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RASSEGNA STAMPA di lunedì 4 giugno 2018 SOMMARIO Preghiera del Santo Padre Giovanni Paolo II per l'Italia O Dio, nostro Padre, ti lodiamo e ringraziamo. Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli accompagna i passi della nostra nazione, spesso difficili ma colmi di speranza. Fa’ che vediamo i segni della tua presenza e sperimentiamo la forza del tuo amore, che non viene mai meno. Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo, fatto uomo nel seno della Vergine Maria, ti confessiamo la nostra fede. Il tuo Vangelo sia luce e vigore per le nostre scelte personali e sociali. La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace. Spirito Santo, amore del Padre e del figlio con fiducia ti invochiamo. Tu che sei maestro interiore svela a noi i pensieri e le vie di Dio. Donaci di guardare le vicende umane con occhi puri e penetranti, di conservare l’eredità di santità e civiltà propria del nostro popolo, di convertirci nella mente e nel cuore per rinnovare la nostra società. Gloria a te, o Padre, che operi tutto in tutti. Gloria a te, o Figlio, che per amore ti sei fatto nostro servo. Gloria a te, o Spirito Santo, che semini i tuoi doni nei nostri cuori. Gloria a te, o Santa Trinità, che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. (Giovanni Paolo II, 15 marzo 1994) 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 9 Più di mille fedeli per il Corpus Domini con il Patriarca di n.d.l. La cerimonia religiosa a San Marco IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 2 giugno 2018 Pag VI Domani processione a San Marco con la benedizione della città di d.gh. Il Patriarca alla messa per Papa Giovanni XXIII 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 3 giugno 2018 Pag IX Uno spaccato di storia di Mestre nei 50 anni della chiesa di via Rielta di a.fra. 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il monito di Francesco a Ostia: “Basta prepotenze, serve legalità” di Gian Guido Vecchi Roma, il Papa nel quartiere sul litorale dominio del clan Spada LA REPUBBLICA Pag 14 La sfida del Papa ai clan di Ostia: “Basta prepotenze e omertà” di Mauro Favale

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 4 giugno 2018

SOMMARIO

Preghiera del Santo Padre Giovanni Paolo II per l'Italia

O Dio, nostro Padre, ti lodiamo e ringraziamo. Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli accompagna i passi della nostra nazione,

spesso difficili ma colmi di speranza. Fa’ che vediamo i segni della tua presenza e sperimentiamo la forza del tuo amore,

che non viene mai meno. Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo,

fatto uomo nel seno della Vergine Maria, ti confessiamo la nostra fede. Il tuo Vangelo sia luce e vigore per le nostre scelte personali e sociali.

La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace.

Spirito Santo, amore del Padre e del figlio con fiducia ti invochiamo.

Tu che sei maestro interiore svela a noi i pensieri e le vie di Dio. Donaci di guardare le vicende umane con occhi puri e penetranti, di conservare

l’eredità di santità e civiltà propria del nostro popolo, di convertirci nella mente e nel cuore per rinnovare la nostra società.

Gloria a te, o Padre, che operi tutto in tutti. Gloria a te, o Figlio, che per amore ti sei fatto nostro servo.

Gloria a te, o Spirito Santo, che semini i tuoi doni nei nostri cuori. Gloria a te, o Santa Trinità, che vivi e regni nei secoli dei secoli.

Amen.

(Giovanni Paolo II, 15 marzo 1994)

1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 9 Più di mille fedeli per il Corpus Domini con il Patriarca di n.d.l. La cerimonia religiosa a San Marco IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 2 giugno 2018 Pag VI Domani processione a San Marco con la benedizione della città di d.gh. Il Patriarca alla messa per Papa Giovanni XXIII 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 3 giugno 2018 Pag IX Uno spaccato di storia di Mestre nei 50 anni della chiesa di via Rielta di a.fra. 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il monito di Francesco a Ostia: “Basta prepotenze, serve legalità” di Gian Guido Vecchi Roma, il Papa nel quartiere sul litorale dominio del clan Spada LA REPUBBLICA Pag 14 La sfida del Papa ai clan di Ostia: “Basta prepotenze e omertà” di Mauro Favale

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IL GAZZETTINO Pag 8 Pedofilia in Australia: pugno di ferro del Papa Diocesi commissariata AVVENIRE di domenica 3 giugno 2018 Pag 3 La splendida laicità di Dio di Luigino Bruni L’umanesimo biblico è infinita educazione alla libertà Pagg 20 – 21 Pregare, questione di umiltà. Il modello? E’ il Padre Nostro di Riccardo Maccioni, Filippo Rizzi e Roberto Rotondo Castellucci: il Signore ci insegna la logica del “noi”. In “Chi prega si salva”: la prima iniziativa è del Signore. Il Papa: se ci fa chiedere perdono anche la vergogna è una grazia Pag 25 Chiese e cattedrali di nuovo al centro di Alessandro Beltrami Dal Convegno liturgico l’appello a superare la visione di edifici religiosi come monumenti chiusi nella storia, non vissuti dalla comunità AVVENIRE di sabato 2 giugno 2018 Pag 2 Preghiera del Santo Padre Giovanni Paolo II per l’Italia LA REPUBBLICA di sabato 2 giugno 2018 Pag 20 Preti pedofili, la Chiesa paga maxi risarcimento negli Usa di Paolo Rodari Duecento milioni per quattrocento vittime 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il silenzio degli in-docenti di Alessandro D’Avenia CORRIERE DELLA SERA di domenica 3 giugno 2018 Pag 28 La ricetta non sempre è l’amore di Antonella Baccaro Per la serenità meglio puntare su equilibrio interiore, affetti e benessere fisico LA NUOVA di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Per i consumi una nuova normalità di Francesca Setiffi 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA di sabato 2 giugno 2018 Pag 20 “San Camillo, vogliamo vederci chiaro” di Francesco Furlan Lettera dei sindacati sull’acquisto dell’ospedale da parte di Villa Salus. Il direttore Bassano: “Sono pronto ad incontrarli” 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Bonet al vertice del volontariato veneziano di Alvise Sperandio IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 2 giugno 2018 Pag XII Carpenedo, gli scout dell’Agesci puliscono il Forte di A.Spe. 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 3 giugno 2018 Pag 5 Primo “divorzio” per due donne. A Vicenza si scioglie un’unione civile di Benedetta Centin A un anno dal “sì” la divisione di casa e beni. “Affido congiunto” per i cuccioli

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IL GAZZETTINO di domenica 3 giugno 2018 Pag 14 La notte bianca delle chiese venete e friulane di Raffaella Ianuale L’8 giugno 40 luoghi sacri faranno le ore piccole accogliendo i visitatori con tour guidati, spettacoli teatrali, concerti e letture LA NUOVA di domenica 3 giugno 2018 Pag 10 Retrocessione sociale. I nordestini si sentono sempre più poveri di Daniele Marini Il 62% si colloca in una classe bassa contro il 50% di 5 anni fa. E per emergere serve una famiglia con maggiori risorse CORRIERE DEL VENETO di sabato 2 giugno 2018 Pag 6 Nasce la “Lobby dei poveri” contro la precarietà sociale e lavorativa di Giacomo Costa Pag 6 Irene e Laura, Padova le riconosce genitori e unisce i loro figli: “Ora sono fratelli” di Francesca Visentin L’atto del Comune. Le mamme: “Molte ci invidiano” LA NUOVA di sabato 2 giugno 2018 Pag 11 Aumenta la povertà in Veneto, 16 associazioni per combatterla di Marta Artico Nasce un coordinamento … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Oppositori in cerca di logica di Paolo Mieli Le critiche al governo Pag 11 Cala la fiducia degli italiani nella Ue ma solo uno su quattro ne uscirebbe di Dario Di Vico A differenza dei leghisti, tra gli elettori 5 Stelle prevalgono i filo-comunitari Pag 12 Slovenia un po’ più “orbaniana”. Il voto premia la destra antimigranti di Paolo Salom LA REPUBBLICA Pag 1 La destra realizzata di Ezio Mauro IL GAZZETTINO Pag 1 Politica estera, le scelte e le incognite del governo di Romano Prodi LA NUOVA Pag 1 Bipolarismo pericoloso per l’Italia di Francesco Jori Pag 1 Distruggere invece di costruire di Pier Aldo Rovatti CORRIERE DELLA SERA di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Tre dossier per capire la rotta di Ferruccio de Bortoli Ilva, Alitalia, Cdp Pag 1 L’ex popolo della libertà di Pierluigi Battista Trionfi e declino del centrodestra Pag 1 La mano tesa di Marco di Massimo Nava Perché Parigi vuole una sponda Pag 10 “La Ue non dia lezioni all’Italia” di George Soros

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Il finanziere e filantropo: l’Europa vi paghi per l’onere ingiusto subito per i rifugiati Pag 13 Croci negli uffici. Ma il cardinale boccia la legge di Paolo Valentino Il caso in Baviera AVVENIRE di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Una storia tutta da fare di Gianfranco Marcelli Primo governo senza più tradizioni Pag 3 Il dibattito che manca tra gli “sconfitti” di Carlo Cardia Strani silenzi, servono memoria e domande di futuro Pag 6 Radiografia dei nuovi ministri: età media 50 anni, sono lombardi 6 su 20 di Gianni Santamaria CORRIERE DEL VENETO di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Né con né contro l’Europa di Paolo Costa Il perimetro Pag 3 Fontana, il ministro è già un caso. Le frasi sui gay scatenano la rivolta di Matteo Sorio Anche il M5S prende le distanze. Salvini lo corregge, lui non arretra: “Strumentalizzato” IL GAZZETTINO di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Per capire il governo evitiamo le etichette di Luca Ricolfi Pag 2 Salvini: “Grandi opere, non ci sarà nessuno stop” di Alda Vanzan Intervista al neoministro LA NUOVA di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 L’equilibrio instabile tra alleati di Fabio Bordignon CORRIERE DELLA SERA di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 Un’alleanza conflittuale di Angelo Panebianco Pag 1 La rete di Giorgetti di Francesco Verderami Pag 6 La Lega al 28,55, tallona il Movimento di Nando Pagnoncelli Forza Italia ancora in calo, Pd in lieve crescita Pag 11 “Le famiglie gay? Non esistono. Ora più bambini e meno aborti” di Alessandra Arachi Il ministro Fontana: investire sui consultori Pag 12 Le ambiguità e le ambizioni di un governo politico a metà di Massimo Franco LA REPUBBLICA di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 Allacciate le cinture di Mario Calabresi AVVENIRE di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 L’interesse (inter)nazionale di Vittorio E. Parsi Il governo e l’Europa più giusta Pag 3 La sconfitta europea del voto irlandese di Marina Casini Il referendum sull’aborto e l’identità stravolta Pag 3 Dalla “ferita” di una madre la luce che rigenera amore di Giorgio Paolucci Il figlio Youssef terrorista a Londra, le lezioni di Valeria

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Pag 10 Sulle donne i conti non tornano. Così spariscono i temi della parità di Antonella Mariani Nel nuovo esecutivo solo 5 ministre su 18 Pag 23 Islam. Quale dialogo? di Alessandro Zaccuri Sansal: “Non illudetevi, nessuna tolleranza”. Nawaz: “la speranza vince, posso dimostrarlo” IL FOGLIO di sabato 2 giugno 2018 Pag IV Occidente buddista di Giulio Meotti Ancora cardinale, Ratzinger l’aveva previsto. Scristianizzati e stanchi, un giorno ci saremmo consegnati alla fede nel Buddha Pag V L’Europa oltre il secolarismo di Matteo Matzuzzi Cristiani sì, ma “non praticanti”. L’inutile tormento per i bei tempo che non torneranno più IL GAZZETTINO di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 “Prova budino” per il governo del grande compromesso di Bruno Vespa Pag 8 Zaia: “Caro governo, ecco le mie priorità” di Alda Vanzan Il governatore veneto: “Sull’autonomia se si vuole entro l’anno si può chiudere” LA NUOVA di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 Responsabilità per evitare le elezioni bis di Bruno Manfellotto Pag 1 Laboratorio con rischi di esplosione di Paolo Gurisatti CORRIERE DEL VENETO di sabato 2 giugno 2018 Pag 3 “La famiglia è quella con mamma e papà. Unioni gay e aborto? Contrario da sempre” di Antonio Spadaccino Il leghista veronese Lorenzo Fontana: “Ma nel contratto i temi etici non ci sono”

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA LA NUOVA Pag 9 Più di mille fedeli per il Corpus Domini con il Patriarca di n.d.l. La cerimonia religiosa a San Marco In Piazza, ieri, un puntino bianco racchiuso nell'ostensorio si è fatto largo tra la folla attirando culture e religioni di ogni parte del globo. A guidare la lenta e lunga processione e a sorreggere il "Pane eucaristico" per renderlo visibile a tutti, nella solennità del Corpus Domini, il Patriarca Moraglia che poco prima in Basilica nell'omelia aveva consegnato ai fedeli riflessioni teologiche sulla fede. «A partire dal sensus fidei, che caratterizza il popolo di Dio, dalla vita dei santi (dei mistici), dalla riflessione dei teologi, dalla guida del magistero ecclesiastico ma, in particolare, grazie all'azione dello Spirito Santo, si avvertì la necessità d'istituire una festa che evidenziasse come l'Eucaristia oltre ad essere cena e sacrificio è anche presenza reale del Signore Gesù». A conclusione della processione il Patriarca è salito sul palco e ha impartito la benedizione alla città. Per la prima volta quest'anno il palco era al centro della Piazza, poiché è stato utilizzato lo stesso di sabato per la festa della Repubblica. Alla cerimonia religiosa hanno assistito un migliaio di persone, autorità civile e militari, le varie confraternite della città e anche molti turisti.

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 2 giugno 2018 Pag VI Domani processione a San Marco con la benedizione della città di d.gh. Il Patriarca alla messa per Papa Giovanni XXIII Venezia. Torna domani la tradizionale processione in piazza San Marco, in occasione della solennità liturgica del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, in cui la chiesa testimonia pubblicamente la propria fede nel Signore Gesù presente nel Sacramento dell'Eucaristia. Il patriarca Francesco Moraglia presiederà la messa in Basilica, alle 18, a cui seguirà la processione che terminerà con la benedizione all'intera città. Sono invitati a prendere parte alla solenne celebrazione - accanto ai parroci e ai sacerdoti - i diaconi, i religiosi e le religiose, i fedeli dei vari gruppi ecclesiali, delle associazioni, dei movimenti e delle Scuole Grandi ma anche i chierichetti e i bambini della prima comunione, insieme ai catechisti e agli educatori. Questa sera il patriarca presiederà alle 20.30 la messa a Sotto il Monte Giovanni XXIII in occasione del pellegrinaggio nella diocesi di Bergamo dell'urna con il corpo di Angelo Giuseppe Roncalli, San Giovanni XXIII, che fu patriarca di Venezia dal 1953 al 1958. Giovanni XXIII - il papa del Vaticano II e della pace, dell'ecumenismo e del dialogo con i lontani - resterà sino al 10 giugno a Sotto il Monte. Sino alla veglia prima della giornata conclusiva presieduta dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin, si alterneranno presuli bergamaschi, vescovi alla guida di diocesi lombarde e non solo. Il ritorno di Papa Giovanni nella sua terra è certamente un gesto che si richiama al suo grande cuore di pastore e di figlio della sua Chiesa e della sua gente. Infatti da vescovo di Roma volle che la salma benedetta di San Pio X fosse pellegrina a Venezia, dove Papa Sarto fu Patriarca e promise ai suoi diocesani, prima della partenza per il conclave, che «vivo o morto a Venezia tornerò». Papa Giovanni XXIII fece realizzare questa profezia di Pio X. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 3 giugno 2018 Pag IX Uno spaccato di storia di Mestre nei 50 anni della chiesa di via Rielta di a.fra. Mestre. Una ex pescheria adibita a chiesa, poi un prefabbricato in mezzo ai campi che un giorno sarebbero diventati parco, infine la chiesa vera e propria nella quale venerdì sera il patriarca Francesco Moraglia ha celebrato i 50 anni della parrocchia. È un pezzo della storia recente di Mestre il cinquantenario della comunità di San Giovanni Evangelista che si chiude oggi in via Rielta dopo quattro giorni di festa. Anni che vanno dal boom degli anni Sessanta, quando all'unica parrocchia di Carpenedo allora esistente se ne affiancarono altre sette fra le quali, appunto, San Giovanni Evangelista, eretta nel 1968 dal patriarca cardinale Urbani e affidata a don Gianni Dainese, cui è succeduto don Giovanni Frezzato. La sede era un negozio adibito a chiesa - non diversamente dai luoghi di culto delle comunità islamiche presenti oggi in città - fino a quando, un anno dopo, fu realizzato a fianco il prefabbricato su un terreno comunale ancora libero. La donazione di un terreno da parte del commendator Matter (dove poi sorse l'istituto Mozzoni) e la successiva permuta con un altro terreno vicino spianò poi la strada all'edificazione della chiesa, inaugurata nel 1985. Nel frattempo con la chiesa era nato anche il Parco Bissuola, un fiume verde che attraversava via Rielta e si espandeva fino a via Casona e via Tevere. Ma per la canonica e le altre opere parrocchiali, per mancanza di fondi, ci sarebbero voluti ancora alcuni anni: la consacrazione della chiesa da parte del patriarca Cè risale infatti al 2000. Un lungo cammino che non ha impedito di far crescere la parrocchia che oggi ospita 17 comunità neocatecumenali, gruppi di ascolto e di aiuto alla vita, la Caritas che fa fronte alle esigenze dei nuovi poveri. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA

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CORRIERE DELLA SERA Pag 17 Il monito di Francesco a Ostia: “Basta prepotenze, serve legalità” di Gian Guido Vecchi Roma, il Papa nel quartiere sul litorale dominio del clan Spada Ostia. Oltre i platani d’un lungo viale si arriva alle prime case popolari di Nuova Ostia, e pazienza se lungo il percorso molti scattano foto e applaudono al passaggio del Corpus Domini anziché farsi il segno della croce. L’essenziale sono le diecimila persone che accompagnano la processione, la gente affacciata ai balconi, le lenzuola con scritte come «Francesco uno di noi» nello storico feudo degli Spada, già conteso da altri clan criminali, mentre l’ultima preghiera risuona dagli altoparlanti invocando «forza e coraggio perché non ci perdiamo di fiducia dinanzi all’illegalità e alle prepotenze e non ci adagiamo in una colpevole noncuranza e pigrizia». L’essenziale sono le parole pronunciate dal Papa, che attende per la benedizione alla fine della processione e durante la messa nella parrocchia di Santa Monica ha appena scandito: «Gesù desidera che siano abbattuti i muri dell’indifferenza e dell’omertà, divelte le inferriate dei soprusi e delle prepotenze, aperte le vie della giustizia, del decoro e della legalità». È la terza volta che Bergoglio arriva a Ostia, dopo una visita parrocchiale nel 2015 e la benedizione pasquale di alcune case nel 2017. Da quarant’anni il Corpus Domini si celebrava nel centro di Roma, a San Giovanni in Laterano. Ma nell’anno della canonizzazione (a ottobre) di Papa Montini, Francesco ha voluto riprendere la tradizione di guidare le processioni in varie zone della città e cominciare da Ostia, dove Paolo VI celebrò il Corpus Domini cinquant’anni fa. Dopo gli arresti e i processi che stanno decimando il clan Spada, però, è ovvio che l’attenzione si concentrasse sulla vicenda dei gruppi criminali che si dividono e contendono case, usura e droga lungo il litorale romano. Giornata di sole, il tardo pomeriggio è ancora caldo, le spiagge affollate. Eppure sono arrivati in tanti ad ascoltare il pontefice che sillaba: «L’ampio lido di questa città richiama alla bellezza di aprirsi e prendere il largo nella vita. Ma per far questo occorre sciogliere quei nodi che ci legano agli ormeggi della paura e dell’oppressione». Francesco riflette sul testo evangelico dell’Ultima Cena, i discepoli che vanno a «preparare» la celebrazione della Pasqua ebraica «dopo essere entrati in città». Gesù «non predilige luoghi esclusivi ed escludenti, egli ricerca posti non raggiunti dall’amore, non toccati dalla speranza», spiega. «In quei luoghi scomodi desidera andare e chiede a noi di fargli i preparativi. Quante persone sono prive di un posto dignitoso per vivere e del cibo da mangiare! Ma tutti conosciamo delle persone sole, sofferenti, bisognose: sono tabernacoli abbandonati. Noi, che riceviamo da Gesù vitto e alloggio, siamo qui per preparare un posto e un cibo a questi fratelli più deboli». Anche oggi, come i discepoli, bisogna «entrare nelle nostre città», senza paura: «Il Signore ci chiama anche oggi a preparare il suo arrivo non rimanendo fuori, distanti». Si tratta di entrare «anche in questa città il cui nome, “Ostia”, richiama proprio l’ingresso, la porta: Signore, quali porte vuoi che ti apriamo qui? Quali cancelli ci chiami a spalancare, quali chiusure dobbiamo superare?». E abbattere i muri di indifferenza e omertà, prendere il largo senza paura. «L’Eucaristia invita a lasciarsi trasportare dall’onda di Gesù, a non rimanere zavorrati sulla spiaggia in attesa che qualcosa arrivi, ma a salpare liberi, coraggiosi, uniti», conclude: «Avete provato situazioni dolorose: il Signore vuole esservi vicino». LA REPUBBLICA Pag 14 La sfida del Papa ai clan di Ostia: “Basta prepotenze e omertà” di Mauro Favale Roma. «Abbattete i muri dell'indifferenza e dell'omertà, aprite le vie della giustizia, del decoro e della legalità». Papa Francesco, per la terza volta nel suo pontificato, torna a Ostia, nell'unico Municipio di Roma che per due anni è stato commissariato per mafia, dove le denunce contro i clan si contano sulle dita di una mano e dove spaccio e usura costituiscono i pilastri dell'economia criminale. Rompe una liturgia che durava dal 1978 e, 50 anni dopo Paolo VI, celebra di nuovo sul lido della capitale il Corpus Domini, «festa di accoglienza e disponibilità». Sposta così la tradizionale processione che si svolgeva nel cuore di Roma, dalla basilica di San Giovanni in Laterano a quella di Santa Maria

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Maggiore, in due parrocchie di periferia, da Santa Monica a Nostra Signora di Bonaria, nel quartiere delle case popolari, a poche centinaia di metri da via Baffigo, quartier generale degli Spada, e da via Forni, teatro dell'ultimo duplice omicidio di mafia da queste parti, datato novembre 2011: uno spartiacque nella storia criminale del litorale, che segna l'inizio dell'ascesa della famiglia Spada, passata da manovalanza del clan Fasciani alla conquista del potere e dei principali traffici in uno dei più popolosi quartieri della città. Almeno fino alle retate degli ultimi mesi. Ostia non è una delle malfamate "villas miserias" che circondano Buenos Aires e che Bergoglio conosce così bene perché quello è il luogo in cui ha maturato, negli anni in cui era arcivescovo nella capitale argentina, la sua idea di "Chiesa in uscita". Negli ultimi mesi, però, questo territorio che sia affaccia sul mare di Roma ha concentrato su di sé tutto il campionario di criticità che pure sono visibili nelle altre periferie della città, tra strade dissestate, sporcizia, racket delle case popolari, senso di abbandono, difficoltà di raggiungere il centro e presenza della criminalità. «Occorre ascoltare il grido che sale dalla nostra gente di Roma», aveva ricordato tre settimane fa il Papa nell'incontro che aveva tenuto a San Giovanni con la diocesi della capitale. E ieri, nel municipio finito sui giornali e nei tg di tutta Italia per la testate di Roberto Spada contro il giornalista di Rai 2 Daniele Piervincenzi, dove la cronista di Repubblica Federica Angeli vive da 5 anni sotto scorta, il Pontefice avverte che «Gesù desidera che siano divelte le inferriate dei soprusi e delle prepotenze». Ad ascoltarlo, sul sagrato di Santa Monica, ci sono 2.000 persone, in attesa della processione di un chilometro fino alla Madonna di Bonaria che Bergoglio lascia guidare al vicario di Roma, Angelo Donatis, prima di impartire la benedizione conclusiva del rito. Ai balconi, lungo il percorso, sono appesi lenzuoli bianchi con la scritta «Grazie Francesco». Il Papa gioca con la parola Ostia, dal latino ostium, imboccatura del fiume, porta: «Signore, quali porte vuoi che ti apriamo qui?» dice nel municipio dove il mare non si vede, invisibile a causa di un lungomuro che da due anni la giunta M5S della capitale dice di voler abbattere. Entro giugno, assicurano dal Campidoglio, arriveranno le ruspe. Intanto, Francesco parla «dell'ampio lido di questa città che richiama alla bellezza di aprirsi e prendere il largo nella vita. Ma per far questo occorre sciogliere quei nodi che ci legano agli ormeggi della paura e dell'oppressione». Invita i cittadini di Ostia a «non rimanere zavorrati sulla spiaggia in attesa che qualcosa arrivi, ma a salpare liberi, coraggiosi e uniti. Avete provato situazioni dolorose. Il Signore vuole esservi vicino». IL GAZZETTINO Pag 8 Pedofilia in Australia: pugno di ferro del Papa Diocesi commissariata Città del Vaticano. Una decisione velocissima: Papa Francesco ha deciso di commissariare la diocesi di Adelaide, in Australia, neanche due settimane dopo la condanna dell'arcivescovo titolare per copertura di abusi sui minori. Papa Francesco ha nominato amministratore apostolico «sede plena» dell'arcidiocesi di Adelaide monsignor Gregory ÒKelly. La decisione del tribunale contro monsignor Philip Wilson, che appunto guidava l'arcidiocesi di Adelaide, era arrivata il 22 maggio. Il giorno successivo Wilson si era autosospeso dai suoi compiti di arcivescovo per poi dimettersi. Il 25 poi ha assunto la guida il suo vicario, padre Philip Marshall. Ieri la decisione del Papa. La Conferenza episcopale australiana, alle prese da decenni con lo scandalo pedofilia (e in attesa del processo al cardinale George Pell, Prefetto dell'Economia vaticana), sul caso Wilson ha dichiarato: «Apprezziamo sia la sollecitudine del Santo Padre sia la generosità del vescovo ÒKelly nell'accettare l'incarico». ARCIVESCOVO CONDANNATO - L'amministratore apostolico nominato dal Papa è nato proprio ad Adelaide e vi ha prestato servizio come prete e vescovo. «È noto nell'arcidiocesi di Adelaide ed è ben qualificato per il ruolo che gli è stato affidato», sottolinea la Conferenza episcopale spiegando che monsignor ÒKelly rimarrà vescovo di Port Pirie durante questo periodo, in attesa delle decisioni del Papa. Wilson, 67 anni, rischia una pena fino a due anni di reclusione. Durante il processo si è sempre dichiarato innocente anche se non è chiaro se farà ricorso contro la sentenza. È stato condannato con l'accusa di avere insabbiato gli abusi sessuali su quattro minori compiuti dal sacerdote James Fletcher a partire dagli anni 70, quando entrambi operavano nella diocesi australiana di Maitland. Fletcher è morto in prigione a 65 anni, nel 2006, un anno

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dopo la condanna a quasi 8 anni per aver abusato di un chierichetto di 13 anni tra il 1989 e il 1991. AVVENIRE di domenica 3 giugno 2018 Pag 3 La splendida laicità di Dio di Luigino Bruni L’umanesimo biblico è infinita educazione alla libertà Quando si cerca di rispondere a una vocazione, l’esistenza si muove tra il ricordo di una grande liberazione e l’attesa del compimento di una grande promessa, tra memoria e speranza. Tutto si svolge tra queste due sponde del fiume, e il mestiere del vivere sta nell’imparare a restare nel guado, senza cedere alla tentazione della nostalgia della sponda dalla quale proveniamo né a quella che ci ripete che l’approdo era stato solo un miraggio. Non si è travolti dalle acque e trascinati via dalla corrente finché si resta aggrappati all’invisibile fune che lega il Mar Rosso al Giordano. Anche perché più ci avviciniamo all’altra riva, più il brano di corda che stringiamo si assottiglia sempre più sotto la nostra mano. Davide ha recuperato l’arca e l’ha trasportata a Gerusalemme, la sua nuova città. Ha così ricollegato il suo regno alla prima Alleanza dei padri, all’uscita dall’Egitto, al Sinai, e ha legato il suo nome al nome dell’origine. Ma un grande progetto collettivo non vive solo elaborando e riscattando la memoria, ha un bisogno vitale anche di una nuova promessa che apra il futuro mentre lo àncora al passato, perché nessuna alba è luminosa se non vi intravvediamo l’arrivo del mezzogiorno. M a mentre l’origine è dono e eredità e quindi possiamo solo accoglierla e riceverla, cercare nell’oggi la legittimazione del futuro espone sempre al rischio della manipolazione del passato per trasformarlo ideologicamente in caparra di un futuro che vogliamo costruire e non attendere. Anche Davide sente questa paura e questa tentazione. «Il re, quando si fu stabilito nella sua casa (...) disse al profeta Natan: 'Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda'» (2 Samuele 7,1-2). La Gerusalemme di Davide non ha un tempio. Altre città di Israele lo avevano. Davide vuole dare al suo Dio una casa nella sua nuova città. Il profeta Natan, che qui fa la sua comparsa, risponde: «Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te» (7,3). Natan è profeta di corte, sapeva che il Signore era con Davide, e senza interrogare direttamente YHWH consiglia il re di fare semplicemente quanto desidera fare. È questo un esercizio ordinario della profezia, quando il profeta usa il passato e il buon senso per rispondere ad una domanda sul presente e sul futuro. M a quella di Davide non era una domanda ordinaria, perché toccava una colonna dell’identità del suo popolo. Non poteva quindi bastare il solo mestiere, e ci fu bisogno di una epifania per capire una verità più profonda: «Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: 'Va’ e di’ al mio servo Davide: così dice il Signore: 'Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io infatti non ho abitato in una casa da quando ho fatto salire Israele dall’Egitto fino ad oggi; sono andato vagando sotto una tenda'» (7,4-6). Ma ... La parola che YHWH rivolge al suo profeta inizia con un ’ma’. Natan è il profeta vicino a Davide, forse dopo la morte di Samuele aveva preso il suo posto di consigliere profetico del re. La sua funzione e il suo mestiere gli avevano suggerito in prima battuta di assecondare il desiderio del re. Ma Natan è un profeta vero, il resto della vita di Davide ce lo svelerà. Ed ecco che scatta in lui una seconda dimensione della parola. Gli viene suggerita – forse in sogno – un’altra verità, una parola più grande e diversa dalla prima. I profeti veri sono diversi dai falsi profeti perché sanno di essere portatori di due voci, diverse pur uscendo dalla stessa bocca. Si diventa falsi profeti quando le due voci finiscono per coincidere – il profeta si fa dio, e spesso riesce a convincere gli altri (e se stesso) di esserlo diventato davvero. Natan sa invece distinguere le due voci, le ordina gerarchicamente, e l’indomani ha il coraggio di riferire a Davide l’opposto di quanto gli aveva detto il giorno prima. Non è un profeta ruffiano, non ha paura di fare una brutta figura mostrandosi smentito da YHWH, né teme di dire a Davide cose diverse da quelle che voleva sentirsi dire (sta quasi tutta qui la difficoltà dell’esercizio di ogni profezia vera). Il nuovo oracolo dice a Davide (e a noi) qualcosa di fondamentale per la fede biblica, e per ogni fede. YHWH si era rivelato come una voce, voce libera e non catturabile. Fin dall’inizio aveva assicurato la sua presenza (shekhinah) nell’oggi del popolo. Come la manna, quella presenza saziava solo la fame quotidiana e non poteva essere accumulata altrimenti marciva - è questo il senso della speranza biblica, e il

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valore della gratuità (charis, gratia) in ogni fede-fiducia. Ci fidiamo veramente di qualcuno cui siamo legati da un patto finché speriamo che domani torni ancora a casa avendogli dato oggi la libertà di non farlo, senza smettere mai di sorprenderci ogni volta che lo vediamo tornare. Ma il giorno in cui costruiamo un sistema di garanzie e di controlli che impediscono all’altro di non tornare, in quei ritorni non-liberi quel rapporto inizia a morire. L’umanesimo biblico è una infinita educazione a questa libertà, che culminerà in un crocifisso che muore senza che chi era sotto la croce avesse garanzie della sua resurrezione. C’era solo una grande speranza, che continua a farci vedere crocifissi risorgere se non smettiamo di frequentare i Golgota della nostra terra (troppi non riescono a vedere le resurrezioni perché hanno perso di vista i luoghi dove avvengono le crocifissioni e dove le pietre rotolano: nei 'salotti buoni' nessun giardiniere ci chiamerà mai per nome). La costruzione di un nuovo tempio era l’opera più naturale e religiosa per Davide, il buon senso e la sua devozione gli indicavano questa unica direzione. Ma il Dio biblico non è il dio del buon senso dei re devoti né delle religioni. Il rapporto tra YHWH e il tempio è sempre stato ambivalente e problematico, espressione dell’ambivalenza e problematicità del rapporto tra la Bibbia e la religione. La Bibbia ha generato più religioni, ma il suo primo scopo non è l’edificazione di un discorso religioso. Al centro dell’umanesimo biblico c’è invece la fede, quindi un rapporto collettivo e individuale con un Dio spirituale e per questo diverso dagli idoli. E in quanto rapporto, la fede biblica è dinamica, storica, evolutiva, sorprendente, agonistica, contraddittoria. Le religioni hanno bisogno dei templi, la Bibbia può farne a meno, e ne ha fatto a meno. Alla Bibbia interessa sottolineare la verità di un Dio più grande e diverso da ogni tempio e da ogni religione. E allora la generazione che passa tra la domanda di tempio di Davide e la sua costruzione da parte di suo figlio Salomone, quel vuoto nel tempo storico di Israele, è il linguaggio con cui la Bibbia ha voluto dire dell’eccedenza tra il tempio di Dio e il Dio del tempio, lo scarto tra la fede e la religione che incarna quella fede, la libertà di YHWH rispetto alle case che gli costruiamo per dirgli quale deve essere la sua dimora e il suo territorio da noi recintato. Per ricordare a tutte le religioni del libro che quel Dio diverso non è monopolizzabile, che non può diventare proprietà privata di un popolo né di alcuna comunità religiosa. Tutte le violenze religiose nascono quando si dimentica l’esistenza di questa 'generazione di mezzo', quel tempo senza tempio, lo scarto tra la domanda di una casa e la risposta. La terra del tempio viene così a coincidere con la terra di Dio, il tetto del tempio diventa la misura della libertà di Dio e nostra. Sta in questa eccedenza la bellissima laicità del Dio biblico, che preferisce il 'vagare sotto una tenda' al cedro robusto e stabile del tempio. La stabilitas loci non è un attributo del Dio della Bibbia – il vagare di Dio che consente alle nostre stabilità di non diventare prigioni religiose. Dio, attraverso Natan, risponde così alla richiesta di Davide: «Il Signore ti annuncia che farà lui una casa per te» (7,11). Colpo di scena. È Davide, siamo noi, che abbiamo bisogno di una casa e di una benedizione. A Davide viene donata una benedizione diversa e speciale, una promessa nuova e meravigliosa: «La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sarà reso stabile per sempre» (7,17). Per sempre. In questa nuova promessa non c’è il 'se' che era al centro della prima Alleanza con i patriarchi e con Mosè, dove la struttura contrattuale impegnava una parte alla fedeltà a condizione che anche l’altra fosse fedele. Ora qui abbiamo invece un patto incondizionale dalla parte di Dio - «Se camminerà per vie contorte, lo colpirò con verga d’uomo e con percosse di figli d’uomo, ma non ritirerò da lui il mio amore» (7, 14-15). Non ritirerò. Molte delle promesse grandi della vita sono e devono essere reciproche e condizionali. Le famiglie, le imprese, le comunità, vivono di patti e di 'se' che danno serietà e robustezza alle nostre case. Ma, se li guardiamo bene, scopriamo che sotto i 'se' e le condizioni delle nostre alleanze ci sono promesse senza se e senza condizioni. Un matrimonio è un patto di reciprocità, che vive se ciascuno fa la sua parte ed è fedele. Il patto nuziale non è però un incontro di 'se', perché se dicessimo all’altro 'ti amerò per sempre se tu mi amerai per sempre', usciremmo dal patto nuziale e precipiteremmo in un contratto commerciale. Il 'per sempre', nel momento in cui è pronunciato, non conosce i se. C’è una dimensione di libertà incondizionale a fondamento delle nostre reciprocità condizionali, perché se non ci fosse i nostri patti non sarebbero abbastanza robusti e liberi per poter durare. Gli esseri umani sono più grandi della loro reciprocità, siamo più liberi dei nostri 'se', sappiamo amare di più delle condizioni che mettiamo al nostro amore. Per questo (qualche volta) riusciamo a non

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morire quando scopriamo che il nostro 'per sempre' non ha incontrato il 'per sempre' dell’altro, i nostri patti sono andati a male, ma noi abbiamo provato a risorgere, ancora una volta. O quando continuiamo a camminare ancorati a un 'per sempre', anche se ci siamo convinti che dall’altra parte non ci sia più nessuno a raccogliere quella promessa pronunciata nella giovinezza. E, forse, alla fine scopriremo che la corda si era talmente assottigliata fino a spezzarsi, ma c’era una mano a raccoglierci, perché, continuando a camminare, eravamo arrivati a un solo passo dalla terra nuova e non ce ne eravamo accorti. Pagg 20 – 21 Pregare, questione di umiltà. Il modello? E’ il Padre Nostro di Riccardo Maccioni, Filippo Rizzi e Roberto Rotondo Castellucci: il Signore ci insegna la logica del “noi”. In “Chi prega si salva”: la prima iniziativa è del Signore. Il Papa: se ci fa chiedere perdono anche la vergogna è una grazia La preghiera come dialogo d’amore, che non ha bisogno di frasi mirabolanti o immagini di alta poesia, perché cresce nel rapporto cuore a cuore. L’umiltà e la disponibilità come condizioni necessarie per aprirsi all’azione della grazia, per accettare la logica della salvezza che viene da Dio. E si realizza, per così dire è resa possibile, dal rapporto con gli altri. Un atteggiamento di fiducia, di legame filiale tra la creatura e il Creatore che trova semplice e al tempo stesso profonda sintesi nel libretto ”Chi prega si salva”, in cui sono raccolte le preghiere più note della tradizione cristiana. A partire dalla famosa espressione, di sant’Alfonso Maria de’ Liguori scelta come titolo. E che nella sua formulazione completa suona un tantino inquietante: chi prega si salva, chi non prega si danna. «Credo che sant’Alfonso non intenda proporre, con questa espressione, una “teoria universale” riguardante la salvezza o la condanna, ma muoversi dentro all’orizzonte del credente – spiega monsignor Erio Castellucci, arcivescovo di Modena-Nonantola e neo presidente della Commissione episcopale Cei per la dottrina della fede, la catechesi e l’annuncio –. In altre parole, il suo interesse è concentrato sul cristiano: in questo senso chi prega si salva e chi non prega si danna. Chi prega, cioè, mantiene quell’apertura umile e disponibile al Signore che è il requisito fondamentale per lasciare entrare nel cuore la grazia. Chi non prega, si illude di tenere in mano la propria vita da solo, si chiude ermeticamente all’amore di Dio, crede di salvarsi da solo. Papa Francesco direbbe che cade nel pelagianesimo». Nel libretto sono raccolte le preghiere più semplici della vita cristiana, quelle che impariamo da bambini, in famiglia i più fortunati o al catechismo. Perché è importante “frequentarle” anche da adulti? La memoria orante, come quella liturgica, rappresenta per l’essere umano un punto di riferimento costante nella vita. Tante persone, che poi nemmeno proseguono nella pratica della fede cristiana, continuano quotidianamente a recitare almeno in qualche circostanza le preghiere imparate da bambini. È come il recupero costante di quella dimensione fanciullesca che abita sempre dentro di noi, anche a ottant’anni; e che mantiene viva la condizione posta da Gesù per «entrare nel regno dei cieli»: diventare come bambini. Di nuovo è questione di umiltà e disponibilità. Quindi la preghiera di domanda, con le formule imparate a memoria, non è di serie B rispetto a espressioni più alte della vita dello Spirito, come l’adorazione o la preghiera del cuore. Nella preghiera non ci sono le categorie, come nel calcio. Niente serie A, B o C. Piuttosto c’è un modello, al quale ogni preghiera si riconduce: il Padre Nostro, che i padri della Chiesa chiamavano oratio dominica, la preghiera del Signore. In quella breve preghiera, che tutti conoscono a memoria, Gesù suggerisce ben quattro domande: il pane quotidiano, il perdono dei peccati, la custodia dalle tentazioni e la liberazione dal male. Richieste per il corpo, la mente e lo spirito. Queste richieste sono precedute dalla lode, per mettere in evidenza che non sono richieste fatte dagli schiavi al padrone o dai clienti al negoziante, ma dai figli al Padre. Chiedere, quindi, è da figli: purché avvenga nel rispetto della grandezza del Padre. Se siamo figli, dobbiamo chiedere umilmente. Nella prefazione alla nuova edizione del libro il Papa cita anche una buona preparazione al sacramento della Confessione. Troppe volte abbiamo quasi paura di essere perdonati.

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È vero. Forse la difficoltà di prepararci dipende anche dalla sensazione sgradevole che ciascuno di noi prova di fronte ai propri limiti e peccati. Prepararsi significa riflettere, concen-trarsi, calarsi nella propria condizione fragile: e questo dà fastidio. Ma è necessario, se vogliamo sperimentare la misericordia di Dio e correggere i nostri difetti. Come preparazione al confessionale, che cosa consiglia? Prima di tutto di ripetere lentamente il “Padre Nostro”, che rappresenta quasi un esame di coscienza: non è infatti la preghiera dell’io, ma la preghiera del noi. «Dacci», «rimetti i nostri debiti», «non ci indurre», «liberaci». È la preghiera di una comunità: mentre dunque chiedo per me, chiedo per noi. E mi interrogo su come io mi rapporto agli altri. Se domando il perdono dei miei debiti, so poi rimetterli ai miei debitori? Se domando il pane per me, so poi condividerlo con gli altri, con quelli che insieme a me formano il “noi” e hanno diritto come me al pane quotidiano? E per imparare a pregare da dove si comincia? Si comincia dal cuore, non dalla carta. O meglio, la preghiera scritta e imparata a memoria deve diventare preghiera del cuore, relazione con il Signore. Quando uno si innamora, non si preoccupa di andare a cercare su Internet le frasi giuste da dire. Sarà la relazione a suggerirle. Bastano poche formule - ripeto, Gesù ce ne ha data una esemplare e la Chiesa ce ne offre alcune essenziali - ma occorre molto affetto. Le preghiere stesse incentivano l’affetto, perché l’espressione dell’amore aumenta il grado stesso dell’amore. Se io voglio bene a una persona, ma non glielo dico mai, non scatta la relazione e facilmente quell’amore si raffredda. Così con Dio: non resiste e serve a poco una fede “intellettuale”, fredda, che non si rivolga mai a lui. Se posso permettermi… c’è una preghiera che lei sente particolarmente “sua'” che la accompagna da sempre? A questo punto è chiaro che la mia preferita è il Padre Nostro. Dico spesso anche l’Ave Maria. Fin da piccolo ho imparato la preghiera del Rosario, che recito ogni giorno. È come una ripetuta professione d’amore verso la Madre. Quando, insomma, ci si rivolge a Dio come Padre e a Maria come Madre, ci si sente ben custoditi e spronati ad essere paterni e materni verso i fratelli. Un apologeta della fede innamorato di sant’Agostino e da sempre convinto che un’arma semplice come la preghiera sia il primo strumento dell’annuncio cristiano per portare la salvezza anche per chi proviene da storie non radicate in una fede antica e spesso non vissuta. È la storia ma anche l’avventura cristiana di don Giacomo Tantardini, vissuto tra il 1946 e il 2012, sacerdote ambrosiano, “romano d’adozione” e padre nobile e anima (assieme a Giulio Andreotti) del mensile 30Giorni come anche del settimanale “fratello” Il Sabato . Il sacerdote esperto di patristica e di spiritualità, amico del filosofo Augusto Del Noce, che fu tra l’altro tra i primi allievi del servo di Dio e fondatore di Comunione e Liberazione don Luigi Giussani, è ricordato ancora oggi – a sei anni dalla sua scomparsa avvenuta a Roma il 19 aprile del 2012 – per essere stato il principale promotore e ideatore del libricino (che proponiamo con l’edizione di Avvenire ai nostri lettori) Chi prega si salva. Il volume ha il pregio di raccogliere forse la più originale e feconda intuizione pastorale di questo sacerdote nato a Barzio (Lecco) nel 1946 e formatosi alla scuola teologica di Venegono (fu un fedele e brillante discepolo di un raffinato teologo del rango di monsignor Carlo Figini) e poi ordinato prete dall’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Colombo nel 1970. Nei primi anni Settanta consegue la licenza in diritto canonico alla Pontificia Università Gregoriana. E, dopo essere stato incardinato nella diocesi di Roma dove è inviato da don Giussani, sarà tra l’altro parroco nella chiesa di Santa Maria Magherita Alacoque a Tor Vergata (Roma), docente universitario in vari atenei (tra cui l’università statale di Padova e la Pontificia Facoltà Teologica San Bonaventura Seraphicum di Roma) e segnerà la storia del movimento di Cl. Ancora oggi è ricordato da molti universitari romani appena usciti dai difficili anni della contestazione studentesca per aver proposto in modo originale e controcorrente un’idea di «annuncio cristiano» come qualcosa di «interessante». Proprio dalla sua attività pastorale a fianco degli universitari romani si deve il piccolo volume di preghiere nato nei primi anni Ottanta su richiesta di quei giovani che si convertono al Vangelo. Intensa la sua comunicazione della fede capace di coinvolgere i più lontani. Inoltre è appassionato promotore di opere e di iniziative sociali, acuto ispiratore de Il Sabato fra gli anni Ottanta e Novanta, polemista, talvolta intransigente, per la sua forte personalità. Un

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sacerdote, don Tantardini, comunque sempre attento al trascendente che alla scuola di Peguy amava definirsi soprattutto un «cristiano della parrocchia». Per sua scelta con l’assenso dei frati minori cappuccini il suo corpo riposa dal giorno dei suoi funerali, presieduti dal cardinale Angelo Sodano, avvenuti il 23 aprile 2012, nella “tomba di famiglia” di questo Ordine religioso all’interno dei cimitero monumentale del Verano a Roma. La sua eredità è portata avanti dall’associazione “Don Giacomo Tantardini” sorta dopo la sua scomparsa con lo scopo principale di diffondere il piccolo libro di preghiere. Un impegno che ha come riferimento anche il sito Internet. Il portale ospita anche alcune pubblicazioni, di semplice conforto alla fede. Da qui le rubriche “Come in cielo” e “Per Sanctos”. Inoltre propone i collegamenti ad altri siti: anzitutto la rivista 30Giorni che il sacerdote curò fino all’ultimo dei suoi giorni; poi un archivio di catechesi e scritti di don Giacomo: materiale che il prete lombardo non volle pubblicare perché fosse più chiaro quel che riteneva essenziale; infine, l’associazione “Piccola Via onlus”, che venne creata a suo tempo per affiancare 30Giorni nell’opera di diffusione di Chi prega si salva e per realizzare piccole opere di carità. Pubblichiamo la prefazione del Papa alla nuova edizione di “Chi prega si salva”, libretto che raccoglie le preghiere più semplici della tradizione cristiana. Nato da un’intuizione di don Giacomo Tantardini (1946-2012) ed edito dal mensile internazionale 30Giorni, il volumetto ha incontrato un successo persino sorprendente. Oggi “Chi prega si salva” viene riproposto in un’edizione che si apre con una breve riflessione di papa Bergoglio cui segue l’introduzione firmata nel 2005 dall’allora cardinale Joseph Ratzinger che pochi mesi dopo sarebbe stato eletto Pontefice. A seguire, l’intervento di papa Francesco. «Vieni dunque, Signore Gesù. Vieni a me, cercami, trovami, prendimi in braccio, portami». Questa preghiera di sant’Ambrogio era molto cara a don Giacomo Tantardini, la recitava spesso, ci ricorda il suo cuore bambino, la sua preghiera così cosciente che è il Signore il primo a prendere l’iniziativa e noi non possiamo fare niente senza di Lui. Non a caso a questo libretto volle dare come titolo “Chi prega si salva”, un’espressione di sant’Alfonso Maria de’ Liguori. Gli amici di don Giacomo lo considerano il suo regalo più bello: un piccolo libro in cui, su richiesta di giovani che si convertivano al cristianesimo, il sacerdote volle raccogliere le preghiere più semplici della tradizione cristiana e tutto ciò che aiuta a fare una buona Confessione. Tradotto nelle principali lingue, è stato diffuso in centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo dalla rivista 30Giorni , giungendo gratuitamente anche in molte missioni cattoliche sparse in ogni angolo del pianeta, e anche oggi mi dicono che continuano a giungere numerose richieste di esemplari. «Chi si confessa bene diventa santo»: è una frase che don Giacomo ripeteva spesso nell’ultima parte della sua vita. Il libretto suggerisce come confessarsi bene. Il punto di partenza è l’esame di coscienza, il dolore sincero per il male commesso. L’accusa dei singoli peccati, con concretezza e sobrietà. Senza vergognarsi della propria… vergogna. Perché anche la vergogna è una grazia se ci spinge a chiedere il perdono, come è una grazia il dono delle lacrime, che lava il nostro sguardo, ci fa vedere meglio la realtà… Al Signore basta un accenno di pentimento. La misericordia divina, come impariamo dal Vangelo, attende paziente il ritorno del figliol prodigo, anzi lo anticipa, lo previene toccando per prima il suo cuore, così da destare in lui il desiderio di poter essere riabbracciato dalla Sua infinita tenerezza e di poter ricominciare a camminare. Nel confessionale dobbiamo essere concreti nell’accusa dei peccati, senza reticenze, ma poi vediamo che è il Signore stesso che ci “tappa la bocca”, come a dirci: basta così… Gli basta vedere questo accenno di dolore, non vuole torturare la tua anima, la vuole abbracciare. Vuole la tua gioia. Perché Gesù è venuto a salvarci così come siamo: poveri peccatori, che chiedono di essere cercati, trovati, presi in braccio, portati da Lui. Città del Vaticano, 28 marzo 2018 Un piccolo miracolo editoriale. Tanto che è difficile stabilire in quante copie sia stato diffuso il libretto dalla copertina tutta rossa e il titolo, tratto da una famosa frase di sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Chi prega si salva: sei o settecentomila? Di più? Forse, perché ancora oggi, dopo tanti anni, continua a essere richiesto. Più facile raccontare

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come questo tascabile – che inizia da come ci si fa il segno della croce, contiene le preghiere fondamentali e le formule del catechismo di san Pio X, dal quale prende anche tutto ciò che serve per una buona Confessione, e si chiude con i canti più belli della tradizione cristiana – tra il 2001 e il 2012 sia stato editato in italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e cinese dal mensile internazionale 30Giorni nella Chiesa e nel mondo. Chi prega si salva, nato dall’intuizione di don Giacomo Tantardini, scomparso nel 2012, veniva inviato in ogni Paese del mondo a monasteri, missioni, chiese, santuari, semplici fedeli e vescovi, suore di clausura e madri di famiglia, operai e insegnanti, giovani e anziani che ne facevano richiesta. Il libretto era anche un segno di unità, come scrisse l’indimenticato vescovo di Shanghai, il gesuita Aloysius Jin Luxian, nella sua introduzione all’edizione in lingua cinese: «La semplice ripetizione di queste preghiere nella trama dei giorni sarà anche segno intimo e sincero della comunione con la Chiesa di Roma, fondata sul martirio degli apostoli Pietro e Paolo. L’attingere alla stessa sorgente di grazia, condividendo gli stessi sacramenti e le stesse preghiere, fa fiorire nel mondo la comunione di tutti i figli della Chiesa nella stessa fede degli apostoli». Fu una delle conseguenze memorabili di un libretto che affondava le sue radici nel modo di pensare e vivere il cristianesimo di don Giacomo Tantardini, sacerdote ambrosiano inviato a Roma da don Luigi Giussani nei primi anni Settanta, dove restò fino alla sua morte. Il libretto nacque negli anni Ottanta: allora era un piccolo vademecum per fare una buona Confessione, rivolto in particolare a quei giovani e adulti che si accostavano per la prima volta o facevano ritorno, dopo anni di abbandono, alla pratica cristiana. Poche pagine, non si intitolava ancora Chi prega si salva ma solo Il sacramento della penitenza o Confessione, ma fu per migliaia di giovani la possibilità di scoprire il cuore dell’esperienza cristiana. Poi, man mano che le edizioni si susseguivano, don Giacomo le arricchì di quegli elementi che riteneva essenziali e nel 2001, per la prima volta, il libretto uscì con il titolo Chi prega si salva, allegato ad ogni edizione in lingua di 30Giorni, che iniziò così a diffonderlo. Il sacerdote era, infatti, anche l’anima della rivista e fu la sua sintonia con Andreotti, che la diresse dal 1993, a renderla uno dei più autorevoli magazine cattolici nel mondo. Il libretto rosso non è mai stato un’operazione di nostalgia preconciliare. Tutt’altro: fu per chi lo usava la scoperta dei tesori della tradizione, ma soprattutto era di una semplicità liberante. Il Cristianesimo una storia semplice titola uno degli scritti più noti di don Tantardini e tanto è semplice la vita cristiana, che poteva essere sintetizzata in quelle poche parole: Chi prega si salva. Spiegò lo stesso don Giacomo nel 2005 in un’omelia tenuta poco dopo l’uscita del libretto con l’introduzione dell’allora prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger: «L’ispirazione buona era questa: se ci si confessa bene così come il Signore ha stabilito, così come santa madre Chiesa ha determinato, con sincerità, con l’umiltà del poveretto che mendica, si diventa santi». L’introduzione del cardinale Ratzinger al libretto rosso non passò inosservata. Non solo perché, essendo datata 18 febbraio 2005, rappresentava uno degli ultimi scritti, se non l’ultimo, del cardinale Ratzinger prima di divenire Papa, ma anche per come lo facesse proprio augurandosi che diventasse «un compagno di viaggio per molti cristiani». Ma in quel periodo quella “facilità” dell’esperienza cristiana, che emerge dal libretto rosso, legava 30Giorni e don Tantardini anche al cardinale di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. Un legame che riemerge oggi con lo scritto di papa Francesco per questa nuova edizione del libretto. Così piccolo e leggero che ti sta in tasca. Così utile che lo metti in borsa o nello zaino. Pronto all’uso. Chi prega si salva (Edizioni 30Giorni , 138 pagine) è un libretto che racchiude in sé tutta la profondità e la sapienza della fede semplice, che si rivolge a Dio senza giri di parole o pensieri complicati ma con il vocabolario e le immagini dell’esistenza quotidiana. Non un manuale o un saggio sul “dialogo con Dio” dunque, ma una raccolta delle preghiere più comuni della vita cristiana. Quelle imparate da bambini al catechismo o, i più fortunati, in famiglia, recitandole con mamma e papà. Si inizia con “Il segno della croce”, “il Credo” e “il Padre Nostro” si prosegue con le for- mule direttamente legate alla Messa, e poi i misteri del Rosario, le stazioni della Via Crucis, fino ai Salmi e ai canti mariani tra i più noti e popolari. Ma il libretto è anche occasione per un piccolissimo ripasso dei catechismo e delle Scritture. Per esempio: quali sono le beatitudini evangeliche? Le ricordiamo tutte? E i doni dello Spirito Santo? Sapremmo

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parlare dei “novissimi”? In più, se ci è concesso un piccolo sorriso, non manca neanche la possibilità di giocare. Scorrendo le pagine ti accorgi infatti che ci sono preghiere che non conosci, suppliche di cui magari avevi sentito solo parlare senza mai trovartele davanti, inni ascoltati quand’eri piccolo e oggi riscoperti. Preciso, puntuale, consueto ma sempre utilissimo invece l’aiuto alla preparazione di una buona Confessione. A cominciare dalla consapevolezza del peccato, dal dolore nel riconoscerlo, soprattutto dalla “guida” a un buon esame di coscienza. Non a caso nella sua prefazione papa Francesco si sofferma sull’importanza di credere alla misericordia di Dio, mentre l’allora cardinale Joseph Ratzinger nell’introduzione alla “storica” edizione precedente, e riproposta in questa, sottolinea che «da che l’uomo è uomo, prega». Sempre. Inevitabilmente, verrebbe voglia di dire. «La preghiera è il respiro dell’anima – ha detto in un celebre Angelus pre-natalizio Bergoglio – è importante trovare dei momenti nella giornata per aprire il cuore a Dio, anche con le semplici e brevi preghiere del popolo cristiano». E a suggellare, a ribadire il concetto, l’attuale Pontefice non manca mai di chiedere di pregare per lui. «Chi prega si salva, chi non prega si danna!» è la celebre espressione di sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787) ripreso nel titolo del libretto, ma al di là del retaggio un po’ spaventevole, della paura che sembra motivarle, le parole del vescovo e dottore della Chiesa vogliono essere un aiuto a comprendere una realtà molto semplice. Che non si può mai fare a meno di pregare. Specie nei momenti più duri e di maggiore difficoltà e sofferenza. Perché non si può smettere di respirare. Perché quando hai conosciuto la dolcezza della casa del Padre non puoi rassegnarti a rimanere fuori. E allora bussi, bussi finché ti sarà aperto. ECCO COME ORDINARE IL LIBRO - Per richiedere il libro “Chi prega si salva” occorre contattare l’associazione “Don Giacomo Tantardini” presso i seguenti recapiti: email: [email protected]; telefono: 3275857356; sito Internet: associazionedongiacomotantardini. it. Le copie sono disponibili al costo di 1 euro l’una, più spese di spedizione. Il volumetto è disponibile anche in inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese e cinese. Pag 25 Chiese e cattedrali di nuovo al centro di Alessandro Beltrami Dal Convegno liturgico l’appello a superare la visione di edifici religiosi come monumenti chiusi nella storia, non vissuti dalla comunità «Ci sono ragioni teologiche ed ecclesiali, oltre che storiche e culturali, per interessarci alla cattedrale. Ma nella situazione attuale dobbiamo forse porci molte domande e accettare di non avere sempre delle risposte». Le domande evocate da Enzo Bianchi in apertura del XVI Convegno liturgico internazionale di Bose «Architettura di prossimità. Idee di cattedrale, esperienze di comunità», conclusosi ieri, sono arrivate. E con loro anche una serie di tracce per un dibattito che non interessa non solo la comunità cristiana ma l’intera società contemporanea. «Tra i temi emersi - commenta Giancarlo Santi, primo direttore dell’Ufficio nazionale dei beni culturali della Cei e cofondatore dei convegni di Bose - ce n’è uno importante e delicato ed è quello della prossimità, dai confini incerti: può voler dire apertura e solidarietà, ma anche superamento di una visione per cui la chiesa è un monumento chiuso nella sua storia. Cosa significa ad esempio prossimità per quelle cattedrali italiane isolate da un fiume di turisti e collocate in centri storici sempre più anziani e spopolati? Sono due fatti che convivono e svuotano dell’antico senso popolare e religioso le cattedrali. Non solo, le nostre cattedrali hanno sofferto della crisi dell’autorità vescovile attraversata dalla Chiesa italiana negli anni 60 e 70, accompagnata per altro da una discreta disaffezione da parte dei vescovi per le cattedrali. Ne nasce l’esigenza di un ripensamento attento e complesso della cattedrale innanzitutto, come ha sottolineato nelle sue conclusioni Albert Gerhard, nel suo significato ecclesiale. Sono scelte di natura pastorale, con precise ricadute sul piano architettonico». C’è, in un certo senso, una analogia tra il cambio di prospettiva liturgica successiva al Vaticano II, con la trasformazione della polarità e delle dinamiche all’interno dello spazio sacro, e la necessità di ripensare polarità e dinamiche tra cattedrale, città e diocesi. «L’appello va innanzitutto rivolto ai vescovi, che hanno il compito del discernimento complessivo; gli architetti sono chiamati a reinterpretare e tradurre. Non è un caso che la scelta della monumentalità per la cattedrale di Evry sia

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stata del cardinale Lustiger, che aveva letto le necessità di quell’agglomerato urbano». Sul fronte dell’adeguamento liturgico delle cattedrali ritroviamo dinamiche simili a quelle delle parrocchie con un sostanziale salto di scala su tutti i livelli. «L’intervento però non cambia: entrambi nascono dal profondo, non sono semplici decisioni prese dal parroco o dal vescovo, ma coinvolgono tutta la comunità nel modo di celebrare. Perché questi interventi mettano radici è centrale che la comunità torni a riflettere sull’importanza della liturgia. La diocesi deve essere invitata nella sua interezza e in modo prolungato nel tempo. Senza avere fretta. Questo crea un clima sereno e consente un intervento qualificato anche in contesti impegnativi. Ma la complessità di una cattedrale non è diversa da quello di una chiesa parrocchiale: l’analisi del contesto e dei problemi aperti, gli obiettivi, le esigenze concrete non sono davvero diversi». D’altra parte può apparire contrastante abbinare cattedrale, a cui istintivamente si tende a abbinare un’idea di centralità attrattiva e monumentale, a prossimità, dove sembra essere più forte l’elemento di uscita e di famigliarità. Due elementi che però la discussione ha ricomposto attraverso una modulazione delle prospettive. «Mi sembra - commenta Andrea Longhi, architetto, docente al Politecnico di Torino e membro del comitato scientifico dei Convegni liturgici internazionali - sia emerso che ogni comunità cristiana ha bisogno di diverse scale, diverse dimensioni per vivere in pienezza tutte le dimensioni del celebrare, della comunione fraterna, della solidarietà. Ridurre l’esperienza a un unico modello rischia di impoverire la ricchezza delle manifestazioni della fede e degli stili di vita». La polarità è persistente, anche dal punto di vista storico. «In questo senso la relazione di Sible De Blaauw ha mostrato come fin dagli inizi della fase pubblica del cristianesimo le domus ecclesiae convivano con una dimensione politica per cui la prossimità in termini di fraternità è vissuta anche in termini di istituzioni. Mi pare che la necessità di tenere assieme le scale diverse sia l’esito principale del convegno». Nel gioco dei contrasti è entrata la possibilità di pensare l’architettura sia come edificio e struttura, sia come motore di processi sociali, due modi distinti e convergenti che possono aprire nuovi spazi di riflessione, ad esempio in ambito pastorale. «Noi tendiamo a considerare l’architettura come manufatto in un luogo, ma spazio e tempo vi convergono. Spesso comunichiamo ancora che l’edificio chiesa è ciò che costruisce la comunità, ma è il processo dell’edificio chiesa a costruire la comunità. Lo sforzo è ricondurre a profili istituzionalizzati e gerarchizzati, nel senso più profondo, in cui ciascuno possa esprimere in uno specifico servizio la propria necessità di partecipazione. È importante incanalare questa istanza fondativa verso una condivisione non spontaneista, non ingenua, organizzata attraverso un pensiero. E in questo il ruolo dell’architetto è fondamentale». Gerarchia, intesa come struttura ordinata di responsabilità è una delle parole che sono tornate più volte nel convegno. «La cattedrale - ricorda Luigi Bartolomei, ricercatore presso l’Università di Bologna e presidente del Centro studi Cherubino Ghirardacci - ne istituisce una molto precisa, evidentemente di ordine spirituale. Una gerarchia che implica il confronto e introduce il principio di autorevolezza della tradizione. Il vescovo per i cristiani è il “presente” degli apostoli. Come però la modalità con cui questa autorevolezza si esplica è differente tra i vari vescovi, e questo interviene sull’interpretazione della cattedra, segno fisico del carisma episcopale. È un tema quindi architettonico, evidente nei diversi adeguamenti che evidenziano una pluralità. Ogni interpretazione spaziale risponde alla visione della committenza e offre l’immagine parlante del ruolo episcopale». Accanto al tema ecclesiologico c’è «l’idealità della liturgia e dello spazio di culto. Il quale, invece, si incarna in realtà specifiche, frutto della tradizione storica. Noi viviamo in un mondo profondamente stratificato in cui agiamo in spazi che sono depositi di senso. Per questo intervenire in una cattedrale è profondamente diverso da un’altra. La cattedrale è uno spazio eminenziale, sintesi di molteplici vettori. Per questo non si può intervenire con ricette preconfezionate. Ma attenzione: è soprattutto un problema di spazio. L’architetto non è una “matita” tra diverse componenti, l’architetto è prima di tutto occhio. Le cattedrali sono un corpo dato, e questo finisce per connotare anche l’azione rinnovata. Una buona lettura preventiva dello spazio è già progetto». AVVENIRE di sabato 2 giugno 2018 Pag 2 Preghiera del Santo Padre Giovanni Paolo II per l’Italia

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Pubblichiamo integralmente il testo della preghiera per l’Italia di papa Wojtyla, citato dal cardinale Bassetti nel suo testo di mercoledì 30. Preghiera del Santo Padre Giovanni Paolo II per l'Italia O Dio, nostro Padre, ti lodiamo e ringraziamo. Tu che ami ogni uomo e guidi tutti i popoli accompagna i passi della nostra nazione, spesso difficili ma colmi di speranza. Fa’ che vediamo i segni della tua presenza e sperimentiamo la forza del tuo amore, che non viene mai meno. Signore Gesù, Figlio di Dio e Salvatore del mondo, fatto uomo nel seno della Vergine Maria, ti confessiamo la nostra fede. Il tuo Vangelo sia luce e vigore per le nostre scelte personali e sociali. La tua legge d’amore conduca la nostra comunità civile a giustizia e solidarietà, a riconciliazione e pace. Spirito Santo, amore del Padre e del figlio con fiducia ti invochiamo. Tu che sei maestro interiore svela a noi i pensieri e le vie di Dio. Donaci di guardare le vicende umane con occhi puri e penetranti, di conservare l’eredità di santità e civiltà propria del nostro popolo, di convertirci nella mente e nel cuore per rinnovare la nostra società. Gloria a te, o Padre, che operi tutto in tutti. Gloria a te, o Figlio, che per amore ti sei fatto nostro servo. Gloria a te, o Spirito Santo, che semini i tuoi doni nei nostri cuori. Gloria a te, o Santa Trinità, che vivi e regni nei secoli dei secoli. Amen. Giovanni Paolo II, 15 marzo 1994 LA REPUBBLICA di sabato 2 giugno 2018 Pag 20 Preti pedofili, la Chiesa paga maxi risarcimento negli Usa di Paolo Rodari Duecento milioni per quattrocento vittime Testo non disponibile Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il silenzio degli in-docenti di Alessandro D’Avenia «Frequento la quinta superiore e la scuola mi ha delusa profondamente! Molti dei miei professori sono spesso assenti e ci ritroviamo a guardare la lavagna. Mi sveglio e spero di trascorrere un giorno con tutti i professori presenti! Torno a casa demoralizzata. Ho una docente che non ha voglia di far nulla. Abbiamo saltato moltissimi capitoli, a pochi mesi dalla maturità siamo indietro e abbiamo svolto un solo compito scritto. Il preside ci ha definiti “polemici” e ha detto che dobbiamo arrangiarci, perché ha le mani legate. Ci sentiamo presi in giro. So che posso studiare autonomamente, ma avere dei professori che facciano il loro lavoro non è forse un diritto? Non ce la faccio più, vorrei solo imparare!». «Sono un diciassettenne sempre più consapevole di quanto sia difficile per i ragazzi curiosi accettare la scuola italiana. Ogni giorno è sempre lo stesso copione. Voglio solo avere la cultura garantita dalla nostra Costituzione. Perché devo lottare con professori che minano la mia curiosità? Voglio imparare ed essere ripagato per i sacrifici che ho fatto, faccio e farò per studiare. Voglio una società in cui il merito conti qualcosa, ma quotidianamente ricevo delusioni. Devo rassegnarmi? Ho voglia di andar via». Ricevo decine di lettere simili. All’inizio pensavo fossero esagerazioni tipiche della frustrazione adolescenziale di fronte alla durezza della vita, poi però sono diventate troppe. Di recente è apparso sui muri di una nota scuola milanese un manifesto di protesta gentile

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che riassume in poche parole il contenuto di tutte queste lettere: «Quando entriamo a scuola siamo pervasi da una sensazione di noia o di vacuità che ci rende insofferenti e polemici: alla nostra vita così come alla scuola chiediamo di generare senso». Per fortuna ci sono centinaia di insegnanti che riescono a generare senso e ne abbiamo incontrato almeno uno sul nostro cammino. Ne ricordiamo il modo di vestire, incedere, spiegare, e i tesori che ci ha affidato. Vorrei che quel docente diventasse la normalità, invece di una scuola in cui non è garantita la presenza continuativa dello stesso insegnante. Sono le conseguenze di un sistema da riformare, come mostra il recente rigoroso studio della sociologa Maddalena Colombo, Gli insegnanti in Italia - Radiografia di una professione, che esordisce così: «Gli insegnanti italiani sono tra i più anziani d’Europa, a causa del basso turn over e della lunga trafila del precariato che i giovani devono affrontare. La carriera è «orizzontale», ossia manca un percorso di distinzione gerarchica (basato su incentivi e premi) che possa stimolare insegnanti capaci e impegnati al continuo miglioramento. Riguardo al trattamento economico, lo stipendio dei docenti italiani è tra i più bassi d’Europa». Le tre macro-criticità, combinate con peculiarità sociali e culturali, conducono i docenti alla frustrazione tipica dei lavori senza adeguato riconoscimento, il burn-out è infatti assai frequente. È un sistema che genera quelli che chiamo «in-docenti», coloro che, pur potendo essere ottimi insegnanti, vengono silenziosamente sacrificati da un contesto che neutralizza o addirittura umilia. Docente viene dalla stessa radice di «dire», che in origine significava «indicare». Il docente è colui che indica ciò che vale all’interno dei saperi teorici e pratici e, attraverso questo, rende gli studenti critici, autonomi e capaci di scegliere come continuare l’esplorazione. L’in-docente al contrario non indica perché, persa la stima professionale e personale, non crede di dover e poter segnalare più nulla se non la propria frustrazione, che si riflette nello specchio impietoso della protesta dei ragazzi. Perché? In Italia per il 2017-18 sono state 850 mila le cattedre disponibili nelle scuole statali per quasi 8 milioni di ragazzi, 90 mila nelle paritarie (scuole che danno lo stesso titolo legale delle statali) per 900 mila studenti. I posti statali sono stati coperti da insegnanti a tempo indeterminato (730 mila) e da quelli a tempo determinato (i supplenti/precari: 120 mila). Se escludiamo i docenti assunti dalle paritarie, restano a spasso i precari storici (delle graduatorie a esaurimento) o recenti (abilitati, vincitori di concorso, non abilitati che però insegnano da anni) non ancora assunti: decine e decine di migliaia di persone. Il numero di precari (tutti i contratti a tempo determinato) è talmente alto che Bruxelles ci ha recentemente richiamato definendo la situazione contrattuale dei nostri docenti «non degna di uno Stato dell’Ue». Il personale Amministrativo Tecnico Ausiliario ammonta a 205 mila unità, 8.000 sono i dirigenti. Ogni anno lo Stato spende per la scuola statale 49,5 miliardi di euro, per la paritaria 0,5: uno studente della statale costa più di 6 mila euro l’anno, 500 euro nella paritaria. I dati confortano: i docenti ci sono (la media - tra le migliori in Ue - è di un docente ogni 10 studenti) e l’investimento per alunno è cospicuo. Però la qualità del servizio e delle sedi non sembra corrispondere, perché l’organizzazione è farraginosa e il denaro si disperde in un apparato parascolastico eccessivo. Mentre in Europa i concorsi sono annuali, da noi dovrebbero essere, per legge, triennali (biennali dal prossimo concorso), ma sono stati troppo spesso congelati in relazione alle necessità di Bilancio e al non assorbimento dei precari. Così la scuola diventa un correttivo economico ai conti statali (la spesa diminuisce da anni) o la promessa di posti di lavoro non rispondenti al bisogno reale. Per questo i docenti italiani hanno l’età media (52 anni) più alta d’Europa: il 57% supera i 50 anni (36% in Ue), il 18% i 60 (8% in Ue). L’esperienza è un bene solo se bilanciata dal normale scambio e ricambio generazionale. Di recente i già laureati sono stati costretti a sostenere nuovi esami per partecipare al concorso di accesso al nuovo tirocinio triennale per entrare in ruolo. Un lavoro segnato da immobilità e precariato respinge i giovani: «sarai un morto di fame» è la minaccia nota a ogni aspirante. Più dell’80% dei docenti italiani sono donne. La cifra, come l’OCSE ha rilevato, denota un Paese in cui l’insegnamento, con sprezzo delle numerose battaglie per la parità di possibilità e salari, è purtroppo definito lavoro «da donne». A parità di titoli d’istruzione una docente riceve il 90% dello stipendio di donne che lavorano in altri ambiti pubblici, si scende al 70% per un uomo. La Colombo parla di «segregazione occupazionale»: insegnare non conviene agli uomini e lo stile educativo, soprattutto in alcuni contesti sociali, necessita di maggior equilibrio. La carriera scolastica finisce per essere identificata con scarse aspirazioni,

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assimilata a una sorta di occupazione di ripiego, dal salario ben al di sotto dei principali Paesi europei (la media Ue a inizio carriera è di 26 mila euro lordi, da noi 21 mila: un’ora è retribuita circa 16 euro), appetibile solo per chi può, deve o vuole accontentarsi. A essere svalutata è, di conseguenza, proprio la professionalità femminile. Rispetto ai sistemi europei la mobilità retributiva è assente: non ci sono incentivi premianti se non il rigido scatto di anzianità. Da ultimo, se al fatto che un posto su sette è affidato a supplenze aggiungiamo che, ogni anno, un docente su quattro cambia sede, gli effetti sulla didattica sono deleteri. Questi fenomeni combinati insieme mortificano le capacità personali e professionali: perché facciamo le pulci al curriculum dei politici e quello dei docenti non conta quasi nulla per differenziarne le carriere? I sistemi che ignorano o non valorizzano la storia personale, l’impegno, il contesto, la materia, deresponsabilizzano e appiattiscono verso il basso. Le «mani legate» del dirigente, di fronte alla palese inefficienza della docente di cui si racconta nella lettera, rendono inutile la richiesta di normale qualità. A 50 anni dal ‘68 ci vorrebbe una discontinuità creativa e coraggiosa ma di segno diverso: professionalità al potere! Immaginate uno scenario in cui la scuola è diventata così importante che il presidente della Repubblica blocca la formazione del governo per il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca proposto: fanta-politica. Il letto da rifare oggi è accogliere proteste accorate come quelle riportate sopra, che mi ricordano i versi delle Supplici di Euripide: «Come può essere salda una città/quando si strappano via i giovani coraggiosi/come spighe nei campi a primavera?». Occupati a rilanciare l’economia agendo su produzione e finanza, da troppo tempo trascuriamo l’essenziale slancio economico proveniente dal vivaio di un Paese che - in coda all’Ue nella spesa pubblica per l’istruzione - necessita di docenti messi in condizione di fare della scuola il luogo per coniugare la qualità della trasmissione dei saperi con l’orientamento e la cura delle vocazioni personali. Solo così fronteggiamo le nostre attuali cifre di abbandono scolastico (15%) e disoccupazione giovanile (33%), dati percentuali assordanti e complementari al lugubre silenzio degli in-docenti. CORRIERE DELLA SERA di domenica 3 giugno 2018 Pag 28 La ricetta non sempre è l’amore di Antonella Baccaro Per la serenità meglio puntare su equilibrio interiore, affetti e benessere fisico «La felicità non dipende dallo stato civile». Tutte le volte che, discutendo da single e di single, abbiamo tentato di proporre questo concetto, credendoci profondamente, qualcuno ci ha fatto notare che somigliava a un altro, molto più noto, che suona così: «I soldi non fanno la felicità». Un assunto cui tutti siamo abituati a rispondere: «Però aiutano...». Se accettassimo questo parallelismo fino in fondo, dovremmo dunque dire che un determinato stato civile non può fare la felicità ma può aiutare a provarla. E fin qui potremmo anche essere d’accordo. Il punto che discutiamo è che lo stato civile in questione debba essere necessariamente quello di chi sta in coppia. Beninteso, non ci sfugge che la percezione comune sia un’altra. Nel sondaggio lanciato dal Corriere per questa inchiesta, le risposte alla domanda «Si è più felici in coppia o da soli?» sono inequivocabili. Il gradimento maschile per la singletudine sfiora il 7,3 (in una scala da uno a dieci), contro il 6,8 femminile. Specularmente tra le possibili definizioni di felicità quella che corrisponde a «una relazione stabile e duratura» convince gli uomini al 75 per cento e le donne all’80. Tuttavia, se anziché proporre tra le definizioni di felicità quella che abbiamo visto se ne fosse scelta una più neutra, ad esempio «avere una relazione», forse il risultato sarebbe stato meno consistente. Perché le relazioni possono essere buone o cattive, e di certo la felicità che producono, se la producono, non può essere una costante. Non ci credete? Attingiamo ancora al sondaggio del Corriere: nella scala degli aspetti della vita che vengono valutati come più importanti ai fini della felicità, l’amore è per le donne, come per gli uomini, meno rilevante rispetto all’equilibrio interiore, agli affetti (compresi famiglia e amicizie) e al benessere fisico. Ma c’è di più: se l’84% del campione femminile considera rilevante l’amore per essere felice, solo il 52% si ritiene soddisfatto rispetto alla propria situazione reale. Il rapporto è simile per gli uomini: 80% contro 56%. Nel campione non vengono distinti i single dagli accoppiati, quindi non possiamo sapere se la frustrazione che emerge dai numeri derivi più dal fatto di aspirare a un amore e non averlo, oppure di avere un amore e non esserne soddisfatti. Ma un fatto è certo: scommettere sull’amore per essere felici non sembra

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essere una grande strategia. Di questo abbiamo una qualche consapevolezza se al primo posto tra le cose che fanno la felicità uomini e donne sondati mettono «l’equilibrio interiore, la propria serenità», un obiettivo che si può raggiungere in tanti modi (soli o accompagnati) e che, sempre secondo il sondaggio, siamo ben lontani dal percepire come conquistato. Colpisce ad esempio la grande importanza, ai fini della felicità, attribuita dalle donne alla possibilità di «avere un po’ di tempo per se stesse», espresso dal 71% del loro campione, a fronte del 54% di quello maschile. C’è in questa aspirazione una richiesta di spazio e di tempo che gli uomini sanno prendersi sottraendolo alle relazioni sentimentali, durature o meno che siano, e alle incombenze familiari, quando ci sono, per impiegarlo in quello che più funziona per il loro appagamento: la carriera o le passioni personali. Nel nostro sondaggio questo emerge chiaramente perché, a differenza delle donne, la presenza di un partner non rende gli uomini più felici, e nemmeno la presenza di figli. Questa ricerca tutta femminile di una «stanza tutta per sé» nasconde il ricatto sentimentale che ancora grava sulle donne per quanto emancipate. È come se il percorso di maturazione della propria individualità, quello che dovrebbe portare poi all’equilibrio interiore, fosse condizionato dal raggiungimento di una serie di obiettivi intermedi prefissati, senza dei quali una donna non può considerarsi socialmente realizzata. Estremizzando potremmo dire che la “felicità sociale” di una donna non corrisponde sempre, ancora oggi, alla sua “felicità individuale”. Lo stato civile di «coppia» dunque, per una donna, lungi da essere un elemento che porta senz’altro felicità, può essere condizionante, comunque lo si affronti. Se lo si sceglie anche convintamente, si deve accettare il corollario che lo accompagna e che richiede l’assunzione di un ruolo molto impegnativo, al servizio altrui. Che alla lunga può portare lontano dal proprio equilibrio interiore, fino a produrre una sorta di (inconfessabile) straniamento. Se lo si respinge, si ricade nello stereotipo della donna-single: una persona che la società considera non realizzata, un’anomalia, un costo, una catastrofe demografica. Dall’altra parte della barricata la ricerca della felicità, intesa come «equilibrio interiore», per i single, soprattutto donne, non è certamente più facile. Qui il maggiore problema non è la mancanza di tempo ma la capacità di impiegarlo nel modo più proficuo per la crescita personale. Si potrebbe dire paradossalmente che molti di loro impiegano la maggior parte del tempo a tenere la contabilità di ciò che non hanno, a partire dall’amore, non facendosene una ragione. È questo ancora l’ostacolo maggiore al raggiungimento della loro felicità, o almeno della serenità. Nessuno potrà mai convincere chi è alla ricerca di un amore che si può stare meglio senza. E noi neanche ci proviamo. Quello che rileviamo è che la massimizzazione del valore dell’amore nella vita, oltre a rendere stabilmente infelici, non garantisce lo stato d’animo ideale per vivere una relazione, una volta che questa dovesse spuntare all’orizzonte. Certo, non è facile distogliere lo sguardo dal modello classico «amore=felicità», non è immediato, avendo già un’esistenza dignitosa, concentrarsi su quello che può rendere la nostra vita un luogo bello da frequentare. Ma è un esercizio quotidiano doveroso per chiunque: cercare il modo di essere felici da single è un gioco in cui si vince comunque. Se si resterà soli, la propria vita apparirà più piena; se invece si entrerà in una coppia, lo si farà con una marcia in più, senza riversare sull’altro soverchie aspettative di felicità che spesso soffocano il sentimento. Già, ma come si fa? Cominciando con l’ammettere, ad esempio, che la ricerca spasmodica dell’altro, come unica chiave della felicità, ci distoglie dalle numerose opportunità di gioia che attraversano la nostra esistenza. Se ci si convince di questo, focalizzandosi con più attenzione su se stessi, si può passare allo step successivo: imparare a cogliere queste opportunità. Ci sono almeno due strumenti da mettere nella cassetta degli attrezzi: riconoscere i propri sogni, imparare a uscire dal percorso abituale per perseguirli. «La felicità è nelle piccole cose»: questo è l’aforisma preferito da uomini e donne nel sondaggio del Corriere. Saggia scelta, se non nascondesse nelle sue pieghe una sorta di rinuncia a investire in progetti più grandi, capaci di imprimere un verso alla propria vita. Esiste un’attitudine a riconoscere le proprie aspirazioni? Probabilmente sì, c’è chi è più in grado di ascoltarsi e individuarle, ma basterebbe un maggiore esercizio di concentrazione perché chiunque possa riuscirci. Il momento migliore per cominciare a entrare in empatia con se stessi è l’infanzia, quando ancora non abbiamo eretto barriere razionali contro i nostri sogni. La domanda rivolta a un bambino, «Cosa vuoi fare da grande?», oppure «Cosa ti piace fare?»,quando non è seguita da alcuna risposta è un segnale che dovrebbe indurre i genitori a

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impegnarsi di più per consentire al figlio di «ascoltarsi». La stessa domanda rivolta a un adolescente, se rimane insoddisfatta, è già un campanello d’allarme. Certo, non tutti i sogni saranno percorribili, ma individuarli e cercare di realizzarli, in qualsiasi momento della vita, è il primo antidoto contro le future frustrazioni e una fonte inesauribile di motivazione. Il secondo strumento indispensabile per cogliere delle occasioni di felicità è la capacità di uscire fuori dai percorsi abitudinari che soprattutto i single adottano per rassicurarsi. Questa coazione a ripetere è una gabbia costruita per paura di affrontare l’imprevedibilità della realtà. La paura è un sentimento condizionante per molti single: c’è questo nel loro ritrarsi rispetto all’indeterminatezza che un amore può portare nella propria vita, al dolore che può scaturire da una relazione, all’abbandono che può seguire. Quella stessa paura stringe un assedio intorno alla loro vita, impedendo loro di sperimentare e seguire le proprie aspirazioni. C’è un libro illuminante di Chiara Gamberale, Per dieci minuti, che racconta come, per uscire dalla delusione di una storia d’amore, una donna, su suggerimento del terapeuta, è «costretta» a inventarsi tutti i giorni per dieci minuti qualcosa di nuovo da fare, un’esperienza, anche piccolina, mai provata prima. Un metodo intelligente per spingerci oltre i sentieri già battuti. Qualcosa di simile a quello che abbiamo visto fare a un amico che, quotidianamente, su Twitter, verso sera, pubblica le «tre cose belle» vissute nelle ultime 24 ore. Una preghiera vespertina per riconoscere il positivo che ci circonda, per individuare le «fonti alternative» di possibile felicità. «Dopo una certa età la società ci spinge a pensare che essere single sia un problema grave» rileva il nostro filosofo di riferimento, Alain de Botton, che ha molto scritto sul tema dell’amore moderno. E prosegue: «Ma non possiamo scegliere serenamente il nostro partner se l’idea di restare soli ci spaventa. Accettare di essere single a lungo è l’unica possibilità per avere una buona relazione. Solo allora avremo la possibilità di stare con qualcuno sulla base dei suoi meriti». O di stare da soli vivendo momenti di trascurabile felicità. LA NUOVA di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Per i consumi una nuova normalità di Francesca Setiffi Il volume Primo rapporto dell'Osservatorio sui consumi delle famiglie. Una nuova normalità (FrancoAngeli, 2017), scritto da Domenico Secondulfo, Luigi Tronca e Lorenzo Migliorati, sociologi dell'Università di Verona, racconta i principali risultati dell'indagine campionaria sui consumi in Italia tra i residenti maggiorenni che l'Osservatorio sui consumi delle famiglie (OSCF) dell'Università di Verona, diretto dal Prof. Secondulfo, ha svolto nel corso dell'anno 2016, con il supporto della società di ricerca SWG S. di Trieste.La peculiarità delle indagini dell'Osservatorio sta nel fatto che non vengono rilevati i prodotti acquistati quanto le strategie e le pratiche di acquisto messe in atto dai singoli e dalle famiglie. Gli autori, dalla ricerca, traggono una conclusione suggestiva: ci troviamo oggi in una sorta di "anno zero", in cui l'impatto psicologico e sociale della crisi economica si è consolidato in una "nuova normalità", non più così depressa dal ricordo delle abitudini precedenti alla crisi. In altri termini, il protrarsi della crisi ce l'ha resa "normale" e quindi, sebbene la condizione di vita resti ancora inferiore a quella pre-crisi, alcune nostre percezioni perdono di tragicità e si aprono a un cauto ottimismo. Tuttavia, guardando ai numeri vanno espresse alcune cautele. In un'indagine precedente, svolta nel 2013, i ricercatori avevano suddiviso i consumatori italiani in tre fasce: formiche, accorti e clienti. Le formiche si caratterizzavano per avere ridotto quantità e qualità dei consumi; gli accorti per riflettere criticamente su ogni scelta di consumo e i clienti invece erano coloro che non si facevano grandi problemi negli acquisti. Tre anni dopo, le cose cambiano lievemente segno. Le categorie di analisi resistono, la proporzionalità rimane quasi invariata, ma alcuni comportamenti si polarizzano. Mentre gli accorti rimangono più o meno simili per numeri e per comportamenti, il numero dei clienti aumenta lievemente. Ma soprattutto cambiano le formiche. Si possono dividere ora in due sotto-categorie: "una che ha dovuto abbandonare definitivamente gli elementi di resistenza all'impoverimento che tentavano di salvaguardare in qualche modo il livello qualitativo dello stile di vita precedente, arroccandosi su una diminuzione lineare del livello qualitativo e quantitativo degli acquisti e dei consumi ed un'altra che continua a resistere cercando di salvaguardare il livello qualitativo dei propri acquisti". Per quanto riguarda il luogo degli acquisti, nel volume si legge che in linea generale, "il centro

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commerciale, moderna cattedrale del commercio, mantiene un ruolo di assoluta preminenza" nell'ambito delle scelte di consumo degli intervistati. In altri termini, i negozi al di fuori di queste "moderne cattedrali" hanno ormai un ruolo di secondo piano, salvo alcune eccezioni. E sono coloro che detengono un titolo di studio più elevato che tendono a privilegiare il negozio specializzato a detrimento dei mercati e del centro commerciale. Nel volume, vi è inoltre un'interessante e colta analisi condotta sulle "Personal network di sostegno e di consumo". Da questa prospettiva emerge che "ben più di un italiano su due è dotato di un reticolo di supporto interamente coinvolto nella costituzione delle sue strategie di consumo". In altri termini, per lo più le scelte di consumo non sono totalmente individualistiche ma sono influenzate/programmate insieme a chi ci sta vicino. Leopardianamente, si può concludere che il nostro stare meglio deriva più che da una crescita del benessere, da una diminuzione del malessere (per Leopardi la felicità derivava dalla cessazione del dolore). Si tratta però di una sensazione meno dolorosa rispetto a quella vissuta nel passato perché in qualità di consumatori abbiamo perso la "memoria storica" dello stile di vita pre-crisi per cui ogni piccolo aggiustamento della quotidianità è vissuto come una piccola conquista. Insomma, una (bella) felicità di seconda mano più consapevole e responsabile. Torna al sommario 6 – SERVIZI SOCIALI / SANITÀ LA NUOVA di sabato 2 giugno 2018 Pag 20 “San Camillo, vogliamo vederci chiaro” di Francesco Furlan Lettera dei sindacati sull’acquisto dell’ospedale da parte di Villa Salus. Il direttore Bassano: “Sono pronto ad incontrarli” Lido. I Padri Camilliani hanno ordinato lo spostamento della statua dall'ospedale, le trattative con Villa Salus per l'acquisizione della struttura del Lido proseguono serrate ma coperte dal riserbo, e le organizzazioni sindacali tornano in pressing per cercare di capire che cosa succederà. E poiché da due mesi - da quando cioè c'è stato l'incontro in prefettura - non hanno risposte, hanno deciso si scrivere una lettera a Mario Bassano, il direttore generale dell'ospedale Villa Salus che sta gestendo la partita dell'acquisto e si sta confrontando con Andrea Pantò, amministrazione delegato della Fondazione Opera San Camillo. «Visti i tempi», scrivono Daniele Giordano (Cgil-Fp), Carlo Alzetta (Cisl-Fp) e Pietro Polo (Uil-Fpl) nella lettera indirizzata ai vertici di Villa Salus, «chiediamo un incontro al fine di essere aggiornati dello "stato dell'arte" e soprattutto verificare la comune intenzione di salvaguardare non solo tutti i posti di lavoro ma anche il rispetto delle condizioni economiche e contrattuali vigenti». «Si ricorda che il personale dello Stella Maris, già nel passato, ha subito pesanti perdite della retribuzione, e non si vuol ripetere questa esperienza diventando ostaggi di cooperative», prosegue la lettera, «che operano oggi sul mercato e sono oggetto di pesanti critiche e contenziosi proprio per il loro comportamento. Si resta in attesa di risposta e si comunica fin d'ora che, nel caso non vi sia riscontro a breve, saranno convocate, nel merito, le assemblee rispettivamente al San Camillo, allo Stella Maris e a Villa Salus». Il timore delle organizzazioni sindacali infatti riguarda soprattutto la casa di riposo Stella Maris e la possibilità che la gestione possa essere affidata alla cooperativa Codess, la stessa che gestisce il Carlo Steeb dove, ricordano i sindacati, il 13 marzo 2016 ha avviato una procedura di riduzione del personale. Da parte sua Villa Salus, attraverso il direttore Bassano, si dice pronta a incontrare i sindacati «a breve». «Il nostro interesse», dice Bassano, «è quello di confermare e potenziare la ricerca dell'Ircss e questo voglio che sia ben chiaro ai lavoratori e alla comunità». Per ciò che riguarda la casa di riposo Bassano non nega l'interesse da parte di Codess ma ricorda che «chiunque entrerà nella gestione dovrà farlo alle attuali condizioni, comprese quelle contrattuali, di lavoro, quindi i lavoratori e le organizzazioni sindacali possono stare tranquilli». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V Bonet al vertice del volontariato veneziano di Alvise Sperandio Mestre. Giorgio Bonet è il nuovo presidente del Coordinamento delle associazioni di volontariato della Città metropolitana e del Centro servizio di volontariato. Subentra al presidente di Avis Veneto Giorgio Brunello e sarà in carica per i prossimi tre anni. È stato scelto in seno al nuovo Consiglio direttivo scaturito dalle elezioni svoltesi all'assemblea ordinaria dell'associazione ancora lo scorso 14 aprile al Centro Card. Urbani di Zelarino. Di professione avvocato, 67 anni, già vicesindaco di Treviso più di vent'anni fa con Giancarlo Gentilini e poi direttore generale di Veneto Agricoltura sempre in quota Lega, è il marito dell'assessore ai Lavori pubblici Francesca Zaccariotto. I VERTICI - Per il rinnovo delle cariche del Cavv-Csv, Bonet è stato indicato dall'associazione Vestire gli ignudi che opera ai magazzini San Martino del Centro don Vecchi di Carpenedo. Al voto era arrivato terzo con 53 preferenze, meno della metà delle 113 ottenute dal primo classificato, il presidente provinciale di Avis Tito Livio Peressutti presentatosi in rappresentanza del gruppo comunale di Gruaro che ha acquisito la carica di segretario. Fanno parte del nuovo organo Angelo Biondo (Auser), in qualità di vice presidente, Fausta Marinello (Anteas), tesoriere, Lavinia Vivian (Catarsi onlus), Edmondo Piazzi (Insieme per la vita) e Corrado Porzionato (Cuore Amico di Chioggia) come consiglieri. Le elezioni hanno rinnovato anche l'organo di controllo, in carica fino al 2021, designando presidente Giorgio Isotti (La Gabbianella e altri animali) e componenti Michela Barbiero (Pro Senectute Spinea) e Massimo Schiavon (Avis comunale di Venezia). Tutte le cariche sono ricoperte a titolo gratuito, salvo il rimborso spese. Nella nuova configurazione il Cavv-Csv, associazione senza scopo di lucro, è stato ufficialmente costituito nell'assemblea straordinaria dello scorso 19 dicembre quando sono state approvate le modifiche allo Statuto per richiedere alla Regione il riconoscimento della personalità giuridica. Ha lo scopo di promuovere e sostenere la cultura del volontariato e le iniziative di solidarietà sul territorio, offrendo servizi gratuiti alle 350 organizzazioni che vi afferiscono in cui sono coinvolte cinquemila persone. Ha la sede principale in via Muratori al rione Pertini e sei sportelli a Chioggia, Portogruaro, Spinea, San Donà di Piave, Cavallino-Treporti e Camponogara. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 2 giugno 2018 Pag XII Carpenedo, gli scout dell’Agesci puliscono il Forte di A.Spe. Mestre. Gli scout dell'Agesci Mestre 7 della parrocchia di San Pietro Orseolo di viale Don Sturzo, domani mattina vanno tutti assieme a pulire forte Carpenedo. «Ogni anno spiega Mattia Amadi, uno dei capi redigiamo il Piano educativo per cogliere le esigenze dei giovani che ci sono affidati e calibrare le proposte. Stavolta è risultato che avvertono poco senso di appartenenza al territorio in cui vivono per cui si è ritenuto di promuovere questa iniziativa». Saranno in 70, dai bambini delle scuole elementari (i cosiddetti lupetti fino ai neo maggiorenni (componenti dei clan), in divisa d'ordinanza e armati di scope, palette, guanti e sacchetti per portare via i rifiuti. «Ci è parso importante sottolinea Amadi educare i giovani, ma anche sensibilizzare le persone che frequentano il forte, punto di ritrovo che va valorizzato, anche solo vedendoci all'opera sul campo». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 3 giugno 2018 Pag 5 Primo “divorzio” per due donne. A Vicenza si scioglie un’unione civile di Benedetta Centin A un anno dal “sì” la divisione di casa e beni. “Affido congiunto” per i cuccioli Vicenza. Due anni di sì, due anni di coppie omosessuali che hanno ottenuto il riconoscimento ufficiale della loro unione dallo Stato e tutela. Ma anche due anni di rotture e di primi «divorzi». Sono passati ventiquattro mesi dall’approvazione della

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«legge Cirinnà» sulle unioni civili tra coppie etero ed omosessuali, e già qualcuna di queste ultime è scoppiata. Tanto che il tribunale civile di Vicenza, per la prima volta, è stato chiamato a pronunciarsi sulla richiesta di scioglimento del vincolo - parlare di divorzio non è propriamente corretto - presentata da due vicentine, di 35 e 40 anni, che lavorano in ambito sanitario e che avevano pronunciato il fatidico «sì» davanti agli amici e ai parenti appena un anno fa. Con la relazione al capolinea, le due compagne, ormai ex, hanno deciso unanimemente di far mettere la parola fine al loro «matrimonio» da un giudice, dopo aver convenuto anche sulla casa acquistata assieme e sulla gestione e sulle cure dei propri animali che si divideranno, con il cane e il gatto che d’ora in avanti vivranno rispettivamente con ciascuna di loro. Già comparse in tribunale, le due attendono solo che venga depositato il provvedimento. E si tratterebbe di uno dei primissimi casi in Italia e in Veneto: la prima sentenza di scioglimento di unioni civili era stata emessa, nell’estate scorsa, dalla sezione civile del tribunale di Savona. Ora toccherà a Vicenza pronunciarsi. Quella tra le vicentine, di cui intendiamo tutelare la privacy, era stata una storia d’amore come altre: la scintilla scoccata, il fidanzamento a cui era seguita la convivenza, e poi la scelta del «matrimonio», di celebrare la loro unione davanti ad un ufficiale comunale, possibilità ammessa dalla legge Cirinnà. Ma l’idillio è durato poco, un anno appena: divergenze caratteriali che renderebbero ormai difficile la convivenza tra le due. Una situazione del tutto nuova, questa, per gli uffici comunali e pure per il tribunale di Vicenza che però si sta attrezzando. Le due ormai ex hanno presentato una dichiarazione con la loro volontà comune di rompere l’unione civile all’ufficio di stato civile del Comune di residenza e dopo tre mesi - questo il tempo previsto - sono comparse in tribunale, affiancate dall’avvocato Massimo Pagnin di Vicenza, che aveva avuto modo di parlare di persona con la senatrice Monica Cirinnà promotrice della legge che norma le unioni civili. La 35enne e 40enne si sono presentate davanti al giudice presidente della seconda sezione, Marina Caparelli. Per ottenere la sentenza di scioglimento dell’unione civile – che richiama le norme procedurali relative al divorzio - e avviare al contempo tutte le pratiche previste dalla Cirinnà in tema di regime patrimoniale all’interno della coppia. Stabilendo anche l’assegnazione a una di loro della casa comprata assieme e, richiamando il protocollo del tribunale di Vicenza di ottobre 2017 adottato per separazioni e divorzi, anche il mantenimento dei loro animali, in merito alle eventuali spese veterinarie (e non solo) extra che dovranno dividersi al cinquanta percento. La legge prevede la disciplina sul diritto agli alimenti. In questo caso, però, non è stata avanzata alcuna richiesta in tal senso. Ora il tutto passerà al vaglio del pubblico ministero, quindi al giudice che emetterà la sentenza di «divorzio». La prima nel suo genere a Vicenza. Inevitabile che all’ondata di unioni civili fra persone dello stesso sesso seguisse una quota fisiologica di separazioni, in linea con i divorzi veri e propri. Stando ai numeri forniti dal Ministero dell’Interno sulle unioni civili, è Verona la provincia veneta in cui si è pronunciato il maggior numero di sì: 102 in tutto, dato che vede la città di Giulietta al decimo posto, seguita dai 96 sì di Venezia, undicesima nella classifica nazionale. Al quattordicesimo e quindicesimo posto ci sono rispettivamente Padova e Vicenza con 84 e 78 unioni civili. Otto posizioni più sotto, con 60 unioni, Treviso. Rovigo solo 13. Mentre Belluno ne conta appena 11. IL GAZZETTINO di domenica 3 giugno 2018 Pag 14 La notte bianca delle chiese venete e friulane di Raffaella Ianuale L’8 giugno 40 luoghi sacri faranno le ore piccole accogliendo i visitatori con tour guidati, spettacoli teatrali, concerti e letture Venezia. La notte bianca delle chiese. Un'idea nata a Belluno un paio di anni fa e che ora ha contaminato l'intera Italia. In totale sono diciotto le diocesi che partecipano a livello nazionale, coinvolgendo quaranta chiese con centinaia di eventi. L'appuntamento per tutti è venerdì 8 giugno: in quest'occasione le chiese rimarranno aperte per l'intera notte accogliendo i visitatori e offrendo loro tour guidati, concerti, spettacoli teatrali e reading. Un'iniziativa a metà tra il sacro e il profano. È infatti un'occasione per scoprire i gioielli artistici celati all'interno dei templi, ma al tempo stesso è un'opportunità per partecipare a un appuntamento culturale o per avvicinarsi alla spiritualità. La lunga notte delle chiese, questo il titolo scelto dall'associazione Belluno la notte che ha pensato e lanciato l'iniziativa, trae ispirazione da un analogo format austriaco il Lange nacht der kirken. Nel

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2016 la singolare notte ha quindi mosso i primi timidi passi anche in Italia, partendo proprio dal Veneto, e in un paio di anni è esplosa ovunque. «Non ci immaginavamo tanto successo e ne siamo ovviamente felici, il primo anno quando abbiamo iniziato ci siamo detti chissà se verrà qualcuno - spiega Stefano Casagrande promotore della nottata - avevamo colto alla lettera il messaggio di Papa Francesco che ci aveva esortato ad aprire le chiese ad altro e così abbiamo fatto. Non pensavamo che l'adesione sarebbe stata così alta, hanno aderito anche parrocchie del Brasile e dell'Argentina. Ora ci ha contattato il Vaticano e a breve saremo a Roma per un incontro in vicariato». È la prima notte bianca a svolgersi all'interno delle chiese, un appuntamento in cui si fondono cultura, arte, musica e teatro. Perché ogni chiesa si è organizzata al meglio per accogliere i propri visitatori che nelle due passate edizioni sono giunti a migliaia. Un'iniziativa che si è conquistata il patrocinio della Regione Veneto: «È un'occasione speciale per visitare in modo suggestivo e originale le nostre chiese - spiega l'assessore alla Cultura Cristiano Corazzari - apprezzando contemporaneamente proposte musicali, culturali e artistiche delle numerose associazioni attive sul territorio». I TEMPLI - Sono tantissime le chiese venete e anche friulane che faranno le ore piccole. Si parte da Belluno e Feltre che hanno tenuto a battesimo la kermesse, ma hanno aderito anche luoghi di culto di Treviso e in particolare di Vittorio Veneto. Nel Veneziano spicca Chioggia, poi ci sono Rovigo e Verona. In Friuli invece saranno aperte le chiese dei Santi Vito e Modesto e di San Rocco in provincia di Gorizia. GLI SPETTACOLI - Fare la lista delle iniziative organizzate per l'occasione è impossibili. Sono a decine e l'intero programma è nel sito www.lalunganottedellechiese.com. A farla da padrone i concerti di musica classica, ma non solo. Molti i cori, i video e gli spettacoli teatrali talvolta, ma non necessariamente, tratti da testi sacri. Ma anche messeinscena sulla Grande Guerra come quella di Castello Roganzuolo ispirata al parroco che salvò le tele del Tiziano dal saccheggio degli invasori o l'appuntamento di Santa Lucia di Piave dall'eloquente titolo: «Se anca San Piero ve sera la porta, la Madona ve fa entrar per la finestra». LA NUOVA di domenica 3 giugno 2018 Pag 10 Retrocessione sociale. I nordestini si sentono sempre più poveri di Daniele Marini Il 62% si colloca in una classe bassa contro il 50% di 5 anni fa. E per emergere serve una famiglia con maggiori risorse Un po' si muove, ma così lentamente che sembra quasi fermo. È l'ascensore sociale degli italiani. Che non si tratti solo di una percezione è testimoniato dall'ultimo rapporto Istat sul paese. Le caratteristiche ascritte, quelle derivanti dalle nostre origini, hanno un peso ancora oggi determinante nel prefigurare i percorsi biografici, scolastici e professionali. Meno di un quinto (18,5%) di chi parte dai gradini più bassi della stratificazione sociale raggiunge una laurea e una misura ancora inferiore (14,8%) arriva a svolgere una mansione qualificata. Nonostante una società fluida e altamente flessibile, malgrado le molteplici opportunità offerte dalle nuove tecnologie in termini di occupazione e inventiva. Anzi, proprio in virtù di questo nuovo contesto competitivo caratterizzato da un'epoca di cambiamenti radicali, le disuguaglianze tradizionali tornano ad assumere un peso di rilievo. Perché chi ha risorse familiari e reti di relazioni scarse, in assenza di un sistema di infrastrutture sociali stabile e strutturato, incontra maggiori vischiosità nei suoi percorsi. Detto altrimenti, se un/una giovane non ha alle spalle una famiglia dotata di risorse economiche e relazionali significative, faticherà assai a intraprendere percorsi formativi prolungati e fare investimenti in percorsi professionalizzanti (master, Erasmus, permanenze all'estero...). Poiché disponiamo di pochi strumenti e politiche finalizzate a redistribuire le opportunità, e quelle che funzionano hanno risorse scarse, ecco che l'unico trampolino (sociale) di lancio rimane la famiglia d'origine, con il suo patrimonio materiale e immateriale. E con il contesto sociale ed economico di sfondo a costituire lo scenario all'interno del quale i soggetti si muovono e trovano un capitale sociale spendibile.È sufficiente pensare a cosa accade se, malauguratamente, si perde il lavoro o se lo si cerca: in assenza di effettive politiche attive per il lavoro, di servizi per il ricollocamento e di sostegno al reddito, mancando un sistema nazionale di formazione continua, l'onere ricade quasi interamente sugli individui e sulle famiglie. Sulla loro

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capacità di destreggiarsi e di individuare nuove opportunità. Qualche dato? L'intermediazione fra domanda e offerta di lavoro è realizzata in Italia solo per il 4% (Eurostat) dai Centri per l'Impiego pubblici (CPI). Per il resto, funziona il passaparola, la ricerca autonoma mediante le conoscenze familiari. Il 6% delle persone in condizione attiva (25-64 anni) frequenta un percorso di formazione o di riqualificazione, mentre la media europea si assesta al 10,5% (Istat, Eurostat). Dunque, nella necessità del "fai-da-te", chi dispone di strumenti gode di un vantaggio competitivo rilevante. Viceversa, la prospettiva futura appare incerta. In questo senso, quindi, l'ascensore sociale - rispetto ai decenni precedenti - appare sostanzialmente bloccato. L'ultima rilevazione di Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo Cassa Risparmio Veneto, ha inteso verificare quale fosse la percezione della popolazione in merito alla propria attuale appartenenza alla stratificazione sociale e rispetto ad alcuni anni or sono. Il confronto, poi, con un'analoga rilevazione avvenuta nel 2016 consente a maggior ragione di verificare se siamo di fronte a fenomeni di mobilità o di immobilità sociale. Complessivamente, due terzi dei nordestini (62,8%) oggi si colloca in una classe sociale bassa e medio-bassa, mentre il restante 37,2% si situa nella parte più alta della stratificazione sociale. Retrocedendo nel tempo, 5 anni fa gli stessi interpellati si posizionano nel 49,8% dei casi nella parte inferiore dei ceti sociali, mentre il 50,2% in quella superiore. Dunque, nell'arco di un lustro, una parte considerevole dei nordestini ritiene di aver subito una retrocessione sociale. Ciò non significa esclusivamente un abbassamento di reddito, ma può derivare dal rinunciare a opportunità o dall'erosione dei risparmi o del patrimonio per mantenere il medesimo livello di vita. Il dato medio, come sempre, cela situazioni disomogenee che nel nostro paese si traducono in un divario territoriale che ha pochi eguali in Europa. Così, se nel Nordest mediamente il 62,8% dei residenti è nelle classi basse e medio-basse, analogamente avviene per il 74,4% di chi abita nel Centro-Sud (con il Mezzogiorno che raggiunge il 76,1%). Confrontando le auto-collocazioni nei due periodi è possibile definire la mobilità sociale percepita dei nordestini, ovvero come e se funziona l'ascensore sociale. L'esito ci consegna un paese in gran parte bloccato. Per i tre quarti di chi vive a Nordest (73,2%) l'ascensore sociale rimane bloccato sempre allo stesso piano: ciò avviene in particolare per gli intervistati del Friuli Venezia Giulia (86,5%) e del trentino Alto Adige (78,6%). Nel periodo esaminato (2013-18) hanno avuto solo una mobilità orizzontale. Invece, per un quinto (21,9%) l'ascensore sociale è sceso verso il basso. Tale discesa coinvolge maggiormente chi ha un basso titolo di studio (31,3%), chi appartiene a un ceto basso (51,7%) è disoccupato (32,8%) o fa un lavoro autonomo (32,8%). Soprattutto, interessa chi risiede nel Veneto (24,5%). Molto pochi (8,5%) hanno conosciuto una mobilità sociale ascendente e in modo pressoché esclusivo chi apparteneva al ceto medio-alto (30,0%) e vive nel Trentino Alto Adige. Il confronto con quanto rilevato nel 2016 permette di osservare che, in realtà, l'ascensore si è (lentamente) mosso. Nel senso che il percorso di discesa oggi coinvolge un novero di persone inferiore nel Nordest (21,9%) rispetto al 2016 (31,5%). Tuttavia, ciò si è tradotto limitatamente in un aumento di chi è andato in salita (8,5%, 0,9% nel 2016), benché il dato sia il più elevato in Italia. Piuttosto, sono accresciuti quanti sono rimasti fermi allo stesso piano: 73,2%, rispetto a 67,6% nel 2016.Se il Pil dell'Italia cresce lentamente, l'ascensore sociale non segue il medesimo andamento: il numero di persone in discesa è sì inferiore rispetto a qualche anno fa, ma vede ampliare la platea di chi resta immobile, mentre la salita è riservata a pochissimi. Ripresa economica lenta e mobilità sociale bloccata alimentano i processi di inclusione/esclusione sociale e rinfocolano le disuguaglianze sociali. Sono i veri ostacoli da rimuovere velocemente per il nuovo governo alla guida del paese. CORRIERE DEL VENETO di sabato 2 giugno 2018 Pag 6 Nasce la “Lobby dei poveri” contro la precarietà sociale e lavorativa di Giacomo Costa Mestre. Si sono autodefiniti «la lobby dei poveri» e per il loro atto di nascita non hanno scelto sedi istituzionali né uffici sindacali, ma la mensa per i poveri di Ca’ Letizia, nel cuore di Mestre. Una decisione simbolica, condivisa da tutte le 16 realtà regionali che ieri hanno dato vita all’Alleanza contro la povertà in Veneto, incarnazione locale dell’istituto

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nazionale nato cinque anni fa. Nella sala principale, che da anni accoglie decine di persone in difficoltà e spesso attira polemiche tra i residenti dei dintorni, si sono riuniti Acli, Anci, Banco Alimentare, Azione Cattolica, Caritas, Cgil, Cisl, Uil, Cnca, Confcooperative-Federsolidarietà, San Vincenzo de Paoli, Organismi Persone Senza Dimora, Forum del Terzo Settore, Save the Children e Umanità nuova – Movimento dei Focolari: «Questo spazio ben rappresenta la dimensione della povertà e della solidarietà verso i meno abbienti nella città capoluogo del Veneto», hanno sottolineato. Ca’ Letizia è al centro di continue polemiche, i mesi scorsi la giunta comunale di Venezia ha tentato la carta del «trasloco» in periferia, ma il patriarca Francesco Moraglia tiene duro sull’idea che la povertà e il disagio non vadano «nascosti». Dice Marino Callegari di Caritas, che negli ultimi anni il rischio povertà interessa sempre più persone «e se un tempo si trattava di immigrati, oggi sono soprattutto italiani che perdono il posto di lavoro». Racconti confermati dai numeri, visto che nel territorio regionale l’indice di disuguaglianza coinvolge una persona su sei, per un totale di 800mila persone. L’alleanza vuole rispondere alle necessità di questi cittadini in difficoltà, confrontandosi con le istituzioni, avviando campagne di sensibilizzazione, soprattutto, aiutando chi lo richiede, ad esempio facilitando l’accesso al reddito di inclusione, la nuova formula di welfare avviata a partire da gennaio. Nei primi tre mesi dell’anno i nuclei i nuclei familiari che ne hanno usufruito sono stati 2.046, per un totale di 4.988 persone coinvolte e un assegno mensile medio di 252 euro. A questo serve la «lobby dei poveri». Dice Gianfranco Refosco di Cisl: «Dobbiamo mettere al centro della discussione il rischio povertà, prestando più attenzione a chi vive in condizione di precarietà». Pag 6 Irene e Laura, Padova le riconosce genitori e unisce i loro figli: “Ora sono fratelli” di Francesca Visentin L’atto del Comune. Le mamme: “Molte ci invidiano” Padova. Irene e Laura, 34 e 33 anni, sono mamme e sono una coppia. Sposate in Canada, in una clinica di Londra hanno poi scelto la gravidanza tramite gpa, la maternità surrogata. Sono rimaste incinte quasi in contemporanea e hanno avuto il privilegio di condividere la gravidanza come coppia. «Incinta io e incinta tu, è stata una cosa fantastica», commentano. Ora i bimbi hanno 4 mesi e 9 mesi e sono a tutti gli effetti fratelli, perché l’anagrafe del Comune di Padova li ha riconosciuti tali. E sono stati registrati come figli della coppia di Irene e Laura: entrambe le donne sono madri legali dei bimbi, anche se ognuna resta mamma biologica del piccolo che ha partorito. Una decisione rivoluzionaria, la prima in Veneto di questo tipo. Casi analoghi di Comuni che hanno riconosciuto e registrato bebè nati da coppie di genitori dello stesso sesso, ci sono stati a Torino e a Roma. In altre situazioni, invece, la coppia ha dovuto rivolgersi al tribunale e aspettare anni per vedere riconosciuto questo diritto. «La nostra città ci ha fatto un regalo molto grande - dice Irene - , per ottenere il riconoscimento dei figli tante coppie omogenitoriali devono affrontare tre gradi di giudizio e finire in Cassazione. Aspettano anni, è una lunga lotta. Da parte nostra c’è immensa stima e riconoscenza verso il Comune di Padova e gli altri Comuni che stanno prendendo questa posizione». Un amore nato nove anni fa quello di Laura, impiegata, e Irene, ricercatrice. Un amore cresciuto e consolidato nel tempo, condiviso con gioia dalle rispettive famiglie, dagli amici e dai colleghi. Una famiglia di fatto, che ha affrontato subito il coming out e ha deciso di «metterci la faccia», protagoniste della campagna di sensibilizzazione «#storiediunioni», nell’ambito dell’iniziativa «#maipiùsenza visibilità», evento collaterale al Padova Pride 2018. Irene e Laura con i loro bimbi sono i volti della mostra fotografica inaugurata ieri nel Cortile Pensile di Palazzo Moroni in Municipio a Padova. Oltre che con le foto di Loris Bertazza e Andrea Leorin dedicate alle nuove famiglie Lgbti, Irene e Laura si raccontano in un testo in cui spiegano che «il loro desiderrio di genitorialità è arrivato prima di formalizzare la loro unione, prima che venisse approvata la legge Cirinnà». «Non è facile - spiega Laura - , ma quando giriamo per strada, il sorriso dei nostri piccoli e la serenità che comunicano tranquillizza tutti. Porta il sorriso anche in chi ci incrocia. Ci sono ancora forti resistenze nella società, ma raccontarci è un messaggio utile, importante per arrivare a un vero cambiamento. Noi e i nostri bambini insieme abbiamo sempre feedback positivi, se poi sparlano alle spalle, pazienza. L’importante è che le nostre famiglie e i nonni sono sempre dalla nostra parte». Irene specifica: «Ci siamo

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rivolte per la gpa a una clinica di Londra per comodità logistica. Abbiamo scelto lo stesso donatore per entrambe, quindi i bambini sono davvero fratelli». E Laura: «Molte coppie etero ci invidiano, le donne si sentono poco comprese dai compagni durante la gravidanza. Tra di noi c’è stata una vicinanza totale. Ci sono state signore di mezza età con figli, che hanno commentato “Se anche i mariti potessero partorire, l’Italia avrebbe più bambini...”. Noi abbiamo vissuto tutto insieme: amore e gravidanza, un legame unico». La mostra sulle famiglie Lgbti inaugurata ieri in Comune a Padova, ha sollevato gli strali dell’opposizione, con un lungo video di protesta su Facebook di Eleonora Mosco. Ma questo non toglie il sorriso a Irene e Laura, ai loro bellissimi bambini, nè alle altre coppie innamorate protagoniste della mostra: Ezio e Daniele, Marco e Valentin, Silvia e Valentina. LA NUOVA di sabato 2 giugno 2018 Pag 11 Aumenta la povertà in Veneto, 16 associazioni per combatterla di Marta Artico Nasce un coordinamento Mestre. È stato siglato ieri in un luogo simbolico, vale a dire la mensa della San Vincenzo Onlus di via Querini a Mestre dove ogni giorno vengono sfamate almeno 100 persone che altrimenti non avrebbero cosa mettere sotto ai denti, il protocollo costitutivo del Coordinamento Alleanza contro la povertà in Veneto, sottoscritto da 16 associazioni. Obiettivo? Svolgere un'attività di sensibilizzazione sul tema della povertà e contribuire alla costruzione di adeguate politiche pubbliche per prevenire e contrastare il fenomeno. Nel 2013 si è costituita a livello nazionale l'Alleanza contro la povertà, composta da realtà associative, rappresentanze dei comuni, enti del Terzo Settore e organizzazioni sindacali che già operano su diversi fronti anche con servizi, interventi e progetti per sostenere le persone e le famiglie in condizione di povertà assoluta e relativa. Ora l'Alleanza passa ad una articolazione territoriale sulla dimensione regionale per rendere più incisiva l'azione di contrasto alla povertà e contestualizzare le linee e le proposte nazionali in ambito regionale. Cristian Rosteghin (Acli Veneto), sarà portavoce delle associazioni a livello collegiale: «Il nostro obiettivo è quello di essere la "lobby dei poveri" esordisce, «per fare da un lato sensibilizzazione, dall'altro essere una sorta di pungolo verso le istituzioni, in primis la Regione, a cui il decreto ha demandato molte competenze». E proprio la Regione tempo addietro aveva stimato in 800mila i cittadini che possono essere a rischio povertà ed esclusione sociale, mentre il Banco Alimentare è venuto in contatto con ben 23mila nuclei familiari, 102mila persone. Le associazioni che formano la compagine e che ieri erano presenti sono Acli Veneto, Anci Veneto, Associazione Banco Alimentare del Veneto onlus, Azione Cattolica delegazione veneta, Caritas delegazione veneta, CGIL Veneto, Cisl Veneto, UilVeneto, Cnca, Confcooperative-Federsolidarietà Veneto, Federazione Nazionale Società di San Vincenzo de Paoli - Coordinamento Interregionale Veneto Trentino, Federazione Italiana Organismi Persone Senza Dimora, Forum Regionale del Terzo Settore, Save the Children, Umanità nuova - Movimento dei Focolari. «Abbiamo scelto Ca' Letizia", spiegano i rappresentanti di Alleanza Veneto, «perché ben rappresenta la dimensione della povertà e della solidarietà verso i meno abbienti proprio nella città capoluogo del Veneto. Siamo onorati di poter sottoscrivere qui il protocollo». Poi l'allarme: «Anche in Veneto registriamo un preoccupante aumento del fenomeno della povertà che investe diversi strati di popolazione, soprattutto minori, famiglie con un solo adulto occupato, giovani senza lavoro e senza futuro, persone in condizione di grave marginalità. È prioritario l'impegno delle istituzioni pubbliche per dare tempestiva attuazione agli interventi previsti per il Reddito di inclusione». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Oppositori in cerca di logica di Paolo Mieli Le critiche al governo

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Colpisce la stravagante eterogeneità delle iniziali sortite d’opposizione al governo presieduto dal professor Conte. Certo, siamo solo ai primissimi passi di questa esperienza ed è fisiologico che le prese di posizione antigovernative - sia a destra che a sinistra - pecchino talvolta di incoerenza e talaltra di mancanza di ordine logico. Ma in passato le cose non sono sempre andate allo stesso modo: gli azionisti dell’attuale coalizione - agevolati dalla possibilità di ricorrere a slogan radicali e antisistema - si fecero le ossa e maturarono un comune sentire in ben sette anni di implacabile opposizione; sette lunghissimi anni, a partire dall’autunno 2011 quando entrò in scena Mario Monti e poi con Letta, Renzi e Gentiloni. È un dettaglio spesso trascurato ma che spiega perché adesso sia stato così agevole amalgamare la base dei Cinque Stelle con quella della Lega, pur essendo le parole d’ordine delle due formazioni assai diverse. Ora, per evidenti motivi, non potrà darsi quel genere di fusione tra elettori e attivisti di Forza Italia, del Pd e di Leu. I primi si divideranno nel tempo tra i fautori di un contrasto intransigente al governo e i sostenitori delle ragioni di Matteo Salvini (contro quelle di Luigi Di Maio). Gli altri si frantumeranno ancor più, a causa della loro inguaribile litigiosità, tra i teorici dell’opposizione «repubblicana» prospettata da Carlo Calenda e i tattici impegnati a costruire una prospettiva imperniata sul recupero del dialogo con i pentastellati. Minimo comun denominatore, l’impegno a provocare una frattura tra i due vicepresidenti del Consiglio. I n ogni caso nelle ore che precedono il voto di fiducia, da destra è stato contestato - nell’ordine - al professor Conte di aver scoperto solo ora che l’Italia non è un Paese dove tutti sono corrotti; al ministro di Giustizia Alfonso Bonafede di volere al proprio fianco Piercamillo Davigo, Nino Di Matteo e altri magistrati antiberlusconiani; a Salvini di aver esagerato in annunci sui migranti (da Roberto Maroni); al presidente della Camera Roberto Fico di aver salutato la folla a pugno chiuso comportandosi in tal modo da «cosacco» (Vittorio Feltri); a Di Maio l’intenzione, attribuitagli, di nominare al vertice della Cassa depositi e prestiti Flavio Valeri, capo di Deutsche Bank italiana e, in quanto tale, «emissario di Berlino». Da sinistra è stato rimproverato al governo di essere «il più a destra della storia d’Italia nel secondo dopoguerra» (con la conseguente almeno parziale riabilitazione del gabinetto guidato nel 1960 da Fernando Tambroni, che era sostenuto dal Movimento sociale italiano e fu travolto nelle piazze da manifestazioni antifasciste); al ministro della Difesa Elisabetta Trenta di avere per marito Claudio Passarelli, un ufficiale dell’esercito che si occuperebbe di appalti militari, di aver agevolato un accordo tra il suo ateneo, la Link di Vincenzo Scotti assai amata dai grillini, e un’università russa «molto cara a Putin», di aver avuto parte, tramite la Ong SudgestAid, nel reclutamento di soldati di ventura; il neoministro Lorenzo Fontana è stato accusato di aver disconosciuto le famiglie gay (in un’intervista a questo giornale); a Salvini di aver definito i militanti delle organizzazioni non governative «vicescafisti» (Roberto Saviano); al ministro degli Affari regionali Erika Stefani è stato mosso il rimprovero di aver promesso la concessione a Lombardia e Veneto dell’autonomia chiesta mesi fa tramite referendum; Di Maio è stato biasimato per l’intenzione di portare con sé Vito Cozzoli, già capo di gabinetto di Federica Guidi al momento del caso Tempa Rossa (che della stessa Guidi provocò le dimissioni). I capi di imputazione, come è evidente, sono tra loro scarsamente omogenei. Oltreché di diverso rilievo. È prevedibile che il primo ministro a trovarsi davvero sotto il fuoco delle opposizioni (in particolare le opposizioni di sinistra) sarà quello dell’Interno a causa dei possibili sbarchi di migranti che da anni sono diventati il problema centrale dei mesi estivi. Qui oltretutto Salvini dovrà confrontarsi con la prova del suo predecessore Marco Minniti che, quantomeno da una parte degli italiani, è stata considerata soddisfacente. E potrebbe accadere già in quei giorni che si riproponga la strategia di quell’area della sinistra (anche dall’interno del Pd) che offre a Di Maio un patto alternativo a quello con la Lega. È probabile che l’estate del 2018 sia troppo ravvicinata perché torni a presentarsi questo scenario. Ma il giorno in cui ciò dovesse accadere sarà bene ricordare che la prova generale di tale passaggio non è stata quella delle quarantott’ore in cui sotto la supervisione dell’«esploratore» Fico si è tentato di mettere in sella un governo dei Cinque Stelle sostenuto dal Pd, bensì la fase successiva, quella in cui tenne banco il «caso Savona». In quei giorni ci fu a sinistra un movimento assai curioso. Esponenti di Leu e del Pd ritennero che fosse il momento giusto per dire tutto il bene che pensavano di Paolo Savona (la cui candidatura al ministero dell’Economia veniva respinta da Sergio

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Mattarella). Stefano Fassina definì quel professore «una persona autorevole e competente per forzare le regole europee, in particolare gli obiettivi del fiscal compact, irrealistici e pericolosi per l’eguaglianza e la giustizia sociale». Francesco Boccia vide in quel docente «una delle migliori personalità del Paese in materia economica» e disse anche che da ministro avrebbe costituito «un argine a Salvini» (cioè a quel Salvini che aveva proposto lo stesso Savona per il dicastero dell’Economia). Poi, quando Mattarella si irrigidì nel suo No, scesero in campo molti intellettuali, tutti o quasi premettendo di essere contrari al connubio Salvini-Di Maio e all’annunciato impeachment del capo dello Stato. Alcuni costituzionalisti (Massimo Villone, Lorenza Carlassare, Valerio Onida, Francesco Pallante, Ginevra Cerrina Feroni) riproposero una lettura dei testi di Costantino Mortati in cui, a parer loro, si negava che Mattarella avesse il diritto di opporre quel genere di veto. Identica opinione, pur definendo «abominevole» l’accordo di governo tra Cinque Stelle e Lega, espresse il direttore di «Micromega» Paolo Flores d’Arcais. Concordava il presidente di Libertà e Giustizia Tomaso Montanari che accusava Mattarella di aver «inflitto all’istituzione della Presidenza della Repubblica una torsione inaudita che costituirà un precedente pericolosissimo». Il veto a Savona fu dichiarato «inaccettabile» anche dallo storico Marco Revelli. E persino dall’intero gruppo dirigente della lista di sinistra «Potere al Popolo» che imputò a Mattarella di essersi reso «responsabile di una grave crisi istituzionale» per non aver accettato un ministro «considerato euroscettico e dunque non compatibile coi diktat della Ue». A titolo di cronaca va notato che Gustavo Zagrebelsky, da sempre massimo punto di riferimento di quest’area politico culturale, in quei giorni si astenne dal pronunciarsi con dichiarazioni di questo tipo. Ad oggi non possiamo prevedere se già nell’estate del 2018 gli interlocutori che questi politici, giuristi, storici e filosofi hanno dentro il Pd riusciranno a egemonizzare il loro partito, a provocare un infarto al governo e la riapertura di un «negoziato» con i Cinque Stelle. Improbabile anche se non impossibile. Quel che è (quasi) certo è che tale prospettiva produrrà fibrillazioni nell’intera sinistra dove con ogni probabilità la stagione della concorde ricostruzione dovrà essere ancora una volta rinviata. Pag 11 Cala la fiducia degli italiani nella Ue ma solo uno su quattro ne uscirebbe di Dario Di Vico A differenza dei leghisti, tra gli elettori 5 Stelle prevalgono i filo-comunitari Le posizioni euroscettiche si caratterizzano per una forte critica all’Unione Europea e una conseguente opposizione al processo di integrazione politica. Per chi ha posizioni euroscettiche l’integrazione indebolisce gli Stati e l’Unione Europea viene percepita come antidemocratica ed eccessivamente burocratica. L’indice di fiducia degli italiani nei confronti dell’Europa in sette anni si è dimezzato da quota 70 a 38 e anche restringendo l’osservazione agli ultimi quattro anni la discesa è stata comunque repentina: da 58 ai 38 di cui sopra. Ma una cosa è sentirsi delusi dalla Ue altro è desiderare di uscire dalla comunità o dall’euro. Il 55% degli italiani è, infatti, per restare nell’Europa contro un 25% che davanti a un eventuale referendum non avrebbe remore a preferire l’uscita. Se la consultazione popolare avesse come tema la presenza nell’euro il 49% sceglierebbe di voler restare contro un 29% pro-exit e un 22% di incerti. Sono questi i risultati di un sondaggio condotto negli ultimi giorni da Ipsos, l’istituto diretto da Nando Pagnoncelli, un sondaggio utile per fotografare l’euro-sentimento degli italiani al momento in cui si forma un nuovo governo scettico, se non addirittura ostile, verso Bruxelles. A questo proposito è interessante analizzare come si comporta l’elettorato dei partiti vincitori del 4 marzo. Solo un quarto di chi ha votato Lega ha fiducia nella Ue e grosso modo la stessa cifra la troviamo tra gli elettori dei 5 Stelle. I votanti di Forza Italia si dichiarano delusi per il 65%, percentuale non lontana da quella leghista. Restano euro-fedeli gli elettori del Pd: il 70%. Se però dalla generica sfiducia verso Bruxelles si passa a decisioni politicamente vincolanti a seguito di un referendum persino il sovranismo leghista si stempera. Sull’euro voterebbe per uscire il 51% contro però un 32% che rimarrebbe nella moneta unica (e si può azzardare che questo dato possa riferirsi in primis agli imprenditori). In casa Cinque Stelle il referendum sull’euro provocherebbe una spaccatura verticale: il 40% sarebbe pro-exit contro un 39% favorevole a restare. Ancor più interessante il mood dell’elettore forzista: il 56% vuole restare nell’Eurozona

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contro un 32% favorevole all’uscita. I dati Ipsos ci danno anche la possibilità di valutare l’orientamento degli italiani a fronte di un eventuale referendum sull’appartenenza alla Ue. Ebbene, 53 elettori dei 5 Stelle contro 30 sono per restare, idem 39 votanti della Lega contro però 43 che vorrebbero dire ciao a Bruxelles. Dentro Forza Italia 30 vorrebbero uscire contro 58 fedeli. Nel Pd si conferma l’orientamento decisamente europeista scandito da un remain all’88%. Messi tutti assieme questi dati ci suggeriscono l’idea di un sovranismo leghista intermittente e invece di un orientamento filo-comunitario ampiamente radicato tra gli elettori grillini. Per tutti vale la considerazione che l’effetto referendum raffredda i bollenti spiriti anti-europei e finisce per consigliare prudenza. Non ci sono dati che ci permettano di segmentare per gruppi sociali quest’orientamento ma è significativo come la scorsa settimana dalle categorie produttive siano venuti segnali di preoccupazione dopo le indiscrezioni sul piano B del ministro Paolo Savona. A Nordest si è fatta sentire persino la Confartigianato veneta che per bocca del suo presidente Agostino Bonomo ha ricordato «come i nostri turisti sono tedeschi e il nostro primo partner commerciale è la Germania». Spiega Marco Gay, presidente di Anitec e Assinform, le associazioni confindustriali dell’high-tech: «Per noi il mercato domestico è quello europeo, da lì partono i percorsi di internazionalizzazione. Per questo spero che scenari di uscita dall’Europa non siano presi in considerazione dal nuovo governo. Non ne faccio un discorso di appartenenza politica ma sarebbe un non senso tornare ad operare con un’altra moneta e con i tassi di cambio». La differenza tra sfiducia verso la Ue e atteggiamento prudente sugli eventuali referendum, secondo l’economista di scuola Ocse Andrea Goldstein, «dipende dall’atteggiamento assunto da Bruxelles nel controllo delle migrazioni, gli elettori pensano che ci abbiano lasciati soli». Quando ci si deve pronunciare su eventuali conseguenze economiche «lo scetticismo si smussa in tutti i partiti, l’occhio va più prosaicamente ai mutui e ai tassi di interesse». Chiude l’economista Innocenzo Cipolletta: «Non dobbiamo dimenticare che l’Italia è un Paese di risparmiatori e così si spiega la schizofrenia rivelata dal sondaggio. Da elettore concedo consenso ai partiti populisti, da risparmiatore pur avendo votato Lega o Di Maio seguo comunque con trepidazione l’andamento dei titoli di Stato e decido di disfarmene». Pag 12 Slovenia un po’ più “orbaniana”. Il voto premia la destra antimigranti di Paolo Salom Un ex premier incarcerato per corruzione che torna vincitore. Un comico che ha fondato il suo partito e potrebbe essere decisivo. Il leader del governo di centrosinistra che è inciampato su un referendum e ha dovuto dimettersi anzitempo. Le elezioni di ieri in Slovenia potrebbero sembrare curiosamente vicine a quelle italiane, anche per i temi di una campagna che ha visto primeggiare slogan populisti come «prima di tutto gli sloveni»; «basta migranti»; «pensioni più alte». Altra (paradossale?) similitudine con il nostro Paese, formare un governo sarà tutt’altro che agevole per quanto il presidente della Repubblica Borut Pahor abbia espresso la «speranza» di una soluzione rapida della crisi. D’altro canto - secondo i primi risultati - il partito che ha ottenuto il consenso più netto, l’Sds (Partito democratico sloveno) del conservatore Janez Jansa, per due volte primo ministro, finito in prigione per una storia di corruzione quattro anni fa (sentenza annullata dalla Corte Costituzionale), supera di poco il 25% dei voti. Ottimo risultato. Ma, considerato che, a parole, sono pochi gli esponenti politici disposti ad allearsi con lui (anche perché il modello cui sembra ispirarsi è l’ungherese Viktor Orbán), avrà difficoltà a formare il governo. Sarà invece importante, qualunque soluzione si dovesse ricercare, l’apporto della lista civica da poco formata dall’ex comico e imitatore liberale Marjan Sarec - sorta di Grillo sloveno ma con tendenze politiche liberali, per quanto «anti sistema»: con il 12,6%, servirà a garantire la governabilità, chiunque diventi primo ministro. È utile ricordare che Sarec, l’anno scorso, arrivò secondo alle presidenziali, ottenendo di disputare il ballottaggio contro Pahor, poi eletto: sarà per questo che il (nostro) Grillo immagina di presentarsi candidato quale futuro presidente della Repubblica? Altri risultati: il Partito democratico di centro (Smc), del primo ministro uscente Miro Cerar, ha preso il 9,5%. Sinistra unita e Socialdemocratici sono testa a testa con preferenze tra il 9 e il 10%. Dall’indipendenza ottenuta nel 1991 dopo dieci giorni di guerra contro i soldati della morente Jugoslavia orfana di Tito - conflitto cui

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prese parte anche Janez Jansa, allora giovane ministro della Difesa - la Slovenia ha percorso in pochi decenni una parabola esemplare nel mondo delle democrazie occidentali. Paese modello dal punto di vista delle istituzioni, economia brillante e capace di portare Lubiana nell’area euro senza soverchi problemi, è incappato nella crisi finanziaria che ne ha scardinato sì l’equilibrio, ma ne è uscito senza aiuti esterni. Soltanto la politica ha accusato il colpo: corruzione e «inciuci» ne hanno minato la credibilità anche se l’emergenza immigrazione del 2015 ha messo tutto in secondo piano. È proprio grazie al passaggio nel suo territorio di 500 mila profughi diretti verso l’Europa Centrale che il discorso populista ha potuto attecchire con l’aiuto, certo non disinteressato, del premier ungherese Orbán - capofila del Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) - impegnato a respingere con ogni mezzo l’ingresso nel suo Paese dei migranti. Ora, in Slovenia (due milioni di abitanti), solo una manciata di richiedenti asilo si è fermata. Mentre il nostro vicino annovera emigrati di successo, come la first lady Melania Trump, nata Knavs a Novo Mesto. «Mi auguro che questo voto sia il primo passo per dare priorità alla sicurezza e al benessere della Slovenia e degli sloveni», ha detto, uscendo dal seggio elettorale in un paesaggio alpino ordinato e pulito, Jansa. In verità, il Paese non sembra bisognoso di particolari rimedi, se non il buon governo. Lo dimostra forse il fatto che su un milione e 700 mila aventi diritto, soltanto poco più di 800 mila sono andati effettivamente alle urne. Certo, ieri è stata una bella giornata di sole oltre confine. Però il clima politico, di questi tempi, pare avulso dalle stagioni. Non in Slovenia. LA REPUBBLICA Pag 1 La destra realizzata di Ezio Mauro È finita la pacchia. Nel traduttore ideologico di Matteo Salvini la tragedia delle migrazioni, che segna un'epoca e riguarda due continenti, si riduce a una cuccagna, una gozzoviglia fortunata, un bengodi che comunque ha le ore contate perché è arrivato lui al governo e ha preso in mano il Viminale. Il leader della Lega si riferiva ai clandestini, «che dovranno andarsene», ma contemporaneamente annunciava la chiusura dei porti italiani alle navi delle Ong che prestano soccorso nel Mediterraneo, e il taglio del budget di 5 miliardi destinati all'accoglienza dei migranti. Seguiranno, com'è sempre accaduto, i rom, con le ruspe che dalle felpe di Salvini scenderanno nelle strade per smantellare i campi che non sono regolari: per ora. Naturalmente una politica di controllo dei flussi è indispensabile, e il ministro Minniti l'aveva messa in opera: una politica, non una predicazione ideologica. Si tratta di costruire e governare un concerto con le altre sponde del Mediterraneo. Sapendo poi che quando questa rete di controllo viene bucata dai disperati in cerca di una speranza di sopravvivenza e di futuro valgono le ragioni di umanità, le regole di civiltà, le leggi del mare che Roberto Saviano ricorda a Salvini: non si lasciano morire i naufraghi. Il messaggio del ministro dell' Interno - messaggio alla popolazione, alla nuova maggioranza, ma anche agli apparati di polizia che operano in terra e per mare - è invece l'opposto. Si fa credere che i migranti abbiano goduto di privilegi impropri e indebiti, dunque a danno dei cittadini italiani: e nello stesso tempo si annuncia che quella «pacchia» è finita perché è cambiata la stagione politica e la Lega è arrivata al governo alzando la bandiera di un'italianità che non è quella dell'Italia dei nostri padri e delle nostre madri. Tutto avviene in un cortocircuito politico da battaglia navale, costruito a tavolino, esportato sui social media, pronto per arrivare infine nel grande tinello italiano attraverso il canestro indistinto del talk show, dove qualche sondaggista ci dirà che le percentuali per Salvini salgono: in studio applausi e sorrisi di Di Maio, come accade ormai per ogni cosa. Chi aveva ancora dei dubbi sulla natura di questo governo è servito. Agitare il fantasma di Berlusconi dietro la finestra per nascondere Salvini a capotavola non ha portato a niente. Non avendo una storia che li vincoli e una cultura che li indirizzi, i grillini sono già prigionieri del campo di forza della politica sprigionata dalla nuova Lega, che suscita riserve persino in Maroni mentre riceve consensi entusiastici da Bannon e Marine Le Pen. Avremo un lepenismo (corretto da assistenzialismo al Sud spacciato per facsimile di reddito di cittadinanza) che proverà a fare un patto con la piccola impresa e con gli alti redditi, costruendo per strada il modello di una base sociale incerta e indefinita ma probabilmente capace di unirsi in una confusa voglia di resa dei conti contro una fantasmatica élite, che nel nostro Paese non è

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mai stata capace di diventare establishment. È quella stessa classe dirigente ancora incerta oggi se convertirsi un'ennesima volta, per cavalcare questa rivoluzione di serie B sperando di trarne qualche dividendo, o stare a guardare, in attesa che passi anche questo temporale. Ma intanto lo spostamento del Paese è già evidente, basta osservare quel che accade sotto i nostri occhi. La verità è che siamo davanti ad una "destra realizzata", dopo il mostro del socialismo reale. La "destra reale" europea oggi siamo noi, laboratorio con tutti i potenziali esplosivi del continente: il piano "B" anti euro e contro la Ue, il legame con Putin, la simpatia per Erdogan, l'ammirazione per Orbán, il lavoro con Farage e Le Pen. Ecco dove nasce, fin dove arriva la bandiera che il nuovo governo ha issato con Salvini sul colle del Viminale. Ribellismo, velleitarismo, ideologismo, dilettantismo. Una volta c'era una vecchia parola socialista per definire tutto questo: avventurismo. IL GAZZETTINO Pag 1 Politica estera, le scelte e le incognite del governo di Romano Prodi In questi giorni si è molto discusso a proposito della politica economica del futuro governo e poco invece di politica estera, pur essendo i due capitoli strettamente legati fra loro. Conviene perciò riflettere sulle pur scarse note del programma di politica estera concordato fra Lega e 5Stelle. Riflettere sulla possibilità che tale programma possa essere messo in atto e, infine, sulla compatibilità delle diverse proposte. Si tratta di un esercizio non semplice, in quanto il programma comune parte con l'affermazione di fedeltà all'alleanza atlantica con gli Usa ma si accompagna ad un'apertura totale alla Russia, considerata non come una minaccia ma come un indispensabile partner economico e commerciale, al quale debbono essere perciò tolte al più presto le sanzioni in atto. La Russia viene anzi considerata come un potenziale alleato della Nato e dell'Unione Europea per combattere il terrorismo islamico e per regolare i flussi migratori nel Mediterraneo. Tutto bene quindi ma, nell'attuale situazione, si tratta di un desiderio più che di un disegno politico possibile. Penso anch'io che l'obiettivo di dividere l'Europa dalla Russia sia un errore strategico non solo dal punto di vista europeo ma anche per gli stessi interessi americani di lungo periodo. Tuttavia le cose oggi stanno ben diversamente e le tensioni fra NATO e Russia sono al massimo livello proprio in un momento nel quale il ruolo dell'Italia nella NATO diventa essenziale in conseguenza dell'indecifrabile politica turca. È infatti rimasta l'Italia, con i 30.000 soldati americani presenti sul suo territorio e forniti di armi nucleari, il presidio militare più affidabile della NATO nel mare nostrum. In questo complesso gioco di tensioni fra i paesi aderenti alla NATO e la Russia si inseriscono tuttavia eccezioni di grande portata, come il progetto del raddoppio del gasdotto sottomarino che congiunge direttamente la Russia alla Germania tagliando fuori gli interessi polacchi e ucraini. Un progetto che trova, naturalmente, la ferma contrarietà americana. Un progetto che si colloca contro gli interessi dell'Italia che voleva fare del nostro Mezzogiorno il punto di arrivo e di smistamento di energia che, arrivando da sud e da est, potesse in qualche modo equilibrare il monopolio che la Germania intende assumere nella politica di rifornimento del gas europeo. Un puzzle ulteriormente complicato dal fatto che un partito determinante nel nuovo governo italiano si oppone all'arrivo di un gasdotto in Puglia (il così detto TAP) rendendo quindi vano il progetto che farebbe dell'Italia meridionale lo snodo fondamentale della politica energetica europea. Proprio mentre l'Italia diventa determinante negli aspetti militari ed economici del Mediterraneo, dove il nostro ruolo è per noi vitale e per i nostri alleati insostituibile, l'accordo di governo non parla affatto della politica mediterranea se non riguardo alla lotta al terrorismo e alle migrazioni. Nel frattempo la Francia, approfittando della lunga crisi e delle incertezze italiane, ha portato avanti, con decisione solitaria, una conferenza per la pace in Libia. La decisione della conferenza di Parigi di indire presto le elezioni non è stata certo accolta con unanime entusiasmo dalle diverse fazioni libiche: speriamo che le cose maturino in futuro. L'unica cosa per ora certa è che questa conferenza ha marginalizzato il nostro ruolo nel Mediterraneo, sostituendolo con la crescente influenza proprio da parte del paese che ha voluto, iniziato e condotto la sciagurata guerra di Libia e non ha certo partecipato ad uno sforzo concordato per portarvi la pace. Queste riflessioni ci portano direttamente al problema fondamentale della nostra politica estera: se non contiamo in Europa non possiamo nemmeno avere

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una politica estera, a meno che qualcuno non pensi al diabolico disegno di usare gli americani o farci usare dagli americani per scardinare le prospettive di un'Unione Europea capace di giocare un ruolo attivo nella politica e nell'economia mondiale. Non mi sento di escludere che questa tentazione alberghi in qualche corridoio dell'amministrazione Trump, tentazione che può trasformarsi in azione se Francia e Germania non si rendono conto che, approfittare delle debolezze politiche d'Italia e di Spagna per poi scontrarsi fra di loro in una lotta egemonica, porterebbe solo all'emarginazione di entrambi i paesi. Da quanto si legge nei media e nel rapporto di un nutrito gruppo di influenti economisti tedeschi, il sud dell'Europa è visto sempre più con evidente fastidio, come un peso che impedisce alla Germania di volare. A sua volta la Francia lancia segnali di amicizia ai nuovi governanti italiani ma, per evidenti motivi di politica interna, non pensa nemmeno lontanamente di accogliere uno solo dei migranti che arrivano a noi dall'Africa. Affermare i nostri interessi in questa complessa situazione internazionale e in presenza di non trascurabili differenze fra le due principali componenti governative sarà certo un compito complicato, anche perché (elemento non trascurabile) l'aumento del bilancio della difesa, necessario per raggiungere questi obiettivi, non sarà certo facile da essere messo in atto. LA NUOVA Pag 1 Bipolarismo pericoloso per l’Italia di Francesco Jori Fratelli d'Italia sì; ma fratelli-coltelli. Per la prima volta nei suoi 72 anni di vita, ha trovato due Paesi contrapposti la festa della Repubblica: caduta all'indomani dell'abborracciata e rissosa nascita del governo, a tre mesi di distanza dalle traumatiche elezioni di marzo. Ma questa spaccatura non è tra responsabili e populisti, sostenitori e denigratori dell'Europa, fautori del cambiamento ed epigoni della restaurazione, come la inquadrano i più. No: la vera linea di faglia uscita dalle urne corre tra élites e popolo. Tra una minoranza sempre più sorda e coriacea che ha fin qui detenuto le leve del controllo, e una maggioranza sempre più eterogenea e rancorosa, convinta che sia l'ora di strappargliele di mano. È come se si fosse creato un inedito bipolarismo tra testa e pancia del Paese; ciascuna delle due parti ignorando che, come per l'individuo, pure il corpo della nazione ha bisogno di entrambe, e di entrambe deve tener conto. La responsabilità principale di quanto sta accadendo è chiaramente della prima, cioè la cerchia delle élites: categoria in cui rientrano attori di mondi diversi, dalla politica tradizionale ai poteri economici, dalle forme classiche della rappresentanza (sindacato incluso) ai mass media artefici di una narrazione sfascista e all'ingrosso. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: prima e dopo il voto, il coro di "chi conta" è stato pressoché unanime nell'esortare il popolo a non seguire i nuovi profeti del cambiamento; nelle urne il popolo se ne è fatto beffe suonando tutt'altro spartito. E per una singolare ma tutt'altro che casuale coincidenza, la festa della Repubblica ha tenuto a battesimo la nascita di un governo che da Roma a Bruxelles le élites aborrivano ed esorcizzavano. Il punto è che un simile bipolarismo fa male non alla testa o alla pancia, ma all'Italia. Il cui vero, tossico, esiziale problema non sta tanto nelle tasse inique, la giustizia lenta, le infrastrutture carenti, gli sbarchi dei clandestini, la sicurezza a rischio, insomma i temi disinvoltamente cavalcati in campagna elettorale. No: è la compresenza di due micidiali deficit, quello dei conti pubblici e quello dell'anagrafe. Il primo è sotto gli occhi di tutti: nessuna vera riforma si potrà mai fare se non si risana il vertiginoso debito pubblico. Del secondo pochi si rendono conto, malgrado sia se possibile ancora peggiore: questo è un Paese che sta invecchiando in fretta e male; e come accade per le persone, senza rimedi efficaci è destinato a finire in casa di riposo, vegetando in un malinconico declino. È bene chiarire che nessuno, ma proprio nessuno, ha in mano gli strumenti per colmare questi due deficit in tempi brevi: tanto meno un governo i cui protagonisti hanno già rottamato le loro mirabolanti promesse, si sono ripetutamente auto-sconfessati, e hanno dato vita ad una precaria convivenza a orologeria. Oggi hanno dalla loro la maggioranza degli italiani, certo. Ma il consenso delle urne è diventato volatile & volubile, e non da oggi. Nel 2013, il 39 per cento degli elettori avevano cambiato voto rispetto alla volta precedente; stavolta sono stati il 28. Non di sole promesse vive la politica, né di un algoritmo dello sfascio: vale ora più che mai la ricetta del "sangue, sudore e lacrime" proposta nel 1940 da Winston Churchill, di fronte a una guerra devastante. Lo è anche

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quella attuale, in un'Italia stretta nella morsa tra una micidiale crisi planetaria e un esiziale ritardo dovuto a chi per decenni ha ingessato il Paese, in politica ma pure in economia. Perciò è fondamentale una riconciliazione tra élites e popolo: accantonando urla e scomuniche, ripristinando con pazienza il dialogo e la ragione. Altrimenti, non sarà solo una guerra persa, ma una catastrofe. Caporetto, in fin dei conti, appartiene al made-in-Italy. Pag 1 Distruggere invece di costruire di Pier Aldo Rovatti Se sia meglio costruire che distruggere sembra una domanda completamente oziosa. Ma così non è, visto che si ripresenta di continuo nelle affermazioni dei nostri leader politici. L'ultimo, credo sia stato Matteo Salvini quando ha voluto tranquillizzare il popolo gialloverde, assicurando che il nuovo governo avrebbe privilegiato il "costruire" qualcosa di nuovo all'occuparsi di "distruggere" il vecchio assetto. Come è evidente, la campagna elettorale non è mai terminata e il capo leghista enunciava questa "verità" con il consueto tono da comizio. Si tratta di una verità lapalissiana solo all'apparenza. Prima di tutto vi gioca una differenza di accentuazione: il cosiddetto governo del cambiamento, proprio in ragione del nome, promette di sovvertire l'esistente piuttosto che di darsi da fare per correggerlo. Questione di accenti e di tempi, si direbbe, perché ogni cambiamento è ipso facto una riforma correttiva. In secondo luogo, non c'è neppure bisogno di scomodare Freud (e il suo concetto di denegazione), per dedurre da simili proclami che ciò che essi negherebbero con forza è in realtà chiaramente chiamato in causa e affermato. Potremmo allora leggervi, espressa per via di negazione, l'intenzione di far piazza pulita di quanto i precedenti governanti hanno messo in piedi, cioè appunto di distruggere molti provvedimenti, dalla riforma pensionistica alla "buona scuola" al nascente ius soli (l'elenco è lungo e ben noto), non come azione secondaria bensì come obiettivo primario. Una intenzione - osservo anche - che si potrebbe realisticamente concretare in una fase iniziale, mentre i grandi obiettivi contenuti nel famoso "contratto", come la flat tax o il reddito di cittadinanza, punti di forza e di rottura della campagna elettorale di Lega e Cinquestelle, sarebbero necessariamente procrastinati in quanto non finanziabili a breve termine. Agli elettori si era invece promessa una realizzazione immediata o comunque prioritaria: così molti milioni di italiani avrebbero potuto venire disillusi riguardo alla speranza di ottenimento del bersaglio grosso, e avrebbero dovuto accontentarsi con ogni probabilità di un governo impegnato a smontare quanto è stato montato dal governo precedente. Ne consegue che non è vero che costruzione del nuovo e distruzione del vecchio siano aspetti che si escludono o divergono drasticamente: al contrario, vanno ovviamente assieme secondo una dinamica per cui tutto dipende dalla trama delle mosse specifiche adottate per decostruire l'esistente e per tentare di ricostruirlo in meglio. Ma va da sé che una tale attenzione alle pratiche e alla loro complessità non è lo strumento migliore per attrarre il consenso popolare. Ci vorrebbe uno spirito più critico e meno caldo, un'idea di politica che non sembra attualmente in circolazione e che evidentemente non si attaglia a una governance di tipo populistico. Ci vorrebbe soprattutto una spinta etica generalizzata che reclamasse che tutto questo gioco articolato del costruire e del distruggere venga portato in piena luce, senza trucchi, senza finte, senza non-detti. Il vero cambiamento dovrebbe consistere prima di tutto nella rinuncia a una pratica di governo che mantenga sempre la riserva di un "dietro". Sarebbe una radicale trasformazione dello stile politico, e chissà quanti elettori hanno creduto che coloro a cui davano il loro sì li garantissero proprio da questo atavico difetto della politica. In ogni caso è incontestabile che la dialettica pur fisiologica tra distruzione e costruzione pende nettamente dalla parte della cancellazione del vecchio. Non solo veniva annunciata una tabula rasa quasi propedeutica perché entrasse dappertutto aria nuova senza preoccuparsi troppo delle scadenze, degli impegni presi e delle implicazioni materiali, ma si è intravisto anche un progetto di allentamento, se non proprio di rottura, dei vincoli che uniscono l'Italia all'Europa. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 3 giugno 2018

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Pag 1 Tre dossier per capire la rotta di Ferruccio de Bortoli Ilva, Alitalia, Cdp I programmi elettorali si scrivono in assenza di gravità. L’azione di governo invece è appesantita da scelte obbligate, leggi vigenti, vincoli internazionali, impegni contrattuali. Il giurista Conte immaginiamo ne sia consapevole. Altri nel governo, specie tra le matricole, non sappiamo. E poi c’è la realtà dei numeri, peraltro scarsi nel pomposo «contratto». Fra qualche giorno qualcuno di loro dirà: «Non pensavamo di trovare una situazione così difficile...». E qualche scelta programmatica verrà sospesa o accantonata, forse anche saggiamente. L’impatto con la nuda terra dell’amministrazione quotidiana non è stato mai semplice per nessun esecutivo. Anche nella continuità politica. Figuriamoci per il neonato governo giallo verde o giallo blu, non si sa. Se l’esecutivo guidato(?) da Conte non si doterà di collaboratori esperti nel funzionamento della macchina dello Stato la navigazione sarà subito incerta. Uno non vale uno. L’onesto incompetente può fare grandi danni. Pietro Nenni disse che una volta entrati nella stanza dei bottoni, il luogo del potere, i socialisti non trovarono i bottoni. In questo caso, qualcuno rischia, senza validi esperti, di non trovare nemmeno la stanza. Lasciamo per un attimo da parte il drammatico tema dell’incompatibilità economica del «contratto» con gli equilibri di finanza pubblica e con gli impegni legati all’appartenenza all’Unione monetaria. I mercati restano in agguato. Domani ne capiremo l’umore. Occupiamoci invece di tre dossier che il governo Conte dovrà affrontare nelle prossime settimane. Tre appuntamenti dai quali si capiranno il tono e la rotta di un’intera stagione amministrativa. Il neo superministro dello Sviluppo e del Lavoro, Luigi Di Maio, ha giustamente annunciato che il suo primo solenne impegno sarà quello di rilanciare l’occupazione al Sud. Come si concilia questo sacrosanto proposito con l’intenzione programmatica di chiudere e riconvertire l’Ilva di Taranto peraltro gradita dal governatore della Puglia, il pd Michele Emiliano? È il più grande stabilimento del Mezzogiorno, impiega direttamente e indirettamente 20 mila persone. La produzione vale un punto di Prodotto interno lordo. Il primo luglio Arcelor Mittal, che ha vinto una gara internazionale, entrerà in azienda. Anche in assenza di un accordo sindacale. Il gruppo siderurgico spenderà 1,8 miliardi per l’acquisto, promette 2,3 miliardi di investimenti di cui 1,1 per il risanamento ambientale. Si può ancora trattare. Ma che facciamo? Mandiamo all’aria tutto? L’azienda perde 30 milioni al giorno. Ha cassa ancora per un mese. La riconversione avrebbe costi faraonici ed esiti largamente incerti. Si decarbonizza da un lato e dall’altro, come ha dichiarato la neoministra del Sud, Barbara Lezzi, si blocca il gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline)? Appare suicida poi chiudere l’Ilva di fronte ai dazi americani. I produttori colpiti negli Usa cercheranno spazi di mercato maggiori in Europa. L’Ilva vende solo in Europa. Senza guardare all’ammontare delle penali, chi volete che venga più a investire - e non solo in Puglia - davanti a giravolte di questo tipo? Quando Riva, l’ex proprietario dell’Ilva, annunciò, nel settembre del 2013, la chiusura di alcuni stabilimenti lombardi, Matteo Salvini, allora vice di Roberto Maroni, protestò duramente in difesa di 1.400 posti di lavoro. «Siamo pronti a tutto - scrisse su Facebook - da Varese alla Val Camonica passando per Brescia, se ci sarà da rischiare e fare casino, faremo casino». E parlando a Novi Ligure il 9 febbraio di quest’anno: «Marchiamo a uomo affinché il piano industriale dell’Ilva sia portato avanti, sperando che in Puglia si mettano d’accordo. Le promesse messe per iscritto vanno mantenute e qualcuno deve impegnare l’azienda a mantenerle». Giovanni Tria ha espresso il 14 maggio su Formiche.net tutte le sue riserve sulle scelte del nascente, prima versione, governo pentaleghista. «Più preoccupante il fatto - scriveva il futuro ministro dell’Economia - che non sia chiaro l’indirizzo di politica industriale, vedi l’imbarazzante caso Ilva». Sono giorni decisivi anche per il futuro dell’Alitalia. Nel «contratto» si legge che va «rilanciata nell’ambito di un piano nazionale dei trasporti che non può prescindere dalla presenza di un vettore nazionale competitivo». Tra le offerte pervenute ai commissari, solo per pezzi di azienda, la migliore sembra quella di Lufthansa. Ma comporterebbe un sacrificio occupazionale, diretto e indiretto, tra 2 e 4 mila posti. Oggi ci sono già 1.500 lavoratori in cassa integrazione. Il governo uscente ha prestato all’azienda finora 900 milioni. È aperta una procedura europea sul sospetto di aiuti di Stato. Un rilancio, con un soggetto italiano privato e pubblico è possibile, ma occorre sia fatto a condizioni di mercato e con forti investimenti. Anche nazionalizzando

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in ipotesi i tagli occupazionali vanno fatti. Erano insufficienti i capitali messi a disposizione dai cosiddetti capitani coraggiosi e, successivamente, dagli arabi di Etihad. Ed è finita male. Chi li mette i soldi necessari per creare un «vettore nazionale competitivo»? Stiamo parlando almeno di un paio di miliardi, anche perché va restituito il prestito pubblico. Alitalia è finora costata ai contribuenti una cifra che oscilla tra gli 8 e i 9 miliardi. Terzo dossier delicato è quello della Cassa depositi e prestiti (Cdp). Gestisce il risparmio postale. Ha un attivo di 370 miliardi di cui 150 versati nel conto di tesoreria. È il polmone finanziario della Repubblica. Ha partecipazioni azionarie per 35 miliardi. È appena entrata in Tim. L’assemblea per il rinnovo dei vertici - l’attuale presidente Claudio Costamagna e l’amministratore delegato Fabio Gallia sono in uscita - è fissata in seconda convocazione il 28 giugno. Entro il 16 gli azionisti, ovvero il ministero dell’Economia e delle Finanze e le Fondazioni bancarie, dovranno depositare le liste con i nuovi amministratori. Tra i candidati si è parlato finora di Massimo Tononi alla presidenza e di Dario Scannapieco come ad. C’è anche l’ipotesi di Franco Bernabé. Sono tutti ottimi nomi. Quali scelte farà il nuovo governo? Nel «contratto», la Cdp non è citata. Si parla però della creazione di una banca per gli investimenti e lo sviluppo. Davide Casaleggio ha fatto più volte l’esempio della francese Bpifrance partecipata da Caisse des Dépôts. Il rispetto dei criteri di competenza degli amministratori e di governance sarebbe già un ottimo inizio. Un diverso indirizzo strategico, come quello che traspare dal «contratto», potrebbe scontrarsi con i vincoli non solo statutari ma anche con quelli fissati dalle regole europee. Cdp non è una banca. Se lo fosse dovrebbe essere sottoposta alla vigilanza prudenziale di Francoforte. Agisce già come una sorta di fondo sovrano italiano, finanzia infrastrutture e innovazione. Può fare di più e meglio. Ma se si rispettassero i vincoli, l’Italia rischierebbe ancora una volta una procedura europea con effetti sul perimetro delle attività statali e sul calcolo del debito pubblico. Il governo e il Parlamento hanno tutto il diritto di cambiare struttura e missione della Cdp - come di Invitalia, che ha appena acquisito la Banca del Mezzogiorno - ma il cammino è irto di ostacoli che vanno attentamente soppesati. Il cambiamento è necessario ma tutt’altro che facile. E soprattutto ha sempre costi nascosti e imprevisti. Pag 1 L’ex popolo della libertà di Pierluigi Battista Trionfi e declino del centrodestra I grandi sconfitti del 4 marzo sono due, non uno. Non Matteo Renzi e basta, come si tende a dire con spirito un po’ corrivo. Ma due: Renzi e Silvio Berlusconi. Con la vittoria di Matteo Salvini nelle urne, si è dissolto il centrodestra di marca berlusconiana. Nominalmente la coalizione del centrodestra è ancora al primo posto, ma nei fatti ha cambiato natura, linguaggio, collocazione, identità. Il centrodestra a trazione salviniana ha modificato l’agenda di una coalizione nata all’alba del 1994 con caratteristiche che oramai sono appannaggio di una minoranza tristemente attestata attorno al 10 per cento dei consensi. Una storia si è conclusa, il mantra del centrodestra unito attorno al suo indiscusso leader e fondatore, appare un’invocazione vuota. Nel 2008 il Pdl aveva conquistato il 38%. Solo dieci anni, non cento. E in dieci anni l’arretramento è quantitativamente clamoroso. Nel 2013 la resa dei conti fu solo rimandata grazie all’incredibile autogol del Pd allora guidato da Pier Luigi Bersani che non era riuscito, davanti alla porta semivuota, a vincere la partita decisiva e a «smacchiare il giaguaro»: non capendo, come tutti, le dimensioni dell’elefante grillino che si stava imponendo. Adesso, con Salvini che sposa i 5 Stelle e con la base di Forza Italia tentata dalla migrazione disordinata sotto le bandiere della Lega, il centrodestra della «rivoluzione liberale», della guerra (almeno verbale) al torchio fiscale, del «popolo della libertà», dell’antistatalismo, dei discorsi trionfali al Congresso degli Stati Uniti e all’omaggio berlusconiano all’«american flag», dell’adesione al Partito popolare europeo, quel centrodestra dovrà, se vuole avere ancora un futuro, ripensarsi profondamente. Come il Pd. Ne avranno la capacità e l’animo, il Pd e Forza Italia, i due sconfitti gemelli? Il centrodestra a guida berlusconiana così come lo abbiamo conosciuto e che ora sembra svanire nella malinconia della marginalità ha fondato nel 1994 in Italia il bipolarismo politico, seppellendo la stagione proporzionalistica della Prima Repubblica demolita sotto i colpi di Mani Pulite. Richiamò sotto le sue bandiere un ceto medio frastornato dall’invadenza fiscale, un Nord produttivo che si sentiva defraudato dal centralismo

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romano, un pezzo di società, quello delle partite Iva, dei piccoli imprenditori, dei commercianti, della piccola borghesia spaventata dall’ascesa della sinistra post comunista legata fino a pochi anni prima all’Unione Sovietica implosa nel 1989. Mise insieme, con la potenza di un tycoon della televisione capace di una comunicazione molto più pervasiva e «popolare» di quella dell’antagonista di sinistra, l’animus protestatario del leghismo antisistema, gli eredi della destra italiana ancora imbozzolata, prima del lavacro di Fiuggi, nell’identità neofascista, una parte del ceto politico del moderatismo italiano, in particolare della Dc, spazzato via dalla tempesta giudiziaria del ’92-’93. La leadership indiscussa era la sua, di Silvio Berlusconi e di Forza Italia, che portò alla ribalta politica una nuova antropologia, un nuovo modo di parlare, persino di vestirsi. Tra i cronisti e commentatori della politica l’avvento di quel centrodestra fu fonte di stupore per quei «nuovi» che sembravano marziani nella sonnacchiosa routine della Roma politica: la stupefazione per i nuovi «barbari» non è una novità di questi giorni, risale almeno al 1994. Silvio Berlusconi, Umberto Bossi, Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini segnavano il quadrilatero di uno schieramento politico destinato a vincere le elezioni anche quando le perdeva. Come nel ’96, quando perse perché si presentò disunito. O nel 2006, quando al termine di una fantastica rimonta, il centrodestra venne staccato dallo schieramento guidato da Romano Prodi di soli 25.000 voti. Il centrodestra creato e forgiato da Berlusconi rappresentava stabilmente una parte decisiva del mondo sociale, non era solo uno stato d’animo o uno slogan. I suoi pilastri ideologici trasmettevano al popolo del centrodestra il senso di un’unità profonda. Anche nelle tempeste che per un certo periodo avvelenarono la rottura tra Bossi e Berlusconi. Anche con la frattura con Casini. Il Pdl trionfa nelle elezioni del 2008 dopo il fallimento della troppo vasta ed eterogenea coalizione di Prodi, e se si pensa che al 38% del Popolo della ibertà si aggiungeva il 5% della Lega non ancora salvinizzata, si ha un’idea della massiccia forza elettorale di allora. Poi la rottura con Fini, che incrinò la compattezza del centrodestra. Poi la tempesta finanziaria del 2011 che estromise Berlusconi da Palazzo Chigi, poi la condanna giudiziaria. Ogni volta Berlusconi veniva dato per finito, ma poi era capace di risorgere. Fino al 4 marzo, quando la sfida per la leadership con Salvini, lanciata con la certezza di essere vinta come al solito. Non è stata clamorosamente perduta. Ora sono emerse altre parole, il sovranismo, l’antieuropeismo, l’animus anti-immigrazione, che hanno scalzato quelle del centrodestra berlusconiano. Per Forza Italia comincia veramente la fase della sua prima, dolorosa traversata nel deserto. Credere nel miracolo italiano, e del Berlusconi che non cade mai, non basta davvero più. Pag 1 La mano tesa di Marco di Massimo Nava Perché Parigi vuole una sponda Emmanuel Macron aveva espresso rispetto e sostegno a Giuseppe Conte dopo il primo tentativo poi fallito di formare un governo «pentaleghista». L’atteggiamento non cambia ora che il governo nasce in una cornice più rassicurante per i mercati e con ministri che - ufficialmente - non predicano strappi con Bruxelles. È una posizione in controtendenza con media francesi che riflettono giudizi sommari sul «primo governo populista dell’Europa occidentale» (Les Echos) e preoccupazione per il peso politico della Lega Nord, accostata alle posizioni xenofobe e antieuropee del Front National. La mano tesa non è soltanto un gesto di simpatia verso un Paese che Macron ama sinceramente. È la pragmatica consapevolezza di come vanno le cose in Europa e nella sua Francia. Nell’Europa del dopo Brexit, in cui si affermano i populismi e si accumulano fattori d’instabilità e involuzione - crisi catalana e caduta del governo in Spagna, chiusure nazionalistiche nei Paesi dell’ Est, rigorismo finanziario nelle capitali del Nord, incertezze tedesche - Macron rilancia un grande disegno europeista. E sostiene riforme liberali nella Francia in cui risorgono vizi corporativi che bloccano il Paese con bordate di scioperi e proteste. Il presidente corre dunque il rischio di non trovare alleati, mentre il rapporto con la Germania non è più sufficiente a fare avanzare l’Europa e rimane incagliato sulle riforme di governance finanziaria che Parigi propone e che Berlino congela. Macron ha necessità di una sponda, di mantenere solidi rapporti bilaterali con Roma. Peraltro, anche la Francia ha bisogno di contenere l’Europa a trazione tedesca e anche la Francia è confrontata a drammatiche urgenze di riduzione della spesa pubblica e rientro nei parametri di bilancio, per anni sistematicamente sforati (Senza che nessuno, a Bruxelles

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o a Berlino, alzasse la voce o chiedesse alla Francia delle «35 ore» di lavorare di più). Certo, Macron avrebbe preferito un altro esito. Basti ricordare la cordialità negli incontri con Renzi e Gentiloni, con l’occhio alle elezioni europee e alla «collocazione» del suo movimento, En Marche, al Parlamento di Strasburgo. Ma Macron è un pragmatico. Il primo capo di Stato che ha invitato a Parigi dopo la sua elezione è stato Donald Trump. I canali di dialogo sono stati aperti con Cinque Stelle: l’esigenza di un’Europa più vicina ai cittadini è condivisa. D’altra parte, Conte, come i precedessori, non dovrebbe farsi illusioni sul senso che i francesi danno all’amicizia. I dossier Libia e Fincantieri insegnano. E non è difficile immaginare le reazioni in caso di ridiscussione della Tav. Non possono sfuggire infine analogie con la situazione italiana. Anche En Marche si è affermato attraverso la Rete, è stato portato in alto da masse di cittadini, soprattutto giovani, delusi dalla politica, ha trionfato sulla catastrofe dei partiti di governo tradizionali, il centro destra gaullista e il Partito socialista. Anche il personale politico di En Marche paga il prezzo dell’improvvisazione e dell’inesperienza. Anche En Marche ha travolto barriere ideologiche fra destra e sinistra. La differenza, fondamentale, la fanno le istituzioni, il sistema elettorale, il peso dell’Eliseo che influenza dal vertice della piramide ogni ambito della vita politica e civile dei francesi. Una differenza che ha per il momento messo nel congelatore (cioè fino alle prossime elezioni) la più complicata e più pericolosa dimensione del populismo francese. Marine Le Pen, più xenofoba e antieuropea di Salvini, ha raccolto milioni di voti ed è arrivata al ballottaggio per l’Eliseo. Fino alla vittoria di Macron, l’estrema destra era il primo partito di Francia. Sul fronte opposto dell’estrema sinistra, radicale e nazionalista, Jean Luc Melenchon ha raccolto a man basse la rabbia dei giovani, dei ceti popolari, degli agricoltori. È evidente che questi due populismi non potrebbero allearsi: con lo sguardo preoccupato a Roma, mai dire mai . Pag 10 “La Ue non dia lezioni all’Italia” di George Soros Il finanziere e filantropo: l’Europa vi paghi per l’onere ingiusto subito per i rifugiati Tutto ciò che potevo dire dell’Italia una settimana fa è che si sarebbe andati a nuove elezioni nel pieno di una crisi politica. Ora, invece delle urne, il Paese ha un governo imperniato su una precaria coalizione fra Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle e Matteo Salvini della Lega. La coalizione è precaria perché Salvini era impaziente di tornare a votare, mentre Di Maio voleva disperatamente evitarlo. I due partner hanno elettorati diversi e diverse esigenze dal bilancio pubblico, quindi faticheranno a mettersi d’accordo su di esso. Quello che proporranno verosimilmente supererà i limiti imposti dagli accordi in vigore e ciò potrebbe portare a una nuova crisi politica. Il governo potrebbe cadere, innescando un ritorno a elezioni alla fine di quest’anno o all’inizio del prossimo. A quel punto la situazione sarà molto diversa: fra le due tornate elettorali in carica ci sarà stato un governo dei 5 Stelle e della Lega. Il risultato delle prossime elezioni dipenderà molto da come l’Ue reagisce all’instabilità in Italia. In Europa c’è una tendenza a sfruttare l’occasione per impartire una lezione all’Italia. È un’attitudine espressa di recente da Günther Oettinger, il commissario Ue al bilancio. Ho speranza che la Commissione modificherà queste prime, frettolose impressioni quando si renderà conto delle conseguenze. Se la Ue adotta questa linea si scava la fossa da sola, provocando una reazione negativa da parte dell’elettorato italiano, che a quel punto rieleggerebbe Lega e M5S con una maggioranza ancora più ampia. Invece di cercare di impartire lezioni, la Ue dovrebbe chiedersi che cosa ha da imparare da questo rimescolamento in Italia. Storicamente, il vostro Paese è sempre stato il più grande sostenitore della Ue perché i cittadini non si fidavano del loro governo. E per buone ragioni: i governi italiani tendevano a essere corrotti e a seguire politiche che non servivano gli interessi della popolazione. Ma l’Europa non deve punire gli italiani per le colpe dei loro governi. Quali erano le legittime rimostranze che hanno portato gli italiani a votare M5S e Lega? In primo luogo, una serie di preoccupazioni di natura economica. La popolazione è in gran parte pro-Ue e non vuole restare tagliata fuori dall’euro. Ha sì ragioni legittime di protestare per il modo in cui l’area euro viene gestita. Ma il governo italiano deve trovare un modo migliore di cambiare la narrativa che non sia minacciare di lasciare l’euro. Se introducesse qualunque innovazione che possa essere vista come una moneta parallela, potrebbe innescare una fuga dai titoli di Stato italiani e di depositi dalle

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banche. Accanto alle preoccupazioni per l’economia, l’opinione pubblica in Italia è rimasta turbata da come politiche migratorie sbagliate abbiano imposto sulla popolazione un onere ingiusto. La Ue non ha una politica migratoria comune. Ogni Stato ha la propria, spesso in conflitto con quelle degli altri. Ma la Ue ha le stesse regole, soprattutto il cosiddetto Regolamento di Dublino 3, che si applica a tutti i Paesi e sancisce che la responsabilità per i migranti sia del primo Paese nel quale approdano. Ciò ha sull’Italia un impatto fuori proporzioni a causa di un’altra norma, secondo la quale le navi che salvino i migranti in mare debbano portarli nel porto sicuro più vicino. In sostanza, in Italia. Fino a qualche tempo fa, la gran parte dei migranti si poteva spostare verso i Paesi del Nord, poi sia la Francia che l’Austria hanno chiuso i confini e i migranti si sono trovati bloccati in Italia. Questa situazione era non solo ingiusta ma anche molto onerosa finanziariamente, mentre l’Italia economicamente restava indietro rispetto a gran parte dell’Europa. Questa è stata la ragione principale per cui la Lega, in particolare, è andata così bene alle elezioni. Cosa può fare l’Europa per influenzare a proprio favore il risultato delle prossime? La settimana scorsa a Parigi ho presentato un’analisi all’Ecfr secondo cui la Ue deve cambiare i regolamenti esistenti e pagare gran parte di quanto serve per integrare e sostenere i migranti bloccati in Italia in quantità così spropositate. Ricollocarli in altri Paesi a forza non è possibile né desiderabile. In particolare l’Ungheria e la Polonia resisterebbero strenuamente. Ho sempre sostenuto che la distribuzione di rifugiati in Europa deve avvenire in modo del tutto volontario. Discende da questo prin-cipio che il problema del Regolamento di Dublino 3 non può essere affrontato con la redistribuzione forzosa, ma solo con il fatto che l’Europa compensi l’Italia finanziariamente per i migranti che approdano da voi. Storicamente l’Italia è stata molto aperta non solo ai rifugiati politici, ma anche agli immigrati economici. Ciò è cambiato solo quando la Francia e l’Austria hanno sigillato i confini e Salvini si è costruito la vittoria incitando il pubblico contro gli stranieri. In realtà, i migranti impongono un onere finanziario solo finché non sono integrati. A lungo andare contribuiscono al Paese per molto più del costo iniziale di integrarli. Per questo mi chiedo fino a quando incitare la gente contro gli stranieri resterà un modo di vincere le elezioni. Alla fine gli elettori capiranno che politici senza scrupoli la vogliono ingannare. Per esempio il premier ungherese Viktor Orbán, l’amico di Salvini, danneggia direttamente gli interessi italiani rifiutandosi di accettare rifugiati. Riformare il Regolamento di Dublino sarà lungo e faticoso. Per influenzare costruttivamente le prossime elezioni italiane la Ue deve prendere un impegno fermo nel vertice di giugno a compensare l’Italia anche prima. Ciò richiede che il presidente Macron e la cancelliera Merkel convincano i dissenzienti ad adeguarsi. La Ue è di fronte a un gran numero di problemi, ma l’Italia è diventato il più pressante perché minaccia i valori alla base della Ue. La disintegrazione dell’Europa non è più solo una figura retorica; è la dura realtà. In conclusione, l’Unione Europea è di fronte a un gran numero di minacce esterne e interne e ha poche possibilità di evitare la disintegrazione a meno che l’alleanza franco-tedesca tenga. Francia e Germania hanno molte questioni da risolvere, di cui la più importante è il futuro dell’area euro. La moneta unica ha molti problemi aperti e non bisogna permettere che questi distruggano l’Ue. Per risolverli, è importante riconoscerli. Coloro che danno addosso alla Ue non si rendono neanche conto di quanto perderebbero, se riuscissero nel loro intento. Pag 13 Croci negli uffici. Ma il cardinale boccia la legge di Paolo Valentino Il caso in Baviera Una croce lacera la Baviera. Dal 1° giugno nel Land tedesco è entrata in vigore la legge che impone l’obbligo di appendere il simbolo dei cristiani all’ingresso di tutti gli edifici pubblici. L’ha voluta il nuovo ministro-presidente bavarese, Markus Söder, come «affermazione dei nostri valori culturali, storici e spirituali». Secondo il premier cristiano-sociale, infatti, «la croce non è solo parte integrante della nostra religione, ma appartiene anche alle fondamenta del nostro Stato». La decisione si è rivelata controversa sin dall’inizio. Ha provocato un’ondata di critiche in tutta la Germania. E soprattutto ha confermato la centralità assunta dal tema dell’identità tedesca nella conversazione nazionale, dopo il trauma degli oltre un milione di rifugiati in gran parte musulmani ammessi nel Paese dopo la crisi del 2015-16. Scontate le reazioni negative

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degli avversari politici, su cui torneremo, meno scontato era che a guidare con parole di fuoco la polemica contro il Kreuzpflicht fosse il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco e presidente della Conferenza episcopale tedesca, cioè la massima autorità cattolica in Germania. Tant’è. «È una provocazione per ogni cristiano, per la Chiesa, ma anche per lo Stato», ha detto il prelato in una intervista con la Süddeutsche Zeitung. Secondo Marx, la decisione rischia infatti di «seminare divisione, ribellione e conflitti»: «Se Söder pensa che la croce sia un simbolo culturale e non religioso, allora non ha capito nulla. In questo modo verrebbe espropriata dallo Stato». Il cardinale non nega che un dibattito su cosa significhi oggi vivere una società con identità cristiana sia necessario e importante, «ma allora bisogna coinvolgere tutti, cristiani, musulmani, ebrei e perfino i non credenti». Per una singolare coincidenza, Söder era in visita in Vaticano proprio l’altro ieri ed è facile immaginare che anche il Santo Padre, in termini probabilmente più felpati, abbia espresso qualche riserva. La contestazione politica è incandescente. «Il premier bavarese profana la croce», tuona il liberale Christian Lindner, presidente della Fdp. Qualcuno ironizza, come Die Welt, che ha preso in giro Söder quando, annunciando il decreto, ha piantato personalmente una enorme croce all’entrata della cancelleria di Stato, paragonandolo a Abraham Van Helsing, lo scienziato olandese che nel romanzo di Bram Stoker brandisce il crocefisso contro Dracula. Il fronte dei sostenitori risponde con toni da inquisizione: «Siete un’alleanza sacrilega tra nemici della religione e rinnegati», dichiara il segretario generale della Csu, Markus Blume. Ma a mettere il dito sul nervo scoperto dell’operazione è la deputata ed ex leader dei Verdi, Claudia Roth: «Söder abusa della croce per la sua campagna elettorale e mescola deliberatamente religione e politica». È molto più di un sospetto infatti che il vero elefante nella stanza sia AfD, il partito dell’estrema destra xenofoba, che alle elezioni regionali del prossimo settembre minaccia di far saltare la storica maggioranza assoluta della Csu in Baviera. Alle ultime elezioni federali AfD ottenne nel Land il 12,4% mentre i cristiano-sociali persero oltre 10 punti, precipitando al 38%, peggior risultato di sempre. Söder è stato eletto premier in marzo sull’onda di quella sconfitta al posto di Horst Seehofer, poi diventato ministro federale dell’Interno. E da allora ha inseguito sul suo terreno Alternative für Deutschland, che ovviamente ha lodato la legge sulla croce. Il punto vero è che qualunque motivazione adduca il premier bavarese, il Kreuplifcht suggerisce che essere cristiani sia requisito essenziale del «vero tedesco». Dinamite politica, in un Paese dove vivono quasi 5 milioni di musulmani, dei quali oltre 2 milioni hanno la nazionalità tedesca. Non solo. Che quella della croce si riveli una scelta vincente sul piano elettorale, «è tutto da vedere», dice il sociologo Armin Nassehi, dell’Università di Monaco. È vero infatti che la legge piace alla maggioranza della popolazione: il 56% è favorevole, il 38 contrario, secondo un sondaggio della Radio bavarese. Ma a due mesi dal suo annuncio, le intenzioni di voto non sono cambiate di molto: la Csu è stabile da mesi al 42%, meglio delle elezioni federali ma ancora lontana dalla maggioranza assoluta che è il suo obiettivo minimo da sempre. AVVENIRE di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Una storia tutta da fare di Gianfranco Marcelli Primo governo senza più tradizioni Soltanto i fatti sapranno dirci se quello che ha giurato l’altro ieri al Quirinale sarà davvero per l’Italia un 'governo del cambiamento'. Fin d’ora invece si può affermare che questo è senz’altro l’esecutivo della storia repubblicana meno legato alle culture politiche che per oltre settant’anni hanno dominato la scena nazionale. Fino a Paolo Gentiloni, infatti, come anche prima nelle compagini a guida berlusconiana o ulivista-democratica, non mancavano mai esponenti che provenivano dai grandi filoni tradizionali della prima Repubblica: democristiani, socialisti, liberali, comunisti, destra postfascista. Tutti raccolti sotto etichette in qualche modo aggiornate o rivisitate dopo il crollo del muro di Berlino, ma pur sempre ancorate, spesso negli stessi simboli elettorali, alle radici originarie. Pure la Lega di Matteo Salvini, che nominalmente calca il palcoscenico da più di trent’anni e che alle urne del 4 marzo rappresentava la più vecchia 'sigla' del panorama elettorale, è oggi lontana anni luce dal manipolo ultra nordista e secessionista guidato dal senatur Umberto Bossi, rimasto a lungo attivo solo entro un perimetro territoriale ben circoscritto. Siamo insomma di fronte, perfino dal punto di vista anagrafico vista l’età

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media dei componenti, al primo governo 'post-partitico' della nostra vicenda politica, senza con ciò voler esprimere in partenza un giudizio positivo o negativo. Anche i consueti spartiacque fra destra, centro e sinistra, nel caso del governo Conte, vanno ripensati. Le analisi più accurate dei flussi elettorali, che tre mesi fa hanno causato il successo dei 'gialli' e l’avanzata dei 'verdi', dimostrano che le provenienze dei loro consensi, specie a proposito dei 5Stelle, sono le più disparate. I voti sono cioè arrivati da ogni direzione e l’identikit finale dell’esecutivo, almeno come base elettorale che lo sostiene, non è facilmente definibile. In altri tempi, poi, si sarebbe parlato quasi di 'governissimo', non tanto per l’ampiezza della maggioranza parlamentare – di fatto appena sufficiente – quanto per la distanza programmatica abissale che separava gli alleati odierni prima di firmare l’ormai celebre contratto. Saranno perciò le scelte concrete a qualificarne meglio l’orientamento. È comprensibile che in molti osservatori l’assenza di riferimenti ideali chiari, il profilo culturale indistinto e piuttosto confuso del neonato esecutivo, possano destare sconcerto e inquietudine. Chi ha vissuto o è cresciuto nel culto dell’ispirazione popolare o democratico-cristiana, non può certo sentirsi tranquillizzato dalle episodiche citazioni degasperiane di Luigi Di Maio. E chi oggi nutre nostalgia dell’austera leadership berlingueriana ascolterà con raccapriccio le semplificazioni populiste di Matteo Salvini. C’è dunque un giustificato interrogativo su dove un governo dal Dna culturale imprecisabile, o comunque 'a bassa intensità', possa condurre il Paese. Quanti però agitano tale incognita dovrebbero domandarsi anche quanto ha influito sull’approdo odierno, prima l’appannarsi, e poi il vero e proprio rinnegamento dei modelli oggi rimpianti, da parte di chi ne ha incarnato nel tempo la realizzazione. Al punto da cancellarne nella gran parte dell’opinione pubblica la memoria e il desiderio di coltivarne l’eredità, proprio attraverso quei partiti 'tradizionali' indeboliti sì dalla svolta del 1989, ma poi travolti dalla loro degenerazione in camarille di potere e in élites distinte e distanti dalla gente e, dunque, incuranti del Bene comune. Ma se davvero è scoccata oggi l’ora del pragmatismo, come la genesi e l’esito del patto di maggioranza dimostrano e come le prime battute del nuovo premier confermano («Ora passiamo ai fatti»), sarà bene prestare molta attenzione al modo in cui il primo esecutivo della XVIII Legislatura saprà declinarlo. Perché anche nel fare i conti con la realtà o la verità 'effettuale' (sembra, a proposito, che in M5S ci siano appassionati cultori di Machiavelli) si possono seguire criteri più o meno nobili. Tra tutti i criteri possibili, il più utile e il più adatto alle circostanze storiche e geopolitiche nella quali si muoveranno il professor Conte e la sua squadra è di sicuro quello dell’umiltà, implicitamente richiamata da Sergio Mattarella nel suo messaggio di ieri per il 2 Giugno, quando ha ricordato che l’Italia repubblicana ha una storia e una collocazione internazionale chiari, sorretti dall’«architrave» della nostra Costituzione. Umiltà, dunque, che è poi l’approccio non solo più consono a un sano realismo, ma anche il più etico. Pag 3 Il dibattito che manca tra gli “sconfitti” di Carlo Cardia Strani silenzi, servono memoria e domande di futuro Se ci si allontana per un momento dalle vicende tumultuose che hanno accompagnato la nascita del nuovo Governo, si registrano fatti e tendenze non scontate: il silenzio di chi ha perso più di tutti nelle elezioni politiche del 4 marzo, le formazioni di centro e la sinistra; le voci coraggiose che alcuni che vogliono riscrivere il futuro; il ruolo che memoria e idealità possono avere per riprendere il cammino. Il silenzio di chi ha perso è assordante, eccessivo anche rispetto al comprensibile smarrimento per la sconfitta subita. Quasi un’intera area politica 'centrista' (d’ispirazione cattolica e laica) che per anni ha cercato di modernizzare destra e sinistra e con esse – dividendosi, più e più volte – si è assemblata, tace e sembra scomparsa. E intanto Il più grande partito della sinistra che – nelle sue varie fasi e con la sua classe dirigente – è stato perno della vita istituzionale degli ultimi decenni, oltre a perdere la voce, quasi si perde in un cupio dissolvi che investe correnti, persone, organizzazioni, prima assai dinamiche, loquaci, combattive. Personalità eminenti della storia repubblicana che hanno riempito a lungo l’immaginario collettivo, e la realtà quotidiana, sembrano non sentire il bisogno di lanciare idee e segnali. Eppure, persone, partiti, movimenti, avrebbero molto da dire. Per esempio, porsi domande sul perché la sconfitta è stata così ampia, profonda, quasi senza appello. O quali errori si sono compiuti, davanti all’Italia intera, nel praticare la

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politica con insistita arroganza, nel rifiutare le critiche anche le più sagge e vicine; e soprattutto nell’essersi lasciata alle spalle la parte migliore di sé, della propria tradizione, nella difesa dei più deboli, di chi subisce ingiustizie, nella formazione dei giovani basata su una scuola e una società aperta al futuro, nella tutela della vita oggi colpita in tanti modi e da ogni parte, nel nostro Paese e ovunque nel mondo. Singolarmente, alcuni di questi temi sono stati affrontati da chi non ha partecipato alle elezioni, quindi non ha né vinto né perso, ma ha osservato che il futuro si costruisce ricominciando subito, senza indulgere a pessimismo e rassegnazione, valorizzando le tante cose buone che esistono in Italia, spronando coloro che sono impegnati fuori della politica. Il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, e con lui altre voci dell’area cattolica, hanno ricordato che la fede ha sempre prodotto storia, e con essa passioni e idealità, ha animato la modernità, ha fatto crescere in Italia e in diversi Paesi una società più libera e fondata sui diritti umani: anche se di recente è prevalsa la scelta di delegare ad altri la gestione della politica e della cosa pubblica. L’orizzonte di questa analisi può essere di stimolo per soggetti e protagonisti della vita nazionale, segnalando il vuoto che s’è creato da tempo quando s’è persa la capacità di elaborare valori, farsi catturare da ideali, impegnarsi per dare alla politica un’anima, spingere i giovani ad agire da protagonisti. Scegliendo questo tipo riflessione si possono evitare errori più gravi, si può mutare davvero direzione. Oggi una cosa va detta con forza, non si costruisce la propria identità aspettando che gli altri sbaglino, pensando di potersi sostituire a essi non appena si manifestino le prime delusioni: questa sembra un’onda da cavalcare con successo, ma sarebbe davvero un’idea insensata, che non cambia niente e nessuno, può solo ibernare concezioni e pratiche politiche già travolte dalla realtà della globalizzazione. Né si ricostruisce la propria identità ripetendo slogan che selezionano per comodo la memoria di battaglie passate. Questo punto chiede coraggio e innovazione. La memoria storica di idealità, conquiste sociali, valoriali, è parte integrante e insostituibile di ogni progetto politico, e senza di essa si nasce e si finisce effimeri. Ma la memoria storica deve essere autentica, rivissuta nei suoi valori più solidi, non può essere formale e ripetitiva per generazioni che non hanno vissuto il passato. Per quanto sembri difficile, oggi si può ridefinire la propria identità sapendo che il tempo della ricostruzione è un tempo lungo, occorre una progettualità capace di suscitare entusiasmo, adesione, consensi duraturi, senso di appartenenza. È illusorio, quasi ridicolo, credere che oggi si possa continuare con manovre di palazzo o sognando rivincite costruite sugli errori altrui. Quel tempo e quei calcoli, comunque sbagliati e perniciosi, sono passati. Oggi bisogna essere capaci di ridefininirsi movendo dall’a,b,c, di un alfabeto politico propositivo, rispettoso degli altri, fondato su competenze vere, invitando i giovani a impegnarsi nella sfera pubblica con entusiasmo e responsabilità, su base di diritti-doveri uguali per tutti. Soprattutto ci si libera dall’effimero, ricostruendo un senso di appartenenza basato su temi grandi e strategici: giustizia nel mondo del lavoro e nei rapporti personali, tutela e promozione della famiglia e del suo autentico significato comunitario, salvaguardia della vita, valorizzazione della scuola e della formazione delle nuove generazioni. Più volte su 'Avvenire', ma anche altrove, si è sottolineato come all’impegno dei giovani e di tanti giovani cattolici impegnati nel 'sociale', cioè nel mondo della solidarietà, dei mestieri e delle professioni, corrisponde una grande distanza-assenza rispetto alla politica e alla cura delle istituzioni. Eppure questo è il terreno di maggiore investimento per una politica nuova, che sappia fare innamorare di sé stessa, sappia chiedere ai giovani ambizioni e capacità critica, formulando quella domanda che spesso rivolge loro papa Francesco, «Che cosa cercate?», ricordando che i giovani sono sanamente inquieti, e la giovinezza è sempre un’età segnata dalla domanda di senso. E la politica, oggi, deve tornare a dare risposte ricche di senso e di futuro. Pag 6 Radiografia dei nuovi ministri: età media 50 anni, sono lombardi 6 su 20 di Gianni Santamaria Un’età media di 50 anni, più alta solo del governo Renzi. E una divisione equa tra Nord e Sud - che ricalca il risultato elettorale dei due contraenti, Lega e M5s - con 9 ministri della prima area e 8 della seconda (tre sono del Centro). Ma con una divisione tra regioni che vede nettamente predominante la Lombardia, con sei ministri. Le regioni rappresentate nell’esecutivo sono sette su venti. Infine, solo un ministro su quattro è

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donna: cinque su venti. Sono alcuni dei numeri di questo governo composto dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, 18 ministri (di cui due vice del premier, Matteo Salvini, ministro dell’Interno e Luigi Di Maio, titolare del 'doppio' dicastero per Lavoro e Sviluppo economico) e dal sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, il lumbard Giancarlo Giorgetti. Veterano dell’esecutivo (e più anziano ministro della storia repubblicana) è l’economista Paolo Savona (Affari europei) con le sue 81 primavere. Il più giovane, invece, è Di Maio (31 anni). Ben nove membri del Consiglio dei ministri sono sotto quota 50, tre dei quali (oltre a Di Maio, il titolare della Famiglia e Disabilità Lorenzo Fontana e quello dei Rapporti con il Parlamento e la Democrazia diretta Riccardo Fraccaro) sotto i 40. La pattuglia lombarda, la più consistente, si compone di 6 ministri. Quattro della Lega o ad essa vicini: Salvini, Giorgetti, Gian Marco Centinaio (Politiche agricole) e Marco Bussetti (Istruzione). E due del M5s: il ministro per le Infrastrutture Danilo Toninelli e dei Beni culturali Alberto Bonisoli. A completare il fronte nordista il solo Veneto, rappresentato dai leghisti Fontana, Erika Stefani (Affari regionali) e dal pentastellato Fraccaro (veneto, ma attivista a Trento). Tre le regioni del Sud, in gran parte appannaggio del M5s, con l’eccezione della leghista Giulia Bongiorno, titolare della Pa, nata a Palermo (anche se da tempo trapiantata a Roma), così come del tecnico Savona, originario della Sardegna. Siciliani sono Giulia Grillo (Salute) e Alfonso Bonafede (Giustizia). Campani sono Di Maio e un altro tecnico, il generale dei Carabinieri forestali Sergio Costa (Ambiente). Pugliesi la ministra per il Sud, Barbara Lezzi, e il presidente del Consiglio Conte, anche se pure lui ormai da tempo romano (e romanista). Dalla Capitale arrivano i due supertecnici degli Esteri e dell’Economia, Enzo Moavero Milanesi (di famiglia milanese discendente da Francesco Bocconi, fondatore dell’omonima università) e Giovanni Tria. Di Velletri (Roma) è il ministro della Difesa Elisabetta Trenta. Diversi i professori universitari nella compagine di governo. Il premier è ordinario di Diritto privato a Firenze. Savona ha insegnato a lungo Politica economica in varie università. Così come Moavero Milanesi per il Diritto comuntario. Tria è stato fino alla nomina preside di Economia a Tor Vergata. Bonisoli, che ha insegnato 'Innovation management' alla Bocconi era, invece, direttore della Nuova Accademia di Arte moderna di Milano. I ministri sono quasi tutti laureati; fanno eccezione Di Maio e Salvini, che non hanno completato gli studi, e Lezzi, diplomata. Fontana, invece, di lauree ne ha addirittura due: Scienze politiche e Storia. Per Grillo, Costa e Bonafede gli studi hanno diretta attinenza con il dicastero: Medicina per la prima, Agraria per il secondo, Giurisprudenza per il Guardasigilli. In Legge sono laureati anche Bongiorno - nota penalista - Toninelli, Fraccaro e Stefani. Bussetti in Scienze motorie, Centinaio e Trenta in Scienze politiche, Giorgetti in Economia. CORRIERE DEL VENETO di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Né con né contro l’Europa di Paolo Costa Il perimetro Né con l’euromarco né con la liretta. Né fuori dell’Unione Europea né dentro alle condizioni odierne. È questo il perimetro reso esplicito dalla moral suasion di Sergio Mattarella entro il quale dovrà muoversi il nuovo governo pentaleghista nell’interesse dell’Italia. E non solo per rispetto formale dei trattati europei dei quali il Presidente della Repubblica è supremo garante. Non fuori dell’Unione Europea per l’impossibilità di salvarsi da soli dal sempre più evidente «disordine globale». Non dentro una UE che non sappia assumersi il ruolo «sussidiario» necessario a rilanciare la crescita in «tutta» l’Unione e ad affrontare il problema epocale dei flussi di rifugiati e di migranti economici che premono alle sue frontiere esterne. Siamo in un mondo nel quale gli USA di Trump stracciano trattati come quelli che governano il commercio internazionale (con i nuovi dazi USA su acciaio e alluminio che si fanno già sentire anche nel nostro Nordest) o quelli (accordo di Parigi) che coordinano la lotta ai cambiamenti climatici o (accordo sull’Iran) tendono a stabilizzare il pericoloso quadrante mediorientale. Un mondo nel quale la Cina usa il soft power della Via della Seta per occupare gli spazi di influenza lasciati scoperti dagli Usa ma anche l’hard power nel costruire basi militari nel mar cinese meridionale a dispetto di ogni regola internazionale. Un mondo nel quale la Russia è uscita dall’angolo per riannettersi la Crimea e, colpendo l’Ucraina, «educare» i vecchi satelliti sovietici ed oltre. Un mondo che non può piacere a paesi come l’Italia la cui

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prosperità dipende sempre più dalla capacità di conquistare e mantenere mercati globali. L’Italia ha bisogno di un mondo nel quale i rapporti di forza siano almeno imbrigliati in un quadro stabile di regole e trattati. Solo l’Unione Europea può,se lo vorrà e saprà, garantire prosperità e sicurezza anche all’Italia mostrando sia i muscoli sia il buon senso nel confronto gli Stati Uniti d’America, Cina ed ogni altra potenza. Qui il «prima gli Italiani» si consegue solo evitando di schierarsi dentro l’Unione Europea con i miopi sovranismi di Ungheria e Polonia. Un segnale decisivo per far capire al mondo dove sta, su questo tema, l’Italia anche dopo il «cambiamento» pentaleghista. Tutte da trovare invece le alleanze interne alla UE per ridefinire una politica economica comune che si dia carico della crescita in tutta Europa, che nel nostro caso significa occuparsi della definizione di un sentiero concordato di sviluppo non strozzato in culla dal carico del debito pubblico. Sta a noi far capire ai partner continentali che è, in questo caso, il «prima gli europei» a richiedere la condivisione della soluzione del problema della finanza pubblica italiana. Un atteggiamento simile, ancor più necessario ed evidente, da applicare al caso della crisi dei rifugiati: la riforma del trattato di Dublino che responsabilizzi l’Unione sul tema è la cartina di tornasole della capacità dell’Europa di mostrare le virtù della maggior integrazione contro le tentazioni sovraniste. O, in caso negativo, l’inizio di una crisi istituzionale europea dagli esiti non prevedibili. Dunque, né fuori dell’UE né con una UE così poco «forte ed equa», per sottolineare con le sue parole gli obiettivi di Paolo Savona, nuovo ministro per gli affari europei. Il Consiglio europeo di fine giugno ci darà prime, importanti, risposte. Pag 3 Fontana, il ministro è già un caso. Le frasi sui gay scatenano la rivolta di Matteo Sorio Anche il M5S prende le distanze. Salvini lo corregge, lui non arretra: “Strumentalizzato” Verona. A un certo punto della giornata - e che giornata, per Lorenzo Fontana - è diventata anche una questione di declinazione. «Comincia col cambiare il nome del ministero. Non “della famiglia”. Ma “delle famiglie”». E il video della veronese Alessia Rotta, vicepresidente dei deputati Pd - sua la perorazione del plurale - si chiudeva con quel «benvenuto» che diceva un po’ tutto e che solo più tardi Forza Nuova, per bocca del coordinatore nel nord Italia Luca Castellini, avrebbe aggiornato, tarandolo sull’opposta bilancia politico-culturale, in un più amichevole (quasi una pacca sulla spalla) «benvenuto in trincea». Parliamo del «benvenuto» guadagnato dal leghista Fontana, 38 anni, ancora formalmente vicesindaco di Verona ma di fatto concentrato ora sul ministero alla Famiglia e Disabilità, tradizionalista cattolico che per la prima uscita pubblica, da volto di quel «governo del cambiamento» in cui può benissimo figurare come uomo «scomodo», ha consegnato ai giornali di ieri quel titolo lì: «La famiglia è solo quella composta da mamma e papà». Un consueto ordine del giorno, per lui, in una Verona ch’è terreno fertile per la vicina associazione «Pro Vita» (vi è legato, Fontana) e in cui giusto non molti giorni fa l’università faceva slittare un convegno sui migranti Lgbt per le pressioni esterne di Lega e Forza Nuova. Quella Verona che per il ricercatore dell’ateneo stesso, Massimo Prearo (autore del libro «La crociata anti-gender») è «laboratorio di un cattolicesimo militante» che prova ad avere il suo peso esterno sulle decisioni di palazzo. Il perfetto «la» su Roma, dunque, le dichiarazioni di Fontana, a una cascata di polemiche da lui poi definite «strumentali», una volta raccolto il malloppo di lanci d’agenzia: «Il mio obiettivo è invertire la rotta circa la crisi demografica e quindi per farlo bisogna aiutare natalità, maternità, famiglie. Pensavo fosse un problema sociale ed economico condiviso, però evidentemente a qualcuno dà fastidio se uno è cattolico, quasi sia un marchio di vergogna. Ma siamo in Italia, non in Arabia Saudita...». Nell’Italia con cui e su cui Fontana si appresta a lavorare, di certo, c’è chi pare seguirlo a occhi chiusi. Come il neo onorevole leghista, Vito Comencini. Perché «il pericolo - dice il collega di partito - è distruggere una società, la nostra, dove già la tendenza è avere a tutti i costi un cane o un gatto in casa mentre il fare figli sembra quasi un fastidio». E poi c’è chi, appena lette quelle dichiarazioni rilasciate da Fontana nelle sue prime interviste da ministro, compresa quella al Corriere del Veneto , correva a dettare il proprio sdegno. Vedi il deputato padovano del Pd Alessandro Zan: «Da Fontana dichiarazioni discriminatorie». Vedi l’arcigay veronese: «Parole omofobe e intolleranti». Uno scontro talmente marcato, per origine politica dei battitori, da evocare un ping-

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pong. Si pensi all’immediata difesa di Fontana operata dal Popolo della Famiglia: «A lui tutto il sostegno per il coraggio mostrato». Si profilava il rischio, insomma, che la prima uscita pubblica di Fontana diventasse un’uscita di strada. Anche perché la mosca al naso l’ha fatta saltare pure al Movimento 5 Stelle. Cioè il partner di un governo venuto al mondo tra fatiche e lime diplomatiche. E allora ecco l’ombrello aperto dal neo ministro dell’Interno, Matteo Salvini, cioè il leader di partito e amico di Fontana, così come da Francesca Businarolo, deputata veronese del M5S, giusto per non far pigliare il raffreddore all’alleanza appena nata. Il primo, Salvini, a rimarcare ciò che peraltro Fontana aveva già precisato in quella prima uscita da ministro: « Fontana è libero di avere le sue idee» ma (quelle idee, ndr) «non sono priorità e non sono nel contratto di governo». La seconda, Businarolo, a cerchiare in rosso, con cura, che «alcuni temi etici non rientrano nel contratto tra M5S e Lega: se quella è l’opinione di Fontana la rispetto ma non è la nostra, dopodiché le unioni civili non si toccano». Bisognerebbe riavvolgere un bel po’ di nastro, allora, per raccontare del paletto - chi sta di qua, chi sta di là - piantato dalle dichiarazioni di Fontana. Dichiarazioni che per l’Arcigay «sembrano di almeno mezzo secolo fa» e mirano a «promuovere l’invisibilità di una cosa reale, cioè le famiglie arcobaleno». Quelle famiglie citate da Rotta («esistono, Fontana se ne faccia una ragione»), non certo l’unica del Pd («gravissimo che un ministro neghi la realtà», così la senatrice Monica Cirinnà, timbro sulle unioni civili) a intervenire di forza. Forza direttamente proporzionale a quella espressa dal Popolo della Famiglia - «Fontana sia baluardo alle spinte nichiliste» - o da Forza Nuova, soddisfatta da un Fontana «noto per le battaglie a favore della Famiglia Tradizionale che trovano paternità e origine proprio in FN e nel suo movimentismo». Un batti e ribatti, dunque, proseguito col sostegno indiretto del patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, impegnato a osservare una «società che inventa formule sempre più “leggere”, “disinvolte” e “deboli” in ordine al matrimonio e alla famiglia». Come a lasciar intendere che quel termine lì, «famiglia», sul tavolo da ping-pong del «ministero Fontana» potrebbe rimanerci a lungo. IL GAZZETTINO di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 Per capire il governo evitiamo le etichette di Luca Ricolfi Che quello che ha giurato venerdì sia un governo di destra, anzi il governo più di destra che l'Italia abbia mai avuto dalla fine della seconda guerra mondiale, è un'opinione espressa da diversi osservatori. In questo giudizio non fa che riemergere, ancora una volta, un classico vizio del linguaggio democratico, che da sempre considera sinonime, e dunque intercambiabili, tre parole: brutto, fascista, di destra. Sfortunatamente un simile uso del linguaggio, (forse) efficace come strumento di propaganda, è invece ben poco utile per comprendere ciò di cui si parla. Se vogliamo capire la natura del neonato governo giallo-verde, la prima cosa da fare è sbarazzarci delle etichette di destra e sinistra. Non perché, nel contratto di governo, non vi siano molte cose considerate di destra e molte cose considerate di sinistra, ma perché la novità sta proprio qui: il governo giallo-verde non è affatto né di destra né di sinistra, nel senso in cui lo sono stati diversi governi di compromesso sperimentati nel passato, ma è, tutto al contrario, sia di destra sia di sinistra. Il governo che si appresta a nascere è il primo che, di fronte all'alternativa fra tagliare la spesa pubblica per abbassare le tasse (destra) e aumentare le tasse per sostenere il welfare (sinistra), ha l'ambizione di sommare i due sogni della destra e della sinistra: meno tasse e più spesa. Perché, al di là di qualche progetto a costo zero o a basso costo, sono questi i piatti forti del menu di governo: il piatto di destra ambisce a sterilizzare l'aumento dell'IVA e ad abbassare le aliquote fiscali su famiglie e imprese (slogan: flat tax), il piatto di sinistra ambisce ad aumentare la spesa pensionistica e le misure di reddito minimo (slogan: abolire la Fornero, reddito di cittadinanza). È il caso di sottolinearlo: un governo additivo, che vagheggia esplicitamente più spesa e meno tasse, non si era mai visto in tutta la storia repubblicana. Fanno benissimo, dunque, i protagonisti a chiamarlo governo del cambiamento: più diverso da quelli del passato non si può. E fanno altrettanto bene gli osservatori sbigottiti da cotanta novità a chiedersi: dove prenderanno i soldi? Non è, per caso, che la soluzione sarà di aumentare ancora il debito pubblico, prendendoci il rischio di un'uscita più o meno indolore dall'eurozona? Di fronte a questa entità nuova possiamo dividerci in tanti modi, a seconda delle nostre inclinazioni politiche. Io trovo più utile,

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invece, cercare di immaginare, concretamente, che cosa potrebbe succedere, e quali siano gli ostacoli che il programma additivo potrà incontrare. Azzardo dunque qualche previsione, consapevole del detto dell'indimenticabile Gianni Brera: non sbaglia previsioni solo chi non ne fa. Prima previsione. Il governo non verrà travolto dalla irrealizzabilità dei suoi programmi, come sognano molti oppositori, certi che la nave dei sogni non potrà che andare a sbattere contro l'iceberg della realtà; più verosimile è che preferisca sopravvivere ridimensionando, e soprattutto spostando avanti nel tempo, le sue promesse più costose. Più che puntare a realizzare il contratto in tempi brevi, Di Maio e Salvini si preoccuperanno di dare subito qualcosa, almeno qualcosa, ai propri sostenitori. Fra le due promesse più costose, meno tasse e più spesa pubblica, penso che almeno nel breve periodo a essere sacrificata sarà la flat tax. Questo per vari motivi: il cosiddetto reddito di cittadinanza costa molto di meno della flat tax e può essere facilmente modulato nel tempo, basta mettere un po' più di soldi sul reddito di inclusione (già avviato dal duo Renzi-Gentiloni) e ribattezzarlo reddito di cittadinanza; sul versante fiscale c'è già da disinnescare la bomba a orologeria dell'aumento Iva, gentile omaggio dei governi precedenti; e infine: se vuole accampare meriti con il suo elettorato, Salvini ha a disposizione diverse misure altamente simboliche e a bassissimo costo, da un giro di vite sugli sbarchi (blocco navale?) a una legge sulla legittima difesa. Seconda previsione. I guai cominceranno l'anno prossimo, quando verrà meno il Quantitative Easing della BCE, Mario Draghi esaurirà il suo mandato, e si vedrà il vero valore dello spread, un punto su cui molto opportunamente ha attirato l'attenzione Mario Monti nei giorni scorsi. Nessuno sa con esattezza come i mercati valutino l'affidabilità finanziaria dell'Italia, ma quel che è certo è che, fino a oggi, i rendimenti sono stati tenuti artificialmente bassi dal Quantitative Easing (QE) della BCE. Quando questo intervento cesserà i rendimenti subiranno inevitabilmente uno spostamento verso l'alto. Giusto per dare un ordine di grandezza, nei primi 4 mesi dell'anno l'indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici italiani, che misura il giusto rendimento dei nostri titoli decennali (indice VS, elaborato dalla Fondazione Hume) si aggirava intorno al 3.3%, mentre i mercati si accontentavano di meno del 2%. Se attribuiamo questa differenza, pari a circa 150 punti base, al Quantitative Easing, dobbiamo concludere che il vero spread, ossia quello che avremmo avuto nei giorni scorsi in assenza del sostegno della Bce, non sarebbe stato di 320 punti base, ma si sarebbe aggirato intorno a quota 480, vicino ai livelli dei momenti più drammatici del biennio 2011-2012. Terza previsione. Proprio perché hanno promesso cose diverse, e temono di deludere i rispettivi elettorati, Di Maio e Salvini saranno sempre in tensione fra loro per decidere in che cosa convogliare le poche risorse disponibili. Logica vuole che, fra i due, a prevalere sia Di Maio, che ha il doppio dei voti e le cui promesse costano la metà. Bisognerà vedere se, messo un po' all'angolo, Salvini non preferirà rompere il contratto e riprendersi il ruolo di leader del centro-destra, ammesso che questa espressione non sia nel frattempo diventata vuota. Quarta e ultima previsione. Il Capo dello Stato avrà il suo daffare, e verosimilmente non si tirerà indietro. E' infatti probabile che, non riuscendo a trovare le coperture che servono, Di Maio e Salvini provino a convincere il ministro dell'Economia a varare una finanziaria espansiva, ovvero a fare ulteriore debito pubblico, in più o meno aperta violazione dell'articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. A quel punto bisognerà vedere che cosa farà Mattarella, ma è difficile pensare che, dopo aver avuto la fermezza di rifiutare la nomina di un ministro, il Quirinale si astenga da ogni intervento su un punto assai meno opinabile, ovvero il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di entrate e uscite dello Stato. E' a quel punto, e solo a quel punto, che la sceneggiata di queste settimane, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni sulla permanenza dell'Italia nell'Eurozona, dovrà per forza avere uno sbocco, in un senso o nell'altro. Chi vivrà vedrà. Pag 2 Salvini: “Grandi opere, non ci sarà nessuno stop” di Alda Vanzan Intervista al neoministro Ministro Matteo Salvini, il 2 giugno doveva essere la giornata della protesta in piazza e invece il governo è nato, lei ha partecipato alla parata militare ai Fori imperiali. E' la festa di tutti noi, ha detto il premier Giuseppe Conte. Si aspettava questo epilogo?

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«Ci ho lavorato per tanto tempo, io ci credevo anche se ne abbiamo passate e vissute di tutti i colori, però bene così». In questi 88 giorni non l'ha mai tentata il pensiero che forse vi conveniva andare alle urne? L'ultimo sondaggio Pagnoncelli dà la Lega addirittura al 28,5. «Se avessi dovuto fare un ragionamento egoistico e di interesse personale e di partito, sicuramente sì. E invece ci abbiamo provato prima con il centrodestra e poi, con l'ok di Berlusconi, con il Movimento 5 Stelle perché ci sono alcune partite che potremmo chiudere presto». Ad esempio? «L'autonomia. Io spero di poter chiudere la partita dell'autonomia entro l'estate. Ho parlato con i due governatori, Zaia e Fontana, che stanno preparando i documenti. Noi abbiamo fatto mettere nel contratto di governo con i Cinque Stelle l'approvazione dei contenuti referendari prima in consiglio dei ministri e poi in Parlamento. Sto stressando i colleghi parlamentari e inizierò a farlo con i ministri perché ciascuno faccia la sua parte. Questo per dire che la convenienza partitica sarebbe stata di andare a votare, ma se abbiamo una maggioranza che si impegna a fare alcune cose importanti son contento di aver fatto questa scelta». Conferma che la sua priorità è sicurezza/immigrazione? «Sì, sono appena uscito dall'ufficio dove ho portato il dossier immigrazione. Ho parlato con tutti i capi dipartimento, ho chiesto di preparare alcuni documenti per ridurre tempi e spesa. Posso dire che gli immigrati per bene non hanno nulla da temere, ma per i clandestini la pacchia è finita: preparatevi a fare le valigie. Con calma, ma se ne devono andare». State lavorando anche sulle Ong? «Sì e io ho le mie idee: gli Stati devono tornare a fare gli Stati e nessun vice scafista deve attraccare nei porti italiani». Lei potrà anche ridurre il budget per l'immigrazione, ma questo automaticamente non blocca gli sbarchi. «Bloccare gli sbarchi lo fai continuando a lavorare in Libia, in Tunisia, in Marocco, dai punti di partenza e questo lo faremo ancora di più. Qua, però, non dimentichiamo che stiamo gestendo circa 170mila ospiti e ci sono pendenti 140mila domande di asilo ancora da analizzare. Bisogna sveltire. Anche perché l'anno scorso il numero degli espulsi effettivi e respinti alla frontiera non ha superato quota 7mila». Il suo collega vicepremier Di Maio tra le priorità ha indicato reddito di cittadinanza e via la legge Fornero. Sarà così? «Per noi la Fornero è una priorità, abbiamo lavorato per iniziare a smontarla da subito reintroducendo quota 100. L'obiettivo è poi di arrivare a regime a quota 41 a prescindere dall'età anagrafica». Volete fare tante cose, ma con quali risorse? Tasse in vista? «No, abbiamo fatto mettere nel contratto di governo l'esclusione per iscritto di patrimoniali, tasse di successione, reintroduzione dell'Imu. Niente tasse». Dove li troverete i soldi? «Il famoso dibattito sull'Europa, che ci ha accompagnato per settimane e che ci ha portato a indicare Paolo Savona come ministro delle Politiche comunitarie, prevede che buona parte di questi soldi si trovano tramite ricontrattazione del nostro modo di stare in Europa. E cioè trattati, vincoli. Siamo pur sempre la seconda potenza industriale d'Europa, ogni anno versiamo almeno 6 miliardi in più rispetto a quello che ci torna a casa, abbiamo salvato le banche degli altri. E adesso, senza andare a fare i giamburrasca, si va a discutere le regole a vantaggio degli italiani». Le è dispiaciuto sacrificare Savona? «L'avevamo presentato all'Economia nel primo governo, poi sappiamo quello che è successo, lui si era avvicinato per darci una mano a ridiscutere le regole europee. Il ministro dell'Economia Giovanni Tria è in totale sintonia con lui. Se vogliamo vedere l'esito finale, invece di avere un Savona ne abbiamo uno e mezzo». Capitolo infrastrutture: la deputata veneta del M5s Businarolo ha aperto il suo ufficio da parlamentare a casa di un espropriando della Tav. Dobbiamo aspettarci il blocco delle grandi opere? «La Pedemontana non si tocca, né la veneta né la lombarda, né altre grandi infrastrutture come il terzo valico. Ci hanno chiesto di riesaminare la sostenibilità

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economica della Tav al tavolo con i francesi e quello può avere un senso. Ma tutto quello che è in opera in Veneto e in Lombardia va avanti». Lei è lombardo, Zaia veneto. Le Olimpiadi invernali 2026 dove le farete? A Milano o a Cortina? (ride) «Tireremo la monetina! Faremo le prime Olimpiadi lombarde-venete, Cortina e Bormio sono stupende entrambe. L'importante è che rimangano potenzialmente in Italia, poi vediamo». Intanto i mondiali di ciclismo a Vicenza nel 2020 sono a rischio. «Sarà una partita dura, ma la delega allo Sport ce l'ha il nostro Giancarlo Giorgetti». Il ministro Fontana ha detto che le famiglie gay non esistono e lei l'ha stoppato dicendo che sono idee personali. Ci sono già problemi con Fontana? «Ma figuriamoci, Fontana è una delle persone più valide oltre che un amico. Io difendo il suo diritto a pensarla come vuole. E anch'io, da Matteo Salvini, penso che il bambino abbia diritto ad avere una mamma e un papà e sono totalmente contrario alle ipotesi di genitore 1, genitore 2, adozioni gay e quant'altro. Detto questo, non è all'ordine del giorno la revisione della legge sull'aborto né quella sulle unioni civili». Lega e M5s, un'alleanza tra due forze per certi versi antitetiche. «È un accordo basato sulla concretezza. Siamo stati settimane a limare, correggere. Ovviamente nel programma di governo non c'è il 100% del programma della Lega e del centrodestra così come non c'è il 100% del programma del M5s, ognuno ha dovuto rinunciare a qualcosa». A cosa le è dispiaciuto di più rinunciare? «Diciamo che il reddito di cittadinanza così come l'avevano presentato in partenza non mi riempiva di entusiasmo, noi puntiamo più sulla detassazione per chi fa lavoro e per chi lavora, però discutendone abbiamo trovato delle limitazioni, l'abbiamo riservato ai cittadini italiani, ciascuno ha fatto dei passi in avanti. Se riuscissimo ad approvare almeno la metà di quello abbiamo scritto lì dentro, l'Italia ce ne renderebbe merito». Berlusconi ha detto: noi siamo con l'Europa, lasciando intendere che voi siete contro? «No, nel programma non c'è né l'uscita dall'euro né dall'Unione europea, ma puntiamo a cambiare le regole. Pensiamo ad esempio alla direttiva sulle banche». Appunto. I risparmiatori traditi dalle ex popolari venete si aspettano un ristoro dei danni subiti. Il governo interverrà? «Al di là di qualche attacco gratuito dei Cinque Stelle nei mesi passati a Luca Zaia che non c'entrava un fico secco, anzi, aveva denunciato prima degli altri quei problemi, sul fatto che i risparmiatori vadano risarciti siamo tutti pienamente d'accordo». Il Pd ha detto che il vostro è un governo populista, sovranista e soprattutto pericoloso. Lei si ritiene pericoloso? «Mi ritengo sovranista e populista e lo rivendico con orgoglio se significa difendere l'interesse italiano. Pericoloso, non vedo perché. Dopo la cerimonia del 2 giugno ho avuto la malsana idea di fare a piedi i 500 metri dai Fori imperiali a Piazza Venezia e ci abbiamo messo un'ora perché la gente ci abbracciava e ci incoraggiava. La gente ci ritiene l'ultima speranza». A Venezia dovrebbe tenersi il quinto referendum per la separazione tra Mestre e città lagunare. Il governo Gentiloni ha impugnato la delibera della giunta Zaia che ha fissato la consultazione per il 30 settembre. Tecnicamente quell'impugnativa può essere revocata dal nuovo governo. Lei cosa pensa? «Gentiloni ha sbagliato a impugnare il referendum. Chiederemo di revocare l'impugnativa davanti alla Consulta. Non vedo perché da Roma si debba mettere becco in vicende che riguardano veneziani e mestrini. Anzi, io avrei anche aggiunto il referendum - di cui abbiamo parlato in campagna elettorale e poi il sindaco Brugnaro se ne è dimenticato - della separazione del Lido da Venezia». Si sente un po' imborghesito ora che è uomo di governo? (ride) «Cercherò di rispettare l'etichetta ma di essere il più possibile vicino alle persone». E i calzetti a righe esibite al giuramento al Quirinale? «Mi piacciono le calze colorate e a righe, uso solo quelle». Cosa teneva in mano quando ha giurato? «Un rosario che mi ha regalato un parroco, ce l'ho sempre in tasca».

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LA NUOVA di domenica 3 giugno 2018 Pag 1 L’equilibrio instabile tra alleati di Fabio Bordignon Una soluzione, alla fine, gli italiani la trovano. Del resto l'arte di arrangiarsi, anche nelle condizioni più difficili, è il primo carattere nazionale. Siamo così usciti da un caos istituzionale senza precedenti, che sembrava destinato a perpetuarsi per mesi. Meglio non dimenticarlo: siamo andati molto vicini al baratro. E il senso di vertigine che ha attraversato il paese negli ultimi sette giorni non è ancora del tutto dissolto. Con un parziale arretramento dei soggetti coinvolti, giovedì sera è stato possibile riavvolgere il nastro della crisi fino alla domenica precedente. Il capo dello Stato ha accettato la presenza di Paolo Savona nel governo, Salvini lo spostamento ad altro dicastero del professore anti-euro. Non era scontato che succedesse, visto che - come noto - il voto anticipato è tutt'altro che sgradito al leader del Carroccio, che ha gestito l'intera trattativa in modo magistrale: diabolicamente magistrale - se non siete tra i fan - ma sicuramente impeccabile dal punto di vista tattico. Non a caso, i sondaggi registrano la crescita della Lega, che avrebbe quasi raggiunto i partner di governo: quel M5s che, solo pochi giorni fa, sembrava sul punto di mandare all'aria il suo difficile percorso di istituzionalizzazione. Non è la prima volta che succede. Probabilmente non sarà nemmeno l'ultima. Il pendolo che descrive la traiettoria evolutiva del Movimento sembra oscillare, repentinamente, in direzioni opposte. Indubbiamente, quello che sembrava un partito inamovibile nei principi e nelle posizioni, ha rimesso in campo l'altrettanto visibile pragmatismo, passando, nell'arco di poche ore, dalla richiesta di impeachment al ruolo di mediatore di pace. Il prof. Giuseppe Conte è così ri-salito al Colle e la stagione del pentaleghismo di governo ha potuto prendere avvio. I mercati hanno subito risposto positivamente alla ritrovata stabilità. Tutto bene quel che finisce bene? Beh, indipendentemente dal nostro giudizio sul governo Conte e sulla maggioranza che lo sostiene, un governo politico è sicuramente preferibile - come ha affermato Carlo Cottarelli - a un esecutivo tecnico. Di gran lunga preferibile ad un governo senza nemmeno un voto in Parlamento. Quello guidato da Conte non è un governo di destra. Anche se l'appoggio esterno di Fratelli d'Italia sposta (ulteriormente) a destra il baricentro della maggioranza giallo (nero)verde. La coalizione Giamaica (dai colori della bandiera caraibica) può essere invece descritta, a tutti gli effetti, come una grande coalizione populista. A formarla sono soggetti in parte diversi, sospinti da un'onda nella quale si agitano, in modo confuso, disagio sociale e risentimento politico. Immigrazione e occupazione sono le fonti di insicurezza sulle quali Lega e M5S hanno scelto di insistere maggiormente: la stessa composizione del governo - a partire dai ruoli scelti da Salvini e Di Maio - richiamano questa divisione del lavoro. Questi fattori di crisi, tuttavia, negli orientamenti degli elettori tendono a mescolarsi, e si combinano a una domanda di cambiamento e a una spinta anti-sistema che fanno da collante per i due partiti. Non è un caso che l'offensiva contro le politiche (e la politica) di Bruxelles forniscano un ulteriore punto di convergenza. Questo fa sì che i percorsi di Lega e M5S possano incrociarsi. Certo, è difficile immaginare che un progetto... anzi due progetti nati dal disordine sociale e dal risentimento possano generare stabilità di governo. Non va però trascurato che, in questo momento, il compattamento della maggioranza è favorito dalla necessità di far fronte comune rispetto alle pressioni che provengono dall'interno e dall'esterno. E dalla comune volontà di occupare i "luoghi" del potere. Ma proprio la gestione e la con-divisione del potere potrebbe, presto o tardi, produrre nuove tensioni tra i due alleati. Molto più delle divisioni ideologiche e programmatiche. Torna al sommario

CORRIERE DELLA SERA di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 Un’alleanza conflittuale di Angelo Panebianco Non è sicuro che il matrimonio appena celebrato fra i 5 Stelle e la Lega possa dare vita a un’unione duratura. La condivisione del potere, naturalmente, è di per sé una garanzia di durata. Così come l’esistenza di notevoli, e a tutti note, affinità ideologiche: il sovranismo (frutto di una condivisa diffidenza per l’Occidente e per certi aspetti della società aperta e globalizzata), una comune esaltazione del «popolo» contro le élites di

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ogni genere, eccetera. Però, accanto alle somiglianze ci sono anche rilevanti differenze. Alcune di queste differenze sono così marcate da far pensare che l’alleanza fra i due partiti diventerà in breve tempo molto conflittuale. Il Movimento 5 Stelle non è un oggetto misterioso. Chi conosce la storia del populismo latinoamericano non ha particolari difficoltà a inquadrarlo. Si tratta della variante italiana di un fenomeno che in America Latina si è riproposto in varie epoche e con varie denominazioni: peronismo, aprismo, varghismo, chavismo, eccetera. Le componenti sono sempre le stesse: un caudillo, un nemico ufficiale (sul piano interno: l’oligarchia, le élites; sul piano internazionale: i gringos, gli Stati Uniti), l’ostilità di principio alla democrazia liberale e all’economia di mercato, un piano di drastica ridistribuzione di risorse dalla classe media ai campesinos e, più in generale, ai poveri comunque identificati. È futile discettare sul fatto se i 5Stelle siano di destra o di sinistra. Non sono né l’una né l’altra cosa (oppure - il che è esattamente lo stesso - sono tutte e due le cose insieme). Come i loro parenti latinoamericani, hanno proprietà camaleontiche: ferme restando le caratteristiche sopra indicate possono adottare con disinvoltura, a seconda delle circostanze, politiche che gli osservatori giudicheranno «di destra» oppure «di sinistra». Si capisce perché i 5Stelle si siano sempre più caratterizzati come un partito della ribellione meridionale, perché si siano meridionalizzati dal punto di vista elettorale. La ragione è che nel Mezzogiorno gli anticorpi contro il populismo in salsa latinoamericana sono più deboli che al Nord. Si capisce anche quale sia il senso del sovranismo in variante 5Stelle. Per loro, uscire dall’euro, se mai fosse possibile, significherebbe avere la possibilità di «stampare moneta», essere in grado di facilitare, tramite la spesa pubblica, un massiccio trasferimento di risorse dal Nord al Sud e dalle classi medio-alte alle loro potenziali clientele. L’economia del Paese sprofonderebbe, certamente. Ma per questo tipo di movimenti tale prospettiva non è particolarmente preoccupante. Come mostra la storia latinoamericana (dai peronisti ai chavisti), basta avere agganciato saldamente il «popolo», basta avere costruito un’ampia clientela, e non si verrà cacciati dalle stanze del potere nemmeno dopo avere provocato una débâcle economica generale. Veniamo ora al caso della Lega. Sulle affinità con i 5Stelle si è già detto. Ma ci sono anche le differenze. La principale delle quali ha a che fare con il diverso insediamento sia territoriale che sociale dei due partiti. Così come i 5Stelle, pur meridionalizzandosi, raccolgono consensi al Nord, la Lega - trasformata da Salvini in un movimento nazionale - ha visto crescere il proprio peso al Sud. Ma resta che i suoi punti di forza non sono lì. Come è stato spesso osservato, le due proposte-simbolo della flat tax (leghisti) e del reddito di cittadinanza (5Stelle) confermano la vocazione, rispettivamente, «nordista» degli uni e «sudista» degli altri. Quali sono le motivazioni principali del voto alla Lega? Sembra lecito riassumerle con due parole: tasse e immigrazione. Chi vota per la lega, per lo più, vuole meno tasse oppure meno immigrati oppure tutte e due le cose insieme. Certamente nella Lega ci sono state (prima di Salvini) e ci sono tuttora più «anime». Ne alimentano il consenso non solo la rivolta fiscale e l’opposizione a una politica dell’immigrazione che chi vota per la Lega considera lassista e dannosa per gli italiani ma anche, in certe componenti (quelle popolane, con più basso livello di istruzione), l’ostilità, alimentata dal mito della «piccola patria», dalla nostalgia per le antiche comunità, alla società aperta: sono componenti che chiedono frontiere chiuse non solo agli immigrati ma anche all’Europa. A queste diverse anime corrisponde un elettorato composito, socialmente eterogeneo. È certo però che una parte non facilmente quantificabile ma sicuramente non piccola dell’elettorato leghista del Nord è composta da settori di classe media (imprenditori, artigiani, commercianti, professionisti) che vogliono sì meno tasse e una diversa politica dell’immigrazione ma che avrebbero da perdere tantissimo - tanto quanto buona parte del resto del Paese - se Salvini desse seguito agli sbandierati propositi anti-europei. Come ha scritto Dario Di Vico (Corriere, 29 maggio), c’è un ampio mondo imprenditoriale lombardo , per esempio nel Varesotto, che vota più o meno compatto per la Lega ma che non può approvare una scelta anti-europea: un mondo che ha un vitale interesse nella permanenza dell’Italia nell’euro. Ciò significa che Salvini deve barcamenarsi fra due esigenze: tenere conto delle richieste di quella parte del suo elettorato che è spaventata dall’economia globalizzata ma anche non esagerare, non farsi prendere la mano da impulsi che potrebbero metterlo in rotta di collisione con altre parti dello stesso elettorato. Contratto o non contratto, Savona o non Savona, al molto che unisce 5Stelle e Lega va aggiunto il molto che li divide. Forse

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troveranno il modo di far convivere, con reciproca soddisfazione, le diversissime esigenze dei loro diversissimi elettorati. Forse, invece, cominceranno presto a darsele di santa ragione. Pag 1 La rete di Giorgetti di Francesco Verderami Si inabisserà di nuovo, perché non riesce a stare esposto. E a palazzo Chigi farà ciò che ha sempre fatto: l’uomo delle nomine. È una predisposizione genetica quella di Giorgetti, che già all’epoca di Bossi rappresentava la Lega in un anonimo ufficietto nei pressi della Camera, dove insieme al forzista Brancher, al centrista Cesa e al finiano Matteoli, redigeva la mappa del potere da inviare a Berlusconi. Quello era il centrodestra. Ora sta nel «governo del cambiamento» insieme ai grillini. Ma avrà lo stesso approccio, sebbene la funzione sia diversa. L’incarico di sottosegretario alla presidenza del Consiglio gli consente di rimanere nella sua dimensione politica che si combina con il suo benessere psicologico. Raccontano che il ministro dell’Economia non lo volesse fare, e che fosse sincero quando lo diceva. Certo, sapeva che Salvini non gliel’avrebbe fatto fare ma non è questo il punto. Nel 2001 infatti mostrò la sua propensione a stare un passo indietro quando, nominato sottosegretario proprio al dicastero di via XX Settembre, resistette lì pochi giorni, giusto il tempo di presentare le dimissioni: «Preferisco la presidenza della commissione Bilancio alla Camera». E venne accontentato. Non ha lo spirito del capo ma ci sarà un motivo se nel Carroccio è stato il braccio destro di ogni leader. Forse è grazie al suo carattere se è sopravvissuto, o forse si è ritagliato il suo carattere per sopravvivere. Ma non c’è dubbio che se tutti l’hanno voluto al proprio fianco è per la capacità - che gli viene riconosciuta - di fare il sistematore ideologico e insieme il consigliere nei momenti decisivi. Mercoledì sera, per esempio, la sera che ha cambiato il corso della legislatura, è entrato nella stanza dove c’era lo stato maggiore leghista ed è stato netto. «Ho parlato con il demonio», ha esordito sorridendo. Poi si è fatto serio: «Il governo va fatto, troviamo una soluzione su Savona e chiudiamo». «Chi è il demonio?», gli è stato chiesto. «È un italiano che non sta in Italia. È un mio amico». Di amici Giorgetti ne ha tantissimi, una rete di relazioni che coltiva con riservatezza. Maroni, negli anni in cui era al Viminale, si rivolse a lui per conoscere Draghi, che all’epoca stava a Bankitalia. Alla fine del colloquio il titolare dell’Interno volle capire: «Ma gli dai del tu?». E l’altro: «Certo, è un mio amico». Insieme ad altre centinaia di amici, che stanno ai vertici dei maggiori istituti di credito, delle potenti fondazioni bancarie, delle maggiori aziende pubbliche e private. Eppure alla Camera è sempre lì che parla del calcio inglese e del Southampton, appena può. Lo fa dal 1996 quando, seduto sui divanetti di Montecitorio, il socialista Villetti lo indicò ai cronisti: «Prendete nota. È un giovane leghista, ma lo sto frequentando in commissione Bilancio ed è uno competente». Gli ormai ex alleati forzisti dicono abbia perso la burbera affabilità che lo contraddistingueva. In questi mesi a loro avviso è cambiato, e portano a sostegno della tesi i toni usati con Berlusconi durante una telefonata della scorsa settimana, siccome «Brunetta che va in tv e ci tratta da traditori ha proprio rotto». Con il Cavaliere però le relazioni non sono destinate a interrompersi, specie se da sottosegretario alla presidenza del Consiglio gestirà la «golden power», che consentirà al governo di avere voce in capitolo su alcuni nodi strategici, come il destino delle telecomunicazioni. Il controllo della Cassa depositi e prestiti sarebbe il suo obiettivo, così scommettono amici e avversari. Intanto ha in animo di prendersi la delega allo Sport, per la passione che nutre verso il calcio dilettantistico e anche per togliersi qualche sassolino dalle scarpe con l’attuale presidente del Coni, Malagò. È chiaro, il ruolo che si è ritagliato non è marginale. E la sua esperienza verrà utile ai colleghi di partito e ai grillini, che si sono appena seduti in Consiglio dei ministri e non sanno quanto possa essere oscura la selva dei dicasteri. Fu così che nel 1994 la mente più raffinata della destra, Tatarella, appena insediatosi alle Poste scoprì come sarebbe andata al primo governo di Berlusconi: «È la terza volta in sette giorni che il direttore generale mi rimanda indietro questa nota. Non dureremo sei mesi». Ebbe ragione. Giorgetti conosce la pianta organica dei ministeri come l’orto di casa, dove coltiva frutti di bosco. E spera di non veder crescere l’erbaccia, che è la sua ossessione. Perciò si sta per inabissare, per fare «il regista arretrato alla Pirlo», per «far durare cinque anni il governo». Quanto per davvero, si vedrà. Alla squadra leghista, prima del giuramento, ha consigliato di mettere sulle scrivanie la foto

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di Renzi: «Abbiamo un’opportunità, ma fate attenzione. Ricordatevi che quattro anni fa il segretario del Pd aveva il 40%». Pag 6 La Lega al 28,55, tallona il Movimento di Nando Pagnoncelli Forza Italia ancora in calo, Pd in lieve crescita Il «governo del cambiamento» prende avvio al termine di una settimana densa come non mai di cambiamenti: di scenario, di premiership, di candidati ministri, di composizione del possibile esecutivo, di dichiarazioni roboanti seguite da comportamenti contraddittori. E sullo sfondo si era perfino fatta molto concreta l’ipotesi di elezioni anticipate, da svolgere addirittura a fine luglio. Il tutto seguito in diretta da tutti, in una sorta di Truman show della politica. Tutto ciò ha determinato una forte radicalizzazione delle opinioni, più influenzate dall’animosità che dal merito delle questioni, sia che si trattasse delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica oppure dei motivi e delle conseguenze dell’aumento dello spread. In questo contesto chi si rafforza e chi si indebolisce in termini di orientamenti di voto a tre mesi dalle elezioni del 4 marzo? Il sondaggio odierno, realizzato tra mercoledì e giovedì, fa registrare innanzitutto un aumento del 4,3% dell’area grigia costituita da indecisi e astensionisti: si tratta di oltre due milioni di elettori con ogni evidenza disorientati o delusi dalle vicende delle ultime due settimane. Al primo posto in graduatoria si conferma il M5S con il 30,1%, in calo di 2,5% rispetto alla metà di maggio e per la prima volta in flessione rispetto al risultato elettorale. A seguire la Lega, che fa segnare un’ulteriore crescita, attestandosi al 28,5%, 11 punti in più di quanto ottenuto alle politiche. La serie storica dei sondaggi evidenzia l’aumento costante del partito di Salvini che ormai si colloca a 1,6% di distanza dal Movimento. A seguire il Pd con il 19,2%, in lieve crescita, e Forza Italia, oggi al 9% in calo del 3% rispetto al precedente sondaggio e del 5% rispetto alle elezioni. Assistiamo quindi a una mobilità di voto inusuale a soli tre mesi dalle elezioni. L’analisi dei flussi elettorali mostra che la Lega beneficia di una elevata fedeltà di voto - il 92% di chi ha votato il partito di Salvini oggi conferma la propria scelta - e rappresenta il principale catalizzatore dei voti in uscita dagli altri partiti. Il M5S può contare su una fedeltà di voto inferiore, ma tutt’altro che trascurabile, pari al 76% ed è penalizzato dall’uscita di elettori in direzione dell’area grigia (16%) e della Lega (5%). I dem presentano un livello di fedeltà in linea con i pentastellati (77%) e la quota prevalente dei delusi si dichiara indeciso o astensionista (13%) oppure sceglie M5S (4%) o Lega (3%). L’elettorato di Forza Italia appare più disorientato: solo il 55% confermerebbe il proprio voto al partito di Berlusconi, il 22% si colloca nell’area grigia e il 17% sceglie la Lega. Da ultimo, coloro che si sono astenuti alle politiche in larga misura riconfermerebbero la propria scelta (70%), mentre il 12% tornerebbe a votare scegliendo Lega, il 6% Pd e il 5% M5S. I flussi determinano non solo le variazioni nelle intenzioni di voto ma anche un cambiamento della composizione interna delle singole forze politiche lungo l’asse destra-sinistra. Nel M5s da sempre si registra una quota elevata (oggi al 34%, in aumento di 7 punti) degli elettori che non si collocano lungo questo asse; è interessante osservare che rispetto al 4 marzo diminuisce di 10 punti la quota di coloro che si considerano di destra o centrodestra (oggi rappresentano il 15%), mentre è stabile la quota degli elettori di sinistra o centrosinistra che costituisce il 37% dei pentastellati. Tra i dem si registra una diminuzione di coloro che si collocano nel centrosinistra (58%, in calo di 8 punti) e il concomitante aumento (+ 5 punti) della componente di sinistra (27%). Insomma, il nuovo governo giallo-verde è sostenuto da un elettorato leghista che si colloca sempre più a destra/centrodestra nonché da quello pentastellato la cui componente prevalente si dichiara di sinistra/centrosinistra oppure non si colloca. Si tratta di elettorati complementari che, come evidenziato nel sondaggio della scorsa settimana, esprimono bisogni e interessi differenti. Si tratta di un amalgama il cui collante è rappresentato dalla promessa di cambiamento. Pag 11 “Le famiglie gay? Non esistono. Ora più bambini e meno aborti” di Alessandra Arachi Il ministro Fontana: investire sui consultori Lorenzo Fontana, lei ha appena giurato come ministro della Famiglia e della Disabilità...

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«Eh, sì, dovrò abituarmi a questo ruolo, sono contento». Un dicastero importante, delicato più che altro. «Mi impegnerò». È stato accolto da qualche polemica. Ha letto le frasi che le attribuiscono contro i gay? Quelle dove dice che vogliono dominarci e cancellare il nostro popolo... «Ma no, non erano contro i gay». E contro chi? «Contro un modello culturale relativista. Un modello della globalizzazione fatto dai poteri finanziari che disegna un mondo dove non esistono le comunità, e quindi la famiglia che è la prima e più importante comunità della nostra società». Allora non è vero che lei è contro i gay? «Ma va. Ho tanti amici omosessuali, del resto ho vissuto a Bruxelles tanti anni dove ci sono anche nelle istituzioni. E poi la questione non è nel contratto di governo, non me ne occuperò». E quale sarà il primo punto all’ordine del giorno del suo dicastero? «La natalità. Voglio lavorare per invertire la curva della crescita che nel nostro Paese sta diventando davvero un problema. Lo ha detto anche Cottarelli». Carlo Cottarelli? Che ha detto? «Lo ha scritto nel suo libro che questa demografia in Italia fa calare il Pil. Bisogna intervenire». In che modo? «Ci sono in agenda tanti provvedimenti, prima però bisogna verificare le coperture». Può fare l’esempio di uno di questi provvedimenti? «L’idea è di abbassare l’Iva per tutti i prodotti che riguardano l’infanzia. Ma metterò in atto anche delle politiche per cercare di ridurre il numero degli aborti. Hanno detto anche che io avrei dichiarato che le donne non possono abortire». E invece? «Non l’ho mai detto». Cosa pensa di fare quindi contro l’aborto? «Voglio intervenire per potenziare i consultori così di cercare di dissuadere le donne ad abortire. Sono cattolico, non lo nascondo. Ed è per questo che credo e dico anche che la famiglia sia quella naturale, dove un bambino deve avere una mamma e un papà». Eppure adesso in Italia ci sono tante famiglie diverse. Ha visto quanti tribunali hanno riconosciuto genitori omosessuali? «Alcuni tribunali hanno riconosciuto, altri no». Ma anche le anagrafi adesso registrano i bambini figli di genitori dello stesso sesso. A Roma addirittura hanno registrato la bimba di due padri senza nemmeno aspettare l’intimazione del tribunale... «Si, ma una legge in proposito non esiste». E quindi? «Se non esiste una legge dobbiamo decodificare cosa significa quello che sta succedendo». Lei punta all’aumento della natalità nel nostro Paese. Anche le coppie omosessuali contribuiscono alla crescita della natalità. Come si comporterà verso questi bambini? «Ah, per carità, verso i bambini non ci sarà mai nessun tipo di discriminazione. Quando verranno presi provvedimenti in favore dell’infanzia saranno estesi a tutti i bambini, indistintamente e indipendentemente dai genitori». Lei però è il ministro della Famiglia, non il ministro dei bambini. Come pensa di comportarsi nei confronti delle famiglie arcobaleno? «Perché esistono le famiglie arcobaleno?». Si, esistono e sono tante in Italia... «Ma per la legge non esistono in questo momento». Pag 12 Le ambiguità e le ambizioni di un governo politico a metà di Massimo Franco Il paradosso più vistoso del nuovo governo è che risulta «il più tecnico tra i governi politici». Non si tratta di un elemento necessariamente negativo. Ma il fatto che nella lista degli esecutivi formati dai partiti dal 1945 a oggi sia quello con quasi il 40 per cento

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di ministri non eletti, premier compreso, è significativo. Dimostra che la retorica del «governo eletto dal popolo» ha dovuto fare i conti con la realtà dei numeri parlamentari: altrimenti non sarebbe stato scelto a presiederlo il professor Giuseppe Conte, figura di compromesso tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. In più, M5S e Lega hanno preso atto di dovere ancora costruire una classe governativa. L’analisi dell’Istituto Cattaneo non è una smentita alla tesi dell’«esecutivo del cambiamento». Le forze che ne costituiscono l’ossatura sono una novità; di più, vengono considerate un’incognita sia per la tenuta dei conti pubblici che per la collocazione internazionale dell’Italia. Le rassicurazioni date negli ultimi mesi da Di Maio e Salvini sono state un po’ sgualcite dalle tensioni emerse nelle settimane di trattative: soprattutto quando sembrava prossima una rottura e sono stati alzati in modo volgare i toni nei confronti di Sergio Mattarella. In più, il «no» del capo dello Stato alla designazione di Paolo Savona all’Economia da parte della Lega per le sue posizioni contro l’euro, ha mostrato la fermezza di Mattarella; ma anche confermato le preferenze del Carroccio. L’impressione è che i volti per lo più sconosciuti apparsi ieri rappresentino un coacervo di ambizioni e ambiguità. Riflettono, per la parte dei politici eletti, un cambio di stagione indiscutibile. Rimane la domanda, alla quale potranno rispondere solo gli atti di governo, su quante delle promesse fatte potranno essere mantenute, cozzando contro vincoli di spesa ineludibili. Il tema non riguarda solo il rapporto con le istituzioni europee: anche se ogni parola detta dal nuovo potere penta-leghista viene letta con diffidenza. E ogni presa di posizione europea critica o offensiva rischia di essere fraintesa dai «quasi vincitori» del 4 marzo. L’incertezza va oltre i confini dell’Ue. Coinvolge la credibilità italiana agli occhi di mercati chiamati a comprare i titoli di Stato italiani. Ieri Di Maio e Salvini hanno mandato messaggi dopo il giuramento come ministri. Il leader del M5S ha ribadito l’abolizione della Legge Fornero e l’istituzione di un reddito di cittadinanza. Eppure, una persona disinteressata come l’ex premier incaricato Carlo Cottarelli, che di tagli è un esperto, consiglia cautela. Si sono evitate elezioni-referendum sull’euro. Ma il pericolo di un deficit crescente è più grave di prima. LA REPUBBLICA di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 Allacciate le cinture di Mario Calabresi Testo non disponibile

AVVENIRE di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 L’interesse (inter)nazionale di Vittorio E. Parsi Il governo e l’Europa più giusta Inutile farsi illusioni. Noi italiani dobbiamo sempre risalire il vento, prendere schiaffoni di bolina per raggiungere la nostra boa, mentre agli altri son sempre concesse andature più maestose. Che la nostra fama sia meritata, o invece frutto di pregiudizi antichi, poco conta. Quel che vale è ciò che gli altri pensano di noi, non quello che noi crediamo di essere. Intendiamoci bene, il problema particolare si inquadra in una tendenza più generale, che non riguarda solo gli italiani, ribadita un paio di sere fa da Mario Monti durante una trasmissione televisiva: «Gli europei hanno ricominciato a manifestare un disprezzo reciproco nutrito di vecchi pregiudizi che credevamo di esserci lasciati alle spalle una volta per tutte». Dopo una gestazione durata quasi tre mesi, durante la quale i dissapori anche rudi tra le forze della inedita e inattesa maggioranza giallo-verde e tra queste e il Presidente della Repubblica sono stati tanto evidenti quanto drammatizzati, il nuovo governo 'del cambiamento' è atteso al varco, oltreconfine, con un atteggiamento che non si preannuncia particolarmente benevolo. Il 'fronte del Nord' (quello vero, quello europeo) ha già iniziato ad affilare le sue armi, lasciando trapelare indiscrezioni e fughe di notizie, contrassegnate da una diffidenza arcigna e spesso immemore del proprio record di disastri. Quel che più preoccupa alcuni interessati osservatori è evidentemente la possibilità che un’azione di governo orientata a denunciare con fermezza le storture della governance europea, riassumibili nell’incapacità di armonizzare le sovranità nazionali (le sole pienamente legittimate in termini democratici) con le prerogative dell’Unione, non finisca immediatamente fuoristrada. Perché, se è vero che la ricetta proposta dall’alleanza M5s-Lega presenta tratti a buona ragione tacciabili di 'populismo', altrettanto incontrovertibile è che le domande inascoltate che ne hanno gonfiato le vele

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sono radicate e condivise in tanta parte delle società europee. Cercare di selezionare con cura gli obiettivi irrinunciabili della propria azione di politica internazionale e, tra questi, quelli sui quali ci sono maggiori chance di trovare sponde e alleanze in Europa, è quindi innanzitutto nell’interesse della coalizione che regge il destino del governo Conte. Così, tanto per essere franchi, sulla necessità di provare a spezzare l’egemonia dell’ortodossia intransigente di matrice tedesca (una riedizione 2.0 dell’ordoliberalismo austriaco innestato di neoliberalismo) che governa l’euro, qualche convergenza può ben essere trovata, così come sul fronte della gestione ordinata e solidale dei flussi migratori. In entrambi i casi Parigi non è sorda alle preoccupazioni italiane, che in parte condivide. Macron ha avuto modo di sperimentare (come Monti prima di lui) quanto la cancelliera Merkel sia incapace (per lo meno) di trascinare il progetto europeo fuori del pantano in cui si dimena almeno dal fallimento del processo riformatore di Lisbona. Ma guardare oltre a una Merkel sempre più 'spiaggiata' è operazione da compiere innanzitutto nell’interesse dell’Europa, Germania compresa. E su questa strada l’intero complesso dei Paesi 'latini' potrebbe costituire quella massa critica capace non di sabotare l’Unione o distruggere l’euro, bensì di rinvigorire l’una e l’altro: correggendo, completando ed emendando l’attuale (insostenibile) realtà. Sarebbe quindi meglio evitare di aprire troppi fronti contemporaneamente, con il rischio di scontentare tutti e non rassicurare nessuno. Magari nel nome di inconfessabili o sconvenienti simpatie (in russo: simpàtii) o per recuperare qualche milione di euro dalla riduzione di impegni internazionali che oggi sono invece più preziosi che mai per sostenere lo status e il ruolo internazionali del Paese (vedi alla voce missioni di peacekeeping). È qui soprattutto che il premier – coadiuvato dai ministri degli Esteri, della Difesa e delle Politiche europee – dovrà dar prova di non essere un mero esecutore di un contratto stilato da altri, bensì un interprete di un accordo politico che deve rappresentare un punto cardinale d’orientamento, mentre non può essere inteso come una rotta prefissata. Ogni e qualunque possibilità di trovare la via per riformare l’Unione non può che passare dal più saldo ancoraggio alla tradizionale collocazione internazionale della Repubblica, atlantica ed europea, e dal mantenimento degli impegni assunti. Così che sia chiaro che il nuovo governo è disponibile a lavorare insieme agli altri per rendere la casa comune europea più solida, sicura e confortevole e, proprio in forza di questo, chiede agli altri la medesima volontà di ascolto e cooperazione che esso offre.

Pag 3 La sconfitta europea del voto irlandese di Marina Casini Il referendum sull’aborto e l’identità stravolta

Pag 3 Dalla “ferita” di una madre la luce che rigenera amore di Giorgio Paolucci Il figlio Youssef terrorista a Londra, le lezioni di Valeria Il 3 giugno dell’anno scorso otto persone venivano uccise a Londra in un attentato terroristico rivendicato dal Daesh. Uno dei tre autori del gesto, poi uccisi dalla polizia londinese, era Youssef Zaghba, 22 anni, padre marocchino e madre italiana, Valeria Kadija Collina. La incontriamo un anno dopo averla conosciuta, nella sua casa di Fagnano sulle colline di Bologna, dove vive da sola, ed è impossibile non avvertire un contraccolpo ascoltando ciò che le è accaduto dopo quel tragico giorno: da un grande dolore è misteriosamente nato qualcosa di positivo, da un seme macerato dentro un’indicibile sofferenza si sono generati germogli di vita che non cancellano il male compiuto, ma dicono che il male non è l’ultima e definitiva parola sull’esistenza. LA GRANDE ASSENZA. È una ferita che continua a sanguinare, e che forse non si potrà mai rimarginare, quella che porta nel cuore. Impossibile dimenticare il momento in cui aprì la porta di casa e si trovò davanti gli uomini della Digos che le comunicavano quello che si era consumato poche ore prima al London Bridge. Impossibile cancellare lo strazio di una madre, la nostalgia per quel figlio amatissimo e di cui non aveva saputo cogliere l’avvitamento che lo aveva fatto precipitare nell’abisso del nichilismo, nel folle convincimento di meritare la vita eterna del paradiso togliendo quella terrena ad altri uomini. «Vivo ogni giorno l’assenza di lui, la leggo nel letto in cui dormiva, nei bambini che incontro sulla strada e che me lo fanno ricordare in un’età in cui nulla era ancora accaduto. In fondo, c’è qualcosa che nascondo a me stessa perché troppo lancinante: l’atrocità del gesto che ha compiuto, di cui non so darmi ragione».

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LA GRANDE PRESENZA. Eppure è proprio nei giorni del dolore che comincia a manifestarsi un inatteso cambiamento. «Ho consegnato il mio dolore a Dio e Dio non mi ha lasciata sola: si è reso presente regalandomi una serenità interiore che non immaginavo di poter avere. Non è qualcosa di intimistico, si è manifestato ad esempio nell’affetto di tante donne musulmane come me, qui a Fagnano, e di altre provenienti da comunità islamiche emiliane. Fin dall’inizio, poi, sono stata animata da un desiderio di 'riparazione' nei confronti di chi era rimasto vittima dell’odio di Youssef, e della società tutta. Con alcune sorelle musulmane abbiamo fondato l’associazione Rahma per la formazione religiosa e per il dialogo. C’era bisogno di 'riparare' anche le strumentalizzazioni che si stavano facendo a carico dei musulmani, ingiustamente bollati come inclini alla violenza. E ho capito che anche io avevo bisogno di una riparazione: dopo tanti, troppi anni di immersione in un islam rigido e chiuso, ho ricominciato la ricerca dell’Assoluto che è una costante di tutta la mia vita e che mi ha condotto a militare nella sinistra giovanile, nel femminismo, poi a cercare la mia realizzazione nel teatro sperimentale e infine nell’islam. E ho imparato ad accettare la diversità, a imparare e ad arricchirmi anche da chi ha trovato il senso della vita in una strada differente dalla mia». UNA MESSA PER YOUSSEF. In questo itinerario di inesausta ricerca, ha incontrato alcuni cattolici che sono diventati compagni di cammino. È nata un’amicizia con Ignazio De Francesco, monaco della Piccola Famiglia dell’Annunziata a Bologna e studioso di fonti ascetiche islamiche, con il quale ha partecipato al raduno promosso a Collevalenza dall’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei, dove ha raccontato i frutti maturati dalla sua esperienza. «Pochi giorni dopo l’attentato alcuni amici hanno pregato per Youssef e per me durante il pellegrinaggio notturno a piedi da Macerata al santuario di Loreto, un luogo dove viene venerata Maria madre di Gesù, figura molto cara a noi musulmani. E mi hanno promesso che lo faranno anche sabato prossimo, nell’edizione 2018 del pellegrinaggio. Domani, a un anno esatto dalla sua morte, sarò presente a una Messa che viene celebrata in suffragio di mio figlio a Forlì. So che potrebbe scandalizzare alcuni fratelli dell’islam ma io ci sarò, con grande rispetto, commozione e gratitudine. È il modo con cui questi amici pregano Dio perché abbia misericordia di Youssef e per dimostrarmi la loro vicinanza e il loro affetto. E io continuo a sperare che Dio possa perdonare mio figlio». Gesti come questo – e altri che Valeria conserva nel segreto del suo cuore – rendono vere anche per lei le parole scritte dal cantautore Leonard Cohen: «C’è una crepa in ogni cosa, è così che entra la luce». NOVECENTO STUDENTI. Il suo desiderio di riparazione l’ha portata all’Università dell’Insubria per due incontri, a Como e Varese, con mediatori culturali e giuristi sul tema del radicalismo islamico. E l’ha resa protagonista di un video realizzato per la mostra 'Nuove generazioni. I volti giovani dell’Italia multietnica', inaugurata al Meeting di Rimini 2017 e allestita poi in molte scuole. E proprio a Rimini, in marzo, è stata protagonista – assieme ad alcuni ragazzi di seconda generazione – di un incontro con 900 studenti delle scuole superiori. Un dialogo serrato su educazione, terrorismo, fede e violenza. «Esperienza indimenticabile, dove ho toccato con mano il desiderio di conoscenza e la passione che anima i giovani, troppo spesso raccontati come un mondo superficiale e succube dell’effimero». A loro questa madre orfana del figlio ha raccontato di «un ragazzo come loro, che nella folle illusione di raggiungere un paradiso immaginario aveva ossificato l’esperienza religiosa, rinunciando alla ricerca della verità e della bellezza. Il suo islam era diventato una gabbia fatta di chiusure e divieti, dove viveva schiavo di una visione meccanicistica che l’ha soffocato e l’ha spinto alla distruzione degli altri e di se stesso». Nel libro scritto insieme al giornalista Brahim Marad – 'Nel nome di chi', edito da Rizzoli, in cui racconta la sua odissea – Valeria ricorda le parole dell’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, che l’ha voluta incontrare e che aveva definito le sue dichiarazioni «parole di una madre che scopre qualcosa del proprio figlio, che dimostrano come il virus dell’estremismo può deformare la ragione anche di un ragazzo come lui». È fermamente convinta che sia urgente una rivisitazione della tradizione islamica che combatta l’approccio letteralista del Corano, sempre più invasivo per la pressione del radicalismo wahhabita, e che dia priorità al senso critico, all’esegesi storica, all’uso della ragione. «È la sfida della modernità, affrontata prima di noi dall’ebraismo e dal cristianesimo, e che non possiamo continuare a rimandare se non

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vogliamo rimanere soffocati da una religiosità imbevuta solo di prescrizioni rigide e immutabili». L’ORA DEI TESTIMONI. Dalla sua crepa continua a entrare luce. Come l’amicizia con don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, che ospita nella comunità Kayros giovani feriti dalla vita. Due di loro, dopo essere stati adescati sul Web, si sono dileguati per arruolarsi nel Daesh. Uno, Tarik, è morto in combattimento. «Don Claudio e io abbiamo perso entrambi un figlio e vogliamo collaborare per arginare e prevenire la deriva nichilista di cui tanti ragazzi sono vittime». C’è un grande lavoro educativo da fare nelle scuole, nei luoghi di aggregazione giovanile, negli oratori, nelle moschee. «Un lavoro che non può esaurirsi nella sorveglianza, nella moltiplicazione di regole e divieti – alcuni peraltro doverosi. Serve qualcosa che arrivi al cuore dei ragazzi, anche se dobbiamo essere coscienti che in ultima istanza resta decisiva la libertà, alla quale neppure il nostro amore per loro può sostituirsi e della quale non possiamo privarli. Ma soprattutto servono testimoni credibili a cui guardare, persone che accendano un’attrattiva umana capace di suscitare il desiderio di bene che – ne sono convinta – abita nel cuore di ogni persona». Buon cammino, Valeria. Pag 10 Sulle donne i conti non tornano. Così spariscono i temi della parità di Antonella Mariani Nel nuovo esecutivo solo 5 ministre su 18 Qualcuno l’ha detto, altri l’hanno solo pensato. I più hanno abbozzato, come si fa con le cose che appaiono stonate ma tutto sommato innocue. Eppure i conti non tornano. Su 18 ministri nel nuovo governo giallo-verde (20 se si considerano anche il premier e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio), solo 5 sono donne. Due le ministre con portafoglio – Salute e Difesa –, le altre (Sud, Pubblica amministrazione e Affari regionali) si devono accontentare della borsa... vuota. Non occorre essere sostenitori delle quote rose per capire che la rappresentanza femminile (un quarto di governo a fronte del 50 per cento della popolazione) risulta decisamente insufficiente. Un dato contraddittorio, tra l’altro, rispetto al numero record di donne portate in Parlamento dai 5 Stelle, oltre il 40% degli eletti contro una media del 34% (il centrodestra nel suo complesso si è fermato al 31%). Ma c’era da aspettarselo: nel dibattito seguito alle elezioni e poi ancora nel contratto di governo gialloverde (elaborato da soli uomini con la timida eccezione di Laura Castelli per il M5S), le tematiche della parità sono state inesistenti. Il governo Renzi era partito con 8 uomini e altrettante donne. E in effetti sono stati soprattutto parlamentari del centrosinistra ad avanzare, ieri, alcune obiezioni sulla scarsità di ministre, da Emanuele Fiano a Laura Garavini (Pd) fino a Federico Fornaro (Liberi e Uguali). Ma nessuno, a guardar bene, ha le carte in regola. In casa Pd, ad esempio, nelle scorse elezioni l’escamotage di piazzare le ministre in più collegi (le pluricandidature) per rispettare la clausola di genere, salvo poi fare posto ai secondi eletti (uomini) ha sollevato un mare di proteste e portato in Parlamento appena il 20% di donne sul totale degli eletti. Per non parlare della lunga trafila delle consultazioni postelettorali con il Quirinale, dove nelle delegazioni di Pd e Liberi e Uguali c’erano solo uomini. Ma torniamo al nuovo governo. L’Italia sembra arretrare, e il confronto con la vicina Francia è impietoso: oltralpe le ministre sono 11 su 18. È vero che in Germania sono 6 su 15 e nel Regno Unito appena 5 su 23, ma almeno lì a governare sono Angela Merkel e Theresa May. In Italia invece «le donne rimangono un corpo estraneo nei partiti», ammette Marina Terragni, giornalista e scrittrice femminista. E aggiunge, amara (e molto arrabbiata). «Abbiamo tentato di entrarci ma non ci siamo riuscite. E intanto nel 2016 ben 30mila donne sono state espulse dal mondo del lavoro dopo essere diventate madri». Sulla stessa linea Francesca Izzo, ex parlamentare Pd e cofondatrice del movimento femminista Se non ora quando-Libere. La composizione del governo? Un arretramento. Ma frutto anche dell’incapacità delle tante donne parlamentari, in questi anni, di farsi davvero carico delle esigenze femminili, di trasferire, per così dire, le loro battaglie – che pure ci sono state, ad esempio sul fronte della violenza di genere – alla vita quotidiana delle donne. Vengono in mente le parole di Alessandra Bocchetti, femminista pure lei e fondatrice del centro Virginia Wolf, che alla vigilia delle elezioni del 5 marzo scriveva: «Perché noi donne ci facciamo da parte? Perché siamo così remissive, così ubbidienti, così ininfluenti, così silenziose (...)? Sempre a parlare di diritti, per poi

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dimenticarsi i propri». Peccato, perché come osserva la notista politica Flavia Perina, «larga parte dei principali partiti non ha ancora capito che nella gigantesca crescita delle diseguaglianze in Italia, oltre alla questione Nord-Sud, c’è anche quella femminile». Pag 23 Islam. Quale dialogo? di Alessandro Zaccuri Sansal: “Non illudetevi, nessuna tolleranza”. Nawaz: “la speranza vince, posso dimostrarlo” Boualem Sansal non è un ottimista, come sanno bene i lettori di 2084. La fine del mondo, il romanzo che nel 2015 lo ha portato alla ribalta internazionale: un incrocio tra distopia orwelliana e cronache del fondamentalismo, nella cui trama l’islam, mai nominato, è onnipresente. Più di recente, lo stesso editore italiano di 2084 , Neri Pozza, ha pubblicato Nel nome di Allah (traduzione di Margherita Botto, pagine 144, euro 15,00), un saggio nel quale Sansal ricostruisce le origini di quello che, senza mezzi termini, definisce «totalitarismo islamista». «Per me – spiega l’intellettuale algerino, che ha partecipato a molte manifestazioni culturali italiane dei giorni scorsi – questi sono i primi due momenti di una trilogia che sarà completata dal mio nuovo romanzo, in uscita a settembre». Come si intitolerà? «Il treno di Erlingen, o la metamorfosi di Dio: se Nel nome di Allah era una ricognizione storica e 2084 una proiezione del futuro, questo libro è il racconto di quanto sta accadendo nel presente». Vale a dire? «Qualcosa di completamente diverso rispetto alle migrazioni del passato, quando le religioni svolgevano un ruolo tutto sommato accessorio. Nell’Ottocento un europeo che arrivava in America, per esempio, portava senz’altro con sé le proprie convinzioni, ma queste non rappresentavano interamente la sua identità. Tedeschi o irlandesi, tutti diventavano abbastanza presto americani. Oggi come oggi non è più così. I migranti provenienti dal mondo musulmano non rinunciano a nulla della tradizione alla quale appartengono e che anzi, molto spesso, si ripresenta con più forza nel passaggio da una generazione all’altra. Vivono in Europa, ma restano algerini, marocchini, pachistani...». E questo rallenta il processo di integrazione? «A mio modo di vedere non soltanto lo rallenta, ma lo impedisce. So di passare per pessimista, ma non credo che l’islam sia riformabile. Parliamo di una mentalità che esclude qualsiasi tentativo di innovazione, perché si basa sul presupposto che il Corano contenga il messaggio divino in forma universale e definitiva. Ogni deviazione dal dettato del Libro viene considerata eretica e può essere passibile di morte. Certo, accade che i musulmani che vivono in Occidente abbiano un qualche commercio con la modernità. In gran segreto, però, e senza che questo produca alcun effetto a livello sociale». Ma alla storia dell’islam appartengono anche correnti più illuminate... «Questa è un’illusione degli occidentali. Per quanto mi riguarda, la varietà delle correnti musulmane è un’invenzione degli orientalisti. È del tutto ingenuo ritenere che possa esistere un islam tollerante. Dio è uno e il Corano non è passibile di interpretazione: tutta la realtà si divide in halal e haram, in ciò che è permesso e ciò che è proibito, qualsiasi possibilità di mediazione è esclusa in partenza». Insisto: l’islam tollerante è un dato storico. «Lei si riferisce semmai a qualche episodio, molto limitato nel tempo e nello spazio. Prenda il caso dei cosiddetti mutaziliti, gli studiosi del IX secolo che, sulla scorta del pensiero greco, cercarono di sottoporre l’insegnamento divino allo scrutinio della ragione umana. Le loro ricerche entusiasmarono i califfi di Baghdad, ma in sostanza questa dottrina straordinariamente conciliante non uscì mai dalle stanze del palazzo e si esaurì nell’arco di pochi decenni. La condanna della teologia ufficiale fu implacabile. Il termine mutaziliti, non per niente, significa “coloro che sono nell’errore”». Sì, ma non è detto che le minoranze debbano restare tali per sempre. «Finora nell’islam è sempre andata così. Gli occidentali si lasciano entusiasmare da confraternite minuscole, come quella dei dervisci in Turchia, e non vogliono accettare la natura monolitica del dogmatismo musulmano. L’unica eventuale evoluzione si potrebbe avere, a mio parere, se l’islam rinunciasse a sé stesso».

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IL FOGLIO di sabato 2 giugno 2018 Pag IV Occidente buddista di Giulio Meotti Ancora cardinale, Ratzinger l’aveva previsto. Scristianizzati e stanchi, un giorno ci saremmo consegnati alla fede nel Buddha Testo non disponibile Pag V L’Europa oltre il secolarismo di Matteo Matzuzzi Cristiani sì, ma “non praticanti”. L’inutile tormento per i bei tempo che non torneranno più Testo non disponibile IL GAZZETTINO di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 “Prova budino” per il governo del grande compromesso di Bruno Vespa E adesso? Questo governo doveva nascere. Perché Di Maio sarebbe stato accusato di aver fatto perdere al M5s l'occasione della vita. Perché Salvini nonostante il vento in poppa dei sondaggi avrebbe perso una parte dell'elettorato del Nord in vacanza a luglio. Perché il Paese sarebbe uscito logorato dalla speculazione in troppi mesi di attesa. E perché novanta giorni di negoziati falliti avrebbero indebolito la stessa presidenza della Repubblica. E' il primo governo nella storia europea in cui non sono rappresentate le grandi famiglie cattolica, liberale e socialista. E' il governo che ha portato al riscatto ministri con storie professionali talvolta recenti e modeste (i familiari invitati al Quirinale per il giuramento facevano tenerezza). Ed è fatalmente un governo del Grande Compromesso tra due forze politiche le cui estreme si toccano , ma che hanno storia e obiettivi politici diversissimi. Che cosa dobbiamo aspettarci?

Pag 8 Zaia: “Caro governo, ecco le mie priorità” di Alda Vanzan Il governatore veneto: “Sull’autonomia se si vuole entro l’anno si può chiudere” Una «tempesta perfetta». Così il governatore del Veneto Luca Zaia ha commentato con i cronisti, ieri pomeriggio davanti al municipio di San Vendemiano, la formazione del governo di Giuseppe Conte. Una «congiuntura ottimale» per portare a casa prima di tutto l'autonomia. Presidente Zaia, che giudizio dà del governo giallo-verde? «Un giudizio positivo, ovviamente poi si andrà alla prova dei fatti nel momento in cui si andrà all'azione di governo. Diciotto ministri e peraltro è il governo che, nella storia, ha più ministri tecnici, addetti ai lavori. Penso che questo sia un bel segnale. Dopodiché il contratto di governo è chiaro e quindi non ci saranno dubbi né divagazioni sul tema». Diciotto ministri di cui 5 donne. Troppo poche o va bene così? «Fossi io farei un governo di sole donne, anche perché amministrativamente sanno dare di più. Dopodiché è anche vero che ci vuole equilibrio e disponibilità, non farei polemica su questo». Cosa si aspetta il Veneto dal governo? «Il rispetto di quanto c'è scritto nel contratto di programma, ma ovvio che in testa a tutto c'è l'autonomia. Quasi due milioni e mezzo di veneti sono andati a votare per l'autonomia, i presupposti ora ci sono tutti: Lega e Movimento 5 Stelle hanno sostenuto il referendum e quindi è bene che oggi si porti a casa l'autonomia». Quindi dalla leghista vicentina Erika Stefani, ministro agli Affari regionali, si aspetta una accelerazione? «Direi che è una garanzia per noi veneti avere una veneta, che io conosco bene, che sarà l'interlocutore del governo con il presidente della Regione del Veneto. Anche perché la Costituzione dice che ci vuole l'intesa tra il governo e la Regione. Il ministro Stefani si occuperà dell'intesa». Tempi?

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«Lascio un mese di limbo per l'insediamento, dopodiché presenteremo il progetto che abbiamo pronto e si può andare all'intesa. Se si volesse far veloci, per fine anno il governo potrebbe calendarizzare l'autonomia in Parlamento». Le posizioni antiabortiste del ministro alla famiglia Lorenzo Fontana, veronese leghista, faranno discutere? «Io penso che ogni ministro dovrà essere valutato per le sue azioni governative. Dopodiché ognuno ha le sue posizioni personali ed è giusto rispettarle». Il M5s ha sempre avversato le grandi opere, a partire dalla Pedemontana. Preoccupato che alle Infrastrutture ci sia il pentastellato Toninelli? «Sono stato ministro anch'io, un conto sono le opinioni personali su ambiente, opere, Ogm, altra cosa è l'azione di governo». Cambieranno i rapporti con il M5s in Veneto? «Quella tra Lega e M5s a livello nazionale non è un'alleanza politica. È una condivisione programmatica». Forza Italia, che ha definito «preoccupante» il programma giallo-verde, non voterà la fiducia. Cambierà qualcosa in Veneto? «Assolutamente no, confermo il buon rapporto. E ricordo che nel novembre 2011 le parti erano invertite, Forza Italia sosteneva il governo Monti, la Lega no». 88 giorni di trattative. A Salvini, Di Maio, Mattarella imputa qualche errore? «Non ho l'atteggiamento illuminista che valuta la storia col senno di poi. Non ero nella stanza dei bottoni, dico che oggi abbiamo un governo e penso che fare un'analisi di quanto accaduto sia solo una perdita di tempo». I risparmiatori traditi delle ex banche popolari attendono strumenti di rifusione del danno subìto. «Hanno assolutamente ragione, è logico e umano pensare che questo governo sia quello che riesce a traghettare fuori da questa palude i risparmiatori che hanno perso tutto. Poi le modalità saranno decise da chi è al governo». C'è stato lo zampino dei governatori Zaia e Fedriga nella nascita di questo esecutivo? «No ed è bene sfatare questa cosa: Salvini ha sempre lavorato per andare a governare e posso garantire che è rimasto molto male e seccato quando era saltata l'operazione». Questo governo durerà 5 anni? «Io spero di sì, anche perché più resiste e più risultati portiamo a casa. Abbiamo un governo che sosterrà la candidatura delle Olimpiadi invernali 2026, la partita dell'Unesco per il prosecco e spero anche la fidejussione per i mondiali 2020 di ciclismo a Vicenza che sono appesi a un filo». Quindi ora o mai più? «Beh, fallire con questo governo vuol dire che l'autonomia non la vediamo più. La congiuntura è ottimale, è quasi una tempesta perfetta. Erika Stefani rischierà di passare alla storia per aver dato l'autonomia al Veneto». Dal muro della sede della Lega in via Bellerio è sparita la scritta Padania e Basta Euro. «Si vede che qualche imbianchino ha dato una rinfrescata al muro e, in ogni caso, tardivamente visto che nel nostro programma non c'è l'uscita dall'euro. Come ha sottolineato Savona, noi poniamo la questione di un'Europa più forte e più equa. L'uscita dall'euro sarebbe un'ecatombe dettata dalla rovina dell'Europa». La priorità del governo sarà l'immigrazione? «Una priorità contingente sono gli sbarchi che contrassegnano questo inizio di stagione. E poi la flat tax, la riforma Fornero, la legittima difesa, il contrasto alla povertà, il rifinanziamento delle scuole paritarie. Ma la madre di tutte le battaglie resta l'autonomia». Festa della Repubblica: Salvini sarà alla parata militare. Lei? «Aspetterò Salvini a Vicenza e Treviso».

LA NUOVA di sabato 2 giugno 2018 Pag 1 Responsabilità per evitare le elezioni bis di Bruno Manfellotto Diciamoci la verità: se un governo come quello che ha giurato ieri lo avessero partorito Renzi e Berlusconi, sarebbe stato sommerso da urli e fischi. Di grillini e leghisti. Me li vedo. Avrebbero gridato al Grande Inciucio (oggi Contratto); protestato contro il quinto premier non eletto; disapprovato il lungo elenco di tecnici e professori che profuma di

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tecnocrazia e nomenklatura; lamentato l'alto tasso di potere maschile; denunciato il compromesso che trasuda dall'intreccio di ministri che sono l'uno l'opposto dell'altro... Che ci volete fare, è l'eterno gioco della politica, il potere logora chi non ce l'ha, e pur di averlo si arriva a fare qualunque cosa, marce indietro, ripensamenti, alleanze incestuose. Il governo del cambiamento, dunque, nasce con i riti di sempre, e vabbè. Ma ci si chiede: chi ha vinto e chi ha perso? E: durerà?Come si conviene quando si firma un accordo, hanno vinto e perso un po' tutti. Luigi Di Maio ottiene l'obiettivo per il quale ha sfidato la base e un pezzo del movimento: portare i Cinque Stelle nella stanza dei bottoni pur rinunciando a sedere lui sulla poltrona di Palazzo Chigi. Matteo Salvini forse ha vinto un po' di più perché, pur avendo la metà dei voti del suo socio in affari, lo ha fatto ballare un bel po', ha inzeppato il programma delle sue idee, ed è arrivato al ministero dell'Interno senza rompere del tutto con l'alleanza di centro destra. Della quale è ormai il leader di fatto, come dimostra anche la marcia d'avvicinamento di Giorgia Meloni. Però ha dovuto ascoltare il richiamo del suo elettorato del nord - partite Iva e piccoli imprenditori - che trema alla sola idea di tornare a votare subito, e di conseguenza abbozzare sul nome di Paolo Savona.Vince anche Sergio Mattarella che ha dovuto esercitare grande pazienza, sopportare più di una sbavatura, vedersi addirittura accusare di attentato alla Costituzione, ma che ha ottenuto ciò che voleva: un governo politico, niente elezioni subito, salve le prerogative del Capo dello Stato di mettere il naso nella lista dei ministri in nome dei valori della Costituzione, arginato il furore anti-europeo. E qui arriviamo al cuore della questione gialloverde. La trattativa per la formazione del primo governo Conte si è via via arenata su tre questioni di fondo: il debito e la moneta unica; la fedeltà all'Europa e all'alleanza atlantica, o quella a zar Putin; grandi opere sì o no. E su nessuno di questi punti è stata fatta chiarezza: all'Economia c'è un prof eurocritico, agli Affari Europei un euroscettico e agli Esteri un euroconvinto. Alle Infrastrutture, che il Nord di Salvini fortissimamente vuole, c'è un uomo dei Cinque Stelle, movimento noto per essere contro la Tav, contro il Tap, contro il cemento. Intendiamoci, per un verso è un bene: alla fine le punte di populismo becero sono state smussate, ma tale mediazione è la premessa di possibili, continui scontri in Consiglio dei ministri culture assai diverse. Il primo scoglio, naturalmente, saranno proprio i conti dello Stato visto che, a norma di Contratto, bisognerà far convivere il diavolo e l'acqua santa, cioè reddito di cittadinanza e flat tax, costosi e contraddittori, e pure la riforma della legge Fornero, e la legge di bilancio con annesso incubo Iva. Prima si discuterà in casa nostra, poi toccherà convincere i partner europei. In casi come questi è il premier a riportare a sintesi i diversi punti di vista, ma stavolta non sarà così semplice. Il presidente del Consiglio non ha alcuna esperienza di governo e per di più è guardato a vista dai suoi due vice, che di quel Contratto sono i firmatari e di lui pensano che sia solo un "esecutore". Commissariato, il professor Conte potrà chinare la testa e sarà caos, o ribellarsi ai diktat e sarà conflitto, o rifugiarsi nella sindrome Raggi secondo la quale se non si riesce a fare niente è colpa dei poteri forti, dell'Europa, della burocrazia. Teoria che porterebbe di nuovo al voto, magari subito prima o dopo le Europee del 2019. Eppure poteva andare assai peggio, e dunque non resta che fare gli auguri ai nuovi governanti sperando che prevalgano buon senso e responsabilità. Buon 2 giugno.

Pag 1 Laboratorio con rischi di esplosione di Paolo Gurisatti Forse, gli 89 giorni spesi per la formazione del governo non sono passati invano. I protagonisti della vicenda italiana, il popolo e i suoi rappresentanti, l'establishment, i mass media, hanno fatto un apprezzabile esercizio di apprendimento collettivo. Il popolo ad esempio, che ha votato per il cambiamento, ha avuto tempo di metabolizzare l'impatto del proprio voto. Si è espresso contro le élite, contro i partiti tradizionali e contro l'Europa. Ma si è anche reso conto, osservando lo spread, che alcuni limiti non possono essere valicati. I vincitori, in secondo luogo, hanno avuto modo di verificare che la fuga dall'Euro, dai debiti e dall'Europa, evocato per anni con proclami, manifestazioni e magliette, non è praticabile. Lo hanno imparato, il giorno dopo la presentazione del proprio contratto ai mercati e all'opinione pubblica internazionale. Nella prima fase della trattativa, Di Maio e Salvini hanno davvero pensato di proporre al paese un programma molto vicino alle promesse elettorali. Anche a costo di un default. Ma poi hanno dovuto

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fare marcia indietro. Quando Mattarella si è irrigidito e l'opinione pubblica ha iniziato a preoccuparsi, i due soci si sono arrabbiati, ma hanno deciso di accantonare il piano A e di dare luogo a un piano B più moderato. Si vede che appartengono a una nuova generazione. Imparano presto e fanno della flessibilità (della capacità di cambiare rapidamente posizione) la propria cifra caratteristica. Hanno capito che non solo Mattarella, ma i loro stessi elettori non erano disposti ad affrontare i costi del piano A (vale a dire la perdita dei risparmi e di credito internazionale, con il rischio di trovarsi ancora più poveri e abbandonati che nella Seconda Repubblica) e hanno iniziato a dire che il futuro dell'Italia è in Europa, anche se l'Europa è come il Titanic e ha bisogno di scialuppe di salvataggio. Hanno costretto lo stesso Savona a pubblicare un'abiura del proprio pensiero e ad accettare un ruolo diverso nella compagine governo. Alla fine il piano B è passato. È un compromesso tra establishment e movimento, tra Italia sovranista e Europa necessaria. Un governo infarcito di uomini dell'élite, che hanno il compito di moderare le decisioni più estreme dei rappresentanti del popolo. È un governo nella tradizione italiana, che rassicura i mercati. E però è caratterizzato da anomalie che non possono essere trascurate. Non potendo ricorrere a ricette facili, come il ritorno alla svalutazione, dovrà darsi un metodo per conciliare obiettivi opposti. Dovrà riscrivere il contratto dal quale è partito. Può essere un laboratorio utile al sistema paese, sotto la guida di Mattarella, ma potrebbe anche diventare un inferno.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 2 giugno 2018 Pag 3 “La famiglia è quella con mamma e papà. Unioni gay e aborto? Contrario da sempre” di Antonio Spadaccino Il leghista veronese Lorenzo Fontana: “Ma nel contratto i temi etici non ci sono” Verona. Il nuovo ministro alla Famiglia e alla Disabilità del «governo del cambiamento» è un politico non disposto a barattare le sue idee, per quanto dure - e foriere di polemiche - possano essere. Lorenzo Fontana, veronese, 38 anni, cresciuto a pane ed Hellas, tradizionalista cattolico, legato all’associazione «Pro Vita» e mentore dell’alleanza sovranista al Parlamento europeo tra il suo leader (e amico) Matteo Salvini e l’esponente dell’estrema destra francese Marine Le Pen è sicuramente l’uomo più «scomodo» dell’esecutivo legastellato. «La famiglia? Per me è solo quella composta da mamma e papà. Questa è la mia opinione personale e ritengo sia importante partire da questo. Soprattutto per i bambini, che devono poter crescere con un uomo e una donna come punti di riferimento della loro educazione (e quasi a voler certificare con un gesto le sue parole si è presentato ieri al Quirinale con sua figlia in braccio, ndr)». Un messaggio chiaro, quello di Fontana, che va nella direzione di una netta non condivisione con quanto approvato dall’ultimo governo Gentiloni, ovvero la legge Cirinnà sulle unioni civili. Lui, nel 2016, ebbe a dire: «La famiglia naturale è sotto attacco, vogliono dominarci e cancellare il nostro popolo». Ora, da ministro, modera le parole. E, soprattutto, usa il «contratto» come un vero e proprio scudo protettivo: «I temi etici - spiega - non sono contemplati nell’accordo stipulato con i grillini. Per modificare la legge Cirinnà, per esempio, servirebbe una maggioranza parlamentare che non ci sarebbe. Ma, ripeto, non saranno temi all’ordine del giorno di questo governo». Altra questione aperta: nei giorni del quarantesimo compleanno della 194, la legge che consente l’aborto, arriva Fontana, anti-abortista dichiarato, alla guida del dicastero della Famiglia. «Non serve - dice - che le ribadisca che sono fermamente contrario alle interruzioni di gravidanza. Ma anche in questo caso, trattandosi di argomento etico, non è contemplato nel contratto. Qualcosa però vorrei comunque fare». Un attimo di pausa e Fontana si lascia andare... «Bisogna che la politica del nostro governo cambi, che sia più vicina alle donne in difficoltà, che faccia capire che lo Stato è presente e che per lo Stato la vita e i bambini sono importantissimi. Penso ad esempio ai consultori, che al momento sembrano dimenticati, e invece vorrei che tornassero a essere decisivi nel confronto con donne o ragazze in difficoltà. Devono dare una luce di speranza». E con l’educazione come la mettiamo. Quale impatto avrà un ministro come Fontana sul contrasto alla divulgazione delle presunte teorie gender? «Serve attenzione - dice - perché questi argomenti non possono essere lasciati al caso. Io contesto chi sostiene che la sessualità è legata alla cultura, che un bambino è maschio perché la cultura che gli viene inculcata lo porta a essere maschio. E comunque, anche in questo caso posso solo esprimere

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pareri personali perché nemmeno di questo si parla nel contratto di governo». Non resta che parlare della famiglia e degli obiettivi che il neo ministro vorrà perseguire. «La famiglia deve tornare a essere solida e, soprattutto, deve tornare a generare figli. Il calo della natalità (su questo tema Fontana ha appena scritto il libro, “La culla vuota”, ndr) porta a un calo economico e a un aumento del debito pubblico. Non lo dico io, ma l’ultimo Def (Documento economico finanziario, ndr). I numeri sono paragonabili a quelli della Prima guerra mondiale o dell’epidemia di febbre spagnola. Servono incentivi per valorizzare la famiglia naturale. È un progetto importante, cui tengo in modo particolare». Resta la disabilità, dove tutti siamo concordi nel sostenere che il Paese è in ritardo e che molte delle politiche attualmente in vigore vanno riviste e - possibilmente - migliorate. «Non vi è dubbio che sia così - chiosa Fontana -. C’è molto da fare sia per chi è affetto da disabilità sia per le famiglie che si confrontano quotidianamente con loro. Servono risorse adeguate da destinare al mondo della disabilità. Il mio intento sarà quello di fornire risposte adeguate sotto il profilo dei diritti a queste persone. La reputo una battaglia di civiltà». Il neo ministro ha giurato e garantisce: «È un onore, per me, poter ricoprire questo incarico» Torna al sommario