RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Testi scolastici

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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA Testi scolastici .... Secondo le disposizioni vigenti. Indagi- ne sui libri di testo della scuola del- l’obbligo, Reggio Emilia, Ufficio Stam- pa del Comune, 1971. Si tratta del catalogo della mostra sui libri di testo aperta a Reggio Emilia nel febbraio 1971 per iniziativa di un collet- tivo di lavoro promosso dalle amministra- zioni comunali di Reggio Emilia, Correg- gio e Sant’Ilario d’Enza, di cui è già stata data informazione nel notiziario del n. 102 di questa rivista. Il catalogo, curato dal- l’Ufficio stampa del Comune di Reggio Emilia (al quale si può rivolgere chi vi fosse interessato), permette di far cono- scere il lavoro compiuto oltre i limiti ter- ritoriali di una mostra, anche se va detto che tale mostra è stata esposta in varie altre città, tra cui Modena, Bologna, Fer- rara e Milano, con la collaborazione dei sindacati, di gruppi impegnati nella rifor- ma della scuola e di centri democratici locali. La mostra ed il catalogo (che ne dà un’ampia ed efficace presentazione) pren- dono lo spunto da singole pagine di libri di testo della scuola dell’obbligo, scelti tra quelli in uso nelle scuole di Reggio Emilia, mettendone in evidenza l’ispira- zione classista. Da notare che l’analisi non si sofferma solo sulle pagine in cui viene predicato a chiare lettere l’odio di classe •e l’inferiorità dei poveri, ma identifica anche nelle pagine apparentemente neutre e innocue il veicolo di una formazione al consenso, ad una passività rassegnata che tutto accetta e giustifica. Segue poi tutto un ventaglio di spunti e indicazioni per una scuola alternativa, in cui il discorso non si irrigidisce in una prospettiva unica, ma rimane aperto. Se- gnaliamo alcune lucide pagine sull’orga- nizzazione capitalistica dell’editoria italia- na, una serie di suggerimenti per una di- dattica più libera, documenti sindacali che mirano a stabilire un collegamento tra le lotte di fabbrica e quelle per il rinnova- mento della scuola ed alcune note infor- mative su quanto è stato fatto intorno ad alcune scuole della zona per realizzare un controllo di base ed il superamento delle storture più gravi. In complesso, una mostra quanto mai ricca ed interessante perché legata ad una situazione concreta; ed un catalogo che segnaliamo a quanti sono interessati a cercare nuove idee e nuovi strumenti di lotta nella scuola. Giorgio Rochat U mberto M agrini, P aola C astellini , G ianfranco C iabatti , M aria F ozzer (a cura di), Roma 70, Firenze, Sansoni, 1970, pp. 158, L. 1.000; La questione sociale, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 190, L. 1.000; La Resistenza, Firenze, Acca- demia, 1970, pp. 158, L. 1.000; Un'esta- te in campagna, riduzione dall’opera di Bonaventura Tecchi, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 122, L. 1.000. Questi volumetti di letture per la scuo- la media, curati dalla redazione scolastica dell’editore Sansoni, sono costruiti su una formula viva ed agile, studiata per venire incontro a determinate esigenze di rinno- vamento didattico. Ognuno di essi pre- senta una ventina di brani, di preferenza opera di testimoni diretti e talora di nar- ratori di buon livello, in parte minore tratti da studi o documenti dell’epoca. Questi brani sono inquadrati da brevi pre- sentazioni e corredati da note esplicative. Assai apprezzabile lo sforzo di chiarezza espositiva, la nitidezza grafica, l’apparato illustrativo curato con amore. Molto meno convincente invece l’impostazione ideolo- gica dei volumetti, come risulta dall’esame dei singoli testi. Roma '70 presenta un’immagine del tutto oleografica del Risorgimento, ferma ai discorsi dei grandi protagonisti ed alla piccola cronaca di sicuro effetto degli as- salti e dei tumulti. Nessun accenno ai problemi profondi dell’Italia ottocentesca, nessuna analisi dell’atteggiamento delle varie classi, nessun accenno al Concilio Vaticano ed alla politica di Pio IX, nessun dubbio neppure sull’unanimità del plebi- scito: è un’Italia veramente deamicisiana quella che esce dal libro, fatta di giovani

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RASSEGNA BIBLIOGRAFICA

Testi scolastici

.... Secondo le disposizioni vigenti. Indagi­ne sui libri di testo della scuola del-l’obbligo, Reggio Emilia, Ufficio Stam­pa del Comune, 1971.

Si tratta del catalogo della mostra sui libri di testo aperta a Reggio Emilia nel febbraio 1971 per iniziativa di un collet­tivo di lavoro promosso dalle amministra­zioni comunali di Reggio Emilia, Correg­gio e Sant’Ilario d’Enza, di cui è già stata data informazione nel notiziario del n. 102 di questa rivista. Il catalogo, curato dal­l’Ufficio stampa del Comune di Reggio Emilia (al quale si può rivolgere chi vi fosse interessato), permette di far cono­scere il lavoro compiuto oltre i limiti ter­ritoriali di una mostra, anche se va detto che tale mostra è stata esposta in varie altre città, tra cui Modena, Bologna, Fer­rara e Milano, con la collaborazione dei sindacati, di gruppi impegnati nella rifor­ma della scuola e di centri democratici locali.

La mostra ed il catalogo (che ne dà un’ampia ed efficace presentazione) pren­dono lo spunto da singole pagine di libri di testo della scuola dell’obbligo, scelti tra quelli in uso nelle scuole di Reggio Emilia, mettendone in evidenza l’ispira­zione classista. Da notare che l’analisi non si sofferma solo sulle pagine in cui viene predicato a chiare lettere l’odio di classe •e l’inferiorità dei poveri, ma identifica anche nelle pagine apparentemente neutre e innocue il veicolo di una formazione al consenso, ad una passività rassegnata che tutto accetta e giustifica.

Segue poi tutto un ventaglio di spunti e indicazioni per una scuola alternativa, in cui il discorso non si irrigidisce in una prospettiva unica, ma rimane aperto. Se­gnaliamo alcune lucide pagine sull’orga­nizzazione capitalistica dell’editoria italia­na, una serie di suggerimenti per una di­dattica più libera, documenti sindacali che mirano a stabilire un collegamento tra le lotte di fabbrica e quelle per il rinnova­mento della scuola ed alcune note infor­mative su quanto è stato fatto intorno ad

alcune scuole della zona per realizzare un controllo di base ed il superamento delle storture più gravi.

In complesso, una mostra quanto mai ricca ed interessante perché legata ad una situazione concreta; ed un catalogo che segnaliamo a quanti sono interessati a cercare nuove idee e nuovi strumenti di lotta nella scuola.

Giorgio Rochat

U m berto M agrini, P aola C a s t e l l in i, G ianfranco C ia b a tti, M aria F ozzer (a cura di), Roma 70, Firenze, Sansoni,1970, pp. 158, L. 1.000; La questione sociale, Firenze, Sansoni, 1971, pp. 190, L. 1.000; La Resistenza, Firenze, Acca­demia, 1970, pp. 158, L. 1.000; Un'esta­te in campagna, riduzione dall’opera di Bonaventura Tecchi, Firenze, Sansoni,1971, pp. 122, L. 1.000.

Questi volumetti di letture per la scuo­la media, curati dalla redazione scolastica dell’editore Sansoni, sono costruiti su una formula viva ed agile, studiata per venire incontro a determinate esigenze di rinno­vamento didattico. Ognuno di essi pre­senta una ventina di brani, di preferenza opera di testimoni diretti e talora di nar­ratori di buon livello, in parte minore tratti da studi o documenti dell’epoca. Questi brani sono inquadrati da brevi pre­sentazioni e corredati da note esplicative. Assai apprezzabile lo sforzo di chiarezza espositiva, la nitidezza grafica, l’apparato illustrativo curato con amore. Molto meno convincente invece l’impostazione ideolo­gica dei volumetti, come risulta dall’esame dei singoli testi.

Roma '70 presenta un’immagine del tutto oleografica del Risorgimento, ferma ai discorsi dei grandi protagonisti ed alla piccola cronaca di sicuro effetto degli as­salti e dei tumulti. Nessun accenno ai problemi profondi dell’Italia ottocentesca, nessuna analisi dell’atteggiamento delle varie classi, nessun accenno al Concilio Vaticano ed alla politica di Pio IX, nessun dubbio neppure sull’unanimità del plebi­scito: è un’Italia veramente deamicisiana quella che esce dal libro, fatta di giovani

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che muoiono sereni con una palla in fron­te, di nobili saggi e disinteressati e di generali ponderati e comprensivi. Non a caso il volumetto chiude con i discorsi del centenario del 20 settembre di Paolo VI e di Saragat, quasi ' a simboleggiare una continuità di fondo.

La questione sociale si presenta come opera apparentemente più spregiudicata per l’inserimento di alcuni brani abbastan­za interessanti, ma in realtà continua la linea elusiva del precedente volumetto. La prima sezione è dedicata ai « poveri », di cui non è fornita alcuna precisa conno­tazione sociologica o di classe; non a caso l’opera più utilizzata è il Cuore di De Amicis! La seconda sezione si occupa dei contadini, fermandosi però all’inizio del secolo e continuando con alcuni brani sul sottoproletariato delle borgate romane, come se oggi le campagne non ponessero più problemi. La terza sezione infine tratta degli operai, ma anche qui solo gli ultimi brani (non tra i più significativi) superano la barriera dell’inizio di secolo. Ne risulta un quadro sbilanciatissimo, che tende a cristallizzare la situazione della fine Ottocento, ma che anche di questa dà un’interpretazione più che moderata. Un brano di Pratolini su uno sciopero è così seguito da un articolo della « Riforma sociale » che spiega i nefasti effetti di una lotta operaia troppo accesa. I casi di mi­seria presentati sono poi così superati (si pensi ai complicati calcoli sul costo della vita espressi in soldi) da non avere più rilevanza oggi; né il volumetto si ferma mai ad analizzare le cause profonde di tanto sfruttamento, sostituendo le respon­sabilità di alcuni imprenditori a quelle di una classe e di un sistema.

Ugualmente deludenti i due volumetti dedicati alla Resistenza, di cui non sono mai analizzate le radici sociali né descritte le autentiche lotte. La riduzione del dia­rio 1943 di Bonaventura Tecchi, Un’estate in campagna, presenta un’esperienza indi­viduale indubbiamente degna e coerente, ma che può dare solo un’idea riduttivi- stica della guerra di liberazione; il Tecchi infatti, per età e per scelta personale, assi­ste agli avvenimenti (la nascita di un em­brionale moto di resistenza nella campa­gna laziale nell’autunno 1943) senza par­teciparvi; il suo arresto è ingiustificato, il trattamento subito denuncia la barbarie tedesca ma ben poco dice sulla più vasta guerra di liberazione. Ben altri diarii par­tigiani abbiamo sul periodo per non dover ritenere non casuale la scelta di questa

vicenda privata di sofferenza e non di lotta, che dà ai giovani un’idea del tutto passiva della Resistenza. E infatti anche il volumetto sulla Resistenza ne privile­gia gli aspetti esteriori oppure quelli pri­vati, presentando vicende di perseguitati oppure liete avventure di guerra e non mai la dura sofferta lotta del partigiano. Anche qui mancano analisi delle cause reali della guerra di liberazione, anche qui manca un inquadramento più vasto e si ha invece un’operazione riduttivistica in chiave di pietà e commozione, che ben poco onora chi seppe prendere le armi e rischiare la vita.

In sostanza, questa collana Sansoni di letture scolastiche appare come rinnovata nella forma, ma non nella sostanza, tena­cemente legata ad una visione edulcorata e tradizionale della storia vicina, che su­sciti rassegnazione e non impegno civile.

Giorgio Rochat

Fabio Fabbri, I moti del 1898. Busta di 20 documenti di grande formato e sche­da storica, Firenze, La Nuova Italia,. 1970, L. 1.800.

Riccardo D i D onato, Fabio Fabbri, Da Vittorio Veneto alla marcia su Roma. Busta di 20 documenti di grande for­mato e scheda storica, Firenze, La Nuo­va Italia, 1970, L. 1.800.

Segnaliamo due nuovi titoli della col­lana « Le fonti della storia », di cui ab­biamo già trattato nel corso dell’inchiesta sui testi per l’insegnamento della storia contemporanea, apparsa sul n. 101 di questa rivista. Particolarmente interessan­te la busta di documenti dedicati ai Moti del 1898, un argomento general­mente trascurato dai testi scolastici, che invece balza con immediatezza dai mani­festi murali raccolti (meno efficaci le pa­gine di giornali, di difficile leggibilità). La scheda storica è molto ampia e detta­gliata, forse più attenta allo svolgersi dei fenomeni che alle loro cause profonde, ma comunque utile per la presentazione di avvenimenti così poco noti e pur vivi e drammatici. In complesso la busta di documenti è tra le migliori della collana perché meglio si presta ad aprire un di­scorso alternativo rispetto all’impostazio­ne tradizionale.

Meno riuscita la busta dedicata al pe­

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riodo Da Vittorio Veneto alla marcia su Roma. Si tratta infatti di anni così inten­si, noti e studiati, che è impossibile farli rientrare nei limiti di una busta di venti documenti. Avviene così che i documenti raccolti siano quasi tutti del massimo in­teresse, ma troppo dispersi per consentire un discorso continuo; né la scheda può avere qui una funzione di guida, perché il periodo é talmente noto da non per­mettere una mediazione nuova. Sarebbe stato meglio, ci sembra, concentrare l’at­tenzione su uno solo dei filoni: non a caso i documenti più utili sono quelli che si riferiscono al movimento fascista, assai più numerosi degli altri. Se fosse stato possibile dedicare all’avvento del fascismo l’intera busta, il materiale sarebbe risul­tato più completo ed articolato, mentre invece gli accenni ai socialisti ed ai cat­tolici sono attualmente insufficienti. La busta non permette perciò un discorso autonomo, ma offre delle belle illustrazioni al testo di storia tradizionale: è già qual­cosa, ma si perde una parte delle possi­bilità implicite nella formula della collana di fonti in questione.

Giorgio Rochat

Aldo A. Mola, L’economia italiana dopo l'unità. Finanza, accumulazione del ca­pitale, industria, Torino, Paravia, 1971, pp. 252, L. 1.600.

Il volume affronta coraggiosamente un settore della storia nazionale sempre tra­scurato da manuali ed insegnanti, ossia le vicende della finanza italiana dopo l’unità (organizzazione de! sistema bancario, cir­colazione monetaria, tasse e dogane) e dell’industrializzazione (formazione del ca­pitale, caratteristiche del ceto imprendito­riale, sindacati, guerra mondiale e avvento del fascismo, creazione dellTRI), arrivan­do fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. L’autore svolge questi argomen­ti con una formula insolita, sviluppando cioè un suo testo espositivo in cui sono inseriti numerosi brani di contemporanei e studiosi; il risultato è abbastanza scor­revole, anche se forse sarebbe stata op­portuna una maggiore distinzione tra gli interventi dell’autore e quelli altrui. D’al­tra parte proprio l’argomento del tutto in­solito richiedeva una formula nuova, tale da incoraggiare il lettore. Un giudizio pre­ciso potrà venire dall’uso quotidiano nella

scuola, che l’autore ha cercato di facilitare anche con tracce di ricerche autonome di un certo impegno. Ci auguriamo che questo esperimento possa avere un suc­cesso indiscutibile, perché la nostra cul­tura e la nostra scuola hanno gran bisogno di un approfondimento dei temi affrontati con tanto amore nel volume.

G. Ro.

Mario Mencarelli, Uomini e civiltà. Cor­so di storia e di educazione civica perla scuola media, vol. I l i , Brescia, LaScuola, 1971 (1* ed. 1970), pp. 392,L. 2.300.

Questo recente volume di storia per la media inferiore, edito da una nota casa editrice cattolica, si contraddistingue per uno sforzo di rinnovamento del tutto esteriore. Abbondano infatti illustrazioni e riproduzioni di documenti, colori e pre­ziosismi tipografici, e la tradizionale struttura del capitolo è sostituita da un discorso spezzettato tra molteplici « sche­de di osservazione e di ricerca », « itine­rari di ricerca », « racconto storico » e simili, con un effetto dispersivo che non ha giustificazioni didattiche, ma é sotto- lineato dall’ermetismo del linguaggio. Ec­co alcuni esempi di titoli di capitolo: « L’Europa al principio del secolo è l’epi­centro del mondo », « Le condizioni poli­tiche sono distinte da contraddizioni », « La prima guerra mondiale é la conse­guenza dei contrasti e delle contraddizio­ni »; non é più felice il testo vero e proprio, che registra frasi come questa: « particolarmente acre il pangermanesimo, che accreditava l’idea della superiorità del­la razza germanica » (p. 252). Ci doman­diamo che cosa possa capirci un ragazzo di 13-14 anni.

Il senso generale del discorso é però molto chiaro. Il capitolo sul fascismo si apre con un grande ritratto di Mussolini, prosegue con una pagina del duce e con il programma 1921 del partito (contrap­puntati da tre brevi brani sulle violenze fasciste, in corpo minore) e presenta una serie di illustrazioni e vignette ridicole per chi abbia già una capacità critica, non però per un ragazzo cui si offre un commento del seguente tenore: « [...] Essendo que­ste le condizioni interne del paese, é evi­dente che anche il prestigio internazionale dell’Italia ne soffriva. Il quadro non era

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dunque confortante. L’attesa di un gover­no forte, che ristabilisse l’ordine, non era ormai soltanto tacita. Di questo stato d’a­nimo si avvalse Benito Mussolini, che il 23 marzo 1919 aveva fondato a Milano i fasci di combattimento, composti da re­duci, dagli scontenti, da chiunque credes­se che occorreva agire anche al di sopra e contro le leggi per ristabilire l’ordine [...] » (p. 283). Dopo questa esplicita esaltazione della violenza che infrange le leggi per motivi superiori, non meraviglie­rà il pieno consenso espresso per le rea­lizzazioni del regime, dalla proibizione dello sciopero alla campagna demografica (inclusa esplicitamente tra le provvidenze che migliorarono le condizioni della vita della popolazione).

È inutile prolungare oltre il discorso. Ricordiamo ancora la predilezione che il volume ha per i documenti diplomatici (due pagine fitte di Patti lateranensi, con tre righe di commento anodino), anche se per il loro linguaggio e l’astratto for­malismo non sembrano spesso capaci di raggiungere i ragazzi (hanno invece il me­rito di passare al di sopra dei più scot­tanti problemi quotidiani). Nessuna con­danna dell’aggressione fascista all’Etiopia, esaltata in un discorso di Mussolini. Mol­te belle fotografie sulla seconda guerra mondiale, senza un commento critico di senso definito; sei righe sulla Resistenza, dopo una condanna generica della amara guerra civile (p. 312). Poche pagine sugli avvenimenti post-1945, ancora di docu­menti ufficiali e di fotografie non com­mentate; la storia italiana si ferma al 1946. Un discorso di Paolo VI come chiu­sura.

In definitiva, il testo si presenta del tutto inadeguato persino rispetto ai pro­grammi ministeriali, non esprime una li­nea didattica ma adotta un linguaggio astruso ed una struttura interna disper­siva, che guida ad una visione superfi­ciale della realtà, inspirata ad un conserva­torismo cattolico filofascista assai penoso.

Donatella Gay

G abriele D e Rosa, Storia contempora­nea, Bergamo, Minerva Italica, 1971, pp. 509, lire 2.950.

Si tratta del terzo volume di un ma­nuale di storia per le scuole superiori ap­pena apparso sul mercato, che dedica

circa 160 pagine su 470 di testo al pe­riodo 1900-1945 e 35 pagine al quarto di secolo successivo. Il volume ha un’impo­stazione classica: capitoli espositivi senza letture, un normale apparato di cartine ed illustrazioni, una composizione tipo­grafica regolare; un grosso neo è però costituito dai « consigli bibliografici » che seguono ogni capitolo, in cui sono riuniti alla rinfusa titoli di libri quanto mai di­versi per argomento e valore, senza una riga di commento. Anche il discorso, sempre di alto livello, segue un’imposta­zione tradizionale, in cui inserisce aperture interessanti. Il De Rosa infatti mette in giusto rilievo la parte delle correnti mo­derate nelle vicende italiane e soprattutto insiste sul ruolo delle forze cattoliche, di cui segue l’evoluzione con molta cura e indiscussa competenza. In molti punti ne deriva un ridimensionamento dell’in­terpretazione tradizionale; per la prima guerra mondiale, ad esempio, invece di consenso entusiastico dei combattenti si parla della difficoltà che i soldati incon­travano nell’adeguarsi alla propaganda uf­ficiale. E le vicende del secondo dopo­guerra sono viste in modo assai più equi­librato che in altri manuali, in cui l’atlan­tismo è ancora nutrito di macchartismo.

La revisione dell’interpretazione libe­rale classica non giunge però fino al pun­to da metterne in dubbio l’impostazione generale. L’analisi delle cause della prima guerra mondiale, ad esempio, è ancora li­mitata ai fattori diplomatico-politici di vertice, il concetto di imperialismo non ricorre neppure marginalmente ed invece dei fattori economici sono sottolineati gli aspetti casuali e le responsabilità perso­nali; « in sostanza, conclude il De Rosa, gli uomini di governo che condussero l’Europa alla guerra non riuscirono più a guidare e dominare quell’apparato e quel sistema che essi stessi avevano creato e da cui venivano ora travolti » (p. 302). Le conseguenze del conflitto tuttavia non furono irreparabili, poiché « la prima guer­ra mondiale non coinvolse le radici della civiltà europea, non intaccò il nobile ed alto retaggio della fede cristiana, del pen­siero filosofico europeo moderno, da Kant ad Hegel a Kierkegaard » (p. 395). Non si spiegano perciò le origini del nazismo, cui pure sono addebitate tutte le respon­sabilità dello scatenamento del secondo conflitto mondiale, senza approfondimen­to dei problemi economici di fondo; nè del resto è adeguatamente sviluppata la

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sottolineatura del carattere ideologico del­la guerra mondiale. La preminenza rico­nosciuta ai fattori ideologici rimane so­stanzialmente una dichiarazione di prin­cipio; il superamento dell’antisovietismo più cieco appare dovuto più al riconosci­mento della ineluttabilità della coesi­stenza che ad uno sforzo di compren­sione verso una realtà diversa. Caratte­ristico il commento del De Rosa alla guerra di Corea: « il prezzo pagato que­sta volta alla sfida ideologica fra mondo comunista e mondo occidentale fu altis­simo: due milioni di morti con il corre­do di devastazioni, distruzioni, malattie e miserie tra le infelici popolazioni co­reane » (p. 440). Una valutazione analo­ga è data della guerra del Vietnam (p. 455).

Questi ultimi giudizi possono essere influenzati dal fatto che il De Rosa, se­guendo in questo una delle più radicate tradizioni della scuola italiana, non ha alcun interesse per i continenti extraeuro­pei e tanto meno per la lotta contro il colonialismo. Anche la storia europea, del resto, ha una trattazione assai limitata: solo la Germania nazista ha diritto ad uno spazio adeguato, mentre le vicende degli altri stati europei tra le due guerre (o peggio ancora dopo il 1945) sono liquidate in poche righe. Ne risulta che i due capitoli che abbracciano il periodo dal 1945 al Vaticano II sono disorganici e superficiali, fitti di notizie non appro­fondite nè collegate in un quadro più vasto.

Il limite più grave del manuale, anche da un punto di vista didattico, rimane tuttavia l’ambiguità della posizione ideo­logica offerta ai giovani. Anche chi non accetta l’interpretazione liberale classica non può non riconoscerle una tensione ideale ed una coerenza interna che non si ritrova nel De Rosa, che ne sacrifica troppi punti oggi difficilmente accettabili per salvare invece la sostanza moderata di questa interpretazione. Abbiamo detto, a titolo d’esempio, che il manuale parla della difficoltà dei soldati della prima guerra mondiale ad accettare la propa­ganda ufficiale; non lo fa però ricono­scendo a costoro una dignità di uomini ed un significato politico al loro rifiuto, ma riprendendo le parole di padre Gemel­li (psicologo ufficiale di Cadorna): « Si tratta di uomini umili, che non hanno studiato, che non hanno pur certo una coscienza dei destini della patria [...].

Il soldato pensa a sè, alla sua famiglia, alla sua casa; non va oltre la linea dei suoi interessi » (p. 311). Il risultato è che l’interpretazione patriottica della pri­ma guerra mondiale viene smussata, ma non sostituita; perde il valore ideale che poteva avere, per lasciare il posto ad una accettazione della realtà troppo difficile per l’iniziativa degli umili. Il giovane non si trova così dinanzi ad una inter­pretazione netta, che esiga da lui accet­tazione o rifiuto e ne stimoli le capacità critiche, ma viene condotto ad accettare l’ineluttabilità della storia, la necessità di una sua rassegnazione senza ribellioni ideologiche che non pagano. Il richiamo alle tradizioni dell’Occidente cristiano copre così un invito al moderatismo po­litico che è negativo perché implicito ed insinuante, tanto più pericoloso dato il livello del discorso del De Rosa.

Concludiamo segnalando due errori: non fu Conrad a comandare l’offensiva austro-tedesca di Caporetto (p. 324); e Orlando e Sonnino tornarono nel maggio 1919 ai lavori della conferenza di Parigi, che avevano abbandonato pochi giorni prima (p. 329).

Giorgio Rochat

Fascismo, antifascismo e resistenza

D iana Masera, Langa partigiana ’43-45,Parma, Guanda 1971, pp. XIII-315,L. 4.000.

Sono molte le ragioni che giustificano una ricostruzione complessiva del movi­mento di resistenza nelle Langhe: il pre­dominio della piccola proprietà contadina, che fa della zona una sacca di sottosvi­luppo e di arretratezza politica; la con­fluenza e difficile coesistenza di garibal­dini, autonomi e GL; il largo carattere di territorio partigiano assunto dalla zona dall’estate 1944 sino, si può dire, alla li­berazione. Dinanzi ad una trama così com­plessa, l’A. ha scelto anzitutto la strada della ricostruzione minuta e attenta della episodica politico-militare. Essa scandisce i tempi di sviluppo del movimento, docu­menta gli inizi incerti, il lento costituirsi

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dei primi nuclei organici (nella tarda pri­mavera del 1944, in analogia col vicino Astigiano), la fluidità dei piani operativi, la diversa strutturazione interna delle for­mazioni garibaldine e autonome (diversità che si riflette fortemente sui rapporti con le popolazioni dei comuni liberati), la presa e la perdita di Alba (la pagina certo più conosciuta e il momento centrale dei contrasti tra Mauri e i quadri comunisti). A corredo di questo profilo, la Masera reca una discreta mole di materiale docu­mentario — dalle Carte Portonero alle Carte Fratino, quest’ultime relative alle vicende del presidio fascista di Alba — e, soprattutto, molte testimonianze rac­colte tra i protagonisti: un lungo elenco di colpi di mano e di incontri clandestini non trova altro supporto che la memo­ria degli attori e dei testimoni. Motivo di cautela, senza dubbio, ma anche dimostra­zione che molti episodi non sono altri­menti recuperabili e che qualsiasi tenta­tivo di monografia locale non può prescin­dere da questa indagine sul terreno. Per­ciò il lavoro di ricostruzione dell’A. acqui­sta significato anche sotto il profilo me­todologico e sottolinea l’impegno profuso.

Al di là e al di sotto di questa trama viene poi articolandosi un discorso di più ampio respiro, una ricerca sugli interro­gativi che la catena dei piccoli e grandi avvenimenti impone. Chi sono i promotori delle bande, quali le loro matrici politi­che, come reagisce l’ambiente sociale, la struttura economica? Quale ruolo giocano i fascisti? Non occorre certo ripetere che il futuro della storiografia sulla resistenza è largamente ancorato alla capacità di af­frontare simili problemi, di dar loro una risposta non occasionale, ma calata nella realtà storica dell’Italia contemporanea. Ma è altrettanto evidente che questo tipo di scelta provoca non tanto e non soltanto un infittirsi e un dilatarsi della materia, bensì una diversa dislocazione dell’osser­vatorio da cui lo studioso si pone. Esami­nare infatti i rapporti tra guerriglia e, per usare un termine volutamente gene­rico, popolazione civile può portare a ri­sultati producenti solo a patto che sia puntualmente definita la natura di en­trambi gli interlocutori, il terreno su cui nasce 1’incontro — o lo scontro. Ora, nel libro della Masera, mentre il profilo delle bande è sufficientemente nitido, l’ambien­te sociale agisce solo di riflesso, per i contraccolpi che esso manifesta o mostra di avvertire di fronte all’estendersi della guerriglia. Giustamente l’A. sottolinea il

larghissimo predominio della piccola pro­prietà coltivatrice, la schiacciante influen­za del clero, l’assenza di ogni radicata tradizione di lotte politiche e sociali, di ogni esperienza di autogoverno locale. Le Langhe stanno qui ad esemplificare un prototipo di mondo agricolo rimasto ai margini dello sviluppo del primo Nove­cento e ulteriormente incapsulato nel prò­prio ritardo dalle strutture dello stato fa­scista. La lettura dei primi capitoli tra­duce chiaramente gli effetti di questo ri­tardo. Di fronte ai paesi della collina, scossi dalle conseguenze dell’economia di guerra (ammassi, calmieri etc.), sta il ti­mido, velleitario, moralistico antifascismo di ristretti ambienti intellettuali del capo­luogo: qualche professore di liceo, qual­che vecchio esponente dei partiti prefa­scisti, egualmente incerti sulle strade da battere, sulle scelte da compiere (l’osser­vazione, si intende, non riguarda le sin­gole persone, ma la loro capacità di agire come gruppo omogeneo). Da ciò anche il carattere politicamente non delineato del­le prime bande. L’eccezione (alcuni operai liguri che organizzano il movimento nel­l’Alta Langa meridionale) conferma la staticità del quadro, l’immobilismo, si direbbe, delle sue linee di fondo. Ma, appunto, quali sono queste linee di fon­do? In tutto il territorio, documenta la Masera. i nazifascisti agiranno di rimessa, quando il movimento comincerà a pren­dere corpo. Perciò nelle settimane che corrono dopo l’8 settembre le Langhe, come molte altre zone eccentriche rispet­to alle città industriali e alle grandi vie di comunicazione, sono di fatto territorio franco, sottratte ad ogni autorità effettiva (ma il podestà di Alba non è stato rimosso né dal 25 luglio né dall’armistizio), ripie­gate su se stesse. Prova ne sia che i primi nuclei partigiani, aggiunge la Masera, sono guardati con diffidenza, con sospetto, an­che con timore. Solo più tardi, nella piena estate del ’44, il mondo contadino si aprirà a forme di limitata collaborazione. Su questa collaborazione torneremo fra noco; quel che importa qui osservare è che il vuoto dei primi mesi risulta dalla ricostruzione solo in negativo, vale a dire come assenza di quanto viene assunto ad elemento qualificante della situazione (l’in­tesa contadini-partigiani), destinato a pe­sare sull’immediato così come sulle pro­spettive del dopo liberazione. Eppure la motivazione dell’avvicinamento successivo non può fare a meno di questa premessa apparentemente sterile, almeno nel senso

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che essa entra come parte integrante delle varie ipotesi interpretative. Un primo fat­tore si ricava proprio dalla constatata as­senza di autorità effettive. I partigiani, a poco a poco, prendono piede stabilmente nella zona e diventano un interlocutore comunque inevitabile. In secondo luogo, da giugno-luglio, i primi tentativi di re­golamentare la vita economica (il canale — sottolinea opportunamente la Masera —- attraverso il quale si apre il dialogo tra produttori e comandi partigiani) inva­dono inevitabilmente il terreno ammini­strativo, finiscono per incidere sulla vita quotidiana dei paesi. Inoltre, il fenomeno dell’afflusso di nuove reclute al movimen­to, egualmente dovuto a maggiori capacità di proselitismo e all’evasione dai bandi nazifascisti, stabilisce nuovi, espliciti le­gami. Sono in gran parte, nota ancora la Masera, giovani del posto, costretti ora a operare una scelta che avevano prima po­tuto rimandare. Se a questi aggiungiamo gli elementi esterni, la congiuntura belli­ca, le aspettative di imminente libera­zione, mi pare si possa ragionevolmente attribuire a quella collaborazione cui s’è accennato non tanto il carattere di sbocco di una precedente situazione di stallo, di frutto di una reciproca, parallela, per quanto ancora insufficiente, lievitazione politica, quanto piuttosto la veste di ine­vitabile coabitazione tra due entità che sino ad allora avevano potuto, non dirò ignorarsi, ma certo limitare i contatti a ben determinate occasioni. Una riprova di questa ipotesi la si può a mio avviso trovare nell’attività delle Giunte popolari comunali, volute dai garibaldini, mentre gli autonomi si limitarono a gestire in proprio le questioni annonarie e ammini­strative mediante le intendenze partigiane. Queste Giunte, infatti, salvo casi spora­dici, altro non fanno che cercare di met­tere ordine nella distribuzione delle ri­sorse economiche e per garantire alle for­mazioni la sicurezza dei rifornimenti e per salvaguardare la popolazione da requisi­zioni indiscriminate. Si trattava di un passo necessario, e certo uno dei meriti dei garibaldini è stato quello di averlo compiuto con chiarezza e tenacia. Ma appena si esce dalla ordinaria ammini­strazione, sorge un problema che da solo potrebbe, se messo a fuoco, gettare non poca luce sulle strutture della vita locale. Al momento della vendemmia il contrasto tra i piccoli produttori e i commercianti che monopolizzano lo sfruttamento del prodotto esplode in forma abbastanza

aspra e le soluzioni cui si giunge (vedi l’esempio della GPC di Monforte, pp. 81- 83) rappresentano solo degli instabili com­promessi. Cosi prende corpo uno degli elementi dialettici centrali dell’economia della zona e fa sorgere in chi legge il desiderio di una più approfondita analisi sul carattere del contrasto, sul suo atteg­giarsi negli anni della guerra, sui riflessi che esso esercita sul tessuto sociale dei comuni interessati. Volendo riassumere in una osservazione complessiva la riserva che il libro suscita, diremmo che questo mondo contadino tanto spesso e a ragione chiamato in causa per spiegare l’evolversi della guerriglia partigiana resta alla fine contrassegnato da connotati incerti, sfo­cati. Quel che esso potrebbe dirci, e spie­garci, rimane tra le pieghe del discorso e viene così in primo piano, come unico asse interpretativo, la discriminante politi­ca, l’alternativa fascismo-antifascismo, che proprio per la situazione di partenza della zona finisce per risultare estrinseca e co­me sovrapposta alla situazione. È un mondo contadino indifferenziato, da cui pare assente ogni contesa per la supre­mazia tra le diverse categorie (in questo senso una indagine sui podestà dei comu­ni della zona, così come sulla presenza dell’economia delle Langhe sul mercato sia ufficiale che libero appare indispensabile), insomma materia inerte. Del resto questa lacuna non manca di ripercuotersi sul­l’analisi delle formazioni. Il diverso at­teggiarsi di garibaldini e autonomi di fronte alla popolazione, che é, in sostan­za, il punto focale della diversa rispet­tiva, interpretazione dei compiti della resistenza, viene sì illustrato e chiarito, ma non verificato per i concreti effetti che determina. Quando Mauri si impadro­nisce di Alba e ricusa ogni modificazione dell’assetto politico-amministrativo esisten­te, egli compie in realtà una scelta che, per quanto è dato di capire, va incontro al desiderio di neutralità dei ceti più ricchi e più influenti della città. È un dato di fatto che la gravità della situazione mili­tare non basta a spiegare e il cui signifi­cato sarebbe balzato ancor più evidente da una disamina dei rapporti tra autonomi e borghesia locale, così come, altrove, l’A. dà rilievo al tentativo dei garibaldini di farsi interpreti delle categorie agricole più indifese.

Va da sé che molte delle osservazioni svolte, pur prendendo spunto da questo volume, riflettono la condizione insoddi­sfacente degli studi sul 1943-45. Il libro

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della Masera rappresenta peraltro un con­tributo di innegabile utilità, sia perché mette ordine nella aggrovigliata catena dei fatti politici e militari, sia perché avverte spesso la necessità di un amplia­mento dell’orizzonte. È proprio il limitato approfondimento di questa esigenza a far nascere le riserve cui ho accennato. Non a caso, la ricerca si chiude sulla constata­zione di come i fermenti dei venti mesi di guerra partigiana siano andati rapida­mente dispersi, senza che la vita locale ricevesse un reale impulso a risalire la china della propria degradazione sociale e politica. Di qui il discorso può riprendere ed allargarsi e il libro della Masera è un implicito invito a farlo.

Massimo Legnani

La resistenza di Roma. 1943-1944, a cura di A rmando R avaglioli e di G iorgio Ca pu to , Roma, Comitato romano per la celebrazione del XXV della resisten­za, 1970, pp. 197, sip.

L’opera si aggiunge a tutte le altre pub­blicazioni uscite per celebrare gli anniver­sari della resistenza. Si è creata al riguar­do una vera e propria letteratura, di va­lore secondario e marginale, che merita tuttavia di essere analizzata per rintrac­ciare alcune note positive, degne d’essere poste in rilievo. È vero infatti che in queste opere sono forse condensate tutte le false idee espresse sul nostro movimen­to resistenziale. È vero però anche che, proprio per il tono che deve caratteriz­zarle e il taglio particolare che devono avere, esse si prestano a costituire, quan­do siano costruite con cura e serietà, ol­tre che degli efficaci mezzi di divulga­zione, degli utili strumenti di rapida con­sultazione per lo studioso. Infatti carat­teristica principale di queste pubblicazio­ni sembra essere l’attenzione all’episodio, alla cronaca, alla figura del resistente, al documento o all’articolo relativi a fatti particolari della lotta partigiana. Con il passare del tempo, inoltre, ai primi ten­tativi di sintesi, propri degli anni succes­sivi al ’45, che cadevano nella deprecabile esaltazione retorica — e per questo at­tualmente privi d’interesse —, sono suc­ceduti testi che tendono a conseguire il duplice scopo di celebrare i valori della

resistenza e di fornire nello stesso tempo' al lettore e al ricercatore un pratico vo­lume fitto di notizie ben documentate.

Tale ci sembra il risultato ottenuto dai curatori di questa pubblicazione sulla re­sistenza romana. E ci riferiamo in parti­colare agli scritti di Giorgio Caputo [La resistenza romana) ed Enzo Piscitelli (La stampa clandestina romana d’opposizione), nei quali gli autori si sono preoccupati di riprendere e riassumere in forma chia­ra tutti i temi già da loro trattati nelle opere precedenti, per dare un quadro accanto al saggio di Caputo, nel quale si è manifestato a Roma il fenomeno re­sistenziale. Certo si può criticare la strut­tura dell’opera, cui avrebbe giovato un numero più limitato di collaboratori e soprattutto una maggiore organicità nella distribuzione degli articoli. Ad esempio, accanto al saggio di Caputo, nel quale egli prende in esame non solo l’organiz­zazione del movimento resistenziale, ma anche la realtà nella quale esso si inse­risce (Roma città aperta e l’occupazione tedesca; i rapporti fra gli occupanti, i fa­scisti e la popolazione; « la vita della città » ecc.), figurano articoli che rappre­sentano sostanzialmente una ripetizione piuttosto che un ampliamento degli stes­si argomenti (v. ad esempio II fascismo repubblicano a Roma di Piscitelli).

Tuttavia, nel valutare la riuscita del­l’iniziativa del comitato romano, non è tanto nel contenuto dei singoli pezzi che deve vedersi l’esito più apprezzabile del lavoro svolto, quanto nel fatto di avere in un unico volume raggruppati e propo­sti tutti i problemi — e le relative con­clusioni — che sono stati finora trattati dalla storiografia sulla resistenza romana. Così, mentre giudichiamo decisamente ne­gativo l’articolo di Alessandrini (Pio X II e la difesa di Roma), nel quale Ì’A. sem­bra ignorare tutto ciò che è stato scritto — anche nella pubblicazione in esame — sulla posizione ambigua del pontefice, ri­teniamo assai utili la bibliografia stesa da Caputo (benché il redattore non ab­bia citato gli articoli e i saggi apparsi sui giornali e sulle riviste), la cronologia, la raccolta dei bandi tedeschi e fascisti e gli elenchi dei componenti il CLN cen­trale e romano, la Giunta militare cen­trale e i GAP. L’opera infine è corre­data di un’ampia documentazione foto­grafica.

Gaetano Grassi

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D omenico Pastina, Pagine sparse, rac­colte dal fratello Nicola, con una prefa­zione di Fabrizio Canfora, Bari, ed. Adriatica, 1971, pp. 188, lire 2000.

Avvocato pugliese venuto all’antifasci- smo dopo una milizia giovanile cattolica, Domenico Pastina fu uno dei promotori della nascita del PdA nell’Italia meridio­nale ed uno dei protagonisti del biennio 1943-45. Insieme a Vincenzo Calace egli curò la pubblicazione del primo foglio azionista, L’Italia libera, ancora colpito dalla censura badogliana, e poi collaborò intensamente all’Italia del popolo, di cui fu direttore il fratello Nicola Pastina. Nel­la lotta politica del periodo, Domenico Pàstina portò un fiero repubblicanesimo ed un’intransigente volontà di rinnova­mento; insieme a Fabrizio Canfora fu au­tore della mozione presentata da azionisti, socialisti e comunisti al Congresso del CLN di Bari, alla fine del gennaio 1944, mozione poi addolcita dalle destre.

Il testo della mozione e gli articoli del 1943-45, insieme a quelli posteriori alla Liberazione, sono ora raccolti in un’impec­cabile edizione dal fratello Nicola, con una prefazione di Fabrizio Canfora assai pre­ziosa di notizie sull’antifascismo e sul- l’azionismo pugliese.

G. Ro

Umberto D inelli, Rosso sulla laguna. La guerra parmigiana in Venezia e pro­vincia, presentazione di Sandro Pertini, Udine, Del Bianco editore, 1970, pp. 171, lire 1.500.

Nell’avvertenza iniziale l’a. scrive che mancano studi specifici (salvo i lavori di Gavagnin, Gaddi e Tessari) che « possano servire come precedenti » per tracciare una storia della resistenza nella provincia di Venezia. Tale osservazione non ci trova consenzienti, perché riteniamo che un’ope­ra come quella di Tessari sulle origini dell’organizzazione militare nel Veneto possa considerarsi, proprio per i limiti ad essa impliciti, un punto di partenza ideale per avviare un nuovo discorso sul fenomeno resistenziale nella regione, sia pur limitandolo in un primo momento alla provincia di Venezia.

Questa si presenta come un campo di indagine abbastanza complesso, data la struttura economico-sociale che la con­

traddistingue: nel 1940, nota Dinelli a p. 146, « erano esigue le unità lavorative impegnate nel commercio e nelle nascen­ti imprese industriali di Porto Marghera. Il grosso della popolazione attiva della provincia era dedito all’agricoltura ». Co­sicché lo studio sulla lotta di liberazione in questa zona deve distinguere fra la resistenza cittadina, nella quale predo­mina « la componente borghese dell’an­tifascismo » (p. 10), quella operaia (che ci sembra ancora tutta da scoprire nella sua effettiva portata) e, in modo rilevan­te, quella contadina dell’entroterra vene­ziano, che presenta sempre vivo il pro­blema della reale partecipazione popolare al movimento clandestino.

Alla lamentata mancanza di studi spe­cifici su Venezia l’a. scrive di aver sup­plito mediante un lavoro intenso di ricer­ca con la « raccolta paziente e faticosa delle notizie, dei fatti e dei documenti condotta presso una delle fonti più im­portanti, cioè i testimoni ed i protago­nisti delle vicende, gli amici e i compagni di lotta dei caduti » (p. 5). In tal modo egli « spera di essere riuscito ad avvici­narsi alla comprensione, non sentimentale o emotiva, ma storica » ( ibid. ) della resi­stenza veneziana, superando ciò che & stato scritto finora sul tema e attingendo direttamente a nuove fonti documentarie e testimonianze orali.

Ciò non si rileva dalla lettura dell’ope­ra. Ci sembra infatti che l’unico risultato degno di nota raggiunto da Dinelli sia di natura puramente commemorativa. Egli ricorda in pagine fitte di date e di nomi e in una cronaca che si sminuzza in mille particolari i caduti della resistenza. Il ri­sultato, pur apprezzabile sul piano uma­no, finisce inevitabilmente per discostarsi da ciò che l’a. si propone all’inizio del­l’opera, per cadere di frequente nell’epi­sodico e nell’agiografico. Le notizie in­fatti si susseguono senza un ordine pre­ciso: manca da parte dell’a. lo sforzo di inserirle nel discorso sulla funzione che svolse il movimento clandestino venezia­no nel quadro della lotta di liberazione italiana e sulla rilevanza che esso ebbe — o meno — nel panorama regionale (ricerca questa di notevole interesse, da­ta l’apparente posizione secondaria di Ve­nezia rispetto a Padova e Vicenza, vale a dire a quelli che furono i centri della resistenza veneta, l’uno per quanto ri­guarda l’organizzazione politico-militare, l’altro il movimento operaio).

106 Rassegna bibliografica

I documenti infine sono scarsi (e non sempre inediti, come per esempio parte di quelli che compaiono nella rubrica fi­nale del libro insieme con le fotografie) e consistono essenzialmente, secondo lo spirito dell’opera, in biglietti dal carcere e lettere dei caduti.

Gaetano Grassi

Ruggero Zangrandi, L’Italia tradita. 8settembre 1943, Milano, Mursia, 1971,pp. 518, lire 4.500.

Già apparsa nel 1967, questa ristampa ampliata, arricchita, aggiornata riprende il tema e la tesi cari a Zangrandi, quelli che lo hanno fatto conoscere così vigoro­so inquisitore e polemista nei confronti della marea dei memorialisti, militari so­prattutto e logorroici, che in questi anni hanno continuato la loro opera, univoca e difensiva, di seppellimento e intorbi- dimento della verità sul drammatico ca­pitolo dell’8 settembre.

Zangrandi ha in sostanza ripreso le fila di 1943: 25 luglio-8 settembre, si è riagganciato a quel discorso per portare nuovi documenti, nuove comprove alla sua tesi che fra Badoglio, stato maggiore italiano, comando supremo tedesco in Italia e Kesselring venne concordata la fuga del re e dei vari generali, capo del governo in testa, in cambio della non promulgazione dell’ordine di resistenza alle forze armate dopo l’armistizio. Così l’esercito cadde, si dissolse, venne fatto prigioniero con il bottino delle armi e le forze armate tedesche ebbero mano li­bera sul territorio italiano, se si escludo­no la piccola fetta del sud e la Sicilia già cadute. A Badoglio premeva la strada aperta per la fuga sua e del re, tramuta­tasi in una fuga di fantasmi tragicomici, impauriti e infreddoliti, da Roma ad Ortona.

In questa Italia tradita, Zangrandi rin­focola la polemica, favorito dal fatto che fra l’edizione feltrinelliana e questa di Mursia del medesimo libro, si era inse­rito quel processo di Varese intentatogli da un inquisitore dell’Alto commissa­riato per le sanzioni contro il fascismo, che si concluse con un nulla di fatto, cioè con il ritiro della querela, ma che ottenne un obiettivo frustrato per più di vent’anni, quello di farci finalmente conoscere le carte della commissione di

inchiesta governativa sulla cosiddetta man­cata difesa di Roma, l’organismo presie­duto da Mario Palermo, sottosegretario alla guerra, comunista, che, stranamente, e ancor oggi inspiegabilmente, accettò al suo fianco i generali Ago e Amantea, già dell’esercito di Salò comandato da Ora­ziani e agli ordini dei comandi nazisti. In questi documenti, venuti alla luce solo perché un tribunale ingiunse che doves­sero essere tolti dagli archivi, Zangrandi ha creduto di scoprire nuove riprove e addenda alla propria tesi.

Tuttavia, come nel caso del volume precedente, l’autore non può che conti­nuare la sua serratissima indagine de­duttiva, procedendo alla ricerca di mini­mi indizi che, collegati, portano qualche conferma alla tesi centrale, ma senza decretare inequivocabilmente la fondatez­za della tesi stessa sul piano storico, senza mai mettere nelle mani del lettore l’elemento storico insospettabile che quel­la fuga e quel dissolvimento furono il frutto effettivo di una garanzia e di una trattativa intercorsa allora e, a quanto si sostiene, ad Acqui, fra Ambrosio, duran­te quel suo misterioso viaggio della vigi­lia della proclamazione dell’armistizio, e un emissario di Kesselring e non, invece, la risultante di due comportamenti diffe­renti e contrari che per una serie di coincidenze (ma forse furono davvero troppe le casualità) corsero paralleli fino alla fine. Un parallelismo che non si ri­scontrò invece nel destino e nella sorte dell’esercito italiano in generale e dei singoli soldati in particolare, che finirono per pagare ai tedeschi il conto della fuga dei personaggi reali e del loro grottesco seguito.

La carica polemica di Zangrandi ha tratto nuove esche dalla lettura dei do­cumenti della commissione sulla man­cata difesa di Roma e le deduzioni o intuizioni di prima sono venute via via caricandosi di nuovi elementi, di nuovi sospetti, di nuovi probanti capi di accu­sa, non solo sui protagonisti del tradi­mento dell’8 settembre, ma anche sulle stranezze di quella commissione d’inchie­sta. Si vedano, per esempio, tutti i ri­lievi che Zangrandi muove al comporta­mento dell’allora sottosegretario Palermo non soltanto in merito alla condotta della commissione da lui presieduta, ma anche per tutto quello che ne seguì: i giudizi contenuti nelle lettere che accompagnano la relazione della commissione, che fan­

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no a pugni con i risultati, dal momento che giustamente Zangrandi definisce « mi­stificatorie » tali conclusioni. Zangrandi afferma che la commissione, come risulta dalle lettere che Palermo fornì all’Unità solo alla vigilia della pubblicazione dei documenti della commissione, comprese benissimo che le responsabilità doveva­no quantomeno allargarsi ad Ambrosio e a Badoglio, ma alla fine chiese poi soltanto l’incriminazione di Carboni e Roatta. E qui, intorno a questo nodo, si sono poi andate incrociando molte altre responsabilità e complicità che hanno por­tato alla coltre di silenzio, determinata da scelte politiche di vertice, che esclusero automaticamente i responsabili dalla schie­ra di quelli che avrebbero dovuto essere perseguiti insieme a tanti altri.

L’opera di difesa, con tutta una rete di complicità, di questi responsabili, la ra­gnatela costituita dalle corde di salvatag­gio lanciate da troppe parti finì per in­viluppare anche coloro che erano rimasti fuori dalla tela delle responsabilità dello sfacelo dell’8 settembre. È questo, in so­stanza, il sottofondo del discorso di Zan­grandi, un discorso davanti al quale trop­pi, persino amici, non hanno saputo na­scondere un moto di fastidio, davanti all’argomentazione serrata sulle responsa­bilità che rappresenta la cattiva coscienza di una.serie di scelte e di azioni politiche.

Zangrandi per queste tesi, per questi libri è stato al centro di polemiche, attac­chi, diatribe. Egli d’altra parte non ha risparmiato nessuno, nemmeno quando a fare goffi tentativi di difesa di squalifi­cati personaggi-attori dell’8 settembre so­no stati storici comunisti.

Ma ora, soprattutto dopo la sua dram­matica scomparsa, è forse venuto il mo­mento di una riflessione d’insieme sul­l’opera complessiva di Zangrandi e non più l’esame del singolo lavoro, del libro a se stante.

Tutta la serie dei libri di Zangrandi racchiude una violenta carica polemica che è la vitalità stessa di questi scritti. E tuttavia proprio questa sanguigna com­battività rischia di togliere a questi la­vori il carattere di opera storica, rischia di dar loro un « taglio » contingente.

Da qui, ci sembra, la necessità di un ripensamento critico e prospettico sui la­vori di Zangrandi per sottrarli alle ten­tazioni di coloro che, partendo da ele­menti marginali, cercano di costruire su di essi un discorso limitativo e sostan­

zialmente negativo, ma strettamente col­legato a inespressi atteggiamenti difensivi i quali sono già stati oggetto implicito di condanna da parte dell’autore.

In secondo luogo ci sembra che, così come sia da valutare in senso prospettico il rapporto fra il discorso storico ogget­tivo e l’elemento polemico soggettivo, sia anche da prendere in esame la funzione che ha sempre avuto in questi libri la carica provocatoria, l’esasperazione, se co­sì si può chiamare, di alcuni temi, rin­tracciabili, questi, non solo nelle ricerche sulle vicende dei « quarantacinque gior­ni », ma anche nei lavori precedenti come il Lungo viaggio.

Adolfo Scalpelli

Salvemini, Una vita per la libertà. Testi-monienze e documenti, Roma, Movi­mento Salvemini, 1971, pp. 126, li­re 1,000.

In questa bella pubblicazione sono rac­colti tutti i documenti che hanno costi­tuito il materiale della mostra organizza­ta da un gruppo di amici nel corso degli anni 1969-1970-1971 in varie città d’Italia per celebrare la memoria di Gaetano Sal­vemini nel centenario della nascita; ma­teriale prezioso che testimonia, attraverso le immagini, la vita di uno degli uomini che più onorarono la classe intellettuale del nostro paese; una lunga pagina, certo la più drammatica, della storia del­l’Italia moderna.

L’interessantissima parte fotografica e documentaria che illustra la vita del Sal­vemini dall’adolescenza fino alla morte, è preceduta da una presentazione degli au­tori della pubblicazione, nello stesso tem­po organizzatori della mostra, Leone Bor­tone, Lamberto Mercuri, Enzo Tagliacoz- zo, che realizzarono il desiderio di Erne­sto Rossi. La presentazione reca una pagina originale dello storico, che, richie­sto nel 1942 di un suo cenno biografico, tracciò in brevi righe tutto l’arco della sua vita avventurosa fino alla chiamata alla cattedra di storia della civiltà italia­na nell’Università di Harvard nel 1934. Nonostante lo scritto taccia dell’opera che il Salvemini svolse successivamente per combattere il fascismo in America e per far conoscere agli americani le vere condizioni dell’Italia, pure bastano quei rapidi cenni autobiografici a caratterizzare

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l’uomo Salvemini, che tanto influsso eser­citò su quella generazione di giovani che, interventisti e combattenti valorosi nella prima guerra mondiale, testimoniarono poi nella lotta indefessa contro il fasci­smo la verità di quegli ideali di libertà e di giustizia che li avevano tratti consa­pevoli a combattere nelle trincee del Carso, accanto al maestro volontario a quarantadue anni sul fronte di guerra.

« Anticonformista e, in politica, mazzi­niano ed antimachiavellico, era convinto che non bisogna mai arrendersi ai fatti compiuti: ”il libro del destino è sempre aperto a chi voglia scrivervi la sua pa­rola. Chi non vi scrive nulla non vi trova nulla. Chi si fa avanti a riempirne le pa­gine le riempe in proporzione della pro­pria volontà”. Così terminava un suo opu­scolo clandestino in cui incitava gli ita­liani a riconquistare la libertà perduta » (p. 7).

In occasione dell’apertura della mostra di Torino, Norberto Bobbio pronunciò un discorso che qui è riferito per intero, come una delle più valide testimonianze di quello che il Salvemini rappresentò come maestro^ ai giovani nella scienza e nella vita. Dall’acuta analisi di Norberto Bobbio esce una visione complessa di tutti gli aspetti della personalità del Sal­vemini: pessimista ed entusiasta, com­battente senza illusioni e devoto a supe­riori incorruttibili ideali, ribelle a tutti i conformismi a costo anche di criticare aspramente antichi compagni di fede, « eretico di tutte le ortodossie », come lo chiama il Bobbio.

Naturalmente, una pubblicazione di tal genere non può che mettere in luce tutti i lati positivi del carattere di Gae­tano Salvemini, tralasciando certi aspetti negativi come quella sua esasperata ed orgogliosa passionalità che gli fece pro­nunciare spesso giudizi aspri ed ingiusti verso uomini di alto e disinteressato sen­tire, come Benedetto Croce che, in pa­tria, nei lunghi oscuri anni del dispoti­smo, pur attraverso umani errori ed in­certezze, sempre onestamente e tormen­tosamente sofferte, assolse il magistero dell’uomo libero, alla cui parola attin­sero i molti la speranza della libertà che non può morire.

L’essere stato lontano dalla patria per tanti anni rese estraneo il Salvemini al dramma quotidiano delle generazioni vis­sute « sotto la scure del fascismo », quel dramma che egli, da uomo retto quale

fu, riconobbe chiudendo il libro delle sue memorie: « Chi in Italia per anni non cedè mai, deve essere ricordato con ri- conoscenza e ammirazione maggiore di chi emigrò » (Memorie di un fuoruscito,. p. 179).

Bianca Ceva

Sim o n a C o la r iz i, Dopoguerra e fascismoin Duglia (1919-1926), Bari, Laterza 1971, pp. VIII-454, lire 6.000.

L’Italia settentrionale ha sinora costi­tuito il fondale d’obbligo delle indagini sul sorgere e 1’affermarsi del movimento fascista. Più l’attenzione si spinge alle ra­dici economico-sociali, oltre che politiche, della crisi risolutiva dello stato liberale, più la situazione delle campagne padane — e, in minor misura, dei grandi centri industriali — sembra condizionare ed ege­monizzare il profilo complessivo. Nè tale prospettiva pare destinata a mutare, so­prattutto se saranno portate avanti con sufficiente sistematicità le analisi della re­cessione economica del 1920-21, tra l’oc­cupazione delle fabbriche e il dilagare dello squadrismo fascista. Indicazioni as­sai utili diede ad esempio, alcuni anni fa, il Catalano nel suo Potere economico e fascismo-, è augurabile che gli appro­fondimenti di questa coordinata essen­ziale per la storia dell’intero dopoguerra non tardino e che contribuiscano al su­peramento delle frettolose contrapposi­zioni della storiografia angustamente poli­tica, rinserrata nelle dispute sul « rivolu- zionismo » di Mussolini, sulle colpe del massimalismo o sul filofascismo di Gio- litti. L’identificazione dell’epicentro pa­dano col quadro nazionale può portare tuttavia a distorsioni e mutilazioni gravi. Perciò la monografia che la Colarizi dedi­ca alle Puglie colma un vuoto e dilata opportunamente l’ambito del discorso.

Come è noto, le Puglie rappresentano, rispetto al resto del Mezzogiorno, un caso largamente atipico. Non occorre at­tendere l’installarsi del fascismo al potere perchè la vecchia classe politica locale si trasferisca compatta sul carro del vinci­tore. E, soprattutto, l’iniziativa fascista a livello squadristico non viene intro­dotta dall’esterno, ma scaturisce dal vivo della struttura sociale. Lo scontro fron­tale tra la massa bracciantile guidata dal partito socialista e gli agrari fomentatori

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•e finanziatori delle squadre è precoce e violento. Ha la sua premessa nella ag­gressiva iniziativa sindacale che dilaga nel corso del 1919 e svolgimento nella rea­zione padronale, che assume presto for­me di assalto armato ai centri nevral­gici del movimento operaio, camere del lavoro, amministrazioni comunali, sedi del partito. Anzi, questa reazione tende a coagularsi in un esteso fronte agrario già nella primavera del 1920. Tra maggio e giugno assistiamo al collaudo della nuova strategia padronale di intervento armato (pp. 66-71), prima rivolta contro le ri­chieste contadine per il rinnovo dei con­cordati, poi contro i centri stessi dell’or­ganizzazione sidacale, mentre si moltipli­cano i fasci d’ordine e le associazioni agrarie di resistenza. È sul tronco di que­sti organismi che si innesteranno di lì a poco i Fasci di combattimento (e la dicotomia tra fasci cittadini e delle cam­pagne conserva tutto il suo significato), costantemente oscillanti tra la funzione strumentale di braccio secolare della rea­zione agraria e l’ambizione confusa di fare del fascismo un partito nuovo, di­sancorato dalle strutture clientelati della vita politica locale.

Ci troviamo pertanto di fronte allo schema classico del passaggio del fasci­smo a movimento di massa e l’A. lo ri­badisce con chiarezza in più punti: « la diretta filiazione dei fasci di combatti­mento — leggiamo alle pp. 130-131 — dai vari blocchi organizzati dalla borghe­sia agraria prima e in occasione dei co­mizi elettorali del ’20, non lascia dubbi sulla natura classista delle prime forma­zioni squadriste apparse in Puglia in que­sto periodo. Come nell’Emilia Romagna, il movimento fascista si afferma nei cen­tri agricoli della Puglia quale strumento diretto della reazione dei proprietari con­tro la massa bracciantile socialista, e solo dal vigore e dai successi conseguiti dai fascisti nelle campagne prenderà vita e acquisterà potenza il fascismo cittadi­no che, dal punto di vista strettamente cronologico, può vantare un’origine più remota ». Sotto il profilo dei rapporti di forza sviluppatisi nel dopoguerra le ele­zioni del 1921 rappresentano pertanto, nelle Puglie, la sanzione di un processo già compiuto, circostanza che porta una ulteriore conferma al fatto che l’avvento di Mussolini al governo si colloca in una fase in cui il movimento operaio è già stato piegato e l’acme della crisi eco­

nomica da tempo superata. Non deve trar­re in inganno la circostanza che i socia­listi mantengano quasi integra la propria consistenza elettorale: come in molte al­tre parti del paese, la conferma della rappresentanza parlamentare non nascon­de lo svuotamento del partito e dell’or­ganizzazione di classe, mentre il ricam­bio del vecchio ceto dirigente liberale mediante l’immissione di elementi fasci­sti si accelera. Ciò è visibile in modo net­tissimo attraverso la situazione pugliese e introduce nuovi suggerimenti nella stes­sa periodizzazione delle lotte, specialmen­te sull’evolversi dell’atteggiamento dei li­berali di fronte al fenomeno fascista.

La ricostruzione degli anni 1923-25 porta semmai alla luce — anche attra­verso le tortuose vicende del dissidenti- smo fascista — le forme di integrazione dei gruppi di potere pugliesi nel nuovo assetto nazionale. L’illustrazione che ne fa I’a. è dettagliata e puntuale e sotto- linea il carattere per nulla meccanico di questa fase di assestamento. L’osservazio­ne tocca non tanto la saldatura di inte­ressi, a livello di egemonia locale (il quadro municipale viene richiamato sin dall’inizio del libro come elemento chiave per intendere la dinamica clientelare del­la lotta politica nella regione) tra liberali fascisti (le vicende, ad esempio, dei se­guaci di Salandra sono largamente indi­cative), quanto la ricerca, da parte del fa­scismo, di un suo proprio stabile equili­brio. Così i tentativi di trapiantare in Puglia i « sindacati nazionali » (pp. 283 e segg.) richiamano ancora una volta le origini del movimento squadrista che, in quanto guardia armata degli agrari, non cerca di sostituire alla organizzazione so­cialista una propria struttura sindacale. L’opposizione padronale ad ammettere, sia pure come semplici intermediari e nell’ambito della proclamata collaborazio­ne di classe, nuovi interlocutori nel rap­porto con le masse contadine è durissima e condiziona incisivamente l’intera situa­zione regionale.

Il filo conduttore della esposizione ri­sulta pertanto sufficientemente unitario, e si arricchisce via via di indicazioni re­lative alle forze che fanno, in certo mo­do, da contorno al nucleo principale. Sia le pagine dedicate alla Associazione na­zionale combattenti che quelle sui popo­lari completano, e non solo sotto il pro­filo informativo, la trama della lotta po­litica. Così come, su un altro livello,

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non mancano di interesse gli accenni re­lativi al sindacalismo di Di Vittorio e al suo diverso atteggiarsi prima di ap­prodare al partito comunista. Tuttavia — e ciò vale anche in rapporto a quan­to si diceva all’inizio •—- l’ambito della ricostruzione rimane saldamente ancorato ai termini della storia politica. Le stesse fonti utilizzate, e composte in larga mi­sura dai carteggi delle autorità, sospin­gono il discorso in direzioni ben precise, documentando analiticamente la lunga ca­tena delle agitazioni contadine e delle violenze squadriste, ma lasciando in om­bra la struttura economico-sociale da cui questo scontro scaturisce. Gli accenni iniziali (pp. 5-10) al regime fondiario e alle condizioni produttive dell’agricoltura pugliese non vengono poi ripresi e ap­profonditi, nè la dinamica dello scontro di classe posta in relazione col decorso economico, locale e nazionale, degli anni centrali del dopoguerra. Non v’è, in altri termini, adeguata compensazione tra la descrizione dei fenomeni e l’identificazio­ne delle loro cause di fondo, col conse­guente appiattimento delle diverse, suc­cessive situazioni e un certo carattere ri­petitivo e cronachistico dell’esposizione.

Massimo Legnani

Franca D el P ozzo, Alle origini del PCI.Le organizzazioni marchigiane 1919-23,Urbino, Argalìa, 1971, pp. 214.

Questo testo è senza dubbio un valido contributo alla riscoperta della storia del movimento operaio e socialista nelle Marche, sia per la ricchezza di dati e notizie, sia per la chiarezza della rico­struzione di quei difficili e intricati mo­menti. L’indagine della Del Pozzo pren­de le mosse dall’immediato dopoguerra, dalla profonda crisi che la guerra ha prodotto anche in questa regione, distrug­gendo attività industriali, legami com­merciali e creando nel tessuto sociale profonde fratture: « In Ancona, al por­to, a causa degli interrotti contatti con l’opposta sponda dalmata, il traffico era quasi nullo. Le officine meccaniche, mol­te delle quali erano fiorenti prima della guerra, requisite militarmente e trasfor­mate per rifornimenti bellici, erano de­serte o quasi [...]; il cantiere non po­teva riprendere il lavoro perché era stato

gravemente battuto dalle artiglierie ne­miche, data la sua aperta posizione ».

Nelle altre province le condizioni eco­nomiche non erano sicuramente migliori: ovunque difficoltà notevoli e grandi mas­se di disoccupati. La Del Pozzo presenta con vivacità e precisione il contesto so­ciale e politico in cui ben presto entre­ranno ad operare queste larghe masse di lavoratori. Tutto il T9 è, infatti, un sus­seguirsi di manifestazioni, di agitazioni, di scioperi, un diffondersi e rafforzarsi di leghe, unioni, associazioni; ad esem­pio: a Pesaro nasce l’unione metallurgici, a Urbino quella dei maestri, a Fossom- brone si organizzano le setaiole, ed en­trano subito in sciopero; poi è la volta degli edili, dei minatori che sono stati, in passato, sempre l’avanguardia delle lotte. A questo imponente, in parte spon­taneo, movimento segue un largo svi­luppo organizzativo del PSI. Il partito è ormai presente ovunque, non c’è località che non abbia la sua sezione; esso dirige strati notevoli di operai, artigiani, conta­dini, intellettuali, che sono pronti a se­guirlo su ogni terreno come dimostre­ranno, e le grandi manifestazioni, pacifi­che e non, contro il caro-viveri, e i risul­tati elettorali del T9 che dettero ai so­cialisti nel solo collegio Ancona-Pesaro ben 35.000 voti e quattro deputati (i po­polari che erano il secondo partito ebbe­ro 19.000 voti). I temi principali di que­sta mobilitazione — come viene docu­mentato attraverso una attenta lettura dei giornali II Progresso di Pesaro, Ban­diera rossa di Ancona — sono la guerra,, le sue conseguenze pagate soprattutto dai ceti popolari, e le responsabilità del­la borghesia. Il ricordo dei momenti vit­toriosi del proletariato fungeva da mo­dello, da stimolo, prima fra tutti la ri­voluzione d’ottobre, ma anche la Comu­ne, che dopo quasi cinquant’anni era più viva che mai.

Ma, giustamente, scrive la Del Pozzo: « Il PSI si trova in gran parte impre­parato di fronte a questo vasto profondo movimento. È chiaro ormai che il socia­lismo vecchia maniera (anarco-sindacali- smo, socialdemocrazia) non è più al passo coi tempi; nel socialismo massimalista, grande è l’ansia dell’azione, della rottura rivoluzionaria. È il nuovo socialismo, for­te sui giovani, che sente il richiamo degli spartachisti Rosa Luxemburg e Karl Lieb- knecht e si rifà a Lenin contro il rifor­mismo. La scelta indirizzata genericamen­

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te verso l’esperienza leninista non era però un superamento dei limiti del mas­simalismo ».

Il 1920 segna una discriminante nelle vicende del socialismo marchigiano. La « rivolta di Ancona » del giugno del ’20, che con l’occupazione delle fabbriche fu una dei vertici della crisi sociale e po­litica del dopoguerra, fa precipitare i contrasti che già erano presenti in parec­chie sezioni. « Gli avvenimenti del 1920 non furono, comunque, solo frutto del­l’anarchismo, ma anche la prova decisi­va del movimento operaio anconetano e marchigiano prima del fascismo; ad essa fece seguito quella revisione e quella crisi del partito socialista che portarono alla formazione del PCd’I ». Anche qui, sono i giovani che introducono le prime note critiche; già da tempo, infatti, ave­vano iniziato una forte polemica con i parlamentari socialisti e con il partito che ora si accingeva a conquistare le amministrazioni comunali e provinciali; al congresso regionale di Jesi, poi, ave­vano deliberato di « prendere accordi per la costituzione del partito comunista ita­liano »; e nella polemica giornalistica, in contrapposizione ai comuni, indicavano nei soviet e nei consigli operai i nuovi strumenti dell’azione rivoluzionaria. Ben presto il dibattito si estende e trova con­sensi anche tra le file dei dirigenti peri­ferici, soprattutto in quelle sezioni rurali del Pesarese, che proprio in questa estate del ’20 sono impegnate in un duro e lun­ghissimo scontro per la modificazione dei patti agrari.

Superata brillantemente la prova elet­torale, il dibattito interno riprende con forza in vista del congresso nazionale. Nel Pesarese, dove il dibattito è più ser­rato (durò circa un mese), emergono que­sti rapporti di forza: 1) comunisti uni­tari, in grande maggioranza; 2) centristi; 3) comunisti puri, forti in alcune im­portanti zone rurali.

Subito dopo Livorno, scrive la Del Pozzo, il partito comunista è presente in quasi tutta la regione; ma il lavoro di or­ganizzazione presenta notevoli difficoltà per: « le deficienze di quadri (quasi tutti i dirigenti intellettuali erano rimasti nel PSI); la lunga stasi socialdemocratica, la impreparazione ad un lavoro organizzato, aggravata dalla mancanza di una buona preparazione ideologica dei pochi quadri disponibili; la pressione dei fascisti [...]; la mancanza di mezzi finanziari ». Tutta­

via non mancano buoni risultati, i punti di forza sono il Pesarese e l’Urbinate do­ve il gruppo vicino alle posizioni di Graziadei-Marabini porta al partito un considerevole numero di iscritti. Nell’apri­le 1921 (primo congresso regionale) que­sto è il bilancio della scissione: Ancona, 21 sezioni, 522 iscritti; Ascoli P.-Mace- rata, 92 iscritti; Pesaro-Urbino, 53 se­zioni, 1200 iscritti. La base sociale è per lo più composta da contadini poveri, mezzadri, braccianti, da operai e artigiani della città, da alcuni forti nuclei di mina­tori. L’omogeneizzazione, la saldatura di queste forze sarà uno dei primi e prin­cipali obiettivi; scrive Enzo Santarelli nella prefazione al volume: « Alla vigilia della fondazione del partito si era svi­luppato, nella più compatta e avanzata sinistra pesarese, un certo dibattito sulle possibilità concrete di trasfondere nel­l’ambiente regionale l’esperienza dei con­sigli. Ma come dimostrano tutti i docu­menti socialisti e comunisti delle orga­nizzazioni marchigiane, la realtà era qui essenzialmente un’altra [...]: si trattava di battere una via aspra e nello stesso tempo originale — e questo, bene o male, fu fatto.

Il rapporto fra una classe operaia ric­ca di ideali, ma scarsamente centralizzata e quindi esigua di forze, e una campa­gna estremamente diffusa e consistente, insieme con la presenza di molte strut­ture artigianali e intermedie: questo era il dato principale, dominante, parte con­sapevole e parte inconsapevole, che aveva segnato le origini del partito comunista in questa ancora tipica regione contadina,, e che continuerà a contrassegnare il cam­mino degli anni successivi ».

Anche su questo terreno dell’analisi delle forze sociali che stanno alla base della nuova formazione, la ricerca della Del Pozzo è precisa e penetrante; anzi proprio per questo, il libro merita di es­sere annoverato tra la produzione più in­teressante di questa annata sulla storia del PCI.

Paolo Giannotti

II guerra mondiale

R. De Belot, La guerra aeronavale nel Mediterraneo 1939-1945, Milano, Lon­ganesi, 1971, pp. 339, L. 3.200.

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Prima traduzione italiana di un volume che al suo apparire, nel 1949, fornì una buona sintesi delle informazioni e degli studi sulla guerra nel Mediterraneo. Il suo valore è oggi assai minore, tuttavia si tratta pur sempre di un’opera di buon livello, assai favorevole ai comandi ita­liani e acuta nell’investigazione delle con­nessioni delle varie forme della guerra moderna.

G. Ro.

Ladislas Farago, Il sigillo spezzato. Lavera storia di Pearl Harbor, Milano,Garzanti, 1971, pp. 363, L. 3.800.

Il libro traccia una dettagliata ed am­pia storia dei servizi di decrittazione usati dagli americani dalla fine della prima guer­ra mondiale all’inizio della seconda per l’intercettazione e messa in chiaro della corrispondenza telegrafica e radiofonica diplomatica e militare dei loro potenziali nemici. È così seguito con ricchezza di particolari lo sviluppo dei mezzi tecnici e degli organismi addetti al loro impiego, tra l’incomprensione e la gelosia delle di­verse amministrazioni; ne risultano, inci­dentalmente, interessanti notazioni sul­l’orientamento dei comandi americani: non è certo un caso se gli sforzi di questi servizi furono sempre concentrati contro i giapponesi. Il volume dedica particolare cura alla ricostruzione degli avvenimenti che precedettero la sorpresa di Pearl Har­bor; è infatti degno di nota che i servizi americani, che erano riusciti ad avere la chiave di quasi tutti i codici usati dai giapponesi ed erano quindi perfettamente informati delle loro mosse attraverso la decifrazione della corrispondenza tra To­kio e l’ambasciata a Washington e tra i vari comandi, non riuscissero a dare il giusto valore ai telegrammi intercettati nel novembre-dicembre 1941 da cui tra­spariva chiaramente ravvicinarsi dell’at­tacco giapponese a Pearl Harbor. Seguen­do le chiare pagine del Farago, la causa di questa inefficienza è da ricercarsi nella completa sottovalutazione della situazio­ne, che permetteva la sopravvivenza di un’organizzazione dei servizi di decritta­zione minata da gelosie interne, conflitti di competenza, incomprensione delle pos­sibilità offerte da mezzi tecnici. Si giunse così all’assurdo di tenere celato al presi­dente Roosevelt le intercettazioni effet­

tuate dai militari, che pure le considera­vano più utili per l’azione diplomatica che per la preparazione dei piani bellici, come dimostra appunto Pearl Harbor.

Le lettura dell’opera si raccomanda non solo per il contributo che porta alla no­stra conoscenza della guerra del Pacifico ed alla politica americana, ma anche per la presentazione concreta ed ogni giorno più attuale delle possibilità tecniche po­ste a disposizione del progresso scientifico e delle difficoltà che sorgono per un corretto controllo politico anche di que­sto settore della macchina decisionale bu- rocratico-militare.

Giorgio Rochat

Roger Manvell-Heinrich Frankel, Ca­naris, Milano, Longanesi, 1971, pp.382, lire 3.200.

La modificazione del titolo originale — The Canaris Conspiracy — operata dall’editore italiano, porta con sé l’im­prescindibile necessità di rifarsi, nel cor­so della lettura, al titolo dell’edizione inglese, pena il rischio di trovarsi sem­pre di fronte ad un argomento che non è quello promesso dal titolo italiano. La spiegazione della modificazione va forse cercata nelle fortunate edizioni di questi autori ormai noti come biografi dei per­sonaggi del mondo nazista tedesco — Gobbels, Goring, Himmler — forse più che per le ricostruzioni storiche di II complotto di luglio o La soluzione finale. Smentendo il titolo italiano, questo libro è tanto, e nello stesso tempo tanto poco, biografia di Canaris quanto può esserlo di Beck, di Gordeler, di Dohnanyi, di Bohnoffer, di Oster. Non è certo la bio­grafia di Canaris quanto la narrazione del ruolo, diciamo subito modesto, che ha avuto, nell’opposizione a Hitler, que­sto gruppo, mentre al contrario, proprio quello che manca è, semmai, una netta caratterizzazione di Canaris. Insomma, gli autori ci ripropongono qui il più con­sueto e, diremmo, logoro discorso sulla « resistenza » tedesca, che ha mostrato la corda persino in libri sapientemente costruiti come quello di Gerhard Ritter, I cospiratori del 20 luglio 1944 e ancor più in quello di Hans Rothfels, L’oppo­sizione tedesca al nazismo. Invece di esa­minare, alla luce delle componenti ideali e ideologiche, la reale incidenza del grup­

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po in una battaglia antinazista, ancora una volta si ripiega su una ricostruzione che tutto sommato resta nella categoria dell’etica e non della politica, per scen­dere, come in questo ultimo lavoro, in quella della biografia di una serie di per­sonaggi attraverso i quali ricostruire una « storia ».

Il personaggio Canaris è senza dub­bio interessante e può provocare la cu­riosità del biografo, ma il capo del- l’Abwehr seppe tuttavia lavorare tanto minuziosamente e sapientemente dietro le quinte della sua carica, da lasciare po­che tracce dietro di sè, al punto da creare grosse difficoltà anche per ricer­catori minuziosi come Manvell e Frànkel. Perchè, in realtà, Canaris più che un tessitore della cospirazione, appare come un assistente spirituale che si limita a garantire, silenzioso, paterno e compren­sivo, la sua alta protezione ai cospiratori. Sotto il regime nazista, già questo, natu­ralmente, è un fatto di tradimento, tanto più grave, quanto più il personaggio è importante. E tuttavia la partecipazione personale, attiva, concreta di Canaris alla cospirazione per quanto la si rivolti, la si sottoponga a ricerche e a valutazioni storiche o politiche, si riduce a poca co­sa. E qui diventa pretesto, tutto som­mato, per riproporre il discorso d’insie­me sulla « resistenza » tedesca, sul quale vale tuttavia la pena di soffermarsi un poco, forse proprio partendo dal perso­naggio Canaris.

Giustamente dice uno dei cospiratori, figlio a sua volta di un cospiratore finito suicida nei giorni della vendetta di Hitler, Wolf Schrader: « Penso che ogni sua[di Canaris] attività nella resistenza fos­se dovuta all’influenza che esercitava Oster » (p. 295). Ma ecco, secondo M. e F., perchè Oster era antinazista: « Oster era stato urtato fin dall’inizio dalla spie­tata violenza del regime e era convinto che l’esercito avrebbe finito per esserne contaminato, se avessero continuato ad esistere le SS e le camicie brune » p. 56). Ma Canaris fece parte del complotto e della cospirazione non perché si sen­tiva nemico principalmente dell’ideologia nazista, ma perchè, fatto comune a molti uomini della destra tedesca non nazista, il regime esercitava una spietata quanto pubblica violenza, non rispettava le re­gole del gioco, e soprattutto, portando la Germania alla guerra e alla sconfitta, avrebbe finito col macchiare l’esercito

stesso, lo stato maggiore di tradizioni prussiane il quale, a dire il vero, si era già indelebilmente macchiato con la sua compiicità sin dall’inizio della collabora­zione stato maggiore-nazismo divenuti bi­nomio inscindibile. Del resto se i motivi dell’opposizione fossero stati profondi, in­conciliabili, come avrebbero potuto uo­mini come Canaris accettare, nel 1935, in carichi a posti di alta responsabilità e rimanerci fino a quando il nazismo pen­sò di lasciarveli? Forse il calcolo era che da posti di quella natura era possibile in qualche modo aiutare l’opposizione? Non necessariamente, diremmo, se l’atti­vità del gruppo di Canaris si è limitata ad aiutare qualche perseguitato razziale e a sterili contatti col Vaticano e con qualche intermediario, riservato e scetti­co, dei governi dell’Europa occidentale.

Il fatto è che a questi gruppi di oppo­sizione interna, al vertice della gerarchia statale2 mancavano chiarezza, metodi, obiettivi, strategia. Agli uomini del grup­po di Canaris, persino a uno dei più do­tati di esso come Dohnanyi che espri­meva il meglio di se stesso raccogliendo e conservando materiale d’accusa contro il regime nazista, mancavano una linea e un traguardo, erano in preda a illu­sioni, a speranze astratte, ad ipotesi ne­bulose e si trovarono coinvolti loro mal­grado nel coraggioso quanto disperato gesto di von Stauffenberg che rompe gli indugi, i timori, i tentennamenti e com­pie l’atto improcrastinabile di ribellione suprema con l’attentato del 20 luglio. In quel momento gli uomini di punta della cospirazione che si consumava all’interno delì’Abwehr sono già in carcere e impe­diti nella ulteriore tessitura della debole tela del complotto, ma è anche vero che essi vennero arrestati per aver tramato molto meno di un attentato. Essi furono travolti dalla reazione nazista appena sco­perti i legami, a dir il vero sottili e in­concludenti, con gli attentatori del 20 luglio.

Uomini rimasti soli nella loro fragile battaglia, pensando che il nazismo potes­se essere combattuto dall’interno della ge­rarchia dello stato nazista. Errore fatale e ineluttabile e conseguente date le pre­messe del gruppo o dei gruppi isolati in una gretta visione di classe, aristocratici, timorosi di uscire incontro all’opposizione reale dei partiti politici antinazisti. Gli autori del libro sembrano accorgersi di questo fatto e tuttavia la risposta ch’essi

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danno alla domanda che si son posti(« Fu veramente resistenza? ») è positiva. Ma lo è perchè anche la posizione degli autori è moralistica, astratta e fideistica. Quella opposizione, di ciò non si ren­dono conto gli autori, fu sterile perchè non venne combattuta in opposizione al nazismo, in antagonismo al fascismo, in posizioni radicali o, quantomeno, alla ri­cerca di possibili forme di alleanza con altre forze. L’opposizione, dicono gli au­tori, era « concentrata all’interno del­l’esercito » e anche ciò è vero, limitata- mente almeno al tema di M. e F., ma è anche vero che proprio per questo falli. Perchè era un’opposizione di casta e nem­meno generalizzata, anzi limitata ad al­cuni elementi estremamente incerti, timo­rosi delle conseguenze stesse dei loro ge­sti. Sia i civili che i militari. Dicono an­cora gli autori che era difficile agli uffi­ciali opporsi al capo al quale avevano giurato fedeltà personale. Si dovrebbe dire in realtà che iniziò con quel giura­mento una correità, una complicità che divenne via via sempre più inscindibile, che scese a tutti i compromessi fino a partecipare, in maniera non del tutto passiva, all’eccidio contro le SA della « notte dei lunghi coltelli », come ha documentato, ultimo autore, Max Gallo in La nuit des longs couteaux.

Qui vanno cercate, oltre che nei motivi di casta, le ragioni della mancata scis­sione nazismo-militari e della mancata resistenza. In fondo l’elenco dei generali che non rimasero al loro posto e che pre­ferirono una qualsivoglia forma di ribel­lione al nazismo, non è lunghissimo. E an­che i civili che parteciparono alla congiura erano stati essi stessi personaggi di rilievo del regime: Gordeler, borgomastro di Lipsia e poi dimissionario; Schacht, mi­nistro dell’economia e procuratore di fi­nanziamenti al nazismo; Popitz, ministro delle finanze prussiane, che pensava a una congiura antihitleriana con l’aiuto di Himmler. Segreto pensiero forse dello stesso Canaris che nel momento dell’ar­resto tentò di ottenere da Schellenberg l’impegno a farlo incontrare con Himm­ler nel breve volgere di tre giorni. « Lei deve promettermi sinceramente — disse Canaris — che nei prossimi tre giorni mi procurerà la possibilità di parlare con Himmler » (p. 297).

« L’opposizione al nazionalsocialismo — ha scritto Collotti — era chiusa in un cerchio di contraddizioni insolubili e pa­

ralizzanti, fatalismo e rassegnazione sco­raggiavano prese di posizione inequivo­cabili ». Il giudizio di Collotti è severo, ma scaturisce da un esame attento della collocazione dei singoli individui e dei gruppi non solo di fronte al nazismo, ma di fronte agli stessi problemi con cui il nazismo doveva misurarsi. Spesso questi gruppi rispondono ai problemi del nazio­nalismo, dell’autoritarismo, dell’imperiali­smo accettando le impostazioni antico­muniste viscerali del nazismo. In questi uomini non c’è anelito ad un profondo rinnovamento radicale in senso democra­tico. Di qui il loro isolamento, la loro solitudine, la loro rapidissima, inarresta­bile caduta sotto la mannaia nazista.

Questa la grossa lacuna del libro, di un libro che non varca i limiti di stan­che, tradizionali ricostruzioni, arricchito qua e là da qualche lume nuovo, ma marginale, da qualche testimonianza rila­sciata ad hoc, a dimostrazione della con­sumata abilità degli autori, ma nulla più. Il tutto resta nei limiti di un episodio di opposizione e di cospirazione che non riuscì ad essere resistenza.

Adolfo Scalpelli

Ugo De Lorenzis, Dal primo all’ultima giorno. Ricordi di guerra 1939-1945, Milano, Longanesi, 1971, pp. 362, li­re 2.700.

Il volume si differenzia dalla normale produzione memorialistica per due carat­teristiche: il linguaggio sobrio e franco, senza rancori nè tabù, e l’ampiezza del­l’arco coperto dalla narrazione, che segue l’autore dal 1939 al 1945. Accanto ai periodi eroici sono così ricordati anche i periodi grigi di preparazione e attesa o di vigilanza sul fronte interno; e poiché l’autore racconta con lucidità e acutezza, ne esce una tagliente conferma dell’asso­luta inadeguatezza della macchina bellica italiana.

La prima parte del libro è dedicata ai carri armati. L’autore, colonnello di fan­teria, fu destinato alla specialità carrista nell’agosto 1939, sulla base di un corso di addestramento per comandanti di re­parti motorizzati, tenuto nel lontano 1921-22!

Potè ugualmente tenere con onore il comando di un reggimento corazzato per

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due anni (cambiando per tre volte re­parto) perché l’insufficienza dei mezzi e la miopia degli alti comandi permette­vano soltanto un impiego del tutto tra­dizionale dei reparti di carri armati. Si­gnificativa appare la mancanza di una di­rettiva chiara in materia di reparti co­razzati: quelli comandati dall’autore fu­rono più volte dispersi e ricomposti, senza alcuna unità di indirizzo nè ri­spetto per le necessità di addestramento. Gli alti comandi si permettevano per­sino il lusso di destinare parte delle po­che unità corazzate alla repressione della lotta partigiana jugoslava, allora agli ini­zi. È anche sintomatico che l’autore, dopo che due anni di comando di reggi­menti corazzati dovevano averne fatto un esperto della specialità, fu destinato nella primavera 1942 a dirigere l’ufficio operazioni delPArmir, di un’armata cioè che non avrebbe potuto impiegare mezzi corazzati. Come se gli ufficiali carristi esperti abbondassero nell’Italia 1942!

La seconda parte del volume è dedi­cata alla campagna di Russia, che l’au­tore visse dal comando dell’Armir. I particolari che vengono alla luce non sono nuovi, ma concorrono a confermare l’impressione disastrosa di incapacità e spreco, che già tanti reduci dalla Russia hanno testimoniato. Le pagine dell’auto­re sono di un certo interesse, perché rac­contano la vita degli alti comandi, sui quali abbiamo in genere poche notizie; si veda anche qui la sintomatica sosti­tuzione dell’autore, capo di un ufficio chiave come quello operazioni, decisa nel cuore della campagna allo scopo di agevo­lare la carriera di un ufficiale più intro­dotto nelle alte sfere.

La terza parte del volume, infine, vede l’autore, promosso generale di brigata, al comando di reparti di fanteria, prima in Corsica (comandante della fanteria della divisione Friuli, poi della divisione stessa dopo i combattimenti contro i tedeschi), poi in Sardegna (dove il comando di di­visione avuto sul campo gli venne tolto in omaggio ai criteri di anzianità), quindi in Italia meridionale (anche qui coman­dante di divisione e poi nuovamente solo comandante della fanteria divisionale) ed infine in Sicilia (comandante di una bri­gata di fanteria destinata al mantenimen­to dell’ordine pubblico nelle provincie di Siracusa, Ragusa e Caltanissetta). Alcune osservazioni emergono spontanee: innan­zi tutto l’incertezza del governo degli alti

comandanti, che rendeva possibile che anche in tempo di guerra prevalessero i criteri di anzianità nelle nomine (si pensi che l’autore, in sei anni di guerra, ebbe una sola promozione, che verosimilmente avrebbe avuto anche in pace: e si capirà molte cose sull’incapacità dimostrata dai comandanti italiani all’8 settembre!). In­teressanti anche le notizie sullo spirito delle popolazioni siciliane e sui metodi di governo impiegati con esse; ed il qua­dro piuttosto sconfortante dell’esercito « badogliano » che ne esce. Il libro lascia indubbiamente molto tristezza: è un libro onesto, che aiuta a spiegare in profondità le ragioni del crollo italiano nella guerra mondiale.

Giorgio Rochat

Mario R igoni Stern, Quota Albania, To­rino, Einaudi, 1971, pp. 151, lire 1.500.

A quasi venti anni dal suo notissimo Il sergente nella neve, una delle opere più significative della memorialistica bel­lica, Mario Rigoni Stern si è indotto a raccogliere in questo Quota Albania la sua esperienza della breve campagna delle Alpi e della dura guerra contro la Gre­cia. Già il lungo intervallo rivela l’esita­zione dell’autore nel tornare a scrivere di guerra dopo un esordio così straordi­nariamente felice; e infatti il risultato ci sembra nettamente inferiore, privo di quella unione di poesia e di verità di­sperata, di dolcezza virile e di morte che fa del Sergente nella neve un capolavoro della narrativa ed una testimonianza au­tentica della guerra. In Quota Albania mancano gli altri, quelle figure di alpini ed ufficiali sbozzate con pochi tratti e subito vive, qui invece sbiadite fino a confondersi subito. Anche il protagonista è diverso, non più il sergente maggiore che sa essere il centro e l’anima di un gruppo di uomini veri, ma un ragazzo che trova la sua gioia nel correre su per i monti, più vicino ad un cacciatore che ad un uomo in guerra. E infatti nel libro troviamo precise e vive descrizioni di vallate e montagne che prendono il posto degli alpini come protagonisti, quasi a segnare il limite di un libro di memoria che parla di un ragazzo dinanzi alla na­tura e non più di un uomo tra gli uo­mini. Tutto ciò perché il passare lento del tempo ha visto svanire il cupo dolore

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del reduce, la disperata protesta per la morte inutile di tanti compagni, quella rabbia chiusa che brucia nel Sergente nella neve e dà forza, tensione e verità al racconto. È rimasta invece la vena poetica di Rigoni Stern, la sua limpida fantasia, il suo amore per la natura soli­taria, la sua parola pulita; ma gli alpini che muoiono in Albania non muovono più qualcosa nel profondo dell’autore e del lettore.

Se però rinunciamo ad un confronto tra i due libri, che in fondo è ingiusto, possiamo notare che Quota Albania spic­ca nella memorialistica bellica per la sua sobrietà, la pulizia delle descrizioni, la testimonianza che porta sulla rassegnata ignoranza (nel senso di non conoscere) con cui gli alpini accettavano la guerra con greci e francesi. Un libro da leggere e da conservare.

Giorgio Rochat

Varie

G ia m pa o lo P an sa , Borghese mi ha detto,Milano, Palazzi, 1971, pp. 185, lire1.800.

Che volto ha il neofascismo italiano? Nessuno ne ha tentato una indagine sul piano scientifico nemmeno ora che, quo­tidianamente, il neofascismo attira l’at­tenzione sulle sue gesta da valutarsi sulla base del codice penale, ma alle cui ori­gini stanno responsabilità politiche della classe dirigente e complicità finanziarie del mondo industriale. Quanto Pansa ha raccolto dalla voce di Junio Valerio Bor­ghese potrebbe servire egregiamente a dare un volto al neofascismo italiano, a quello, quantomeno, di tutti i giorni, a quello volgarmente e sanguinosamente squadristico, dal momento che è estrema- mente difficile dare un volto ai finanzia­tori degli eredi di Dumini.

Pansa ha raccolto per un quotidiano un’intervista concessagli da Borghese tre giorni prima di quell’adunata romana che avrebbe dovuto essere il punto di par­tenza per il colpo di stato fascista e che lo stesso Borghese, « un fantasma tradito da troppi errori », come dice Pansa, or­

dinò di sospendere parlando ai suoi « ca­merati » in una delle palestre prese in affitto, tanto che la sua partenza, ha scritto un giornaletto fascista, « fu salu­tata da un imponente, fragoroso, entusia­stico coro di pernacchie ».

Quella conversazione, che fortunata­mente Pansa registrò, si è tradotta per noi nella lettura di un farneticante vaneggia­mento a base di slogan (« O Roma o Mosca » per esempio) che non ebbero successo quando erano originali, o di al­lucinanti qualunquismi in base ai quali Borghese sogna di poter portare per le strade, all’assalto dello stato, « un milio­ne di uomini ». Un documento quindi che potrebbe (dovrebbe anzi) essere alle­gato agli atti dell’inchiesta giudiziaria e diventare uno dei più probanti capi d’ac­cusa contro gli organizzatori del com­plotto.

A dare interesse al libro è anche l’ana­lisi di 64 ragruppamenti neofascisti sorti un po’ in tutto il paese, raccolti sotto la denominazione di gruppi extraparla­mentari. Gruppi e gruppetti che han­no in comune l’aspirazione, e spesso la realizzazione, della violenza. Incapaci di esercitare un’attrazione ideale, pen­sano solo in termini di terrorismo, di squadrismo, di candelotti di dinamite, di teppismo, in ultima analisi, da Vicenza a Palermo, da Genova alla Sardegna.

Pansa ha ricostruito di queste conven­ticole la storia, la cronaca della forma­zione e dello sviluppo, non ha potuto certo esaminare (e forse nemmeno rin­tracciare) una documentazione propagan­distica o pubblicistica dei singoli gruppi. Il lavoro potrebbe essere ripreso se non si avesse da tante parti timore di sco­prire cose non del tutto gradite, perché è fuori di dubbio che una germinazione così prolifica di gruppuscoli di destra, oltre al movimento fascista, diciamo così, ufficiale e alla sua organizzazione e sin­dacale e giovanile e studentesca e uni­versitaria, trae pure da fonti non ancora pubblicamente individuate le origini del suo sostentamento. Ma in Italia mancano persino studi scientifici sul neofascismo di più antica data, come il movimento dell’« Uomo qualunque » e su quel Mo­vimento sociale che fu ed è l’erede più diretto del fascismo di Mussolini, per estendere l’indagine alle collusioni con partiti e movimenti collaterali (monar­chici ad es.) o a quegli stessi gruppi pa­ralleli che furono però del neofascismo

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di questo dopoguerra i migliori procac­ciatori di quadri. Anche qui per certi am­bienti politici italiani di vertice sarebbe imbarazzante spiegare l’origine della sto­ria che porta un alto generale a diven­tare deputato neofascista.

Va detto che questo tipo di ricerca per il neonazismo in Germania è stato già fatto e si continua a fare e basterà citare soltanto Die NPD. Struktur, Ideologie, und Funktion einer neofaschistischen Partei (ed. Suhrkamp) di Reinhard Kiihnl, Rainer Rilling, Christine Sager. Perché questa assenza, questo vuoto in Italia, questo timore di affrontare, retaggio cro­ciano, i problemi di ieri e dell’altro ieri, quando essi sono ancora quelli di oggi e di domani? È sufficiente addossare la responsabilità di tutto ciò solo a una tra­dizione accademica che tende ad estra­niarsi da quanto di contingente si pre­senta e quindi ad autodisarmarsi di fronte alle questioni che sono sull’uscio di casa?

Forse per la prima volta in un libro, lo hanno fatto finora riviste e giornali sol­tanto, appare un elenco di formazioni po­litiche di estrema destra con alcuni giu­dizi su di esse. Ci sembra che sia già un passo avanti, è il merito che va ascritto a Pansa, ma certo non basta e in questo c’è da rimpiangere l’ondata di « politolo­gia » che è dilagata nella Germania oc­cidentale negli anni ’67-70 e che ha fatto fare alla ricerca sul presente un notevole, concreto, positivissimo passo in avanti.

Pansa ovviamente non poteva, e certo non voleva, scrivere un’opera socio-poli­tica, con susseguenti classificazioni, per i gruppetti di cui tratta. Ne ha dato, come si è detto, una descrizione sommaria e alcuni elementi con maggiore o minore ricchezza, secondo le possibilità di repe­rimento del materiale, o l’importanza del gruppo o la sua consistenza. Senza man­care di mettere in evidenza i lati grot­teschi di taluni. Il Movimento tradizio­nale romano, uno dei tanti gruppuscoli, con sede a Napoli, è capeggiato da un insegnante elementare che sogna « il ri­pristino di un nuovo stato romano nel­l’ambito delle già province romane, con la denominazione di Repubblica Sociale Romana. La sua meta finale è un ordine nuovo-antico nelle coscienze dei singoli e dei popoli, onde realizzare lo stato etico ideale con la denominazione di Repub­blica Sociale Mondiale, al lume della im­peritura saggezza dell’Urbe immortale ».

Non tutti questi gruppi hanno lati solo

grotteschi; dalla ricerca di Pansa si trae abbondante materiale di meditazione.

Adolfo Scalpelli

Alberto Consiglio, Vita di un re-, Vit­torio Emanuele III , Bologna, Cappelli,1970, pp. 251, lire 1.000.

Questa biografia spicca per imprecisio­ne e superficialità. Non si vogliono rim­proverare all’autore i suoi sentimenti monarchici e nazionalistici, ovviamente, bensì il fatto che egli li sostenga con dati approssimativi e spesso grossolanamente inesatti. Il volumetto ripresenta infatti tutti i luoghi comuni della propaganda fascista, le sciocchezze volte a diminuire le responsabilità di una sconfitta, le ac­cuse tradizionali al popolo italiano reo di non aver capito nè apprezzato fascismo e monarchia. L’unica grossa attenuante che si può trovare per l’autore è che il libro non fu concepito come tale, ma come serie di articoli per un rotocalco di grande tiratura del 1950. Perché poi questi articoli debbano essere raccolti in volume e pubblicati proprio a vent’anni di distanza, senza una riga di aggiorna­mento, è un mistero che si può spiegare solo con il singolare disprezzo che certi editori paiono riservare ai lettori delle loro collane economiche.

G. Ro.

Silvan Reiner, E la terra sarà pura, Mi­lano, Sugar, 1971, pp. 355, lire 3.500.

« Eutanasia, genocidio, sterilizzazione: le atroci esperienze mediche del Terzo Reich », questo l’argomento del libro. La atrocità dei medici nazisti nei confronti di subnormali, pazzi, deformi, minorati fisici è stata spesso oggetto di studi a livello scientifico, di indagini psicologi­che, di narrazioni di vittime (le poche sopravvissute). Un ancor maggiore nu­mero di lavori sulle esperienze mediche, se così esse possono essere definite, av­venute nei campi di concentramento na­zisti, ci sono pervenute non solo sotto forma di diario, ma anche come testimo­nianze di medici prigionieri, impiegati a fianco di pseudo ricercatori come Mengele

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o Rascher o Baumkòtter o altri ancora. Studi e documentazioni interessanti ci so­no pervenuti sul tipo di esperimenti scien­tifici operati in corpore vili, direttamente sui prigionieri, esperimenti che andavano dallo studio della origine dei parti ge­mellati, alle ricerche sul cancro, alla spe­rimentazione dell’efficacia dei sulfamidici sulle piaghe cancrenose, procurate arti­ficialmente dai medici.

Questo mondo allucinante, primordia­le, barbaro, sadico dei medici dei campi che operavano sotto l’alto patronato e la protezione di Himmler, viene descritto in questo libro a partire dal via dato da Hitler alla cosiddetta «operazione Brandt», dal nome del medico personale del Führer e poi massimo responsabile del­l’organizzazione sanitaria tedesca, il 1° settembre 1939: prime vittime i mongo­loidi poi, via via, i vecchi, gli ebrei, i prigionieri.

Reiner si muove in mezzo a questo mondo agghiacciante di medici SS, ma anche civili, e di vittime che vengono ri­portate a uno stato normale di nutrizione e di peso perché possano affrontare più tardi una morte nei confronti della quale quella nella camera a gas è da conside­rarsi un privilegio. Il libro non è però una trattazione scientifica, ma la ricostru­zione di quanto accadeva in quel mondo che ha portato in primo piano uomini, finiti per buona parte sulla forca, che senza il nazismo sarebbero rimasti oscuri medici nelle verdi campagne di Germania. Divennero uomini importanti, medici di primo piano con a disposizione un eser­cito di cavie.

Il libro tuttavia si limita alla cronaca,

a una ricostruzione che qualche volta sconfina nel romanzo e qui il pregio di poter avere un vasto pubblico, ma anche il difetto della limitatezza storica, anche se costruita su una bibliografia che, però, bisogna dire, appare limitatissima e dalla quale manca, ad esempio, Reimund Schnabel, Macht obne Moral, testo, ci sembra, importante per ogni lavoro sul­l’argomento (e si veda poi la ricca bi­bliografia annessa, sull’argomento, allo Schnabel in confronto a quella del Rei­ner). Per passare poi a dire di alcune imprecisioni e oscure qualificazioni con­tenute nel libro, dovute a non si sa quale origine, se cioè all’autore o alla traduzio­ne, come ad esempio; Filippo Bouhler « segretario privato del Führer » (in real­tà capo della Cancelleria del Reich e della sezione eutanasia); Victor Brack « mini­stro degli Interni » (in realtà fu soltanto un colonnello delle SS, capo servizio nella cancelleria di Hitler e dirigente dell’im­pianto delle camere a gas in Polonia); per arrivare infine a questo strano attri­buto dato al dott. Leonardo Conti: « pre­sidente della Camera dei ministri del Reich ». Il tutto fra le pagine 19 e 20. (Solo a p. 306 si rettifica che si tratta per quest’ultimo caso della Camera dei medici).

Nè si comprende come parlando di Auschwitz si possa dire che « l’estate ungherese non finisce mai» (p. 261)!

Resta poi insoluta la domanda di fondo che Reiner non si pone: in nome di quali interessi i medici nazisti operavano quelle brutali e crudeli ricerche?

Adolfo Scalpelli