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RASSEGNA STAMPA di martedì 8 settembre 2015 SOMMARIO “Gridano «Freedom», i rifugiati che premono sui confini dell’Ovest – scrive Pierluigi Battista sul Corriere di oggi -. Ce lo eravamo dimenticati. Avevamo smarrito il senso di una differenza, di una linea di confine che divide nel mondo le terre della libertà, della democrazia, del benessere, dei diritti dal mondo buio dell’oppressione, dell’intolleranza, del terrore, della riduzione in schiavitù delle donne, della tortura, della miseria, delle carceri imbottite di dissidenti, di chi insiste a onorare un’altra religione, a credere in un’idea diversa, a essere semplicemente diverso. «Freedom», «Freedom». E stavolta l’Occidente ha saputo essere coerente con se stesso. Ha saputo, almeno per una volta, e si spera per molto tempo, far suoi i versi che campeggiano ai piedi della Statua della Libertà, quel «datemi le vostre masse stanche, povere, oppresse, desiderose di respirare libere. Mandateli a me i diseredati, gli infelici, i disperati». Non la generica disponibilità, l’effimera solidarietà, ma la coscienza di essere la meta di chi è desideroso di «respirare libero». È l’orgoglio della libertà. L’orgoglio della democrazia. Ecco qual è il messaggio di questi giorni: «Freedom», e ancora «Freedom». La democrazia sembra un ideale stanco, estenuato. Ma per noi che ci siamo nati e che ne abbiamo smarrito il valore, la specificità, il privilegio. Per chi vive e muore nelle tirannie la democrazia è un traguardo da raggiungere a tutti i costi, con sacrifici immani, marce disumane, popolazioni in fuga da despoti e fanatici. Dovremmo riscoprire quella che adesso si definisce la «narrazione»: la narrazione della democrazia e della libertà. La narrazione di un sistema in cui le persone sono tutelate nei loro diritti, possono parlare senza il timore dell’oppressione e della morte. Dove le donne non sono bestie da malmenare e coprire fino agli occhi. Dove si può scegliere, vivere, consumare, svolgere un’attività economica, mettere a frutto il proprio talento senza che il potere confischi arbitrariamente i tuoi beni. Dove la tortura è bandita e, se scoperta, punita e, se non punita, bollata dalla riprovazione pubblica insieme all’impunità di chi se n’è reso responsabile. Non una società perfetta. La democrazia, come sosteneva Churchill, «è la peggior forma di governo fatta eccezione per tutte quelle sperimentate finora». La libertà è sempre troppo poca. Nuovi diritti fanno fatica ad affermarsi. Vecchie discriminazioni sopravvivono, sia pur in forme sempre più blande. L’economia è troppo spesso soffocata da uno statalismo dispotico, illiberale, vessatorio. Ma la sensibilità pubblica nelle democrazie è sempre più esigente. Non ci si accontenta mai. I limiti vengono di continuo oltrepassati. È la «società aperta» di cui parlava Karl Raimund Popper, quella che spezza di continuo le proprie catene. Ce lo siamo dimenticati. E la provvidenziale resipiscenza delle democrazie europee in questi giorni ce lo ha ricordato, insieme alla caparbietà delle «masse stanche, povere e oppresse» che premono ai nostri confini e distruggono reticolati, divieti, manganelli. E che vogliono «respirare libere». Dovremmo ricordarcelo ancora, chiedendoci anche se siamo disposti a pagare qualche prezzo perché la libertà e la democrazia possano sopravvivere all’assalto dei suoi nemici fanatici e portatori di un’ideologia di morte. Dovremmo chiederci se ci crediamo ancora, o se siamo troppo stanchi per crederci, e se quello che vagheggiano i rifugiati non sia altro che un’illusione. Dovremmo capire da cosa scappano, questi nostri fratelli che gridano «Freedom». E se il nostro cinismo non ci abbia portato a rinunciare all’«universalità» di valori in cui non crediamo più. A non considerare più uno scandalo l’esistenza di regimi che magari sanno tenere l’ordine, ma schiacciando ogni traccia di libertà, ogni parvenza di democrazia, senza rispetto per alcun diritto, senza dare alcun valore alle persone. Che oggi scappano. Gridano «Freedom». E ci stanno dando una lezione salutare” (a.p.) 1 – IL PATRIARCA LA REPUBBLICA

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RASSEGNA STAMPA di martedì 8 settembre 2015

SOMMARIO

“Gridano «Freedom», i rifugiati che premono sui confini dell’Ovest – scrive Pierluigi Battista sul Corriere di oggi -. Ce lo eravamo dimenticati. Avevamo smarrito il senso di

una differenza, di una linea di confine che divide nel mondo le terre della libertà, della democrazia, del benessere, dei diritti dal mondo buio dell’oppressione,

dell’intolleranza, del terrore, della riduzione in schiavitù delle donne, della tortura, della miseria, delle carceri imbottite di dissidenti, di chi insiste a onorare un’altra

religione, a credere in un’idea diversa, a essere semplicemente diverso. «Freedom», «Freedom». E stavolta l’Occidente ha saputo essere coerente con se stesso. Ha saputo, almeno per una volta, e si spera per molto tempo, far suoi i versi che

campeggiano ai piedi della Statua della Libertà, quel «datemi le vostre masse stanche, povere, oppresse, desiderose di respirare libere. Mandateli a me i diseredati, gli infelici, i disperati». Non la generica disponibilità, l’effimera solidarietà, ma la

coscienza di essere la meta di chi è desideroso di «respirare libero». È l’orgoglio della libertà. L’orgoglio della democrazia. Ecco qual è il messaggio di questi giorni:

«Freedom», e ancora «Freedom». La democrazia sembra un ideale stanco, estenuato. Ma per noi che ci siamo nati e che ne abbiamo smarrito il valore, la specificità, il privilegio. Per chi vive e muore nelle tirannie la democrazia è un traguardo da

raggiungere a tutti i costi, con sacrifici immani, marce disumane, popolazioni in fuga da despoti e fanatici. Dovremmo riscoprire quella che adesso si definisce la

«narrazione»: la narrazione della democrazia e della libertà. La narrazione di un sistema in cui le persone sono tutelate nei loro diritti, possono parlare senza il timore

dell’oppressione e della morte. Dove le donne non sono bestie da malmenare e coprire fino agli occhi. Dove si può scegliere, vivere, consumare, svolgere un’attività

economica, mettere a frutto il proprio talento senza che il potere confischi arbitrariamente i tuoi beni. Dove la tortura è bandita e, se scoperta, punita e, se non

punita, bollata dalla riprovazione pubblica insieme all’impunità di chi se n’è reso responsabile. Non una società perfetta. La democrazia, come sosteneva Churchill, «è la peggior forma di governo fatta eccezione per tutte quelle sperimentate finora». La

libertà è sempre troppo poca. Nuovi diritti fanno fatica ad affermarsi. Vecchie discriminazioni sopravvivono, sia pur in forme sempre più blande. L’economia è troppo spesso soffocata da uno statalismo dispotico, illiberale, vessatorio. Ma la

sensibilità pubblica nelle democrazie è sempre più esigente. Non ci si accontenta mai. I limiti vengono di continuo oltrepassati. È la «società aperta» di cui parlava Karl Raimund Popper, quella che spezza di continuo le proprie catene. Ce lo siamo

dimenticati. E la provvidenziale resipiscenza delle democrazie europee in questi giorni ce lo ha ricordato, insieme alla caparbietà delle «masse stanche, povere e

oppresse» che premono ai nostri confini e distruggono reticolati, divieti, manganelli. E che vogliono «respirare libere». Dovremmo ricordarcelo ancora, chiedendoci anche se

siamo disposti a pagare qualche prezzo perché la libertà e la democrazia possano sopravvivere all’assalto dei suoi nemici fanatici e portatori di un’ideologia di morte. Dovremmo chiederci se ci crediamo ancora, o se siamo troppo stanchi per crederci, e se quello che vagheggiano i rifugiati non sia altro che un’illusione. Dovremmo capire da cosa scappano, questi nostri fratelli che gridano «Freedom». E se il nostro cinismo non ci abbia portato a rinunciare all’«universalità» di valori in cui non crediamo più. A

non considerare più uno scandalo l’esistenza di regimi che magari sanno tenere l’ordine, ma schiacciando ogni traccia di libertà, ogni parvenza di democrazia, senza rispetto per alcun diritto, senza dare alcun valore alle persone. Che oggi scappano.

Gridano «Freedom». E ci stanno dando una lezione salutare” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA LA REPUBBLICA

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Pag 4 Il patriarca ai veneti: “Chi non accoglie non può dirsi cristiano” di Francesco Furlan Moraglia: “I timori sono comprensibili se derivano da scarsa informazione, non lo sono se frutto di chiusure pregiudiziali” 2 – DIOCESI / PARROCCHIE LA NUOVA Pagg 2 – 3 “Negare l’accoglienza non è da cristiani” di Francesco Furlan, Nadia De Lazzari e Marta Artico Immigrazioni, la Chiesa veneziana. Moraglia: serve un progetto comune con ebraici e musulmani. Le parrocchie si preparano a ospitare i profughi in arrivo IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Ecco i primi alloggi delle parrocchie di Roberta Brunetti Dopo gli appelli di papa e patriarca, le comunità si stanno mobilitando. Due appartamenti individuati in centro storico. Ma per il Comune le quote non vanno superate 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Profughi nelle chiese europee. I vescovi d’Oriente non applaudono di Gianni Valente Il Patriarca caldeo e due vescovi siriani: l'iniziativa rischia di incentivare la fuga dei cristiani. E l'esodo con le sue tragedie è alimentato anche dalle strategie di potere dei Paesi occidentali L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Si può fare di Giovanni Zavatta In Europa le diocesi si mobilitano per rispondere all’appello del Papa sui profughi Pag 7 Una veste tessuta di gloria La Natività della Madre di Dio nell’iconografia siriaca Pag 8 Perseguitati perché cristiani Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 1 La Cei: “Con Francesco per un Vangelo vissuto” Pag 10 Aborto, il perdono e l’impegno per la vita di Carlo Casini Pag 17 Nullità matrimoniale, riformato il processo di Luciano Moia Oggi resa nota la decisione del Papa. I contenuti in due “motu proprio” CORRIERE DELLA SERA Pag 8 Parrocchie aperte di Paolo Conti Da Treviso a Siracusa: le chiese si mobilitano dopo l’appello del Papa. Divisioni tra i fedeli LA REPUBBLICA Pag 17 “Processi più veloci per le nozze nulle”, Francesco cambia anche la Sacra Rota di Paolo Rodari Oggi la riforma: mano tesa a chi vuole risposarsi. Verso il superamento dei due gradi di giudizio IL FOGLIO Pag 1 Più soldi che famiglia. La chiesa tedesca si prepara a rompere con Roma

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Matrimoni nulli, c’è la svolta IL MANIFESTO Parrocchie aperte, ancora poche risposte di Luca Kocci LA NUOVA Pag 9 Bergoglio cambia le regole sulla nullità dei matrimoni di Paolo Sacredo Mossa a sorpresa del Papa: processi più rapidi, meno costosi e senza la Sacra Rota. Novità attese sui divorziati risposati 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 25 La libertà di essere madri di Cristina Comencini CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Università, scontro sul numero chiuso di Renato Piva Migliaia di veneti respinti ai test, Zaia e gli studenti vogliono abolirlo. I rettori dicono no 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 9 Mose, cura dimagrante. Via in 30 dal Consorzio di Paolo Navarro Dina Il “triumvirato” al vertice ha deciso di ridurre di un quarto i dipendenti. I dirigenti passeranno da 7 a 2. Cauti i sindacati 8 – VENETO / NORDEST LA REPUBBLICA Pag 4 “Sono islamici, via dalla canonica”, i fedeli fermano il prete pro-rifugiati di Jenner Meletti Nel Vicentino l’assemblea dei parrocchiani boccia l’ospitalità IL GAZZETTINO Pagg 6 – 7 Profughi, a Nordest 1 su 3 vorrebbe le frontiere chiuse di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Ma secondo sei persone su dieci la scelta è sbagliata: tutti i Paesi devono accogliere Pag 17 Il Nordest accogliente e solidale manifesta più disagi del resto d’Italia di Adriano Favaro CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Profughi in canoniche, conventi e vicariati. I parroci rispondono all’appello del Papa di Michela Nicolussi Moro Il vescovo Pizziol: “Vanno accolti, ma rispettino le nostre regole”. Il “no” di 200 fedeli … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Se 36 anni non bastano ancora di Paolo Mieli Bicameralismo Pag 1 Quella lezione tedesca per la destra di casa nostra di Aldo Cazzullo Legalità e responsabilità Pag 5 Dove vanno gli stranieri più colti di Federico Fubini La tendenza demografica Pag 6 Ma l’azione di forza dovrà tener conto di scenari complessi di Massimo

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Nava Pag 18 Quei giovani feroci in lotta senza nessuna strategia di Giovanni Bianconi Pag 27 Profughi in cerca di libertà. Ci ricordano i nostri valori di Pierluigi Battista LA REPUBBLICA Pag 1 La mediazione scritta sulla sabbia di Stefano Folli LA STAMPA Le ragioni della forza e della politica di Marta Dassù AVVENIRE Pag 1 Un respiro antico e nuovo di Marina Corradi Il risveglio civile e cristiano d’Europa Pag 2 Compassione e dovere, un esame di coscienza di Carlo Cardia La politica e la questione migranti Pag 3 Accoglienza, tutto quello che l’Italia può già fare di Luigi Manconi Rapidità nell’asilo, re insediamenti e visti a distanza… Pag 13 I “figli dei figli” che fanno più paura di Maurizio Patriciello Una lotta tra giovanissimi IL GAZZETTINO Pag 1 Il “capitale umano”, la scelta di Berlino e i rischi per l’Italia di Oscar Giannino LA NUOVA Pag 1 Fermare l’Is per fermare le migrazioni di Ferdinando Camon Pag 1 I siriani e la svolta tedesca di Gianfranco Pasquino

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA REPUBBLICA Pag 4 Il patriarca ai veneti: “Chi non accoglie non può dirsi cristiano” di Francesco Furlan Moraglia: “I timori sono comprensibili se derivano da scarsa informazione, non lo sono se frutto di chiusure pregiudiziali” Venezia. «Non può dirsi cristiano chi è contrario all'accoglienza», dice Francesco Moraglia, patriarca di Venezia e capo della Conferenza episcopale che riunisce quindici diocesi del Triveneto. Lei venerdì ha inviato una lettera ai parroci invitandoli all'accoglienza. Ha parlato di un imperativo di fronte alla disperazione di tanti popoli. «Conosco gli sforzi che molte parrocchie stanno facendo e la mia lettera è stata un modo per incoraggiarle a crescere nella linea dell' accoglienza. Tutti siamo chiamati in causa, personalmente e con le nostre comunità, a fare la nostra parte. L'accoglienza diffusa è un modo per stemperare le difficoltà di ospitare chi scappa da Paesi che non solo impediscono condizioni di benessere, ma impediscono loro di poter vivere». La chiesa veneta ha la forza per rispondere a questo appello?

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«Ci sono parrocchie più esposte e in prima linea e altre più fragili che faticano a trovare risorse. Per questo ho invitato i parroci a costituire reti di parrocchie, interloquendo con le comunità, perché tutti possano fare la loro parte, offrendo servizi secondo la propria generosità e disponibilità». Ma in Veneto ci sono stati anche molti atteggiamenti di chiusura e manifestazioni contro i profughi. «Le paure appartengono alle persone che le manifestano e alla loro storia. In questi giorni si è parlato molto del caso del duplice omicidio di Palagonia, di cui è accusato il giovane ivoriano Mamadou Kamara, che ha generato ripercussioni negative. Ma non è giusto, per una colpa individuale, stigmatizzare un intero popolo. Anche perché negli stessi giorni un giovane ucraino Anatolij Korol è morto a Napoli nel tentativo di sventare un rapina. Bisogna evitare di indurre paure in modo forzoso. I timori sono comprensibili quando sono frutto della scarsa informazione, non lo sono se frutto di chiusure pregiudiziali». Si può dire cristiano chi è contrario all'accoglienza? «No, perché il messaggio di Gesù è un messaggio di accoglienza. Per i cristiani l'altro rappresenta Cristo, e il nostro impegno è anche quello di accompagnare i fedeli a comprendere questa verità. L'apertura a Dio si esprime anche con l'accoglienza. Chi non crede ha lo stesso dilemma perché non può non riconoscere in queste persone un altro se stesso». Le foto del piccolo Alan sembrano aver smosso la coscienza dell'Europa. È stato giusto pubblicarle? «Non ho visto speculazione, ma piuttosto un richiamo a riflettere, non fermandosi solo alla stretta emotività. È una foto che vale più di mille ragionamenti». Che ruolo gioca la politica nella percezione dei migranti? «La politica serve perché permette di risolvere i problemi della collettività. Ma ogni frase, ogni gesto, ha ricadute importanti. La polemica non aiuta e non si può chiudere gli occhi di fronte a questi problemi, serve pacatezza e lungimiranza». In Veneto, soprattutto gli amministratori della Lega Nord, continuano a opporsi ai principi dell'accoglienza. «La Lega Nord si è caratterizzata per espressioni molto forti, ma mi auguro che con il passare del tempo, nel rispetto dei cittadini e della legalità, vi sia disponibilità ad aprirsi all'accoglienza: è un problema reale che non può essere risolto solo con affermazioni drastiche». Torna al sommario 2 – DIOCESI / PARROCCHIE LA NUOVA Pagg 2 – 3 “Negare l’accoglienza non è da cristiani” di Francesco Furlan, Nadia De Lazzari e Marta Artico Immigrazioni, la Chiesa veneziana. Moraglia: serve un progetto comune con ebraici e musulmani. Le parrocchie si preparano a ospitare i profughi in arrivo Venezia. «Chi è contro l’accoglienza non può dirsi cristiano perché il messaggio di Cristo è di accoglienza. Per i cristiani l'altro rappresenta Cristo». Sono chiare e non corrono rischio di essere fraintese le parole del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, all’indomani dell’appello lanciato dal Papa affinché le parrocchie si impegnino nell’accoglienza. Già venerdì Moraglia aveva inviato una lettera ai parroci della diocesi invitandoli a costruire reti di solidarietà per dare risposta a un problema che, dice il patriarca, in questi ultimi mesi sta crescendo in modo esponenziale. Nella lettera inviata ai parroci il patriarca Moraglia ricordava che «non possiamo davvero chiudere il cuore», di fronte a persone che scappano da Paesi in cui non hanno una possibilità di vita. Anche perché favorire l’accoglienza diffusa, nelle parrocchie e nelle comunità - ne è convinto il patriarca Moraglia - è l’unico modo per scacciare le paure, comprensibili quando sono causate da poca informazione, inaccettabili quando rappresentano una chiusura pregiudiziale all’altro. Un progetto di accoglienza per il quale, crede il patriarca, è giusto coinvolgere tutte le comunità religiose. «Sia con i fratelli cristiani sia anche con chi ha

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un’altra fede religiosa ma che condivide con noi la passione dell’uomo potrebbe essere un messaggio importante da dare alla nostra società», spiega Moraglia, che aggiunge: «Forse il Papa ci ha detto: è il momento di andare avanti, è il momento di coordinarvi meglio, è il momento, se fosse il caso, di aprirvi se in alcune vostre realtà non l'avete ancora fatto». In queste ore il passaparola è il trinomio: impegno pieno, accoglienza tempestiva, solidarietà concreta. Lo hanno chiesto il Papa e il Patriarca, lo vogliono il clero e i fedeli. L’accorato appello del Santo Padre pronunciato all’Angelus e la recente lettera del Patriarca Moraglia letta la scorsa domenica durante le messe sono incalzanti, hanno smosso coscienze, sfidato paure. Il Patriarca ha esortato i parroci e i rettori delle chiese «a percorrere questa strada di concretezza e di ecclesialità collaborando con tutti coloro che vivono sul territorio». La Curia si sta organizzando: «È un grande progetto, è probabile un coordinamento. L’ospitalità è già in atto. Stiamo cercando buone e possibili soluzioni e apposite e accoglienti strutture diocesane. Metteremo a disposizione appartamenti». Numerosi parroci stanno attendendo indicazioni precise dalla Curia. Don Massimiliano D’Antiga, parroco del Santissimo Salvatore, segnala: «Non ho ricevuto la lettera del Patriarca. Ho appreso la notizia dai quotidiani ponendo subito il problema ai parrocchiani. Per la soluzione è prematuro, devo prima incontrare il Patriarca. La mia zona è circondata di alberghi e ho già contattato alcuni albergatori. Non c’è un rifiuto a priori di mettersi a disposizione. Le persone sono generose. Qualcuno vorrebbe ospitare, li frena la paura non di accogliere ma di essere abbandonati e non avere appoggi. Vogliono capire e conoscere le modalità. È necessario incoraggiarle a superare le paure». Altri si stanno muovendo autonomamente. Don Antonio Biancotto, parroco di San Silvestro e San Cassiano, dice: «Abbiamo sempre accolto carcerati e vagabondi. Come parrocchia ne abbiamo parlato. Siamo pronti ad ospitare una famiglia di profughi. L’appello umanitario del Papa e la lettera del Patriarca, che è stata letta durante le messe sabato e domenica scorsi, non ci hanno preso in contropiede. Avevamo già in mente di metterci in cammino per fare qualcosa. Restaureremo un locale della parrocchia e lo metteremo in funzione. Per noi può già arrivare. Aspettiamo indicazioni dal Patriarcato». Don Renzo Scarpa, parroco di San Geremia, sottolinea: «Abbiamo letto in chiesa la lettera del Patriarca Moraglia sul tema dell’accoglienza a profughi e migranti. Il prossimo lunedì si terrà il consiglio pastorale. Affronteremo il problema e vedremo cosa possiamo fare». Don Giovanni Favaretto, parroco San Giovanni in Bragora, è sempre stato in prima linea: «Ospito già e mi fanno piccoli servizi. Anche se sono stato ostacolato non ho mai smesso di accogliere. Agli Alberoni avevo una trentina di profughi con fagotti, a Malamocco un gruppo di marocchini in un appartamento». Sorride don Silvano Brusamento, parroco di San Trovaso: «È una cosa molto bella. Sembra che il Papa e il Patriarca si siano messi d’accordo. Ora bisogna capire come organizzarsi. Ne parleremo con i preti in vicariato. Certo, bisogna dare tempestiva concretezza a questa proposta del Papa che, ripeto, è una proposta molto significativa, importante per noi e per i migranti che stanno arrivando». Mestre. Il più operativo è don Nandino Capovilla, parroco della Cita, il quale oltre ad aver dato vita a un “home restaurant” in canonica gestito da rifugiati e senza tetto, ha attivato anche il servizio di barbiere “gratuito e aperto a tutti” affidato ogni lunedì mattina a un giovane pakistano, Arfan, sempre nei locali della parrocchia. Accoglienza. Ma sono diversi i sacerdoti delle comunità della terraferma che stanno pensando come poter “fare di più” per i profughi e i migranti, sulla scorta di quanto chiesto dal patriarca Francesco Moraglia. Il parroco della Cita ha ottimi rapporti anche con le comunità islamiche di Marghera, quella di via Monzani e quella dei bengalesi e si occupa assieme alla parrocchia di cinque profughi che risiedono in un appartamento alla Cita, tre dei quali arrivati alla fine della scorsa settimana e frutto della collaborazione con la Prefettura: «L’appello di Papa Francesco è fortissimo. Colpisce la sua concretezza e noi abbiamo bisogno di questo. Non si possono più fare discorsi vaghi. Il Patriarca non ci chiede solo di predicare, ci chiede concretezza». «Non abbiamo spazio materiale», ripete, «ma è costante la nostra attività parrocchiale a favore dell’integrazione. Se ogni parrocchia cercasse un appartamento, si potrebbe fare molto: bisogna trovare soluzioni concrete di accoglienza. Essere cristiani in questo contesto è una discriminante, uno spartiacque: se sei cristiano accogli». Anche la parrocchia del Corpus Domini in centro a Mestre, è in prima linea: «Nella nostra parrocchia», spiega don Sandro Manfrè, «c’è uno

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spazio gestito dalla cooperativa Il Lievito in via Gagliardi che ospita i profughi già da un anno, accogliamo circa una ventina di persone, soprattutto mamme con bambini, c’è anche una famiglia siriana». «Stiamo riflettendo sull’accoglienza diffusa», precisa il vicario foraneo di Favaro Don Massimo Cadamuro, «evitando di costruire centri più o meno grossi, bisogna essere capaci di intessere relazioni, e qui entrano in gioco le famiglie. Le idee sono due: la parrocchia tutor per l’affitto di un appartamento, ossia inserire i profughi in un contesto di famiglie, anche negli spazi comunitari se serve, oppure accogliere dei minori in canonica, sempre seguiti. Poi serve il supporto di una cooperativa o della Caritas, per farli lavorare. In ogni caso ciò che faremo sarà aperto a tutti, italiani, profughi, migranti». La parrocchia dei Santi Gervasio e Protasio di Carpenedo, come ha spiegato il parroco don Gianni Antoniazzi in chiesa domenica, non è da meno: «Ospitiamo 13 profughi», spiega, «tre famiglie che risiedono in tre appartamenti della parrocchia, due ortodosse, una musulmana. E poi c’è la scuola parrocchiale per stranieri, che segue 20 persone, la Bottega solidale che sfama migliaia di persone, italiani e non, e i centri Don Vecchi, che danno lavoro a diversi extracomunitari. Infine la San Vincenzo, che cura molti stranieri oltre che italiani». Caritas. A Mira dal 1997 esiste la Casa San Raffaele, della Caritas diocesana, che si trova in via Riscossa e che da quando ci sono stati i primi arrivi di albanesi, ha iniziato a ospitare stranieri, in tutto conta 24 posti letto, sempre pieni. Spiega Francesco Vendramin: «Attualmente ospitiamo cinque profughi dell’operazione Triton, che avrebbero dovuto avere subito lo status di rifugiato o a essere sentiti in commissione nazionale, ma sono ancora qui, in attesa da un anno. Hanno fatto corsi di lingua, sono impegnati socialmente, sono persino andati ad aiutare le popolazioni colpite dal tornado. Il resto sono detenuti stranieri agli arresti domiciliari, ex minori non accompagnati che hanno computo 18 anni e sono usciti dalle comunità per minori, o ancora malati stranieri che le Asl non riescono a seguire». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Ecco i primi alloggi delle parrocchie di Roberta Brunetti Dopo gli appelli di papa e patriarca, le comunità si stanno mobilitando. Due appartamenti individuati in centro storico. Ma per il Comune le quote non vanno superate Parrocchie mobilitate alla ricerca di alloggi da poter offrire ai migranti in fuga da guerra e miseria. Gli appelli del papa e del patriarca, che domenica sono risuonati in contemporanea, sembrano non essere caduti nel vuoto. Le parrocchie stanno monitorando i propri spazi. E un paio di alloggi, entrambi in centro storico, sarebbero già stati trovati. Un’offerta che andrebbe ad aggiungersi alle quote di profughi fissate dalla Prefettura per ciascun Comune, da tempo già al completo a Venezia. E che per questo forse creerà qualche attrito con Ca’ Farsetti che ha ribadito più volte di non voler sforare quei limiti? Si vedrà... Intanto, a dare la scossa alla chiesa, ci sono le parole dei suoi pastori. Papa Francesco, domenica, ha chiesto un «gesto concreto» di accoglienza ad ogni parrocchia, ad ogni comunità religiosa... E sempre domenica, nelle chiese veneziane, è stato letto l’ennesimo appello del patriarca Francesco Moraglia. Pure lui ha sollecitato «interventi concreti» per «suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona». Ed ecco le prime reazioni. «I nostri sacerdoti rispondono ai messaggi del patriarca e del papa - spiega il responsabile della Caritas, con Dino Pistolato - Stiamo monitorando gli spazi, alla ricerca di soluzioni che non interferiscano con la vita delle nostre parrocchie. Un paio di alloggi in centro storico sono già stati individuati. Bisogna tener presente che i nuclei familiari sono pochi, arrivano tanti uomini, bisogna attrezzarsi ad ospitarli». Ma il punto su cui più insiste Pistolato è quello di un’accoglienza globale: «Non basta dargli uno spazio e poi abbandonarli. Per questo ci vogliono volontari che in questo momento, anche per altre realtà, scarseggiano...». Del possibile sforamento delle quote, invece, non si preoccupa troppo: «Troveremo un accordo con la Prefettura. L’importante è che si crei un clima più stemperato, che si rompano certe contrapposizioni». Ma a Ca’ Farsetti, sulle quote, la pensano diversamente. Con 270 profughi ospitati, tutti in piccole strutture, Venezia rispetta il rapporto fissato tra abitanti e migranti. «Siamo in una situazione di equilibrio che si riesce a governare senza troppi problemi - commenta l’assessore al sociale,

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Simone Venturini - Ulteriori arrivi potrebbero compromettere questo lavoro. Per quel che ci riguarda, Venezia il suo lo ha fatto». Per il resto Venturini ricorda come con la nuova amministrazione non ci siano stati nuovi arrivi («Gestiamo una situazione che abbiamo subito») e punta il dito sulla politica nazione: «É il vero assente. Non c’è chiarezza su questo fronte, a cominciare dalla mancanza di turnover nei centri per i tempi lunghissimi delle commissione che esaminano le richieste di asilo. Per quel che ci riguarda stiamo lavorando a un protocollo per trovare un’attività di volontariato per dare un’occupazione a queste persone». Per il momento la situazione è al palo. E la sezione veneta dell’Anci, l’associazione nazionale dei comuni d’Italia - ora come ora - non ha potuto che prenderne atto. Tutte e 44 Amministrazioni comunali del territorio veneziano sono ancora in una fase di limbo o comunque devono ancora decidere sull’offensiva lanciata dalla "cabina di regia" della Prefettura e all’imdomani del vertice regionale con il capodipartimento all’Immigrazione del Viminale, Mario Morcone, sull’emergenza profughi. In sostanza, dopo la stesura del protocollo, fino a questo momento i Comuni non si sono ancora sbilanciati nella sottoscrizione del documento che sottolinea la necessità di garantire un’accoglienza diffusa sul territorio. Una soluzione, ricordava nei giorni scorsi lo stesso Prefetto di Venezia, Domenico Cuttaia che, se portasse all’adesione al programma di tutti i comuni, consentirebbe di evitare situazioni, come quelle verificatesi a Eraclea e a Conetta di Cona. Situazioni, che al di là dell’allarme sociale creato, sono la dimostrazione di come in assenza di una distibuzione del territorio, secondo criteri legati alla densità della popolazione, rischiano di rendere delicato il sistema dello smistamento e del controllo dell’ordine pubblico come è avvenuto nelle scorse settimane, anche con il concorso di movimenti politici che stanno cavalcando la protesta contro l’arrivo dei profughi. Condizioni che si intendono evitare per non rendere ancora più pesante il clima sociale che ha percorso in queste settimane alcune zone della provincia di Venezia. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Profughi nelle chiese europee. I vescovi d’Oriente non applaudono di Gianni Valente Il Patriarca caldeo e due vescovi siriani: l'iniziativa rischia di incentivare la fuga dei cristiani. E l'esodo con le sue tragedie è alimentato anche dalle strategie di potere dei Paesi occidentali «L’appello di Papa a aprire le parrocchie d'Europa ai profughi respinti dai governi è come un impeto di misericordia davanti a una situazione tragica. Umanamente non si poteva fa altro. Ma questo per i nostri cristiani sarà un ulteriore incentivo a andar via». Jacques Behnan Hindo, arcivescovo siro cattolico di Hassakè-Nisibi, è abituato a parlar chiaro. Un’attitudine accentuata dai quattro anni di guerra sopportati nella regione nord-orientale di Jazira, una delle aree più contese della Siria. Lo scorso giugno, quando i jihadisti dello Stato Islamico hanno assaltato Hassakè conquistandone molti quartieri, sono arrivati a poche centinaia di metri dal suo episcopio. Adesso, a suo giudizio, la mobilitazione delle Chiese europee nell’accoglienza dei profughi in fuga dalla Siria e da altri scenari di guerra potrebbe innescare effetti collaterali non calcolati: «I miei» racconta a Vatican Insider «mi diranno subito: il Papa ha detto che lì ci aprono le parrocchia e i conventi. E allora cosa aspettiamo? Penseranno anche di essere i primi a trovare accoglienza». L’appello lanciato all’Angelus domenicale da Papa Francesco affinché ogni parrocchia d'Europa, così come le comunità religiose e monastiche e ai santuari, accolgano una famiglia di profughi in fuga dalle guerre e dalla fame ha suscitato immediata adesione nei media e in molti ambienti ecclesiali europei. Ma nei Paesi mediorientali stravolti dalle scorribande jihadiste, l'iniziativa appare sotto una luce diversa. E se ne intravvedono implicazioni e potenziali ricadute poco considerate nel fiume di reazioni positive registrate in Occidente. Le riserve di Hindo non sono isolate. Da Tirana, dove era ospite del meeting annuale della Comunità di sant'Egidio, anche il

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Patriarca caldeo Louis Raphael I ha detto che l'ospitalità dei profughi in Europa «è una soluzione parziale» e occorre «impegnarsi per la pace» in Iraq e in Siria, nei Paesi cioè dove le persone in fuga dalla guerra «hanno le loro case, le loro tradizioni, la loro lingua». Il primate della Chiesa caldea ha aggiunto che «non si può essere sentimentali», e che così «il problema non viene risolto, si complica». Nei conflitti che insanguinano da anni l'Iraq, Louis Raphael I ha più volte polemizzato coi Paesi occidentali che facilitavano la concessione di permessi di soggiorno per i cristiani in fuga dalle convulsioni mediorientali. In passato, comunicati ufficiali del Patriarcato hanno messo in guardia i fedeli caldei dalle manovre di singoli e gruppi organizzati che «soprattutto negli Stati Uniti» puntano a far aumentare i numeri della diaspora irachena per allargare la propria clientela elettorale, da mobilitare in appoggio alle loro iniziative politiche. Ed è nota la battaglia intrapresa dal Patriarca per far tornare in Iraq il «chierici vacanti» caldei, sacerdoti e religiosi emigrati in Nordamerica senza il consenso dei vescovi e dei superiori, dove avevano chiesto asilo presentandosi come vittime delle persecuzioni islamiste. Dalla città martire di Aleppo, anche il vescovo caldeo Antoine Audo, lucido osservatore delle dinamiche mediorientali – e dei giochi di forza che le muovono -, ieri ha espresso all'Agenzia Fides considerazioni in chiaroscuro sull'appello papale alla mobilitazione delle parrocchie europee. L'iniziativa secondo il vescovo gesuita – che è anche presidente di Caritas Siria - «è un invito a tutti i cristiani ad aiutare con evangelica concretezza chi si trova in situazioni di emergenza», ma «davanti alle guerre che stravolgono il Medio Oriente, il nostro desiderio come cristiani e come Chiesa è quello di rimanere nel nostro Paese, e facciamo di tutto per tener viva la speranza». Quattro anni di guerra – ha aggiunto Audo, che è anche presidente di Caritas Siria «»ci stanno logorando tutti», ma «nello stesso tempo, non ce la sentiamo di dire alla gente: scappate, andate via, che qualcuno vi accoglierà. Rispettiamo le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per noi è un dolore vedere le famiglie partire, e tra loro tante sono cristiane. E' un segno che la guerra non finirà, o che alla fine prevarrà chi vuole distruggere il Paese». Lo scenario prefigurato dal vescovo caldeo è quello di una lenta, mortale emorragia che svuota il Paese delle sue forze migliori: «Anche ad Aleppo sento i racconti di giovani che dicono tra loro: facciamo un gruppo e andiamo via, fuggiamo da soli, senza chiedere il permesso alle nostre famiglie... Vuol dire che qui rimarranno solo i vecchi». I vescovi orientali fanno notare che anche le vicende tragiche dei profughi mediorientali vengono raccontate senza far cenno alle responsabilità e alle connivenze regionali e geopolitiche che hanno provocato e alimentato l'emergenza. Un meccanismo di rimozione che adesso non esita a servirsi anche delle immagini di tragiche e sconvolgenti, finora occultate. Il Patriarca caldeo, come altri capi delle Chiese mediorientali, ha più volte ripetuto che i conflitti e le operazioni terroristiche nella regione rispondono a un «piano per un nuovo Medio Oriente» diviso secondo frontiere religiose e cantonizzato su base etnica e settaria. Una dinamica che ha trovato sponde oggettive nelle mosse militari e d'intelligence messe in campo da circoli occidentali. Anche ieri Louis Raphael I ha accennato alle «colpe» della comunità internazionale, che vende armi e «non aiuta questi Paesi a trovare una via di pace e di riconciliazione, lasciando che questo esodo continui». Coi suoi modi spicci, anche l'arcivescovo Hindo confida a Vatican Insider i suoi sospetti: «Forse qualche leader europeo prova a rifarsi una verginità accogliendo per ora qualche migliaio di profughi. Ma ormai siamo diventati malfidati. Non vorrei che stessero preparando l’opinione pubblica per qualche nuovo intervento militare. C'è chi da tempo persegue la tattica di intervenire massicciamente in Siria indicando come bersaglio lo Stato islamico, ma in realtà vuole colpire l’esercito di Assad». Da Aleppo, anche Audo denuncia il sistematico occultamento delle dinamiche geopolitiche e militari che hanno provocato il caos: «Noi facciamo di tutto per difendere la pace, mentre in Occidente dicono di fare tutto in difesa dei diritti umani, e con questo argomento continuano anche ad alimentare questa guerra infame. E' questo il paradosso terribile in cui ci troviamo. E non riusciamo più nemmeno a capire cosa vogliono davvero». L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Si può fare di Giovanni Zavatta In Europa le diocesi si mobilitano per rispondere all’appello del Papa sui profughi

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Fare tutto il possibile per rispondere, in fretta e con efficacia, alla richiesta del Papa. Sono unanimi le reazioni di diocesi, istituzioni e movimenti cattolici all’appello di Francesco di ospitare, in ogni parrocchia, comunità religiosa, monastero o santuario d’Europa, una famiglia di profughi. «La Chiesa è pronta a mobilitarsi per l’accoglienza», ha assicurato il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (Cei) e vicepresidente del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa, ricordando che dell’argomento si parlerà già nel fine settimana quando i presidenti delle Conferenze episcopali europee si incontreranno in Terra Santa (dall’11 al 16 settembre) per l’annuale assemblea plenaria, e poi, dal 21 al 23 settembre, al Consiglio episcopale permanente della Cei: «Ho già dato disposizioni per individuare dei criteri concreti per applicare e tradurre questo grande invito del Papa», ha aggiunto il porporato, osservando che in Italia le parrocchie sono 27.133 e, se ciascuna ospitasse una famiglia di quattro persone, oltre 108.000 persone troverebbero una sistemazione. Per questo, «parlerò con i collaboratori e con i parroci, per fare una mappatura e pianificare un cammino di concretezza». Si tratta di «continuare e intensificare l’impegno e lo sforzo che tutte le diocesi italiane stanno facendo da tempo», ha sottolineato Bagnasco. L’ultimo esempio viene da Catania dove la Caritas diocesana ha partecipato attivamente alle operazioni di prima accoglienza dei quattrocento migranti sbarcati sabato nel porto. Volontari e operatori, in collaborazione con la Croce rossa e la Protezione civile, hanno fornito vestiti e scarpe ai profughi appena sbarcati dalla nave, compreso abbigliamento per donne e bambini. Quello del Papa è un appello che «non rimarrà inascoltato», ha dichiarato il cardinale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, assicurando che la sua diocesi «è pronta a fare la propria parte dando vita al piano di accoglienza annunciato il 2 settembre»; verrà gestito dalla Caritas e consentirà di accogliere in ogni comunità gruppi di cinque o sei persone. A Venezia, nei giorni scorsi, il patriarca Francesco Moraglia ha inviato una lettera ai parroci della diocesi sulla questione migranti che è stata letta ieri durante la messa domenicale. «Ciascuno di noi, con la sua comunità, è chiamato in causa», scrive, parlando di un fenomeno dalle proporzioni epocali. «Il ringraziamento per quanto già fate è forte, come è forte la richiesta di crescere ulteriormente nell’impegno, coordinando sul territorio con interventi concreti volti a suscitare sempre più una cultura della solidarietà e dell’accoglienza nel rispetto della persona. Esorto con animo trepidante - conclude Moraglia - a percorrere questa strada di concretezza e di ecclesialità collaborando con tutti coloro che vivono sul territorio». Il cardinale arcivescovo di Perugia - Città della Pieve, Gualtiero Bassetti, accoglie e fa suo l’appello del Papa: «Anche le famiglie che abbiano a disposizione immobili sfitti accolgano i rifugiati», ha detto ieri, ricordando di avere già fatto questa sollecitazione in passato, nelle sue omelie. Non solo quindi un appello «alle parrocchie, alle congregazioni religiose, ai conventi, ai monasteri, anche di clausura», ma un invito rinnovato a tutte «le famiglie di buona volontà». La Chiesa perugina, attraverso la Caritas diocesana, e altre diocesi umbre (Terni-Narni-Amelia, Spoleto-Norcia, Orvieto-Todi, Foligno) si stanno preparando a dare ospitalità a nuovi rifugiati, in base alle disposizioni della prefettura. Agli sforzi, da Nord a Sud, delle diocesi italiane, si unisce l’impegno dell’Azione cattolica che, in una nota della presidenza nazionale, invita a «promuovere riflessioni costruttive e concrete azioni di accoglienza e fraternità, che non siano dominate dalla paura e dallo sgomento». Nessuno «può sentirsi estraneo alle vicende di questi giorni. Ciascuno di noi, dunque, ha il compito di non lasciare prevalere l’indifferenza e la superficialità, ma di impegnarsi in prima persona, anche nei propri contesti locali, affinché la solidarietà e la sapienza prevalgano sull’egoismo e l’impulsività». Ma è tutta l’Europa a essere chiamata in causa dall’appello di Francesco. In Francia, dopo la dichiarazione (intitolata «S’il vous plaît, que cela ne se répète pas!») della Conferenza episcopale sulla tragica morte del piccolo Aylan, ieri molti presuli sono intervenuti singolarmente - tra essi il cardinale arcivescovo di Lione, Philippe Barbarin («Una famiglia in ogni parrocchia? Si può!», ha scritto in un tweet) - per dare a parrocchie e comunità disposizioni sull’accoglienza dei profughi. Il cardinale arcivescovo di Vienna, Christoph Schönborn, si è recato personalmente al valico di frontiera di Nickelsdorf (vicino al confine con l’Ungheria) per incontrare i rifugiati e gli operatori umanitari che li stanno assistendo. Giorni fa la Conferenza episcopale ungherese, al termine dell’assemblea plenaria, ha sollecitato le istituzioni caritative cattoliche («in sintonia con quanto più volte chiesto da Papa

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Francesco») a trovare i modi più efficaci per fornire assistenza in collaborazione con gli enti pubblici, «nel rispetto dei diritti specifici di questa situazione umanitaria». Ieri, durante un’omelia, l’arcivescovo presidente dell’episcopato polacco, Stanisław Gądecki, ha chiesto a ogni parrocchia di prepararsi all’accoglienza dei migranti perseguitati, «dando loro la possibilità di cominciare una nuova vita». E in Belgio, dopo un appello lanciato a fine agosto, la Caritas Internationalis ha ricevuto duecentocinquanta offerte da parte di proprietari che metteranno degli appartamenti a disposizione dei richiedenti asilo; una volta accertati i requisiti, saranno le autorità competenti a gestire gli alloggi. Pag 7 Una veste tessuta di gloria La Natività della Madre di Dio nell’iconografia siriaca L’abbondantissima produzione letteraria messa sotto la paternità di sant’Efrem, il grande Padre della Chiesa siriaca morto nell’anno 373, comprende inni in realtà composti a partire dal V secolo ispirati all’innografia di Efrem. Molti di questi componimenti sono dedicati a Maria e alla sua divina maternità, inni che la cantano, meditando e lodando allo stesso tempo il mistero dell’incarnazione del Verbo di Dio. Due di questi inni iniziano con una preghiera a Cristo, affinché sia lui stesso a illuminare il canto del poeta: «La Vergine mi chiama a cantare il mistero che ammiro. Dammi, o Figlio di Dio, il tuo dono di ammirazione, per dipingere un’immagine piena di bellezza alla tua Madre». La verginità di Maria e il concepimento in lei del Verbo di Dio incarnato vengono messi in evidenza con immagini molto contrastanti, a partire dall’umanità stessa di Maria nel suo essere pienamente donna e concepire verginalmente: «Un feto nel suo seno senza connubio, grande prodigio! Latte è nelle sue mammelle, cosa inconsueta! I segni della verginità assieme al latte sono nel suo corpo». E prosegue con delle espressioni che sottolineano la divinoumanità di colui che è nato da Maria: «La Vergine Maria santamente partorisce il Figlio; dà il latte a colui che nutre il genere umano; sulle ginocchia sostiene colui che tutto sostiene. Lei è vergine, ed è pure madre: cosa lei non è?». L’autore prosegue introducendo il tema della verginità - sia in un riferimento alle dieci vergini della parabola evangelica - sia soprattutto tenendo presente la verginità come realtà ecclesiale presente già nel IV secolo nelle Chiese di tradizione siriaca: «In Maria goda tutta la schiera delle vergini, perché una fra esse si è chinata e ha partorito il gigante che sostiene le creature, lo stesso che liberò il genere umano fatto schiavo». Il riferimento cristologico al «gigante» partorito da Maria è preso dai Salmi (18, 6), in un testo che la tradizione dei Padri e le liturgie orientali e occidentali hanno letto e interpretato applicandolo a Cristo stesso nella sua incarnazione e nascita da Maria. Nel primo dei due inni una serie di quattro strofe enumera coloro che per mezzo di lei trovano in Cristo la loro piena redenzione: «Si rallegri in Maria Adamo ferito dal serpente, perché lei a lui ha fornito la pianta medicinale, si rallegrino in Maria i sacerdoti, perché lei ha partorito il grande sacerdote divenuto vittima, si rallegri la schiera dei profeti, perché in lei si sono adempiute le loro profezie». Il nesso con Adamo guarito dalla medicina che è Cristo stesso porta l’autore a cantare il tema dell’incarnazione e la nascita del Verbo di Dio vista come una nuova creazione: «Maria dette il dolce frutto agli uomini, in luogo di quel frutto dell’amarezza che Eva aveva raccolto dall’albero, Maria tesse una stola di gloria per suo padre che era stato denudato tra gli alberi: rivestendola castamente, egli acquistò decoro». Maria ancora è presentata come vite che produce il vino che è Cristo stesso, riferimento che ha anche un carattere eucaristico, collegato con il vino come bevanda di salvezza: «La vite verginale produsse un grappolo dal dolce vino, e per esso furono consolati dalle tristezze Adamo ed Eva addolorati: gustando il farmaco di vita, e furono da questo consolati dalle loro tristezze». Nel secondo inno dopo aver di nuovo accostato le dieci vergini con le lampade in mano del vangelo di Matteo a Maria vergine che porta la vera luce del mondo, Cristo, l’innografo si dilunga a sviluppare il nesso tra Eva e Maria, tra la caduta nel peccato e la redenzione come nuova creazione: «Per lei si sollevò il capo di Eva rimasto abbattuto. Maria infatti ha portato il bambino che afferrò il serpente, e le foglie della nudità si tramutarono in gloria. Due vergini ha avuto l’umanità: una causa della vita, l’altra della morte; da Eva spuntò la morte, da Maria la vita». E ancora l’autore riprende il tema del vestito di gloria tessuto da Maria nel suo grembo: «La madre caduta fu sorretta da sua figlia, e poiché quella era rivestita di foglie di nudità, questa le tesse e le dette un vestito

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di gloria». Nei due inni i titoli cristologici dati a Maria sono presi da immagini veterotestamentarie: lei è il campo che non ha conosciuto il seminatore, lei la nave che porta agli uomini il frutto della salvezza, lei la lampada che porta la luce per gli uomini: «Per Maria spuntò la luce che scacciò le tenebre che si erano diffuse tramite Eva offuscando l’umanità. Per mezzo di Maria il mondo è stato illuminato». Pag 8 Perseguitati perché cristiani Messa a Santa Marta L’orrore per la persecuzione che oggi avviene nel mondo, con terroristi che sgozzano i cristiani nel «silenzio complice di tante potenze», è iniziata proprio contro Gesù e ha scandito la storia della Chiesa. Ecco perché «non c’è cristianesimo senza martirio». E la testimonianza della comunità armena, «perseguitata soltanto per il fatto di essere cristiana», deve far trovare a ciascuno lo stesso coraggio di quei martiri, qualora «un giorno la persecuzione accadesse qui». Lo ha affermato il Papa nella messa presieduta, lunedì 7 settembre, nella cappella della Casa Santa Marta. Durante la celebrazione ha avuto luogo la significazione della ecclesiastica communio concessa al nuovo patriarca di Cilicia degli armeni, Gregorio Pietro XX Ghabroyan. Con il Papa hanno concelebrato, insieme al patriarca, il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, con l’arcivescovo segretario monsignor Cyril Vasil’ e il sotto-segretario padre Lorenzo Lorusso, tutti i vescovi membri del Sinodo della Chiesa patriarcale armeno cattolica e alcuni sacerdoti. Per la sua riflessione sul martirio, oltre che dalla presenza dei cristiani armeni, Francesco ha preso spunto anzitutto dal passo evangelico di Luca (6, 6-11) proposto dalla liturgia: Gesù guarisce di sabato un uomo che aveva la mano destra paralizzata. Però «la predica e il modo di agire di Gesù - ha fatto notare nell’omelia - non piacevano ai dottori della legge». E «per questo gli scribi e farisei lo osservavano per vedere cosa facesse: lo spiavano perché avevano nel loro cuore cattive intenzioni». Così «dopo che Gesù apre il dialogo, e domanda se è lecito fare il bene o fare il male il sabato, loro non parlano, rimangono zitti». Luca racconta che, dopo il miracolo compiuto dal Signore, «essi fuori di sé dalla collera» - e qui il Vangelo usa un’espressione davvero «forte» - «si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù». In una parola, si misero a ragionare su come fare per uccidere il Signore. E tante volte, ha precisato il Papa, nel Vangelo si ripete questa scena. Dunque, questi dottori della legge non hanno un atteggiamento del tipo: «non siamo d’accordo, parliamo». A prevalere in loro, invece, «è la collera: non possono dominarla e incominciano la persecuzione a Gesù, fino alla morte». Anche san Paolo, «discepolo fedele del Signore, soffre lo stesso», ha ricordato il Papa. A confermarlo è proprio il passo della lettera ai Colossesi (1, 24 - 2, 3) proclamato durante la liturgia: «Fratelli, sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa». Quella di Paolo, ha rimarcato il Pontefice, è «la stessa strada di Gesù: la testa della Chiesa, la segue il suo corpo, la Chiesa». E, del resto, «dai primi giorni la Chiesa è perseguitata». Ma fino a quanto lo sarà? Di certo «fino a oggi», ha affermato il Papa. Infatti, ha proseguito, anche «oggi tanti cristiani, forse più che nei primi tempi, sono perseguitati, uccisi, cacciati via, spogliati solo per essere cristiani». E così, come scrive Paolo, «proseguono nel corpo della Chiesa la passione di Cristo, dandone compimento». Francesco ha ripetuto che «non c’è cristianesimo senza persecuzione». E ha suggerito di far memoria dell’«ultima delle beatitudini: quando vi porteranno nelle sinagoghe, vi perseguiteranno, vi insulteranno: questo è il destino del cristiano». Di più: «Oggi, davanti a questo fatto che accade nel mondo, col silenzio complice di tante potenze che potevano fermarlo, siamo davanti a questo destino cristiano: andare sulla stessa strada di Gesù». In particolare, ha detto il Pontefice, «voglio ricordare oggi una delle tante grandi persecuzioni, quella del popolo armeno, in occasione della nostra comunione. Un popolo, la prima nazione che si è convertita al cristianesimo, la prima, perseguitata soltanto per il fatto di essere cristiana». «Noi oggi sui giornali - ha affermato rilanciando le tragiche questioni di attualità - sentiamo orrore per quello che fanno alcuni gruppi terroristici, che sgozzano la gente solo per essere cristiani». Francesco ha invitato a pensare «a questi martiri egiziani, ultimamente, sulle coste libiche: sono stati sgozzati mentre pronunciano il nome di Gesù». E ritornando agli armeni, ha spiegato che questo

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popolo «è stato perseguitato, cacciato via dalla sua patria, senza aiuto, nel deserto». Proprio «oggi - ha fatto presente - il Vangelo ci racconta dove è cominciata questa storia: con Gesù». E quello «che hanno fatto con Gesù, durante la storia è stato fatto con il suo corpo, che è la Chiesa». In questa prospettiva il Papa si è rivolto direttamente agli armeni: «Oggi vorrei, in questo giorno della nostra prima Eucaristia, come fratelli vescovi, a te, caro fratello patriarca, e a tutti voi, vescovi e fedeli e sacerdoti armeni, abbracciarvi e ricordare questa persecuzione che avete sofferto, e ricordare i vostri santi, tanti santi morti di fame e di freddo, nella tortura e nel deserto, per essere cristiani». Francesco ha pregato il Signore perché «ci dia la consapevolezza di guardare lì quello che Paolo dice» e «ci dia una piena intelligenza per conoscere il mistero di Dio che è in Cristo». E «il mistero di Dio che è in Cristo - ha aggiunto - porta la croce: la croce della persecuzione, la croce dell’odio, la croce che viene dalla collera di questi uomini, questi dottori della legge». Ma «chi suscita la collera? Lo sappiamo tutti: il padre del male». «Il Signore - ha detto ancora il Papa - oggi ci faccia sentire, nel corpo della Chiesa, l’amore ai nostri martiri e anche la nostra vocazione martiriale. Noi non sappiamo cosa accadrà qui: Non lo sappiamo!». Ma, ha concluso, «che il Signore ci dia la grazia, se un giorno accadesse questa persecuzione qui, del coraggio della testimonianza che hanno avuto tutti questi cristiani martiri e specialmente i cristiani del popolo armeno». AVVENIRE Pag 1 La Cei: “Con Francesco per un Vangelo vissuto” La misericordia di Dio «non è un’idea astratta, ma una realtà concreta», attraverso la quale Egli «rivela il suo amore come quello di un padre e una madre che si commuovono dal profondo delle viscere per il proprio figlio». Le parole d’indizione dell’Anno giubilare straordinario ci scorrono davanti mentre ascoltiamo Papa Francesco rivolgersi ai Vescovi d’Europa, perché in ogni parrocchia, comunità religiosa, monastero e santuario sia ospitata una famiglia di profughi. È un appello che accogliamo con la gratitudine di chi riconosce nel Successore di Pietro colui che, anche nelle situazioni più complesse, sa additare le vie per un Vangelo vissuto. È un appello che trova le nostre Chiese in prima fila nel servizio, nell’accompagnamento e nella difesa dei più deboli. È un appello che in queste settimane custodiremo nel respiro della preghiera e del confronto operativo, arrivando a fine mese a consegnarlo al Consiglio Episcopale Permanente (30 settembre - 2 ottobre), al fine di individuare modalità e indicazioni da offrire a ogni diocesi. Per l’Anno della Misericordia il Santo Padre ci chiede di «aprire il nostro cuore a quanti vivono nelle più disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera drammatica» e poi chiude in un’«indifferenza che umilia». Oggi rinnoviamo la nostra disponibilità a curare queste ferite con la solidarietà e l’attenzione dovuta, riscoprendo la forza liberante delle opere di misericordia corporale e spirituale, via che conduce sempre più al cuore del Vangelo.

Cardinale Angelo Bagnasco, presidente Monsignor Nunzio Galantino, segretario generale

Pag 10 Aborto, il perdono e l’impegno per la vita di Carlo Casini Il tentativo di certa cultura radicale di far apparire il perdono per l’aborto promosso da papa Francesco per l’anno giubilare come il riconoscimento di una «normalità» della cosiddetta «interruzione volontaria della gravidanza », come «una scelta nel novero di quelle possibili in alcune circostanze» (Della Vedova su la Repubblica), ha turbato qualcuno che aveva letto soltanto i titoli dei giornali e non il testo della lettera inviata dal Papa a monsignor Fisichella. Ho svolto un’opera di rasserenamento leggendo a costoro le parole esatte del Santo Padre pubblicate su Avvenire e ricordando il passo evangelico dell’adultera minacciata di lapidazione e perdonata da Gesù (Giovanni, 8,11). Nelle parole di papa Francesco, che sono identiche, non solo nella sostanza, ma talora anche nella forma, a quelle che San Giovanni Paolo II ha scritto al n. 99 dell’Evangelium Vitae rivolgendosi alle «donne che hanno fatto ricorso all’aborto», non c’è un perdono dell’aborto in sé, né incondizionato, ma un pressante invito alla conversione, cioè alla confessione sacramentale, la quale, come è noto, esige il proposito di non peccare mai

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più. Nel racconto dell’adultera le parole di Gesù che accompagnano il perdono sono: «D’ora in poi non peccare più». «Non peccare più»: non è la legittimazione dell’aborto, ma la fine dell’aborto, nel caso individuale, ma forse anche l’inizio della fine nella società se quel 'mai più' del confessionale diventa un appello alla società nel suo insieme perché non condizioni e non spinga all’aborto con una potenza persuasiva che Giovanni Paolo II non ha esitato a chiamare «congiura contro la vita», «guerra dei potenti contro i deboli», «strutture di peccato». Il condizionamento sociale e culturale che spinge all’aborto è ben testimoniato dall’esperienza dei Centri di aiuto alla vita. Avvenire ne ha riportato qualche commovente esempio nel numero del 4 settembre; lo ripetono papa Francesco («conosco bene i condizionamenti che hanno portato a questa decisione») e Giovanni Paolo II («la Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito sulla vostra decisione»). Dunque non basta accogliere a braccia aperte il pentimento e dare perdono. Bisogna anche sostenere il proposito di «non peccare più» facendo tutto il possibile per rimuovere i «condizionamenti » che continuano a spingere verso l’aborto. L’anno giubilare può essere l’occasione di un grande rilancio dei Centri di aiuto alla vita. Ad esempio, di fronte ai condizionamenti economici sarebbe un segno significativo la promozione del Progetto Gemma in ogni parrocchia di Italia. Progetto Gemma è il servizio che il Movimento per la Vita realizza da tempo: una 'carezza economica' (perché solo questo sono 160 euro al mese per 18 mesi) che può rompere la solitudine. Ma il condizionamento più grande è quello che emerge dalla testimonianza delle donne che ricordano piangendo: «Tutti intorno mi dicevano: non è un figlio, non è nessuno, non ha altra strada». Bisogna vincere questo condizionamento della menzogna collettiva con la forza luminosa della verità, che risveglia il coraggio tipico della femminilità. Così l’anno giubilare sarà anche un momento di rilancio della cultura per la vita. Ha scritto un quotidiano: «Aborto, è alle donne che va chiesto perdono». Ma chi deve chiedere perdono alle donne? Non certo la Chiesa, ma la congiura contro la vita! E speriamo che anche molti tra i congiurati sappiano chiedere perdono al Dio della vita. Pag 17 Nullità matrimoniale, riformato il processo di Luciano Moia Oggi resa nota la decisione del Papa. I contenuti in due “motu proprio” Eliminare ogni ostacolo sulla strada della piena integrazione delle persone separate in nuova unione. È tra gli obiettivi che il Papa ha indicato al Sinodo, nella consapevolezza che i divorziati risposati continuano a far parte a pieno titolo della Chiesa. In attesa che i padri sinodali affrontino la spinosa questione, Francesco ha deciso di risolvere con due lettere 'motu proprio' lo snellimento del processo di nullità matrimoniale. Stamattina verranno resi noti i due documenti – che riformano e il codice di diritto canonico e il diritto canonico delle Chiese orientali – e si vedrà qual è la strada scelta dal Papa per realizzare l’intento. Il problema gli sta molto a cuore. In diversi interventi, tra cui lo scorso gennaio nell’udienza ai partecipanti a un convegno di esperti di diritto canonico, aveva indicato la propria intenzione di rendere più snelli e agevoli i percorsi dei procedimenti di nullità e aveva annunciato possibili interventi. Al problema, già affrontato lo scorso ottobre nel Sinodo straordinario, è dedicato un capitolo dell’Instrumentum laboris. Chiarissime le indicazioni espresse nel testo, frutto delle risposte al questionario diffuse dalla Segreteria del Sinodo a tutte le diocesi del mondo. Si rileva «un ampio consenso sull’opportunità di rendere più accessibili ed agili, possibilmente gratuite, le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità matrimoniale». Larga maggioranza anche sull’ipotesi di superare la cosiddetta «doppia sentenza conforme». Oggi, com’è noto, per arrivare al giudizio di nullità, occorrono due giudizi, un 'primo grado' e un 'appello'. Solo se le due sentenze non sono concordi, si ricorre alla Rota romana. Nell’Instrumentum laboris si spiega che la proposta del giudizio unico potrebbe rappresentare una strada percorribile «fatta salva la possibilità di ricorso da parte del Difensore del vincolo o di una delle parti», nel caso in cui la sentenza offra spunti di opinabilità. Bocciata invece l’ipotesi di un «procedimento ammini-strativo sotto la responsabilità del vescovo diocesano», perché considerata troppo problematica. Mentre più consensi ha riscosso la possibilità di un «accordo sulla possibilità di un processo canonico sommario nei casi di nullità patente». Ma anche in questo caso non sono mancate perplessità e distinguo. Stamattina, alla conferenza stampa di presentazione dei documenti papali, ci saranno il decano della Rota monsignor Pio Vito

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Pinto; il cardinale Francesco Coccopalmerio, presidente del Pontificio Consiglio per i Testi legislativi; monsignor Dimitrios Salachas, esarca apostolico di Atene per i cattolici greci di rito bizantino; monsignor Luis Francisco Ladaria Ferrer, segretario della Congregazione per la Dottrina della fede; monsignor Alejandro W. Bunge, prelato uditore della Rota Romana e Segretario della Commissione speciale; padre Nikolaus Schöch, promotore di Giustizia sostituto del Supremo tribunale della Segnatura apostolica e segretario della Commissione speciale. Monsignor Pio Vito Pinto è anche presidente della Commissione speciale per la riforma del processo matrimoniale canonico che il Papa ha istituito nell’agosto 2014 e pubblicato nel settembre successivo. Le due lettere 'motu proprio' si intitolano 'Mitis Iudex Dominus Iesus', quella riguardante il codice di diritto canonico, e 'Mitis et misericors Iesus', quella riguardante il codice dei canoni delle Chiese orientali. CORRIERE DELLA SERA Pag 8 Parrocchie aperte di Paolo Conti Da Treviso a Siracusa: le chiese si mobilitano dopo l’appello del Papa. Divisioni tra i fedeli Roma. L’invito del Papa ad accogliere i migranti ha avviato la complessa, vasta macchina della chiesa italiana: 27.133 parrocchie e 226 diocesi, 33.714 preti diocesani, 84.406 religiose professe, 7.723 istituti secolari. Ieri la Conferenza episcopale italiana, con una nota congiunta del presidente, cardinale Angelo Bagnasco, e del segretario, Nunzio Galantino ha assicurato a papa Francesco che la sua esortazione«trova le nostre chiese in prima fila nel servizio, nell’accompagnamento e nella difesa dei più deboli». Bagnasco e Galantino danno appuntamento al Consiglio episcopale permanente, che si riunirà dal 30 settembre al 2 ottobre, per «individuare modalità e indicazioni da offrire a ogni diocesi». Tutto fa pensare che l’obiettivo fissato da Bagnasco, assorbire 100.000 profughi, verrà raggiunto. A Roma il cardinal vicario, Agostino Vallini, fa sapere di aver dato «indicazioni operative» per l’accoglienza nelle parrocchie. Il telefono di monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas diocesana romana, non fa che squillare: «Molte parrocchie mi annunciano di aver risistemato locali, aspettano istruzioni. Occorrerà metterci in contatto con le autorità pubbliche per risolvere, serenamente ma velocemente, molti problemi tecnici e organizzativi». Burocratici, insomma, legati alla registrazione degli stranieri, l’assistenza sanitaria e scolastica, la stessa agibilità dei locali destinati a casa-alloggio. Per ora c’è un assoluto, totale vuoto giuridico. Ma sono in tanti a essersi mossi, come don Giampiero Palmieri, parroco di san Frumenzio a Roma (Prati Fiscali) che ha concluso i lavori in tempi-record. L’arciprete di San Pietro, cardinal Angelo Comastri, conferma che le due parrocchie vaticane ospiteranno famiglie approdate a Lampedusa. Funziona a pieno ritmo la mensa del centro Astalli, dei padri Gesuiti (l’ordine del pontefice) che assicura 500 pasti al giorno nel cuore di Roma, a cento metri dalla casa di Berlusconi in via del Plebiscito. Papa Francesco l’ha visitata il 10 settembre 2013, due anni fa. Il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, annuncia di aver messo a disposizione altri 6 immobili con 130 posti che si aggiungono ai 781 già indicati, e altre 10 parrocchie si sono dichiarate pronte. Anche Scola chiede «un passo in avanti sulle leggi e le regole che normano questa accoglienza». Il problema, insomma, c’è ed è urgente. Scola aggiunge altri interrogativi: «Perché i tempi per il rilascio dei documenti sono spesso così lunghi? Perché non si può permettere che i migranti, su base volontaria, possano partecipare col loro lavoro alle esigenze della comunità?». A Genova, il cardinal Angelo Bagnasco ha dato un tetto a 70 profughi nel seminario arcivescovile: la diocesi ne alloggia in tutto 400. L’arcivescovo di Pompei, Tommaso Caputo, sta ospitando dodici donne e due bambini provenienti dall’Africa nella Casa Emanuel del santuario. L’arcivescovo di Firenze, cardinal Giuseppe Betori, ha chiesto «un ancor maggiore coinvolgimento di tutte le parrocchie»: ma già 100 persone sono alloggiate nelle strutture diocesane e parrocchiali fiorentine. Vicenza ed Avezzano accoglieranno famiglie di profughi in arcivescovado. E poi ci sono le mille realtà di base, come la parrocchia siracusana di Bosco Minniti che dal 2008 a oggi ha visto transitare 25.000 profughi, tutti accolti nei locali parrocchiali. Racconta il parroco, Carlo D’Antoni: «Nei momenti di massimo flusso dormono in chiesa, nei sacchi a pelo, e al mattino dopo si torna alle normali attività ecclesiastiche. Non tutti i fedeli capiscono, c’è chi vorrebbe

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“starsene in pace”, Ma questo è il nostro preciso dovere, la chiesa è la casa di tutti». Don Aldo Danieli, parroco di Paderno di Ponzano, Treviso, ha spalancato da tempo le porte della sala parrocchiale: centinaia di migranti si sono avvicendati in attesa di una sistemazione. La piccola parrocchia di Mezzano, Caserta, 400 abitanti, affitterà un monolocale. Si muovono anche Comunità come la Papa Giovanni XXIII che ha collocato 800 immigrati nelle diverse strutture sparse sul territorio nazionale. L’esercito disarmato del Papa combatte così la sua battaglia. LA REPUBBLICA Pag 17 “Processi più veloci per le nozze nulle”, Francesco cambia anche la Sacra Rota di Paolo Rodari Oggi la riforma: mano tesa a chi vuole risposarsi. Verso il superamento dei due gradi di giudizio Città del Vaticano. Il 4 novembre 2014 Francesco era stato chiaro: la Chiesa, aveva detto incontrando i partecipanti a un corso promosso dal Tribunale della Rota Romana, non faccia aspettare anni quanti hanno bisogno di sapere se il loro matrimonio è nullo o valido, è una questione di giustizia e di carità. E dalle parole, il Papa che già da arcivescovo di Buenos Aires soffriva per la lentezza con cui Roma rispondeva alle richieste di nullità presentate dalla sua diocesi, è passato ai fatti. Con due lettere «motu proprio» che vengono rese note in Vaticano questa mattina, va a riformare il processo canonico per quanto riguarda le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio, sia nel codice di diritto canonico che nel codice dei canoni delle Chiese orientali. Le due lettere, che si intitolano «Mitis Iudex Dominus Iesus» e «Mitis et misericors Iesus», dettagliano tempi e modi di una riforma che va a semplificare le procedure al fine di snellire l' intero processo di nullità e fatta salva ovviamente (al di là dei tempi) la certezza morale del giudice. Del tema ne ha dibattuto ampiamente anche il Sinodo dei vescovi sulla famiglia dello scorso ottobre. Tanto che, con ogni probabilità, la riforma papale seguirà le indicazioni del Sinodo, partendo dalle tre linee allora individuate: la cancellazione della necessità per le coppie di ottenere una sentenza conforme in appello, l'istituzione di giudizi monocratici e la potestà - per la verità molto dibattuta dai padri sinodali - per il vescovo diocesano di dichiarare nullo il matrimonio. Nel gennaio scorso, nell' inaugurare l'anno giudiziario della Sacra Rota, il Papa aveva toccato l'argomento dicendo che «il giudice, nel ponderare la validità del consenso matrimoniale, deve tener conto del contesto di valori e di fede - o della loro carenza o assenza - in cui l' intenzione matrimoniale si è formata». In poche parole, il tribunale dovrebbe appurare se i due coniugi conoscevano i contenuti della fede cattolica al momento della promessa di matrimonio. Il Sinodo, a larga maggioranza, si era espresso in particolare circa la necessità di superare la cosiddetta «doppia sentenza conforme». Oggi per arrivare al giudizio di nullità occorrono due giudizi: un "primo grado" e un "appello". Se le due sentenze non sono concordi, si ricorre alla Rota romana. Il Sinodo spiegò che la proposta del giudizio unico potrebbe rappresentare una strada percorribile «fatta salva la possibilità di ricorso da parte del difensore del vincolo o di una delle parti», nel caso in cui la sentenza offra spunti di opinabilità. Venne ritenuta dalla maggioranza poco percorribile, invece, l'ipotesi di un «procedimento amministrativo sotto la responsabilità del vescovo diocesano». Mentre più consensi aveva riscosso la possibilità di un «accordo sulla possibilità di un processo canonico sommario nei casi di nullità patente». Le domande di fondo che il Papa si è posto nella stesura dei testi di riforma hanno a che fare con le ferite di molte famiglie: come integrare nella comunità le persone separate in nuova unione? Come dimostrare nei fatti, e non più solo con gli annunci o con gli auspici che i divorziati, anche se risposati, continuano a far parte della Chiesa? Domande non semplici e a cui il Papa risponderà soltanto a Sinodo concluso. Ma intanto Francesco va a mettere in campo una riforma che risolve parte del problema: molte delle separazioni che colpiscono le famiglie, infatti, hanno origine da matrimoni non validi. Meglio, allora, arrivare velocemente alla dichiarazione di nullità piuttosto che scervellarsi circa l' opportunità o meno che queste coppie separate possano accedere all'eucaristia. Più volte Francesco ha parlato in pubblico della nullità. In diversi interventi, tra cui lo scorso gennaio nell' udienza ai partecipanti a un convegno di esperti di diritto canonico, aveva indicato la propria intenzione di rendere più snelli e agevoli i percorsi per chi chiede il

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procedimento di nullità per il proprio matrimonio e aveva annunciato possibili «interventi legislativi» per velocizzare le procedure. Anche durante la conferenza stampa tenuta tornando dal Brasile nell' estate del 2013 si era espresso in proposito, dicendo chiaramente che «il problema giudiziale della nullità dei matrimoni si deve rivedere, perché i Tribunali ecclesiastici non bastano per questo». IL FOGLIO Pag 1 Più soldi che famiglia. La chiesa tedesca si prepara a rompere con Roma Matrimoni nulli, c’è la svolta Roma. Il cardinale prefetto per la Dottrina della fede, Gerhard Ludwig Müller, ha avvertito che il rischio di scisma nella chiesa cattolica non è mai stato così forte. S'è rifatto al 1517, alla Riforma protestante, alle tesi inchiodate da Lutero a Wittenberg e alla reazione romana, per avvertire che sarebbe opportuno non dimenticare la lezione della storia. Ce l'aveva con i tedeschi suoi connazionali, con una conferenza episcopale che ha colto l'opportunità del Sinodo sulla famiglia per far sapere al mondo che noi non siamo una filiale di Roma e non sarà un Sinodo a dirci come dobbiamo comportarci qui. Frasi del cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco, presidente dei vescovi di Germania, descritto dai più come un novatore dell'ultim'ora. Chi lo conosce bene dice che lui è sempre stato bodenständig, un buon cattolico senza troppe ambizioni. Almeno fino alla promozione a Monaco (a scapito proprio di Müller) e, soprattutto, all'elezione a presidente della conferenza episcopale nazionale. Ora però ha smorzato i toni, spiega che le attese sono troppo elevate per quel che il Sinodo e il Papa deciderà. A ogni modo, parlare di un 1517 bis appare esagerato anche per i pochi oppositori alla linea dei novatori, che è quella di governo. Solo sette, forse otto vescovi su una ventina non vogliono fare la rivoluzione, ma in nome dell'unità episcopale preferiscono non uscire troppo allo scoperto, sperando che la buriana prima o poi passi. Anche perché, spiegano, in realtà lo scisma sotterraneo va avanti da almeno quarant'anni, fin dai tempi della Humanae Vitae, poi dalla questione dell'aborto e quindi dai dissidi fondamentali sulla cassa, i soldi, la Kirchensteuer. La tassa che se non paghi ti proibisce l'accesso in chiesa. E' la tassa pari al 9 per cento sull' imponibile Irpef (per fare un paragone con l' Italia) che ogni battezzato si vede prelevare mensilmente dal proprio conto corrente. Chi non la vuole pagare, deve far sapere allo stato che non intende più essere considerato credente. Chi non paga, è scomunicato. Da Roma hanno tentato più volte, timidamente, di convincere l' episcopato tedesco a rivedere il meccanismo della Kirchensteuer, trovandosi di fronte sempre un muro. Questione di sopravvivenza, ora che i fedeli sono ridotti al lumicino e non c'è più neppure il problema morale dei seminari occupati da qualche ipotetico presbitero con "vocazione per motivi economici", considerato lo stipendio di cui può beneficiare il clero tedesco. E se mancano i fedeli, mancano anche le entrate. Quelle stesse entrate che negli anni Ottanta hanno risolto più di un problema alle ammaccate casse vaticane. Per mantenere i cattolici, è il ragionamento, bisogna andare incontro alle loro attese. Che sono poi quelle di un ammorbidimento della pastorale e, perché no, della dottrina. Adeguarsi, insomma, allo Zeitgeist. Il primo passo è dare il via libera alla comunione ai divorziati risposati, pratica che in modo tacito è già abbastanza comune in più d' una diocesi a nord delle Alpi. E se il Sinodo non lo farà, come ha già detto Marx, in Germania andranno comunque avanti. Costi quel che costi. Questa mattina, intanto, saranno presentate due lettere motu proprio del Papa sulla riforma del processo canonico per le cause di dichiarazione di nullità del matrimonio. La Mitis Iudex Dominus Iesus riguarderà il codice di diritto canonico, mentre la Mitis et misericors Iesus riformerà il Codice dei canoni delle chiese orientali. Si prevede lo snellimento delle procedure, cancellando il secondo grado di giudizio se una delle parti non si oppone. IL MANIFESTO Parrocchie aperte, ancora poche risposte di Luca Kocci Bisognerà attendere qualche settimana per capire se l'appello di papa Francesco, durante l'Angelus di domenica scorsa a San Pietro, alle parrocchie e agli istituti religiosi affinché accolgano i migranti («Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni

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monastero, ogni santuario d'Europa ospiti una famiglia di profughi, incominciando dalla mia diocesi di Roma») avrà effetti concreti o coinvolgerà solo una minoranza delle comunità cattoliche, quelle che già da anni lavorano con i migranti. Dipenderà innanzitutto dai vescovi, che Bergoglio ha richiamato in prima persona («Miri volgo ai miei fratelli vescovi d'Europa, perché nelle loro diocesi sostengano questo mio appello»), e dalla loro volontà di stimolare i parroci. La maggior parte tace, almeno per ora, ma qualcuno ha già risposto: il vescovo di Avezzano (Aq), Santoro - quest'estate attaccato dai neofascisti di Forza Nuova che affissero di fronte alla cattedrale lo striscione «Per il vescovo prima i clandestini, per Forza Nuova prima gli italiani» -, ha annunciato che ospiterà a casa sua una famiglia di profughi; il vescovo di Cagliari, Miglio, ha cominciato ad organizzare l'accoglienza insieme alla Caritas sulla base della disponibilità ricevuta dalle parrocchie; e la Cei ha fatto sapere che se ne parlerà al prossimo Consiglio episcopale, il 30 settembre, per «individuare modalità e indicazioni da offrire a ogni diocesi». In Europa, i vescovi francesi hanno diffuso una nota in cui si dice che «questo appello ci stimola e ci invita a continuare e ad incrementa re le nostre azioni nei confronti dei rifugiati». Altri invece hanno già fatto sapere che non se ne parla proprio, come il cardinale Erdö, arcivescovo di Budapest e primate di Ungheria, il quale - in grande sintonia con il premier Orbán - ha spiegato che la Chiesa ungherese non può rispondere all'appello del papa perché dare ospitalità a migranti irregolari in transito è «illegale». «La Chiesa, parte di essa, può avere resistenze: sappiamo che scardinare il "comodismo" attuale, mettere in discussione la Chiesa benestante, che di questa condizione ha fatto un sistema di vita, è rischioso», dice al Mattino monsignor Nogaro, vescovo emerito di Caserta, da sempre in prima linea per i diritti degli immigrati. Poi ci sono i parroci. Molti sono stati spiazzati dall'appello del papa. Altri, pur facendo presenti le difficoltà pratiche - l'allestimento degli spazi - e amministrative, si dicono pronti. «Questo appello è un incoraggiamento per noi e sarà efficace anche per superare le perplessità di qualche parrocchiano», spiega don Ben Ambarus, prete romeno da sempre in servizio a Roma, parroco dei Ss. Elisabetta e Zaccaria a Prima Porta, la prima parrocchia visitata da papa Francesco. «Inoltre - aggiunge - se tutti si attiveranno, questo sarà il miglior antidoto ai luoghi comuni e agli slogan razzisti, perché i migranti incontreranno delle persone, racconteranno le loro storie e tanti pregiudizi svaniranno». Don Nandino Capovilla, parroco a Marghera: «È un invito alla concretezza che va accolto, non è più sufficiente organizzare corsi di italiano e partite di calcio». Don Tommaso Scicchitano, parroco a Donnici, periferia di Cosenza, che ha subito rilanciato su Face book l' appello («papa Francesco ha chiesto ad ogni parrocchia di accogliere una famiglia di profughi. Che facciamo? Gli diciamo di no?»): «Mi consulterò con il vescovo, sentirò la Prefettura, poi la prossima settimana convocherò un'assemblea in parrocchia per organizzarci». Don Andrea Bigalli, parroco a Sant' Andrea in Percussina (Fi): «Sono parole in linea con il Vangelo, non si può fare diversamente. Poi però bisognerà anche fermare la guerra, il traffico di armi e le mafie che gestiscono il traffico dei migranti». Con 130mila parrocchie in Europa, 27mila in Italia, migliaia di istituti religiosi e conventi, più tutti gli immobili riconducibili direttamente al Vaticano (ben di più delle due parrocchie dentro le Mura leonine che si sono già attivate), se tutte le comunità rispondessero positivamente, il problema ospitalità sarebbe risolto. Molti di questi spazi, però, sono già stati riconvertiti in alberghi e bed & breakfast. Tanto che il prefetto di Roma Gabrielli, nello scorso maggio, a margine di una riunione per trovare qualche centinaio di posti per i migranti arrivati in città, raccontò che furono proprio diversi istituti religiosi a dire no «perché vedono nel Giubileo maggiori possibilità di business». Chissà se adesso il papa avrà più successo. LA NUOVA Pag 9 Bergoglio cambia le regole sulla nullità dei matrimoni di Paolo Sacredo Mossa a sorpresa del Papa: processi più rapidi, meno costosi e senza la Sacra Rota. Novità attese sui divorziati risposati Roma. Il Papa anticipa il Sinodo ordinario sulla Famiglia di ottobre prossimo e snellisce i meccanismi che regolano le cause di nullità dei matrimoni. Una mossa a sorpresa. Oggi saranno pubblicate due lettere “motu proprio” a firma di Francesco che rivedono il processo sia nel codice di diritto canonico sia nel codice dei canoni delle Chiese orientali.

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I due documenti, “Mitis Iudex Dominus Iesus” e “Mitis et misericors Iesus”, sono il frutto di una commissione ad hoc voluta dallo stesso Bergoglio a metà 2014. Il Papa argentino ha così inteso raccogliere gli spunti che sono arrivati dal Sinodo straordinario sulla Famiglia, che si tenne in Vaticano ad ottobre scorso. Soprattutto nel questionario inviato in tutte le diocesi prima dell’inizio dei lavori e con cui si raccoglievano umori e suggerimenti dei fedeli, dei sacerdoti e dei vescovi, in molti lamentavano la lunghezza dei processi di nullità, a volte fino a cinque anni. Le conseguenze, soprattutto per i figli, a volte sono tutt’ora pesanti. La riforma che sarà presentata oggi, dunque, dovrebbe prevedere la possibilità di eliminare il secondo grado di giudizio per rendere definitiva la sentenza, nel caso le parti siano concordi. Ad oggi, per ottenere il riconoscimento della nullità è sempre necessaria una doppia sentenza dello stesso tipo. Dunque, potrebbe saltare in alcuni casi il passaggio finale alla Rota romana, a cui vengono recapitati i ricorsi da tutto il mondo e dove si registra un notevole accumulo di lavoro visto che tanti atti da lingue straniere devono essere tradotti in italiano. Probabilmente poi i giudizi saranno monocratici e non collegiali, e anche questo dovrebbe andare nella direzione di abbreviare i tempi. Non è escluso poi che sia ridisegnata la geografia delle commissioni che devono istruire le domande di nullità, questo perché alcune sono gravate di un lavoro eccessivo mentre altre si vedono arrivare poche richieste all’anno. Inoltre potrebbero essere dati più poteri al vescovo che così avrebbe un ruolo decisivo nel dichiarare nullo un matrimonio precedentemente celebrato. D’altronde il Sinodo di ottobre scorso ha costituito una svolta nel modo di considerare la famiglia, e il Papa vuole ascoltare tutte le realtà, coinvolgendo anche i soggetti più deboli. Non dovrebbero esserci invece novità sulle motivazioni che portano di fronte ai giudici rotali, motivazioni che spaziano dal fatto che l’unione non è stato consumata alla «immaturità emotiva» al momento della promessa nuziale. Già Benedetto XVI cercò di rendere più chiare alcune norme in merito. Intervenne così la Cei che fissò a 2.992 euro massimo l’onorario per gli avvocati delle parti, a cui si aggiungono gli onori fiscali. Fino a una decina di anni fa c’era chi si svenava economicamente pur di far cancellare il proprio matrimonio, e alla fine dell’iter legislativo l’esito non sempre era favorevole. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO LA REPUBBLICA Pag 25 La libertà di essere madri di Cristina Comencini Caro direttore, quattro anni fa, il 13 febbraio 2011, mi è capitato di parlare davanti a quattrocentomila persone a Piazza del Popolo a Roma, esperienza che non pensavo avrei mai fatto nella vita. Nel mio discorso citai Angela Merkel. Io, una donna di sinistra, prendevo a esempio una grande statista di centrodestra. Il primo atto politico della cancelliera insediata al governo, dicevo, era stato di impegnarsi a triplicare il numero degli asili nido del Paese. Atto concreto importante: tutte le donne e gli uomini sanno che con pochi asili nido, che è la realtà italiana, non si può allo stesso tempo lavorare e fare figli. Atto simbolico: una società senza donne e senza figli non può svilupparsi. Mi sembrava che in quella decisione ci fosse il senso di un grande mutamento che investiva la politica. Oggi la decisione della Merkel di accogliere uomini, donne e bambini in fuga dalla guerra, mi pare un atto politico che va nella stessa direzione: pensare a un'Europa in cui l'allargamento demografico sia linfa vitale dello sviluppo e della democrazia. In Italia il calo delle nascite ha toccato il picco più basso dall' Unità e l'occupazione femminile è tra le ultime d'Europa: le donne non possono lavorare né avere figli. Dal 2011 c'è stato un grande cambiamento nel nostro Paese: le donne sono al governo, negli organismi dirigenti, decidono, ma la stragrande maggioranza di loro è amputata di una parte fondamentale della libertà, quella di lavorare e procreare. Non è solo un problema femminile, lo sarebbe se la società fosse rimasta ferma e la procreazione fosse un compito affidato alle donne nelle case, com'è stato per millenni. La procreazione è la base, il fondamento del nuovo Paese costruito da uomini e donne liberi e differenti. L'accesso delle donne nella società, la loro libertà, non comporta solo una condivisione del potere, ma una trasformazione del vivere comune, l'idea che un figlio è importante

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come o più di un incarico, che le donne non vogliono rinunciare al loro corpo, ai loro pensieri, ai loro sentimenti, alla loro storia, per essere uguali agli uomini, per tenere le redini della società. Le redini le vogliono, ma il cavallo comandato da due deve cambiare andatura. Ma la procreazione è un problema anche degli uomini perché per la prima volta nella Storia possono non affidare solo alle donne i loro bambini, il loro futuro. Un futuro in cui fare figli e accogliere famiglie in fuga sia, come ha ben visto Angela Merkel, un atto di forza e non di debolezza. CORRIERE DEL VENETO Pag 7 Università, scontro sul numero chiuso di Renato Piva Migliaia di veneti respinti ai test, Zaia e gli studenti vogliono abolirlo. I rettori dicono no Venezia. Numero chiuso, questione apertissima. E partiti in campo, per scambi di vedute opposte che si rinnovano di anno in anno e hanno in settembre il mese tradizionalmente caldo, decisamente definiti. Da un lato i figli del numero chiuso, gli studenti costretti a confrontarsi con filtri e sbarramenti all’accesso ai corsi di laurea che l’università ha alzato di riforma in riforma, fino alla formula dei «posti contati»: tradotto, migliaia di ragazzi che non potranno studiare quel che desiderano e dovranno ripiegare su altro. Dall’altro i rettori, che, compatti, difendono quella scelta, ritenendo che serva proprio a «proteggere», rendendolo effettivo, quel diritto allo studio universalmente garantito che, per la grande maggioranza di chi sta sui banchi degli atenei viene invece incrinato dai lucchetti all’ingresso dei percorsi di studio. Di nuovo (anche qui, però, la novità è piuttosto relativa) c’è che con gli studenti del «tutto aperto» si è schierato il presidente del Veneto. Stamattina, a Padova, poco meno di 2.500 studenti giocheranno la partita del test d’ingresso a Medicina e Chirurgia. I posti in palio sono 400, quindi i ragazzi con lo zaino colmo della logica dell’highlander Mel Gibson: «Ne resterà uno solo». Per uno che vince e lavorerà per camice bianco e bisturi, quattro dovranno guardare altrove. Duemila scontenti, nessuno sconto. Altri 2.500 subiranno identica sorte a Verona: stesso test, stesse aree di studio in palio, con 1.165 posti disponibili per 3.686 richiedenti. A Padova, in mattinata, tre sigle del sindacato studentesco hanno organizzato una protesta di fronte al complesso Vallisneri, dipartimento di Biologia, sede dell’esame. Link Coordinamento, Unione degli studenti e Rete della Conoscenza ribadiranno il no al numero chiuso, rivendicando un diritto, a loro dire, negato. «Idealmente sarò con loro a protestare - le parole del governatore Luca Zaia - Chiedono l’ovvio, ciò che anch’io chiedo da novembre 2013: un’università aperta a tutti, diritto di studio uguale per tutti e selezione rigidissima fatta sugli esami, sulle medie voto, in una parola sulle capacità dimostrate, non sulla base di insulsi quiz». Per la città del Santo gli studenti hanno in mante un flash mob che dovrebbe prendere forma verso le 11 del mattino. Nulla di violento, come si è augurato il presidente della Regione, che sugli sbarramenti ai corsi di studio ha parole nette: «Con il numero chiuso si rischia, anzi si è certi, che giovani meritevoli vengano esclusi semplicemente dal caso, mentre giustizia vorrebbe che tutti potessero partire alla pari per poi essere selezionati per come studiano e per i risultati che ottengono». Tutto chiaro, allora? Nicola Sartor, rettore dell’università di Verona: «Liberalizzare gli accessi a tutti i corsi di laurea significherebbe dover decuplicare risorse che non abbiamo. Sarebbe poco serio nei confronti degli studenti ammetterli a dei corsi per i quali non ci sono né aule sufficienti né docenti». Ideale e reale: i conti si fanno secondo le tasche. Resta il problema del criterio di selezione: i test d’ingresso premiano i migliori o sono un giro alla roulette? «Il sistema di selezione - riprende Sartor -, che non è basato sul caso ma sul merito come previsto dalla nostra Costituzione, ci consente di mantenere standard di eccellenza e migliorarli per offrire ai nostri studenti un’esperienza di studio utile per gli sbocchi professionali». Il filtro, insomma, è un primo indirizzo. Se l’obiettivo è formare ma anche preparare a una professione, l’università non fa altro che applicare in anticipo la regola del mercato: pochi posti, tanta concorrenza, avanti i più «forti». Gabriele Gazzaneo, Sindacato degli studenti di Padova, fra l’altro studente di Medicina, spiega perché tanti come lui non la pensino così. «In generale siamo contro lo strumento del numero chiuso. E’ un ostacolo al diritto di studio inteso in senso totale: limita le aspirazioni degli studenti e non è utile. E’ stato introdotto per motivi e problemi, quello dei limitati spazi all’interno delle università, che non ha risolto». Gazzaneo usa la «sbarratissima» Medicina come esempio. «Allo studente si può dire che con il numero

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chiuso c’è più sicurezza dal punto di vista degli sbocchi lavorativi. In realtà di più c’è solo il precariato, perché alla programmazione dello sbarramento in accesso segue il blocco delle scuole di specialità, quello delle assunzioni dettate dal piano sanitario regionale, infine il blocco del turnover nel pubblico sul piano nazionale». Gli studenti che oggi scendono in piazza chiedono quindi che la materia «venga affrontata in maniera organica e che si tenga conto del sistema ateneo e sanitario nel suo complesso». Vale più o meno lo stesso per Economia: 1.396 iscritti a Venezia per 510 posti; Psicologia: 900 posti a Padova per 2.921 che vorrebbero entrare; Ingegneria e Scienze: 775 richieste a Verona, per 176 accessi. Non è un bel panorama, certo. Cambierebbe aprendo tutto? Giuseppe Zaccaria, rettore uscente a Padova, non fa sconti all’immaginazione: «È un’utopia pensare che l’apertura indiscriminata all’accesso ai corsi soddisfi il diritto allo studio degli studenti, al contrario rischierebbe di creare situazioni strutturalmente insostenibili e penalizzanti proprio per gli studenti stessi». Da Venezia, il parigrado Michele Bugliesi calpesta le stesse orme: «Chi amministra deve ragionare in modo pragmatico. Dobbiamo avere risorse sufficienti a garantire il diritto allo studio efficace ed efficiente, che è altrettanto sacro di quello universale». In coda un’eccezione. Vox bovis, sindacato studentesco padovano, parla con la voce di Giuseppe Solazzo. «E’ utile che dall’università escano duemila laureati in Psicologia se il fabbisogno nazionale è tra cento e 150? Il principio del numero chiuso, secondo noi, è giusto nella misura in cui si unisca la richiesta di mercato alla disponibilità delle università». Oggi, intanto, c’è chi protesta . Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO Pag 9 Mose, cura dimagrante. Via in 30 dal Consorzio di Paolo Navarro Dina Il “triumvirato” al vertice ha deciso di ridurre di un quarto i dipendenti. I dirigenti passeranno da 7 a 2. Cauti i sindacati Ora è ufficiale. Gli incentivi all’esodo sono già stati avviati. Per il Consorzio Venezia Nuova è arrivata una nuova svolta. Dopo anni di "vacche grasse", ora anche per l’ente concessionario che sta realizzando il sistema delle dighe mobili per la laguna di Venezia, è arrivato il momento dei licenziamenti. Un altro segno dei tempi. Una "scrematura" degli organici che è anche figlia dell’inchiesta giudiziaria sul "sistema Mose" nel Veneto. Adesso, proprio in questi giorni, il triumvirato che guida il Consorzio (i commissari Francesco Ossola, Luigi Magistro e Giuseppe Fiengo) hanno dato il via ad una trattativa con i sindacati ipotizzando una "mini-rivoluzione" con 30 lettere di incentivo all’esodo con tutte le garanzie del caso (contratti di solidarietà, cassa integrazione). Una decisione ormai già presa e che è già stata illustrata ai sindacati. In sostanza, quella che si prospetta è una prima "cura dimagrante" sulla base di un avvio alla fase conclusiva delle opere del Mose, previste per il giugno del 2018, e che - sia pure manchino tre anni - non necessiterebbe di un numero considerevole di operai e tecnici. Attualmente i dipendenti del Consorzio Venezia Nuova sono circa 120. Una situazione che i sindacati, soprattutto Cisl e Cgil, stanno vagliando con cautela, ma anche con la consapevolezza del momento. Non a caso proprio nel luglio scorso, in occasione della visita al Mose del ministro per le Infrastrutture, Graziano Delrio, i lavoratori della Rsu (le Rappresentanze sindacali unitarie) gli avevano consegnato una "lettera aperta" nella quale sottolineavano la necessità di avviare un serio Piano industriale che offrisse garanzie per i dipendenti, anche nell’eventualità di sacrifici. «E in questo quadro ora si darà il via alla trattativa - sottolineano i sindacalisti Riccardo Vavasori (Cisl) e Pier Giorgio Galvani (Cgil) - Apriamo il confronto. E capiremo». Ma la cura dimagrante non riguarderà solo i lavoratori, ma anche i dirigenti. Secondo un piano che verrà presentato ai lavoratori, i tre commissari punterebbero anche ad un drastico ridimensionamento delle figure di vertice. In questo quadro si passerebbe da sette a due dirigenti. E tra questi rimarrebbe al suo posto, l’attuale direttore del Consorzio, Hermes Redi, per le sue provate conoscenze sul progetto. Oltre a lui rimarrebbe il responsabile amministrativo riducendo di gran lunga il numero delle cosiddette apicalità, andando così a chiudere il cerchio con i tre

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commissari. «Non ci sono tempi certi - chiariscono i due sindacalisti - Tecnicamente siamo ancora agli inizi, la strada è lunga. E di certo se si arriverà ad una conclusione di un eventuale iter sui licenziamenti non sarà che prima della prossima primavera». Il primo incontro sindacale ufficiale dopo le prime avvisaglie nelle scorse settimane si terrà domani. Sarà la prima occasione di scambio di informazioni su un piano di ridimensionamento che per la prima volta va a toccare così pesantemente le maestranze del Consorzio Venezia Nuova dopo l’arrivo dei commissari inviati dal Prefetto di Roma su richiesta dell’Autorità nazionale anticorruzione entrata in gioco dopo la gestione del presidente Mauro Fabris succeduto a Giovanni Mazzacurati travolto dall’inchiesta sul sistema Mose. L’incontro si terrà in mattinata e vedrà di fronte il commissario Luigi Magistro e le rappresentanze sindacali unitarie per primo scambio di informazioni. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA REPUBBLICA Pag 4 “Sono islamici, via dalla canonica”, i fedeli fermano il prete pro-rifugiati di Jenner Meletti Nel Vicentino l’assemblea dei parrocchiani boccia l’ospitalità Valle di Castelgomberto (Vicenza). Gli pesa ancora sul cuore, quell'«assemblea avvelenata ». «Non me l'aspettavo proprio. Volevamo ospitare sei, al massimo dieci profughi in una canonica abbandonata da anni. Ne abbiamo discusso in assemblea, nella chiesa di Santa Cecilia. Quasi tutti hanno detto no. "'Mio nonno ha costruito quella canonica per i preti, non per i musulmani"', ha gridato uno di loro». Don Lucio Mozzo, 63 anni, parroco di Valle e di Trissino, è ancora scosso. Una chiesa così piena - 250 persone - la vede solo a Natale. Anche mercoledì sera era colma ma quando una ragazza ha mostrato la sua maglietta con la scritta «Chi ha paura muore tutti i giorni » e ha detto che lei i migranti li avrebbe accolti, «subito si sono alzati - racconta il parroco - i buu e le urla, come allo stadio». «Per fortuna, domenica dopo pranzo, mi è arrivato il primo messaggino. "Don Lucio, il Papa la pensa come te". Spero che con l'aiuto di Francesco le cose cambino. Ma ho i miei dubbi». Boschi e annunci di sagre, nel paese di Valle, 1.200 abitanti. La canonica è grande, perché ospitava non solo parroco e perpetua ma aveva anche stanze per i missionari. «L'edificio ci è stato chiesto - racconta don Lucio Mozzo - dall' associazione Giovanni XXIII, quella fondata da don Oreste Benzi, per ospitare migranti in attesa di esame, soprattutto donne e bambini. Non abbiamo voluto decidere solo noi, come Consiglio pastorale. Ci sembrava giusto ascoltare il parere dei fedeli che dovranno convivere con quelle persone. Ma il confronto è stato quasi impossibile. Io ho detto che il cristiano, di fronte a chi ha bisogno, non può guardare da un'altra parte. Non può dire soltanto "prima i nostri", come annunciano i nostri sindaci. "Prima i nostri" può andare bene ma non può significare "nulla per gli altri". Onestamente, quelli della Giovanni XXIII hanno spiegato che donne e bimbi sarebbero stati la maggioranza, ma non potevano escludere la presenza di uomini. E allora tanti si sono messi a protestare. "Fate finta di consultarci e invece avete già deciso. La canonica sta fra la scuola elementare e il parco giochi dei bambini. I nostri piccoli non potranno più uscire di casa". Non si è votato, naturalmente, ma almeno l'80% dei miei parrocchiani ha detto no». Non è finita. Domani sera si riunirà il consiglio pastorale, nella parrocchia di Trissino. Quelli di Valle stanno organizzandosi per andare a protestare. «Guardiamo la televisione anche qui - raccontano Gigi Poletto dell'osteria "El punaro" - e assieme a lui Romina, Davide, Francesco, Benni - e sappiamo cosa succede quando arrivano questi profughi. Gli extracomunitari sono qui da vent' anni, ci sono serbi e cinesi, brasiliani, sudamericani Ci sono bambini di 12 nazionalità, a giocare nel parco. Basta un adulto per sorvegliare tutto. Non c'è mai stato razzismo, in paese. Ma questi stranieri si sono integrati qui con umiltà, non ci sono stati imposti. Dietro di loro ci sono quelli che fanno business sulla loro pelle. In assemblea ci hanno anche detto che se non prendiamo questo piccolo gruppo magari la prefettura requisisce un hotel o delle case e ce ne manda cinquanta. Questa è una vera minaccia». Il vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, ospita

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già 4 migranti nel palazzo vescovile. A febbraio ha lanciato un appello perché i 22 vicariati che guidano le 355 parrocchie della diocesi ospitino «almeno una famiglia ». Non solo alloggio, ma anche assistenza continua di volontari esperti. Finora hanno risposto 7 vicariati. «Siamo rincuorati - dice oggi - dall'appello del Papa. E chiediamo che anche le parrocchie possano dare una risposta positiva. Possono essere comprensibili timori e titubanze ma non possiamo permettere che il cristiano ceda alla paura". Don Lucio Mozzo sta pensando al Consiglio di domani sera. «Dopo quell'assemblea velenosa, speriamo di poter discutere non con la pancia ma con intelligenza, cuore e fede. Ma c'è un punto fermo: un cristiano non può chiudere la porta a chi ha bisogno. Lo spiegheremo anche a quelli che, fedeli o no, verranno a contestarci da Valle. Forse il nonno che ha costruito la canonica non pensava davvero che sarebbe stata usata da musulmani, ma certamente oggi obbedirebbe al Papa». Davanti alla chiesa di Trissino c'è un monumento in bronzo "All'Emigrante". «La speranza sia sempre più forte della paura», c'è scritto. Sembra un appello di papa Francesco: la firma è quella di Tacito. IL GAZZETTINO Pagg 6 – 7 Profughi, a Nordest 1 su 3 vorrebbe le frontiere chiuse di Natascia Porcellato e Annamaria Bacchin Ma secondo sei persone su dieci la scelta è sbagliata: tutti i Paesi devono accogliere L’arrivo dei migranti è una questione europea e tutta l’Europa se ne deve occupare e fare carico: questa è l’indicazione, chiara e precisa, che emerge dai dati pubblicati oggi sul Gazzettino. Secondo le elaborazioni di Demos per l’Osservatorio sul Nord Est, infatti, il 63% degli intervistati ritiene sbagliata la scelta di alcuni paesi di chiudere le frontiere perché tutti devono fare la loro parte. Il 33%, invece, è sul fronte opposto e giudica corretta questa posizione perché la questione deve essere affrontata e risolta nei luoghi in cui le persone giungono. Dopo le insistenze di Italia e Grecia; dopo le immagini dei corpi senza vita in mare o nei tir; dopo la costruzione di muri e reti. Alla fine: i paesi europei stanno rivedendo le passate rigidità. Si parla oggi di ripartizione dei migranti e di diritto d’asilo Europeo. I dati presentati oggi sono stati rilevati a luglio, prima dei fatti più recenti, ma appaiono importanti perché sottolineano quanto fosse già diffusa la coscienza che la chiave è nella cooperazione. Oltre 6 intervistati su 10, infatti, sostengono che sia sbagliata la scelta di chiudere le frontiere perché ognuno deve fare la sua parte. Il 33%, invece, giustifica la scelta e dichiara che il problema è del Paese in cui arrivano e non del Continente in cui arrivano. Confrontando queste posizioni con quanto rilevato in Italia, emerge come le tendenze siano sostanzialmente simili, seppur con accenti diversi. Infatti, la condanna alla chiusura delle frontiere appare più ampia in Italia (73%) che in Veneto, Friuli-Venezia Giulia e in provincia di Trento (63%), mentre di converso la giustificazione di tale scelta è più accentuata nel Nord Est (33%) che nel complesso della penisola (25%). Come si caratterizzano del punto di vista sociale i due orientamenti? Precisiamo che il giudizio negativo sulla chiusura delle frontiere in pochi settori scende sotto il 60% e ancora più raramente sotto la soglia della maggioranza assoluta. In ogni caso, è tra gli under-25 (66%) e tra gli adulti tra i 55 e i 64 anni (72%) che si raggiungono i livelli più alti di condanna a questa decisione. Da contro, è tra le classi d’età dei giovani-adulti (25-44 anni) che tende ad aumentare la quota di intervistati solidali con chi ha fatto questa scelta (39-36). Consideriamo, poi, il fattore religioso. In questi mesi sono risuonati forti i richiami del Papa alle coscienze su questo tema e nel territorio è ben visibile l’azione di Parrocchie e associazioni (anche) religiose nella gestione quotidiana dei migranti. Tra quanti vanno assiduamente alla Messa, cresce la condanna per la chiusura delle frontiere (69%), mentre la giustificazione di questa scelta tende ad ampliarsi tra quanti frequentano i riti saltuariamente (36%) o non sono praticanti (40%). Infine, non possiamo ignorare il fattore politico, dato che negli ultimi anni, quello dell’immigrazione è stato un tema largamente utilizzato – e talvolta strumentalizzato- dai partiti per la raccolta del consenso. Gli elettorati che appaiono più divisi sono quelli di Forza Italia e della Lega. Tra gli azzurri, il 53% giudica sbagliata la scelta di chi ha chiuso le frontiere; ma il 46% invece la sostiene. Tra i leghisti, il 48% la condanna mentre il 52% invoca la stessa azione anche per il nostro Paese. Invece, è tra i sostenitori del Pd (71%), del M5s (69%) e delle formazioni minori (72%) che tende a farsi più ampia la disapprovazione rispetto alla chiusura delle

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frontiere, così come tra quanti si collocano nell’area grigia dell’incertezza e della reticenza (67%). Secondo l’Alta commissione per i rifugiati dell’Onu, dal 2011 ad oggi in Europa, è la Germania ad avere il record di richieste d’asilo: 547 mila (676 richieste ogni 100 mila abitanti) anche se il primato, in percentuale, appartiene alla Svezia che registra (su un totale di 228mila) 2mila 359 richieste ogni 110 mila abitanti. Per la Francia 255 mila richieste (386 ogni 100mila) mentre in Ungheria sono giunte 120mila richieste: 1310 ogni 100mila; in Turchia 209 mila (276 ogni 100mila). L’Italia, 155mila richieste d’asilo in totale in questi 5 anni (254 ogni 100mila abitanti), presenta problemi noti a Nordest. In Veneto il 60 % delle pratiche viene respinto perché i profughi non posseggono gli elementi per il diritto d’asilo secondo la convenzione di Ginevra (che protegge i perseguitati per motivi politici, etnici o religiosi) e nemmeno è applicabile la “protezione sussidiaria” per chi scappa da un Paese in guerra che si risolve in lasciapassare per motivi umanitari di due anni un altro 20%. I “dinieghi” vengono però impugnati al 65% e nel frattempo la persona va mantenuta e le spese legali pagate con soldi pubblici. Nel nostro Paese nel 2014, su 13.122 dinieghi sono stati presentati 8.420 ricorsi: i magistrati ribaltano il parere delle commissioni sette volte su dieci. Un dato su tutti: a Gorizia, sede friulana, nel 2014 sono state concesse 120 richieste di asilo, l’8% delle domande presentate. E’ il tema che in queste ultime settimane sta riempiendo le prime pagine della cronaca italiana ed internazionale. A Nordest, intanto, un terzo degli intervistati è convinto che le frontiere dovrebbero essere chiuse ai profughi imitando alcuni paesi del Vecchio Continente. «Questo accade, probabilmente, perché il Nordest è un territorio di confine - commenta Sara Tonolo, Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali e Professoressa di Diritto Internazionale all’Università di Trieste - da lungo tempo sottoposto al transito dei migranti alla luce dei recenti eventi storici che li hanno prodotti; quali ad esempio la guerra che ha condotto alla dissoluzione della ex Jugoslavia e all’affermazione della statualità del Kosovo». Una "chiusura" maggiormente accentuata tra i giovani. «Credo si tratti di un atteggiamento dettato dalla congiuntura economica e dalla loro difficoltà di trovare lavoro, che li induce a considerare lo straniero come un possibile concorrente nell’acquisizione delle risorse economiche». Un’impressione diffusa sul tema migranti è che l'Italia stia facendo tutto da sola. Ma è davvero così? «L'impressione è palesemente errata confrontando i dati dell'accoglimento o della pressione migratoria in Italia con quelli relativi ad altri paesi, segnatamente la Germania. La stessa opinione pubblica, di fronte ai presenti fatti di cronaca inizia a prendere consapevolezza della reale dimensione della situazione. Tale impressione, tuttavia, può derivare dalle circostanze spesso drammatiche dell'accesso al nostro Paese via mare, che impone l'obbligo, derivante dall'art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, di prestare soccorso alle persone in pericolo. Si aggiunge una certa impreparazione culturale, poi, per ragioni storiche, della nostra opinione pubblica a convivere con i “diversi" e la indiscutibile improvvisazione e disorganizzazione in più casi dimostrata dall'azione di Governo e della Pubblica Amministrazione per gestire una situazione delle attuali dimensioni». L'Europa come interviene? E come dovrebbe intervenire? «L'azione dell'Unione Europea, finora limitata a qualche intervento finanziario o di sostegno logistico, si sta finalmente orientando verso soluzioni organiche, in specie per la ripartizione tra i paesi membri di quote di richiedenti asilo o, in alternativa,una contribuzione finanziaria, e soprattutto la revisione delle cosiddette regole di Dublino. In base ad esse, sino ad oggi, il richiedente asilo, che non può essere respinto alla frontiera, terrestre o marittima che sia, in forza della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati, deve ottenere, dopo l'accertamento della identità e provenienza, la valutazione della sua domanda nel paese di primo ingresso. Ciò al contempo dà luogo, nel nostro Paese a un numero elevato di domande, e conseguenti tempi lunghi per il loro esame, e alla tendenza di molti tra gli interessati all'accoglimento, di sfuggire a tali accertamenti per raggiungere un paese più gradito per

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l'ottenimento della qualifica di rifugiato e conseguente residenza. Una ripartizione dei richiedenti tra i paesi membri dovrebbe porre rimedio a tale situazione». Pag 17 Il Nordest accogliente e solidale manifesta più disagi del resto d’Italia di Adriano Favaro Il Nordest che appare dall’ultima indagine del nostro Osservatorio è diverso da quello visto e raccontato in certi talk show televisivi o da qualche frettoloso titolo. Riflettendo su immigrazione e frontiere aperte (o chiuse) si scopre un territorio che ragiona e propone seriamente condivisione e responsabilità europee: sei su dieci credono questo. Una percentuale uguale a quelle della Germania, dove i tedeschi di “Frau Merkel” sostengono di poter accogliere, loro, tantissimi profughi. Si potrà rilevare che la Germania fino a poco tempo fa, ufficialmente, non appariva così ospitale ed è una critica che può essere accolta. Tuttavia chi avesse voluto leggere i movimenti sociali di solidarietà in quel paese li poteva scoprire nati già nel 2013, con i grandi drammi dei naufragi che provocarono centinaia di morti davanti Lampedusa. Poiché la verità delle cronache internazionali dei fenomeni collegati a migranti e profughi (o anche clandestini) è spesso carica di emotività - e quindi poco confrontabile con il peso che l’opinione pubblica davvero dà agli eventi - il dato che questa indagine offre è quasi “congelato”. Il nostro rilevamento è dello scorso luglio: pulisce così il valore delle risposte dalle ultime storie, alcune dai forti colori compassionevoli. E dice chiaro che il Nordest da una parte (maggioranza, 63 per cento) invoca un ruolo internazionale, europeo, di fronte all’accoglienza degli immigrati. Ma anche che un’altra parte non piccola, 33 per cento (uno su tre) è pronta a frontiere chiuse, sbarramenti, muri e tutto quello che serve per evitare le invasioni. Quest’area del Paese è tra le più accoglienti e disponibili e la carica del volontariato e della solidarietà è ancora potentissima, anche se ora lascia vedere al suo interno più ”disagio” del resto d’Italia. Colpa dell’economia inquieta, dei centri storici spesso preda di bande di colore il Nordest che vuole chiusa la sua frontiera è anche un nordest a trazione soprattutto leghista, fatto di giovani adulti, ultra 65enni e di non praticanti. Ma – attenzione - nessuna etichetta potrebbe essere corretta. O definitiva. “Der Spiegel”, attento settimanale tedesco ha scritto che non sarà una favola estiva questa della voglia di accoglienza che pare aver colpito la Germania, ricordando contemporaneamente come per ospitare centinaia di migliaia di persone servano investimenti milionari, “soldi ben spesi per il futuro di quel paese sempre più vecchio”. Ma ha anche ricordato come la Germania si fosse fatta illusioni negli anni Sessanta quando sosteneva che i “Gastarbeiter” italiani e turchi erano ospiti temporanei nelle catene di montaggio delle fabbriche meccaniche. Si sa come è andata a finire: quei lavoratori adesso sono “pensionati tedeschi”. Il rifugio tedesco non è un fatto da trascurare, anzi; su quel processo probabilmente si riorganizzerà una parte della nuova Europa. Di fronte a questo il Nordest sa che dovrà rispondere ad alcune domande politiche, come quella del proprio invecchiamento e di chi pagherà le pensioni fra 20-30 anni, della carenza di certa mano d’opera, della creatività che altre culture porta, così come della sicurezza sociale e degli equilibri economici. Per adesso risponde che si può “aggiungere un posto a tavola” ma che la mensa non deve essere solo quella della parrocchia sotto casa, anzi. CORRIERE DEL VENETO Pag 2 Profughi in canoniche, conventi e vicariati. I parroci rispondono all’appello del Papa di Michela Nicolussi Moro Il vescovo Pizziol: “Vanno accolti, ma rispettino le nostre regole”. Il “no” di 200 fedeli Venezia. Dopo l’appello di Papa Francesco ai curati («ognuno accolga una famiglia di profughi»), che segue di poche ore quello lanciato dal patriarca di Venezia, Francesco Moraglia («Ciascuno di noi, con la sua comunità, è chiamato in causa»), le 2083 parrocchie del Veneto tornano a mobilitarsi per trovare ulteriori spazi ai migranti. La Chiesa, con le Caritas che rimediano alla mancata collaborazione degli enti locali, è in prima linea da anni, cioè dall’inizio dell’«emergenza disperati del mare», però le parole del Pontefice hanno messo in moto anche i centri più piccoli. «Fin dalla scorsa Quaresima, quando monsignor Beniamino Pizziol aprì le porte di un appartamento in

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Vescovado a quattro richiedenti asilo africani, abbiamo deciso di attivare entro l’anno giubilare almeno una struttura di accoglienza in ognuno dei 23 vicariati - dice don Alessio Graziani, portavoce della Diocesi di Vicenza, 355 parrocchie -. Sette hanno già raggiunto l’obiettivo, ricorrendo pure a canoniche chiuse e al dormitorio notturno per i senza fissa dimora, che d’estate è meno affollato e dispone di 60 letti. Stiamo inoltre cercando volontari che agevolino l’integrazione». «I profughi vanno aiutati, ma devono imparare la nostra lingua e le nostre regole», precisa il vescovo Pizziol. Intanto ne hanno accolti altri le parrocchie di Aracoeli, Alonte, Poleo e del Sacro Cuore a Schio. C’è tuttavia chi frena, come Valli di Castelgomberto: don Lucio Mozzo voleva sistemare una decina di migranti nella canonica ormai vuota, ma 200 fedeli gli hanno opposto un secco «no». Domani la riunione decisiva, su cui potrebbe pesare il monito del Papa. Anticipato dalla Chiesa di Treviso («siamo partiti prima»), 263 parrocchie più le 162 di Vittorio Veneto, Diocesi a parte, da un paio d’anni impegnata nell’accoglienza diffusa. Per esempio con la residenza dismessa di una congregazione di religiose a Onè di Fonte, dove alloggiano 40 migranti di quattro nazionalità, fra i 17 e i 34 anni, seguiti da Caritas, mediatore culturale e 30 volontari. «Il problema maggiore - rivela il parroco, don Daniele Michieli - è trovare loro un’occupazione, così insegniamo l’italiano e li facciamo giocare a calcio nei campi della parrocchia. Molti aspettano il via libera per raggiungere i familiari in Spagna e in Germania». Qualche noia iniziale con la «solita resistenza pregiudiziale di un ambiente di mentalità leghista» viene invece segnalato da don Fabio Bertuola, parroco di Maser, che nella ex canonica ha ricavato 16 posti. «Dopo i primi brontolamenti, la maggior parte dei concittadini refrattari ha cambiato idea e qualcuno ha iniziato anche a dare una mano. Ora i profughi sono sempre più autonomi nelle pulizie, nella preparazione dei pasti e con l’italiano. Credo che la maggioranza resterà in zona». Come tre dei dieci rifugiati sistemati in una canonica di San Pio X: due lavorano in un’azienda di Monastier, il terzo fa il lavapiatti in un ristorante di Roncade. Gli altri vanno a scuola o si sono specializzati in Informatica. E dopo l’appello del Papa, la Diocesi ha ricevuto la disponibilità da ulteriori sei parrocchie e da dieci famiglie. Al lavoro pure Padova - 460 parrocchie -, dove la Caritas e una decina di curati stanno seguendo una ventina di nuclei di 4/6 richiedenti asilo l’uno. «Tutti devono essere responsabilizzati - avverte don Luca Facco, direttore della Caritas - non ci si può girare dall’altra parte e dire che il problema non ci riguarda. Anche le comunità più povere stanno collaborando, mettendo a disposizione appartamenti, canoniche, case dei cappellani e delle suore ormai chiuse». A Santa Tecla di Este si tengono corsi di italiano e di «usi e costumi italiani», per favorire l’inserimento dei nuovi arrivati. A Venezia - 128 parrocchie più le 68 della Diocesi di Chioggia -, il Patriarcato sta effettuando un monitoraggio di ulteriori spazi utilizzabili. «Li stiamo cercando, senza interferire nell’attività pastorale - conferma don Dino Pistolato -. Da noi vivono già 80 migranti ma qualche parrocchia sta prendendo in affitto appartamenti per sistemarne ancora. Vorremmo poi impegnarli in qualche lavoretto, compensandoli magari con qualche voucher». Non ha materialmente posto il curato di Marghera, don Nandino Capovilla, che rimedia affidando il ristorante parrocchiale a rifugiati e senzatetto: facendo i camerieri e i cuochi si guadagnano da vivere. In più la parrocchia ospita il servizio di barbiere gratis, gestito ogni lunedì da un pakistano. A Rovigo infine - 109 parrocchie - una quindicina di richiedenti asilo vive nel convento dei cappuccini e un altro nucleo nella parrocchia di Borsea. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Se 36 anni non bastano ancora di Paolo Mieli Bicameralismo Ha ragione il nostro Michele Ainis. Sarebbe stato preferibile chiudere quest’annosa questione della riforma istituzionale con un unico articolo: «Il Senato è abolito». Lo ha detto pochi giorni fa anche l’uomo più saggio della minoranza del Partito democratico, Pier Luigi Bersani. E, con lui, molti altri politici e commentatori intervenuti nel dibattito

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sulla - pressoché unanimemente - auspicata eliminazione del bicameralismo paritario. Ma nessuno si è limitato a proporre quelle quattro decisive parole. Ognuno di loro si è poi sentito in obbligo di aggiungere che «certo, si dovrebbe nel contempo cambiare questo, questo e questo». Senza rendersi conto probabilmente che così si ricomincerebbe daccapo. Si ripete, in grande, quello che era già accaduto con le Province: l’unica soluzione apparve essere quella di abolirle sia pure in modo imperfetto, contando che eventuali aggiustamenti sarebbero venuti con il tempo. Stesso discorso vale oggi per la Camera alta. Anche la questione dell’elettività dei senatori a questo punto si presenta solo come un modo per riaprire il dossier, rimettere in discussione la legge elettorale e riportare in mare aperto la nave della riforma (nell’evidente speranza che affondi). Stefano Rodotà, che di questa trasformazione del Senato in qualcosa di simile al Bundesrat tedesco è stato fin dall’inizio un combattivo e coerente avversario, ha avuto l’onestà intellettuale di metterlo per iscritto: «Oggi la residua “battaglia” per tornare solo all’elezione diretta dei senatori può essere poca cosa, se non accompagnata da altre modifiche». «Residua», «solo», «poca cosa», «altre modifiche: tutto chiaro. E - per quel che riguarda la destra - il genere di approccio alla discussione lo si è capito a fine agosto allorché quel fantasioso leghista che è Roberto Calderoli ha promesso di ritirare i suoi cinquecentomila emendamenti se il ministro della Giustizia Andrea Orlando avesse trasmesso al presidente della Repubblica gli atti per un provvedimento di clemenza nei confronti del costruttore bergamasco Antonio Monella (quel Monella condannato nel 2006 per aver ucciso un diciannovenne albanese che gli stava rubando un Suv parcheggiato nel cortile della villa ad Arzago D’Adda). Non è questa la sede per soffermarci sul «caso Monella», però è evidente che la proposta di un così singolare baratto non può che essere considerata alla stregua di uno sberleffo. È giunto il momento di ricordare che la discussione italiana sulla Grande Riforma (così la si chiamò fin da principio) iniziò qui da noi nel lontano 1979. A quei tempi Bersani aveva ventotto anni, il suo braccio destro, Roberto Speranza, nasceva in quell’anno. Da allora per trentasei lunghissimi anni si è parlato di eliminazione del bicameralismo alla luce del fatto che, nelle forme in cui è sopravvissuto nel nostro Paese, non esiste più quasi da nessun’altra parte del mondo occidentale. La seconda Camera non c’è in quindici (la maggioranza!) dei ventotto Paesi dell’Unione Europea. In otto dei rimanenti tredici (la maggioranza!), il Senato non è eletto direttamente dai cittadini. E i quattro che ancora seguono (parzialmente) il modello italiano - Spagna, Polonia, Romania e Repubblica Ceca - non offrono un modello istituzionale a cui sia, per così dire, obbligatorio fare riferimento. Nel corso dei trentasei anni che intercorrono tra il 1979 e oggi ci siamo a tal punto affezionati al dibattito sulla Grande Riforma che, forse, è di questo tema di discussione che paventiamo la scomparsa, assai più che del Senato stesso. I Paesi che vogliono cambiare lo fanno in altri modi e con altri tempi. Ad esempio in Francia (il cui modello è indicato dai più come uno dei migliori d’Europa), Charles de Gaulle prese il potere il 1° giugno del 1958, riformò la Costituzione della Quarta Repubblica nel corso dell’estate e sottopose la modifica a referendum il 28 settembre di quello stesso anno. Il tutto in meno di quattro mesi. Poi de Gaulle passò ad occuparsi della guerra d’Algeria. E quando, nel 1962, chiuse quel problematico conflitto coloniale, fece in tempo a por mano ad una riforma della riforma di quattro anni prima, correggendone alcuni aspetti non irrilevanti tra cui l’elezione del capo dello Stato (che divenne diretta). Grazie a quelle modifiche, è bene ricordarlo, la Francia, prima in Europa, poté consentire l’ingresso dei comunisti in una coalizione di governo molti anni prima della caduta del muro di Berlino. Ma nel ‘58 qui da noi l’intera sinistra trattò quelle modifiche costituzionali alla stregua di un golpe e persino il leader socialdemocratico Giuseppe Saragat sostenne che non avrebbero potuto avere altro che un «esito fascista». Trascorse qualche decennio e quel modello divenne, come si è detto, il riferimento di buona parte della sinistra italiana. E Maurice Duverger, il politologo francese che nel ‘62 aveva fatto campagna elettorale a favore dell’approvazione della seconda riforma gaullista, fece in tempo nel 1989 ad essere candidato alle elezioni europee dal Pci pochi attimi prima che quel partito mandasse in soffitta le insegne con la falce e il martello. Questo per dire che le Costituzioni non si cambiano mai una volta per tutte e che le modifiche se non funzionano possono essere a loro volta ulteriormente cambiate. Certo quei quattro mesi della Francia nel 1958 furono pochi. Ma trentasei anni, diciamocelo con franchezza, sono un periodo eccessivo. Tanto più che, come fu in Francia, il momento della parola

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definitiva sarà quello del referendum dove gli avversari della riforma avranno l’occasione di far valere le loro ragioni. Senza drammi. Vale la pena di richiamare alla memoria che anche da noi c’è un precedente in tal senso: nel novembre del 2005 Silvio Berlusconi modificò sostanzialmente il nostro assetto costituzionale e nel giugno del 2006 un referendum bocciò quella modifica con il 61,3% dei voti. Giova ricordare (a Eugenio Scalfari che l’estate scorsa ha sollevato dubbi circa l’opportunità di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completamento dell’iter di riforma costituzionale) che nel 2006 a capo della campagna abrogazionista si pose l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. E poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi - che dal Quirinale aveva vigilato sul varo della riforma berlusconiana, come oggi fa Sergio Mattarella - se ne dicesse turbato. Né allora, né in seguito . Pag 1 Quella lezione tedesca per la destra di casa nostra di Aldo Cazzullo Legalità e responsabilità L’accoglienza dei profughi in Germania non è la scelta di un governo di sinistra. È la scelta del leader del centrodestra europeo, Angela Merkel. E l’organizzazione è gestita - nonostante qualche mugugno - dal governo bavarese, dominato da sempre dalla destra identitaria e dura del «toro» Strauss e di Stoiber. Ma la destra italiana, dov’è?È pronta a fare la propria parte, nelle regioni e nelle città che amministra, o è ferma alla propaganda? È per il modello tedesco, o per quello ungherese? Le immagini storiche dell’arrivo dei siriani a Monaco sono destinate a restare nella memoria per molte ragioni. Evocano un contrappasso della storia: i persecutori del secolo scorso che accolgono i perseguitati del nostro tempo. Sono anche il segno di un risveglio tardivo: per troppo tempo i Paesi più esposti al flusso migratorio - l’Italia, la Grecia, la stessa Turchia, che non fa parte dell’Ue ma ha retto finora il peso maggiore della crisi siriana - hanno chiesto invano agli altri Paesi europei di farsi carico di un’emergenza epocale. Se Berlino e Bruxelles si fossero mosse prima, si sarebbero evitati lutti ed esasperazioni. Ma lo scatto della Germania rappresenta per l’Italia una lezione politica. La Merkel ha saputo fronteggiare la xenofobia che ha visto montare alla propria destra. Le immagini degli attacchi ai centri di accoglienza sono state decisive per indurla alla svolta di questi giorni tanto quanto le fotografie che hanno percosso la coscienza del mondo. I cristiano sociali della Baviera hanno fatto il resto. E il conservatore Cameron per la prima volta non si chiama fuori. In Europa si affaccia, sia pure in ritardo, una destra della legalità e della responsabilità; ovviamente non disponibile ad accogliere chiunque, ma determinata a non respingere più chi fugge davvero dalla guerra. In Italia siamo ancora alla rissa, con Renzi che distingue tra esseri umani e bestie, Salvini che si sente chiamato in causa e gli dà del verme. E siamo alle diverse varianti del populismo, consolatorio o allarmista; al solito schema della sinistra buonista e della destra cattivista, dell’«accogliamoli tutti» e del «prendeteveli a casa vostra». Per fortuna, al di là di qualche scena di isteria dovuta più che altro alle carenze organizzative del governo e alle strumentalizzazioni politiche dell’opposizione, gli italiani si sono comportati in questi mesi con umanità, e nelle zone più esposte - a cominciare da Lampedusa - con una generosità di cui possiamo andare fieri. Adesso anche chi ha incarichi di governo deve fare altrettanto. La solidarietà non può essere disgiunta dalla sicurezza; e sarebbe il caso che Renzi desse ai familiari dell’orribile delitto di Palagonia quella risposta - con i fatti più che con le frasi fatte - che sollecitano invano da giorni. Ma l’evolversi della situazione europea implica che pure la destra italiana, in particolare dove ha responsabilità di governo, esca dalle logiche consuete e batta un colpo. Cosa ne pensano i «moderati» della Lega, gli Zaia e i Maroni, che legittimamente aspirano a un ruolo nazionale? Che ne dicono i sindaci delle grandi città del Veneto, i leghisti Tosi e Bitonci e il veneziano Brugnaro, che in laguna (a parte le polemiche retrograde su omofobia e Gay Pride) sembra portare avanti un interessante esperimento post-ideologico? Il loro punto di riferimento è la Csu bavarese o la xenofobia del governo di Budapest? E Forza Italia discute solo delle proprie polemiche interne? Con la Germania è giusto polemizzare, ma qualcosa ogni tanto sarebbe bene imparare. Oppure dobbiamo rassegnarci al fatto che la destra della legalità e della responsabilità non può passare le Alpi ?

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Pag 5 Dove vanno gli stranieri più colti di Federico Fubini La tendenza demografica Da quando il governo di Budapest ha steso 177 chilometri di filo spinato al confine con la Serbia, per un attimo milioni di persone hanno ripensato alla Berlino Est del 1961. Un’altra barriera per separare, o illudersi di essere protetti. Solo ora che ha fatto la fine del suo predecessore, travolto da centinaia di migliaia di persone, quel «muro» ungherese ricorda piuttosto il suo opposto. Quello della Germania Est era un riparo per trattenere gli istruiti, evitare che fuggissero. Questo dell’Ungheria invece ha stupidamente cercato di tenerli fuori, proprio ora che i Paesi europei sono sempre più in competizione fra loro per attrarre gli immigrati dei quali hanno più bisogno: i laureati, gli ingegneri, i medici, i tecnici o gli interpreti che qui in Occidente non sempre si trovano. Nel 1961, il muro di Berlino fu costruito con una motivazione ufficiale: si doveva bloccare il deflusso dalla Germania Est dei giovani laureati che, asserì il regime, volevano andare a Ovest solo per guadagnare di più. Chi desiderava andarsene poteva farlo (in teoria), prima però doveva rimborsare lo Stato per l’investimento in istruzione fatto su di lui. Oggi paradossalmente il filo spinato ungherese ha rischiato di generare l’effetto opposto. Corre infatti un secondo binario, più sottotraccia, nel confronto fra i Paesi europei, adesso che la Germania si prepara ad accogliere 800 mila rifugiati e l’Italia ne ha già 118 mila. Non è di oggi, ma adesso appare sempre più evidente. I Paesi europei non competono solo per quale fra loro riuscirà ad accogliere meno rifugiati, o al contrario a mostrarsi più solidale. In modo più implicito, ciascuno vorrebbe quasi solo i migranti che gli servono. I migliori, in termini produttivi: i professionisti o i professionali, i laureati, coloro che portano con sé un investimento in istruzione di due decenni di studi e centinaia di migliaia di euro. Quando varcano i confini centinaia di migliaia di persone, sono cifre macroeconomiche. Secondo le stime dell’Ocse, il centro studi di Parigi, il «costo di produzione» di un laureato in Italia è di circa 165 mila euro: ciò include gli stipendi degli insegnanti dalla scuola materna alla fine dell’università, ma non ancora la manutenzione degli edifici scolastici. In Germania e in Francia gli oneri per lo Stato sono più vicini ai 200 mila euro per ciascun giovane che si laurea. È l’infrastruttura umana di un Paese, un investimento da decine di miliardi di euro per ciascuna generazione. E l’Italia o la Germania hanno bisogno di rinnovarlo, perché nel 2050 un terzo delle popolazioni di oggi avranno oltre 65 anni e oggi le nuove nascite sono su minimi pluri-secolari. È qui che sui rifugiati dalla Siria e dall’Eritrea, o sui migranti della Nigeria, si consuma una sfida che nessun vertice di Bruxelles può dirimere. Perché gli istruiti, i laureati e i tecnicamente abili vanno semplicemente dove vive altra gente come loro. Più sviluppata e raffinata è un’economia, meglio riuscirà ad attrarre gli stranieri più capaci e portatori di ricchezza: qualunque sia il colore della loro pelle, il passaporto o lo status giuridico. Nikola Sander, dell’Istituto demografico di Vienna, ha usato la banca dati di Eurostat (basata sul censimento del 2011) per mostrare un’evidenza: in ogni Paese, regione e città d’Europa, la proporzione di stranieri laureati (sul totale degli stranieri) è curiosamente allineata alla proporzione dei «nativi» laureati (sul totale dei nativi). In Sicilia per esempio solo l’11% dei locali ha una laurea e la popolazione di stranieri con una laurea è all’11,7%. A Berlino il rapporto è 35% dei «nativi» contro 33,8% degli stranieri. A Parigi il 27,6% contro il 28,6%. In Lombardia il 15,9% contro il 13,2%. E così via, anche per gli Stati: l’Italia ha il 12% di laureati nel Paese e il 14% di laureati fra gli stranieri, Germania e Francia hanno rispettivamente il 26% e il 22% per entrambe le categorie. Non basta mostrarsi spietati o umani con gli altri, per gestire al meglio i flussi dall’estero di questo secolo. Bisogna anche migliorare se stessi. Pag 6 Ma l’azione di forza dovrà tener conto di scenari complessi di Massimo Nava Mentre la Germania apre le braccia ai profughi siriani, la Francia prepara un’azione militare dal cielo sul Paese giunto al quinto anno di guerra civile. L’emergenza umanitaria, la morte di una nazione per svuotamento e disperazione, gli orrori dei miliziani dell’Isis hanno provocato una reazione forte e concreta. L’opinione pubblica ha preso coscienza che la disgregazione del Medio Oriente sta avendo un impatto drammatico e duraturo sulle fondamenta della società europea. E questo ha spinto i

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governi a rompere gli indugi. Ma è bene non coltivare illusioni. L’ondata di solidarietà continuerà a misurarsi con i Paesi che erigono muri e i variegati populismi che alimentano le paure dei ceti più deboli. E le opzioni militari devono fare i conti con lo scenario complesso del conflitto siriano. Non sono in gioco soltanto la sopravvivenza del regime di Assad o la guerra all’Isis, ma anche sfere d’influenza, alleanze militari, scomposizioni territoriali e religiose. Dalla Turchia alle monarchie del Golfo, dalla Russia che rafforza l’assistenza militare al regime di Damasco agli Stati Uniti, prima risoluti e poi titubanti sul futuro di Assad, la prospettiva di un negoziato coerente è ancora lontana. La stessa iniziativa di Hollande sembra anche dettata dall’esigenza di far sentire la voce della Francia nell’unico ambito in cui non può essere troppo alta la voce della Germania, quello militare. Con quali sbocchi? Un’azione più incisiva nei confronti dell’Isis - il cui centro operativo è ormai la Siria - sembra trovare un sostegno più ampio, ma nessuno si nasconde che la sconfitta del Califfato potrebbe favorire la sopravvivenza del regime di Damasco. Il disegno che la Francia ha messo sul tavolo è la «neutralizzazione» di Assad e l’avvio della transizione con il concorso delle parti interessate: arabi, russi, turchi, iraniani, americani. Ma questa è la road map prospettata all’inizio della crisi. E il tempo rischia di scadere. Pag 18 Quei giovani feroci in lotta senza nessuna strategia di Giovanni Bianconi I preti e gli investigatori fanno lavori diversi, ma a Napoli parlano la stessa lingua. E fanno le stesse analisi. Padre Alex Zanotelli, missionario comboniano che al Rione Sanità prosegue il lavoro svolto per oltre un decennio nelle bidonville del Kenya, spiega così l’omicidio di Gennaro, 17 anni, incontrato qualche volta in parrocchia: «Qui vivono 70.000 persone in cinque chilometri quadrati, non c’è un asilo nido né una scuola media, e c’è un istituto superiore al secondo posto nella classifica dell’abbandono scolastico; in questa situazione dove possono finire i giovani se non in braccio agli spacciatori e alla camorra?». Il missionario parla anche del lavoro che manca, ed ecco che cosa si legge nell’ultima relazione inviata al Parlamento dalla Direzione investigativa antimafia, a proposito delle baby gang arruolate dai clan: «Sono composte prevalentemente da ragazzi provenienti da ambienti familiari degradati e con basso livello di scolarizzazione, ai quali vengono affidati incarichi indispensabili per le attività dei sodalizi (spaccio di stupefacenti, rapine, uso illecito di armi, furti, omicidi e tentati omicidi). Al riguardo occorre precisare che la crisi occupazionale ha fortemente inciso su tale tipo di delinquenza». Secondo il rapporto 2015 della Procura nazionale antimafia, la «caratteristica propensione delle aggregazioni camorristiche alla contrapposizione» è resa ancor più preoccupante dalle «nuove leve che scontano inevitabilmente una non ancora compiuta strategia criminale». Si sparano addosso senza pensarci due volte, ragazzi contro ragazzi. «Killer giovanissimi che si caratterizzano per la particolare ferocia - scrivono i magistrati della Superprocura -, che si esprimono e agiscono al di fuori di ogni regola, quadri dirigenti che fino a pochi anni fa non erano in prima linea». Oggi invece sì. E conducono continui assalti per spodestarsi a vicenda dal controllo delle piazze di spaccio, a cui seguono vendette incrociate; morti ammazzati che chiamano morti ammazzati. Alla Sanità - dove il minorenne Gennaro aveva già accumulato precedenti penali che gli erano valsi un «affidamento in prova», misura alternativa al carcere - come a Forcella, dove da mesi va avanti un sanguinoso regolamento di conti. E dove assassini e vittime hanno vent’anni o giù di lì. Ciro Esposito ne aveva 21 ed è stato il primo morto ammazzato del 2015, freddato la sera del 7 gennaio: era figlio di un boss, già segnalato per droga. A seguire sono caduti in strada un ragazzo nato nel 1993 e uno del 1991. I progetti di rappresaglia per la morte di Esposito s’erano spostati dalla Sanità a Forcella e dovevano colpire il clan Sibillo, alleato dei gruppi Giuliano-Brunetti-Amirante contrapposti ai Mazzarella. A metà aprile i carabinieri hanno arrestato quattro persone che - secondo le indagini - stavano organizzando un agguato ai danni dei Sibillo; due avevano 23 anni. E giovanissimi erano i bersagli da colpire. L’esponente del gruppo considerato di maggior spicco, Emanuele, ad aprile s’è salvato ma a luglio no; avrebbe compiuto vent’anni a dicembre, non ha fatto in tempo: quando l’hanno ucciso era ricercato per associazione mafiosa ed estorsione. Latitante è tuttora suo fratello Pasquale, classe 1991, sorpreso a febbraio dalla polizia durante un summit di camorra in un appartamento nel centro di Napoli, insieme ad altri giovanissimi e a qualche boss

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ultraquarantenne; con i criteri di un tempo sarebbero stati gli emergenti, oggi sono i vecchi. Di fronte a questa situazione padre Zanotelli invoca una risposta popolare: «Domenica la questura non voleva che celebrassimo la messa in piazza perché temeva una reazione della gente, ma magari ci fosse questa reazione! Invece niente. Qui la situazione è per certi versi peggiore di Korogocho, la baraccopoli di Nairobi dove ho vissuto tanto tempo; lì c’è maggiore capacità di rialzarsi e ribellarsi, mentre qui prevalgono omertà e rassegnazione». Qualche giorno fa il questore Guido Marino s’è chiesto provocatoriamente se sia stato inutile il sacrificio della quattordicenne Annalisa Durante, vittima innocente uccisa «per errore» nel 2004 a Forcella, in un agguato di camorra. Ancora una volta preti e investigatori sembrano parlare la stessa lingua. Pag 27 Profughi in cerca di libertà. Ci ricordano i nostri valori di Pierluigi Battista Gridano «Freedom», i rifugiati che premono sui confini dell’Ovest. Ce lo eravamo dimenticati. Avevamo smarrito il senso di una differenza, di una linea di confine che divide nel mondo le terre della libertà, della democrazia, del benessere, dei diritti dal mondo buio dell’oppressione, dell’intolleranza, del terrore, della riduzione in schiavitù delle donne, della tortura, della miseria, delle carceri imbottite di dissidenti, di chi insiste a onorare un’altra religione, a credere in un’idea diversa, a essere semplicemente diverso. «Freedom», «Freedom». E stavolta l’Occidente ha saputo essere coerente con se stesso. Ha saputo, almeno per una volta, e si spera per molto tempo, far suoi i versi che campeggiano ai piedi della Statua della Libertà, quel «datemi le vostre masse stanche, povere, oppresse, desiderose di respirare libere. Mandateli a me i diseredati, gli infelici, i disperati». Non la generica disponibilità, l’effimera solidarietà, ma la coscienza di essere la meta di chi è desideroso di «respirare libero». È l’orgoglio della libertà. L’orgoglio della democrazia. Ecco qual è il messaggio di questi giorni: «Freedom», e ancora «Freedom». La democrazia sembra un ideale stanco, estenuato. Ma per noi che ci siamo nati e che ne abbiamo smarrito il valore, la specificità, il privilegio. Per chi vive e muore nelle tirannie la democrazia è un traguardo da raggiungere a tutti i costi, con sacrifici immani, marce disumane, popolazioni in fuga da despoti e fanatici. Dovremmo riscoprire quella che adesso si definisce la «narrazione»: la narrazione della democrazia e della libertà. La narrazione di un sistema in cui le persone sono tutelate nei loro diritti, possono parlare senza il timore dell’oppressione e della morte. Dove le donne non sono bestie da malmenare e coprire fino agli occhi. Dove si può scegliere, vivere, consumare, svolgere un’attività economica, mettere a frutto il proprio talento senza che il potere confischi arbitrariamente i tuoi beni. Dove la tortura è bandita e, se scoperta, punita e, se non punita, bollata dalla riprovazione pubblica insieme all’impunità di chi se n’è reso responsabile. Non una società perfetta. La democrazia, come sosteneva Churchill, «è la peggior forma di governo fatta eccezione per tutte quelle sperimentate finora». La libertà è sempre troppo poca. Nuovi diritti fanno fatica ad affermarsi. Vecchie discriminazioni sopravvivono, sia pur in forme sempre più blande. L’economia è troppo spesso soffocata da uno statalismo dispotico, illiberale, vessatorio. Ma la sensibilità pubblica nelle democrazie è sempre più esigente. Non ci si accontenta mai. I limiti vengono di continuo oltrepassati. È la «società aperta» di cui parlava Karl Raimund Popper, quella che spezza di continuo le proprie catene. Ce lo siamo dimenticati. E la provvidenziale resipiscenza delle democrazie europee in questi giorni ce lo ha ricordato, insieme alla caparbietà delle «masse stanche, povere e oppresse» che premono ai nostri confini e distruggono reticolati, divieti, manganelli. E che vogliono «respirare libere». Dovremmo ricordarcelo ancora, chiedendoci anche se siamo disposti a pagare qualche prezzo perché la libertà e la democrazia possano sopravvivere all’assalto dei suoi nemici fanatici e portatori di un’ideologia di morte. Dovremmo chiederci se ci crediamo ancora, o se siamo troppo stanchi per crederci, e se quello che vagheggiano i rifugiati non sia altro che un’illusione. Dovremmo capire da cosa scappano, questi nostri fratelli che gridano «Freedom». E se il nostro cinismo non ci abbia portato a rinunciare all’«universalità» di valori in cui non crediamo più. A non considerare più uno scandalo l’esistenza di regimi che magari sanno tenere l’ordine, ma schiacciando ogni traccia di libertà, ogni parvenza di democrazia, senza rispetto per alcun diritto, senza dare alcun valore alle persone. Che oggi scappano. Gridano «Freedom». E ci stanno dando una lezione salutare.

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LA REPUBBLICA Pag 1 La mediazione scritta sulla sabbia di Stefano Folli Come spesso accade in politica, le mediazioni si fanno - quando si fanno - nelle ultime ore utili. O almeno si tentano. È probabile che accada così anche per la riforma del Senato, sulla quale finora abbiamo ascoltato appelli, dichiarazioni di principio, moniti, ma niente di davvero concreto: niente, cioè, che vada a fondo sui punti del disaccordo. La questione, come è noto, è quasi tutta interna al Partito Democratico. Il resto del Parlamento assiste sullo sfondo. C'è chi si è ritagliato un piccolo spazio, come il gruppo di Verdini in soccorso al governo. Chi potrebbe giocare un ruolo imprevisto al momento opportuno, come la Lega. Chi tiene una linea dura non senza parecchi dubbi, come i berlusconiani di Forza Italia. Ma tutti sanno che la vera partita è dentro il Pd e al momento non si è risolta, anzi si è caricata via via di significati complessi. Quel che è vero, intorno alla riforma del sistema bicamerale si gioca buona parte del futuro di Renzi, da un lato, e dei suoi avversari, dall'altro. Quindi esiste un merito della riforma su cui manca l'intesa istituzionale. Ma c'è un altro livello, tutto politico, che investe direttamente il cosiddetto "partito del premier": che di fatto è nato, ma non rappresenta l'anima e l'identità di una certa sinistra. In Parlamento questi due mondi sono giunti al vero, drammatico confronto fra loro. Se Renzi vince, la strada per lui sarà spianata: il Pd continuerà a esistere, ma in sostanza sarà a tutti gli effetti il partito del presidente del Consiglio. Abbiamo visto alla festa dell' Unità cosa significa: un rapporto carismatico con la base, il tentativo di dimostrare che i militanti amano il leader, saltando i filtri e consegnando all'irrilevanza buona parte dei quadri e del ceto politico. Viceversa, se il presidente del Consiglio inciampa nella riforma, rischia di venir giù l' intero castello del "renzismo" e la storia del paese prenderà un' altra strada. È lo stesso Renzi a legare in modo implicito il suo avvenire alla trasformazione del Senato, intesa come messaggio anti-casta e sforzo di recuperare il sentimento anti-politico. Ecco allora cosa rende così difficile la mediazione: il fatto che nessuna delle due parti in campo si accontenta. Il premier che punta tutto su se stesso non vuole apparire come l'uomo del compromesso al ribasso. E infatti ha tracciato una riga nella sabbia: non si torna all'elezione diretta dei nuovi senatori; non si mette mano all' articolo 2; non si allungano i tempi parlamentari perché diventa troppo alto il rischio di dover ritoccare anche l'Italicum, la legge elettorale a cui Renzi tiene oltre misura in quanto strumento- principe per forgiare i nuovi assetti della politica. Per ragioni uguali e contrarie, nemmeno il fronte dei dissidenti (25-30 senatori sulla carta) può accettare accordi mediocri. Sarebbe la fine di qualsiasi prospettiva per l'area, diciamo così, socialdemocratica. Del resto, nel "partito di Renzi" nessuno degli attuali contestatori troverebbe spazio; quindi per loro è una battaglia obbligata. Si vedrà nelle prossime ore se un'intesa si delinea. Sul piano tecnico una soluzione si può trovare sulle modalità di elezione, ma le ipotesi fin qui circolate sono rigettate dalla minoranza. E si capisce. Ciò che davvero vogliono Bersani e i suoi amici è essere associati nella gestione di un partito dal profilo, appunto, socialdemocratico. Ma in quel caso non esisterebbe più il "partito di Renzi" e quindi è logico che il presidente del Consiglio finga di non capire. Almeno quando può farlo senza perdere la partita. Allora si discute, ma fin qui non si media. E le pressioni, molto forti, sono volte a erodere il fronte dei ribelli: a riportarne a casa qualcuno, a convincerne altri all'ultimo minuto. Il richiamo all'unità, l'immagine del treno in marcia (il governo, la ripresa economica) che nessuno ormai può fermare, può solo salirci sopra. Gli argomenti sono tanti e Renzi, come è noto, è un abile comunicatore. Ma anche gli altri giocano una mano decisiva che non riguarda solo il destino dei singoli. Stavolta ci saranno vincitori e vinti. LA STAMPA Le ragioni della forza e della politica di Marta Dassù Proprio nel momento in cui l’Europa sta discutendo quello che l’Italia voleva da mesi - un sistema più solido di ripartizione dei rifugiati, la modifica di fatto del regolamento di Dublino, un piano europeo di rimpatrio per i migranti economici - Roma teme di essere lasciata sola. La linea italiana sta finalmente prevalendo, sulla carta. Nei fatti, non è così

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chiaro quanto l’Italia ne trarrà aiuti concreti sul fronte che più la coinvolge direttamente: l’implosione della Libia, con i suoi effetti sul traffico di essere umani verso le coste italiane. La realtà, infatti, è che la scossa tedesca sul problema dei rifugiati – seguita dalla nuova proposta della Commissione – è nata dalla e sulla tragedia siriana. Dopo mesi di colpevole disattenzione di fronte ai progressi e alle nefandezze dell’Isis, la tragica foto di Bodrum ha risvegliato le coscienze europee. In una tipica divisione di ruoli – e di propensioni – la Germania di Angela Merkel ha aperto la porta a centinaia di migliaia di profughi siriani (l’ha invece chiusa ai balcanici e ai migranti economici); mentre la Francia ha annunciato, con la conferenza stampa ieri di François Hollande, di avere avviato voli di ricognizione sul territorio siriano in vista di eventuali bombardamenti dell’Isis. Nelle parole di commento di Matteo Renzi (l’Italia non partecipa a iniziative che Francia e Inghilterra hanno annunciato di studiare) pesa l’esperienza di interventi passati (le modalità e gli esiti dell’intervento in Libia, anzitutto) e gioca la legittima convinzione che sia indispensabile un accordo politico. I passi diplomatici delle scorse settimane – con una sorta di ritorno in campo di Russia ed Iran – vanno in questo senso e al tempo stesso ripropongono il nodo ineludibile (cui il premier italiano ha infatti accennato) del ruolo di Assad. Sono parole pesate, quindi; da parte del leader di un paese che peraltro partecipa attivamente alla coalizione anti-Isis. E’ importante aggiungere, io credo, che in Siria il tempo sta decisamente scadendo, con un dramma umanitario senza precedenti. Se un accordo politico non verrà raggiunto rapidamente (fra i 4 paesi che possono fare la differenza: Stati Uniti, Russia, Iran e Arabia Saudita), l’unica forza ad avanzare sarà l’Isis, ormai vicina a Damasco. E a quel punto, in assenza di interventi efficaci, potremo solo sperare che altre centinaia di migliaia di siriani riescano a fuggire; dopo averli lasciati premere per anni nei paesi confinanti (dalla Giordania alla Turchia), l’Europa deve almeno predisporsi ad accoglierli. Lo scatto della leadership tedesca è nato qui. La stessa reazione dovrebbe coinvolgere anche paesi extra-europei, inclusi Stati Uniti ed Australia (che hanno annunciato ieri alcuni primi passi in questo senso). Per la ragione – semplice per il Diritto internazionale, meno per la prassi - che l‘accoglienza dei rifugiati va considerata una responsabilità globale. In questo caso, una responsabilità non solo europea – come ha sottolineato al Forum Ambrosetti di Cernobbio Peter Sutherland, inviato speciale per le migrazioni del Segretario generale delle Nazioni Unite. La Siria è una priorità: umanitaria e per il futuro dell’area mediorientale. Che ricorda all’Europa, con la plastica semplicità delle tragedie, il legame fra politiche migratorie e politica estera. Un sistema europeo di asilo è certamente necessario; le quote sono utili; distinguere fra rifugiati e migranti economici è ormai indispensabile; le frontiere europee vanno considerate europee e non solo nazionali, con tutto ciò che ne consegue (a cominciare da un rapporto virtuoso fra solidarietà e responsabilità). Ma tutto questo non basterà mai senza la capacità di intervenire sulla fonte primaria dei problemi. La sfida, per una paese nella posizione geopolitica dell’Italia, è di fare in modo che la reazione sulla Siria non resti un’eccezione; e non sia limitata alle rotte balcaniche. L’implosione della Libia e il traffico di essere umani attraverso il Mediterraneo pongono e porranno problemi simili; e in parte già pongono problemi assai più collegati alla gestione dell’immigrazione in quanto tale. Che Roma non potrà affrontare sola. AVVENIRE Pag 1 Un respiro antico e nuovo di Marina Corradi Il risveglio civile e cristiano d’Europa C’è qualcosa che rimane addosso, guardando le foto delle stazioni di Vienna e di Monaco, con i bambini che scendono dai treni e avvolti in coperte azzurre stellate sorridono, ancora increduli di essere in un posto in cui li accolgano, in pace. Quel qualcosa è stupore per la brusca e per una volta benigna svolta che in pochi giorni ha ribaltato le drammatiche cronache dai Balcani; e, insieme, una quasi indicibile commozione, perché è da tanto tempo che quasi avevamo smesso di sperare, nel sentire pronunciare la parola 'Europa'. È da anni ormai che in questa nostra Unione vediamo poco più di una polverosa congerie di norme e vincoli, dimentica degli ideali per cui, dopo una guerra terribile e milioni di morti, era nata. Quasi sola era la voce del Papa che esortava all’accoglienza, come di nuovo, con forza, domenica all’Angelus; esortazione subito

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abbracciata dalla Chiesa italiana, che già all’emergenza migrazione da anni instancabilmente lavora. E anche l’Italia, e il suo soccorso generoso prima in mare, e poi a terra, era guardato da molti come un vano buonismo. Oggi la gente in fuga che approda dalla Turchia in Grecia grida 'Europa!'. Per la rotta dei Balcani arrivano a Vienna, e alzano due dita nella 'v' di vittoria. Hanno perso ogni cosa, gli restano solo i figli: eppure esultano, perché otterranno asilo in Europa. In un mondo, con tutti i suoi affanni, in pace: dove le case sventrate di Aleppo torneranno solo la notte, negli incubi, e poi, al mattino, col sole si dissolveranno. Certo, dicono, la Germania ha bisogno di braccia, se vuole sostenere la sua crescita, e aprendo ai siriani – i più colti, e i più assimilabili, con i loro tratti occidentali – ha fatto i suoi conti; ma è mai esistita una migrazione che non avesse, per il Paese che spalancava le sue porte, un tornaconto economico? E che cos’altro potrebbe rimediare, in un’Europa sempre più canuta e senza figli, al vuoto demografico, se non l’arrivo di nuove genti, profughe, o migranti? Finora era stata soprattutto l’Italia, con tutti i suoi difetti ma anche la generosità della sua gente, a soccorrere. Ora ciò che vediamo sotto ai nostri occhi, nella brusca svolta impressa da Angela Merkel, è in fondo la riedizione moderna di quei movimenti che nei secoli hanno colmato le regioni d’Europa, quando per carestia, o epidemie, si creavano dei vuoti. Nuove popolazioni, più o meno pacificamente, subentravano, e si amalgamavano a chi c’era prima. Recavano con sé la voglia di vivere e la tenacia di chi aveva lasciato la sua terra; quella forza, era ciò che portavano in dono alla patria nuova. E non stiamo noi, oggi, a guardare sbalorditi questi siriani che con i bambini in braccio hanno camminato per centinaia di chilometri, superato i muri di filo spinato, dormito per strada, sofferto la fame, eppure ce l’hanno fatta e sono qui, vivi? C’è un frammento di storia remota, in quei treni che arrivano alla Westbahnhof di Vienna, così come nelle preghiere di ringraziamento di quelli che sbarcano a Lampedusa. Quanto al vuoto che questa gente va a colmare, non è stata carestia, né guerra: solo le culle vuote di un Occidente forse sazio, forse sfibrato. Dove gli ideali ereditati dai padri fondatori hanno lasciato il posto all’abitudine, dove la democrazia è data per scontata, e ciò che tiene forzatamente insieme sembra l’euro, più di ogni altra cosa. E invece per la gente di Aleppo e Kobane, quella bandiera azzurra con le stelle è bella, anzi, meravigliosa. Ci fasciano i loro figli, perché in Europa potranno diventare grandi. Non come i mille Aylan di cui non sapremo il nome, perduti in fondo al mare, o sotto alle macerie. No, questi figli vivranno; perciò per quei padri e quelle madri l’Europa è una cosa grande. E forse, grazie a loro, potremmo tornare a credere un po’ di più anche noi, in questa Europa. Senza avere paura, come dice qualcuno, di una 'invasione', e per di più di islamici: giacché sbarrare le nostre porte a quella gente, come grida il Papa, sarebbe stata la negazione stessa delle nostre radici cristiane. Perché il cristianesimo non è bandiera su una rocca, ma vive nelle facce di chi lo testimonia: e a Lampedusa, o a Vienna, o nei mille luoghi in cui chi arriva è accolto, si tramanda questa testimonianza. A volte perfino immemore, magari come habitus 'naturalmente' cristiano, ereditato in volti laici. In fondo, è questo il fiato dell’Europa che oggi ci commuove, alle stazioni di Vienna e Monaco, o sulle motovedette italiane nel Canale di Sicilia. Come l’eco di un respiro largo, e molto antico. Pag 2 Compassione e dovere, un esame di coscienza di Carlo Cardia La politica e la questione migranti Forse non ci rendiamo conto di quante cose stiano cambiando, nella nostra coscienza e nella coscienza della politica, per gli sviluppi dell’immigrazione, le cui dimensioni e immagini modificano giorno dopo giorno percezioni, sentimenti, scelte, e provocano quel 'senso di spaesamento' che prende chiunque si trovi di fronte al nuovo, al non previsto, a svolte epocali. I cambiamenti e i paradossi più repentini riguardano le politiche di molti Stati europei. La Germania, ritenuta per definizione avara di aperture, e artefice d’una politica di durezza ed esclusione, mostra un altro volto, Angela Merkel sembra all’improvviso simbolo di un’Europa accogliente, non più matrigna. Altri Paesi, assenti quando l’Italia chiedeva la ripartizione di quote, misure coraggiose, assunzione di responsabilità, invocano oggi una politica comune europea; mentre David Cameron in Inghilterra azzarda piccoli mutamenti di rotta rispetto alla precedente chiusura totale. Forse non tutti cambiano per buona volontà, ma s’intravede una presa di coscienza

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irreversibile: né l’egoismo di un solo Paese, né la buona volontà di uno o più Stati, risolveranno problemi che sono di tutti, e hanno colpito al cuore ogni europeo. Un inatteso indurimento s’è avuto nei Paesi ex comunisti, che almeno per memoria storica dovrebbero ispirare la propria azione alla solidarietà, e invece manifestano pesanti egoismi, se non peggio, quando vedono riprodursi, a parti rovesciate, quell’esodo che al crollo del comunismo chiedeva all’Europa libertà, come i profughi oggi chiedono vita, lavoro, aiuti. Infine, nei giorni scorsi l’Onu si è fatta sentire, in modo flebile, ma qualcosa ha detto, e non è escluso che, come grande assente nel dibattito di questi mesi, ricordi le proprie responsabilità, realizzi la grande svolta che si attende: l’attivazione decisa delle istituzioni internazionali per un dramma che investe l’Europa, il Mediterraneo, Paesi in guerra come la Siria e la Libia, altri ancora in Africa e Asia. Un dato s’impone sugli altri, contro ogni diversa analisi e politica: l’immigrazione è questione europea, internazionale, nei fatti prima che nelle parole e intenzioni, e costringe tutti a impegnarsi per risolverla. Ma i mutamenti sono più profondi, chiedono all’Europa di ricordare qualcosa della propria storia, guarire dai mali che ancora si porta nell’anima, cambiare strada, guardare al futuro in modo nuovo. Nell’Ottocento il Vecchio Continente ha affrontato la guerra dei ricchi contro i poveri e ha alzato muri per escludere i poveri dalla società visibile. Con assoluta crudezza, Thomas Robert Malthus voleva espellere dal «gran banchetto della natura» (oggi, le ricchezze disponibili) «gli intrusi» (le classi popolari), e i liberisti di allora sognavano uno Stato estraneo ai rapporti sociali, regolati dalla legge del profitto, dalla competizione più selvaggia. Ma la storia è andata da un’altra parte. È maturato lo «Stato sociale», il nuovo pensiero economico di John Maynard Keynes, la dottrina sociale cattolica, per regolare, disciplinare, umanizzare un mercato che, in preda all’anarchia, sarebbe esploso. Un gran lavoro osteggiato e ancora incompleto, ma essenziale. Anche oggi, poi, si elevano muri contro gli «invasori» ma, a differenza del passato, questi crollano in poche ore: in Grecia, Macedonia, Ungheria, Austria. E questo crollo sta provocando la caduta di un nuovo idolo, esaltato perfino da intellettuali di matrice liberale, come Piero Ostellino, Giovanni Sartori e altri, che con toni diversi all’inizio della crisi hanno obiettato al magistero pontificio sull’accoglienza degli immigrati (e degli ultimi), perché sarebbe nobile ma irreale. Per questa scuola di pensiero, i moniti che l’etica rivolge alla politica prescindono dalla società vera, parlano di una società che non esiste, ignorano quel principio di realtà tipicamente liberale che chiede di fare i conti con costi e benefici delle varie proposte. Oggi questa scuola di pensiero tace, perché non sa più rispondere a una domanda: è più realistico il muro che si vorrebbe alzare dentro e fuori di noi, o il principio d’accoglienza, che chiede un governo saggio, complesso, lungimirante, di un processo storico irreversibile? La grande lezione di realismo, però, riguarda anche l’Onu e le istituzioni internazionali che continuano a essere silenziose di fronte alle tragedie dell’immigrazione e delle guerre. Esse per prime, insieme all’Europa, hanno lasciato andare alla deriva Paesi, aree, continenti interi, abbandonati a guerre che provocano genocidi, stragi, stermini, dimostrandosi impotenti perfino di fronte all’orrore e alla barbarie dell’Is e di chi colpisce cristiani e fedeli d’altre religioni come se la civiltà non fosse mai esistita. Non c’è stato, nel secondo dopoguerra, un periodo come quello attuale nel quale tanti e così vasti territori siano stati abbandonati a sé stessi, senza che alcuna autorità neanche provasse a intervenire, chiamando ciascuno Stato a dare il suo contributo. Nessuno (o quasi) lo ricorda più, ma, lo Statuto dell’Onu (1945), afferma che i Popoli della terra sono «decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili dolori all’umanità»; e contiene una dettagliata normativa per garantire pace e sicurezza, interventi a favore delle popolazioni colpite dalle tragedie della guerra, a rischio di genocidio e dispersione. Il sogno che nel Novecento ha dato forza alle generazioni che avevano patito il totalitarismo è svanito, s’è tramutato in incubo per coloro che muoiono, o scappano dalla Siria, dal Medio Oriente, dall’Africa, senza che l’Onu abbia mosso un dito per aiutarli. L’Europa e l’Onu sono chiamate a un esame di coscienza di carattere storico, devono chiedersi come mai l’egoismo di tanti Stati provochi tragedie collettive così grandi, e quale sia la ragione della loro impotenza politica, che azzera principi e valori scritti in tutte le Carte dei diritti umani. Oggi non basta rispondere a queste domande con qualche aggiustamento, esse chiedono la riedizione solenne delle regole che fondano la convivenza planetaria. Il principio di realtà chiede di tornare ai valori d’umanità e libertà scritti nel Dna

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dell’Europa e dell’Onu, per realizzare una politica programmata, di condivisione dell’accoglienza e di integrazione, che affronti nei prossimi anni le cause e gli effetti dell’immigrazione. Se ciò non accadrà, non basterà neppure la compassione, che pure in questi giorni ha salvato l’Europa, perché sarà di nuovo inghiottita dalla paura e dalla pavidità. Pag 3 Accoglienza, tutto quello che l’Italia può già fare di Luigi Manconi Rapidità nell’asilo, re insediamenti e visti a distanza… Caro direttore, nelle ultime settimane lo scenario europeo in materia di immigrazione e asilo appare profondamente mutato. Alcuni fatti di cronaca – i settantuno corpi senza vita nel camion frigorifero e la foto del bambino siriano su una spiaggia turca – hanno sicuramente avuto un peso nella elaborazione delle nuove proposte da parte di Paesi europei. Prime fra tutte l’aumento delle quote di richiedenti asilo da ricollocare nei diversi Stati membri (160mila rispetto ai precedenti 32mila) e l’obbligatorietà della partecipazione al piano di distribuzione sul continente, pena il pagamento di una sanzione, destinato a un fondo per le spese dell’accoglienza. Un ruolo decisivo in questo cambio di rotta è stato svolto dalla Germania e dalla Francia. L’Italia, nonostante la sua posizione di Paese di frontiera, non è mai riuscita a dettare la linea, nemmeno quando ha presieduto il semestre europeo nel 2014. In quella circostanza, ha affidato tutte le proprie chance a una cauta attività negoziale e a prudenti iniziative. E tutto ciò si è rivelato drammaticamente inadeguato rispetto a fenomeni che – a ragione, per una volta – possono definirsi epocali. Fenomeni che se letti alla luce degli indicatori demografici, anche i più elementari, appaiono dirompenti. E addirittura esplosivi per Italia. L’Europa è il continente che sta invecchiando con più rapidità: nel 2050, il 34% dei cittadini europei avrà superato la soglia dei sessant’anni. E già ora, in Italia, un abitante su cinque si trova nella fascia oltre i sessantacinque. La previsione è che, entro 10 anni, supererà quella soglia un italiano su 4. In estrema sintesi, si può dire che quella italiana è una comunità nazionale in via di estinzione. Di conseguenza, com’è possibile parlare di politiche per l’immigrazione senza tener conto di questi dati strutturali? E com’è possibile ascoltare gli allarmi contro 'l’invasione', senza avvertire la tentazione di replicare: almeno davvero ci invadessero. Da qui, dalla constatazione di una decadenza in atto – demografica, economica, sociale e culturale – deriva la necessità politica di una strategia finalmente capace di mettere in discussione lo status quo. E, invece, si è assistito a iniziative dei singoli Paesi, in direzioni non proprio convergenti. Gran Bretagna e Francia hanno firmato ad agosto un accordo a Calais per rafforzare le misure di controllo e sicurezza dell’Eurotunnel; la Germania ha deciso di farsi carico delle domande di asilo presentate dai profughi siriani, applicando in maniera 'creativa' il regolamento di Dublino; ma Londra si è limitata a prevedere il reinsediamento di quindicimila siriani. Il rischio è che l’Italia si trovi presa alla sprovvista, incapace di definire un proprio ruolo, costretta ancora una volta a una posizione subalterna. E, invece, per essere all’altezza di una situazione davvero eccezionale, dobbiamo far leva su uno dei principi costitutivi dell’Unione: quello della solidarietà tra gli Stati, che si manifesta concretamente come reciprocità e cooperazione. Nel momento in cui questo patto di solidarietà viene reiteratamente violato dai più, attraverso il rifiuto di contribuire alla soluzione di un problema, quale quello dell’immigrazione e dell’asilo, è l’intera architettura della comunità che viene messa in discussione. Ed è esattamente questo, che può legittimare la rivendicazione da parte dell’Italia di un ruolo centrale nella gestione della questione migratoria. Per quanto riguarda gli interventi immediati, se l’obiettivo oggi perseguito nelle proposte dell’Agenda europea è una più equa ripartizione dei profughi, è condizione preliminare andare oltre il numero attualmente previsto di quanti rientrano nelle quote obbligatorie, rendendo flessibile questo sistema in rapporto all’ampiezza dei flussi. Il regolamento di Dublino, che ha gravato finora come una camicia di forza, va utilizzato in maniera più duttile, come premessa del suo superamento. Innanzitutto, si può decidere di implementare tutti quegli strumenti che lo stesso Regolamento offre, a partire dal principio dell’unità familiare con l’utilizzo, il più ampio, dei ricongiungimenti. E con l’applicazione di alcune clausole già contemplate. La prima, quella di sovranità, cui ha fatto ricorso la Germania a favore dei profughi siriani, prevede che uno Stato membro possa sempre decidere di assumere la responsabilità di esaminare una richiesta di asilo

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presentata in un altro Stato. La seconda permette a qualsiasi Paese membro, pur non essendo competente dell’esame della domanda secondo i criteri ordinari, di diventarlo in considerazione di «ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari o culturali». Laddove si individuino esigenze tali da permettere al richiedente di poter realizzare il proprio progetto di vita in un altro Stato membro, questi meccanismi di mobilità interna all’Ue vanno attivati prioritariamente. È possibile, poi, sospendere alcuni automatismi di 'Dublino' nell’attesa che si dia vita, subito e concretamente, a un sistema europeo dell’asilo. Inoltre, va necessariamente ripensata la procedura di identificazione e di determinazione dello Stato membro competente per l’esame della domanda di protezione. Una volta definite le quote di ripartizione – in modo che siano adeguate alla portata dei flussi in atto verso l’Europa – vanno creati, sì, centri per l’identificazione, ma destinati al fine prioritario di permettere ai profughi che intendono presentare domanda di protezione internazionale di accedere alla relativa procedura e in tempi brevi, già nella fase successiva al primo soccorso. Qualora, attraverso un colloquio preliminare svolto dai funzionari delle Unità Dublino – da rafforzare in termini di personale e di operatività e coordinare a livello centrale – si riscontrino tali esigenze, va attivata in tempi brevissimi la procedura di trasferimento nello Stato membro individuato come competente. In tutti gli altri casi, si procede alla ricollocazione nei diversi Stati membri in base alle quote definite. Per ottenere in tempi più rapidi un più ampio utilizzo del meccanismo dei ricongiungimenti familiari e delle clausole umanitarie, l’Italia potrebbe rivolgersi direttamente a quei Paesi europei che già si sono mostrati disponibili a gestire unitariamente il flusso di profughi, realizzando una serie di accordi bilaterali. M a fare questo significa inquadrare il fenomeno in tutta la sua portata e scegliere di intervenire laddove i flussi si addensano. È indispensabile, dunque, avviare programmi di reinsediamento e di ammissione umanitaria con numeri molto più alti di quelli irrisori previsti dall’agenda dell’Unione. Va messa in atto una strategia a livello europeo di anticipazione/avvicinamento della richiesta di protezione internazionale nei Paesi di transito dei profughi; qui va istituito – quando possibile – un sistema di presidi assicurato dalla rete diplomatica dei Paesi dell’Unione e dal Servizio europeo per l’azione esterna, insieme ad Acnur e ad altre organizzazioni umanitarie umanitarie. Qui i profughi verranno accolti temporaneamente per poi essere trasferiti con mezzi legali e sicuri in Europa, nello Stato membro in cui chiederanno asilo. D’altra parte, vanno intensificate e attuate in tempi brevi le iniziative di cooperazione con i Paesi di transito dei flussi, a cominciare dal Niger. Un’ulteriore strada da percorrere è quella di un più ampio ricorso ai visti umanitari nell’ambito del sistema di Schengen, visti rilasciati dalle rappresentanze diplomatiche in caso d’urgenza e necessità, per ragioni umanitarie fondate in particolare su motivi familiari, di studio o professionali. E ancora, in attesa che si attui un sistema europeo del diritto d’asilo, si può intervenire per permettere a quanti abbiano già ottenuto una forma di protezione internazionale di soggiornare e lavorare legalmente in un altro Stato in cerca di migliori opportunità, senza dover aspettare i tempi lunghissimi attualmente previsti. Come si vede, si tratta di proposte estremamente concrete e pienamente realizzabili anche nel contesto dei trattati vigenti e dello stesso Regolamento di Dublino. Certo, tutto questo dovrà essere l’esito di decisioni che solo la politica, quella nazionale e quella europea, è in grado di assumere. Ma esistono alternative credibili a ciò? Pag 13 I “figli dei figli” che fanno più paura di Maurizio Patriciello Una lotta tra giovanissimi Passeranno alla storia come quelli della «Paranza dei bambini». Sono i figli dei figli dei vecchi camorristi napoletani, ormai assicurati alla giustizia o finiti al cimitero. Le varie organizzazioni adesso sono tutte nelle loro mani. Mani, appunto, di bambini. E proprio perché bambini fanno spavento. Si incontrano, si scontrano, si sfidano, si contendono un territorio dai confini incerti. Tradiscono, sparano, si ammazzano. Come se fosse un gioco. Ma è la dura, durissima realtà. La città di Napoli è come una scacchiera dove ogni banda ha il suo piccolo spazio, esercita il suo piccolo potere. Ma nessuno si accontenta, e perciò sono frequenti le invasioni delle piazze altrui. Tutti aspirano ad arrivare più in alto. E per farlo sono disposti anche a uccidere l’amico, se gli viene comandato dal boss-ragazzino. Gli ordini non si discutono, anche se nessuno crede più a nessuno. Giovedì

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mattina nel quartiere Sanità viene ucciso Pasquale Ceraso, 67 anni, un pregiudicato con precedenti per omicidio, spaccio di droga e altro. Forse si era illuso che su quella novella e incredibile 'paranza' avrebbe potuto esercitare qualche influenza. Chissà. Quelli invece non ne vogliono sapere. Hanno fretta. Tanta fretta. Sanno bene che l’albero della cuccagna sul quale si sono arrampicati presto seccherà. E hanno sete. Tanta sete. Di soldi, di piaceri, di potere. Stesso quartiere, notte tra sabato e domenica. A finire sotto i colpi dei sicari, proprio davanti alla chiesa parrocchiale, è un minorenne con precedenti per tentata rapina a mano armata. Si chiama Gennaro – Genny – Cesarano. I sicari arrivano come un fulmine a bordo di una moto di grossa cilindrata e sparano all’impazzata. Sono le quattro del mattino. Gli amici di Genny scappano, lui non ce la fa. Forse non era lui il bersaglio. Forse la banda rivale voleva solo punire 'quelli della Sanità'. Ucciderne uno qualsiasi per colpire tutto il gruppo. Genny è morto ammazzato come un vecchio boss. Poche ore prima, a una decina di chilometri di distanza, a Ponticelli, era stato freddato il trentenne Antonio Simonetti. La triste e dolorosa verità è che a Napoli ci sono vicoli e quartieri completamente in mano alla malavita. Luoghi dove lo Stato non riesce ad arrivare. E chi ha la sventura di abitare in quelle zone è condannato a convivere con la paura di incappare in una sparatoria. Il rischio di finire sotto i colpi di questi 'ragazzini' stupidi e sanguinari è altissimo. Mancano di prudenza, di intelligenza e anche di quella furbizia che necessita a chi si propone di truffare lo Stato e i cittadini. In un certo senso possono essere considerati dei naif. Giovane età, inesperienza, alcol, rabbia e cocaina fanno di loro qualcosa di orribile. Il popolo napoletano non può sottostare ancora a tanta prepotenza. Napoli è una città bella e disperata. Con un patrimonio di cultura, di fede, di umanità da salvaguardare e tutelare. Non è giusto, anzi, è profondamente ingiusto e disonorevole, che migliaia di famiglie che si sacrificano per mantenersi oneste debbano vivere nel terrore di ritrovarsi al centro di una sparatoria e rischiare la vita. Lo Stato deve riprendere il controllo del territorio. E lo deve fare al più presto. Deve far sentire la sua presenza a cominciare dalle piccole cose. Le leggi debbono essere osservate da tutti. I quartieri più difficili e problematici necessitano di una presenza straordinaria di forze dell’ordine e di aiuti concreti alle scuole, al volontariato, alle società sportive, alla Chiesa. Napoli deve ritornare alla normalità. La camorra napoletana ha mutato il volto, quindi servono nuove forze e nuove strategie. Per la società civile, per il turismo, per l’arte, per l’economia, per il futuro della città, questi 'ragazzini' spietati e fragili sono una pesantissima zavorra. Bisogna al più presto recuperarli e tentare di riportarli sulla retta via. E per riuscirci ognuno deve fare la sua parte. IL GAZZETTINO Pag 1 Il “capitale umano”, la scelta di Berlino e i rischi per l’Italia di Oscar Giannino Su profughi e migranti può essere, speriamolo davvero, che in Europa sia in corso una vera accelerazione storica, da tardiva presa di consapevolezza. Il punto ora è cercare di ragionare, senza farsi travolgere dall’entusiasmo. Dopo anni, come Italia, trascorsi a misurare la testarda sottovalutazione altrui di un fenomeno che sembrava colpire solo noi. Domani al parlamento europeo il presidente della Commissione, Juncker, terrà il suo discorso sullo Stato dell’Unione. Si dovrebbero finalmente capire i dettagli delle proposte su cui sta lavorando Bruxelles. Proposte che hanno fatto un salto di qualità - passare dalla ripartizione comune di 32mila a 160mila richiedenti asilo - sotto l’urto delle decisioni tedesche. Si capirà come funziona davvero l’opting out a pagamento, per chi rifiuta le quote. Già sapendo che Madrid ieri ha detto no ai 15 mila che gli spetterebbero. Che i paesi centro europei del blocco di Visegrad mantengono le loro obiezioni (e muri). E che i bavaresi della Csu obiettano alla Cdu della Merkel sui 31 mila che spetterebbero alla Germania, in aggiunta alle centinaia di migliaia di siriani che la Germania a questo punto si attende, avendo dichiarato la politica della porta aperta a chi è in fuga da quel paese. Come italiani è il caso di fare due riflessioni fuori dai denti. C’è un primo aspetto, che riguarda il meccanismo delle quote. E ce n’è un secondo, che investe le iniziative che - anch’esse sul tamburo - si annunciano da parte di capitali europee nei confronti di paesi da cui originano i flussi. La Germania sotto la guida della Merkel ha compiuto una scelta che cambia l’atmosfera in Europa. Ma lo ha fatto con assoluta fedeltà allo spirito

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tedesco. Cioè tutelando in maniera rigorosa i propri interessi nazionali economici. Le porte spalancate ai profughi dalla Siria identificano la comunità nazionale - tra tutte quelle impegnate nell’esodo biblico in corso - meglio formata come capitale umano e più dotata di proprie risorse, anche finanziarie. La Siria è stata per decenni una tirannia, ma laica e ben scolarizzata. Di conseguenza non è solo un atto di generosità, fronteggiare il declino demografico in presenza della bassa disoccupazione tedesca con centinaia di migliaia di nuovi potenziali lavoratori, dotati di una formazione tra le meno lontane dai nostri standard europei. È una mossa economicamente vantaggiosa. Si tratta di manodopera pronta a consumi crescenti, e di integrazione assai meno ardua di praticamente tutti gli altri profughi e migranti che si orientano verso l'Europa. Ma che il governo tedesco abbia tenuto ben presente anche la propria convenienza economica, è un fatto. I 6 miliardi stanziati avranno un ritorno incomparabilmente superiore negli anni a quelli spesi in altri paesi, alle prese con flussi di ben altro tipo. Se l’Italia non si tutela, si profila un rischio molto forte. Verranno riallocate verso altri paesi europei alcune decine di migliaia di richiedenti asilo, oggi in Italia. Ma resteremo noi a fronteggiare centinaia di migliaia di migranti economici, non provenienti da Siria o Afghanistan, cioè Stati falliti e in preda a devastanti guerre etnico-religiose, ma da paesi africani come Nigeria ed Eritrea, in cui miseria e violenza spingono comunque verso i nostri lidi. Migranti che non appartengono alla bassa e media ex borghesia siriana, ma che nella generalità sono poco scolarizzati, privi di ogni risorsa, di più difficile integrazione. Di fronte a tale rischio, delle due l’una. O l’Italia si impegna perché al tavolo delle nuove norme europee non ci siano solo regole nuove e condivise sul diritto d’asilo ma anche sulla materia dei migranti economici, in relazione - per esempio - al reddito medio pro capite dei diversi paesi, e non più lasciandoli a chi ha più frontiere esterne alla Ue e a Schengen, siano esse marittime o terrestri. Oppure, molto semplicemente, è venuto il momento per l’Italia di darsi un criterio sui migranti economici del tutto diverso da quelli delle quote della Bossi-Fini, e cioè “scegliendo” anche noi capitale umano e qualifiche, come da tempo hanno fatto altre grandi nazioni occidentali come l'Australia. Non sono affatto scelte in controtendenza rispetto alla “svolta umanitaria” tedesco-europea. Si tratta di rendere l’integrazione economicamente sostenibile: in un paese come l’Italia, che ha perso un quarto della produzione industriale e dei suoi investimenti in 7 anni, è obbligatorio ragionare così. La seconda considerazione riguarda i tamburi di guerra che Francia e Gran Bretagna hanno improvvisamente preso a suonare sulla Siria. Anche su questo, parliamo chiaro. Anni di indifferenza e idee confuse americane e occidentali sulla tragedia siriana hanno prodotto un genocidio e l’Isis. Ma guardiamoci da un rischio. Cioè che avvenga un bis dell’improvvisazione franco-britannica che condusse alla fine di Gheddafi. Se potenze europee hanno deciso d’impegnarsi sui cieli e sul terreno siriano, auguri. Ma oltre il 90% dei flussi che si scaricano sull’Italia provengono dalla Libia. Abbiamo bisogno che al più presto la Ue si decida a impegnarsi all’Onu per autorizzare la terza fase del dispositivo aero-navale EurNavForMed, cioè per poter colpire scafisti e trafficanti anche nelle acque e sulle coste libiche, e non solo nelle acque internazionali mediterranee. Dobbiamo ottenerlo perché il nostro primo problema si chiama Libia. Non è alternativo alla Siria. Ma se non leviamo una voce forte la nostra ferita resta aperta, e non è affatto detto che in Siria i franco-britannici facciano meglio del disastro al quale hanno spalancato le porte in Libia. LA NUOVA Pag 1 Fermare l’Is per fermare le migrazioni di Ferdinando Camon La Germania cancella in poche ore l’eredità del nazismo, dandosi la nuova icona di accoglienza dei profughi; l’Europa ex comunista non mostra sentimenti di solidarietà; il Pentagono avverte che le migrazioni bibliche dureranno vent’anni; l’Inghilterra dice che va bene accogliere, ma bisogna anche fare una guerra all’Is, e farla subito. Se ha ragione il Pentagono («La migrazioni bibliche dall’Africa e dall’Asia dureranno almeno vent’anni»), non possiamo reggere questa pressione per tutto questo tempo. Da tutti i mari, da tutti i varchi, da tutti i confini. Non possiamo. Non sono preparati i governi, che non sanno cosa fare, né uno verso l’altro, né ciascuno verso il proprio popolo. E neanche verso i disperati che arrivano: sono profughi? fuggiaschi? oppositori? Sappiamo però una cosa: son disposti a morire, a perdere moglie o figli, ma vogliono venire qui; se partono

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in cento e muoiono in cinquanta, i cinquanta che arrivano ringraziano il loro Dio. Sono un problema. Non abbiamo scampo. Scopriamo, con sorpresa, che l’Europa si spacca in due, l’Europa dell’Est e l’Europa dell’Ovest. L’Europa di derivazione comunista, abituata a spartire tutto fra tutti, ci aspettavamo che accogliesse i profughi con un trattamento paritario, visto che sono i nuovi proletari del mondo. E invece non offre nessuna accoglienza, nessun refettorio, nessun dormitorio, ma muri di difesa, filo spinato, poliziotti col manganello, treni vietati. Adesso rifiuta anche di accettare le quote di migranti stabilite dal governo dell’Ue sulla base del Pil, della densità demografica, dei migranti già accolti. Questo è un rifiuto di una decisione dell’Europa. Può, se si comporta così, l’est europeo far parte dell’Europa? Ci aspettavamo che l’Est d’Europa, immiserito dal dominio comunista, vedesse la propria entrata in Europa per quel che è: una promozione e uno strumento di progresso. Ma questo non succede. I paesi ex comunisti, tenuti per tanti decenni fuori storia, educati su una cultura unica, sono incapaci di accettare la multiculturalità. Non la vogliono. Non avevamo letto bene la loro evoluzione. E non abbiamo letto bene l’evoluzione delle primavere arabe. Le vedevamo come marce dell’Islam magrebino verso la democrazia e il progresso. E invece sono fallite. Quei popoli sono in marcia verso il regresso e regimi repressivi. I paesi via via occupati dall’Is, e i paesi dove imperversa Boko Haram, e la Libia, non sono in via di risoluzione dei loro problemi, ma di aggravamento. Ogni giorno patiscono più repressione, più violenza, più miseria. Non tutti in Germania sono contenti dell’ospitalità offerta dalla cancelliera, ma la popolarità della cancelliera aumenta, e l’opinione mondiale pensa che questa immigrazione non sarà un grave peso, perché a entrare sono soprattutto siriani, che sono i più colti tra i migranti. Molti sono laureati. Ma il sistema delle “quote fisse” di esuli da accogliere nei paesi europei diventa un “debito” dei paesi accoglienti, e non tutti son disposti ad accollarselo. Non la Gran Bretagna, la quale pensa che bisogna eliminare definitivamente la principale fonte del problema, e cioè l’Is. Anche la Francia ci sta pensando. Bisognava pensarci prima, ma meglio tardi che mai. L’Is sta conducendo una guerra al resto dell’Islam, al Cristianesimo, all’arte, al genere femminile, ai Diritti fondamentali dell’uomo. La reazione dell’Inghilterra e della Francia alle azioni dell’Is consisterà in bombardamenti dall’alto, e già oggi partiranno gli aerei da ricognizione. Ma l’aviazione francese, quella inglese e quella americana, che è all’opera da tempo, intendono scardinare l’Is dai suoi insediamenti. Non facciamoci illusioni: è un’azione distruttiva, e farà dei danni imprevisti, quindi avrà le sue colpe. Diciamo fin dora «purtroppo». Ma a questo punto, per fermare l’Is ,nessuno vede un altro modo. Pag 1 I siriani e la svolta tedesca di Gianfranco Pasquino Giustamente, la foto di Aylan, il bimbo siriano morto su una spiaggia turca, ha fatto passare in secondo piano molte immagini successive, alcune delle quali davvero significative, sui migranti, sulle loro mete, sull’accoglienza ad opera di moltissimi europei. Asserragliati nella stazione ferroviaria di Budapest, i profughi siriani, difficile distinguere chi scappa da una guerra civile e può essere considerato perseguitato politico in cerca d’asilo da chi fugge la fame, esponevano cartelli e cantavano “We want Germany”. Certo, l’Ungheria di Orbàn non è la terra promessa, per nessuno, neppure per almeno metà degli ungheresi. Ma, perché la Germania della, fino ad allora, severissima ed esigentissima Frau Merkel, accusata di essere inflessibile con il, già martoriato, popolo greco, alla guida di un governo al quale alcuni, per fortuna, pochi, quasi rimproveravano comportamenti similnazisti? Quali giornali hanno letto quei siriani, quali informazioni hanno ricevuto tali da spingerli verso la Germania, proprio quella della cattiva Merkel? E perché, poi, giunti a Monaco di Baviera, quei tedeschi li hanno accolti, certo con viveri e coperte, con alloggiamenti, ma soprattutto, eh, sì, i simboli contano, con le bandiere azzurre e le stelle dell’Unione Europea e con l’Inno alla gioia, parole del tedesco Schiller e musica del tedesco Beethoven e, non poca cosa, con un milione di euro donato dalla, certo ricca, squadra di calcio Bayern Monaco nella quale hanno giocato e giocano immigrati e figli di immigrati? Gradualmente, ma irresistibilmente, nel secondo dopoguerra e ancora di più dopo la riunificazione (1990), la Germania è diventata un paese sicuro di sé, capace, soprattutto grazie al suo sistema politico e alla sua Costituzione, non soltanto di crescere economicamente, ma di accettare grandi responsabilità. Agli occhi dell’80 per cento dei cittadini dell’Unione, rivelano i dati

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dell’Eurobarometro, i tedeschi sono meritevoli di fiducia. Non è stata soltanto la benevolenza “protestante” di Frau Merkel a cambiare, meno improvvisamente di quel che è parso, la politica nei confronti dei migranti. Non è neppure il semplice bisogno di manodopera da parte degli imprenditori tedeschi (quanto ingenerosa è questa critica), a fare aprire le porte ad un’immigrazione di massa. Molti siriani e, presumibilmente, molti altri migranti, hanno già parenti e amici in Germania, dove vivono e lavorano stabilmente più di tre milioni di turchi, anche curdi. Convinti che le regole si applicano, come nel caso della Grecia, prima di cambiarle, meglio se nel consenso di grandi maggioranze, sono i cittadini tedeschi che hanno indicato la loro disponibilità alla Cancelliera, la quale, da intelligente leader politica, ha capito l’opinione pubblica e l’ha guidata dimostrando che cosa significa dare “rappresentanza” a un, con un po’ di retorica, “popolo”. Non sembrano avere paura i tedeschi di perdere la loro identità che, comunque, ha detto, scritto, ribadito il filosofo politico tedesco Jürgen Habermas, deve costruirsi intorno al patriottismo costituzionale da estendersi anche all’Unione Europea. Non è questione di radici; è questione di regole,di procedure, di istituzioni. Sicuramente sono pochissimi, ancorché istruiti, i profughi siriani e di altri Paesi che conoscono queste tematiche. Tuttavia, a chi fugge da una guerra civile, non solo quella siriana, ma anche quelle in Iraq, Yemen, Sudan, un Paese come la Germania offre ordine politico democratico, prevedibilità di comportamenti, regole rispettate. Epidermicamente, quei migranti lo hanno capito e catturato nella loro richiesta “We want Germany”. L’Unione Europea è da decenni luogo di pace, come riconosciuto dal Premio Nobel assegnatole nel 2012 e, nonostante le difficoltà economiche di molti paesi, meno di altri, anche della Germania, luogo di prosperità. Anche questo sviluppo è conforme all’elaborazione del grande filosofo illuminista tedesco Immanuel Kant: la pace eterna, duratura, si stabilisce fra le democrazie. Nell’omaggio che i siriani e altri hanno fatto alla Germania, sta forse, anche la richiesta che l’Unione Europea s’impegni a portare non una pace qualunque, ma una pace giusta in tutto il Medio-Oriente. Torna al sommario