per ciò che egli ci bisogna, ed egli è forte e potrebbene l'uom fare ciò che volesse; e, oltre a questo, non vi bisognerebbe d'aver pensiero che egli motteggiasse queste vostre giovani.

A cui la badessa disse: - In fè di Dio tu di'il vero. Sappi se egli sa lavorare e ingegnati di ritenercelo; dagli qualche paio di scarpette

qualche cappuccio vecchio, e lusingalo, fagli vezzi, dagli ben da mangiare. Il castaldo disse di farlo. Masetto non era guari lontano, ma faccendo vista di spazzar la corte tutte queste parole udiva, e seco lieto

diceva: - Se voi mi mettete costà entro, io vi lavorrò sì l'orto che mai non vi fu così lavorato -. Ora, avendo il castaldo veduto che egli ottimamente sapea lavorare e con cenni domandatolo se egli voleva star

quivi, e costui con cenni rispostogli che far voleva ciò che egli volesse, avendolo ricevuto, gl'impose che egli l'orto lavorasse e mostrogli quello che a fare avesse; poi andò per altre bisogne del monistero, e lui lasciò. Il quale lavorando l'un dì appresso l'altro, le monache incominciarono a dargli noia e a metterlo in novelle, come spesse volte avviene che altri fa de'mutoli, e dicevangli le più scelerate parole del mondo, non credendo da lui essere intese; e la badessa, che forse estimava che egli così senza coda come senza favella fosse, di ciò poco o niente si curava.

Or pure avvenne che costui un dì avendo lavorato molto e riposandosi, due giovinette monache, che per lo giardino andavano, s'appressarono là dove egli era, e lui che sembiante facea di dormire cominciarono a riguardare. Per che l'una, che alquanto era più baldanzosa, disse all'altra:

- Se io credessi che tu mi tenessi credenza, io ti direi un pensiero che io ho avuto più volte, il quale forse anche a te potrebbe giovare.

L'altra rispose: - Di'sicuramente, ché per certo io nol dirò mai a persona. Allora la baldanzosa incominciò: - Io non so se tu t'hai posto mente come noi siamo tenute strette, né che mai qua entro uomo alcuno osa entrare,

se non il castaldo ch'è vecchio e questo mutolo; e io ho più volte a più donne, che a noi son venute, udito dire che tutte l'altre dolcezze del mondo sono una beffa a rispetto di quella quando la femina usa con l'uomo. Per che io m'ho più volte messo in animo, poiché con altrui non posso, di volere con questo mutolo provare se così è. Ed egli è il miglior del mondo da ciò costui; ché, perché egli pur volesse, egli nol potrebbe né saprebbe ridire. Tu vedi ch'egli è un cotal giovanaccio sciocco, cresciuto innanzi al senno; volentieri udirei quello che a te ne pare.

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- Ohimè,—disse l'altra—che è quello che tu di'? Non sai tu che noi abbiam promesso la virginità nostra a Dio? - O,—disse colei—quante cose gli si promettono tutto '1 dì, che non se ne gli attiene niuna! se noi gliele abbiam

promessa, truovisi un'altra o dell'altre che gliele attengano. A cui la compagna disse: - O se noi ingravidassimo, come andrebbe il fatto? Quella allora disse: - Tu cominci ad aver pensiero del mal prima che egli ti venga; quando cotesto avvenisse, allora si vorrà

pensare; egli ci avrà mille modi da fare sì che mai non si saprà, pur che noi medesime nol diciamo. Costei, udendo ciò, avendo già maggior voglia che l'altra di provare che bestia fosse l'uomo, disse: - Or bene, come faremo? A cui colei rispose: - Tu vedi ch'egli è in su la nona; io mi credo che le suore sien tutte a dormire, se non noi; guatiam per l'orto se

persona ci è, e s'egli non ci è persona, che abbiam noi a fare se non a pigliarlo per mano e menarlo in questo capannetto, là dove egli fugge l'acqua; e quivi l'una si stea dentro con lui e l'altra faccia la guardia? Egli è sì sciocco, che egli s'acconcerà comunque noi vorremo.

Masetto udiva tutto questo ragionamento, e disposto ad ubidire, niuna cosa aspettava se non l'esser preso dall'una di loro.

Queste, guardato ben per tutto e veggendo che da niuna parte potevano esser vedute, appressandosi quella che mosse avea le parole a Masetto, lui destò, ed egli incontanente si levò in piè. Per che costei con atti lusinghevoli presolo per la mano, ed egli faccendo cotali risa sciocche, il menò nel capannetto, dove Masetto senza farsi troppo invitare quel fe ce che ella volle. La quale, sì come leale compagna, avuto quel che volea, diede all'altra luogo, e Masetto, pur mostrandosi semplice, faceva il lor volere. Per che avanti che quindi si dipartissono, da una volta in su ciascuna provar volle come il mutolo sapea cavalcare; e poi, seco spesse volte ragionando, dicevano che bene era così dolce cosa, e più, come udito aveano; e prendendo a convenevoli ore tempo, col mutolo s'andavano a trastullare.

Avvenne un giorno che una lor compagna, da una finestretta della sua cella di questo fatto avvedutasi, a due altre il mostrò. E prima tennero ragionamento insieme di doverle accusare alla badessa; poi, mutato consiglio e con loro accordatesi, partefici divennero del podere di Masetto. Alle quali l'altre tre per diversi accidenti divenner compagne in vari tempi.

Ultimamente la badessa, che ancora di queste cose non s'accorgea, andando un dì tutta sola per lo giardino, essendo il caldo grande, trovò Masetto (il qual di poca fatica il dì, per lo troppo cavalcar della notte, aveva assai) tutto disteso al l'ombra d'un mandorlo dormirsi, e avendogli il vento i panni dinanzi levati indietro, tutto stava scoperto.

La qual cosa riguardando la donna, e sola vedendosi, in quel medesimo appetito cadde che cadute erano le sue monacelle; e, destato Masetto, seco nella sua camera nel menò, dove parecchi giorni, con gran querimonia dalle monache fatta che l'ortolano non venia a lavorar l'orto, il tenne, provando e riprovando quella dolcezza la qual essa prima all'altre solea biasimare.

Ultimamente della sua camera alla stanza di lui rimandatolne, e molto spesso rivolendolo, e oltre a ciò più che parte volendo da lui, non potendo Masetto sodisfare a tante, s'avvisò che il suo esser mutolo gli potrebbe, se più stesse, in troppo gran danno resultare. E perciò una notte colla badessa essendo, rotto lo scilinguagnolo, cominciò a dire:

- Madonna, io ho inteso che un gallo basta assai bene a dieci galline, ma che dieci uomini possono male o con fatica una femina sodisfare, dove a me ne conviene servir nove, al che per cosa del mondo io non potrei durare; anzi son io, per quello che infino a qui ho fatto, a tal venuto che io non posso far né poco né molto; e perciò o voi mi lasciate andar con Dio, o voi a questa cosa trovate modo.

La donna udendo costui parlare, il quale ella teneva mutolo, tutta stordì, e disse: - Che è questo? Io credeva che tu fossi mutolo. - Madonna, - disse Masetto - io era ben così, ma non per natura, anzi per una infermità che la favella mi tolse, e

solamente da prima questa notte la mi sento essere restituita, di che io lodo Iddio quant'io posso. La donna sel credette, e domandollo che volesse dir ciò che egli a nove aveva a servire. Masetto le disse il fatto.

Il che la badessa udendo, s'accorse che monaca non avea che molto più savia non fosse di lei; per che, come

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discreta, senza lasciar Masetto partire, dispose di voler colle sue monache trovar modo a questi fatti, acciò che da Masetto non fosse il monistero vituperato.

Ed essendo di que'dì morto il lor castaldo, di pari consenatimento, apertosi tra tutte ciò che per addietro da tutte era stato fatto, con piacer di Masetto ordinarono che le genti circustanti credettero che, per le loro orazioni e per gli meriti del santo in cui intitolato era il monistero, a Masetto, stato lungamente mutolo, la favella fosse restituita, e lui castaldo fecero; e per sì fatta maniera le sue fatiche partirono, che egli le poté comportare. Nelle quali, come che esso assai monachin generasse, pur sì discretamente procedette la cosa che niente se ne sentì se non dopo la morte della badessa, essendo già Masetto presso che vecchio e disideroso di tornarsi ricco a casa; la qual cosa saputa, di leggier gli fece venir fatto.

Così adunque Masetto vecchio, padre e ricco, senza aver fatica di nutricar figliuoli o spesa di quegli, per lo suo avvedimento avendo saputo la sua giovanezza bene adoperare, donde con una scure in collo partito s'era se ne tornò, affermando che così trattava Cristo chi gli poneva le corna sopra '1 cappello.

GIORNATA QUARTA - NOVELLA QUINTA

I fratelli dell'Isabetta uccidon l'amante di lei; egli l'apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso

Finita la novella d'Elissa, e alquanto dal re commendata, a Filomena fu imposto che ragionasse; la quale, tutta piena di compassione del misero Gerbino e della sua donna, dopo un pietoso sospiro incominciò.

La mia novella, graziose donne, non sarà di genti di sì alta condizione, come costoro furono de'quali Elissa ha raccontato, ma ella per avventura non sarà men pietosa; e a ricordarmi di quella mi tira Messina poco innanzi ricordata, dove l'accidente avvenne.

Erano adunque in Messina tre giovani fratelli e mercatanti, e assai ricchi uomini rimasi dopo la morte del padre loro, il qual fu da San Gimignano, e avevano una lor sorella chiamata Lisabetta, giovane assai bella e costumata, la quale, che che se ne fosse cagione, ancora maritata non aveano.

E avevano oltre a ciò questi tre fratelli in uno lor fondaco un giovinetto pisano chiamato Lorenzo, che tutti i lor fatti guidava e faceva, il quale, essendo assai bello della persona e leggiadro molto, avendolo più volte l'Isabetta guatato, avvenne che egli le 'ncominciò stranamente a piacere. Di che Lorenzo accortosi e una volta e altra, similmente, lasciati suoi altri innamoramenti di fuori, incominciò a porre l'animo a lei; e sì andò la bisogna che, piacendo l'uno all'altro igualmente, non passò gran tempo che, assicuratisi, fecero di quello che più disiderava ciascuno.

E in questo continuando e avendo insieme assai di buon tempo e di piacere, non seppero sì segretamente fare che una notte, andando l'Isabetta là dove Lorenzo dormiva, che il maggior de'fratelli, senza accorgersene ella, non se ne accorgesse. Il quale, per ciò che savio giovane era, quantunque molto noioso gli fosse a ciò sapere, pur mosso da più onesto consiglio, senza far motto o dir cosa alcuna, varie cose fra sé rivolgendo intorno a questo fatto, infino alla mattina seguente trapassò.

Poi, venuto il giorno, a'suoi fratelli ciò che veduto avea la passata notte dell'Isabetta e di Lorenzo raccontò, e con loro insieme, dopo lungo consiglio, diliberò di questa cosa, acciò che né a loro né alla sirocchia alcuna infamia ne seguisse, di passarsene tacitamente e d'infignersi del tutto d'averne alcuna cosa veduta o saputa infino a tanto che tempo venisse nel qua le essi, senza danno o sconcio di loro, questa vergogna, avanti che più andasse innanzi, si potessero torre dal viso.

E in tal disposizion dimorando, così cianciando e ridendo con Lorenzo come usati erano avvenne che, sembianti faccendo d'andare fuori della città a diletto tutti e tre, seco menarono Lorenzo; e pervenuti in un luogo molto solitario e rimoto, veggendosi il destro, Lorenzo, che di ciò niuna guardia prendeva, uccisono e sotterrarono in guisa che niuna persona se ne accorse. E in Messina tornati dieder voce d'averlo per lor bisogne mandato in alcun luogo; il che leggiermente creduto fu, per ciò che spesse volte eran di mandarlo attorno usati.

Non tornando Lorenzo, e l'Isabetta molto spesso e sollicitamente i fratei domandandone, sì come colei a cui la dimora lunga gravava, avvenne un giorno che, domandandone ella molto instantemente, che l'uno de'fratelli le disse:

- Che vuol dir questo? Che hai tu a fare di Lorenzo, ché tu ne domandi così spesso? Se tu ne domanderai più, noi ti faremo quella risposta che ti si conviene.

Per che la giovane dolente e trista, temendo e non sappiendo che, senza più domandarne si stava, e assai volte la notte pietosamente il chiamava e pregava che ne venisse, e alcuna volta con molte lagrime della sua lunga dimora si doleva e, senza punto rallegrarsi, sempre aspettando si stava.

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Avvenne una notte che, avendo costei molto pianto Lorenzo che non tornava, ed essendosi alla fine piagnendo addormentata, Lorenzo l'apparve nel sonno, pallido e tutto rabbuffato e con panni tutti stracciati e fracidi indosso, e parvele che egli dicesse:

- O Lisabetta, tu non mi fai altro che chiamare e della mia lunga dimora t'attristi, e me con le tue lagrime fieramente accusi; e per ciò sappi che io non posso più ritornarci, per ciò che l'ultimo dì che tu mi vedesti i tuoi fratelli m'uccisono.

E disegnatole il luogo dove sotterrato l'aveano, le disse che più nol chiamasse né l'aspettasse, e disparve. La giovane destatasi, e dando fede alla visione, amaramente pianse. Poi la mattina levata, non avendo ardire di

dire al cuna cosa a'fratelli, propose di volere andare al mostrato luogo e di vedere se ciò fosse vero che nel sonno l'era paruto. E avuta la licenza d'andare alquanto fuor della terra a diporto, in compagnia d'una che altra volta con loro era stata e tutti i suoi fatti sapeva, quanto più tosto potè là se n'andò; e tolte via foglie secche che nel luogo erano, dove men dura le parve la terra quivi cavò; né ebbe guari cavato, che ella trovò il corpo del suo misero amante in niuna cosa ancora guasto né corrotto; per che manifestamente conobbe essere stata vera la sua visione. Di che più che altra femina dolorosa, conoscendo che quivi non era da piagnere, se avesse potuto volentieri tutto il corpo n'avrebbe portato per dargli più convenevole sepoltura; ma, veggendo che ciò esser non poteva, con un coltello il meglio che potè gli spiccò dallo 'mbusto la testa, e quella in uno asciugatoio inviluppata e la terra sopra l'altro corpo gittata, messala in grembo alla fante, senza essere stata da alcun veduta, quindi si partì e tornossene a casa sua.

Quivi con questa testa nella sua camera rinchiusasi, sopra essa lungamente e amaramente pianse, tanto che tutta con le sue lagrime la lavò, mille baci dandole in ogni parte. Poi prese un grande e un bel testo, di questi nei quali si pianta la persa o il bassilico, e dentro la vi mise fasciata in un bel drappo, e poi messovi su la terra, su vi piantò parecchi piedi di bellissimo bassilico salernetano, e quegli di niuna altra acqua che o rosata o di fior d'aranci o delle sue lagrime non inaffiava giammai; e per usanza avea preso di sedersi sempre a questo testo vicina, e quello con tutto il suo disidero vagheggiare, sì come quello che il suo Lorenzo teneva nascoso; e poi che molto vagheggiato l'avea, sopr'esso andatasene, cominciava a piagnere, e per lungo spazio, tanto che tutto il bassilico bagnava, piagnea.

Il bassilico, sì per lo lungo e continuo studio, sì per la grassezza della terra procedente dalla testa corrotta che dentro v'era, divenne bellissimo e odorifero molto. E servando la giovane questa maniera del continuo, più volte da'suoi vicini fu veduta. Li quali, maravigliandosi i fratelli della sua guasta bellezza e di ciò che gli occhi le parevano della testa fuggiti, il disser loro:

- Noi ci siamo accorti, che ella ogni dì tiene la cotal maniera. Il che udendo i fratelli e accorgendosene, avendonela alcuna volta ripresa e non giovando, nascosamente da lei

fecer portar via questo testo. Il quale, non ritrovandolo ella, con grandissima instanzia molte volte richiese; e non essendole renduto, non cessando il pianto e le lagrime, infermò, né altro che il testo suo nella infermità domandava.

I giovani si maravigliavan forte di questo addimandare e per ciò vollero vedere che dentro vi fosse; e versata la terra, videro il drappo e in quello la testa non ancor sì consumata che essi alla capellatura crespa non conoscessero lei esser quella di Lorenzo. Di che essi si maravigliaron forte e temettero non questa cosa si risapesse; e sotterrata quella, senza altro dire, cautamente di Messina uscitisi e ordinato come di quindi si ritraessono, se n'andarono a Napoli.

La giovane non restando di piagnere e pure il suo testo addimandando, piagnendo si morì; e così il suo disavventurato amore ebbe termine. Ma poi a certo tempo divenuta questa cosa manifesta a molti, fu alcuno che compuose quel la canzone la quale ancora oggi si canta, cioè:

Quale esso fu lo malo cristiano, che mi furò la grasta, ecc.

GIORNATA QUINTA - NOVELLA QUARTA

Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.

Tacendosi Elissa, le lode ascoltando dalle sue compagne date alla sua novella, impose la reina a Filostrato che alcuna ne dicesse egli; il quale ridendo incominciò.

Io sono stato da tante di voi tante volte morso, perché io materia da crudeli ragionamenti e da farvi piagner v'imposi, che a me pare, a volere alquanto questa noia ristorare, esser tenuto di dover dire alcuna cosa per la quale io

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alquanto vi faccia ridere; e per ciò uno amore, non da altra noia che di sospiri e d'una brieve paura con vergogna mescolata, a lieto fin pervenuto, in una novelletta assai piccola intendo di raccontarvi.

Non è adunque, valorose donne, gran tempo passato che in Romagna fu un cavaliere assai da bene e costumato, il qual fu chiamato messer Lizio da Valbona, a cui per ventura vicino alla sua vecchiezza una figliuola nacque d'una sua donna chiamata madonna Giacomina, la quale oltre ad ogn'altra della contrada, crescendo, divenne bella e piacevole; e per ciò che sola era al padre e alla madre rimasa, sommamente da loro era amata e avuta cara e con maravigliosa diligenza guardata, aspettando essi di far di lei alcun gran parentado.

Ora usava molto nella casa di messer Lizio, e molto con lui si riteneva, un giovane bello e fresco della persona, il quale era de'Manardi da Brettinoro, chiamato Ricciardo, del quale niun'altra guardia messer Lizio o la sua donna prendevano, che fatto avrebbon d'un lor figliuolo. Il quale, una volta e altra veggendo la giovane bellissima e leggiadra, e di laudevoli maniere e costumi e già da marito, di lei fieramente s'innamorò, e con gran diligenza il suo amore teneva occulto. Del quale avvedutasi la giovane, senza schifar punto il colpo, lui similmente cominciò ad amare; di che Ricciardo fu forte contento.

E avendo molte volte avuta voglia di doverle alcuna parola dire, e dubitando taciutosi, pure una, preso tempo e ardire, le disse:

- Caterina, io ti priego che tu non mi facci morire amando. La giovane rispose subito: - Volesse Iddio che tu non facessi più morir me. Questa risposta molto di piacere e d'ardire aggiunse a Ricciardo, e dissele : - Per me non istarà mai cosa che a grado ti sia, ma a te sta il trovar modo allo scampo della tua vita e della mia. La giovane allora disse: - Ricciardo, tu vedi quanto io sia guardata, e per ciò da me non so veder come tu a me ti potessi venire; ma, se

tu sai veder cosa che io possa senza mia vergogna fare, dillami, e io la farò. Ricciardo, avendo più cose pensato, subitamente disse: - Caterina mia dolce, io non so alcuna via veder, se già tu non dormissi o potessi venire in su '1 verone che è

presso al giardino di tuo padre, dove se io sapessi che tu di notte fossi, senza fallo io m'ingegnere' di venirvi, quantunque molto alto sia.

A cui la Caterina rispose: - Se quivi ti dà il cuore di venire, io mi credo ben far sì che fatto mi verrà di dormirvi. Ricciardo disse di sì. E questo detto, una volta sola si baciarono alla sfuggita, e andar via. Il dì seguente, essendo già vicino alla fine di maggio, la giovane cominciò davanti alla madre a ramaricarsi che

la passata notte per lo soperchio caldo non aveva potuto dormire. Disse la madre: - O figliuola, che caldo fu egli? Anzi non fu egli caldo veruno A cui la Caterina disse: - Madre mia, voi dovreste dire - a mio parere - , e forse vi direste il vero; ma voi dovreste pensare quanto sieno

più calde le fanciulle che le donne attempate. La donna disse allora: - Figliuola mia, così è il vero; ma io non posso far caldo e freddo a mia posta, come tu forse vorresti. I tempi si

convengon pur sofferir fatti come le stagioni gli danno; forse quest'altra notte sarà più fresco, e dormirai meglio. - Ora Iddio il voglia,- disse la Caterina - ma non suole essere usanza che, andando verso la state, le notti si

vadan rinfrescando. - Dunque,- disse la donna - che vuoi tu che si faccia? Rispose la Caterina: - Quando a mio padre e a voi piacesse, io farei volentieri fare un letticello in su '1 verone che è allato alla sua

camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, e udendo cantare l'usignuolo, e avendo il luogo più fresco, molto meglio starei che nella vostra camera non fo.

La madre allora disse: - Figliuola, confortati; io il dirò a tuo padre, e come egli vorrà così faremo.

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Le quali cose udendo messer Lizio dalla sua donna, per ciò che vecchio era e da questo forse un poco ritrosetto, disse:

- Che rusignuolo è questo a che ella vuol dormire? Io la farò ancora addormentare al canto delle cicale. Il che la Caterina sappiendo, più per isdegno che per caldo, non solamente la seguente notte non dormì, ma ella

non lasciò dormire la madre, pur del gran caldo dolendosi. Il che avendo la madre sentito, fu la mattina a messer Lizio e gli disse: - Messer, voi avete poco cara questa giovane. Che vi fa egli perché ella sopra quel veron si dorma? Ella non ha

in tutta notte trovato luogo di caldo, e oltre a ciò maravigliatevi voi perché egli le sia in piacere l'udir cantar l'usignuolo, che è una fanciullina? I giovani son vaghi delle cose simiglianti a loro.

Messer Lizio udendo questo disse: - Via, faccialevisi un letto tale quale egli vi cape, e fallo fasciar dattorno d'alcuna sargia, e dormavi, e oda

cantar l'usignuolo a suo senno. La giovane, saputo questo, prestamente vi fece fare un letto; e dovendovi la sera vegnente dormire, tanto attese

che ella vide Ricciardo, e fecegli un segno posto tra loro, per lo quale egli intese ciò che far si dovea. Messer Lizio, sentendo la giovane essersi andata al letto, serrato uno uscio che della sua camera andava sopra 'l

verone, similmente s'andò a dormire. Ricciardo, come d'ogni parte sentì le cose chete, con lo aiuto d'una scala salì sopra un muro, e poi d'in su quel

muro appiccandosi a certe morse d'un altro muro, con gran fatica e pericolo, se caduto fosse, pervenne in sul verone, dove chetamente con grandissima festa dalla giovane fu ricevuto; e dopo molti baci si coricarono insieme, e quasi per tutta la notte diletto e piacer presono l'un dell'altro, molte volte faccendo cantar l'usignuolo.

Ed essendo le notti piccole e il diletto grande, e già al giorno vicino (il che essi non credevano), e sì ancora riscaldati e sì dal tempo e sì dallo scherzare, senza alcuna cosa addosso s'addormentarono, avendo a Caterina col destro braccio abbracciato sotto il collo Ricciardo, e con la sinistra mano presolo per quella cosa che voi tra gli uomini più vi vergognate di nominare.

E in cotal guisa dormendo, senza svegliarsi, sopravenne il giorno, e messer Lizio si levò; e ricordandosi la figliuola dormire sopra '1 verone, chetamente l'uscio aprendo disse:

- Lasciami vedere come l'usignuolo ha fatto questa notte dormir la Caterina. E andato oltre, pianamente levò alta la sargia della quale il letto era fasciato e Ricciardo e lei vide ignudi e

scoperti dormire abbracciati nella guisa di sopra mostrata; e avendo ben conosciuto Ricciardo, di quindi s'uscì, e andonne alla camera della sua donna e chiamolla, dicendo:

- Su tosto, donna, lievati e vieni a vedere, ché tua figliuola è stata sì vaga dell'usignuolo che ella è stata tanto alla posta che ella l'ha preso e tienlosi in mano.

Disse la donna: - Come può questo essere? Disse messer Lizio: - Tu il vedrai se tu vien tosto. La donna, affrettatasi di vestire, chetamente seguitò messer Lizio, e giunti amenduni al letto e levata la sargia,

potè manifestamente vedere madonna Giacomina come la figliuola avesse preso e tenesse l'usignuolo, il quale ella tanto disiderava d'udir cantare.

Di che la donna, tenendosi forte di Ricciardo ingannata, volle gridare e dirgli villania; ma messer Lizio le disse: - Donna, guarda che per quanto tu hai caro il mio amore tu non facci motto, ché in verità, poscia che ella l'ha

preso, egli sì sarà suo. Ricciardo è gentile uomo e ricco giovane; noi non possiamo aver di lui altro che buon parentado; se egli si vorrà a buon concio da me partire, egli converra che primieramente la sposi; sì ch'egli si troverrà aver messo l'usignuolo nella gabbia sua e non nell'altrui.

Di che la donna racconsolata, veggendo il marito non esser turbato di questo fatto, e considerando che la figliuola aveva avuta la buona notte ed erasi ben riposata e aveva l'usignuolo preso, si tacque.

Né guari dopo queste parole stettero, che Ricciardo si svegliò, e veggendo che il giorno era chiaro, si tenne morto, e chiamò la Caterina, dicendo:

- Ohimè, anima mia, come faremo, ché il giorno è venuto e hammi qui colto? Alle quali parole messer Lizio, venuto oltre e levata la sargia, rispose:

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- Farete bene Quando Ricciardo li vide, parve che gli fosse il cuor del corpo strappato e levatosi a sedere in sul letto disse: - Signor mio, io vi cheggio mercé per Dio. Io conosco, sì come disleale e malvagio uomo, aver meritato morte,

e per ciò fate di me quello che più vi piace. Ben vi priego io, se esser può, che voi abbiate della mia vita mercè, e che io non muoia.

A cui messer Lizio disse: - Ricciardo, questo non meritò l'amore il quale io ti portava e la fede la quale io aveva in te; ma pur, poi che

così è e a tanto fallo t'ha trasportato la giovanezza, acciò che tu tolga a te la morte e a me la vergogna, prima che tu ti muova, sposa per tua legittima moglie la Caterina, acciò che, come ella è stata questa notte tua, così sia mentre ella viverà; e in questa guisa puoi e la mia pace e la tua salvezza acquistare; e ove tu non vogli così fare, raccomanda a Dio l'anima tua.

Mentre queste parole si dicevano, la Caterina lasciò l'usignuolo, e ricopertasi, cominciò fortemente a piagnere e a pregare il padre che a Ricciardo perdonasse; e d'altra parte pregava Ricciardo che quel facesse che messer Lizio volea, acciò che con sicurtà e lungo tempo potessono insieme di così fatte notti avere.

Ma a ciò non furono troppi prieghi bisogno; per ciò che d'una parte la vergogna del fallo commesso e la voglia dello emendare, e d'altra la paura del morire e il disiderio dello scampare, e oltre a questo l'ardente amore e l'appetito del possedere la cosa amata, liberamente e senza alcuno indugio gli fecer dire sé esser apparecchiato a far ciò che a messer Lizio piaceva.

Per che messer Lizio, fattosi prestare a madonna Giacomina uno de'suoi anelli, quivi, senza mutarsi, in presenzia di loro Ricciardo per sua moglie sposò la Caterina.

La qual cosa fatta, messer Lizio e la donna partendosi dissono: - Riposatevi oramai, ché forse maggior bisogno n'avete che di levarvi. Partiti costoro, i giovani si rabbracciarono insieme, e non essendo più che sei miglia camminati la notte, altre

due anzi che si levassero ne camminarono, e fecer fine alla prima giornata. Poi levati, e Ricciardo avuto più ordinato ragionamento con messer Lizio, pochi dì appresso, sì come si

convenia, in presenzia degli amici e de'parenti da capo sposò la giovane, e con gran festa se ne la menò a casa, e fece onorevoli e belle nozze, e poi con lei lungamente in pace e in consolazione uccellò agli usignuoli e di dì e di notte quanto gli piacque.

GIORNATA SESTA - NOVELLA QUINTA

Messer Forese da Rabatta e maestro Giotto dipintore, venendo di Mugello, l'uno la sparuta apparenza dell'altro motteggiando morde.

Come Neifile tacque, avendo molto le donne preso di piacere della risposta di Chichibio, così Panfilo per voler della reina disse.

Carissime donne, egli avviene spesso che, sì come la Fortuna sotto vili arti alcuna volta grandissimi tesori di virtù nasconde, come poco avanti per Pampinea fu mostrato, così ancora sotto turpissime forme d'uomini si truovano maravigliosi ingegni dalla Natura essere stati riposti.

La qual cosa assai apparve in due nostri cittadini, de'quali io intendo brievemente di ragionarvi. Per ciò che l'uno, il quale messer Forese da Rabatta fu chiamato, essendo di persona piccolo e sformato, con viso piatto e ricagnato, che a qualunque de'Baronci più trasformato l'ebbe sarebbe stato sozzo, fu di tanto sentimento nelle leggi, che da molti valenti uomini uno armario di ragione civile fu reputato. E l'altro, il cui nome fu Giotto, ebbe uno ingegno di tanta eccellenzia, che niuna cosa dà la Natura, madre di tutte le cose e operatrice col continuo girar de'cieli, che egli con lo stile e con la penna o col pennello non dipignesse sì simile a quella, che non simile, anzi più tosto dessa paresse, in tanto che molte volte nelle cose da lui fatte si truova che il visivo senso degli uomini vi prese errore, quello credendo esser vero che era dipinto.

E per ciò, avendo egli quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto gli error d'alcuni, che più a dilettar gli occhi degl'ignoranti che a compiacere allo 'ntelletto de'savi dipignendo intendeano, era stata sepulta, meritamente una delle luci della fiorentina gloria dir si puote; e tanto più, quanto con maggiore umiltà, maestro degli altri in ciò vivendo, quella acquistò, sempre rifiutando d'esser chiamato maestro. Il quale titolo rifiutato da lui tanto più in lui risplendeva, quanto con maggior disidero da quegli che men sapevano di lui o dà suoi discepoli era cupidamente

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usurpato. Ma, quantunque la sua arte fosse grandissima, non era egli per ciò né di persona né d'aspetto in niuna cosa più bello che fosse messer Forese.

Ma, alla novella venendo, dico che avevano in Mugello messer Forese e Giotto lor possessioni; ed essendo messer Forese le sue andate a vedere, in quegli tempi di state che le ferie si celebran per le corti, e per avventura in su un cattivo ronzino da vettura venendosene, trovò il già detto Giotto, il qual similmente avendo le sue vedute, se ne tornava a Firenze. Il quale, né in cavallo né in arnese essendo in cosa alcuna meglio di lui, sì come vecchi, a pian passo venendosene, insieme s'accompagnarono.

Avvenne, come spesso di state veggiamo avvenire, che una subita piova gli soprapprese; la quale essi, come più tosto poterono, fuggirono in casa d'un lavoratore amico e conoscente di ciascuno di loro. Ma dopo alquanto, non faccendo l'acqua alcuna vista di dover ristare, e costoro volendo essere il dì a Firenze, presi dal lavoratore in prestanza due mantellacci vecchi di romagnuolo e due cappelli tutti rosi dalla vecchiezza, per ciò che migliori non v'erano, cominciarono a camminare.

Ora, essendo essi alquanto andati, e tutti molli veggendosi, e per gli schizzi che i ronzini fanno co'piedi in quantità zaccherosi (le quali cose non sogliono altrui accrescer punto d'orrevolezza), rischiarandosi alquanto il tempo, essi, che lungamente erano venuti taciti, cominciarono a ragionare.

E messer Forese, cavalcando e ascoltando Giotto, il quale bellissimo favellatore era, cominciò a considerarlo e da lato e da capo e per tutto, e veggendo ogni cosa così disorrevole e così disparuto, senza avere a sé niuna considerazione, cominciò a ridere, e disse:

- Giotto, a che ora venendo di qua allo 'ncontro di noi un forestiere che mai veduto non t'avesse, credi tu che egli credesse che tu fossi il miglior dipintor del mondo, come tu sé?

A cui Giotto prestamente rispose: - Messere, credo, che egli il crederebbe allora che, guardando voi, egli crederebbe che voi sapeste l'abicì. Il che messer Forese udendo, il suo error riconobbe, e videsi di tal moneta pagato, quali erano state le derrate

vendute.

GIORNATA SETTIMA - NOVELLA SECONDA

Peronella mette un suo amante in un doglio, tornando il marito a casa; il quale avendo il marito venduto, ella dice che venduto l'ha ad uno che dentro v'è a vedere se saldo gli pare. Il quale saltatone fuori, il fa radere al marito, e poi portarsenelo a casa sua.

Con grandissime risa fu la novella d'Emilia ascoltata e l'orazione per buona e per santa commendata da tutti; la quale al suo fine venuta essendo, comandò il re a Filostrato che seguitasse, il quale incominciò.

Carissime donne mie, elle son tante le beffe che gli uomini vi fanno, e spezialmente i mariti, che, quando alcuna volta avviene che donna niuna alcuna al marito ne faccia, voi non dovreste solamente esser contente che ciò fosse avvenuto o di risaperlo o d'udirlo dire ad alcuno, ma il dovreste voi medesime andare dicendo per tutto, acciò che per gli uomini si conosca che, se essi sanno, e le donne d'altra parte anche sanno: il che altro che utile essere non vi può; per ciò che, quando alcun sa che altri sappia, egli non si mette troppo leggiermente a volerlo ingannare.

Chi dubita dunque che ciò che oggi intorno a questa materia diremo, essendo risaputo dagli uomini, non fosse lor grandissima cagione di raffrenamento al beffarvi, conoscendo che voi similmente, volendo, ne sapreste fare? E' adunque mia intenzion di dirvi ciò che una giovinetta, quantunque di bassa condizione fosse, quasi in un momento di tempo, per salvezza di sé al marito facesse.

Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovinetta chiamata Peronella, ed esso con l'arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio.

Avvenne che un giovane de'leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s'innamorò di lei, e tanto in un modo e in uno altro la sollicitò, che con essolei si dimesticò. E a potere essere insieme presero tra sé questo ordine: che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori; ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n'entrasse; e così molte volte fecero.

Ma pur tra l'altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, ché così aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dì tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l'uscio serrato dentro, picchiò, e dopo il picchiare cominciò seco a dire:

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- O Iddio, lodato sia tu sempre; ché, benché tu m'abbi fatto povero, almeno m'hai tu consolato di buona e onesta giovane di moglie. Vedi come ella tosto serrò l'uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse che noia le desse .

Peronella, sentito il marito, ché al modo del picchiare il conobbe, disse: - Ohimè, Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che

questo si voglia dire, ché egli non ci tornò mai più a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c'entrasti. Ma, per l'amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costì, e io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire di tornare stamane così tosto a casa.

Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella andata all'uscio aprì al marito, e con un malviso disse: - Ora questa che novella è, che tu così tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli

oggi far nulla, ché io ti veggio tornare co'ferri tuoi in mano; e, se tu fai così, di che viverem noi? Onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m'impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli? che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s'è spiccata dall'unghia, per potere almeno aver tanto olio che n'arda la nostra lucerna. Marito, marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro; e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti esser a lavorare.

E così detto, incominciò a piagnere e a dir da capo: - Ohimè, lassa me, dolente me, in che mal'ora nacqui, in che mal punto ci venni! ché avrei potuto avere un

giovane così da bene e nol volli, per venire a costui che non pensa cui egli s'ha recata a casa. L'altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n'ha niuna che non n'abbia chi due e chi tre, e godono e mostrano a'mariti la luna per lo sole; e io, misera me!, perché son buona e non attendo a così fatte novelle, ho male e mala ventura; io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l'altre. Intendi sanamente, marito mio, che se io volessi far male, io troverrei ben con cui, ché egli ci son de'ben leggiadri che m'amano e voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglionmi bene e hannomi mandato proferendo di molti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò; e tu mi torni a casa quando tu dei essere a lavorare.

Disse il marito: - Deh donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dei credere che io conosco chi tu se', e pure stamane me ne sono

in parte avveduto. Egli è il vero ch'io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo nol sapeva: egli è oggi la festa di santo Galeone, e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno proveduto e trovato modo che noi avremo del pane per più d'un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con me co il doglio, il quale tu sai che, già è cotanto, ha tenuta la casa impacciata, e dammene cinque gigliati.

Disse allora Peronella: - E tutto questo è del dolor mio: tu che se'uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai

venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu'mai appena fuor dell'uscio, veggendo lo 'mpaccio che in casa ci dava, l'ho venduto sette ad un buono uomo, il quale, come tu qui tornasti, v'entrò dentro per vedere se saldo era.

Quando il marito udì questo, fu più che contento, e disse a colui che venuto era per esso: - Buon uomo, vatti con Dio; ché tu odi che mia mogliere l'ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che

cinque. Il buono uomo disse: - In buona ora sia - ; e andossene. E Peronella disse al marito: - Vien su tu, poscia che tu ci se', e vedi con lui insieme i fatti nostri. Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se di nulla gli bisognasse temere o provvedersi, udite

le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio, e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire:

- Dove se', buona donna? Al quale il marito, che già veniva, disse: - Eccomi, che domandi tu? Disse Giannello: - Qual se'tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio.

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Disse il buono uomo: - Fate sicuramente meco, ché io son suo marito. Disse allora Giannello: - Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto

impiastricciato di non so che cosa sì secca, che io non ne posso levar con l'unghie, e però nol torrei se io nol vedessi prima netto.

Disse allora Peronella: - No, per quello non rimarrà il mercato; mio marito il netterà tutto.

E il marito disse: - Sì bene - ; e posti giù i ferri suoi, e ispogliatosi in camicione, si fece accendere un lume e dare una radimadia,

e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, e oltre a questo l'un de'bracci con tutta la spalla, cominciò a dire:

- Radi quivi, e quivi, e anche colà - ; e: - Vedine qui rimaso un micolino. E mentre che così stava e al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina

il suo disidero ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s'argomentò di fornirlo come potesse; e a lei accostatosi, che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, e in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d'amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovinil desiderio, il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, e il marito uscitone fuori.

Per che Peronella disse a Giannello: - Te'questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo. Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene, e che egli era contento; e datigli sette gigliati, a casa sel fece

portare.

GIORNATA SETTIMA - NOVELLA DECIMA

Due sanesi amano una donna comare dell'uno; muore il, compare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e raccontagli come di là si dimori.

Restava solamente al re il dover novellare, il quale, poi che vide le donne racchetate, che del pero tagliato che colpa non avea si dolevano, incominciò.

Manifestissima cosa è che ogni giusto re primo servatore dee essere delle leggi fatte da lui, e se altro ne fa, servo degno di punizione, e non re, si dee giudicare; nel quale peccato e riprensione a me, che vostro re sono, quasi costretto cader con viene. Egli è il vero che io ieri la legge diedi a'nostri ragionamenti fatti oggi, con intenzione di non voler questo dì il mio privilegio usare; ma soggiacendo con voi insieme a quella, di quello ragionare che voi tutti ragionato avete; ma egli non s solamente è stato raccontato quello che io imaginato avea di raccontare ma sonsi sopra quello tante altre cose e molto più belle dette, che io per me, quantunque la memoria ricerchi, rammentar non mi posso né conoscere che io intorno a sì fatta materia dir potessi cosa che alle dette s'appareggiasse; e per ciò, dovendo peccare nella legge da me medesimo fatta, sì come degno di punizione, infino ad ora ad ogni ammenda che comandata mi fia mi proffero apparecchiato, e al mio privilegio usitato mi tornerò.

E dico che la novella detta da Elissa del compare e della comare, e appresso la bessaggine de' sanesi, hanno tanta forza, carissime donne, che, lasciando stare le beffe agli sciocchi mariti fatte dalle lor savie mogli, mi tirano a dovervi con tare una novelletta di loro, la quale, ancora che in sé abbia assai di quello che creder non si dee, nondimeno sarà in parte piacevole ad ascoltare.

Furono adunque in Siena due giovani popolari, de'quali l'uno ebbe nome Tingoccio Mini e l'altro fu chiamato Meuccio di Tura, e abitavano in porta Salaia, e quasi mai non usavano se non l'un con l'altro, e per quello che paresse s'amavan molto; e andando, come gli uomini vanno, alle chiese e alle prediche, più volte udito avevano della gloria e della miseria che all'anime di coloro che morivano era, secondo li lor meriti, conceduta nell'altro mondo. Delle quali cose disiderando di saper certa novella, né trovando il modo, insieme si promisero che qual prima di lor morisse, a colui che vivo fosse rimaso, se potesse, ritornerebbe, e direbbegli novelle di quello che egli desiderava; e questo fermarono con giuramento.

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Avendosi adunque questa promession fatta, e insieme continuamente usando, come è detto, avvenne che Tingoccio divenne compare d'uno Ambruogio Anselmini, che stava in Camporeggi, il qual d'una sua donna chiamata monna Mita aveva avuto un figliuolo.

Il qual Tingoccio, insieme con Meuccio visitando alcuna volta questa sua comare, la quale era una bellissima e vaga donna, non ostante il comparatico, s'innamorò di lei; e Meuccio similmente, piacendogli ella molto e molto udendola commendare a Tingoccio, se ne innamorò. E di questo amore l'un si guardava dall'altro, ma non per una medesima cagione: Tingoccio si guardava di scoprirlo a Meuccio per la cattività che a lui medesimo pareva fare d'amare la comare, e sarebbesi vergognato che alcun l'avesse saputo; Meuccio non se ne guardava per questo. ma perché già avveduto s'era che ella piaceva a Tingoccio. Laonde egli diceva: - Se io questo gli discuopro, egli prenderà gelosia di me; e potendole ad ogni suo piacere parlare, sì come compare, in ciò che egli potrà le mi metterà in odio, e così mai cosa che mi piaccia di lei io non avrò -.

Ora, amando questi due giovani, come detto è, avvenne che Tingoccio, al quale era più destro il potere alla donna aprire ogni suo disiderio, tanto seppe fare, e con atti e con parole, che egli ebbe di lei il piacere suo; di che Meuccio s'accorse bene; e quantunque molto gli dispiacesse, pure, sperando di dovere alcuna volta pervenire al fine del suo disidero, acciò che Tingoccio non avesse materia né cagione di guastargli o d'impedirgli alcun suo fatto, faceva pur vista di non avvedersene.

Così amando i due compagni, l'uno più felicemente che l'altro, avvenne che, trovando Tingoccio nelle possessioni della comare il terren dolce, tanto vangò e tanto lavorò che una infermità ne gli sopravenne, la quale dopo alquanti dì sì l'aggravò forte che, non potendola sostenere, trapassò di questa vita.

E trapassato, il terzo dì appresso (ché forse prima non aveva potuto) se ne venne, secondo la promession fatta, una notte nella camera di Meuccio, e lui, il qual forte dormiva, chiamò.

Meuccio destatosi disse: - Qual se' tu? A cui egli rispose: - Io son Tingoccio, il qual, secondo la promession che io ti feci, sono a te tornato a dirti novelle dell'altro

mondo. Alquanto si spaventò Meuccio veggendolo, ma pure rassicurato disse: - Tu sia il ben venuto, fratel mio - ; e poi il domandò se egli era perduto. Al qual Tingoccio rispose: - Perdute son le cose che non si ritruovano; e come sarei io in mei chi, se io fossi perduto? - Deh, - disse Meuccio - io non dico così ; ma io ti domando se tu se'tra l'anime dannate nel fuoco pennace di

ninferno. A cui Tingoccio rispose: - Costetto no, ma io son bene, per li peccati da me commessi, in gravissime pene e angosciose molto. Domandò allora Meuccio particularmente Tingoccio che pene si dessero di là per ciascun de'peccati che di qua

si commettono; e Tingoccio gliele disse tutte. Poi gli domandò Meuccio s'egli avesse di qua per lui a fare alcuna cosa. A cui Tingoccio rispose di sì, e ciò era che egli facesse per lui dir delle messe e delle orazioni e fare delle limosine per ciò che queste cose molto giovavano a quei di là, a cui Meuccio disse di farlo volentieri.

E partendosi Tingoccio da lui, Meuccio si ricordò della comare, e sollevato alquanto il capo disse: - Ben che mi ricorda, o Tingoccio: della comare, con la quale tu giacevi quando eri di qua, che pena t'è di là

data? A cui Tingoccio rispose: - Fratel mio, come io giunsi di là, sì fu uno, il qual pareva che tutti i miei peccati sapesse a mente, il quale mi

comandò che io andassi in quel luogo nel quale io purgo in grandissima pena le colpe mie, dove io trovai molti compagni a quella medesima pena condennati che io; e stando io tra loro, e ricordandomi di ciò che già fatto avea con la comare e aspettando per quello troppo maggior pena che quella che data m'era, quantunque io fossi in un gran fuoco e molto ardente, tutto di paura tremava. Il che sentendo un che m'era dal lato, mi disse: - Che hai tu più che gli altri che qui sono, che triemi stando nel fuoco? - - Oh, - diss'io - amico mio, io ho gran paura del giudicio che io aspetto d'un gran peccato che io feci già -. Quegli allora mi domandò che peccato quel fosse. A cui io dissi: - Il peccato fu cotale, che io mi giaceva con una mia comare, e giacquivi tanto che io me ne scorticai -. Ed egli allora, faccendosi beffe di ciò, mi disse: - Va, sciocco, non dubitare; ché di qua non si tiene ragione alcuna delle comari -; il che io udendo tutto mi rassicurai.

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E detto questo, appressandosi il giorno, disse: - Meuccio, fatti con Dio, ché io non posso più esser con teco - ; e subitamente andò via. Meuccio, avendo udito che di là niuna ragione si teneva delle comari, cominciò a far beffe della sua

sciocchezza, per ciò che già parecchie n'avea risparmiate; per che, lasciata andar la sua ignoranza, in ciò per innanzi divenne savio. Le quali cose se frate Rinaldo avesse saputo, non gli sarebbe stato bisogno d'andare sillogizzando quando convertì a'suoi piaceri la sua buona comare.

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GIORNATA NONA - NOVELLA DECIMA

Donno Gianni ad istanzia di compar Pietro fa lo 'ncantesimo per far diventar la moglie una cavalla; e quando viene ad appiccar la coda, compar Pietro, dicendo che non vi voleva coda, guasta tutto lo 'ncantamento.

Questa novella dalla reina detta diede un poco da mormorare alle donne e da ridere a'giovani; ma poi che ristate furono, Dioneo così cominciò a parlare.

Leggiadre donne, infra molte bianche colombe aggiugne più di bellezza uno nero corvo, che non farebbe un candido cigno; e così tra molti savi alcuna volta un men savio è non solamente un accrescere splendore e bellezza alla lor maturità, ma ancora diletto e sollazzo.

Per la qual cosa, essendo voi tutte discretissime e moderate, io, il qual sento anzi dello scemo che no, faccendo la vostra virtù più lucente col mio difetto, più vi debbo esser caro che se con più valore quella facessi divenir più oscura; e per conseguente più largo arbitrio debbo avere in dimostrarmi tal qual io sono, e più pazientemente dee da voi esser sostenuto che non dovrebbe se io più savio fossi, quel dicendo che io dirò. Dirovvi adunque una novella non troppo lunga, nella quale comprenderete quanto diligentemente si convengano osservare le cose imposte da coloro che alcuna cosa per forza d'incantamento fanno, e quanto piccol fallo in quelle commesso ogni cosa guasti dallo incantator fatta.

L'altr'anno fu a Barletta un prete, chiamato donno Gianni di Barolo, il qual, per ciò che povera chiesa avea, per sostentar la vita sua, con una cavalla cominciò a portar mercatantia in qua e in là per le fiere di Puglia e a comperare e a vendere. E così andando, prese stretta dimestichezza con uno che si chiamava Pietro da Tresanti, che quello medesimo mestiere con uno suo asino faceva, e in segno d'amorevolezza e d'amistà, alla guisa pugliese, nol chiamava se non compar Pietro; e quante volte in Barletta arrivava, sempre alla chiesa sua nel menava, e quivi il teneva seco ad albergo, e come poteva l'onorava.

Compar Pietro d'altra parte, essendo poverissimo e avendo una piccola casetta in Tresanti, appena bastevole a lui e ad una sua giovane e bella moglie e all'asino suo, quante volte donno Gianni in Tresanti capitava tante sel menava a casa, e come poteva, in riconoscimento dell'onor che da lui in Barletta riceveva, l'onorava. Ma pure, al fatto dello albergo, non avendo compar Pietro se non un piccol letticello, nel quale con la sua bella moglie dormiva, onorar nol poteva come voleva, ma conveniva che, essendo in una sua stalletta allato all'asino suo allogata la cavalla di donno Gianni, che egli allato a lei sopra alquanto di paglia si giacesse.

La donna, sappiendo l'onor che il prete al marito faceva a Barletta, era più volte, quando il prete vi veniva, volutasene andare a dormire con una sua vicina, che avea nome zita Carapresa di Giudice Leo, acciò che il prete col marito dormisse nel letto, e avevalo molte volte al prete detto, ma egli non aveva mai voluto; e tra l'altre volte, una le disse:

- Comar Gemmata, non ti tribolar di me, ché io sto, bene, per ciò che quando mi piace io fo questa mia cavalla diventare una bella zitella e stommi con essa, e poi quando voglio la fo diventar cavalla, e perciò da lei non mi partirei.

La giovane si maravigliò e credettelo, e al marito il disse, aggiugnendo: - Se egli è così tuo come tu di', ché non ti fai tu insegnare quello incantesimo, ché tu possa far cavalla di me e

fare i fatti tuoi con l'asino e con la cavalla, e guadagneremo due cotanti, e quando a casa fossimo tornati, mi potresti rifar femina come io sono.

Compar Pietro, che era anzi grossetto uom che no, credette questo fatto e accordossi al consiglio, e come meglio seppe, cominciò a sollicitar donno Gianni, che questa cosa gli dovesse insegnare. Donno Gianni s'ingegnò assai di trarre costui di questa sciocchezza, ma pur non potendo, disse:

- Ecco, poi che voi pur volete, domattina ci leveremo, come noi sogliamo, anzi dì, e io vi mosterrò come si fa. E' il vero che quello che più è malagevole in questa cosa si è l'appiccar la coda, come tu vedrai.

Compar Pietro e comar Gemmata, appena avendo la notte dormito (con tanto desidero questo fatto aspettavano), come vicino a dì fu, si levarono e chiamarono donno Gianni, il quale, in camicia levatosi, venne nella cameretta di compar Pietro e disse:

- Io non so al mondo persona a cui io questo facessi, se non a voi, e per ciò, poi che vi pur piace, io il farò; vero è che far vi conviene quello che io vi dirò, se voi volete che venga fatto.

Costoro dissero di far ciò che egli dicesse. Per che donno Gianni, preso un lume, il pose in mano a compar Pietro e dissegli:

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- Guata ben come io farò, e che tu tenghi bene a men te come io dirò, e guardati, quanto tu hai caro di non guastare ogni cosa, che per cosa che tu oda o veggia, tu non dica una parola sola; e priega Iddio che la coda s'appicchi bene.

Compar Pietro, preso il lume, disse che ben lo farebbe. Appresso donno Gianni fece spogliare ignuda nata comar Gemmata, e fecela stare con le mani e co'piedi in

terra, a guisa che stanno le cavalle, ammaestrandola similmente che di cosa che avvenisse motto non facesse; e con le mani cominciandole a toccare il viso e la testa, cominciò a dire: - Questa sia bella testa di cavalla -; e toccandole i capelli, disse: - Questi sieno belli crini di cavalla -; e poi toccandole le braccia, disse: - E queste sieno belle gambe e belli piedi di cavalla -; poi toccandole il petto e trovandolo sodo e tondo, risvegliandosi tale che non era chiamato e su levandosi, disse: - E questo sia bel petto di cavalla -; e così fece alla schiena e al ventre e alle groppe e alle coscie e alle gambe. E ultimamente, niuna cosa restandogli a fare se non la coda, levata la camicia e preso il piuolo col quale egli piantava gli uomini e prestamente nel solco per ciò fatto messolo, disse: - E questa sia bella coda di cavalla.

Compar Pietro, che attentamente infino allora aveva ogni cosa guardata, veggendo questa ultima e non parendonegli bene, disse:

- O donno Gianni, io non vi voglio coda, io non vi voglio coda. Era già l'umido radicale, per lo quale tutte le piante s'appiccano, venuto, quando donno Gianni tiratolo indietro,

disse: - Ohimè, compar Pietro, che hai tu fatto? Non ti diss'io, che tu non facessi motto di cosa che tu vedessi? La

cavalla era per esser fatta, ma tu favellando hai guasto ogni cosa, né più ci ha modo di poterla rifare oggimai. Compar Pietro disse: - Bene sta, io non vi voleva quella coda io. Perché non diciavate voi a me - Falla tu -? E anche l'appiccavate troppo bassa. Disse donno Gianni: - Perché tu non l'avresti per la prima volta saputa appiccar sì com'io. La giovane, queste parole udendo, levatasi in piè, di buona fè disse al marito: - Deh, bestia che tu se', perché hai tu guasti li tuoi fatti e'miei? Qual cavalla vedestu mai senza coda? Se m'aiuti

Iddio, tu se'povero, ma egli sarebbe ragione che tu fossi molto più. Non avendo adunque più modo a dover fare della giovane cavalla, per le parole che dette avea compar Pietro,

ella dolente e malinconosa si rivestì, e compar Pietro con uno asino, come usato era, attese a fare il suo mestiere antico, e con donno Gianni insieme n'andò alla fiera di Bitonto, né mai più di tal servigio il richiese.