Rassegna stampa 9 dicembre 2015€¦ · varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 9 dicembre 2015 SOMMARIO “La festa dell’Immacolata Concezione - ha detto ieri mattina Papa Francesco nell’omelia pronunciata durante la Messa dell’Immacolata Concezione all’interno della quale c’è stata l’apertura della Porta Santa della basilica vaticana per l’inizio del Giubileo della misericordia - esprime la grandezza dell’amore di Dio. Egli non solo è Colui che perdona il peccato, ma in Maria giunge fino a prevenire la colpa originaria, che ogni uomo porta con sé entrando in questo mondo. È l’amore di Dio che previene, che anticipa e che salva. L’inizio della storia di peccato nel giardino dell’Eden si risolve nel progetto di un amore che salva. Le parole della Genesi riportano all’esperienza quotidiana che scopriamo nella nostra esistenza personale. C’è sempre la tentazione della disobbedienza, che si esprime nel voler progettare la nostra vita indipendentemente dalla volontà di Dio. È questa l’inimicizia che attenta continuamente la vita degli uomini per contrapporli al disegno di Dio. Eppure, anche la storia del peccato è comprensibile solo alla luce dell’amore che perdona. Il peccato si capisce soltanto sotto questa luce. Se tutto rimanesse relegato al peccato saremmo i più disperati tra le creature, mentre la promessa della vittoria dell’amore di Cristo rinchiude tutto nella misericordia del Padre. La parola di Dio che abbiamo ascoltato non lascia dubbi in proposito. La Vergine Immacolata è dinanzi a noi testimone privilegiata di questa promessa e del suo compimento. Questo Anno straordinario è anch’esso dono di grazia. Entrare per quella Porta significa scoprire la profondità della misericordia del Padre che tutti accoglie e ad ognuno va incontro personalmente. È Lui che ci cerca! È Lui che ci viene incontro! Sarà un Anno in cui crescere nella convinzione della misericordia. Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia! Sì, è proprio così. Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia. Attraversare la Porta Santa, dunque, ci faccia sentire partecipi di questo mistero di amore, di tenerezza. Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato; viviamo, piuttosto, la gioia dell’incontro con la grazia che tutto trasforma. Oggi, qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo, varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo. Questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede. In primo luogo, però, il Concilio è stato un incontro. Un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario. Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro… dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria, dunque, che dopo questi decenni riprendiamo con la stessa forza e lo stesso entusiasmo. Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano”. E poi nel pomeriggio, durante il tradizionale Atto di venerazione all’Immacolata in Piazza di Spagna a Roma, ha pronunciato questa preghiera: “Vergine Maria, in questo giorno di festa per la tua Immacolata Concezione, vengo a presentarti l’omaggio di fede e d’amore del popolo santo di Dio che vive in questa città e diocesi. Vengo a nome delle famiglie, con le loro gioie e fatiche; dei bambini e dei giovani, aperti alla vita; degli anziani, carichi di anni e di esperienza; in modo particolare vengo a te da parte degli ammalati, dei

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 9 dicembre 2015

SOMMARIO

“La festa dell’Immacolata Concezione - ha detto ieri mattina Papa Francesco nell’omelia pronunciata durante la Messa dell’Immacolata Concezione all’interno della

quale c’è stata l’apertura della Porta Santa della basilica vaticana per l’inizio del Giubileo della misericordia - esprime la grandezza dell’amore di Dio. Egli non solo è Colui che perdona il peccato, ma in Maria giunge fino a prevenire la colpa originaria, che ogni uomo porta con sé entrando in questo mondo. È l’amore di Dio che previene,

che anticipa e che salva. L’inizio della storia di peccato nel giardino dell’Eden si risolve nel progetto di un amore che salva. Le parole della Genesi riportano

all’esperienza quotidiana che scopriamo nella nostra esistenza personale. C’è sempre la tentazione della disobbedienza, che si esprime nel voler progettare la nostra vita

indipendentemente dalla volontà di Dio. È questa l’inimicizia che attenta continuamente la vita degli uomini per contrapporli al disegno di Dio. Eppure, anche la storia del peccato è comprensibile solo alla luce dell’amore che perdona. Il peccato si capisce soltanto sotto questa luce. Se tutto rimanesse relegato al peccato saremmo i più disperati tra le creature, mentre la promessa della vittoria dell’amore di Cristo rinchiude tutto nella misericordia del Padre. La parola di Dio che abbiamo ascoltato

non lascia dubbi in proposito. La Vergine Immacolata è dinanzi a noi testimone privilegiata di questa promessa e del suo compimento. Questo Anno straordinario è

anch’esso dono di grazia. Entrare per quella Porta significa scoprire la profondità della misericordia del Padre che tutti accoglie e ad ognuno va incontro personalmente. È Lui che ci cerca! È Lui che ci viene incontro! Sarà un Anno in cui crescere nella

convinzione della misericordia. Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia! Sì, è proprio così. Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia. Attraversare la Porta Santa, dunque, ci faccia sentire partecipi di questo mistero di amore, di tenerezza. Abbandoniamo ogni forma di paura e di

timore, perché non si addice a chi è amato; viviamo, piuttosto, la gioia dell’incontro con la grazia che tutto trasforma. Oggi, qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo, varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo. Questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede. In primo

luogo, però, il Concilio è stato un incontro. Un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua

Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario. Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro… dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare

la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria, dunque, che dopo questi decenni riprendiamo con la stessa forza e lo

stesso entusiasmo. Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il

beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano”. E poi nel pomeriggio, durante il tradizionale Atto di venerazione all’Immacolata in Piazza di Spagna a Roma, ha

pronunciato questa preghiera: “Vergine Maria, in questo giorno di festa per la tua Immacolata Concezione, vengo a presentarti l’omaggio di fede e d’amore del popolo santo di Dio che vive in questa città e diocesi. Vengo a nome delle famiglie, con le

loro gioie e fatiche; dei bambini e dei giovani, aperti alla vita; degli anziani, carichi di anni e di esperienza; in modo particolare vengo a te da parte degli ammalati, dei

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carcerati, di chi sente più duro il cammino. Come pastore vengo anche a nome di quanti sono arrivati da terre lontane in cerca di pace e di lavoro. Sotto il tuo manto c’è posto per tutti, perché tu sei la Madre della misericordia. Il tuo cuore è pieno di tenerezza verso tutti i tuoi figli: la tenerezza di Dio, che da te ha preso carne ed è diventato nostro fratello, Gesù, Salvatore di ogni uomo e di ogni donna. Guardando te, Madre nostra Immacolata, riconosciamo la vittoria della Divina misericordia sul peccato e su tutte le sue conseguenze; e si riaccende in noi la speranza in un vita

migliore, libera da schiavitù, rancori e paure. Oggi, qui, nel cuore di Roma, sentiamo la tua voce di madre che chiama tutti a mettersi in cammino verso quella Porta, che

rappresenta Cristo. Tu dici a tutti: “Venite, avvicinatevi fiduciosi; entrate e ricevete il dono della misericordia; non abbiate paura, non abbiate vergogna: il Padre vi aspetta a braccia aperte per darvi il suo perdono e accogliervi nella sua casa. Venite tutti alla sorgente della pace e della gioia”. Ti ringraziamo, Madre

Immacolata, perché in questo cammino di riconciliazione tu non ci fai andare da soli, ma ci accompagni, ci stai vicino e ci sostieni in ogni difficoltà. Che tu sia benedetta,

ora e sempre, Madre. Amen” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Moraglia: “Più peso alla donna nella Chiesa” di Paolo Navarro Dina Messa solenne a San Marco e il pensiero rivolto all’apertura del Giubileo domenica LA NUOVA Pag 8 “Le nostre culture avviliscono le donne” di n.d.l. La riflessione del Patriarca nel giorno dell’Immacolata 2 – DIOCESI E PARROCCHIE CORRIERE DEL VENETO Pag 5 La croce, i mosaici, la Madonna del bacio. San Marco si prepara al “suo” Giubileo di Francesco Bottazzo LA NUOVA Pag 8 Porta Santa, tutto pronto a San Marco di Nadia De Lazzari Domenica alle 16 l’apertura da parte del Patriarca Moraglia in una Basilica restaurata e ripulita che ospiterà mille persone. Quattro accessi e tiratori sui tetti Pag 22 Orologio del XIV secolo restaurato a San Geremia di Alberto Vitucci Meccanismo tra i più antichi del mondo, dimenticato per oltre un secolo, adesso è tornato a funzionare. Un’opera d’arte che fino all’Ottocento scandiva le ore Pag 31 In duemila per la “Madonna dei Cavai” di a.ab. Gambarare di Mira: folla alla processione che si ripete da secoli con il carro trainato dai cavalli 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 1 L’impensata benedizione di Pierangelo Sequeri Il Giubileo e il popolo delle carceri Pag 5 “Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore” Il Papa: la misericordia di Dio è per tutti Pag 7 Quei “segni” per riabbracciare il Padre di Andrea Galli Pellegrinaggio, Porta Santa e indulgenza sono al cuore dell’esperienza del Giubileo

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Pag 9 La preghiera di Francesco. Per tutti c’è tenerezza Pag 21 Nullità matrimoniali, cosa cambia di Luciano Moia Entrano in vigore i nuovi Motu proprio. Diritto e misericordia. Il ruolo dei vescovi, la questione dei tribunali regionali CORRIERE DELLA SERA Pagg 1 – 3 Francesco chiama al coraggio di Aldo Cazzullo “Aprite la porta della giustizia” Pag 1 Quei segni da interpretare di Gian Guido Vecchi Pag 9 Fede e opere buone cancellano le “colpe”. Il viaggio a Roma non è l’unica strada di Luigi Accattoli Bergoglio non utilizza il termine indulgenza LA REPUBBLICA Pag 1 La caduta di un muro di Enzo Bianchi Pag 2 Dalle suore ai ragazzi rasta, ecco il popolo del Giubileo. Il Papa: “Basta con la paura” di Sebastiano Messina In 50mila a San Pietro per l’apertura della Porta Santa: “In questa Piazza si sente un enorme senso di pace” LA STAMPA Non esiste giustizia senza perdono di Andrea Tornielli IL FOGLIO Pag 1 Il Papa apre il Giubileo e bacchetta chi si oppone alle aperture dello Spirito di mat. mat. Francesco chiede che la misericordia sia anteposta al giudizio. Dubbi americani: “Ma non va confusa con la pietà”. Il legame con il Concilio Pag 1 Il titolo sul Giubileo che non si può fare di Giuliano Ferrara IL GAZZETTINO Pag 1 Un evento in pieno stile Bergoglio di Oscar Giannino Pag 1 Quel messaggio non è rivolto solo ai cristiani di Lucetta Scaraffia Pagg 2 – 3 La Chiesa “aperta” nella piazza chiusa di Franca Giansoldati L’abbraccio tra i due Papi e la “sottomissione” di Joseph Ratzinger LA NUOVA Pag 1 L’altolà ai rigoristi di Papa Bergoglio di Orazio La Rocca Pag 13 Sacra Rota, processi brevi e ultima parola ai vescovi di Cristina Genesin Al Tribunale ecclesiastico del Triveneto cambia il procedimento per ottenere la nullità del matrimonio: sentenze in pochi mesi, minori costi, appelli limitati. A Padova e Treviso il maggior numero di cause canoniche CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Giubileo, il diacono veneto che ha assistito Francesco: “Per me il dono più grande” di Michela Nicolussi Moro 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

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CORRIERE DELLA SERA Pag 23 La crisi della seconda casa di Dario Di Vico L’investimento in immobili non è più il bene rifugio per eccellenza. E’ difficile vendere e pesano le tasse AVVENIRE Pag 3 La spinta giovanile da valorizzare di Carla Collicelli Ragazzi pieni di voglia di futuro 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III In 120 più forte degli anarchici di Giorgia Pradolin Varie squadre, armate di secchi e ramazze, hanno ripulito le scritte su muri e vetrine dopo il raid di sabato. Il sindaco: “Bella iniziativa ma ora voglio i nomi dei vandali di sabato”. Il questore: “Abbiamo evitato scontri più gravi”. Il parroco di San Cassiano: “Un disastro, non abbiamo soldi. Dovrebbe pagare chi ha fatto il danno. Ora ci doteremo di telecamere” Pag XXVI Nei presepi di sabbia il messaggio del Papa di Giuseppe Babbo Jesolo, inaugurata in Piazza Marconi la “Sand Nativity” LA NUOVA Pag 34 “Presepe come simbolo della nostra cultura” di Giovanni Cagnassi Jesolo: inaugurata ieri la tradizionale mostra delle sculture di sabbia. Il tema è quello del Giubileo e di Papa Francesco. Obiettivo centomila visitatori CORRIERE DEL VENETO Pag 15 Dalle orazioni alle quattro stelle, gli hotel conquistano i conventi di Elisa Lorenzini L’addio delle suore di San Giuseppe. Pochi religiosi e l’età media supera i 70 anni … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Catastrofi annunciate (e non vere) di Sabino Cassese Democrazia a rischio? Pag 1 Diciamo sì a più sicurezza. Ma la privacy non è un lusso di Luigi Ferrarella Terrorismo e controlli Pag 32 Populista è ormai un insulto, non una categoria politica di Pierluigi Battista AVVENIRE Pag 3 La “guerra” ai simboli religiosi mira a spegnere la speranza di Carlo Cardia Presepi negati e segni proibiti: ostilità che sa di paura

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Nel giorno dell’Immacolata Concezione, il pensiero è andato a Maria e con lei, alla donna, al mondo femminile e al ruolo che essa ricopre nella vita quotidiana. Il Patriarca, mons. Francesco Moraglia, celebrando la messa in San Marco, e con il pensiero a Roma per l’apertura della Porta Santa con Papa Francesco, e pure nell’attesa dell’avvio delle celebrazioni veneziane per il 13 dicembre prossimo, alle 16, ha voluto rendere omaggio all’universo femminile, anche con parole non comuni. «Nella storia della salvezza - ha detto il Patriarca - è proprio una donna ad esprimere la piena riuscita del progetto divino; Maria è l’umanità veramente riuscita agli occhi di Dio. Ella è sposa e madre e, a sua volta, la Chiesa è sposa e madre. Per questo è auspicabile che, nella Chiesa, la donna assuma un ruolo più incisivo che testimonierebbe un reale approfondimento della comprensione della Chiesa e del suo mistero. Maria, con il suo modo d’essere e nella sua umanità, è capace d’instaurare relazioni libere, generose, accoglienti, audaci, prive di egoismo, perché il suo cuore è libero, generoso, accogliente, audace, privo di egoismo». Parole importanti che disegnano un nuovo ruolo per la donna. «Le grandi decisioni dell’umanità oggi - ha spiegato Moraglia - si nutrono troppo spesso di culture e idealità di tipo maschile o, addirittura, maschilista; pensiamo a scelte basate sulla competitività, sull’efficientismo e sui risultati raggiunti ma chiediamoci a quale prezzo? La nostra cultura deve ricuperare uno stile in grado d’esprimere di più i valori del mondo femminile come l’accoglienza della vita, l’accompagnamento educativo in famiglia, la fantasia, l’intuizione, la creatività. Certo tutto ciò non appartiene in modo esclusivo alla donna ma in lei trovano un’espressione alta». Importante, però, è far fronte ai pericoli. E per questo la figura di Maria è fondamentale anche per capire i pericoli che attanagliano la società moderna. Nella sua omelia, Moraglia ha denunciato la "mercificazione" e come le culture tendano ad avvilirla, anziché valorizzarla. «Maria - ha concluso il Patriarca - è l’immagine di un’altra umanità rispetto a quella che ha perseguito la sua propria autonomia e si è smarrita nell’egoismo e individualismo del peccato; l’individualismo e il disinteresse per gli altri sono le sue ricadute "laiche". Così Maria, col suo modo di abitare la relazione con Dio e le relazioni umane, è agli antipodi di tale umanità egocentrica e narcisista, individualistica e disinteressata agli altri». LA NUOVA Pag 8 “Le nostre culture avviliscono le donne” di n.d.l. La riflessione del Patriarca nel giorno dell’Immacolata Venezia. Nel giorno dell’Immacolata Concezione - quest’anno coincide con l’apertura in Vaticano della Porta Santa del Giubileo straordinario della Miserircodia - la riflessione che il Patriarca Francesco Moraglia consegna a tutti riguarda la donna, sposa e madre. Il presule parte da Maria l’Immacolata e dal suo cuore libero, generoso, accogliente, audace, privo di egoismo, sereno, responsabile, per soffermarsi a parlare del mondo femminile e di come la società tratta la donna. Tra le navate della Basilica marciana le sue parole chiare fanno effetto: «Che l’unica creatura dell’umana famiglia, pienamente conforme al progetto di Dio, sia donna non è particolare di poco conto. E mentre Dio innalza la donna senza timore le nostre culture, invece, la avviliscono, la usano, ne mercificano il corpo, faticano a riconoscerle realmente (e non a parole) un posto, un ruolo di pari dignità con l’uomo». Ricordando il profilo femminile di Maria il Patriarca aggiunge che l’umanità è donna, afferma che «Maria è più importante dei vescovi, in quanto viene prima del ministero dei vescovi» e dice che «è auspicabile che, nella Chiesa, la donna assuma un ruolo più incisivo». È silenzio nell’affollata cattedrale, soprattutto di turisti, quando il Patriarca sollecita la riflessione sulle grandi e attuali decisioni dell’umanità: «Si nutrono troppo spesso di culture e di identità di tipo maschilista. Pensiamo a quelle scelte basate sulla competitività, sull’efficientismo, sui risultati raggiunti ma - chiediamoci una buona volta soprattutto da parte di chi ha raggiunto quei risultati - a quale prezzo? La nostra cultura, soprattutto oggi, deve ricuperare uno stile in grado d’esprimere di più i valori e non in modo esclusivo ma in modo particolare che appartengono all’orizzonte femminile: l’accoglienza della vita, l’accompagnamento educativo in famiglia, l’intuizione, la creatività, la fantasia. Certo non sono di appartenenza esclusiva alla donna ma in lei trovano un’espressione alta». A conclusione della messa il Patriarca si avvia in processione verso l’altare della Madonna Nicopeia. Nella cappella recita una preghiera. Un rito semplice, caro ai veneziani, quello

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del presule che poi si china a salutare alcuni bambini. Presente il gruppetto dei volontari di assistenza del Corpo italiano soccorso militare ordine di Malta con quattro giovani tirocinanti. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE CORRIERE DEL VENETO Pag 5 La croce, i mosaici, la Madonna del bacio. San Marco si prepara al “suo” Giubileo di Francesco Bottazzo Venezia. Si entrerà dalla Porta di San Clemente, con un nuovo percorso verso il Battistero e la Fonte battesimale, ma quello che più emergerà sarà il Cristo Pantocratore e gli Evangelisti nella cupola appena restaurati. La Basilica di San Marco si sta preparando all’apertura della porta Santa prevista domenica pomeriggio, dopo una serie di interventi che valorizzano la cattedrale, i suoi tesori e l’atmosfera spirituale che avvolgerà il pellegrino nei cinque momenti del percorso giubilare. Quella della Procuratoria di San Marco, l’ente che sovraintende all’edificio della Basilica, è stata una corsa contro il tempo per ultimare i restauri entro il 13 dicembre. «Abbiamo cercato di seguire le indicazioni del patriarca mettendo a punto una serie di operazioni di restauro e abbellimento, questo è un anno importante anche per Venezia», dice il Primo procuratore di San Marco Carlo Alberto Tesserin. I restauratori sono intervenuti sulla croce centrale sotto la grande cupola e la lampada votiva, l’ambone è stato ripulito, i mosaici dei quattro santi Marco, Pietro, Nicolò ed Ermagora riportati allo splendore originario. «Ma abbiamo realizzato anche un nuovo percorso interno che consentirà di valorizzare al culto l’icona bizantina della Madonna del bacio» molto cara alla tradizione e ai fedeli veneziani», precisa Tesserin. L’investimento complessivo sfiora i quattro milioni di euro all’anno, finanziato con gli ingressi al campanile e alla Basilica. Gli ingressi sono costanti anche se c’è una leggera flessione nei mesi estivi a causa dell’intenso caldo che sconsiglia i turisti di stare troppo in coda. Ogni anno le entrate sfiorano i due milioni, per questo la Procuratoria sta predisponendo un nuovo sistema di gestione dei visitatori andando incontro anche alle richieste della Questura, più incisive dopo l’aumento del livello di attenzione a causa degli attentati di Parigi. «Lo sappiamo, San Marco è un punto sensibile, ma il patriarca non vuole una basilica militarizzata, cercheremo di migliorare la sicurezza con sistemi semplici», dice il primo procuratore. Per questo è in fase di impostazione un sistema che «fotografa» tempestivamente il numero di visitatori nei vari segmenti e la stima delle code e delle attese. Ci saranno novità anche per le facciate negli ultimi anni spesso occupate dalle impalcature. L’obiettivo è di liberare quella principale quanto prima e nello stesso tempo partire con i restauri delle facciate Sud e Ovest della Basilica: uno sforzo notevole, anche economico visto il costo previsto di un milione, ma indispensabile per difendere un edificio fin troppo aggredito messo a dura prova da acque alte e turisti. Come sottolinea Tesserin infatti la basilica contiene non uno ma una serie di tesori da conservare. L’apertura della Porta santa della cattedrale veneziana avverrà domenica intorno alle 16. Ad attraversarla sarà per primo il patriarca Francesco Moraglia, seguito da sacerdoti e dai mille «invitati» delle parrocchie che saranno autorizzati (e registrati) per entrare nella cattedrale. Nei giorni successivi la porta di San Clemente sarà quotidianamente aperta e accessibile per tutti i fedeli dalle ore 9.30 alle 16.30, garantendo ai fedeli un percorso particolare e differenziato rispetto a turisti e visitatori della basilica. Spiega don Antonio Senno, canonico di San Marco: «Tutta la parte destra sarà dedicata ai pellegrini che avranno un loro percorso diviso nei cinque momenti giubilari: accesso con preghiera, memoria battesimale, la confessione, devozione alla Madonna del bacio, adorazione eucaristica». LA NUOVA Pag 8 Porta Santa, tutto pronto a San Marco di Nadia De Lazzari Domenica alle 16 l’apertura da parte del Patriarca Moraglia in una Basilica restaurata e ripulita che ospiterà mille persone. Quattro accessi e tiratori sui tetti

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Venezia. Ieri, nella solennità dell’Immacolata Concezione e cinquantesimo dalla chiusura del Concilio, il Pontefice ha aperto, a Roma, la Porta Santa che accoglierà l’umanità proveniente da ogni angolo della terra. Lo scorso 29 novembre invece Papa Francesco da Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, ha dato il via anticipatamente al Giubileo straordinario della misericordia. Tra le novità dell’Anno giubilare l’importanza che il Papa ha voluto dare alle Chiese locali. È la prima volta che accade: ogni singola diocesi - la Cattedrale e il santuario - avrà la sua Porta Santa. Domenica 13, alle 16, inizierà il tempo della misericordia. Nella Basilica di San Marco il Patriarca Moraglia aprirà la Porta Santa di San Clemente, la più antica della Cattedrale, sulla destra della facciata, poi nel periodo di Quaresima (febbraio/marzo 2016) ne verranno aperte altre due: una nella chiesa parrocchiale di Borbiago, l’altra in quella di Eraclea. Moraglia. Ieri, durante la messa solenne, il Patriarca ha così esordito nell’omelia: «Quest’anno il giorno dell’Immacolata coincide con l’apertura, a Roma, della Porta Santa del Giubileo straordinario della Misericordia». E ha proseguito leggendo parte della Bolla di indizione, Misericordiae Vultus, sulla figura di Maria, Madre della Misericordia. «L’anno giubilare straordinario della Misericordia, come domanda il Papa», ha detto il Patriarca, «offre, in Maria, un cammino di vero ritorno a Dio insieme a tutte le nostre comunità». Ponendo riflessioni teologiche sul ruolo di Maria il Patriarca ha rievocato nuovamente il Papa: «Conversione e misericordia vanno sempre insieme e ne parleremo a lungo durante quest’anno». A conclusione della messa monsignor Antonio Meneguolo, arcidiacono di San Marco, ha annunciato l’evento universale di fede: «Il raduno diocesano è fissato alle 15.30 in Piazza, poi alle 16 sarà aperta la Porta Santa». Modalità. In Piazza, che sarà blindata, i gruppi scout accoglieranno le persone che vorranno accedere per il primo momento celebrativo pubblico, invece in Cattedrale ne potranno entrare mille (il numero corrisponde alla capienza massima della Basilica) munite di pass nominativi: seicento i fedeli, quattrocento le autorità e i rappresentanti di altre confessioni cristiane. Il Patriarca Moraglia salirà su un apposito palco, davanti alla Basilica. Vicino al presule vi sarà un laico che leggerà un brano della Bolla di indizione. Successivamente il corteo processionale si avvierà verso Porta di San Clemente dove il Patriarca batterà i tre canonici colpi ed aprirà la Porta Santa. Seguirà la celebrazione eucaristica e la benedizione solenne. In Basilica. Dal giorno dell’annuncio dell’Anno giubilare il Patriarcato ha dato avvio a importanti lavori di pulitura e restauri: i mosaici, le due lampade votive, la Madonna del Bacio. Per segnalare il percorso è stata posizionata una passerella con una corsia rossa. È di questi ore la nuova copertura a fiori delle colonne della navata centrale. La Basilica, Casa della Misericordia, sarà aperta ogni giorno dalle 9,30 alle 16,30. Venezia. Oggi ultimo tavolo tecnico in questura per mettere a punto le ultime misure di sicurezza in vista dell’apertura della Porta Santa di domenica prossima a San Marco. Presenti i vertici delle forze dell’ordine, la polizia locale, i rappresentanti di Suem, vigili urbani e Protezione civile. La gran parte delle decisioni e delle scelte e la disposizione degli uomini destinati alla sicurezza sono state già prese, sarà soprattutto una questione di dettagli. Le persone entreranno in Piazza in maniera contingentata solo da una parte dei varchi controllati da forze dell'ordine e polizia locale. In caso di necessità il flusso può essere interrotto in ogni momento. I varchi controllati sono stati sperimentati in occasione del funerale di Valeria Solesin. Un piano che il questore Angelo Sanna ha voluto per puntare ad avere la massima sicurezza in uno dei luoghi simbolo e quindi a rischio. In sostanza si tratta di un ulteriore step delle misure di sicurezza che sono state applicate in alcuni giorni dell'ultimo Carnevale. Il contingentamento avviene attraverso quattro accessi alla piazza, mentre altrettanti saranno utilizzati per l'uscita, mentre saranno ancora quattro le vie di fuga. Questi ultimi varchi saranno utilizzati anche per far intervenire eventuali soccorritori in caso di necessità. Inoltre la Piazza sarà divisa in settori sia per rendere più veloce l'individuazione di eventuali emergenze, ma pure per consentire alle forze dell'ordine una più razionale gestione dell'ordine pubblico. Il 13 dicembre quindi la prova di un modulo di gestione dell'ordine pubblico che potrà diventare un modello per le future manifestazioni, ad iniziare dal Carnevale. Per il resto il modulo messo a punto ricalca quello utilizzato, a febbraio, in occasione del volo dell'Angelo. Ci saranno poliziotti che controlleranno la piazza dall'alto, due zone franche,

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libere dai fedeli ricavate alle teste della piazza, quattro punti di pronto intervento avanzati nei luoghi di maggiore assembramento e una sala regia della sicurezza. Misure che risentono dell'allarme terrorismo dopo gli attentati di Parigi. A tutela dei presenti sui tetti saranno sistemati dei tiratori scelti. Pag 22 Orologio del XIV secolo restaurato a San Geremia di Alberto Vitucci Meccanismo tra i più antichi del mondo, dimenticato per oltre un secolo, adesso è tornato a funzionare. Un’opera d’arte che fino all’Ottocento scandiva le ore È un meccanismo unico al mondo, che risale alla metà del Trecento. Adesso, dopo un secolo di oblìo, ha ripreso a funzionare grazie a un accurato e difficile restauro. È l’antichissimo orologio «a battaglio» della chiesa di San Geremia a Cannaregio. Esemplare all’epoca modernissimo. Senza quadrante-orario né lancette – saranno aggiunte mezzo secolo più tardi – riportato in molti documenti di età medievale. Il prezioso orologio della torre di San Geremia è stato riportato in vita dalla ditta Comin-Campane e dal lavoro di un esperto veneziano di storia dell’orologeria, Francesco Zane, che si è avvalso della consulenza di Paolo Forlati, veronese, grandissimo conoscitore degli orologi antichi di tutto il mondo. Adesso l’orologio a battaglio è esposto all’ingresso, lato sinistro, della chiesa. E ha ritrovato dopo un oltre un secolo la “sua” campana con cui era collegato, rimossa dal campanile perché crepata. La campana è adesso collocata all’entrata della chiesa, lato destro. Cerimonia di inaugurazione a cui hanno partecipato i restauratori, il parroco di San Geremia don Renzo Scarpa, lo sponsor Paolo Puntar e una delegazione dell’Aia (associazione italiana arbitri) che ha contribuito alle spese. Un orologio di cui nel XIV secolo non vi erano molti esemplari. «Uno», scrive nella sua relazione storica l’esperto Forlati, «quello di San Alipio a San Marco, un altro, successivo, a Padova, di Novello Dondi e Giovanni delle Caldiere che lo copiano dai modelli clodiensi». Un orologio dalla caratteristica struttura a gabbia con colonne «angol tangenziali» e «appoggi a zampa di cane», come si legge nella relazione Forlati. Adesso il meccanismo dell’orologio di San Geremia torna a vivere. «Un manufatto antichissimo», ha spiegato Zane nella sua relazione, «dimenticato per quasi un secolo, adesso restaurato ha ripreso a funzionare. Si tratta di uno dei più antichi orologi meccanici da torre a livello mondiale. La sua peculiarità sta nell’aver mantenuto integre alcune parti originali che lo fanno risalire al XIV secolo». Una tradizione antica, quella degli orologiai veneziani. Che avevano molto da fare nei secoli scorsi visto anche il gran numero di orologi – nei campanili e per la strada – in funzione. Una tradizione che Francesco Zane cerca di tenere viva. Avendo concluso l’importante restauro del meccanismo di San Geremia. Tra i più antichi del mondo ancora oggi funzionanti. Pag 31 In duemila per la “Madonna dei Cavai” di a.ab. Gambarare di Mira: folla alla processione che si ripete da secoli con il carro trainato dai cavalli Gambarare. C’erano quasi duemila persone ieri pomeriggio a Gambarare di Mira per la tradizionale processione della Madonna dei Cavai. Una tradizione che da secoli si ripete con il passaggio del corteo religioso della “Madonna dei Cavai” cioè con la statua della Madonna posta su un carro trainata da cavalli che dalla chiesa di San Giovanni Battista una chiesa del 1300, arriva fino a Piazza Vecchia e poi torna al duomo. In testa alla processione c’erano il parroco del paese Don Luigi Casarin. In occasione della storica processione il paese si è vestito a festa per tutta la giornata: c’erano stand gastronomici e di leccornie per grandi e piccoli con tazze di vin brulè. «È stato davvero un momento di grande raccoglimento aggregativo e religioso – spiegano gli organizzatori dell’evento – a cui la gente di Gambarare non ha voluto rinunciare. Con l’occasione vista la vicinanza alla chiesa, molte persone si sono recate a far visita ai propri cari defunti in cimitero». Non sono mancati spettacoli per i più piccoli e cori natalizi sia al mattino che nel pomeriggio. La processione della “Madonna dei cavai” chiude 4 giorni di eventi che sono partiti a Mira lo scorso 5 dicembre con i mercatini di San Nicolò e natalizi in piazza San Nicolò. In due giorni i mercatini sono stati visitati quattromila mila persone. I prossimi appuntamenti, a parte i cori natalizi organizzati dalle varie parrocchie, sono organizzati dalla Pro Loco. Al primo gennaio c’è il tradizionale concerto di Capodanno a Teatro Villa

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dei Leoni con il Coro Gospel alle 16 e alle 18. A Mira Porte il 10 gennaio alle ore18 sarà la volta della festa in piazza della Befana. Il tradizionale “Bruso dea vecia” avverrà su una chiatta sul Naviglio del Brenta. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 1 L’impensata benedizione di Pierangelo Sequeri Il Giubileo e il popolo delle carceri L’aveva detto, il papa Francesco, che anche le sbarre dei carcerati possono essere trasfigurate nella Porta Santa? L’aveva detto, nero su bianco. E io l’ho visto accadere. Nella lettera sul Giubileo della Misericordia, indirizzata a monsignor Fisichella, c’era questa frase: «Ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre, possa questo gesto significare per loro il passaggio della Porta Santa, perché la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienza di libertà». Nella stessa ora in cui il papa Francesco apriva la Porta Santa del Giubileo, in san Pietro, sono stato invitato a celebrare la messa dell’Immacolata nel carcere di Bollate, vicino a Milano. Ho celebrato la Messa con i due cappellani e un folto gruppo di donne e uomini, insieme con il personale di custodia, radunati nel salone-teatro. Non mancava niente, anzi c’era qualcosa in più. Il salone non è informe, come una qualunque palestra (ci sono chiese vere meno accolglienti). Una platea ad anfiteatro, suggestivamente sagomata con assi di legno, per gli uomini, e file ordinate di piccoli seggiolini, semplici e ben disposti davanti all’altare per le signore. Le molte porte attraverso le quali si arriva fin lì sono aperte con gentilezza, senza minimamente far pesare i giusti controlli. Sul fondale dietro l’altare, è sagomata con il polistirolo la sky-line di una città immaginaria: le finestre sono tutte in alto, vicino alla linea dei tetti, che guardano un cielo completamente bianco. A un lato dell’altare c’è un coro, ben diretto, che ha provato con cura ed esegue i canti in modo al tempo stesso molto composto e molto partecipe. Devono aver provato a lungo. L’orchestra è composta di due soli strumenti, una chitarra e i bonghi, che suonano in modo molto appropriato ed elegante. La Messa incomincia con un silenzio caldo e accogliente: è fatto di sguardi, soprattutto. Le letture sono pronunciate con dizione trasparente, e una sorta di partecipazione rispettosa e di affettuosa comunicazione, che mi rapiscono (e io ne ho sentite di letture, alla Messa). Nella meditazione dopo le letture, mi sono sentito di comunicare un pensiero sulla purezza del cuore e della vita che impariamo da questo mistero dell’Immacolata, e dalle pagine della Sacra Scrittura che abbiamo ascoltato. L’Immacolata Concezione di cui parla il Mistero è quella di Maria, che prepara la Nascita di Gesù. Esiste qualcosa di profondo, di puro, di inviolabile nel mistero del rapporto e della sua creatura – che ci riguarda tutti – che dobbiamo custodire a costo di qualsiasi sacrificio. Il libro della Genesi l’ha detto, Dio, anche dopo il peccato, disse che la donna e la sua creatura sarebbero sempre rimaste separate dalle forze del male. Dio mette una barriera di 'ostilità' fra il serpente maligno e la generazione dell’essere umano. Se ci affidiamo a questa benedizione, possiamo trovare la forza di riscattarci da ogni altro male. Se rispettiamo questo mistero della nascita dell’essere umano, in tutti i modi, molto ci verrà perdonato. Di lì è passato, e continua a passare il Figlio di Dio. Grazie a questo mistero, non c’è nessun essere umano nel quale non si possa trovare qualcosa di buono, qualcosa di puro, qualcosa di inviolabile, che possa essere tirato fuori con amore e restituito alla vita. A Giuseppe, l’uomo 'giusto' al quale fu affidata la Madre del Signore, fu indicata questa via. La sorpresa di un figlio inatteso fu certamente una prova forte, nella sua vita. Egli fu giusto, perché intuì che ci doveva essere qualcosa di profondo, di puro, inviolabile – un mistero di Dio – in quella donna. E non si sbagliò. S e seguiamo la stessa strada, se ci aiutiamo l’un l’altro a cercarla e a percorrerla, la benedizione segreta che sta nel fondo del cuore di ogni uomo e di ogni donna, ci riaprirà la vita. Pensiamo a questo, d’ora in avanti quando apriamo le porte della nostra città, della nostra casa, e persino della nostra cella. Prima della preghiera finale, la figlia di un agente, con la sua famiglia, è venuta all’altare per ringraziare della

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raccolta di fondi destinata a bambini malati di leucemia. Era commossa, perché i detenuti avevano partecipato, sfidando i pregiudizi e non senza sacrificio. Infine, la benedizione, un augurio, un ringraziamento, un saluto. Tutto quello che ci deve essere, in una Messa cattolica, c’era. E anche qualcosa di più. È vero, dalla porta di una cella può uscire una benedizione che non pensavi nemmeno di avere. Ne sono sicuro, l’ho vista arrivare. Pag 5 “Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore” Il Papa: la misericordia di Dio è per tutti Pubblichiamo l’omelia pronunciata dal Papa ieri durante la Messa nella Solennità dell’Immacolata Concezione. Durante la celebrazione Francesco ha aperto la Porta Santa della Basilica Vaticana per l’inizio del Giubileo della misericordia. Tra poco avrò la gioia di aprire la Porta Santa della misericordia. Compiamo questo gesto - come ho fatto a Bangui - tanto semplice quanto fortemente simbolico, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, e che pone in primo piano il primato della grazia. Ciò che ritorna più volte in queste Letture, infatti, rimanda a quell’espressione che l’angelo Gabriele rivolse a una giovane ragazza, sorpresa e turbata, indicando il mistero che l’avrebbe avvolta: «Rallegrati, piena di grazia» (Lc 1,28). La Vergine Maria è chiamata anzitutto a gioire per quanto il Signore ha compiuto in lei. La grazia di Dio l’ha avvolta, rendendola degna di diventare madre di Cristo. Quando Gabriele entra nella sua casa, anche il mistero più profondo, che va oltre ogni capacità della ragione, diventa per lei motivo di gioia, motivo di fede, motivo di abbandono alla parola che le viene rivelata. La pienezza della grazia è in grado di trasformare il cuore, e lo rende capace di compiere un atto talmente grande da cambiare la storia dell’umanità. La festa dell’Immacolata Concezione esprime la grandezza dell’amore di Dio. Egli non solo è Colui che perdona il peccato, ma in Maria giunge fino a prevenire la colpa originaria, che ogni uomo porta con sé entrando in questo mondo. È l’amore di Dio che previene, che anticipa e che salva. L’inizio della storia di peccato nel giardino dell’Eden si risolve nel progetto di un amore che salva. Le parole della Genesi riportano all’esperienza quotidiana che scopriamo nella nostra esistenza personale. C’è sempre la tentazione della disobbedienza, che si esprime nel voler progettare la nostra vita indipendentemente dalla volontà di Dio. È questa l’inimicizia che attenta continuamente la vita degli uomini per contrapporli al disegno di Dio. Eppure, anche la storia del peccato è comprensibile solo alla luce dell’amore che perdona. Il peccato si capisce soltanto sotto questa luce. Se tutto rimanesse relegato al peccato saremmo i più disperati tra le creature, mentre la promessa della vittoria dell’amore di Cristo rinchiude tutto nella misericordia del Padre. La parola di Dio che abbiamo ascoltato non lascia dubbi in proposito. La Vergine Immacolata è dinanzi a noi testimone privilegiata di questa promessa e del suo compimento. Questo Anno straordinario è anch’esso dono di grazia. Entrare per quella Porta significa scoprire la profondità della misericordia del Padre che tutti accoglie e ad ognuno va incontro personalmente. È Lui che ci cerca! È Lui che ci viene incontro! Sarà un Anno in cui crescere nella convinzione della misericordia. Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia (cfr Agostino, De praedestinatione sanctorum 12, 24)! Sì, è proprio così. Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia. Attraversare la Porta Santa, dunque, ci faccia sentire partecipi di questo mistero di amore, di tenerezza. Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato; viviamo, piuttosto, la gioia dell’incontro con la grazia che tutto trasforma. Oggi, qui a Roma e in tutte le diocesi del mondo, varcando la Porta Santa vogliamo anche ricordare un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del Concilio Vaticano II spalancarono verso il mondo. Questa scadenza non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede. In primo luogo, però, il Concilio è stato un incontro. Un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Un incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il

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cammino missionario. Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro… dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo e portare la misericordia e il perdono di Dio. Una spinta missionaria, dunque, che dopo questi decenni riprendiamo con la stessa forza e lo stesso entusiasmo. Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano. Pag 7 Quei “segni” per riabbracciare il Padre di Andrea Galli Pellegrinaggio, Porta Santa e indulgenza sono al cuore dell’esperienza del Giubileo Il Giubileo è comunemente detto Anno Santo sia per la sua sacralità sia perché ha come fine la santificazione dei fedeli. È un Anno che ha al suo centro l’incontro con la misericordia di Dio, la conversione, la remissione dei peccati, l’inizio di una vita nuova. Questo evento della vita della Chiesa si esprime attraverso numerosi segni e momenti, tre dei quali si possono considerare fondanti e si sono mantenuti nei secoli: il pellegrinaggio, il passaggio attraverso la Porta Santa, l’indulgenza plenaria. Il tema del pellegrinaggio, che corre già lungo l’Antico Testamento, è presente anche nel Nuovo Testamento e vede Gesù stesso come protagonista, da quando dodicenne si reca al Tempio di Gerusalemme in occasione del pellegrinaggio di Pasqua. Nel capitolo 5 del Vangelo di Giovanni leggiamo che «ricorreva una festa dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme ». Un altro pellegrinaggio, nel corso del quale il Signore guarisce un uomo malato di 38 anni, a cui, incontrandolo poco dopo nel Tempio, rivolge queste parole: «Ecco: sei guarito! Non peccare più, perché non ti accada qualcosa di peggio ». Parole simili a quelle rivolte all’adultera, «va’ e d’ora in poi non peccare più», che indicano come il miracolo compiuto sia anche un gesto di perdono. Pellegrinaggio, conversione e perdono già nella Chiesa primitiva sono interconnessi. La meta del camminare diventa il vero Tempio, Cristo stesso, il cammino è quello del discepolo che ha come obiettivo l’imitazione del Maestro, fino a poter affermare come san Paolo «Non sono più io che vivo, ma Cristo che vive in me». Anche la Porta Santa ha un significato cristologico. Nel capitolo 10 del Vangelo di Giovanni, Gesù si definisce due volte «porta»: «In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato». Salvezza che anche in Luca e Matteo è legata al passaggio attraverso una porta: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano». Anche in questo Giubileo i fedeli sono chiamati a incontrare il Signore compiendo un pellegrinaggio, a Roma o nei luoghi stabiliti – Santuari, Cattedrali, cappelle delle carceri... –, quindi a passare attraverso una Porta Santa. E a gustare la misericordia del Signore, l’abbraccio del Padre, attraverso quel “grande perdono” che è il dono dell’indulgenza plenaria. L’indulgenza secondo il Codice di diritto canonico è «la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, che il fedele, debitamente disposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la quale, come ministra della redenzione, dispensa ed applica autoritativamente il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi». Per ottenere l’indulgenza in questo Giubileo, ha spiegato papa Francesco, è importante che il pellegrinaggio «sia unito, anzitutto, al Sacramento della Riconciliazione e alla celebrazione della santa Eucaristia con una riflessione sulla misericordia. Sarà necessario accompagnare queste celebrazioni con la professione di fede e con la preghiera per me e per le intenzioni che porto nel cuore per il bene della Chiesa e del mondo intero». I malati potranno vivere il loro «momento di prova ricevendo la Comunione o partecipando alla santa Messa e alla preghiera comunitaria, anche attraverso i vari mezzi di comunicazione: sarà per loro il modo di ottenere l’indulgenza giubilare ». Potrà inoltre ricevere l’indulgenza chi compirà un’opera di misericordia corporale o spirituale. Pag 9 La preghiera di Francesco. Per tutti c’è tenerezza

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Vergine Maria, in questo giorno di festa per la tua Immacolata Concezione, vengo a presentarti l’omaggio di fede e d’amore del popolo santo di Dio che vive in questa città e diocesi. Vengo a nome delle famiglie, con le loro gioie e fatiche; dei bambini e dei giovani, aperti alla vita; degli anziani, carichi di anni e di esperienza; in modo particolare vengo a te da parte degli ammalati, dei carcerati, di chi sente più duro il cammino. Come pastore vengo anche a nome di quanti sono arrivati da terre lontane in cerca di pace e di lavoro. Sotto il tuo manto c’è posto per tutti, perché tu sei la Madre della misericordia. Il tuo cuore è pieno di tenerezza verso tutti i tuoi figli: la tenerezza di Dio, che da te ha preso carne ed è diventato nostro fratello, Gesù, Salvatore di ogni uomo e di ogni donna. Guardando te, Madre nostra Immacolata, riconosciamo la vittoria della Divina misericordia sul peccato e su tutte le sue conseguenze; e si riaccende in noi la speranza in un vita migliore, libera da schiavitù, rancori e paure. Oggi, qui, nel cuore di Roma, sentiamo la tua voce di madre che chiama tutti a mettersi in cammino verso quella Porta, che rappresenta Cristo. Tu dici a tutti: “Venite, avvicinatevi fiduciosi; entrate e ricevete il dono della misericordia; non abbiate paura, non abbiate vergogna: il Padre vi aspetta a braccia aperte per darvi il suo perdono e accogliervi nella sua casa. Venite tutti alla sorgente della pace e della gioia”. Ti ringraziamo, Madre Immacolata, perché in questo cammino di riconciliazione tu non ci fai andare da soli, ma ci accompagni, ci stai vicino e ci sostieni in ogni difficoltà. Che tu sia benedetta, ora e sempre, Madre. Amen. Pag 21 Nullità matrimoniali, cosa cambia di Luciano Moia Entrano in vigore i nuovi Motu proprio. Diritto e misericordia. Il ruolo dei vescovi, la questione dei tribunali regionali La misericordia corre più veloce del diritto e quindi la salvezza delle anime è preoccupazione prioritaria rispetto al bilanciamento rigoroso di codici e norme. Ecco perché il Papa, a soli tre mesi dalla pubblicazione dei testi, con decisione ampiamente annunciata, ha voluto far entrare in vigore ieri le due lettere Motu proprio che riformano il processo per la nullità matrimoniale. Anche se non ancora tutto è chiaro nell’applicazione dei nuovi documenti, all’avvio dell’anno giubilare sarebbe mancato un tassello importante senza un gesto concreto verso le persone separate in nuova unione che si interrogano sulla validità del proprio matrimonio ma che talvolta fanno fatica a dare risposte sollecite alla propria coscienza. Da qui la preoccupazione di papa Francesco, che già l’8 settembre scorso, anticipando le indicazioni del Sinodo ordinario, aveva deciso di diffondere i due documenti, Mitis Iudex Dominus Iesus e Mitis et misericors Iesus (quest’ultimo che riguarda il codice dei canoni delle Chiese orientali) proprio con l’obiettivo di farne un punto fermo nell’avvio dell’Anno dedicato alla misericordia. D’altra parte l’esigenza di snellire e di semplificare le procedure per la verifica della nullità matrimoniale era stata espressa in modo palese già nel Sinodo straordinario dell’ottobre 2104, come richiesta condivisa a larghissima maggioranza da cardinali e vescovi di tutto il mondo. I testi entrati in vigore ieri, ispirati all’accoglienza e alla mitezza di Gesù, come anche recitano i titoli stessi, rispondono proprio a questi obiettivi: favorire la celerità dei processi e la 'giusta semplicità' degli stessi, affinché – come aveva spiegato Francesco introducendo i nuovi testi – «il cuore dei fedeli che attendono il chiarimento del proprio stato non sia lungamente oppresso dalle tenebre del dubbio». IL NUOVO RUOLO DEI VESCOVI - La riforma del Papa affida al vescovo diocesano due tipi di processo, quello 'breve' e quello ordinario. Nel primo caso il presule può decidere da solo. Anche se non sarà lui personalmente a istruire la causa, ma il vicario giudiziale o un suo collaboratore. Nel secondo caso il processo si svolge in modo tradizionale, ma basterà un solo grado di giudizio, mentre finora per arrivare alla sentenza di nullità servivano due giudizi concordi, un primo grado e un appello. «Si auspica che nelle grandi come nelle piccole diocesi – scrive il Papa – lo stesso vescovo offra un segno di

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conversione delle strutture ecclesiastiche e non lasci completamente delegata agli uffici della curia la funzione giudiziaria». QUALI CRITERI PER IL PROCESSO BREVE? - L’articolo 5 del Motu proprio spiega che il procedimento rapido – che secondo le interpretazioni più accreditate dovrebbe concludersi in un tempo che va da due settimane a un mese – può avviarsi se la domanda è posta da entrambi i coniugi e sono presenti «circostanze che rendono manifesta la nullità». Nella successiva spiegazione si entra meglio nel dettaglio, elencando alcune di queste circostanze (mancanza di fede, aborto procurato, occultamento doloso della sterilità) e concludendo con un 'ecc.' che sembra aprire la strada ad altre eventualità. Ma il diritto, come hanno fatto notato alcuni esperti, ha bisogno di indicazioni certe, perché quando c’è in gioco la sorte di un matrimonio occorre mettere da parte le interpretazioni arbitrarie. Quindi né rigorismi né lassismi. IL CASO DEI 'TRIBUNALI REGIONALI' - Indicando la necessità che ogni vescovo, «nelle grandi come nelle piccole diocesi », svolga direttamente il suo ministero giudicante, il Motu proprio sembra disporre il superamento dei tribunali regionali. Anche poi se lascia aperta la porta alla possibile formazione di tribunali interdiocesani e all’intervento delle metropolie, quando si rendesse necessario un secondo grado di giudizio. La questione è stata lungamente dibattuta in questi mesi e rimane tuttora un punto che necessita di un chiarimento definitivo. Proviamo a riassumere la complessa questione. I tribunali ecclesiastici regionali sono stati istituiti in Italia da Pio XI, con il Motu proprio' Qua cura' dell’8 dicembre 1938. Il documento aveva valore solo per l’Italia. Nel codice di diritto canonico (canone 20) si spiega esplicitamente che le norme universali – come appunto il Motu proprio di papa Francesco – hanno forza derogatoria rispetto a quelle locali. Ma il legislatore deve indicarlo esplicitamente. Cosa che nel testo entrato in vigore ieri non è spiegato. A questo punto, secondo alcune interpretazioni, la sopravvivenza dei tribunali regionali sarebbe legata alle decisioni delle Regioni ecclesiastiche da cui dipendono. NUOVI TRIBUNALI DIOCESANI? - E se i singoli vescovi, decidendo di istituire un proprio Tribunale diocesano, volessero recedere dal Tribunale regionale? Anche in questo caso le interpretazioni sono diverse. C’è chi sostiene che sarebbe necessaria una dispensa della Santa Sede e chi invece ritiene che, per quanto riguarda le cause brevi, non sarebbe necessario istituire alcun tribunale, visto che il vescovo potrà decidere come 'giudice monocratico'. Continuerebbe invece ad essere necessario il ricorso al Tribunale regionale per quanto riguarda le cause ordinarie. IL PRIMATO DELLA MISERICORDIA - Ma tutti questi interrogativi, pur legittimi e importanti, possono far passare in secondo piano lo spirito della decisione di Francesco, che è quello del «ripristino della vicinanza tra il giudice e i fedeli»? Quello di trasmettere un’immagine di Chiesa che cammina accanto alle persone più fragili e più bisognose di accoglienza e di condivisione, come appunto quelle che soffrono per la disgregazione della propria famiglia? Da qui la scelta di avviare anche in tempi così rapidi un nuovo percorso di misericordia e di giustizia, che sarà poi messo a punto sulla basi delle indicazioni, delle richieste, delle situazioni concrete che emergeranno a livello locale. Insomma, si parte. E, nello spirito giubilare, si potrà intervenire poi con limature e ritocchi. CORRIERE DELLA SERA Pagg 1 – 3 Francesco chiama al coraggio di Aldo Cazzullo “Aprite la porta della giustizia” Alle 8 e mezza del mattino, la vecchia Focus scura targata SCV, Stato Città del Vaticano, aspetta a Santa Marta «Alfa1», nome in codice del Papa, per portarlo in sacrestia. Il cardinal Bertone con gli occhiali fumé scende dall’attico con la terrazza ridipinta di giallo, si unisce a Sodano, Re, Ruini e agli altri decani della Curia, si dispone alla destra dell’altare. Sul ponte Vittorio Emanuele cinque volanti, due moto e dodici carabinieri con i mitra spianati. Alle pendici del Gianicolo due blindati della polizia. L’esercito è schierato in mimetica a Porta del Perugino, dove passano le auto degli invitati: basta mostrare un pass cartaceo. Su via della Conciliazione si allungano le file ai metal-detector, zitte, ordinate. Piove. I vigili disposti a fare gli straordinari osservano appoggiati alle auto. Oltre le mura, le guardie svizzere con la mantellina invernale e i gendarmi vaticani con le Harley Davidson bianche, coordinati da un gigante calvo in giacca blu, il comandante

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Giani. Alfa1 è pronto. Nella basilica deserta lo attendono Mattarella con la figlia Laura, più indietro Renzi con la moglie Agnese, per un saluto. Poi il Papa indossa la veste bianca dai fregi verdi e oro, e alle 9 e 30 spunta per ultimo sul sagrato. Il cardinale Ravasi nota il contrasto con Giovanni Paolo II, che aprì il Giubileo del 2000 con un piviale coloratissimo: «Allora la Chiesa cercava la massima solennità per inaugurare il suo terzo millennio. In questi 15 anni è cambiato tutto: la crisi, la “terza guerra mondiale a pezzettini”. Ora la Chiesa cerca la massima sobrietà». Padre Georg con i paramenti viola da vescovo prende congedo dai gentiluomini e dagli ambasciatori, in un tripudio di medaglie, cordoni e alte uniformi: sta andando a prendere Ratzinger, che si è ritirato in preghiera. Francesco a inizio giornata appare più stanco di quanto sarà alla fine. Quasi avesse due volti. Quello serio, trattenuto, con gli occhiali, attraverso cui osserva i cardinali quasi perplessi, come se questo Giubileo non li riguardasse; e quello sorridente, disteso, senza occhiali, con cui saluta dal finestrino della Focus la folla lungo il percorso verso piazza di Spagna e Santa Maria Maggiore, felice di stare in mezzo ai fedeli, con quel suo modo di indicare un volto tra tanti dando a ognuno la sensazione che si stia rivolgendo proprio a lui, in una Roma fredda e spettrale al mattino, viva e animata la sera. E in effetti il Giubileo della Misericordia è un’idea fortemente voluta da Francesco: un Papa che si è spinto molto oltre il mandato ricevuto due anni e mezzo fa da un conclave che pensava a un cambiamento, non a una rivoluzione. Bergoglio scende le scale della basilica sostenuto dal cerimoniere Marini. Appare quasi smarrito. Alla sua vista il respiro delle suore si fa affannoso. Spande incenso, due gabbiani scendono sul baldacchino. I sacerdoti dalle vesti bianche filmano con telefonini e iPad. La piazza alla fine si riempie, e non solo dei mille giornalisti da 78 Paesi. È come se la paura avesse fatto selezione: meno turisti e curiosi, più devoti e pellegrini; almeno 50 mila. Volontari con la pettorina dell’Unipol, sponsor del Giubileo, dalle bandiere rosse di via Stalingrado alle fontane di San Pietro. Due aerei di linea violano la no-fly zone, il primo passa sopra la cupola in direzione Nord, il secondo in direzione Sud, il prefetto Gabrielli alza la testa preoccupato, al suo fianco Tronca con fascia tricolore: la città è commissariata, Bergoglio non voleva Marino tra i piedi per il Giubileo ed è stato accontentato. La folla è invitata a non sventolare cartelli né bandiere. Alla lettura del Vangelo spunta il sole. Francesco si alza reggendosi sul crocefisso, come faceva Wojtyla. La sua omelia è incentrata sulla Vergine - la «giovane ragazza» che incarna il mistero dell’amore e della tenerezza - e sul perdono, che nel lessico di Bergoglio sostituisce l’indulgenza: «I peccati non sono puniti dal giudizio di Dio, sono perdonati dalla sua misericordia». Fotografi misti a tiratori scelti sui tetti. Uomini dei servizi travestiti da mendicanti. Il presidente della Roma James Pallotta. Ora il Papa pronuncia le uniche parole che saranno lette alla luce dell’attualità: «Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato». Ai cardinali ricorda i padri del Concilio, che mezzo secolo fa «spalancarono un’altra porta verso il mondo», e propiziarono «l’incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. Allora la Chiesa uscì dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in se stessa per riprendere con entusiasmo il cammino missionario: andare incontro a ogni uomo». Ogni tanto gli scappa una parola in spagnolo: «Là donde vive una persona, la Chiesa è chiamata a raggiungerla». I politici si scambiano un segno di pace: Bindi, Alfano, Zingaretti, Storace. Tutti i cardinali sfilano a baciare il Papa. Si prega nelle varie lingue della cristianità, cinese swahili latino malayalam, l’idioma del Kerala; l’intenzione «per i legislatori e i governanti» è in arabo, quella «per i peccatori e i violenti» in francese: «Lo Spirito Santo guidi le loro coscienze a conoscere il dramma e la gravità del male, e i loro cuori a ricevere guarigione e misericordia». Francesco si rianima all’offertorio, quando incontra Sandra, Lucia e altri bambini, insieme con i fedeli arrivati a piedi lungo la via Francigena: Maria segna «l’inizio della Chiesa, sposa di Cristo senza macchia e senza ruga, splendente di bellezza». Il cardinale Sodano viene sollevato di peso e portato all’altare. Bergoglio come d’abitudine non dà la comunione per evitare photo-opportunity, i porporati devono prendersi l’ostia da sé. Sui maxischermi appare il volto di cera di Ratzinger con il cappotto bianco, sostenuto da padre Georg e dal bastone. La piazza applaude. Francesco fa per abbracciarlo e baciarlo, Benedetto gli poggia le mani sulle spalle. «Aprite la porta della giustizia!» grida il Papa, ma la porta sembra voler resistere, lui spinge, scrolla, insiste, finalmente la spalanca. Si inchina ed entra nella basilica. Lo segue Ratzinger, i due Pontefici stavolta si stringono la mano, a lungo. Ora il sole è alto. Ravasi entra tra i primi: «Ricordo il Giubileo del 1950, con Pio

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XII. Ero qui, avevo otto anni. Si celebrava l’aurora dopo la fine della guerra. Oggi noi opponiamo la nostra misericordia alla loro crudeltà». Varca la Porta Santa l’imam di Venezia, lo stesso che ai funerali di Valeria Solesin disse che tocca all’Islam combattere i terroristi. Ravasi: «Quando dico “loro” intendo gli assassini, non i musulmani. Il primo attributo di Allah è il Misericordioso. Come diceva Hume: gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, gli errori delle religioni sempre pericolosi». Si esprime pure Totti: «Faccio il tifo per il desiderio di fratellanza». All’Angelus il Papa è decisamente di buon umore, chiede un altro applauso per Benedetto: «Lasciamoci accarezzare dalla mano di Dio. Nulla è più dolce». In piazza ora si vedono i segni dell’identità italiana: cappelli da alpino, distintivi dell’Azione cattolica, striscioni con i nomi delle parrocchie, tricolori, immagini del volto di Gesù come nel Medioevo. Sul Tevere incrociano le moto d’acqua dei sommozzatori. Polizia a cavallo. Dice Francesco: «Ero straniero e mi avete accolto». Lo ripeterà nel pomeriggio in piazza di Spagna, in un clima che definisce di «fiesta», chiedendo la protezione della Vergine per la città di Roma e per i migranti: «Vengo qui a nome delle genti arrivate da molto lontano a cercare pace e lavoro». Si aprono le altre porte sante, nelle carceri, al Cottolengo. A San Pietro comincia lo spettacolo donato da Paul Allen, cofondatore di Microsoft: le foto degli animali in via d’estinzione proiettate sulla basilica, un’arca di Noè nella tempesta. All’Esquilino il Papa abbraccia i malati in carrozzina, solleva i bambini, saluta calorosamente il questore di Roma ringraziandolo per il lavoro della giornata: «Fin qui, tutto bene». Pag 1 Quei segni da interpretare di Gian Guido Vecchi L’essenziale è quando Francesco dice: «Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio». Il Papa ha voluto aprire il Giubileo nell’anniversario della fine del Concilio, come a recuperarne il filo dopo cinquant’anni. Anche l’abbraccio con Benedetto XVI è un segno. Ai tempi del Concilio, ha spiegato Bergoglio, «la forza dello Spirito spingeva la sua Chiesa a uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in se stessa». E adesso si tratta di «riprendere con la stessa forza e lo stesso entusiasmo» la «spinta missionaria» di allora. Le «secche», pare di capire, ci sono state anche dopo. Ratzinger è stato l’ultimo Pontefice ad aver partecipato, giovane teologo, all’assise conciliare. Come ieri Francesco nell’anniversario della conclusione, l’11 ottobre 2012 fu Benedetto XVI a richiamare in piazza San Pietro i cinquant’anni dall’inizio del Concilio, il celebre «discorso della luna» di Roncalli. E il ricordo di Ratzinger, «anch’io ero in piazza, eravamo felici e pieni di entusiasmo, sicuri che dovesse venire una nuova primavera, una nuova Pentecoste», era venato di mestizia. Non andò proprio come si sperava: «In questi cinquant’anni abbiamo esperito che il peccato originale esiste e si traduce in peccati personali che possono diventare strutture di peccato, che nel campo del Signore c’è sempre anche zizzania, che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario in tempeste». Di ritorno da Bangui - la prima Porta santa l’ha aperta nel Centrafrica in guerra civile - Francesco ha ricordato che è stato Ratzinger a denunciare per primo «la sporcizia nella Chiesa», fino a dire: «Noi lo abbiamo eletto per questa sua libertà di dire le cose». E l’abbraccio di ieri, l’esclamazione a braccio di Francesco all’Angelus («Inviamo da qui un saluto, tutti, a papa Benedetto!»), dicono la continuità tra due pontefici diversi, com’è ovvio, ma uniti sul punto fondamentale: la necessità di riforma, il ritorno all’essenziale del Vangelo. Giovanni XXIII aprì il Concilio parlando di una Chiesa che «preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore». Paolo VI lo concluse evocando il «paradigma» del Buon samaritano e una Chiesa per la quale «nessuno è estraneo, nessuno è escluso, nessuno è lontano». Francesco, nel millesimo giorno di pontificato, invita a ripartire da qui. Dalla misericordia come «parola-sintesi del Vangelo» e «tratto fondamentale del volto di Cristo». Lo aveva detto prima dell’elezione, nelle riunioni dei cardinali: «Quando la Chiesa non esce per evangelizzare, diventa autoreferenziale e si ammala... Ci sono due immagini: la Chiesa evangelizzatrice e la Chiesa mondana che vive in sé e per se stessa». Francesco ha aperto la porta. Basterebbero le parole di ieri all’Angelus: «Lasciamoci accarezzare da Dio: è tanto buono, il Signore, e perdona tutto».

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Pag 9 Fede e opere buone cancellano le “colpe”. Il viaggio a Roma non è l’unica strada di Luigi Accattoli Bergoglio non utilizza il termine indulgenza Giubileo della Misericordia, cioè Perdonanza, come una volta erano detti i Giubilei. E indulgenza, una delle parole chiave dei Giubilei, che vuol dire anch’essa perdono: la parola latina «indulgere» vale «usare indulgenza». Ma di quali peccati si cerca il perdono e attraverso quali pratiche? Di tutti i peccati, attraverso il pellegrinaggio, la confessione e la comunione, la preghiera secondo le intenzioni del Papa, le «opere di misericordia». Francesco sta modificando lingua e regole dei «Giubilei universali» come sono stati praticati dalla Chiesa di Roma lungo sette secoli: dal 1300 al 2000. Resta il contenuto essenziale: cioè la chiamata alla penitenza e alla conversione. Ma non si parla più di «pratiche» e preghiere per l’acquisto dell’indulgenza. Su quelle regole ancora Giovanni Paolo II nel 2000 aveva fatto pubblicare direttive «aggiornate», che stavolta non ci sono state. Nei discorsi di ieri Bergoglio non ha mai usato la parola «indulgenza». L’aveva usata nella Bolla di indizione del Giubileo e nella «Lettera all’arcivescovo Fisichella» ma solo al singolare e come sinonimo di perdono: «Vivere dunque l’indulgenza nell’Anno Santo significa accostarsi alla misericordia del Padre con la certezza che il suo perdono si estende su tutta la vita del credente», diceva per esempio nella Bolla. Non dice «lucrare» o «acquistare l’indulgenza», come voleva il linguaggio tradizionale, non distingue tra indulgenza parziale o «plenaria», qualche volta dice indulgenza e altre volte «grazia del Giubileo». Insomma riduce ancora, più di quanto non avessero fatto gli ultimi papi, gli elementi rituali e normativi di questo aspetto della prassi penitenziale cattolica che fu all’origine della «protesta» di Lutero. Una novità che va letta nel segno dell’avvicinamento della Chiesa all’umanità di oggi e nel segno della semplificazione di linguaggi e pratiche ricevuti dalla tradizione. Per misurarne la portata basterà ricordare la definizione di «indulgenza» che era stata data da Paolo VI in un documento del 1967 e che fu ripetuta nelle norme dettate da Papa Wojtyla per il Giubileo del 2000: «L’indulgenza è la remissione davanti a Dio della pena temporale dovuta per i peccati già cancellati in quanto alla colpa». Francesco non si interessa ai riti ma alla sostanza della «conversione» e della «grazia del perdono» a cui alludevano le parole perdonanza e indulgenza. Si adopera a dire quella sostanza con parole comprensibili all’uomo d’oggi e a fare in modo che a quella grazia possano accedere tutti: anche il carcerato che non può uscire dalla sua cella, come ha specificato nella «Lettera a Fisichella»; anche chi non può venire a Roma. È per questo che ha voluto «porte sante» in tutto il mondo. «Non dobbiamo porre dogane, dobbiamo essere facilitatori della Grazia», ha detto una volta. Invierà, il Mercoledì delle Ceneri, ottocento «missionari della Misericordia» in tutto il mondo, cioè sacerdoti che saranno autorizzati ad assolvere ogni tipo di «colpa», comprese quelle per le quali è prevista la scomunica riservata al Papa, tipo la profanazione dell’Eucarestia. Per l’aborto ha già deciso che per tutto l’Anno Santo i sacerdoti di tutto il mondo lo possano assolvere: e anche per il «peccato d’aborto» c’è la scomunica «riservata al vescovo». Capita dunque che ordinariamente il confessore dica alla donna che ha interrotto la gravidanza: non posso assolverti, vai dal vescovo. Già i vescovi potevano concedere a tutti i sacerdoti, negli Anni Santi e in altre occasioni, la facoltà di assolvere quel peccato. Ma qualcuno lo faceva e qualcuno no: con la sua decisione Francesco ha dato a quella facilitazione la massima estensione. Ci sarà un perdono allargato per i divorziati risposati? Forse una parola arriverà anche per loro, ma questo è un altro capitolo che riguarda l’applicazione di quanto discusso dal Sinodo di ottobre e non sappiamo quando il Papa la formulerà. LA REPUBBLICA Pag 1 La caduta di un muro di Enzo Bianchi Il gesto di apertura della porta chiusa è stato compiuto da papa Francesco innanzitutto in Africa, tra i poveri della terra, e ieri anche a Roma, nella basilica di San Pietro. In Vaticano, dove egli esercita il suo ministero di servo della comunione nella chiesa e tra le chiese e di annunciatore della buona notizia a tutta l'umanità. In un'epoca in cui si sono ricostruiti muri e si sono di nuovo innalzate barriere di filo spinato, in cui molti vorrebbero chiudere le frontiere, e alcuni le chiudono, infondendo nella gente ansia e

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paura, papa Francesco fa il gesto così semplice, quotidiano, umano di aprire una porta chiusa. Purtroppo temo che molti di quelli che passeranno per le porte sante aperte nelle chiese non arriveranno neppure a pensare che potrebbero aprire o tenere aperta la porta della propria casa: aperta per chi giunge inaspettato, straniero o povero, conosciuto o sconosciuto, aperta per un atto di fede-fiducia fatto nei confronti degli altri umani, tutti legati dalla fraternità, valore per il quale pochi oggi combattono, ma senza il quale anche la libertà e l'uguaglianza diventano fragili e non sono concretamente instaurabili. Papa Francesco ha compiuto lo stesso atto in un microcosmo come quello di Bangui, dove sono in atto violenza, intolleranza, scontro di religioni, e a Roma, dove per ora è lontana la violenza dello scontro culturale; potrebbe però essere più vicina di quanto pensiamo, e non perché i terroristi vengono da noi, ma perché alcune forze nostrane continuano ad alimentare diffidenza, odio, non accoglienza, atteggiamenti che possono solo trasformarsi in risentimento, humus su cui crescono risposte all'insegna della violenza. Aprire e tenere aperta una porta è invece una decisione umanizzante, un'azione antropologica che non dovrebbe essere così estranea a cristiani e a non cristiani. Ma per giungere a tale comportamento occorre con urgenza che la convinzione e la prassi di misericordia, compassione e perdono siano inoculate come diastasi nelle nostre società, dando vita a un'ospitalità culturale reciproca che ci permetta di far cadere pregiudizi e di conoscerci meglio. Nell'omelia di apertura del giubileo papa Francesco ha chiesto che questo sia «un anno in cui crescere nella convinzione della misericordia». Sì, il primo passo è essere convinti della misericordia, così come la Scrittura ce la propone quale nome di Dio, e diventarne realizzatori nelle nostre società, a livello personale, ma anche comunitario, economico e politico. Per i credenti tutto nasce dall'immagine di Dio che hanno, perché questa plasma la loro fede e il comportamento. Secoli di storia cristiana testimoniano che la misericordia di Dio non è compresa, scandalizza i credenti stessi, sembra un eccesso che va temperato con le nozioni di verità e giustizia. Il papa lo sa bene e lo denuncia con forza: «Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto» - e solo i cristiani possono pronunciarlo - «che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza invece affermare prima che sono perdonati dalla sua misericordia. Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia», perché «la misericordia ha sempre la meglio sul giudizio» (Giacomo 2,13). Poche parole, eppure parole di grande rottura con una certa vulgata cattolica, attestata soprattutto negli ultimi secoli, secondo la quale è doverosa l'intransigenza, è necessario l'esercizio del ministero di condanna: secoli in cui l' immagine prevalente di Dio era quella del Dio irato e giudice, del "Dio ti vede", quale occhio in un triangolo ovunque presente, del Dio che castiga, che va placato con sofferenze e fatiche a lui offerte affinché arresti il braccio della sua giustizia divina. Papa Giovanni diede inizio a una nuova stagione della chiesa non innovando la dottrina, ma proclamando: «Oggi la sposa di Cristo, la chiesa, preferisce ricorrere alla medicina della misericordia piuttosto che brandire le armi della severità» (11 ottobre 1962, Allocuzione di apertura del concilio Vaticano II). E Papa Francesco manifesta l'urgenza della misericordia come la sua più intima convinzione: «Questo nostro tempo è proprio il tempo della misericordia. Di questo sono sicuro… Noi stiamo vivendo in tempo di misericordia» (6 marzo 2014, Discorso ai parroci di Roma). Lo stesso Francesco ha esplicitato a più riprese che la misericordia, la compassione, la tenerezza e il perdono di Dio non sono da intendersi come un correttivo della giustizia divina, non sono in tensione con il suo giudizio, ma semplicemente sono la giustizia di Dio messa in atto verso l' essere umano. In Dio c'è un prevalere della misericordia sulla giustizia, se così possiamo dire. Addirittura, secondo il profeta Osea, la misericordia è la manifestazione della santità di Dio, il quale è Santo, cioè è differente, altro dall' uomo proprio nel giudicare e nel sentire la giustizia. Osea arriva a dire che nel cuore di Dio c'è una sorta di "rivolta" del sentimento di misericordia contro la volontà di giustizia: questo sentimento impedisce a Dio di castigare secondo l'alleanza, di andare in collera contro chi ha peccato (cf. Osea 11,8-9). Gesù sottolinea questo prevalere in Dio della misericordia sulla giustizia citando per ben due volte un'altra parola dello stesso profeta: "Andate a imparare che cosa vuol dire: voglio misericordia e non sacrifici (Osea 6,6)" (Matteo 9,13 e 12,7). Con i suoi incontri e con le sue parole, in particolare con le parabole, Gesù attesta che la giustizia di Dio è oltre la giustizia umana, trascende la giustizia della legge, perché non è "giustizia bendata" (Adriano Prosperi) ma vede,

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discerne, guarda in volto ogni umano; per questo non è retributiva, né punitiva, né meritocratica, secondo i concetti della "nostra" giustizia umana che proiettiamo in Dio. La giustizia di Dio proclamata nella Bibbia attesta che Dio non è indifferente al male compiuto dagli umani, perciò, anche quando va in collera, tale comportamento è l'altra faccia della compassione. Di fronte a questa verità molti cristiani continuano a chiedersi: «Ma allora che ne è della giustizia, della responsabilità umana?». Ha risposto bene il cardinale Pietro Parolin: «La misericordia esercitata non è buonismo, non è timidezza di fronte al male, ma è esercizio di responsabilità». Il segretario di Stato, con la sua profonda consonanza con papa Francesco, arriva a parlare di «misericordia necessaria, prima ancora dei trattati, per poter spianare i terreni di pace e le tante vie degli esodi forzati che stanno mutando il mondo», perché anche a livello economico, politico e giuridico la misericordia e il perdono devono trovare realizzazioni che aprano a una convivenza buona tra i popoli e le genti. È la stessa convinzione alla quale era giunto papa Giovanni Paolo II che, nel messaggio per giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2002, arrivò a chiedere che il perdono, negando la giustizia punitiva, trovasse realizzazione in «una politica del perdono espressa in atteggiamenti sociali e in istituti giuridici» e non fosse relegato nella coscienza del privato cittadino. Davvero, come recita il titolo di quel messaggio profetico, «non c'è pace senza giustizia, non c'è giustizia senza perdono»: giustizia e perdono sono immanenti l'una all'altra. E all'Angelus di ieri papa Francesco con una delle sue frasi, aforismi che colpiscono, ha detto: «Non si può capire un cristiano che non sia misericordioso, come non si può capire Dio senza misericordia». Di fronte a questo cammino percorso dalla chiesa cattolica e all’insegnamento di papa Francesco non si possono più elevare accuse di spiritualismo o di evasione dalla storia. Questo è il cammino storico fatto dal Vaticano II a oggi. Con il concilio «si sono spalancate al mondo le porte chiuse per un autentico incontro tra la chiesa e gli uomini del nostro tempo», ha detto papa Francesco. E ha anche chiesto che il giubileo in corso «non trascuri lo spirito emerso dal Vaticano II», lo spirito di una chiesa che si piega verso l' uomo sofferente, sull' esempio del samaritano il quale, secondo il vangelo, "ha fatto misericordia". Questo è semplicissimo, è umanissimo. Pag 2 Dalle suore ai ragazzi rasta, ecco il popolo del Giubileo. Il Papa: “Basta con la paura” di Sebastiano Messina In 50mila a San Pietro per l’apertura della Porta Santa: “In questa Piazza si sente un enorme senso di pace” Roma. Sono i colori, a rivelare che oggi siamo tutti sorvegliati speciali. I colori delle divise che si vedono a ogni passo. Il blu della polizia e il vermiglio della Croce Rossa, il verde fosforescente della Protezione civile e il nero dei carabinieri, il giallo dei volontari e le chiazze disordinate delle mimetiche dei granatieri con i giubbotti antiproiettile e il mitragliatore d'assalto a tracolla. La sicurezza viene prima di tutto, oggi. Si comincia con una veloce perquisizione, «aprire le borse e sbottonare i giacconi», e poi - sotto il colonnato - il metal detector come all'aeroporto, però più veloce. Ma alla fine eccoci qui, di fronte alla porta santa, aspettando lui, papa Francesco. Il canto Misericordia, «Misericordias Domini / in aeternum cantabo», si spande dolcemente nella piazza sotto la pioggia, sui berretti umidi dei preti filippini e sui fazzoletti di pizzo nero delle vecchiette romane, una musica celestiale sovrastata a un certo punto dal richiamo di un maresciallo ai fedeli più furbi che volevano scavalcare le transenne per saltare la fila: «Va bene che è il giorno della misericordia, però non esageriamo!». «Abbandonate ogni forma di paura» dice papa Francesco. Loro, quelli che oggi sono venuti fin qui, non ce l'hanno. Non hanno paura le quattro monache brasiliane che alle sei e mezzo del mattino, quando ancora è buio, camminano spedite verso via della Conciliazione. «Dobbiamo fidarci: papa Francesco ha dato l'esempio», dice suor Alice che viene da San Paolo. Non ha paura neanche Daniele, partito dal Canton Ticino con la moglie. «Noi ci siamo. Inossidabili. Abbiamo fede. E siamo fiduciosi proprio perché abbiamo fede. Se san Pietro decide che è arrivato il mio momento fa girare la chiave e via». Non ha paura Fabrizio che arriva da Borgomanero, «Fa più paura guardare la tv. Qui si avverte subito un senso di pace». Eppure qualcuno ha avuto paura, come testimoniano certi spazi rimasti vuoti, le storie di chi aveva preso dieci biglietti per darli agli amici, e gli sono rimasti tutti, e i racconti dei figli e delle mamme che raccontano di essere qui anche se

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le loro mamme e i loro figli glielo avevano sconsigliato. Ma oggi tutto ha funzionato come doveva, e chi è riuscito a entrare nella piazza rimane incantato dalla straordinaria precisione della liturgia, dalla dolcezza del canto "Salve Regina" e dallo spettacolare schieramento di eminenze ed eccellenze con i paramenti bianchi bordati d'oro sul grande sagrato della basilica, dalle preghiere in cinese e in swahili e dalle guardie svizzere con la divisa di gala, con il colletto plissettato, i guanti bianchi e l'elmo d'acciaio che porta impressa a sbalzo una quercia (stemma della famiglia di papa Giulio II, i Della Rovere). Insomma, nella sua cerimonia più solenne la Chiesa mostra la sua forza tranquilla e pacifica, ed è inevitabile il confronto tra la compostezza del raduno cattolico - e della folla di Roma - e la calca impetuosa che due mesi fa ha travolto alla Mecca quei settecento pellegrini che hanno trovato la morte nel loro viaggio della vita. È inevitabile osservare l' eleganza della Misericordia cristiana, con un Papa che invita al perdono e fa recitare in arabo la preghiera ai governanti, dopo che cinquantamila cattolici si sono messi in coda tre ore prima, uno dietro l' altro e spesso cedendosi il passo con un sorriso, una di quelle file pacifiche e ordinate che sono un simbolo dell' Occidente, in una Roma che si conferma capitale della religione civile. Sulla piazza risuona la voce, dolce e grave, di un Papa che spiega con parole limpide il significato di questo Giubileo della Misericordia: «Quanto torto si fa a Dio quando si dice che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre che invece sono perdonati dalla sua misericordia». È un concetto delicatissimo, più di quanto non possa sembrare, perché riguarda - semplicemente - la natura stessa di Dio. Padre Dariusz, che viene da Varsavia «e conoscevo Giovanni Paolo II», mi ricorda che questa era la parola chiave di santa Faustina Kowalska, la suora polacca che scrisse della Madonna che le era apparsa per dirle che doveva parlare al mondo «della grande Misericordia di Dio e preparare il mondo alla sua seconda venuta, perché stavolta egli verrà non come salvatore misericordioso, ma come giudice giusto». Eckhard, che ha i capelli bianchi ed è un professore in pensione partito da Wittemberg - la città dove Martin Lutero pubblicò le sue 95 tesi affiggendole sul portone della chiesa - mi spiega che per i cattolici tedeschi la misericordia è un concetto prezioso e fondamentale, «perché lo scisma cominciò proprio con il rifiuto di un Dio terribile e vendicativo, che perdonava i peccati solo grazie alle indulgenze, allora a pagamento », e sorridendo mi cita a memoria, in perfetto italiano, la ventisettesima tesi di Lutero: «Come il soldino nella cassa risuona, ecco che un'anima il purgatorio abbandona!». Eppure lei è qui, gli obietto. «Perché sono cattolico, e perché questo è il papa della misericordia». Nessuno aveva osato interrompere la solennità di un giorno così, con i canti gregoriani in latino e quel battaglione di cardinali e arcivescovi schierato con perfezione geometrica sul sagrato di San Pietro, fino a quando l' abbraccio tra Francesco e Benedetto ha trasformato il Giubileo della Misericordia nel Giubileo dei due Papi. Ma quel gesto nel quale l'affetto si mescolava al rispetto ha acceso l'applauso liberatorio e corale della piazza, in una giornata che era cominciata prima dell' alba, quando mille persone erano già in fila dietro le transenne che dalla sera prima hanno sigillato tutte le strade intorno a San Pietro. C'erano il gruppo con la bandierina del Canada, le suorine emozionate e i parrocchiani ottantenni, quelli che sorridendo spiegavano «vengo stavolta perché è il mio ultimo Giubileo», quei due che come gli antichi pellegrini hanno voluto fare non l'autostrada ma la via Francigena a piedi, «una settimana per venire a Roma da Siena, ma è stato bello», l'attempato ciclista arrivato pedalando dalla Ciociaria, «mi sono alzato alle quattro e appena è finita torno indietro», i ventenni con i capelli rasta e signore con la pelliccia, però ecologica, la famigliola romana che ha preso i biglietti il giorno prima anche per il bimbo che ancora dormiva nel passeggino, beato lui. Sulla folla dei pellegrini in fila volteggiavano i gabbiani, e chissà se c'era anche quello, mandato certamente dal diavolo, che una domenica di gennaio ghermì la colomba della pace appena liberata da Francesco. Il barista di via del Mascherino aveva aperto alle tre e mezzo, era qui già da un bel pezzo, «ma è 'na fregatura, c'è poca gente» si lamentava. «Hanno paura dell'Is ma quelli mica so' scemi che se mettono contro er Vaticano». E quando è finito l'Angelus, ultima fatica mattutina del Papa, la piazza rapidamente si è svuotata. Il bancarellaro che vende souvenir sacri in fondo a via di Porta Angelica guardava passare quei pellegrini che camminavano veloci verso le trattorie con aria sconsolata, e commentava sconsolato: «Oggi niente, zero assoluto». Ma il Giubileo è appena cominciato.

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LA STAMPA Non esiste giustizia senza perdono di Andrea Tornielli «Se tutto rimanesse relegato al peccato», cioè se l’ultima parola ce l’avessero il nostro limite e i nostri errori, «saremmo i più disperati tra le creature». Papa Francesco ha aperto ieri il Giubileo straordinario della misericordia ricordando ancora una volta che l’essere «misericordioso» è la caratteristica principale di Dio: «Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia». È il cuore del messaggio cristiano: la possibilità di ricominciare e di risollevarsi sempre, grazie alla mano tesa – Francesco direbbe grazie alla carezza – di un Dio vicino, che abbraccia, ama, consola, sorregge. L’Anno Santo è per i credenti un tempo eccezionale, un tempo di porte aperte per favorire la riconciliazione. Questo messaggio può dire qualcosa anche alle nostre società? C’entra con il modo in cui, ad esempio, si guarda ai rapporti internazionali? Una lettura distorta e semplificatoria riduce la misericordia al buonismo lasciando intendere che essa sia in contrapposizione con la giustizia, l’assunzione di responsabilità, la necessità di riconoscere i propri errori e di pagarne le conseguenze. A ben guardare, invece, misericordia e perdono, cioè la possibilità di muovere il primo passo sapendo superare anche i torti subiti, rappresenta l’unico modo perché la giustizia si compia davvero. Ne era convinto Giovanni Paolo II, che, all’indomani degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001 pubblicò un messaggio per la Giornata della Pace e affermò che non c’è pace senza giustizia ma non c’è giustizia senza perdono. Il mondo si era improvvisamente risvegliato con l’irrompere della barbarie perpetrata dall’ideologia fondamentalista, e il Pontefice ormai anziano e malato ricordava che la giustizia umana «va esercitata e in certo senso completata con il perdono che risana le ferite e ristabilisce in profondità i rapporti umani turbati». E «ciò vale - aggiungeva - tanto nelle tensioni che coinvolgono i singoli quanto in quelle di portata più generale e anche internazionale». Lo scorso 24 settembre, nel discorso che ha tenuto di fronte al Congresso americano, Papa Francesco, parlando della lotta contro «la violenza perpetrata nel nome di una religione, di un’ideologia o di un sistema economico», invitava a non «imitare l’odio e la violenza dei tiranni e degli assassini» perché questo «è il modo migliore di prendere il loro posto». La nostra, spiegava «dev’essere una risposta di speranza e di guarigione, di pace e di giustizia. Trattiamo gli altri con la medesima passione e compassione con cui vorremmo essere trattati. Cerchiamo per gli altri le stesse possibilità che cerchiamo per noi stessi. Aiutiamo gli altri a crescere, come vorremmo essere aiutati noi stessi. In una parola, se vogliamo sicurezza, diamo sicurezza; se vogliamo vita, diamo vita; se vogliamo opportunità, provvediamo opportunità. La misura che usiamo per gli altri sarà la misura che il tempo userà per noi». Nel mondo dilaniato da quella che Francesco chiama «la terza guerra mondiale a pezzi» il messaggio della misericordia e della riconciliazione del Giubileo tenta di suggerire, seppure sommessamente, un criterio nuovo. Lo stesso che ha portato il Papa a voler inaugurare l’Anno Santo non a Roma ma a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana. Rispedendo cortesemente ai mittenti gli allarmi e gli inviti - non sempre disinteressati - di chi gli chiedeva di lasciar perdere e di evitare di recarsi in quel Paese segnato dalla guerra civile e dimenticato da tutti, Papa Bergoglio ha voluto esserci. Non è accaduto nulla nei due giorni della visita papale. E a una settimana di distanza la tregua tra le milizie che si fronteggiano sembra ancora reggere. IL FOGLIO Pag 1 Il Papa apre il Giubileo e bacchetta chi si oppone alle aperture dello Spirito di mat. mat. Francesco chiede che la misericordia sia anteposta al giudizio. Dubbi americani: “Ma non va confusa con la pietà”. Il legame con il Concilio Roma. La Porta santa è aperta, il Giubileo iniziato. I primi ad attraversarla sono stati Francesco, Pontefice regnante, e Benedetto, Pontefice emerito. A seguire, la schiera di cardinali e vescovi che ha partecipato alla sobria celebrazione in piazza San Pietro, sotto una leggera pioggia. Se ci fossero stati ancora dubbi sull'impronta che Bergoglio vuole dare all'Anno santo, questi si sono dissolti ascoltando la breve (meno d'una cartella dattiloscritta) omelia. "Se tutto rimanesse relegato al peccato saremmo i più disperati

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tra le creature, mentre la promessa della vittoria dell'amore di Cristo rinchiude tutto nella misericordia del Padre". Misericordia che tutto può e che, soprattutto, "accoglie tutti e a ognuno va incontro personalmente". Lo avrebbe ribadito con più enfasi poco dopo, sottolineando "quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia". Non è la prima volta che Francesco rimarca il punto, andando oltre le disquisizioni teologiche sull'inscindibilità di giustizia e misericordia, che tanto avevano tenuto banco nel biennio sinodale. E frasi simili il Papa le aveva pronunciate nel discorso conclusivo del Sinodo sulla famiglia dello scorso ottobre, affermando che "senza mai cadere nel pericolo del relativismo oppure di demonizzare gli altri, abbiamo cercato di abbracciare pienamente e coraggiosamente la bontà e la misericordia di Dio che supera i nostri calcoli umani e che non desidera altro che tutti gli uomini siano salvati". Un intervento, questo, che era stato interpretato come una critica a quanti s'erano detti indisponibili a ogni apertura in fatto di pastorale nei riguardi delle "famiglie ferite"; fermi nel ritenere che la misericordia altro non è che il compimento della giustizia. Il Papa ha capovolto il quadro: "Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio". Chiara antifona anche nell'ottica di quanto deciderà nei prossimi mesi circa i temi più delicati discussi al Sinodo (comunione ai divorziati risposati su tutti). Il legame tra l'Anno santo e il Vaticano II Ma Bergoglio, nel giorno in cui cadeva il cinquantesimo anniversario della chiusura del Vaticano II, ha voluto ricordare quell' evento dicendo che allora i padri "spalancarono un'altra porta verso il mondo". Francesco ha sottolineato come questa scadenza non possa essere "ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti" - la messa è stata preceduta dalla lettura di brani tratti dalle quattro costituzioni conciliari - perché "in primo luogo il Concilio è stato un incontro tra la chiesa e gli uomini del nostro tempo". Di più, un "incontro segnato dalla forza dello Spirito che spingeva la sua chiesa a uscire dalle secche che per molti anni l'avevano rinchiusa in se stessa". E il Giubileo "ci obbliga a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II", ha chiosato. Il rischio che si corre in quest' Anno santo, aveva avvertito qualche giorno fa l'arcivescovo di Philadelphia, mons. Charles J. Chaput, in un lungo articolo apparso sulla rivista cattolica americana First Things, è di "confondere la misericordia con la pietà". Spesso - scriveva il presule americano - "pensiamo alla misericordia come qualcosa di opposto al corretto giudizio. Ma ciò è fuorviante. Si consideri un insegnante che si accorge che uno dei suoi studenti sta male, con lividi e altri segni di percosse. Sentirsi male per il bambino non serve a niente. La vera misericordia comporta un'azione, dei fatti. Il bambino è abusato a casa? E' stato picchiato a scuola? Le decisioni vanno prese, le azioni malvagie segnalate. I malfattori devono essere condannati. E' una falsa pietà quella che compatisce un bambino che soffre ma poi si esime dal toglierlo dalle mani di chi gli fa del male. Una persona misericordiosa è veloce nel servirsi del potere che ha per distruggere il male. E questo è ciò che Dio fa in tutta la Scrittura". Pag 1 Il titolo sul Giubileo che non si può fare di Giuliano Ferrara Quanti eravamo all'apertura della Porta santa? Qui da noi la contabilità della folla in piazza ha sempre fatto sorridere, in particolare ma non solo per la conta dei girotondi e dei concerti del Primo maggio e delle adunate ex articolo 18, siamo gente saggia. I dati della questura, i dati delle organizzazioni e quelli della realtà si sono sempre rincorsi e confusi teneramente e vanamente, almeno per il nostro occhio di lince. Perfino i due milioni della République con tutti i capi di stato e di governo alla testa del corteo, visto come prevedibilmente sarebbero andate poi le cose, con la fatale "se la sono andata a cercare", non ci hanno impressionato. Qualche giorno fa, sull'onda delle stragi islamiche tra la folla di Parigi, un appuntamento con l'Angelus era rado di fedeli, e si può capire. Ora con il Giubileo straordinario della misericordia ciò che conta è l'immagine bellissima dei due papi, la parola del Papa sul perdono che ha il primato sul giudizio, la bellezza consueta dei paramenti e dell'apparato liturgico, il sentimento di una esperienza diffusa di fede e di attaccamento alla chiesa di Cristo. E ha fatto bene il decano dei vaticanisti, Luigi Accattoli, a mettere le mani avanti con onestà di dati e ragionamenti. Eravamo né pochi né molti, ha scritto a caldo. Le cerimonie sono concepite come diffuse territorialmente, per diocesi. Si è addirittura cominciato parecchio fuori porta, a Bangui con l'apertura della prima delle porte sante. Il tratto è quello della sobrietà invocata e

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perorata dalla Santa Sede. Certo, scrive Accattoli, la folla in San Pietro era imparagonabile con uno qualsiasi, se possa dirsi qualsiasi, dei recenti grandi eventi mediatico-ecclesiali, dalla morte di Giovanni Paolo II alla sua canonizzazione, comprese le santificazioni di Padre Pio e di Escrivá de Balaguer, il fondatore dell' Opus Dei. Ma la chiesa, aggiunge, si rifarà con la imminente canonizzazione di Madre Teresa di Calcutta, il 4 settembre, e prima ancora con le solennità della Pasqua. Argomenti pacati e saggi, auspici, buona fede e buon temperamento. I giornali e le tv avevano puntato su centomila persone, poi era stata ridotta a settantamila la previsione, infine si registrerebbero cinquantamila persone tra le colonne di Gian Lorenzo Bernini e sotto il Cupolone di Michelangelo. Non erano i soliti due, trecentomila fedeli? Pazienza. Speriamo che il decano abbia ragione. Eppoi per le persone bennate niente si giustifica con il numero, o quasi. Eppure qualche dubbio va registrato. Non riguarda Bergoglio: il suo può essere considerato un papato controverso, il che accade raramente eppure accade, ma è certamente un papato popolare, amato, di cui il cuore della chiesa sentiva il bisogno, e a cui molti laici desiderosi di pietà o devozione, in certi casi anche a basso costo, low cost, si piegano reverenti per la prima volta. Non riguarda il bisogno di misericordia, mai così ben ripartito in un mondo di pellegrini e peccatori umani troppo umani. Riguarda altro. Forse non accadrà, ma c'è il sospetto che il continuo appello a non restare a casa, perfino dal palco della Scala dove non ci sono nemmeno posti in piedi: e l'appello più serio a una chiesa in uscita, in missione, che ridiventa per sua natura povera e callejera, ecco, il sospetto che tutto questo possa confrontarsi con il malessere o con la paura che tutti vorremmo, chi con un di più e chi con un di meno di retorica abusiva, esorcizzare. Ha riaperto la terrasse de La Bière, a Parigi. Si giocheranno altre partite in stadi pieni e rutilanti di colori. Concerti e balli non sono destinati a esaurirsi. E per fortuna. Ma una giornata un po' grigia, piena di controlli e di affabulazione sui controlli, in una specie di universalizzazione del posto di blocco, il tornello del nostro secolo, ispira qualche sentimento di malinconia. Difenderemo il nostro famoso stile di vita, ce la faremo, ripartiremo, d'accordo, ma intanto in qualche occasione, con la no-fly zone sui cieli liberi di Roma, con la famosa "blindatura" che cambia la scena, nasce l'ipotesi, che speriamo venga smentita con il tempo, di un restringimento del bacino di traffico e di vitalità numerica della nostra libertà e della nostra partecipazione alla vita pubblica. Forse è solo una malinconica osservazione di un giorno, sebbene sia il giorno topico del Giubileo, qualcosa che non avviene a ogni momento, ma se a San Pietro fossero stati in trecentomila avremmo titolato volentieri che la paura ha perso. E' un titolo che non possiamo fare. IL GAZZETTINO Pag 1 Un evento in pieno stile Bergoglio di Oscar Giannino Roma e l’Italia intera bisogna che non s’illudano. Il Giubileo straordinario della Misericordia indetto da papa Francesco non piacerebbe a Bonifacio VIII, che nel 1300 l’inventò: perché sarà davvero low cost. E’ un bene che sia così non solo perché papa Bergoglio così lo vuole, ma anche per i guai ordinari e straordinari che investono Roma e l’Italia. Guai per risolvere i quali altro che la misericordia, ci vorrebbe. Guardiamo retrospettivamente al Grande Giubileo del 2000, e immediatamente saltano all’occhio differenze macroscopiche. Quello di allora era a scadenza ordinaria, i preparativi iniziarono anni prima. Questo è stato indetto a otto mesi scarsi dall’inizio. Quindici anni fa, Roma era centrale per gli effetti stessi del Giubileo sui pellegrini e credenti. Questo è stato voluto da papa Francesco guardando alla Chiesa universale, dunque i fedeli vi partecipano in cattedrali dovunque nel mondo. E’ anche per tali ragioni, che le risorse pubbliche finora stanziate dall’Italia sono nell’ordine di grandezza di un quindicesimo di quelle di allora. Per il Giubileo del 2000 un primo comitato misto tra istituzioni nazionali e Campidoglio iniziò a lavorare quasi sei anni prima. Si è trattato allora di oltre 3 miliardi di euro odierni di spesa, a conti fatti. Meno di quanto era stato annunciato nella prima conferenza programmatica del Giubileo 2000 che si nel maggio 1995. Ancora nel 1996 l’allora sindaco Rutelli annunciava trionfalmente la bellezza di 17mila miliardi di lire in vista dell’evento, ma il Parlamento destinò alla fine fino a 6mila miliardi di lire per il Giubileo 2000. La capitale del 2000 lanciava un piano ambiziosissimo di grandi opere definite «indispensabili», e il bilancio finale fu, come sempre in Italia, contraddittorio.

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Quello tratto dal sindaco Rutelli – che era stato nominato commissario straordinario dell’evento - insieme all’allora ministro Bordon parlò del 95,6% di progetti realizzati. Su 821 interventi per 1,7 miliardi di euro attuali, ne erano stati finanziati 801, dei quali 563 risultavano completati, 94 non completati ma fruibili, 43 completabili a scadenze più lunghe, 76 né completati né fruibili. Su quegli ultimi calò la scure del ministero delle Infrastrutture, con conseguente contenzioso con il Campidoglio. In compenso, Roma e l’Italia conobbero nel 2000 una bonanza economica che non si risolse negli investimenti pubblici. A Roma si contarono circa 30 milioni di pellegrini, con un aumento stellare del 23% sull’anno precedente e un beneficio sulla ricettività locale – alberghi, ristoranti, commercio – pari a un miliardo di euro odierni per la sola area romana. Nel 2000 le strutture ricettive italiane registrarono 78,7 milioni di arrivi (+6%) e 331,4 milioni di presenze (+7,4%). Gli stranieri crebbero dell’8,1% negli arrivi e arrivarono a 137 milioni di presenze, ben 25 milioni di giornate più della media degli anni precedenti, con un aumento della spesa complessiva da stranieri in Italia dell’8%. Il fatturato lordo complessivo di alberghi e turismo italiani grazie al Giubileo 2000 superò quelli che oggi sarebbero 70 miliardi, raggiungendo il 6% del Pil di allora. Anche per tutto questo, nel 2000 il Pil italiano crebbe quasi del 3%: quell'anno l'Italia andò meglio della Germania. Veramente altri tempi, se pensate ai 200 milioni in tutto sinora stanziati per il Giubileo della Misericordia dal governo Renzi, con il decreto legge di metà novembre. Dagli oltre 800 progetti del 2000 i cantieri per il Giubileo 2016 sono oggi in tutto 23. Ma poi soprattutto, sicurezza: perché oggi è il terrore dell’Isis, a gravare come grande minaccia per la quale molte migliaia di turisti e pellegrini hanno già annullato le prenotazioni a Roma. Risorse e progetti sono affidati al commissario per Roma Fabrizio Paolo Tronca, fresco del successo di Expo – programmato a propria volta con 8 anni di anticipo – e del prefetto di Roma Franco Gabrielli. Che già si è trovato a dover rispondere piccato al presidente del Pontificio Consiglio per l’Evangelizzazione, monsignor Rino Fisichella, che ha lamentato il macroscopico ritardo dell’avvio dei cantieri che dal Campidoglio al Vaticano erano stati preannunciati. Nessuno sa dire quante presenze in più di pellegrini davvero si realizzeranno per il Giubileo della Misericordia. Ma poiché il commissario Tronca lo scorso 4 dicembre ha messo nero su bianco di aver già riscontrato nei conti ereditati da Marino 20 milioni di deficit 2015 superiore al previsto, 60 milioni di debito fuori bilancio ulteriori non trasmessi ai revisori contabili, e di aver dovuto iscrivere ben 148,7 milioni al fondo “crediti di dubbia esigibilità” tra quelli vantati invece come crediti esigibili da Marino, si capisce che oggi Roma ha bisogno di una drammatica sterzata di efficienza nell’amministrazione ordinaria del Campidoglio, prima di rimpiangere i miliardi spesi nel 2000. Pag 1 Quel messaggio non è rivolto solo ai cristiani di Lucetta Scaraffia Se il giubileo del Duemila è stato il trionfo delle folle, e in un certo senso quello della Chiesa, cioè di una istituzione che, unica al mondo, esiste ininterrottamente da quasi venti secoli, l'Anno Santo straordinario di Francesco nasce subito in tono minore. Almeno dal punto di vista delle folle, delle cerimonie, del successo mediatico. Così l'ha voluto il Papa, che per la prima volta ha indetto un giubileo "a tema", nel quale le porte sante che garantiranno la salvezza dopo la morte saranno migliaia, e le aperture da parte dello stesso pontefice si moltiplicheranno, di fatto togliendo a quella di San Pietro la priorità assoluta che aveva sempre avuto. In una piazza blindata Francesco ha ripetuto il rito con il quale ha in realtà inaugurato l'anno santo già dieci giorni fa in Africa, attraversando la povera porta di legno della cattedrale di Bangui. Là l'invocazione al perdono e alla misericordia aveva un sapore concreto, mirava a portare la pace dopo una guerra intestina che dilania il Paese da più di vent'anni. La porta aperta a Roma è invece quella al cuore di un’istituzione che ha attraversato lunghi periodi di crisi interna, prima con Benedetto XVI e oggi anche con Francesco. I due Papi che hanno attraversato uno dopo l'altro la Porta Santa, hanno infatti affrontato e devono affrontare ancora pesanti difficoltà interne, nel riformare la curia e l'amministrazione vaticana, il tutto davanti allo sguardo critico e non benevolo del mondo. Bergoglio sembra non badare alle folle, né ai mille occhi mediatici che lo inseguono: l'unico suo obiettivo è far ascoltare l'invocazione alla misericordia in un mondo che ha fatto della concorrenza, della vittoria sugli altri, del successo, l'unico scopo della vita. Vuole che la misericordia diventi pratica

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di vita per ogni cristiano, perché sa che soltanto così si può cambiare il mondo, e che questa è l'unica strada per realizzare il Vangelo. L'essere umano può incontrare Gesù solo nel momento in cui viene toccato dalla misericordia nella totalità del proprio essere, nell'anima come nel corpo. Questo Anno Santo, quindi, ristabilisce che tutte le chiese sono il luogo della misericordia di Dio. Per riportare la misericordia nel mondo papa Francesco si è rivolto a Maria: la scelta di iniziare l'anno santo nel giorno dell'Immacolata, e di suggellare questa data con una silenziosa preghiera davanti all'antichissima icona di Santa Maria Maggiore, rivelano la forza della sua scelta. Del resto, il termine misericordia in ebraico viene espresso con lo stesso termine che definisce l'utero, come a sottolineare che si tratta di una qualità materna, e ricordarci così che siamo di fronte all'anima materna di Dio. Per questo i pellegrini accorsi, reduci da lunghe file per i controlli, avevano lo sguardo luminoso, senza paura di niente, se non di dimenticare, ripreso il vortice della propria vita, l'intensità del momento vissuto. Il messaggio della misericordia è così importante che Francesco lo ripeterà personalmente, aprendo altre Porte Sante, di ostelli per immigrati o di basiliche romane non importa. Ovunque le sue parole - che invitano al perdono e ricordano l'amore di Dio per noi - risuoneranno come messaggio di liberazione dalla paura e dall'odio, portando la speranza di un mondo diverso. Ed è proprio da come i cristiani - e i non credenti o gli appartenenti ad altre religioni, ai quali pure Francesco si rivolge - risponderanno a questo appello del Papa che dovremo misurare il successo del giubileo. Pagg 2 – 3 La Chiesa “aperta” nella piazza chiusa di Franca Giansoldati L’abbraccio tra i due Papi e la “sottomissione” di Joseph Ratzinger La lunga giornata di Papa Bergoglio è iniziata con un affidamento alla Madonna ed è finita con una preghiera di ringraziamento davanti all'icona della Salus Populi Romani, protettrice di Roma. Di ragioni per andare ad inchinarsi davanti al volto della Vergine ce n'erano parecchie, viste le premesse della vigilia, con l'allarme attentati e le misure predisposte dalle autorità italiane, tali da trasformare la zona vaticana in una specie di percorso ad ostacoli per chiunque volesse andare alla messa papale. Soprattutto per i pellegrini più anziani che, data la pioggerella, il freddo e i controlli cavillosi (nessuno escluso, compreso preti, suore e persino vescovi) hanno visto trasformare il tratto transennato obbligatorio, da via della Conciliazione fino a Piazza Pio XI, in una micidiale via crucis. A farne le spese non poteva che essere la folla dei credenti più deboli. Moltissimi di loro, scoraggiati dalla paura, se ne sono stati a casa, incollati alla tv. Le cifre ufficiali diffuse da padre Ciro Benedettini, vice direttore della sala stampa vaticana, conteggiano generosamente solo 70 mila persone, praticamente tante quante ne registra un Angelus in tempi pacifici, non di certo quelle che avrebbe dovuto raccogliere il Giubileo della Misericordia. Ma tant'è. I carabinieri ai varchi non lasciavano entrare nemmeno i giornalisti accreditati, il personale volontario, i funzionari d'Oltretevere. Tutti nelle medesime condizioni. Proprio mentre Papa Francesco dal sagrato della basilica predicava l'apertura della Chiesa, metafora delle metafore, con le porte aperte ovunque, l'accoglienza, il perdono, l'amore, la carità. Il rito solenne tradizionale è stato semplificato: il latino ha lasciato il passo all'italiano, le sontuose vesti liturgiche del passato sono state sostituite con abiti meno pretenziosi, molti passaggi rituali sono stati sfrondati e alleggeriti dal maestro delle cerimonie, monsignor Marini. Il messaggio in mondovisione diffuso da Francesco è di tornare alle sorgenti, alle radici, alla testimonianza immediata delle prime comunità. Serve freschezza. «Dobbiamo anteporre la misericordia al giudizio, e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia» ha spiegato durante l'omelia. «Abbandoniamo ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato; viviamo, piuttosto, la gioia dell`incontro con la grazia che tutto trasforma». Assieme al Papa concelebravano i primi tre cardinali vescovi, Angelo Sodano, Giovanni Battista Re e Tarcisio Bertone, al quale è stato incluso anche il regista dell'anno santo, monsignor Fisichella. Un tweet di Francesco ha sintetizzato lo spirito del cammino: «Che il Giubileo della misericordia porti a tutti la bontà e la tenerezza di Dio». L'Italia era rappresentata ai suoi massimi livelli. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella con la figlia e il premier Matteo Renzi con la moglie Agnese, in tailleur nero strizzato e tacco a spillo mozzafiato. Entrambi, al termine della funzione, sono stati condotti in sacrestia a salutare Francesco. Nel

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pomeriggio, dopo un pranzo in mensa e un piccolo riposino, Francesco si è rimesso in marcia per rendere omaggio, come ogni anno, alla Madonna di Piazza di Spagna, a ricordo della proclamazione del dogma dell'Immacolata concezione. «Vengo a nome delle famiglie, con le loro gioie e fatiche; dei bambini e dei giovani, aperti alla vita; degli anziani, carichi di anni e di esperienza; in modo particolare vengo a te da parte degli ammalati, dei carcerati, di chi sente più duro il cammino». Tutto attorno, le vie dello shopping,erano transennate e bloccate. Le autorità presenti, il commissario Tronca e il cardinale Vallini, sono stati salutati rapidamente. Anche il baciamano è stato ridotto all'osso, in compenso il Papa ha dedicato infinte energie a baciare bambini, accarezzare ammalati in carrozzella, incoraggiare genitori disperati. Poi via di nuovo in auto, sulla solita Ford Focus non blindata, stavolta circondata da una colonna di auto blindate per proteggerlo. Viviamo tempi pericolosi. Tuttavia la Chiesa, per Francesco, deve restare fiduciosa, missionaria, materna. Accogliente verso tutti. Città del Vaticano - Joseph Ratzinger è stato il secondo a varcare la porta santa dopo il Papa. Lo ha fatto con la timidezza di un anziano che ormai necessita di un supporto, un bastone, un sostegno a portata di mano per non cadere. I tre gradini li ha saliti sorretto da don Georg. Non ha voluto entrare assieme a Francesco. Docilità e sottomissione lo hanno guidato. Bergoglio però, già dentro, lo ha aspettato e lo ha abbracciato nuovamente, ringraziandolo. Lo ha chiamato come sempre, Santità. In altre circostanze, colloquiando con i giornalisti, lo ha definito "un nonno saggio al quale rivolgersi per un consiglio". Con il tempo hanno imparato a volersi bene e sono diventati un po' fratelli. Francesco lo aveva abbracciato anche poco prima al termine della messa celebrata sulla piazza. Nell'atrio della basilica, in un silenzio irreale, lo ha scorto subito. Ratzinger aveva atteso in disparte, curvo, docile. Come volesse non essere di ingombro. Una raffica di click da parte dei fotografi ha immortalato il momento destinato a fare storia. L'apertura della Porta Santa è per entrambi l'avvio simbolico di una Chiesa che ha bisogno di rinnovarsi. La prima puntata e la seconda puntata di una stessa storia. Il codice per decrittare meglio quest'ultimo decennio è racchiuso in un appunto inedito di Bergoglio risalente al conclave del 2005, dal quale fu eletto Benedetto XVI. Poche righe che permettono di arrivare alle radici concettuali di questo Giubileo straordinario nella proposta e nella forma. A riportare alla luce la breve nota è stata Stefania Falasca, giornalista dell'Avvenire e sua amica fidata che proprio in questi giorni ha diffuso l'appunto. "Questo andare dal centro, Gesù, alla periferia e viceversa, ci dà l'atteggiamento fondamentale. La misericordia. Credo che questo deve crescere nella Chiesa". Ratzinger, come si sa, nel 2005 venne eletto dopo soli quattro scrutini e fu proprio la decisione del secondo candidato più quotato (Bergoglio) a convogliare sul porporato tedesco i voti, un po' per non spaccare la Chiesa e un po' perché aveva apprezzato la libertà con la quale Ratzinger aveva parlato del cammino di purificazione della Chiesa. Verità e misericordia del resto vanno a braccetto. "Bisogna spingere la Chiesa ad uscire dalle secche per riprendere con entusiasmo il cammino missionario" ha insistito Francesco ieri, aprendo la Porta Santa. La presenza del Papa emerito sigilla il pieno appoggio alla riforma in corso, e pazienza se è osteggiata ancora da molti all'interno della Chiesa e della stessa Curia Romana. Il Giubileo sarà solo un acceleratore della dinamica virtuosa iniziata simbolicamente in Centrafrica, a Bangui, in uno dei luoghi più miseri del pianeta e coincidente con il 50esimo anniversario del Concilio: "una scadenza che non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede". LA NUOVA Pag 1 L’altolà ai rigoristi di Papa Bergoglio di Orazio La Rocca «Quanto torto si fa a Dio e alla sua grazia quando si afferma che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia». Citando S. Agostino, ma anche «la misericordia del Buon Samaritano» papa Francesco apre solennemente il Giubileo - il primo della storia ad essere inaugurato con la presenza di due Papi, l’emerito Benedetto XVI e il Pontefice regnante Bergoglio - ricordando, con voce ferma, lenta e chiara, che è sbagliato temere che il peccatore va incontro solo alla punizione secondo i canoni prescritti dalla legge. Se il peccatore si pente sinceramente e

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si rivolge direttamente a Dio troverà sempre - afferma il Pontefice nel momento più alto della celebrazione dell’apertura della Porta santa della basilica di San Pietro - il cuore misericordioso del Signore che, come un padre, non si stancherà mai di attendere l’arrivo dei suoi figli, anche quelli che sbagliano, che si allontanano o vivono momentaneamente nel peccato. Anzi - puntualizza il Pontefice nell’omelia della Messa di inizio Anno santo - Dio non si limita solo ad attendere l’arrivo dei suoi figli, ma va loro incontro, li va a cercare per dare loro sollievo, speranza, perdono. «Basta cercarlo Dio - insiste Francesco - la sua misericordia e il suo perdono non si faranno mai attendere». È tutta in queste brevi frasi il vero significato del Giubileo della Misericordia decollato ieri mattina dal Vaticano. Frasi che papa Francesco ha pronunziato Urbi et Orbi (alla città di Roma e al mondo), ma non solo. Il delicato tema della misericordia divina superiore a qualsiasi forma di giustizia terrena non può non riguardare quanti, anche nella Chiesa, svolgono il delicato esercizio della gestione delle norme giudiziarie e canoniche. Un tema che non a caso è stato al centro del dibattito sinodale sulla famiglia dello scorso ottobre quando - sotto gli occhi attenti di papa Bergoglio - si sono scontrate le due “anime” che hanno dato vita e forma alle assise sinodali, i rigoristi, fautori dell’applicazione delle norme canoniche in materia di pastorale familiare strettamente legata alla tradizione; e i misericordiosi, vicini alle posizioni pastorali di papa Bergoglio, più propensi ad andare incontro a chi chiede di essere aiutato, specialmente quanti vivono lontani dai sacramenti come i divorziati risposati o i conviventi. Due “partiti” che si sono scontrati senza esclusioni di colpi, ma che alla fine hanno raggiunto un delicato compromesso con la concessione - sancita da un voto a stretta maggioranza - ai vescovi locali di decidere, caso per caso, l’ammissione ai sacramenti di quanti, per le ragioni più varie (crisi coniugale, abbandoni, tradimenti, scelte personali...), sono tenuti ai margini della Chiesa. Con l’apertura della Porta santa papa Francesco è tornato indirettamente sull’argomento, pronunziando un fermo - benché elegante - altolà a rigoristi, benpensanti, difensori della legge, ricordando che la Misericordia di Dio e la grazia Divina anticipano qualsiasi giudizio legislativo e qualsiasi norma canonica. Una verità che affonda le radici nel Vangelo di Cristo - nel perdono del Golgota, ma anche là dove Gesù ricorda che è il sabato (la legge) che deve servire l’uomo, e non viceversa -, verità fatta propria dai Padri della Chiesa come S. Agostino e che ora papa Francesco vuole che faccia parte anche del bagaglio culturale dei moderni pastori, a partire da vescovi e cardinali. Altro momento forte dell’omelia giubilare, il richiamo ai valori del Concilio Vaticano II che proprio l’8 dicembre di 50 anni fa concludeva i lavori dopo aver prodotto una lunga serie di documenti che avrebbero riavvicinato la Chiesa al mondo contemporaneo, aprendola ai bisogni della gente comune, credenti, non credenti, diversamente credenti. «Il Giubileo ci provoca a questa apertura e ci obbliga - è la conclusione di Bergoglio - a non trascurare lo spirito emerso dal Vaticano II, quello del Samaritano, come ricordò il beato Paolo VI a conclusione del Concilio. Attraversare oggi la Porta santa ci impegni a fare nostra la misericordia del Buon Samaritano». Pag 13 Sacra Rota, processi brevi e ultima parola ai vescovi di Cristina Genesin Al Tribunale ecclesiastico del Triveneto cambia il procedimento per ottenere la nullità del matrimonio: sentenze in pochi mesi, minori costi, appelli limitati. A Padova e Treviso il maggior numero di cause canoniche Padova. Giustizia lenta, giustizia ingiusta. Anche nel processo canonico dove, oltre ai sentimenti, è in gioco la fede e la possibilità di vivere la vita pastorale e i sacramenti. Da ieri è cambiato tutto con l’entrata in vigore, nel giorno dell’Immacolata Concezione, della riforma del processo canonico per ottenere la dichiarazione di nullità del matrimonio passpartout indispensabile, per un cattolico praticante spesso con una nuova famiglia, per sposarsi di nuovo. Davanti al prete. E davanti a Dio. Un problema sentito e vissuto anche nel Triveneto dove, sia pure in calo rispetto a dieci anni fa (dopo un picco tra il 2000 e il 2010), il Tribunale Ecclesiastico con sede a Zelarino di Venezia nel 2014 ha definito 163 cause (330 del 2005), esaminato 509 pratiche (811 nel 2005) e avviato 165 nuovi fascicoli (242 nel 2005). Il che significa che c’è stato un decremento dei processi canonici tra Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige. Di certo i cattolici praticanti sono in calo. Ma è pure colpa dei tempi lunghi del processo canonico. E della complessità del procedimento che implica costi maggiori. Ecco perché Papa Francesco ha

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puntato a semplificare il processo canonico, senza intaccare la dottrina e cioè l’indissolubilità del matrimonio che, secondo la Chiesa, resta un sacramento intangibile. «Anche tra coloro che appartengono alla Chiesa si pone il problema dei matrimoni che non hanno avuto esito felice e che si sono conclusi con l’irreparabile rottura dell’unione» spiega l’avvocato Michela Bellon, trevigiana con studio a Castelfranco Veneto, con la collega (e sorella) Monica Bellon, due dei 270 avvocati rotali nel mondo, abilitati a esercitare di fronte alla Sacra Rota, titolo che si consegue con la laurea in diritto canonico e una specializzazione. «Negli ordinamenti giuridici degli Stati il problema trova soluzione con il divorzio che fa venire meno il vincolo coniugale costituito in maniera valida» precisa, «La Chiesa, fedele all’insegnamento di Cristo sull’indissolubilità del sacramento matrimoniale, non può offrire questa soluzione ma non è insensibile alle implicazioni umane e pastorali che derivano dal fallimento di tanti matrimoni». Il processo canonico, infatti, può portare allo scioglimento (tecnicamente la dichiarazione di nullità) di quel vincolo matrimoniale come non fosse mai esistito. Tuttavia solo in presenza di motivi che attengono alla capacità della persona che si impegna nel vincolo coniugale (una malattia mentale); di un vizio del consenso (ad esempio il non volere figli) e della mancanza di formalità nelle nozze (pochi i casi). Il via alla riforma è stato preannunciato da due documenti promulgati dal Pontefice (Motu Proprio): alle spalle tante sollecitazioni dai vescovi e da una commissione di studio. Tra le novità? La centralità del ruolo del vescovo in ogni diocesi: per Padova don Claudio Cipolla, per Venezia il patriarca Francesco Moraglia, per la diocesi di Treviso Gianfranco Agostino Gardin, per Belluno monsignor Giuseppe Andrich. «I principi ispiratori della riforma hanno puntato a snellire e semplificare il processo di nullità del matrimonio, avvicinare gli organi giudiziari della Chiesa e i fedeli, coinvolgere il vescovo nella gestione della giustizia ecclesiastica» conferma l’avvocato Bellon, «Ora, accanto al processo ordinario che mantiene la sua struttura, è stato introdotto il processo più breve utilizzabile quando la richiesta di nullità è ritenuta fondata in modo chiaro fin da subito». Un processo quello breve dove il vescovo – figura più vicina ai fedeli e pronto a vigilare per evitare abusi – è “giudice” sia pure coadiuvato da esperti, chiamato a emettere la sentenza. Inoltre in base alle nuove regole non c’è più la necessità di due sentenze conformi (in primo e secondo grado) per il riconoscimento della nullità del matrimonio. Non basta. Contro una durata media precedente di un anno e mezzo (4 o 5 anni nei casi più complessi), da oggi il processo canonico potrebbe ridursi a pochi mesi, un anno. Con tempi “tagliati” perché, come ha scritto monsignor Adolfo Zambon vicario giudiziale del Tribunale Ecclesiastico Triveneto, «una giustizia rimandata è una giustizia rifiutata». In Veneto la percentuale maggiore di processi canonici si registrano nelle province di Padova e Treviso. I motivi? Oggi soprattutto per incapacità psichica di un coniuge. Anche con la riforma il processo canonico si apre con la domanda presentata al vicario giudiziale del tribunale Ecclesiastico: sarà lui a stabilire se la causa può essere risolta con il processo breve (il fascicolo è trasmesso al vescovo della diocesi competente che decide) o in via ordinaria (più lunga) con un processo davanti giudici dello stesso tribunale. Tuttavia il Tribunale Triveneto già attua l’istruttoria decentrata nelle diocesi. La sentenza di primo grado può essere appellata con limiti maggiori rispetto al passato. La Sacra Rota è il tribunale apostolico della Santa Sede che detta le linee guida per l’attività giudiziaria e de cide come giudice di ultima istanza. CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Giubileo, il diacono veneto che ha assistito Francesco: “Per me il dono più grande” di Michela Nicolussi Moro Venezia. «Il momento più commovente? L’abbraccio fra Papa Francesco e Papa Ratzinger, avevamo le lacrime agli occhi. Il più emozionante? L’apertura della Porta Santa e la camminata del Pontefice, da solo nel silenzio generale, fino all’altare». Di sicuro sarà un Giubileo indimenticabile per i 140 pellegrini della parrocchia di Scorzè che ieri erano in prima fila a San Pietro per assistere all’inaugurazione dell’anno della Misericordia. E, «dono nel dono», hanno vissuto la gioia di vedere il loro diacono, Riccardo Camelin, prestare servizio accanto al Santo Padre durante la messa e il loro cappellano, don Daniele Trentin, far parte dei concelebranti. «E’ stata una bellissima

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esperienza - racconta Camelin - stare vicino al Papa è una grazia, un momento di grande intensità. Ero il suo assistente insieme a un altro diacono italiano e a quattro di diverse nazionalità. Sono stato scelto due settimane fa, lunedì abbiamo fatto le prove con i cerimonieri, stamattina (ieri, ndr) il Papa ci ha salutati uno per uno con una vigorosa stretta di mano. Gli ho chiesto di pregare per la comunità di Scorzè e ha risposto di sì». Tutto questo è nato per iniziativa dell’Azione cattolica Ragazzi (Acr) della parrocchia di Scorzè 14 mesi fa, quando ancora non era stato proclamato il Giubileo straordinario della Misericordia. «Durante un’assemblea i nostri giovani ci hanno chiesto di poter celebrare a Roma, nel 2015, l’Immacolata, per noi giorno speciale perché Festa dell’adorazione - rivela Lorenzo Favaro, presidente dell’Acr -. Abbiamo acconsentito e quando a marzo è stato indetto il Giubileo abbiamo subito prenotato i biglietti per la cerimonia in Vaticano alla prefettura pontificia. Domenica siamo partiti con tre corriere e ci siamo fermati un giorno a Viterbo, l’ultima città prima della capitale lungo la via che un tempo i pellegrini provenienti dall’Inghilterra percorrevano per raggiungere poi la Puglia e imbarcarsi per la Terra Santa. Ieri l’arrivo a Roma, la visita alla Basilica di San Pietro e ai luoghi simbolo, leggendo brani di discorsi del Papa su impegno civile e amore casto, e stamattina sveglia alle 4. Alle 5.40 eravamo già a San Pietro, dopo i controlli di rito avvenuti in un clima di grande serenità, ci hanno sistemati dietro i sacerdoti concelebranti. Siamo riusciti anche ad esibire uno striscione con la scritta: SPQR=Scorzè presente qui a Roma. Una bella esperienza - chiude Favaro - siamo felici». Ma siccome questo è un Giubileo «itinerante», che Papa Francesco ha voluto si vivesse ovunque attraverso la novità dell’apertura di Porte Sante in ogni Diocesi, per la prima volta l’attenzione non è tutta concentrata su Roma. Anzi, migliaia di fedeli si sono riversati ieri nelle cattedrali e nei 220 santuari del Veneto per celebrare la doppia ricorrenza. A Venezia, in una Basilica di San Marco blindata, ha colpito l’omelia dedicata alla donna dal Patriarca, Francesco Moraglia: «Mentre Dio innalza la donna senza timore, le nostre culture la avviliscono, la usano, ne mercificano il corpo, troppo spesso faticano a riconoscerle realmente ruolo di pari dignità con l’uomo. E’ auspicabile che nella Chiesa la donna assuma un ruolo più incisivo, durante quest’anno giubilare può aiutarci a ridisegnare la nostra prossimità con gli altri». Il Patriarca ha aggiunto: «Le grandi decisioni dell’umanità oggi si nutrono troppo spesso di culture di tipo maschile o addirittura maschilista. La nostra cultura deve recuperare uno stile in grado di esprimere di più i valori del mondo femminile, come l’accoglienza della vita, la fantasia, l’intuizione, la creatività». Della donna, «che rappresenta la comunità dei credenti e schiaccia la testa al serpente, cioè il male e l’iniquità con cui non può scendere a compromessi perché il bene vince sempre», ha parlato anche il vescovo di Padova, monsignor Claudio Cipolla, nella sua prima celebrazione nella Basilica di Sant’Antonio, gremita da 5mila fedeli nelle due messe di punta della giornata. Altrettanti hanno affollato la cattedrale di Treviso durante le dieci celebrazioni in programma, mentre nella basilica di Motta di Livenza ha fatto breccia l’esortazione di monsignor Ovidio Poletto, vescovo emerito di Concordia Sagittaria-Pordenone: «Non dobbiamo avere paura. La misericordia vincerà su ogni violenza e perversità umana». Chiaro il riferimento al terrorismo. Curioso infine l’anticipo di lunedì sera al duomo di Breganze, che ha aperto il Giubileo con lo spettacolo di Antonio Gregolin «L’ultimo Francesco». Tre quadri scenici sulla Misericordia, dal frate d’Assisi al nuovo Papa, sono stati interpretati da una cinquantina tra musicisti, ballerini e attori. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 La crisi della seconda casa di Dario Di Vico L’investimento in immobili non è più il bene rifugio per eccellenza. E’ difficile vendere e pesano le tasse Il premier Matteo Renzi ha parlato addirittura di un «moloch» del risparmio privato e il Censis ha documentato il carattere prettamente difensivo delle scelte di 10 milioni di italiani che riescono ad accantonare soldi. Ma nel rapporto tra le famiglie italiane e il

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risparmio c’è una discontinuità profonda con la quale toccherà fare i conti e riguarda il mattone. Conviene dirlo con le parole di Luca Dondi, managing director di Nomisma: «Il nuovo contesto del mercato immobiliare deve portare a un’ampia riflessione sulla presunta capacità difensiva dell’investimento in immobili». In soldoni se in passato comprare la seconda o terza casa era parso alla maggioranza degli italiani il modo migliore per valorizzare i risparmi non è più così. Perché molte di quelle abitazioni rischiano di non essere liquidabili, di diventare un monumento del risparmio incagliato. Riepiloga il professor Pier Marco Ferraresi, che ha curato la recente indagine sul risparmio Centro Einaudi-Intesa Sanpaolo: «L’investimento in immobili risponde a valori che vanno al di là dell’ottimizzazione finanziaria, evoca stabilità, trasmissione ai figli. Il mattone finora non ha mai tradito, non c’è stata in Italia mai una vera bolla e di conseguenza più dell’80% dei risparmiatori è ancora soddisfatto dell’investimento fatto». L’impressione però è che questo orientamento popolare corrisponda a una visione del mercato pre recessione, magari avvalorata dal carattere volubile di tutto ciò che è finanza. Il mercato immobiliare italiano però vive di 480 mila transazioni l’anno, la metà delle compravendite rispetto a 8 anni fa. È auspicio di tutti che ricomincino gli affari (e i dati sui nuovi mutui autorizzano in verità qualche speranza) ma non si tornerà mai più a livelli pre crisi e il mercato sarà estremamente selettivo. Tradotto vuol dire che molti degli investimenti operati in passato dalle famiglie rischiano di essere poco liquidabili. E le seconde case al mare o in montagna in località che per qualche motivo hanno subito un declassamento turistico sono a maggior rischio. Facciamo un passo indietro e vediamo le dimensioni del fenomeno. I 25 milioni di famiglie italiane possiedono 35 milioni di unità abitative, ergo ci sono 10 milioni di seconde case. Quanto valgono? Secondo Nomisma tutto il patrimonio si può pesare in 5.800 miliardi di euro e di conseguenza le case oltre la prima valgono circa 1.500 miliardi ma ovviamente solo nella misura in cui il mercato sia in grado di assorbirle. Per farla breve si tratta di un valore teorico perché tutto dipende dall’attrattività: nelle grandi città - dove è ubicata buona parte delle seconde case - la possibilità di vendita è maggiore, cala nelle città di provincia e si riduce di molto nelle località turistiche che non siamo di prima fascia. «Ci vuole la consapevolezza che non esiste più il bene rifugio con solidità e garanzie sicure. Questo vale per le famiglie ma anche per le banche che si sono esposte e oggi si trovano nei bilanci 300 miliardi di crediti immobiliari deteriorati che per la verità sono in prevalenza in portafoglio alle imprese» dice Dondi. E mette in guardia dal rischio che una ripresa del mercato, pur da auspicare, non consideri le novità intervenute e si muova con logiche vecchie e, a questo punto, miopi. Non bisogna dimenticare, infatti, che oltre ad avere problemi di collocazione le seconde case hanno conosciuto un inasprimento della tassazione e hanno bisogno, specie se in montagna o vicine al mare, di una manutenzione frequente. Secondo i dati dell’Ance le famiglie cominciano a rendersi pian piano conto di questa discontinuità. Tra coloro che hanno comprato nel biennio 2013-14 l’abitazione principale svetta con l’82,1% dei casi mentre l’acquisto di una casa per le vacanze è solo il 9,2% e il mattone come puro investimento finanziario ha sedotto solo il 3,2%. Anche il flusso dei mutui concessi per seconde case è sceso dal 7% del 2005 al 2,9% del 2015. A raffreddare gli entusiasmi più che la consapevolezza di cui parlava Dondi è intervenuto l’aumento di Imu e Tasi che dal 2011 al 2014 è stato del 143,5% (dati Ance). Su una casa data in affitto a Roma a un canone di 4.800 euro l’anno se ne arriva a pagare circa 2 mila di tasse (il 40%). L’aumento della morosità ha contribuito a diradare ancora di più gli investitori. «Nel passato era stato considerato un investimento con un rischio molto limitato che garantiva una rendita stabile per integrare il reddito da pensione o da lavoro, da alcuni anni non è più così» dicono all’Ance. È chiaro che stiamo parlando di mutamenti epocali nella cultura del risparmiatore italiano e i tempi dell’adattamento saranno lunghi, ma per una porzione significativa del ceto medio che ha risparmiato e che oggi si trova a possedere un bene, che da una parte rischia di non essere liquidabile e dall’altro è fonte di continui esborsi, è quasi un incubo. Ci vorrebbe un mercato efficiente che magari correggesse qualche esagerazione del passato ma assorbisse le case messe in vendita. «L’immobiliare in passato è stato il bancomat di immobiliaristi e costruttori - dice Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti - ora non è più così e bisogna imparare a far fronte a una domanda selettiva. Il mercato si segmenterà, giovani che cercheranno case con metrature contenute per la loro prima casa o pensionati che avranno altre

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esigenze. Sperimenteremo anche forme di sharing». In contemporanea però bisognerà fare i conti con l’invecchiamento del patrimonio esistente: le stime dicono che 3/4 degli edifici (8 milioni), quelli costruiti tra il ‘45 e il 1980, sono a fine vita ed è un problema non da poco. La verità è che la presunta ricchezza immobiliare degli italiani, quella che nel marzo 2013 mosse addirittura un polemico report della Bundesbank, è sempre meno reale. E prima lo si capirà meglio sarà. AVVENIRE Pag 3 La spinta giovanile da valorizzare di Carla Collicelli Ragazzi pieni di voglia di futuro Di fronte alle tante manifestazioni di intolleranza e violenza che vediamo intorno a noi in questo periodo, dal terrorismo alle altre forme di aggressione e di ingiustizia, non si può non guardare con grande fiducia e profonda attenzione agli sprazzi di vitalità, coraggio e indignazione che provengono da tanti giovani dei più diversi contesti nazionali e culturali. Dai giovani impegnati contro la mafia, e che perciò militano nelle organizzazioni che si battono contro la criminalità, a quelli che manifestano nelle piazze di tutto il mondo contro gli attentati di stampo fondamentalistico, a quelli che fanno volontariato, spesso con modalità poco appariscenti e note, ma con grande dedizione e impegno, alle giovani donne musulmane che si ribellano a una condizione di marginalità ed esclusione rischiando anche la vita, alle giovani coppie che marciano con i loro bambini in braccio per fuggire alla guerra e alla distruzione e approdare in contesti di vita più accoglienti nei quali ricostruire la propria esistenza. Siamo talmente storditi dal male e dalle sue molteplici manifestazioni, che rischiamo di non cogliere il portato di innovazione e di voglia di un futuro migliore che anima questi ed altri simili comportamenti giovanili, molto di più di quanto non si rilevi nella popolazione adulta. Eppure a ben vedere, e analizzando i dati sociologici sui valori e le propensioni dei giovani dei nostri giorni, dovrebbe essere facile rendersi conto che siamo in una fase nuova per quanto riguarda la condizione giovanile. Molti di noi adulti rimangono attaccati al ricordo delle fasi precedenti, che hanno scandito i decenni dopo la ripresa post-bellica: l’era della contestazione conflittuale del ’68 e del periodo immediatamente seguente, quella del successivo 'riflusso' – come è stato chiamato – nel conformismo e nell’anomia del periodo dell’espansione dei consumi, e quella del prolungamento dell’adolescenza e del rifuggire dalle responsabilità – la cosiddetta era dei 'bamboccioni' o dei 'Neet' (not in education, employement or training, coloro che non studiano, non lavorano e non si preparano a farlo) – del passaggio di secolo e dell’epoca della crisi. In realtà anche all’interno di quelle fasi storiche sarebbe stato utile osservare le tante eccezioni al modello dominante, che pure esistevano, e la casistica non banale e non insignificante di comportamenti e di associazionismo costruttivo e valoriale in ambito giovanile. Oggi, poi, dovrebbe essere ormai chiaro che ci troviamo in una stagione diversa, nella quale la condizione giovanile è fatta di maggiore maturità, positività, cultura e resistenza, in Italia e non solo. Ce lo dimostrano i più di 2 milioni di giovani che svolgono attività di volontariato in Italia, anche in contesti interni ed esteri molto difficili, le decine di migliaia che si trasferiscono lontano da casa per studiare o lavorare, e coloro che anche in questi giorni scendono in piazza per reclamare la pace, la non violenza, il rispetto del prossimo e la giustizia. Sono giovani, a volte anche giovanissimi, che sono mediamente più consapevoli e informati dei loro predecessori, che si interessano con particolare attenzione ai fatti del mondo e agli avvenimenti della politica, anche internazionale e che cercano di non lasciarsi coinvolgere dalla omologazione opportunistica di tanta comunicazione mass-mediatica, e nemmeno dalla sfiducia cosmica che le tonalità comunicative prevalenti suggeriscono. Certo, non dobbiamo nasconderci che esiste una dualità nella condizione giovanile, e che sussistono fasce di emarginazione giovanile e di arretratezza culturale che si annidano in aree geografiche particolarmente degradate e tormentate dall’influsso della criminalità organizzata o all’interno delle quali allignano spesso il fondamentalismo e il terrorismo. Ma è sempre più chiara la necessità di mettere in campo strumenti e azioni consistenti di valorizzazione della spinta di rinnovamento che promana dalla parte di gran lunga più propositiva dei giovani: quella orientata alla definizione di nuovi valori e princìpi di convivenza collettiva e alla loro rivendicazione a voce alta.

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Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pagg II – III In 120 più forte degli anarchici di Giorgia Pradolin Varie squadre, armate di secchi e ramazze, hanno ripulito le scritte su muri e vetrine dopo il raid di sabato. Il sindaco: “Bella iniziativa ma ora voglio i nomi dei vandali di sabato”. Il questore: “Abbiamo evitato scontri più gravi”. Il parroco di San Cassiano: “Un disastro, non abbiamo soldi. Dovrebbe pagare chi ha fatto il danno. Ora ci doteremo di telecamere” Centoventi volontari contro la barbarie di centocinquanta anarchici. Il messaggio dell'evento era forte e chiaro: "Cleaning flash: Venezia reagisce!". Nata a tempo di record su Facebook, l'iniziativa ha subito riscosso centinaia di partecipazioni per rispondere all'orda di graffiti che hanno deturpato la città sabato scorso. Così, ieri mattina, in campo San Polo, i volontari dell'associazione "Masegni e nizioleti" si sono dati appuntamento alle 11 per dividersi in varie squadre e ripulire colonne, pareti, vetrine e serrande, corrimani dei ponti e capitelli imbrattati dallo scempio vandalico. Una festa dell'Immacolata che i veneziani hanno sentito di celebrare così, vestiti con tute bianche e con in mano spazzole, spazzolini e pennelli per aiutare la loro città. Una "festa" destinata a continuare, perché l'evento sarà ripetuto anche i prossimi due week-end con interventi di perfezionamento. Le sostanze utilizzate sono state tutte approvate dalla Soprintendenza, a cominciare da un gel speciale antigraffiti che coperto con il cellophane fa parzialmente evaporare la vernice spray. Un gruppetto si è dedicato a grattare i vecchi poster e le gomme da masticare ormai fossilizzate alle colonne del sotoportego in campo San Polo, dove sono state poi ripulite le scritte delle bombolette. Un altro gruppo si è invece dedicato alle lordure sul ponte del campo ed altri volontari si sono diretti in campiello dei Meloni cercando di rimuovere la colla a presa rapida dal bancomat dell'Antonveneta e ripulire tutte le scritte sulle vetrine della banca e della vicina Coop. Il gruppo più partecipato si è diretto in campo San Cassiano dove sono state tolte le scritte laterali alla chiesa e sotto il capitello, mentre altri hanno cercato di coprire le falci con il martello nel sotoportego de Siora Bettina. Per i muri meno pregiati è stata utilizzata la calce naturale, come in campiello de le Chiovere, mentre sulla facciata posteriore della chiesa dei Frari e nel campiello di San Rocco è stato utilizzato il gel speciale, acqua e sapone e tanto "olio di gomito". Un'ultima squadra, composta di 4 persone, si è infine dedicata a staccare i lucchetti dai ponti. «La nostra è una manifestazione dimostrativa e simbolica, non possiamo ripulire tutto ciò che gli anarchici hanno sporcato - spiega la fondatrice dell'associazione Cecilia Tonon - siamo in costante contatto con la Soprintendenza ed ogni gruppo è coordinato da persone esperte che hanno fatto il corso dell'associazione sugli interventi di pulizia. Era freddo e c'era la nebbia, c'erano mille altre cose da fare. Eppure ci siamo trovati, ci siamo divisi in squadre, abbiamo lavorato insieme, chi ci ha portato caffé e cioccolatini, i negozianti ci hanno offerto da bere, i passanti si complimentavano». A farle Eco Nicola Tognon e Alberto Alberti dell'associazione: «La pulitura va fatta con molta attenzione e con i prodotti e gli strumenti giusti, chiediamo lo stesso al Comune perché non vogliamo più vedere interventi come quello realizzati sulla facciata della scuola Giacinto Gallina». Domani le chiese di San Cassiano e Santa Maria Mater Domini saranno nuovamente ripulite, a integrare il lavoro iniziato ieri dai volontari. O almeno, è quello che si augura il parroco di San Silvestro e San Polo, Don Antonio Biancotto. Ad eseguire l'intervento sarà la stessa ditta che due anni fa aveva rimosso i vecchi graffiti sulle facciate dei due edifici per 14mila euro. «I volontari hanno fatto del loro meglio questa mattina (ieri per chi legge, ndr) per ripulire le scritte degli anarchici - spiega Don Biancotto - ma la vernice è stata assorbita ed è penetrata nella pietra d'Istria, non viene via, speriamo che il costo dell'intervento sia inferiore a 14mila euro perché rischiamo di non farcela, la parrocchia ha già molte spese e quei soldi non li ha». Il sacerdote è anche cappellano al carcere di Santa Maria Maggiore, quella "galera" contro cui protestavano i vandali che con le

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bombolette hanno deturpato la città. «Non è giusto - afferma Biancotto - ci sono tanti volontari che si danno da fare silenziosamente in quel carcere per i detenuti e le loro famiglie in difficoltà, brave persone che conosco. Ci sono altre forme per manifestare un dissenso, chi ha compiuto un atto vandalico simile non deve restare impunito». Il parroco ripensa al gesto dei vandali come ad una vera ingiustizia che ora ricade sulle spalle della comunità. «Chi ha sbagliato paghi - aggiunge Biancotto - non deve restare impunito. I colpevoli devono essere individuati e pagare di tasca propria i restauri per le sistemazioni. Io ad esempio - aggiunge - li metterei a pulire la città, per far loro capire la gravità del gesto. In qualche modo queste persone devono risarcire i cittadini di un simile danno che è pari ad un furto per la morale cattolica, un reato contro il patrimonio». «La nostra proposta all'amministrazione - conclude il parroco - è quella di dare incentivi ai veneziani per simili interventi di pulizia e decoro alla città, ora per tutelarci stiamo valutando di installare delle telecamere». «Voglio i nomi di queste persone così ignoranti e volgari che hanno imbrattato la città». Così dice il sindaco Luigi Brugnaro, visto che la Questura ha identificato almeno 50 partecipanti al raid anarchico di sabato. «Non voglio fare processi in piazza ma a nome della città pretendo i nomi, perché questi personaggi siano conosciuti ed evitati. Poi, una volta che la giustizia avrà fatto il suo corso, andremo a prenderceli a casa per fargli pagare i danni. Ovviamente il Comune se ci sarà un processo si costituirà parte civile». Il sindaco ha accolto con estremo favore l’iniziativa dei volontari che hanno lavorato fin quasi a sera. «Sicuramente va fatto un ringraziamento speciale a queste persone. L’amministrazione li ringrazia, anche se non dovrebbe toccare ai cittadini fare tutto questo. Penso che chi dovrebbe pulire è chi ha sporcato, ma poi le norme per farlo non ci sono. Con Veritas faremo presto il calcolo dei danni e, per gli edifici storici, anche con la Soprintendenza». Nonostante le critiche sulla gestione della manifestazione, Brugnaro prende le parti del questore. «Insisto nel dire che le forze dell’ordine hanno fatto un buon lavoro. Mi fido di chi è del mestiere e se la polizia ha ritenuto più prudente e meno pericoloso il non-ingaggio sono con lei. Anche perché sono stato informato minuto per minuto. Tuttavia, capisco la frustrazione di chi si chiede perché questi non vengono puniti. Un cittadino normale si pone queste domande. Purtroppo il Codice penale e di procedura penale non aiutano, così non si arriva mai a sentenza per i reati cosiddetti minori, ma ad alto impatto sociale. Venezia chiederà modifiche alla normativa. Faremo da capofila anche in questo». A salutare i volontari nel campo San Cassian anche il Questore Angelo Sanna che complimentandosi per il gesto dei cittadini si è raccomandato con i responsabili dell'associazione "Masegni e nizioleti" per la delicatezza degli interventi ai monumenti. Questore, come mai è venuto qui tra i volontari? «Sono solo venuto a trovarli, a salutarli, ad ognuno il suo. Questa è una bella dimostrazione simbolica dell'amore di queste persone per la loro città ed io sono qui per lo stesso motivo». Cosa pensa oggi, a freddo, di quello che è successo a Venezia quel sabato pomeriggio. «Sono rimasto turbato. Da quando sono questore a Venezia, un anno e mezzo, non avevo mai visto una simile brutalità e barbarie». Voi però eravate a conoscenza della manifestazione di protesta, era stata annunciata dagli anarchici. «C'era solo l'ipotesi di una manifestazione di protesta che non era stata autorizzata. Manifestare però non significa imbrattare i muri, vi è una bella differenza». Ma non c'era modo di fermare quei vandali? «Vi sono delle leggi d'altri tempi che non appartengono ad un Paese democratico per fermare chi vuole protestare, ma la nostra preoccupazione era evitare tutti i possibili danni a cose e persone e, ad eccezione di cinque bancomat, abbiamo avuto solo delle scritte e nemmeno una vetrina rotta». E non c'era proprio nessun modo di intervenire? «In che modo? Cosa potevamo fare?». Togliere ai vandali le bombolette spray, per esempio. «Secondo lei queste persone si sarebbero lasciate portar via le bombolette o ce le avrebbero consegnate? Si immagini uno scontro in callette di tre metri, con in mezzo

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cittadini e turisti che ne sarebbero andati di mezzo. Sono scenari che abbiamo già visto e per questo abbiamo voluto evitare uno scontro urbano. Li abbiamo fermati e contenuti a Rialto mentre il loro vero obiettivo era raggiungere San Marco e l'area marciana: quando hanno capito che non c'era più niente da fare e non sarebbero mai passati, li abbiamo costretti a tornare indietro, verso Piazzale Roma». A che punto siete con le identificazioni? «Procedono. Abbiamo inviato foto e filmati a tutte le Questure del Nord Italia ed ora aspettiamo risposte». Alcune scritte degli anarchici sui muri delle case e sulle vetrine dei negozi erano rivolte proprio a lei, contro di lei. Cosa ne pensa? «Sì, erano per i 15 fogli di via. Ora attendiamo i risultati che ci porteranno la Digos e la Scientifica e vedremo di aggravarli». Tra le vie maggiormente colpite dal passaggio degli anarchici che oggi riportano i graffiti vi è la Calle dei Saoneri a San Polo, dove ieri, assieme ai volontari, pulivano anche i titolari dei negozi lordati. «Sabato sono arrivato subito dopo che la commessa mi aveva chiamato urlando perché ci avevano imbrattato le vetrine - spiega Omar Pavanello del negozio di borse Declare - sono andato a San Polo per parlare con questi ragazzi e capire il motivo per cui stavano protestando. Mi sono trovato davanti persone normali, apparentemente per bene, non certo dei derelitti. Sembra quasi che tutto questo per loro fosse quasi un gioco». In piedi sopra ad una sedia c'era anche Gilberto Penzo, 62 anni, titolare di un negozio di barche veneziane ricostruite in miniatura. «La polizia ha salvato Piazza San Marco e gli anarchici si sono "sfogati" in questa zona - spiega Penso mentre gratta il muro insozzato - per loro è stato meglio così ma per noi è andata peggio. Ho sempre immaginato Venezia come una città da trattare con i guanti bianchi ed ora invece la vedo così sporca, lacera e trascurata». Tra i volontari che ieri insaponavano le scritte non c'erano però solo veneziani, anche qualche straniero. «Vengo da Chicago - spiega L. S., americana - e vivo a Venezia da quattro anni. Sono qui a pulire perché amo questa città e penso faccia davvero schifo quello che le hanno fatto sabato scorso. Ma com'è stato possibile un gesto simile, dov'era la polizia?». Pag XXVI Nei presepi di sabbia il messaggio del Papa di Giuseppe Babbo Jesolo, inaugurata in Piazza Marconi la “Sand Nativity” Jesolo - Anche Jesolo apre la sua Porta Santa: inaugurato ieri mattina "Sand Nativity", l'imponente presepe di sabbia dedicato al Giubileo indetto da Papa Francesco. L'opera - realizzata come sempre in piazza Marconi grazie al lavoro dei 12 migliori scultori di sabbia di tutto il mondo (coordinati dal direttore artistico Richard Varano) - celebra il messaggio di Misericordia con la rappresentazione di 9 sculture di sabbia delle scene corporali e spirituali della carità. Ovviamente abbinate ad una maestosa scena della Natività, mentre la statua riservata ai portatori di Pace è stata dedicata proprio a Papa Francesco, rappresentato in una maniera fortemente realistica. In questo modo la città ha voluto lanciare un messaggio chiaro di fronte alle controversie degli ultimi tempi e sull'opportunità di allestire o meno il presepe. «Quest'anno siamo ancora più orgogliosi di inaugurare questo presepe - ha sottolineato non a caso il sindaco Valerio Zoggia - perché noi, malgrado qualcuno pensi che si debba fare il contrario, continueremo a farlo, magari anche più grande e imponente». A sottolineare l'alto valore religioso è stato monsignor Gianni Fassina, parroco di San Giovanni Battista che ha benedetto la mostra. «Questo presepe permette di fare catechesi - ha detto - perché invita il pubblico a riflettere su un tema importante come quello della misericordia, rappresentata in vari modi e soprattutto assieme alla Natività». La manifestazione dal 2004 è associata anche a diversi progetti benefici, grazie alle donazioni dei visitatori. «Per questa edizione finanzieremo progetti in Guinea Bissau - ha spiegato l'assessore al Turismo, Daniela Donadello - in Nepal, nello Zimbabwe e una serie di progetti locali dedicati a Avo, Lilt di Jesolo, Telethon, Fondo per Sostegno e Azioni di Rilancio». A confermare l'attesa per l'opera è stato il pubblico che da subito si è messo in coda, tanto che nella prima ora erano già stati superati i mille visitatori. Il presepe resterà aperto tutti i giorni fino al 31 gennaio.

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LA NUOVA Pag 34 “Presepe come simbolo della nostra cultura” di Giovanni Cagnassi Jesolo: inaugurata ieri la tradizionale mostra delle sculture di sabbia. Il tema è quello del Giubileo e di Papa Francesco. Obiettivo centomila visitatori

Jesolo. Un presepe di sabbia assurto a simbolo delle radici cristiane e cattoliche. Al taglio del nastro in piazza Marconi, sotto il tendone che da 14 anni ospita le meravigliose sculture di sabbia dei più grandi artisti internazionali, diretti da Richard Varano, capostipite della scuola, il sindaco Valerio Zoggia e la giunta hanno festeggiato ieri mattina l’evento con un chiaro monito che risuona in tutta Italia: «Dobbiamo credere nel presepe come simbolo della nostra cultura». Un messaggio forte e ben recepito dal pubblico che si è radunato all’inaugurazione ieri mattina al lido. Da Jesolo l’invito a realizzare presepi non solo nelle case, ma nelle scuole, nei Comuni, negli uffici ed enti pubblici di riferimento per i cittadini. «Io penso questo», ha detto il sindaco Zoggia, «senza voler alimentare scontri o odi etnici e religiosi, ma con l’intento di valorizzare le nostre radici religiose e culturali, rispettando tutti, in un momento in cui purtroppo tanti hanno criticato questa usanza». E l’inaugurazione non poteva che essere nel segno di Papa Francesco. Il direttore artistico di San Nativity, Richard Varano, ha illustrato le novità di quest’anno, con il filo conduttore del Giubileo. Magnifica la scultura dedicata a Papa Francesco e al suo messaggio di misericordia. La mostra del presepe di sabbia sarà aperta fino al 31 gennaio. Quest’anno si spera di superare le centomila presenze dello scorso anno. Nove le opere che gli scultori hanno realizzato nella cornice di un’edizione straordinaria. Si parte dal messaggio del Papa a cui è dedicata la scultura e dal Giubileo, cui sono ispirate sette delle nove sculture proprio il tema della misericordia. “Uno Mattina” trasmetterà da Jesolo il giorno di Natale: due collegamenti per una panoramica sulla mostra e per vedere all’opera in piazza Drago alcuni degli scultori che scolpiranno un’opera in diretta. Lungo l’elenco dei progetti benefici a cui è dedicata la raccolta delle offerte del pubblico. Ci sono quelli internazionali con il progetto “Casa Verona” in Guinea Bissau per la costruzione di un centro polifunzionale curato dall’organizzazione Bedanda, Asia per costruire una scuola in Nepal martoriato dal terremoto, Children Playground per creare un’area giochi di un college nello Zimbabwe con un progetto seguito dal prete salesiano jesolano don Bruno Zamberlan, e i progetti locali dedicati a Avo (Associazione Volontari Ospedalieri, Lilt di Jesolo (Lega Italiana Lotta contro i Tumori), Telethon, Fondo per Sostegno e Azioni di Rilancio». CORRIERE DEL VENETO Pag 15 Dalle orazioni alle quattro stelle, gli hotel conquistano i conventi di Elisa Lorenzini L’addio delle suore di San Giuseppe. Pochi religiosi e l’età media supera i 70 anni Venezia. Si sono chiuse la porta del convento alle spalle, per sempre, l’ultimo sabato di novembre. Le figlie di San Giuseppe Rivalba di calle degli Ormesini a Cannaregio ormai da mesi attendevano solo di sapere quando avrebbero dovuto lasciare quel palazzo in cui stavano da 80 anni. La casa madre ha venduto l’edificio che diventerà una struttura ricettiva. È il terzo ordine religioso femminile che lascia la città dalla fine dell’estate dopo le Elisabettine al Lido e le Canossiane a Sant’Alvise. Quasi tutti i conventi sono destinati a diventare hotel. Così sta succedendo per gli Ormesini: il progetto c’è già e porta la firma dell’architetto Cesare Feiffer. «È un progetto conservativo di un edificio vincolato» dice solo l’architetto. Sono tre piani, 200 metri quadrati, 15 stanze. Fino a pochi giorni fa in quegli spazi vivevano la superiora Annarosa Alban, suor Marinella e suor Aldina. L’ordine era in città da 128 anni. La trasformazione dei conventi in strutture ricettive è un processo in corso da tempo. La maggior parte delle volte inarrestabile, anche se capita come nel caso dell’ex convento delle Canossiane a Sant’Alvise, «abbandonato» a settembre, che cittadini e Curia si oppongano. Per Sant’Alvise la Curia sta lavorando a uno studio di fattibilità guardando a usi educativi, residenziali, ricreativi e sportivi. La paura è che accada come a Sant’Elena dove il convento e la scuola delle Mantellate è diventato il Best Western 4 stelle «Hotel Sant’Elena» o all’ Accademia dove la dependance dell’hotel Belle Arti è stata costruita al posto delle aule dell’istituto Cavanis. A inizio estate anche le Elisabettine al Lido hanno detto addio agli spazi che possedevano

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a Sant’Antonio dove un tempo avevano un asilo. L’imprenditore Antonio De Martino starebbe studiando la costruzione di un centro medico. L’emorragia di religiosi in città è iniziata da decenni. Un anno fa se ne sono andati gli ultimi tre gesuiti e da tempo si parla di altri ordini maschili in difficoltà come i domenicani di Santi Giovanni e Paolo e i Servi di Maria a Sant’Elena. Le cause sono tante, per prima la mancanza di vocazioni. Nell’intero Triveneto i religiosi sono in totale 1700 e 8000 le religiose, ma sono diminuiti di un terzo solo nell’ultimo decennio, secondo i dati presentati a novembre nella Conferenza Episcopale Triveneto. L’età media è di oltre 70 anni. Spiega padre Franco Desideri, segretario della Conferenza Italiana Superiori Maggiori di Venezia: «Tra Venezia e Mestre siamo in 160, dieci anni fa eravamo 100 in più e quest’anno c’è stata una flessione ulteriore tra decessi e cambi di sede». Per i Domenicani di Santi Giovanni e Paolo il pericolo almeno per il momento è scampato con l’arrivo di due nuovi frati. A Sant’Elena a prendersi cura della chiesa sono in due (negli anni Cinquanta erano in 20 religiosi più una quarantina di studenti). A complicare le cose ci si è messa la tromba d’aria del 2012 che ha danneggiato la chiesa. «Il Comune ha quantificato i danni in 200 mila euro, ma finora ne ha spesi solo 150 sulla chiesa, ci servono gli altri 50 mila per sistemare gli impianti elettrici della cappella Sant’ Elena e della cappella Giustiniani», protesta fra Carlo Serpelloni. L’altro nodo è la progressiva chiusura delle scuole cattoliche, che ha ridotto drasticamente la presenza di religiose in città. «Siamo la metà di quante eravamo dieci anni fa – interviene suor Virginiana Dalla Palma, delegata Usmi diocesana – fino a non molti anni fa c’erano una decina di scuole elementari tenute da religiose in città, oggi sono solo due». L’asilo delle suore di Maria Bambina a Malamocco è diventato un albergo e lo stesso destino è toccato al complesso delle Canossiane in piazzale della Chiesa diventato hotel Ca’ Alberti. Di fronte alla chiesa degli Alberoni gli spazi delle Salesiane sono stati ceduti all’imprenditore Teodoro Russo che ne ha fatto appartamenti. Senza scordare l’ex asilo La Fontaine trasformato, dagli imprenditori Giovanni e Fabrizio De Col, appartamenti e foresteria. E piscina olimpica ancora non realizzata. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Catastrofi annunciate (e non vere) di Sabino Cassese Democrazia a rischio? Si moltiplicano le voci di allarme sullo stato della nostra democrazia. L’astensionismo rende debole la rappresentanza. I cittadini sono privati del potere di scegliere i loro rappresentanti. Il governo fagocita il Parlamento. La dirigenza politica è inadeguata sul piano istituzionale e nello spazio internazionale. Vi sono un uomo solo al comando, presidenzialismo strisciante, pericoli di autoritarismo. Le riforme avviate vanno nella direzione sbagliata e ci conducono fuori della democrazia parlamentare e del disegno costituzionale. I poteri si spostano dallo Stato alle oligarchie finanziarie e industriali internazionali. Sono corrette queste diagnosi catastrofiche? C’è qualcosa di vero in questi segnali di pericolo? Gli indicatori dello stato di salute della nostra democrazia non confermano queste interpretazioni allarmistiche. Se si sommano tutti i rappresentanti popolari periodicamente eletti in tutte le sedi di decisione (Comuni, Regioni, Stato, Unione Europea) si può dire che poche nazioni danno tanta voce alle scelte popolari quanto l’Italia. Se, poi, si calcolano regolamenti comunali, leggi regionali e nazionali, direttive e regolamenti europei, si nota che gli organi rappresentativi sono in buona salute, attivi, pronti a fare e disfare leggi e norme (qualche volta, anzi, troppo attivi). Se si considera il ruolo svolto dai contropoteri, si registra una loro complessiva crescente indipendenza, maggiore in alcuni casi, come quello delle corti, minore in altri, quale quello delle autorità amministrative di regolazione. Se si misurano i poteri esercitati dal capo del governo, si nota che essi sono di dimensioni paragonabili con quelli del cancelliere tedesco, o del primo ministro inglese, o di altri capi di esecutivo, e ciò per una ragione semplice: chiamati a collaborare quotidianamente nelle sedi più disparate, dall’Onu all’Unione Europea, dall’Organizzazione mondiale del commercio al G20, i capi

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del governo debbono necessariamente avere poteri comparabili. Se si considerano le riforme dei «rami alti», quella costituzionale e quella elettorale, si nota che andiamo in una direzione comune a tante altre democrazie, con due Camere a diversa investitura e una formula elettorale che premia la più forte minoranza. Questo non vuol dire che vada tutto bene. Ma lamentare catastrofi oscura alcuni mali del nostro sistema politico, dei quali dovremmo invece preoccuparci. Il primo riguarda la debolezza del capitale sociale. La società italiana non ha mai avuto un buon tessuto e, se ha dato prova di capacità di mobilitazione nelle emergenze, non ha mostrato buone capacità aggregative nella vita di ogni giorno. Ora i corpi intermedi languiscono. Le fondazioni, che si sperava dessero voce alla società civile, sono nelle mani di ristrette oligarchie che si autoperpetuano. I partiti, ridotti in organizzazioni di seguiti elettorali, si sfaldano in Parlamento. I sindacati sono chiusi nel loro particulare. Le elite - quelle poche che abbiamo - si comportano da caste. Il secondo riguarda le forme della dialettica politica. Qui le opposizioni non cercano una voce per sé, un riconoscimento formale, un proprio «statuto», in vista di diventare maggioranza, ma tentano solo di buttare sabbia nelle ruote di chi governa. La politica (alleanze, schermaglie, rinvii, tattiche di ogni tipo) oscura sempre le politiche, cioè gli indirizzi, di governo e di opposizione, rendendo incomprensibili all’elettorato le linee di azione delle varie forze. Infine, la macchina dello Stato da troppo tempo è senza una guida. Quindi, i migliori suoi servitori sono disorientati, mentre i peggiori traggono profitto dall’assenza di orientamenti per consolidare posizioni di potere, corporative, o semplicemente benefici e rendite di posizione. Gli utenti, i cittadini, subiscono e si lamentano, pagando la tassa occulta che deriva dalla cattiva gestione dei servizi. Sono questi i veri problemi, che gli annunciatori di catastrofi finiscono per oscurare. La loro soluzione non è facile, non dipende dal governo, è legata alla storia, al modo in cui si è formata la società italiana, al ruolo svolto dalla classe dirigente, al non sanato divario tra Nord e Sud, alla insufficiente cultura organizzativa diffusa, allo stile e ai costumi della politica. Questo non vuol dire che non possano essere affrontati e risolti. Vuol dire che richiedono un’opera di ingegneria sociale lunga e complessa, non pianti, sgomenti e allarmi. Pag 1 Diciamo sì a più sicurezza. Ma la privacy non è un lusso di Luigi Ferrarella Terrorismo e controlli È cinico dirlo, ma del resto è cinica pure la circostanza da constatare: per i fautori della sorveglianza di massa la strage di Parigi è proprio uno di quei «fatti di sangue» che l’estate scorsa un consulente legale dei servizi di sicurezza americani immaginava potesse, prima o poi, offrire alle autorità l’opportunità di «far venire meno l’ambiente legislativo ostile» a restrizioni della privacy utili a non ostacolare il lavoro delle polizie. Un’opportunità da tramutare in un nuovo imperativo: rinuncia a pezzi della tua libertà se vuoi avere più sicurezza. Ma un conto è prendere atto che il contrasto del terrorismo e le esigenze di sicurezza costringono a congedarsi definitivamente dall’età spensierata di quando si poteva andare all’aeroporto senza doversi rassegnare a controlli estenuanti, si conservavano i biglietti e i passaporti quasi più come souvenir di frontiere abolite che come attestazioni di identità, i metal detector erano una curiosità rara e non presenza fissa ormai persino in piazza San Pietro o alla «prima» della Scala, e le telecamere nei luoghi pubblici non erano (come oggi) arredo urbano più delle panchine e dei semafori. E tutt’altro conto sarebbe offrire i polsi alle «manette» invisibili di una raccolta massiccia e indiscriminata di comunicazioni e dati personali che, prima ancora di poter rappresentare un pericolo per la democrazia, nemmeno serve a raggiungere lo scopo - la sicurezza - per la quale viene propagandata: qualunque intelligence smette infatti di essere intelligente e diventa abbastanza cieca se si autosommerge di falsi positivi e, raccogliendo tutto di tutti, finisce per capire niente di nessuno. Il 13 novembre parigino non è stato scongiurato dalla pur intrusiva recente legge che in Francia consente ai servizi di sicurezza di installare, nelle aziende di telecomunicazioni e nei fornitori Internet, «scatole nere» di analisi del traffico di metadati quali l’indirizzo IP dei siti visitati, mittenti e destinatari dei messaggi, durata delle connessioni. E anche per i 130 morti di Parigi, al pari che per i 7 di Tolosa nel 2012, le indagini a ritroso stanno mostrando come a mancare non fossero tanto le informazioni sugli estremisti che stavano progettando gli attacchi, quanto una lettura capace di dare forma e senso alla

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grande quantità di informazioni raccolte. Intercettazioni telefoniche e telematiche, profilazioni, geolocalizzazioni, analisi dei metadati e intrusioni informatiche sono invece strumenti d’indagine utili se mirati non su una generalità di indefiniti «sospetti», ma su obiettivi già sgrezzati dalle complementari e insostituibili tecniche classiche di polizia (qualità della rete di «fonti», osservazione sul campo, conoscenza dei quartieri, infiltrati). Sempre che si stabiliscano regole certe e chiare su che cosa si vuole che ciascuna di queste tecnologie disponibili possa fare, per quanto tempo, a quali condizioni d’uso, in base a quali declinazioni dei principi di pertinenza e proporzionalità, e con quali controlli e contrappesi di garanzia. Se si prende ad esempio il caso dei virus «trojan», che vengono inoculati dagli inquirenti sui computer o sugli smartphone le cui comunicazioni non potrebbero altrimenti essere intercettate perché non viaggiano sui ponti radio ma rimbalzano sui server, questi «captatori informatici» sono diventati tecnologicamente adulti mentre rimaneva nana la legislazione che dovrebbe regolarli. Quando intercettano una telefonata, fanno il lavoro per cui vengono autorizzati dai giudici. Ma una volta che infettano l’apparecchio, in teoria possono da remoto anche fissare in uno screenshot lo schermo del telefonino o del computer, usarlo come telecamera, visionare l’elenco dei files dell’hard disk, attivare il microfono in microspia che dunque finisce col registrare ubiquamente anche i terzi vicini al dispositivo infettato, oppure trasmettere in diretta il testo che il proprietario sta digitando sulla tastiera ma non ha ancora spedito e magari nemmeno spedirà: che cosa diventano queste? Sono ancora operazioni disciplinabili dalla normativa standard sulle intercettazioni, oppure sono di fatto delle perquisizioni che per essere utilizzabili imporrebbero di avvisare la persona e far partecipare il suo avvocato? E chi controlla i controllori? Chi maneggia questi «captatori», soltanto le forze dell’ordine o anche il personale delle ditte private (talvolta opache negli assetti proprietari) che li progettano e vendono a caro prezzo? C’è un mondo giuridico da riadattare alle tecnologie della sicurezza. E chi ritiene che nell’era delle stragi per strada sia un lusso, forse trascura che questi strumenti di controllo delle comunicazioni, e quindi dell’identità profonda delle persone, sono un po’ come gli spiriti della lampada: una volta che (a motivo della sicurezza antiterrorismo) siano usciti dalla lampada per entrare da padroni nei telefoni e computer delle persone, non si sa più se e quando i loro Aladino securitari saranno disposti a farceli rientrare. Pag 32 Populista è ormai un insulto, non una categoria politica di Pierluigi Battista Nel secolo che si è da poco inaugurato, «populista» è il nuovo «fascista», in auge nel ventesimo secolo. È un insulto, non una categoria politica. Un anatema, non una descrizione passabilmente precisa. È l’indicazione di un mostro, o di una strega da bruciare, se si tratta di una donna come Marine Le Pen. Esprime uno stato d’animo di frustrazione. La frastornata incapacità delle classi dirigenti europee di decifrare quel che sta accadendo nel profondo del «popolo» che la retorica democratica continua a definire, sempre più di malavoglia, «sovrano». E allora meglio una moratoria, almeno provvisoria. La messa al bando di un termine che non significa niente ma che funziona come segno di appartenenza a quell’establishment che è la bestia nera dei partiti e dei movimenti sbrigativamente e superficialmente scomunicati come populisti. Sembra un gioco degli specchi, e purtroppo ad andarci di mezzo è l’Europa, o l’illusione che l’Europa potesse essere qualcosa di diverso, di attraente, capace di suscitare, nientemeno, un sentimento di appartenenza. «Populismo» è l’arma contundente che si usa come fallo di reazione. I cosiddetti «populisti» amplificano l’ostilità per l’establishment, l’élite, la finanza, il «grande», l’«alto», i ricchi, i padroni della cultura, i grandi media («i giornaloni» è diventato il loro mantra, a destra e a sinistra), i partiti tradizionali, il potere della burocrazia, i mandarini di un regolismo ossessivo e asfissiante. Dicono di voler dare voce ai «senza voce», rappresentanza ai «piccoli», esprimere ciò che ribolle nel «popolo»: ma come in un massacrante gioco degli specchi, le élite, l’establishment, la burocrazia del potere rispondono con il disprezzo, la supponenza, l’alterigia. Non con la severità, che pure ha una sua autorevolezza se esercitata con schiettezza ed equanimità, ma con la boria di chi pretende di vantare una superiorità antropologica sul «popolo» grossolano e ignorante. Attenzione al lessico di chi abusa del termine «populismo», basta scorrere anni di rassegna stampa. Quando il popolo dà retta ai «populisti», scatta l’automatismo dei presuntuosi per dire che il popolo vota con la «pancia». Che è preda di un «umore»

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(mentre gli ottimati usano solo la fredda ragione). Che è «irrazionale», infantile, vulnerabile a ogni «sirena». «Rozzo» (anche questo è stato scritto). «Plebe» (anche questo è stato scritto). E, soprattutto, dominato dalla «paura». Dicono che il trionfo del partito della Le Pen sia il frutto dell’angoscia del Bataclan, ma tutti i sondaggi davano vincente il Front National anche prima del 13 novembre. Quanto avrà portato la paura del Bataclan alla Le Pen: l’1, il 2 per cento? E l’altro 28, come mai nessuno era riuscito a parlarci prima? Perché veniva disprezzato, confinato in un recinto infetto. Una reazione «di pancia» e irrazionale dell’élite: insultare chi ti volta le spalle, non cercare di capire cosa sta accadendo. Chi ha creduto nell’Europa, nella possibilità che un continente intero vivesse la sua unificazione come un incremento della libertà, libertà di circolazione delle idee, delle persone e delle merci, una casa comune fondata sulla pace e sul benessere che ti faceva sentire cittadino di una stessa patria morale europea, con una moneta unica e istituzioni democratiche aperte ed inclusive, con un solidale sistema di difesa anche militare, oggi non solo deve constatare che almeno un terzo dell’elettorato nei vari Paesi europei dà stabilmente il suo consenso a movimenti e partiti (di destra o si sinistra importa poco) che fanno dell’Europa il loro bersaglio, ma deve anche assistere a una classe dirigente arroccata e senza idee, che insulta ed esorcizza chi si sente ai margini, minacciato nella propria identità e nel proprio benessere. E ora anche con l’Isis. Colpiscono la Francia? Se la veda Parigi, noi al massimo esprimiamo solidarietà. Il centro di Bruxelles a pochi passi dalle maggiori istituzioni europee viene messo sotto attacco? Ci pensi la polizia belga. Non l’Europa, ma il Belgio. L’Europa pensa ad affibbiare l’etichetta «populista». Una moratoria urgente che metta da parte il «populismo»: giusto il tempo di cominciare a pensare. AVVENIRE Pag 3 La “guerra” ai simboli religiosi mira a spegnere la speranza di Carlo Cardia Presepi negati e segni proibiti: ostilità che sa di paura Le polemiche che puntualmente esplodono, in prossimità delle feste natalizie, per la faziosità che si manifesta verso i simboli religiosi, specie cristiani, riflettono i sintomi d’una malattia che colpisce l’Europa e la sua cultura, non solo religiosa. Gli episodi più recenti, non tutti conosciuti dal grande pubblico, aggiungono ciascuno una goccia di ostilità, sempre più fredda e irrazionale. Non torno su quelli accaduti, in sconcertate sequenza, in Italia all’insegna di intenti censori sul piano dell’arte e di remissive elucubrazioni sulla «provocazione» che i canti natalizi cristiani potrebbero rappresentare dopo l’eccidio jihadista di Parigi. Segnalo, però, che a Madrid la nuova giunta municipale ha deciso di non allestire nei locali del Comune il tradizionale presepio, provocando reazioni popolari e politiche. Mentre, nel mondo del commercio, la multinazionale di caffetteria Starbucks ha stilizzato il consueto prodotto natalizio, tingendolo in rosso per evocare «tutte le storie». I lettori di 'Avvenire' sanno che la guerra ai simboli religiosi non è di oggi, se ne trovano tracce in più Paesi, alcune serie, altre ridicole. Una recente proposta di legge in una grande regione della Cina Popolare prevede che gli edifici di culto siano costruiti in modo tale che non risaltino, dal punto di vista architettonico e cromatico, rispetto all’edilizia circostante. Devono essere non troppo alti, con colori neutri che non li distinguano dai Palazzi vicini, e con simboli religiosi (Croci, stelle di Davide, statue di Buddha) che non si facciano notare. La squadra del Real Madrid, forse in ossequio allo sponsor arabo, toglie la croce dallo stemma, si vuole vietare ai giocatori di calcio di fare il segno della croce quando entrano in campo, si stampano biglietti augurali astratti, e si chiama il Natale 'festa d’inverno'. Non manca nemmeno il caso dello Stato di Okhlaoma, dove i seguaci di un culto satanista hanno eretto una grande scultura di Satana-Bafomet (strana figura che origina dal processo ai Templari di Filippo il Bello), per situarla in una piazza della capitale. Singolarmente, questa volontà maniacale di far guerra ai simboli s’è incrinata, e attenuata, proprio in Francia, che per prima ha modellato la laicità ostile alla religione. È del 2004 la legge che proibisce a chi frequenta la scuola di indossare segni religiosi che non siano molto piccoli, e a essa ha fatto seguito uno stillicidio di misure regressive: l’assunzione di professori che divulghino i principi della laicité repubblicana; il dovere d’astensione dei funzionari da atti che implichino adesione a una religione, perfino il divieto dei simboli ai familiari che partecipino a gite scolastiche. Questi eccessi provocano ormai reazioni e contestazioni.

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Più volte i cittadini si oppongono, con ricorsi e appelli, a decisioni negative, non di rado ottengono pronunce favorevoli all’esposizione di presepi e raffigurazioni religiose. Rapporti ufficiali e testimonianze dirette denunciano i rischi della separazione tra cultura e religione: alcuni ragazzi non riconoscono più, nei musei di Francia, la figura della Madonna nell’arte classica, la confondono con una «baby-sitter che accudisce un bambino», non comprendono i principali eventi, le personalità più eminenti, della storia cristiana. Nei giorni scorsi una «guida della laicità» pubblicata sul sito del Governo ha voluto smussare la tradizionale ostilità ricordando che il presepio (crèche de Noël) in uno spazio pubblico può consentirsi come espressione della cultura o della tradizione. Alcuni tribunali hanno permesso l’esposizione di opere religiose, perché legate a tradizioni locali, o fonti di attrazione turistica. Un modo tortuoso di ragionare che salva i simboli, e tradisce l’imbarazzo di un potere pubblico che non vuole contraddire il buon senso, e la realtà culturale che ha animato la Francia nella sua storia secolare. Siamo di fronte ad una sorta di iconoclastia laicista, che induce a riflettere sulla nostra crisi. I simboli religiosi trasmettono spesso un messaggio universale che si deposita nella memoria collettiva di un popolo e del suo cammino storico. La figurazione ideata da San Francesco nel Natale del 1223 in una stalla di Greccio riassume il senso della svolta che porta nella storia l’annuncio dell’amore di Dio per l’umanità, avvia una crescita d’interiorità giunta sino a noi. Nel presepio tutto è gioia, dal bambino appena nato ai genitori che l’amano, dai pastori che lo riconoscono agli angeli che cantano, ai Magi che viaggiano per partecipare all’evento. Ogni cosa riflette una bellezza che esprime solidarietà, attesa per una storia migliore, fede in una redenzione che non esclude nessuno, e come tale è interpretata anche nella cultura moderna. Laurence Housman vede nel Natale l’evento con il quale l’amore va verso l’odio per vincerlo, la luce allontana il buio, la pace sostituisce la guerra, mentre per Georges Bernanos il Natale è il giorno «di tutte le speranze umane», che parlano a donne e uomini d’ogni colore e latitudine, a chi cade e vuole sollevarsi. L’ostilità che si manifesta contro il presepio, s’oppone a un simbolo che da sempre è oggetto di culto e memoria per i cristiani, ha ispirato artisti d’ogni tipo, pittori, scultori, musicisti, è divenuto punto di congiunzione tra fede, cultura, tradizioni popolari. Quest’anno, poi, il presepio risponde a una speranza aggiuntiva, porta un messaggio di pace in un mondo che vive una drammatica regressione dai livelli di umanità e civiltà sinora conseguiti, soffre guerre, persecuzioni, violenze. Il messaggio cristiano è più di ieri un messaggio di pace, perché tante promesse sono state tradite, molte attese sono andate deluse, troppi diritti della persona sono negati. Questa è la riflessione che potrebbe essere promossa e sviluppata nelle nostre scuole, tra i ragazzi: il presepio è simbolo di amicizia, intimità, solidarietà, mentre l’ideologia che vuole spegnere la voce della speranza, non sa parlare agli altri, riflette paura, ignora le luci, i suoni, l’interiorità, che provengono dalla raffigurazione di un evento che ha cambiato la storia umana, e la alimenta di continuo. Torna al sommario