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Guy de Maupassant

RACCONTI E NOVELLE

Traduzione di Mario Picchi

Collana “I grandi libri” - ISBN: 8811363705 2004 - Garzanti Editore

> Ottimizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org <

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PALLINA

Per giorni e giorni i resti dell’esercito in rotta attraversarono la città. Non

erano soldati, ma orde sbandate. Gli uomini, con la barba lunga e sporca, le

uniformi a brandelli, camminavano con passo stanco, senza bandiera, senza capi.

Parevano tutti depressi, sfiancati, incapaci di pensare o di decidere, andavano

avanti solo per abitudine, e appena si fermavano cadevano giù dalla fatica. Erano

per lo più richiamati, gente pacifica, tranquilli possidenti, curvi sotto il peso del

fucile; giovanissime reclute, vivaci, facili a spaventarsi come a entusiasmarsi,

pronte all’attacco come alla fuga; in mezzo ad essi, alcuni pantaloni rossi, resti

d’una divisione maciullata in una grande battaglia; scuri artiglieri in fila con fanti

di diverse armi; e, ogni tanto, l’elmo lucido d’un dragone dal passo pesante che

seguiva faticosamente la marcia più spedita dei fanti. Passavano anche legioni di

franchi tiratori dai nomi eroici: «i Vendicatori della Disfatta; i Cittadini della

Tomba; i Votati alla Morte», e dall’aspetto di banditi.

I loro capi, ex commercianti di tessuti o di granaglie, ex venditori di sego o di

sapone, guerrieri d’occasione, coperti d’armi e di gradi, imbottiti di maglie, che

erano stati nominati ufficiali per i loro soldi o per la lunghezza dei loro baffi,

parlavano con voce stentorea, discutevano piani di battaglia, e pretendevano di

sostenere da soli, sulle loro spalle di fanfaroni, la Francia agonizzante: ma

avevano anche paura dei loro soldati, gente da forca, spesso coraggiosi

all’estremo, predoni e viziosi.

I prussiani - si diceva - stavano per entrare a Rouen.

La Guardia Nazionale, che da due mesi faceva prudentissime ricognizioni nei

boschi vicini, sparando talvolta alle proprie sentinelle, e preparandosi al

combattimento quando sentiva un coniglietto muoversi tra le frasche, era

rientrata alla base; le armi, le divise, tutto l’apparato bellico con cui spaventava i

paracarri delle strade nazionali nel giro di una diecina di chilometri, erano

improvvisamente scomparsi.

Gli ultimi soldati francesi erano finalmente riusciti ad attraversare la Senna,

per raggiungere Pont-Audemer attraverso Saint-Sever e Bourg-Achard; e in coda

a tutti, il generale, disperato, impedito di tentare alcunché con quell’accozzaglia

di straccioni, egli stesso sperduto nella grande sconfitta d’un popolo abituato a

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vincere e battuto disastrosamente nonostante il suo leggendario coraggio, veniva

a piedi, camminando fra due ufficiali d’ordinanza.

Poi una profonda calma, un’attesa sgomenta e silenziosa erano discese sulla

città. Parecchi borghesi panciuti, evirati dal commercio, attendevano

ansiosamente i vincitori, tremando al pensiero che venissero considerati come

armi gli spiedi del girarrosto o i coltellacci delle cucine.

Pareva che la vita si fosse fermata: le botteghe erano chiuse, le strade

silenziose. Ogni tanto un abitante, intimorito dal silenzio, sgattaiolava rapido

lungo i muri.

L’angoscia dell’attesa faceva desiderare l’arrivo del nemico.

Nel pomeriggio del giorno che seguì la partenza delle truppe francesi, alcuni

ulani, usciti non si sa di dove, attraversarono rapidamente la città. Un po’ più

tardi una massa nera discese la costa di Santa Caterina, mentre altre due ondate

d’invasori comparivano dalle strade di Darnetal e di Boisguillaume. Le

avanguardie dei tre corpi d’armata si congiunsero proprio nello stesso momento

in piazza del Municipio; e da tutte le strade vicine arrivava l’esercito tedesco,

snodando i suoi battaglioni, che facevano risuonare il selciato con il loro passo

duro e cadenzato.

Lungo le case che parevano morte e deserte salivano gli ordini gridati da una

voce straniera e gutturale, mentre dietro gli scuri socchiusi gli occhi degli abitanti

spiavano i vincitori, padroni della città, dei beni e delle vite per «diritto di guerra».

Nelle stanze in penombra gli abitanti erano in preda allo sgomento che

provocano i cataclismi, i grandi e micidiali sconvolgimenti della terra, contro i

quali forza e saggezza sono inutili. Poiché, ogni volta che l’ordine delle cose è

rovesciato, quando non c’è più sicurezza, quando tutto ciò ch’era protetto dalle

leggi degli uomini o della natura si trova alla mercè d’una feroce ed incosciente

brutalità, allora quelle stesse sensazioni ricompaiono. Il terremoto che schiaccia

sotto le case in rovina un intero popolo; il fiume che straripando trascina assieme

contadini annegati, carogne di bovi e travi strappate dai tetti; oppure l’esercito

glorioso che massacra chi cerca di difendersi e imprigiona gli altri, che saccheggia

in nome della Spada e ringrazia Iddio col rombo del cannone: sono altrettanti

flagelli spaventosi che scuotono qualunque fede nell’eterna giustizia qualunque

fiducia ci sia stata insegnata nella protezione del Cielo e nella ragione dell’uomo.

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Ad ogni porta bussavano piccoli gruppi di soldati, che poi scomparivano

dentro le case. Era l’occupazione dopo l’invasione. Per i vinti cominciava il dovere

d’essere cortesi coi vincitori.

Passato un po’ di tempo, e scomparsi i primi terrori, s’instaurò una nuova

calma. In molte famiglie l’ufficiale prussiano mangiava a tavola con gli altri.

Trattandosi talvolta di persona bene educata, costui, per gentilezza, commiserava

la Francia e manifestava la ripugnanza di dover prender parte a una simile

guerra. Gliene erano riconoscenti; senza contare che un giorno o l’altro potevano

aver bisogno della sua protezione. Trattandolo bene si poteva forse ottenere di

dover nutrire qualche soldato di meno. E poi, perché mettersi contro uno da cui

si dipendeva completamente? Un simile comportamento sarebbe stato più

temerario che audace. E la temerità non è più un difetto dei borghesi di Rouen,

come lo era stato ai tempi delle eroiche difese che resero illustre la loro città. E

per ultimo - motivo essenziale, data l’urbanità francese - dicevano che era

permesso esser gentile coi soldati nemici, nell’intimità, purché non gli si

dimostrasse familiarità in pubblico. Per strada non ci si conosceva più, ma in

casa si chiacchierava volentieri, e ogni sera il tedesco si tratteneva sempre più, a

riscaldarsi accanto al focolare.

Anche la città riprendeva a poco a poco il suo aspetto solito. Per il momento i

francesi uscivano poco, ma i soldati prussiani pullulavano nelle strade. Del resto

gli ufficiali degli ussari blu che con arroganza facevano risuonare sul selciato i

loro grandi arnesi di morte, non pareva che avessero per i comuni cittadini un

disprezzo maggiore di quello che l’anno prima avevano dimostrato gli ufficiali

alpini francesi, sedendo negli stessi caffè.

Tuttavia c’era qualcosa nell’aria, qualcosa di sottile e d’ignoto, una

insopportabile atmosfera estranea e una specie di odore diffuso, l’odore

dell’invasione. Riempiva le case e i locali pubblici, mutava il gusto dei cibi, dando

l’impressione che si fosse in viaggio, lontanissimi, fra tribù barbare e pericolose.

I vincitori volevano denaro, molto denaro. Gli abitanti pagavano sempre; erano

ricchi, del resto. Ma più l’opulenza di un negoziante normanno cresce, più egli

soffre per ogni sacrificio, per ogni brincello del suo patrimonio che vede passare

nelle mani d’un altro.

Intanto, alcuni chilometri più giù della città, seguendo il corso del fiume, verso

Croisset, Dieppedalle o Biessart, i barcaioli e i pescatori traevano spesso dal

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fondo dell’acqua il cadavere d’un tedesco, enfiato nell’uniforme, ucciso a coltellate

o a colpi di zoccolo, con la testa schiacciata da una pietra, o spinto in acqua

dall’alto di un ponte. La melma del fiume seppelliva queste oscure vendette,

selvagge e legittime, eroismi sconosciuti, assalti silenziosi, più pericolosi delle

battaglie alla luce del giorno, e senza il frastuono della gloria.

Poiché l’odio contro lo straniero arma sempre la mano degli intrepidi pronti a

morire per un’idea.

Infine, siccome gl’invasori - per quanto avessero piegato la città alla loro

inflessibile disciplina - non avevano perpetrato nessuno degli orrori che avrebbero

dovuto, secondo quanto si diceva, durante la loro marcia trionfale, ci

s’imbaldanzì, e il bisogno di trafficare ricominciò ad agitarsi nel cuore dei

commercianti del paese. Taluni avevano grossi interessi a Le Havre, che era in

mano delle truppe francesi, e vollero tentare di raggiungerne il porto andando via

terra a Dieppe, e lì imbarcandosi.

Ricorsero agli ufficiali tedeschi che avevano conosciuto, e ottennero

un’autorizzazione a partire dal generale in capo.

Così, avevano prenotato per il viaggio una grande diligenza a quattro cavalli.

Dieci persone s’erano messe in nota all’ufficio, e decisero di partire un martedì

mattina, prima dell’alba per evitare assembramenti.

Già da tempo il gelo aveva indurito la terra, e il lunedì verso le tre dei nuvoloni

neri provenienti dal nord portarono la neve, che cadde ininterrottamente per tutta

la sera e per tutta la notte.

I viaggiatori si riunirono alle quattro e mezzo del mattino nel cortile

dell’Albergo di Normandia, donde sarebbe partita la diligenza.

Erano ancora insonnoliti e sotto i panni tremavano dal freddo. Nell’oscurità si

riconoscevano a malapena; e tutti quei corpi imbottiti dai pesanti abiti da

inverno, somigliavano a dei preti obesi nelle loro sottane. Due uomini si

riconobbero, un terzo li accostò, cominciarono a parlare. - Porto con me mia

moglie, - disse uno. - Anch’io. - E io pure. - Il primo aggiunse: - Non ritorneremo

più a Rouen, e se i prussiani s’avvicinano a Le Havre ce ne andremo in

Inghilterra. - Avevano gli stessi progetti, perché avevano la stessa mentalità.

Intanto la vettura non veniva ancora attaccata. Un lanternino, tenuto da un

garzone di scuderia, usciva ogni tanto da una porta scura e immediatamente

spariva in un’altra. Si sentivano dal fondo della stalla le zampe dei cavalli battere

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il suolo, smorzate dallo strame, e una voce d’uomo che parlava alle bestie e

bestemmiava. Un leggero bubbolio di sonagli annunciò ch’era cominciata la

bardatura; e il bubbolio divenne presto un fremito chiaro e continuo, ritmato dai

movimenti dell’animale, talvolta interrotto, e ripreso poi con una scossa brusca

che accompagnava il rumore sordo d’uno zoccolo che batteva sul suolo.

La porta si richiuse all’improvviso. Ogni rumore cessò. I borghesi, gelati, si

chetarono rimanendo immobili e irrigiditi.

Una ininterrotta cortina di fiocchi bianchi brillava senza posa scendendo verso

terra; annullava le forme, impolverando tutto con una spuma gelata; e nel vasto

silenzio della città calma e sepolta sotto l’inverno si sentiva soltanto l’indicibile,

vago e fluttuante stropiccio della neve che cadeva, sensazione più che rumore,

mischia di leggeri atomi, che parevano riempire lo spazio, coprire il mondo.

L’uomo col lanternino ricomparve, tirando dietro a sé, con una corda, un

cavallo triste, che lo seguiva malvolentieri. Lo mise contro il timone, attaccò le

tirelle, gli girò intorno parecchio per sistemare i finimenti, poiché dovendo reggere

il lume poteva usare una mano sola. Mentre andava a prendere l’altra bestia, vide

i viaggiatori immobili, già bianchi di neve, e disse: - Perché non salite in carrozza?

Almeno sarete al riparo...

Proprio non ci avevano pensato, e si precipitarono dentro. I tre uomini fecero

sistemare in fondo le loro mogli, poi salirono; le altre forme vaghe e velate

occuparono a loro volta i posti rimasti, in silenzio.

Il pavimento della diligenza era coperto di paglia e i piedi vi affondavano. Le

donne sedute in fondo accesero gli scaldini di rame a carbone chimico, che

avevano portato con sé, e per un po’ di tempo, a bassa voce, ne elencarono i

vantaggi, ripetendo cose che sapevano tutte da tempo.

Finalmente, appena la diligenza fu attaccata, con sei cavalli al posto di

quattro, a causa del tiro più faticoso, una voce dal di fuori chiese: - Son saliti

tutti? - Una voce da dentro rispose: - Sì. - La diligenza partì.

Andavano avanti piano piano, di passo. Le ruote affondavano nella neve, tutta

l’ossatura gemeva tra sordi scricchiolii: le bestie scivolavano, soffiavano,

fumavano; e la gigantesca frusta del cocchiere schioccava incessantemente,

volteggiando da ogni lato, e svolgendosi come un sottile serpente, d’improvviso

attorcigliandosi sulle groppe piene, che si tendevano in uno sforzo più violento.

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A poco a poco la luce aumentava. I leggeri fiocchi, che un viaggiatore -

autentico figlio di Rouen - aveva paragonato ad una pioggia di cotone, non

cadevano più. Una sporca luce filtrava attraverso i nuvoloni scuri e pesanti che

facevano apparire più splendida la bianchezza della campagna dove ogni tanto

appariva una fila di grandi alberi coperti di brina, o una capanna incappucciata

di neve.

Nella diligenza i passeggeri si guardavano incuriositi al triste chiarore

dell’alba.

In fondo, ai posti migliori, sonnecchiavano uno di fronte all’altro i coniugi

Loiseau, venditori di vino all’ingrosso in via Grand-Pont.

Già commesso d’un mercante che s’era rovinato con gli affari, Loiseau ne

aveva comprato il magazzino, e aveva fatto fortuna. Vendeva a pochissimo prezzo

dei vini pessimi ai piccoli minutanti di campagna, ed era considerato, dai

conoscenti e dagli amici, un furbo di tre cotte, un vero normanno astuto e

gioviale.

La sua fama di mariolo era così salda, che una sera, alla Prefettura, il signor

Tournel, rinomato autore di barzellette e di canzoncine, spirito sottile e mordace,

una celebrità locale, vedendo le signore un po’ insonnolite, aveva proposto di

giocare a «Loiseau vole»: la freddura attraversò i salotti del prefetto, arrivò in

quelli di città, e fece ridere per un mese tutte le ganasce della provincia.

Loiseau, inoltre, era famoso per i suoi scherzi d’ogni genere, per le sue

spiritosaggini buone e cattive; e nessuno parlava di lui senza aggiungere: - Quel

Loiseau, non ce n’è un altro come lui.

Basso di statura, aveva la pancia a pallone sormontata da un viso rubicondo

tra le fedine brizzolate.

Sua moglie, alta, robusta, risoluta, forte di voce e rapida nel decidere,

rappresentava l’ordine e la contabilità della ditta, che animava con la sua allegra

attività.

Accanto ad essi, più dignitoso, perché appartenente ad una casta superiore,

stava il signor Carré-Lamadon, persona ragguardevole, ben collocato nei cotoni,

proprietario di tre filande, ufficiale della Legion d’Onore e membro del Consiglio

generale. Finché era durato l’Impero, era stato a capo dell’opposizione benevola,

soltanto per farsi pagar più cara la sua adesione alla causa che egli - per usare la

sua espressione - combatteva ad armi cortesi. La signora Carré-Lamadon, assai

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più giovane di lui, era la consolazione degli ufficiali di buona famiglia mandati di

guarnigione a Rouen. Stava di fronte al marito, molto vezzosa, molto carina,

raggomitolata nella pelliccia, e guardava con occhio afflitto l’interno desolato della

diligenza.

I suoi vicini, il conte e la contessa Hubert de Bréville, portavano uno dei nomi

più antichi e più nobili di Normandia. Il conte, vecchio gentiluomo di grande stile,

cercava di accentuare con palesi accorgimenti la sua naturale somiglianza con il

re Enrico IV il quale, secondo una gloriosa leggenda di famiglia, avrebbe

ingravidato una signora di Bréville per cui il marito di quest’ultima fu fatto conte

e governatore di una provincia.

Collega di Carré-Lamadon al Consiglio generale, il conte Hubert rappresentava

nel dipartimento il partito orleanista. La storia del suo matrimonio con la figlia

d’un piccolo armatore di Nantes era sempre rimasta misteriosa. Ma siccome la

contessa aveva gran tono, sapeva ricevere meglio di chiunque, - si diceva pure

che fosse stata benvoluta da un figlio di Luigi Filippo - era ricercata dalla nobiltà

e il suo salotto era il primo della regione, l’unico dove fosse sopravvissuta l’antica

cortesia e dove fosse difficile entrare.

Si dice che il patrimonio dei Bréville, tutto in beni immobili, fruttasse

cinquecentomila lire di rendita.

Queste sei persone, che occupavano il fondo della carrozza, rappresentavano

la parte della società fornita di rendite, serena e forte, la gente onesta provvista di

Religione e di Principii.

Per una strana combinazione tutte le donne stavano sullo stesso sedile; le

altre vicine della contessa erano due suore che sgranavano lunghi rosari

biascicando paternostri e avemarie. La prima era vecchia, e aveva il viso butterato

dal vaiolo, come se le avessero sparato una scarica di mitraglia a bruciapelo.

L’altra, dall’aria molto patita, aveva una testina graziosa e malaticcia su un petto

da tisica consumata dalla fede divorante che crea i martiri e gli esaltati.

Di fronte alle due suore, un uomo e una donna attiravano tutti gli sguardi.

L’uomo, assai noto, era Cornudet il democratico, il terrore delle persone

perbene. Da vent’anni egli inzuppava il suo barbone fulvo nella birra di tutti i

caffè democratici. S’era mangiato, insieme ai fratelli e agli amici, un bel gruzzolo,

ereditato dal padre pasticciere, e aspettava con impazienza la venuta della

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repubblica per ottenere finalmente il posto che s’era meritato con tante bevute

rivoluzionarie.

Il quattro di settembre, forse in seguito a uno scherzo, credette d’essere stato

nominato prefetto, ma quando tentò d’insediarsi, gli uscieri, rimasti arbitri della

situazione, si rifiutarono di riconoscerlo, costringendolo ad andarsene. Buon

compagnone, d’altronde, inoffensivo e servizievole, s’era incaricato, con ardore

senza pari, d’organizzare la difesa. Aveva fatto scavare delle buche, nelle pianure,

aveva fatto abbattere i giovani alberi delle foreste vicine, aveva seminato trappole

su tutte le strade, e all’avvicinarsi del nemico, soddisfatto dei suoi preparativi,

aveva ripiegato in fretta verso la città. Pensava, ora, di essere più utile a Le Havre,

dove sarebbero state necessarie nuove fortificazioni.

La donna, una di quelle che vengon chiamate allegre, era rinomata per la sua

floridezza, che le aveva procurato il soprannome di Pallina. Piccina, tutta tonda,

grassa grassa, con le dita rigonfie strozzate alle falangi, simili a rosari di

salsicciotti, aveva la pelle lustra e tesa, un enorme seno che le gonfiava il vestito:

pure, era appetitosa e desiderata, tanto piacevole a vedersi era la sua freschezza.

Il suo viso era una mela rossa, un bocciolo di peonia vicino a schiudersi; vi si

aprivano, in alto, due magnifici occhi neri ombreggiati da lunghe e folte ciglia, e

sotto una bella bocca piccola, umida, da baci, guarnita di dentini lucenti e

microscopici.

Ella aveva inoltre - si diceva - moltissime inestimabili qualità.

Appena la riconobbero, indignati bisbiglii corsero tra le donne oneste, e le

parole «prostituta», e «vergogna pubblica» furono pronunciate così forte ch’ella

alzò il capo, e fece scorrere sui vicini uno sguardo così ardito e provocante che

subito si fece un gran silenzio, e tutti abbassarono gli occhi, eccettuato Loiseau, il

quale la guardava eccitato.

Ma poco dopo le tre signore ripresero la conversazione, divenute d’improvviso

amiche, anzi quasi intime, a causa della ragazza. Esse, così pareva loro, dovevano

riunire in fascio le loro dignità di spose, di contro a quella svergognata

mercenaria; poiché l’amore legale tratta sempre con arroganza il suo libero

confratello.

Anche i tre uomini, ravvicinati, alla vista di Cornudet, da un istinto di

conservatori, parlavano di soldi, affettando un’aria sdegnosa verso i poveri. Il

conte Hubert enumerava i danni che aveva patito per colpa dei prussiani, il

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bestiame rubato, i raccolti perduti, con la disinvoltura del gran signore dieci volte

milionario che dopo un anno avrebbe dimenticato tutte quelle rovine.

Carré-Lamadon, assai colpito nella sua industria di cotoni, s’era preoccupato di

mandare seicentomila franchi in Inghilterra, un’inezia che teneva in serbo per

ogni evenienza. Loiseau, dal canto suo, aveva brigato per vendere all’Intendenza

francese tutto il vino comune che gli era restato nelle cantine, dimodoché lo Stato

gli era debitore di una grossissima somma che egli sperava di riscuotere a Le

Havre.

Tutti e tre si lanciavano occhiate rapide e amichevoli. Per quanto fossero di

diversa condizione si sentivano affratellati dal denaro, la grande massoneria di

coloro che possiedono, di coloro che fanno tintinnare l’oro infilandosi la mano in

tasca.

La diligenza andava così piano che alle dieci del mattino aveva percorso una

quindicina di chilometri. Gli uomini scesero tre volte per fare a piedi le salite.

Cominciò a trapelare l’inquietudine, perché s’era previsto di mangiare a Tôtes, e

ormai c’erano poche speranze d’arrivarci prima di notte. Mentre tutti guardavano

sulla strada, se spuntasse una osteria, la diligenza s’incagliò in un mucchio di

neve e ci vollero due ore per liberarla.

L’appetito cresceva annebbiando i cervelli; e non si vedeva nessuna trattoria,

nessuna bottega di vini, poiché la venuta dei prussiani e il passaggio delle

fameliche truppe francesi avevano scoraggiato qualunque industria.

Gli uomini andarono alla ricerca di rifornimenti nei casolari lungo la strada,

ma non trovarono neanche un po’ di pane, poiché i contadini sospettosi

nascondevano tutto per paura dei soldati, i quali non avendo nulla da mangiare

prendevano per forza quel che trovavano.

Verso l’una del pomeriggio Loiseau dichiarò di sentirsi una gran buca nello

stomaco. Ma tutti, da parecchio tempo, erano nelle sue stesse condizioni; e il

violento bisogno di mangiare, sempre crescente, aveva ucciso la conversazione.

Ogni tanto qualcuno sbadigliava, imitato quasi subito da un altro; a sua volta,

ciascuno secondo il carattere, l’educazione, la posizione sociale, apriva

rumorosamente o con modestia la bocca, tappando in fretta con la mano il buco

spalancato dal quale usciva vapore.

Pallina s’era chinata parecchie volte, come a cercare qualcosa sotto le gonne.

Rimaneva un momento esitante, guardava i suoi vicini, poi si rialzava con calma.

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I visi dei viaggiatori erano pallidi e contratti. Loiseau dichiarò che avrebbe pagato

mille franchi per un prosciuttino. Sua moglie abbozzò un gesto di protesta; poi si

calmò. Sentir parlare di soldi sciupati la faceva sempre soffrire, e non riusciva

neanche a capire come si potesse scherzare su quell’argomento. - Il fatto è che

non mi sento bene, - disse il conte; - chissà perché non ho pensato a portar

qualcosa da mangiare. - Ognuno rivolgeva a se stesso lo stesso rimprovero.

Cornudet aveva una fiaschetta piena di rum: l’offrì in giro ma gli altri

rifiutarono con freddezza, tranne Loiseau che ne accettò una goccia e restituendo

la fiaschetta ringraziò dicendo: - Fa sempre bene, riscalda, e inganna l’appetito. -

L’alcool lo mise di buonumore, e propose di fare come nel piccolo naviglio della

canzone: di mangiare cioè il più grasso dei viaggiatori. L’indiretta allusione a

Pallina urtò le persone perbene. Nessuno rispose: il solo Cornudet sorrise. Le due

suore avevano smesso di biascicare avemarie, e con le mani nascoste nelle grandi

maniche stavano immobili, con gli occhi ostinatamente abbassati, senza dubbio

offrendo al Cielo, che gliele mandava, le loro sofferenze.

Finalmente, alle tre, mentre la diligenza stava in mezzo a una interminabile

pianura, senza nemmeno un villaggio in vista, Pallina si chinò con vivacità, e tirò

fuori di sotto al sedile un largo paniere coperto da un tovagliolo bianco.

Ne trasse dapprima un piattino, una delicata tazza d’argento, poi una

zuppiera dov’erano due interi polli in gelatina, già tagliati; si vedevano ancora nel

paniere tante altre buone cose incartate: sformati, frutta, dolci, tutte le provviste

per un viaggio di tre giorni, in modo da non dover mai ricorrere alla cucina degli

alberghi. I colli di quattro bottiglie sbucavano tra gli involti. La ragazza prese un

quarto di pollo e cominciò delicatamente a mangiarlo, con uno di quei panini che

in Normandia vengono chiamati «Reggenza».

Tutti gli sguardi erano su di lei. Poi l’odore si diffuse, fece dilatare le narici,

fece venire l’acquolina in bocca, provocò una dolorosa contrazione all’attaccatura

delle mascelle. Il disprezzo delle signore per la ragazza divenne feroce, quasi

voglia d’ammazzarla o di scaraventarla fuori della diligenza, lei, la sua tazza, il

suo paniere e tutto quel che c’era dentro.

Loiseau divorava con gli occhi la zuppiera del pollo. Disse: - La signora è stata

più prudente di noi... C’è della gente che pensa sempre a tutto. - Ella alzò la testa

verso di lui: - Ne volete, signore? È brutto star digiuni dalla mattina. - Egli si levo

il cappello: - Non dico di no, non ne posso più. Bisogna adattarsi, vero, signora? -

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E guardandosi intorno aggiunse: - In momenti simili è bello trovar qualcuno che

vi fa un piacere. - Per non sporcarsi i calzoni, spiegò un giornale che aveva con

sé, infilò la punta di un coltellino che portava sempre in tasca su una coscia

lustra di gelatina, e cominciò a mangiare, masticando con un piacere così visibile

che si sentì nella vettura un gran sospiro d’angoscia.

Allora Pallina, con voce umile e dolce, propose alle due suore di condividere la

sua colazione. Esse accettarono immediatamente, e senza alzar gli occhi

cominciarono a mangiare sveltissime, dopo aver farfugliato un ringraziamento.

Neanche Cornudet rifiutò l’offerta della sua vicina, e, insieme alle suore

spiegando dei giornali sulle ginocchia, venne formata una specie di tavola.

Le bocche s’aprivano e si chiudevano senza sosta, trangugiavano,

masticavano, inghiottivano ferocemente. Loiseau, nel suo angolo, lavorava sodo e

a bassa voce esortava sua moglie a far come lui. Costei tenne duro per un po’, ma

una più forte strizzata delle viscere la fece cedere. Allora suo marito, con una

frase tornita, chiese alla loro «deliziosa compagna» se gli permetteva di darne un

pezzetto alla signora Loiseau. Ella rispose: - Ma certo, signore, - con un grazioso

sorriso, e porse la zuppiera.

Ci fu un po’ d’imbarazzo quando fu stappata la prima bottiglia di bordò,

perché c’era una tazza sola. I viaggiatori se la passarono dopo averla ripulita. Il

solo Cornudet, senza dubbio per galanteria, posò le labbra sul punto ove era

rimasta l’umida traccia delle labbra della sua vicina.

Allora, circondati da persone che mangiavano, soffocati dall’odore dei cibi, il

conte e la contessa di Bréville e i Carré-Lamadon soffrirono l’odioso supplizio che

ha preso il nome da Tantalo. D’improvviso la giovane moglie dell’industriale emise

un sospiro che fece voltar tutte le teste: era bianca come la neve lì fuori; chiuse gli

occhi, la fronte le ricadde: era svenuta. Suo marito, fuori di sé, implorò aiuto.

Avevano perso tutti la testa, allorché la suora più anziana, reggendo il capo della

donna indisposta, le insinuò tra le labbra la tazza di Pallina facendole ingoiare

qualche goccia di vino. La bella signora si riscosse, aprì gli occhi, sorrise e

dichiarò con voce supplichevole che ora si sentiva benissimo. Ma perché il fatto

non si ripetesse, la suora la costrinse a bere un intero bicchiere di bordò,

dicendo: - È la fame, e nient’altro.

Allora Pallina, arrossendo, balbettò guardando i quattro viaggiatori rimasti a

stomaco vuoto: - Dio mio, se i signori e le signore volessero gradire... - Tacque,

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temendo di offenderli e che le rispondessero in modo oltraggioso. Loiseau disse: -

Perbacco, ma in casi come questi siamo tutti fratelli, e bisogna aiutarci. Suvvia,

signore, senza complimenti, accettate, che diamine! Non siamo neanche sicuri di

poter trovare un posto dove passar la notte. Di questo passo non arriveremo a

Tôtes prima di domani a mezzogiorno. - Gli altri esitavano ancora: nessuno aveva

il coraggio di prendersi la responsabilità di un «sì».

Il conte tagliò corto. Volgendosi verso la ragazzona intimidita, le disse con la

sua aria da gran signore: - Accettiamo con gratitudine, signora.

Il primo passo era il più difficile. Una volta passato il Rubicone ci si misero di

buzzo buono: il paniere fu vuotato. C’erano rimasti ancora uno sformato di fegato

di allodole, un pezzo di lingua affumicata, alcune pere spadone, un pezzo di

formaggio di Pont-l’Evêque, dei pasticcini e una tazza piena di cetriolini e cipolline

sottaceto: Pallina, come tutte le donne, andava matta per i sottaceti.

Non era possibile mangiare la roba della ragazza senza rivolgerle la parola.

Perciò cominciarono a parlare, dapprima con riservatezza, quindi, siccome ella si

comportava molto bene, con maggiore cordialità. Le signore di Bréville e

Carré-Lamadon, che avevano di gran belle maniere, si mostrarono delicatamente

cortesi. Soprattutto la contessa fece mostra dell’amabile condiscendenza propria

delle nobilissime signore, che nulla può contaminare, e fu affascinante. La

robusta signora Loiseau, che aveva un’anima di gendarme, rimase scontrosa,

parlando poco e mangiando molto.

Naturalmente si parlò della guerra. Si raccontarono cose orribili sui prussiani,

episodi di coraggio dei francesi; e tutta quella gente che fuggiva rese omaggio alla

bravura altrui. Subito dopo cominciarono a raccontare i fatti personali, e Pallina,

con vera commozione, con quel calore di eloquio che hanno talvolta le ragazze del

suo genere quando esprimono i loro slanci naturali, narrò in che modo aveva

lasciato Rouen:

- Dapprincipio credetti di poter rimanere - diceva. - La mia casa era ben

rifornita e preferivo dar da mangiare a qualche soldato piuttosto che scappare

chissà dove. Ma quando ho visto quei prussiani è stato più forte di me! Mi s’è

rimescolato il sangue dalla rabbia, e ho pianto di vergogna tutto il giorno. Ah! se

ero uomo! Li guardavo dalla finestra, quei maialoni col casco a punta, e la mia

donna di servizio mi reggeva le mani per impedirmi di scaraventargli i mobili

addosso. Poi ne son venuti certi per stare a casa mia: sono saltata addosso al

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primo. Non ci vuol mica tanto a strozzarli. Ce l’avrei fatta, con quello, se non

m’avessero tirato via per i capelli. Dopo, mi son dovuta nascondere; alla prima

occasione me ne sono andata ed eccomi qui.

Pallina fu molto complimentata. Ella saliva nella stima dei suoi compagni, i

quali non erano stati risoluti come lei; Cornudet, ascoltandola, sorrideva con la

benevolenza e l’approvazione dell’apostolo; proprio come un prete che senta un

fedele lodare Dio: poiché i democratici con la barba lunga hanno il monopolio del

patriottismo come gli uomini in sottana hanno quello della religione. Egli parlò a

sua volta con tono dottrinale, con l’enfasi che aveva imparato dai proclami

appiccicati ogni giorno sui muri, e terminò con uno squarcio d’eloquenza in cui

conciò a dovere quello «sporcaccione di Badinguet».

Subito Pallina se n’ebbe a male perché era bonapartista. Diventò più rossa

d’una ciliegia, e balbettando per l’indignazione:

- Avrei voluto veder voialtri al suo posto. Bella roba! L’avete tradito voi

quell’uomo! Sarebbe meglio andarsene dalla Francia se al governo ci fossero dei

cittadini come voi!

Cornudet era impassibile, con un sorriso sdegnoso e superiore, ma si sentiva

che le parole grosse stavano per volare, allorché il conte si pose in mezzo e riuscì,

non senza fatica, a calmare la ragazza esasperata, affermando con autorevolezza

che tutte le opinioni sincere erano rispettabili. La contessa e la moglie di

Carré-Lamadon, che nutrivano in cuore l’irragionevole odio della gente dabbene

contro la Repubblica, e l’istintivo affetto che hanno le donne per i governi

impennacchiati e dispotici, si sentivano, loro malgrado, attirate da quella

prostituta piena di dignità, che la pensava in un modo così simile al loro.

Il paniere era vuoto. In dieci l’avevano asciugato con facilità, rammaricandosi

che non fosse più grande. La conversazione andò avanti, un poco illanguidita ora

che non c’era più nulla da mangiare.

Cadeva la notte, l’oscurità a poco a poco diventava profonda, e il freddo, che si

fa sentir di più durante la digestione, faceva rabbrividire Pallina, nonostante la

sua grassezza. Allora la signora di Bréville le offrì il suo scaldino dove il carbone,

dalla mattina, era stato cambiato parecchie volte, e l’altra accettò subito, perché

si sentiva i piedi gelati. La signora Carré-Lamadon e la signora Loiseau offrirono i

loro alle due suore.

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Il vetturale aveva acceso i fanali, che rischiararono con un vivace brillio una

nuvola di vapore che saliva dalle groppe sudate dei cavalli da timone, e ai lati

della strada, la neve che pareva rotolare nei mobili riflessi delle luci.

Dentro non ci si vedeva più; all’improvviso ci fu un leggero rimestio fra Pallina

e Cornudet; Loiseau, che frugava nel buio con lo sguardo, credette di vedere

l’uomo barbuto scostarsi vivamente, come se avesse ricevuto una bella pedatona

allungata in silenzio.

Alcuni puntini luminosi apparvero in fondo alla strada: era Tôtes. La diligenza

camminava da undici ore, e, aggiungendovi le due ore di riposo concesse ai

cavalli, in quattro riprese, per mangiar l’avena e riprender fiato, si arrivava a

tredici ore. La vettura entrò in paese, e andò a fermarsi davanti all’albergo del

Commercio.

Lo sportello s’aprì: un ben noto rumore fece trasalire i viaggiatori: era il fodero

d’una sciabola che sbatteva al suolo. Subito dopo la voce d’un tedesco gridò

qualcosa.

Per quanto la diligenza fosse ormai ferma nessuno scendeva, come se i

viaggiatori s’aspettassero, uscendo, d’essere massacrati. S’affacciò il conducente

reggendo uno dei fanali che illuminò d’improvviso, fino in fondo alla vettura, le

due file di teste spaurite, con la bocca spalancata e con gli occhi sgranati dalla

sorpresa e dalla paura.

In piena luce, accanto al cocchiere, c’era un ufficiale tedesco, un giovane alto,

esageratamente smilzo, biondo, stretto nell’uniforme come una ragazza nel busto,

col berretto piatto e incerato messo di traverso che lo faceva somigliare al

fattorino d’un albergo inglese. Aveva dei baffi smisurati, con certi peli lunghi e

dritti che s’assottigliavano indefinitamente ai due lati, e terminavano con un pelo

solo biondo e così sottile che non si vedeva come finisse; e sembrava che gli

pesassero sugli angoli della bocca, stirando la gota e facendo ripiegare le labbra in

giù.

In un francese d’Alsazia invitò i viaggiatori a uscire dicendo duramente: -

Folete scentere, signori e signore?

Le suore furon le prime a obbedire, con una docilità di sante donne abituate a

ogni sottomissione. Dietro ad esse apparvero il conte e la contessa, seguiti

dall’industriale e da sua moglie, poi da Loiseau che spingeva innanzi la sua gran

metà. Quest’ultimo, posando il piede a terra, disse all’ufficiale, più per prudenza

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che per cortesia: - Buongiorno, signore. - L’altro, insolente come tutte le persone

onnipotenti, lo guardò senza rispondere.

Pallina e Cornudet, per quanto si trovassero vicino allo sportello, scesero per

ultimi, gravi e alteri davanti al nemico. La ragazza cercava di dominarsi e di star

calma; il democratico con mano tragica e un po’ tremante si tormentava la barba.

Essi volevano conservare la dignità, avendo capito che in simili circostanze

ognuno rappresenta un po’ il suo paese. Ambedue erano disgustati dal

comportamento dei loro compagni: ella cercava di mostrarsi più fiera delle sue

vicine, le donne oneste; mentre egli, conscio di dover dare l’esempio, seguitava

con l’atteggiamento la sua missione di resistenza, intrapresa scavando buche

nelle strade.

Entrarono nell’ampia cucina dell’albergo, e il tedesco, dopo essersi fatto dare il

permesso di viaggio firmato dal generale in capo, e dov’erano elencati nome,

connotati e professione dei viaggiatori, esaminò a lungo le persone, paragonando

ciascuno con le informazioni scritte.

Poi disse bruscamente: - Fa pene - e se ne andò.

Gli altri respirarono. Avevano ancora fame e fu ordinata la cena. Ci sarebbe

voluta una mezz’ora prima che fosse pronta e, mentre due serve se ne

occupavano, andarono a vedere le camere. Erano tutte nello stesso lungo

corridoio, che finiva con una porta a vetri su cui c’era un numero eloquente.

Era venuto infine il momento di mettersi a tavola, quando comparve il

padrone dell’albergo. Costui era un ex cavallaio, un omone asmatico con la gola

piena di fischi, di gorgoglii, di raschii. Suo padre gli aveva trasmesso il nome di

Follenvie.

Chiese:

- La signorina Elisabeth Rousset?

Pallina trasalì, si voltò:

- Sono io.

- L’ufficiale prussiano vuol vedervi subito, signorina.

- Me?

- Sì, se siete voi la signorina Elisabeth Rousset.

Turbata, rifletté un momento, dichiarando poi con decisione:

- Può darsi, ma non ci andrò.

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Ci fu un brusio attorno a lei; tutti discutevano, domandandosi il perché di

quell’ordine. Il conte le si accostò:

- Avete torto, signora; rifiutando non fareste che procurare delle gravi noie,

non soltanto a voi, ma anche ai vostri compagni. Non si deve mai resistere a chi è

più forte. Questa chiamata sicuramente non è pericolosa; sarà certo per qualche

formalità trascurata.

Tutti si unirono a lui nel pregarla, stimolandola, facendole raccomandazioni, e

alla fine convincendola; poiché temevano le complicazioni che potevano nascere

da un’impuntatura. Ella disse, infine:

- Siate certi che lo faccio soltanto per voi.

La contessa le prese una mano:

- E noi ve ne siamo grati.

Pallina uscì. Gli altri l’aspettarono per andare a tavola.

Ognuno si rammaricava di non essere stato chiamato al posto di quella

ragazza impetuosa e irascibile, e preparava mentalmente delle vigliaccherie, in

caso di chiamata.

Dopo dieci minuti ella ricomparve sbuffando, congestionata, fuori di sé.

Balbettava: - Che canaglia, che canaglia!

Tutti erano ansiosi di sapere, ma ella non aprì bocca; alle insistenze del conte

rispose, con molta dignità:

- Son cose che non vi riguardano, non posso dirvelo.

Si sedettero attorno a una gran zuppiera donde usciva un odore di cavoli.

Nonostante l’incidente la cena fu allegra. Il sidro era buono e ne bevettero, per

economia, i coniugi Loiseau e le suore. Gli altri chiesero vino; Cornudet volle la

birra. Aveva un modo tutto suo di stappare la bottiglia, di far spumeggiare il

liquido, di osservarlo inclinando il bicchiere, e di alzarlo controluce per

apprezzarne bene il colore. Mentre beveva, la sua gran barba, che aveva

conservato l’impronta della bevanda prediletta, pareva trasalir di tenerezza;

torceva gli occhi per non perdere di vista il bicchiere, e sembrava che compisse

l’unico atto per il quale era nato. Si sarebbe detto che dentro di sé facesse un

paragone e ritrovasse una specie di affinità tra le due grandi passioni che

dominavano la sua vita: la Birra e la Rivoluzione; sicuramente non poteva

assaggiare la prima senza pensare alla seconda.

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I coniugi Follenvie mangiavano proprio all’estremità della tavola. L’uomo, che

rantolava come una vecchia locomotiva, aveva troppa pressione nel petto per

poter parlare mangiando; ma la donna non stava zitta un momento. Raccontò le

sue Impressioni sull’arrivo dei prussiani, quello che facevano, quello che

dicevano, che li odiava, prima perché le costavano denaro e poi perché aveva due

figli sotto le armi. Si rivolgeva soprattutto alla contessa, lusingata di poter parlare

con una vera signora.

Abbassava la voce quando doveva dire certe cose, e ogni tanto suo marito

l’interrompeva: - Faresti meglio a star zitta, signora Follenvie. - Lei non gli dava

retta, e seguitava:

- Sissignora; quella gente lì non fa che mangiar patate e maiale, e poi maiale e

patate... E non crediate che siano puliti. No! Sporcano dappertutto, parlando con

rispetto. E li dovreste vedere quando fanno le esercitazioni, per ore e per giorni di

seguito; si mettono tutti in un campo, e avanti marsc e dietro front, e volta di qui

e volta di là. Almeno zappassero la terra, o facessero le strade a casa loro!

Nossignora, questi soldati non portano beneficio a nessuno! I poveracci li

debbono mantenere perché imparino soltanto a massacrare! Io sono una vecchia

senza educazione, è vero, ma quando li vedo che si sfogano a battere i piedi dalla

mattina alla sera, mi dico: «C’è della gente che per essere utile fa tante invenzioni,

e ce ne dev’essere altra che s’affatica tanto per far del male! Non è una vergogna

ammazzar la gente, si tratti di prussiani, o di inglesi, o di polacchi, o di francesi?

Se uno si vendica di chi gli ha fatto un torto, fa male, e infatti lo condannano; ma

quando massacrano i nostri figlioli come selvaggina, a fucilate, allora è bene, e

danno anche la medaglia a chi ne ha ammazzati di più!... No, sentite, non riuscirò

mai a capirlo!».

Cornudet alzò la voce:

- La guerra è una barbarie quando s’aggredisce un vicino pacifico; è un sacro

dovere quando si difende la patria.

La vecchia abbassò la testa:

- Sì, quando bisogna difendersi è un’altra cosa; ma allora non sarebbe meglio

ammazzare i re che lo fanno per il proprio piacere?

Gli occhi di Cornudet s’infiammarono.

- Brava cittadina! - disse.

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Carré-Lamadon stava riflettendo profondamente. Nonostante il suo fanatismo

per i grandi condottieri, il buon senso della contadina l’aveva fatto pensare al

benessere che nel paese avrebbero portato tante braccia inoperose - e di

conseguenza dannose - tante forze che restavano improduttive, se fossero state

usate per i grandi lavori industriali che non bastano i secoli a compiere.

Loiseau, alzandosi dal suo posto, andò a parlar sottovoce con l’albergatore.

L’omone rideva, tossiva, sputava: il suo ventre enorme sobbalzava di gioia alle

spiritosaggini del suo vicino; e gli comprò sei barili di bordò per la primavera,

quando i prussiani se ne sarebbero andati.

Appena finito di cenare, siccome i viaggiatori erano stanchi morti, se ne

andarono a letto.

Intanto Loiseau, che era stato attento a tutto, fece mettere a letto sua moglie,

e poi appoggiò alternativamente l’orecchio e l’occhio al buco della serratura per

cercar di scoprire quelli che chiamava «i misteri del corridoio».

In capo a un’ora sentì un fruscio, guardò meglio e vide Pallina, più grassoccia

che mai nel suo accappatoio di lana turchina orlato di pizzo bianco. Aveva in

mano una bugia, e andava verso la porta vetrata in fondo al corridoio. Accanto si

socchiuse una porta, e quando dopo qualche minuto ella ritornò, Cornudet in

maniche di camicia la seguì. Pareva che Pallina gli impedisse energicamente di

entrare in camera. Purtroppo Loiseau non riusciva ad afferrare le parole, ma

siccome i due alzavano la voce capì qualcosa. Cornudet insisteva con vivacità.

Diceva:

- Su, non fate la stupida, cosa ve ne importa?

Ella rispose in tono indignato:

- No, caro mio, ci sono momenti in cui certe cose non si fanno; qui poi,

sarebbe proprio vergognoso.

Indubbiamente l’altro non capiva, e chiese il perché. La ragazza allora

s’arrabbiò alzando di più la voce:

- Perché? Non capite perché? Quando in casa, forse nella camera qui accanto,

ci sono i prussiani?

Egli tacque. Quella specie di patriottico pudore da sgualdrina che non si

faceva toccare vicino al nemico, dovette ridestargli nel cuore la vacillante dignità,

poiché limitandosi a darle un bacio, se ne tornò in camera sua in punta di piedi.

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Loiseau, molto eccitato, lasciò il buco della serratura, fece un giro di danza

per la camera, si mise il berretto da notte, alzò il lenzuolo sotto cui giaceva la

dura carcassa della sua compagna, e la svegliò con un bacio, mormorando: - Mi

vuoi bene, tesoro?

Ormai la casa pareva addormentata. Ma poco dopo, in una direzione

indeterminata, da un punto qualsiasi che poteva essere tanto la cantina quanto il

solaio, si levò un russìo potente, uniforme, regolare, un rumore sordo e

prolungato, con dei borbottii di caldaia sotto pressione: Follenvie dormiva.

Avevano deciso di ripartire la mattina seguente alle otto, e si ritrovarono tutti

in cucina; ma la vettura stava solitaria in mezzo al cortile, con il mantice coperto

di neve, senza cavalli né vetturale. Quest’ultimo fu cercato invano nella scuderia,

nel magazzino, nella rimessa. Gli uomini uscirono, per andare a vedere se lo

trovavano in paese. Si rincontrarono nella piazza, in fondo alla quale c’era la

chiesa, e, ai lati, case basse dove si vedevano dei soldati prussiani. Il primo che

videro stava sbucciando patate. Il secondo, più giù, stava lavando la bottega del

barbiere. Un terzo, con un barbone fino agli occhi, abbracciava un bimbetto

piangente e cercava di calmarlo cullandolo sulle ginocchia; le grosse contadine

che avevano i mariti «al fronte», indicavano a gesti, agli obbedienti vincitori, il

lavoro che dovevan fare: spaccar la legna, versare il brodo sul pane affettato,

macinare il caffè; ce n’era uno, perfino, che lavava la biancheria della sua ospite,

una vecchia ormai incapace.

Il conte, stupefatto, interrogò il sacrestano che stava uscendo dal presbiterio.

Il vecchio bacchettone gli rispose:

- Ah, quelli non son mica cattivi; si dice che non siano prussiani. Son di più

su, non so bene di dove; e tutti hanno lasciato al paese moglie e figli; non si

divertono a far la guerra, date retta. Son sicuro che lassù si fanno dei gran pianti,

per questi uomini: e ci sarà gran miseria da loro, come da noi. Qui, per ora, non

siamo tanto disgraziati, perché del male non ne fanno, e lavorano come se fossero

a casa loro. Tra povera gente, signore, bisogna aiutarsi... La guerra la vogliono

quelli che comandano...

Cornudet, indignato dei cordiali rapporti stabilitisi tra vincitori e vinti, se ne

andò, preferendo piuttosto chiudersi in albergo. Loiseau disse una frase spiritosa:

- Stanno ripopolando. - Carré-Lamadon disse una frase grave: - Stanno

riparando. -

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E intanto il cocchiere non si trovava. Fu scoperto finalmente nel caffè del

villaggio, fraternamente seduto allo stesso tavolino con l’attendente dell’ufficiale.

Il conte lo apostrofò:

- Non vi era stato ordinato di attaccare i cavalli per le otto? - Sì, sì, ma dopo

ho avuto un altro ordine.

- Quale?

- Di non attaccar più.

- Chi vi ha dato quest’ordine?

- Perdio! Il comandante prussiano.

- Perché?

- Che ne so io? Andate a domandarglielo. Mi hanno proibito di attaccare, e io

non ho attaccato. Ecco tutto.

- Ve lo ha detto proprio lui?

- Nossignore, me l’ha detto l’albergatore da parte sua.

- E quando è stato?

- Ieri sera, quando me ne stavo andando a letto.

I tre uomini tornarono in albergo assai inquieti.

Chiesero di Follenvie, ma la sguattera rispose che il padrone, per via

dell’asma, non s’alzava mai prima delle dieci. Aveva categoricamente proibito che

lo svegliassero prima, fuorché in caso d’incendio.

Vollero parlare con l’ufficiale, ma era proprio impossibile nonostante abitasse

nell’albergo. Il solo Follenvie aveva l’autorizzazione di parlargli, quando si trattava

di affari civili. Allora si misero ad aspettare. Le donne risalirono nelle loro camere,

e cercarono d’ingannare l’attesa con dei nonnulla.

Cornudet si piazzò in cucina sotto l’alto camino, dove fiammeggiava un gran

fuoco. Si fece portare un tavolino da caffè, una bottiglietta di birra, tirò fuori la

pipa, che tra i democratici era tenuta in considerazione quanto lui stesso, come

se, servendo Cornudet, avesse servito la patria anche lei. Era una magnifica pipa

di schiuma, cotta in modo ammirevole, nera quanto i denti del suo proprietario,

ma ben modellata, lucida, familiare in mano sua e che completava la sua

fisionomia. E restò immobile, fissando lo sguardo ora sulle fiamme, ora sulla

schiuma che coronava il bicchiere; ogni volta che beveva si passava con aria

soddisfatta le dita lunghe e magre tra i capelli unti, e si asciugava i baffi orlati di

schiuma.

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Loiseau, col pretesto di sgranchirsi le gambe, andò in giro a vendere il suo

vino ai negozianti del paese. Il conte e l’industriale cominciarono a parlare di

politica. Facevano previsioni sull’avvenire della Francia: uno credeva negli

Orléans, l’altro in uno sconosciuto salvatore, un eroe che sarebbe spuntato nel

momento più tragico: forse un Du Guesclin, una Giovanna d’Arco; o un altro

Napoleone? Ah, se il principe imperiale non fosse stato così giovane! Cornudet

sorrideva, ascoltandoli, da uomo che sa bene cosa può riserbare il destino.

L’odore della sua pipa riempiva la cucina.

Mentre suonavano le dieci comparve Follenvie. Fu subito interrogato; ma poté

soltanto ripetere, per due o tre volte, e senza varianti, queste parole: - L’ufficiale

m’ha detto così: «Signor Follenvie, dovete impedire, domani, che venga attaccata

la carrozza di quei viaggiatori. Non debbono partire senza un mio ordine. Avete

capito? Basta così».

Allora vollero parlare con l’ufficiale. Il conte gli fece mandare il suo biglietto da

visita, nel quale Carré-Lamadon aggiunse il suo nome e tutti i suoi titoli. Il

prussiano fece rispondere che avrebbe ammesso alla sua presenza i due uomini

dopo aver mangiato, ossia verso l’una.

Le signore ridiscesero, e nonostante l’inquietudine, tutti mangiarono qualcosa.

Pallina pareva che si sentisse male, ed era assai sconvolta.

Stavano finendo di bere il caffè, quando l’attendente venne a chiamare quei

due signori.

Ad essi si unì Loiseau; tentarono di far venire anche Cornudet, per render più

solenne l’ambasceria, ma questi dichiarò con fierezza che non voleva avere alcun

rapporto coi tedeschi, e si rimise sotto il camino, ordinando un’altra birra.

I tre uomini salirono e furono fatti entrare nella più bella camera dell’albergo,

dove l’ufficiale era sdraiato in una poltrona, coi piedi sul piano del caminetto, e

stava fumando in una lunga pipa di porcellana, avvolto in una chiassosa

vestaglia, rubata senza dubbio nella casa abbandonata di qualche borghese di

cattivo gusto. Non si alzò, non li salutò, né li guardò. Era un magnifico campione

della villania propria dei soldati vincitori.

Finalmente dopo qualche istante disse:

- Cosa folete?

Parlò il conte: - Vorremmo partire, signore.

- No.

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- Potrei chiedervi il perché di questo rifiuto?

- Perché non foglio.

- Vi faccio rispettosamente osservare, signore, che il vostro generale in capo ci

ha rilasciato un permesso fino a Dieppe; e credo che non abbiamo fatto nulla

perché voi siate così severo.

- Non foglio, ecco tutto... Potete antarfene.

I tre uscirono, dopo essersi inchinati.

Il pomeriggio fu disastroso. Non riuscivano a rendersi conto del capriccio del

tedesco. E le supposizioni più strampalate turbinavano nei loro cervelli. Stavano

tutti in cucina, discutendo senza sosta, immaginando cose inverosimili. Forse li

volevano trattenere come ostaggi, ma a quale scopo? o farli prigionieri; o piuttosto

chiedere un grosso riscatto? Quest’ultimo pensiero li terrorizzò. I più ricchi erano

i più spaventati, e si vedevano costretti, per riscattar la vita, a versare sacchi

pieni d’oro nelle mani di quell’insolente soldato. Si lambiccavano il cervello per

inventare bugie passabili; per celare le loro ricchezze, per farsi credere poveri,

poverissimi. Loiseau levò la catena dall’orologio, e la nascose in tasca. La notte

che cadeva aumentava l’apprensione. Fu acceso il lume, e Loiseau, siccome

mancavano due ore alla cena, propose di fare una partita a trentuno. Sarebbe

stata una distrazione. Gli altri accettarono. Perfino Cornudet prese parte al gioco,

dopo avere spento, per cortesia, la pipa.

Il conte mescolò, e distribuì le carte: Pallina fece trentuno alla prima; e presto

l’interesse per la partita placò i timori che assillavano le menti. Cornudet

s’accorse che i coniugi Loiseau erano d’accordo per imbrogliare.

Al momento d’andare a tavola ricomparve Follenvie, e disse, con la sua voce

catarrosa: - L’ufficiale prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset se

non ha ancora cambiato idea.

Pallina stava ritta, immobile, pallida pallida, subito dopo fu presa da un tale

accesso di rabbia che, diventata paonazza, non poteva neanche parlare. Alla fine

scoppiò: - Direte a quel farabutto, a quello sporcaccione, a quella carogna di

prussiano, che non vorrò mai; sentitemi bene: mai, mai, mai.

Uscito che fu il grosso albergatore, tutti furono intorno a Pallina,

interrogandola, invitandola a spiegare il mistero. Dapprima ella cercò di resistere,

ma poi, trascinata dall’esasperazione, esclamò: - Cosa vuole?... cosa vuole? Vuol

venire a letto con me!

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L’indignazione fu così viva che la frase non scandalizzò nessuno. Cornudet

spezzò il bicchiere, sbattendolo con forza sulla tavola. Si levò un vocìo di

riprovazione, contro l’ignobile soldataccio, un urlo di collera; e si sentirono tutti

pronti a resistere, come se ad ognuno fosse stata chiesta una parte del sacrificio

che si pretendeva dalla ragazza. Il conte dichiarò con disgusto che quella gente si

comportava come gli antichi barbari. Le donne soprattutto manifestarono a

Pallina una commiserazione energica e affettuosa. Le suore, che si facevano

vedere soltanto all’ora dei pasti, avevano abbassato la testa, e non dicevano nulla.

Andarono a tavola, non appena si fu placato il primo slancio di furore, ma

parlarono poco: pensavano.

Le signore si ritirarono di buon’ora; gli uomini, fumando, organizzarono una

partita di écarté, invitando anche Follenvie, per poterlo abilmente interrogare sui

mezzi da usare per vincere la resistenza dell’ufficiale. Ma egli non pensava che

alle carte, non ascoltava, e ripeteva di continuo: - Attenti al gioco, signori, attenti.

- Era così intento che si scordava di sputare, ed allora, a momenti, pareva che gli

uscisse dal petto un suono d’organo. Il fischio dei suoi polmoni percorreva tutta

la gamma dell’asma, dalle note gravi e profonde, fino al chioccolìo acuto dei

galletti che si sforzano di cantare.

Rifiutò perfino di salire, quando sua moglie, che cascava dal sonno, lo venne a

cercare. Se ne andò sola, perché lei era «mattutina», sempre in piedi col sole,

mentre suo marito era «notturno», sempre pronto a trascorrere la notte con gli

amici. Egli le gridò: - Lasciami accanto al fuoco l’uovo sbattuto! - e si rimise a

giocare. Dopo aver capito che non c’era da tirargli fuori nulla, gli altri dissero che

era ora di smettere, e se ne andarono a letto.

Il giorno dopo si alzarono molto presto, con una vaga speranza, una maggior

voglia di andarsene, e il terrore di avere ancora una giornata da passare in

quell’orrido alberghetto.

Purtroppo i cavalli erano ancora nella scuderia, e il vetturale era sparito.

Allora, tanto per far qualcosa, si misero a girare attorno alla diligenza. Il desinare

fu triste: s’era prodotto una specie di raffreddamento nei riguardi di Pallina,

perché la notte, che porta consiglio, aveva modificato alquanto le opinioni. Quasi

quasi ora ce l’avevano con la ragazza, rimproverandola di non essere andata di

nascosto dal prussiano, sì da riservare ai suoi compagni una bella sorpresa per il

risveglio. Sarebbe stato tanto semplice! E d’altronde, chi l’avrebbe saputo? Poteva

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salvare le apparenze facendo dire all’ufficiale che aveva pietà dei suoi compagni

angustiati. Cosa poteva contare, per lei?

Però nessuno ancora confessava questi pensieri.

Il pomeriggio, siccome s’annoiavano, il conte propose di fare una passeggiata

nei dintorni del villaggio. Ognuno si coprì bene, e partirono tutti fuorché

Cornudet, che preferì restare accanto al fuoco, e le due suore, che passavano le

giornate in chiesa, o dal parroco.

Il freddo, che di giorno in giorno si faceva più intenso, pizzicava crudelmente il

naso e le orecchie; i piedi doloravano al punto che ogni passo faceva soffrire; e

non appena furono in vista della campagna, questa apparve loro così

spaventosamente lugubre sotto lo sterminato biancore, che subito tornarono

indietro, con l’anima gelata e il cuore stretto.

Le quattro donne camminavano avanti, e i tre uomini venivano dietro un po’

discosti.

Loiseau, che si rendeva conto della situazione, chiese all’improvviso se «quella

sgualdrina» aveva intenzione di farli restare ancora per parecchio tempo in un

simile luogo. Il conte, sempre gentile, disse che non si poteva pretendere da una

donna un così penoso sacrificio, che doveva essere spontaneo. Carré-Lamadon

notò che se i francesi - come si diceva - avevano intenzione di fare una

controffensiva da Dieppe, lo scontro doveva avvenire per forza a Tôtes. A questa

constatazione gli altri si preoccuparono. - E se cercassimo di scappare a piedi? -

disse Loiseau. Il conte scrollò le spalle: - Con tutta questa neve? con le nostre

donne? Saremmo subito inseguiti, ripresi dopo dieci minuti, e fatti prigionieri, in

balia dei soldati. - Era vero; tutti tacquero.

Le signore parlavano di mode; ma sembrava che qualcosa le dividesse.

All’improvviso, in fondo alla strada comparve l’ufficiale prussiano. La sua alta

figura di vespa in uniforme si stagliava sulla neve che chiudeva l’orizzonte, e

camminando scartava le ginocchia con la mossa caratteristica dei soldati che

cercano di non sporcarsi gli stivali accuratamente lucidati.

Passando accanto alle signore, s’inchinò, e guardò sprezzantemente gli

uomini, i quali, del resto, furono così dignitosi da non togliersi il cappello, per

quanto Loiseau ne avesse abbozzato il gesto.

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Pallina era arrossita fino alle orecchie; le tre donne sposate erano molto

umiliate per essersi fatte vedere dall’ufficiale in compagnia della ragazza ch’egli

aveva trattato tanto incivilmente.

Si cominciò a parlar di lui, del suo personale, del suo viso. La signora

Carré-Lamadon, che aveva conosciuto molti ufficiali, e poteva giudicarli da

competente, disse che era non c’è male; le dispiaceva perfino che non fosse

francese, perché di certo sarebbe stato un bell’ussaro, da far girare la testa alle

donne.

Dopo esser rientrati in albergo, non seppero più che fare. Ci fu perfino una

mezza litigata per cose da nulla. La cena, silenziosa, durò poco; e ognuno se ne

andò a letto sperando di dormire per ammazzare il tempo.

Il mattino seguente i viaggiatori scesero col viso stanco e gli animi inaspriti. Le

donne rivolgevano appena la parola a Pallina.

S’udì il rintocco d’una campana. C’era un battesimo. Pallina aveva un figlio

che veniva allevato da certi contadini d’Yvetot. Lo vedeva sì e no una volta

all’anno, e non si occupava punto di lui; ma il pensiero di quello che stava per

esser battezzato le suscitò un’improvvisa e violenta tenerezza per il suo, e volle

assolutamente assistere alla cerimonia.

Appena se ne fu andata, gli altri si guardarono, poi fecero capannello con le

sedie, sentendo che bisognava pur decidere qualcosa. Loiseau ebbe

un’ispirazione: a parer suo si doveva proporre all’ufficiale di trattenere la sola

Pallina, e di lasciar ripartire gli altri.

Follenvie s’incaricò dell’ambasciata, ma ridiscese quasi subito. Il tedesco, che

conosceva la natura umana, l’aveva messo alla porta. Avrebbe trattenuto tutti,

finché il suo desiderio non fosse stato soddisfatto.

Allora la natura plebea della signora Loiseau esplose: - Non moriremo mica di

vecchiaia qui. Dal momento che lo fa di mestiere, quella sgualdrina, di andare

con tutti gli uomini, mi pare che non abbia il diritto di rifiutare questo o un altro.

Dico io, ha pigliato tutto quel che ha trovato, a Rouen, perfino i cocchieri;

sissignora, il cocchiere della prefettura. Lo so, perché si serve da noi. E oggi che

dovrebbe tirarci fuori da quest’impiccio, fa la difficile, quella mocciosa! A me mi

pare che l’ufficiale si stia comportando bene. Forse è a digiuno da parecchio

tempo, e noi tre ci avrebbe senz’altro preferite. Invece no si contenta di quella di

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tutti. Rispetta le donne sposate. Pensateci un po’, lui è il padrone. Gli basterebbe

dire: «Voglio», e potrebbe prenderci per forza, coi suoi soldati.

Le altre due donne ebbero un piccolo brivido. Gli occhi della graziosa signora

Carré-Lamadon brillavano, ed era un poco pallida, come se si sentisse già presa

per forza dall’ufficiale.

Gli uomini, che stavano discutendo in disparte, s’avvicinarono. Loiseau,

furibondo, voleva consegnare «quella miserabile» al nemico, legati mani e piedi.

Ma il conte, che discendeva da tre generazioni d’ambasciatori, ed aveva la figura

del diplomatico, propendeva per l’astuzia: - Bisognerà convincerla, - disse. Allora

cospirarono.

Le donne s’avvicinarono, fecero crocchio; la discussione si estese, a voce

bassa, perché ognuno voleva dir la sua. Era una cosa molto ammodo, del resto.

Le signore, soprattutto, usarono delicati giri di frase, espressioni di mirabile

sottigliezza, per i discorsi più scabrosi. Un estraneo non avrebbe capito nulla

tante erano le precauzioni del parlare. Ma, poiché la leggera crosta di pudore che

ricopre tutte le donne del bel mondo è soltanto superficiale, costoro gioivano di

quell’avventura licenziosa, in fondo si divertivano pazzamente, si sentivano a loro

agio, intrugliando nell’amore con la sensualità d’un cuoco ghiotto che prepari il

pranzo a un altro.

L’allegria nasceva da sé, tanto buffa pareva quella storia. Il conte disse delle

spiritosaggini un po’ spinte, ma così bene che fece sorridere. A sua volta Loiseau

ne lanciò di più scurrili, ma che non diedero fastidio a nessuno; tutti erano

rimasti colpiti dalla frase brutale di sua moglie: - Dal momento che lo fa di

mestiere, perché dovrebbe rifiutarsi a quello o a un altro? - La graziosa moglie di

Carré-Lamadon sembrava perfino pensare che, nei panni di Pallina, avrebbe

rifiutato lui meno d’un altro.

Prepararono il blocco, a lungo, come se dovessero assediare una fortezza. Si

misero d’accordo sulla parte che ognuno avrebbe sostenuto, sulle argomentazioni

da portare, sulle manovre da eseguire. Furono concordati il piano d’attacco, le

astuzie da usare, e le sorprese dell’assalto, per obbligare quella cittadella vivente

a ricevere il nemico nella piazza.

Cornudet, però, restava in disparte, estraneo alla manovra.

Erano così intenti che non sentirono entrare Pallina. Il conte disse piano: -

Zitti, - tutti alzarono gli occhi. Era lì. Tacquero di colpo, e ci fu un certo

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imbarazzo, che impedì dapprima di rivolgerle la parola. La contessa, più scaltrita

degli altri nelle ipocrisie dei salotti, le chiese: - Era bello, il battesimo?

La ragazzona, ancora commossa, raccontò tutto, della gente, degli

atteggiamenti, perfino di com’era la chiesa. E aggiunse: - Fa bene pregare ogni

tanto.

Fino all’ora di mangiare le signore si limitarono a mostrarsi gentili con lei, per

accrescere la sua fiducia e la sua arrendevolezza ai loro consigli.

Appena furono a tavola ebbero inizio le prime avvisaglie. Dapprincipio furono

vaghi discorsi sull’abnegazione. Furono citati antichi esempi: Giuditta e Oloferne,

poi - senza alcun motivo - Lucrezia e Sesto, Cleopatra che faceva passare nel suo

letto tutti i generali nemici, riducendoli a esser servili come schiavi. Quindi

sciorinarono una storia di fantasia, sbocciata nella loro mente di milionari

ignoranti, in cui le cittadine di Roma, a Capua, facevano addormentare Annibale

tra le loro braccia, e con lui i suoi luogotenenti e le falangi dei mercenari. Furono

rammentate tutte le donne che fermarono i conquistatori, usando il proprio corpo

come campo di battaglia, come mezzo di dominio, come arma; che riuscirono a

vincere, con le loro eroiche carezze, esseri schifosi e odiati; che sacrificarono la

loro castità, per vendetta o per abnegazione.

Si parlò anche, a mezze parole, di quell’inglese di grande casato, la quale s’era

fatta inoculare una tremenda e contagiosa malattia per trasmetterla a Bonaparte,

che fu salvato per miracolo, all’ora del fatale incontro, da un improvviso

mancamento.

Tutti questi racconti furono fatti in modo corretto e moderato, ma talora

vibrante d’un entusiasmo atto a suscitare l’emulazione.

Si poteva credere, alla fine, che il compito della donna, su questa terra, fosse

un sacrificio continuo di se stessa, un perpetuo abbandonarsi ai capricci della

soldataglia.

Le due suore, immerse in profondi pensieri, pareva che non sentissero nulla.

Pallina non apriva bocca.

La lasciarono riflettere tutto il pomeriggio. Ma invece di chiamarla «signora»,

come avevano fatto fino ad allora, la chiamavano semplicemente «signorina» - e

nessuno sapeva bene perché - come se avessero voluto farle scendere un gradino

della stima che ella aveva raggiunto, farle sentire la vergogna della sua posizione.

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Mentre stavano servendo la minestra, apparve Follenvie, e ripeté la frase del

giorno prima: - L’ufficiale prussiano fa chiedere alla signorina Elisabeth Rousset

se non ha ancora cambiato idea.

Pallina rispose seccamente: - Nossignore.

Durante la cena la coalizione s’indebolì. Loiseau si fece sfuggire alcune frasi

infelici. Ognuno si dava un gran da fare per trovar nuovi esempi, e non trovava

nulla, quando la contessa, forse senza neanche pensarci, e per il vago bisogno di

fare un omaggio alla Religione, interrogò la suora più anziana sui grandi fatti

della vita dei santi. Molti hanno compiuto delle azioni che ai nostri occhi

apparirebbero come delitti, ma la Chiesa assolve senza difficoltà questi misfatti,

quando son compiuti per la gloria di Dio, o per il bene del prossimo. Era una

potente argomentazione, e la contessa ne approfittò. Così, fosse a causa di quelle

tacite intese o nascoste compiacenze di cui è maestro chiunque indossi un abito

ecclesiastico, fosse semplicemente a causa d’una felice mancanza d’intelligenza, o

d’una favorevole stupidità, la vecchia suora portò un grandissimo aiuto alla

cospirazione. Credevano che fosse timida, e si rivelò ardita, verbosa, violenta.

Costei non era vincolata dalle cautele della casistica; la sua dottrina era simile a

una sbarra di ferro; la sua fede non aveva mai esitazioni, la sua coscienza non

aveva scrupolo alcuno. Trovava semplice il sacrificio d’Abramo perché non

avrebbe esitato a uccidere suo padre e sua madre se glielo avessero ordinato

dall’alto; secondo lei nulla poteva dispiacere al Signore, quando l’intenzione fosse

buona. La contessa, profittando dell’autorità sacra dell’inattesa complice, le fece

fare una specie di edificante parafrasi di quest’assioma della morale: «Il fine

giustifica i mezzi».

Le chiedeva:

- Così, sorella, pensate che Dio accetti ogni mezzo, e perdoni qualunque

azione, quando il motivo sia puro?

- Chi potrebbe metterlo in dubbio, signora? Una azione in sé riprovevole

spesso diventa meritoria, perché è bene ispirata.

Andarono avanti di questo passo, mettendo in chiaro i voleri di Dio,

prevedendo le sue decisioni, costringendolo a interessarsi di cose, che, a dir la

verità, non lo riguardavano affatto.

E tutti questi discorsi erano involuti, misurati, abili. Eppure ogni parola della

santa donna con la cuffia faceva breccia nell’indignata resistenza della cortigiana.

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Poi la conversazione si sviò un poco, e la donna col rosario parlò delle case del

suo ordine, della sua superiora, di se stessa, e della sua graziosa vicina, la cara

suora Saint Nicéphore. Le avevano richieste da Le Havre per curare, negli

ospedali, centinaia di soldati colpiti dal vaiolo. Dipinse quei miseri, descrisse la

loro malattia. Così, intanto ch’erano ferme per strada a causa d’un capriccio di

quel prussiano, potevano morire tantissimi francesi che, forse, esse avrebbero

potuto salvare. Curare i soldati era proprio la sua specialità: era stata in Crimea,

in Italia, in Austria, e raccontando le sue campagne si rivelò all’improvviso come

una di quelle religiose battagliere, che sembran fatte apposta per seguire gli

accampamenti, per raccogliere i feriti nella mischia e che riescono, meglio dei

capi, a tenere a freno con una parola sola i vecchi soldati indisciplinati. Una vera

e propria suora Rataplan il cui viso straziato, crivellato d’innumerevoli buchi,

sembrava raffigurare le devastazioni della guerra.

Nessuno aggiunse una parola a quanto ella aveva detto, tanto l’effetto parve

eccellente. Dopo aver finito di mangiare ognuno risalì alla svelta in camera sua,

riscendendo la mattina dopo, assai tardi.

Desinarono tranquillamente, dando tempo al seme piantato il giorno prima di

germogliare e di dare i suoi frutti.

La contessa propose di fare una passeggiata, nel pomeriggio; e il conte,

com’era stato stabilito, prese sottobraccio Pallina, restando discosto dagli altri,

con lei.

Le parlò col tono familiare, paterno e un po’ altero che gli uomini posati usano

con le ragazze facili, chiamandola «mia cara bambina», trattandola dall’alto della

sua posizione sociale della sua indiscussa onorabilità. Andò subito al sodo della

questione:

- Allora, preferite lasciarci qui, esposti - come voi stessa, del resto - alle

violenze che seguirebbero una sconfitta dei prussiani; piuttosto che accordare

uno di quei favori, che avete conceduto così spesso, in vita vostra?

Pallina non rispose.

Egli seppe essere buono, ragionevole, sentimentale. Seppe restare «il signor

conte», ma mostrandosi, all’occorrenza, galante, complimentoso, insomma

amabile. Esaltò il servigio ch’ella avrebbe reso loro, parlò della loro riconoscenza;

poi, all’improvviso, dandole allegramente del tu: - Mia cara, pensa che potrà

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vantarsi d’aver goduto una ragazza così carina, come non ce ne son molte al suo

paese.

Pallina non rispose, e raggiunse il gruppo.

Appena furono rientrati andò in camera sua e non si fece più vedere. Gli altri

erano assai inquieti. Cosa avrebbe fatto? Sarebbe stato un bell’imbarazzo, se

avesse ancora resistito.

Suonò l’ora della cena: l’attesero invano. Follenvie, che entrava in quel

momento, annunciò che la signorina Rousset si sentiva indisposta, e perciò non

sarebbe scesa. Tutte le orecchie si rizzarono. Il conte, avvicinatosi all’albergatore,

disse a bassa voce: - Ci siamo? - Sì. - Per correttezza, non disse nulla ai suoi

compagni e si limitò semplicemente a fare un leggero cenno col capo. Subito da

tutti i petti uscì un gran sospiro di sollievo, i visi divennero allegri. Loiseau gridò:

- Perdindirindina! Pago lo sciampagna, se qui ce n’è! - e la signora Loiseau si sentì

mancare, quando il padrone tornò con quattro bottiglie in mano. Di colpo tutti

divennero chiacchieroni, chiassosi. Una gioia vivace riempiva i cuori. Il conte

parve accorgersi che la signora Carré-Lamadon era affascinante, l’industriale fece

dei complimenti alla contessa. La conversazione divenne brillante, allegra,

spiritosa.

All’improvviso Loiseau, col viso pieno di ansia, alzò il braccio gridando: -

Silenzio! - Tutti tacquero sorpresi, quasi spaventati. Allora egli tese l’orecchio e

chiedendo silenzio con le mani, alzò gli occhi al soffitto, si rimise ad ascoltare e

soggiunse con voce normale: - Rassicuratevi, tutto va bene.

Lì per lì non capirono, poi sorrisero.

Dopo un quarto d’ora ricominciò lo stesso scherzo, e lo ripeté spesso nel corso

della serata; fingeva di chiamare qualcuno al piano di sopra, gli dava dei consigli

a doppio senso, germogliati nella sua fantasia di commesso viaggiatore. Ogni

tanto, assumendo un’aria triste, sospirava: - Povera figliola... - oppure mormorava

tra i denti, con rabbia: - Farabutto d’un prussiano! - Oppure, proprio quando

nessuno ci pensava, esclamava più volte, con voce vibrante: - Basta! basta! -

aggiungendo, come se parlasse a se stesso: - Purché riusciamo a rivederla; non

vorrei che quel miserabile la facesse morire!

Nonostante fossero spiritosaggini di bassa lega, tutti si divertivano e nessuno

si sentiva offeso, poiché l’indignazione - come ogni altra cosa - dipende

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dall’ambiente; l’atmosfera che a poco a poco era venuta creandosi attorno a loro

era carica di pensieri licenziosi.

Alle frutta, anche le donne fecero spiritose e misurate allusioni. Gli sguardi

brillavano: avevano bevuto molto. Il conte, che anche oltrepassando i limiti

sapeva conservare una gravità contegnosa, fece un paragone, molto apprezzato,

sullo sciogliersi delle nevi al polo, e la gioia dei naufraghi i quali vedono aprirsi

una strada verso il sud.

Loiseau, ormai sfrenato, s’alzò con una coppa di sciampagna in mano: - Bevo

alla nostra liberazione! - Tutti si alzarono, acclamando. Perfino le suore, incitate

dalle signore, acconsentirono a bagnare le labbra nel vino spumante che non

avevano mai assaggiato. Dissero che sembrava limonata gassosa, però più

delicata.

Loiseau ricapitolò i fatti.

- E una disgrazia non avere un pianoforte, si potrebbe fare una quadriglia.

Cornudet non aveva aperto bocca, né fatto un gesto; sembrava sprofondato in

gravissimi pensieri e ogni tanto si tirava furiosamente quel suo barbone come se

volesse farlo diventar più lungo. Finché, verso mezzanotte, al momento di

separarsi, Loiseau un po’ titubante gli diede un colpetto sulla pancia e disse

barbugliando: - Non avete voglia di scherzare stasera, cittadino? Non dite nulla? -

Allora Cornudet rialzò bruscamente la testa e gettando uno sguardo vivido e

terribile sulla brigata: - Ve lo dico a tutti: avete commesso un’infamia! - Si alzò,

raggiunse la porta, ripetendo ancora: - Un’infamia! - e scomparve.

Dapprima questa frase raggelò tutti. Loiseau, interdetto, era rimasto a bocca

aperta; ma si riprese e all’improvviso esclamo, torcendosi dalle risa: - Vi scoprite

troppo, caro mio, vi scoprite troppo... - Siccome non capivano raccontò i «misteri

del corridoio». Risorse un’allegria sfrenata. Le signore si divertivano come pazze. Il

conte e Carré-Lamadon piangevano, dal ridere. Non riuscivano a crederci.

- Come? siete sicuro? voleva...

- Vi dico che l’ho visto...

- Perché c’era il prussiano nella camera accanto...

- Possibile?

- Ve lo giuro.

Il conte non ne poteva più. L’industriale si reggeva la pancia con le mani.

Loiseau seguitò:

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- Così, capite, stasera la storia non lo ha fatto ridere, proprio per niente.

E ricominciarono a ridere tutti e tre fino a non farcela più. Si lasciarono

ridendo ancora. Ma la signora Loiseau, che era come le ortiche, fece osservare a

suo marito, quando stavano per mettersi a letto, che «quella strega» della giovane

Carré-Lamadon per tutta la sera non aveva fatto che ridere controvoglia: - Le

donne, sai, quando hanno un debole per le uniformi, gliene importa poco che si

tratti di francesi o di prussiani. Mi domando e dico, Signore Iddio, se non è una

cosa da far rivoltare!

Tutta la notte nel corridoio oscuro si sentirono come dei fremiti, dei lievi

rumori, appena distinguibili, simili a soffii, scalpiccio di piedi nudi, impercettibili

scricchiolii.

Certo tutti s’addormentarono tardissimo, perché sotto le porte trasparirono

per parecchio tempo dei fili di luce. Lo sciampagna fa questo effetto; dicono che

guasti il sonno.

Il giorno dopo un chiaro sole invernale rendeva abbagliante la neve. La

diligenza, finalmente pronta, aspettava davanti alla porta; uno stormo di piccioni

bianchi, dagli occhi rosa macchiati al centro da un punto nero, impettiti sotto

l’imbottitura delle piume, passeggiavano con dignità tra le gambe dei sei cavalli

sparpagliandone lo sterco fumante dove cercavano il loro nutrimento.

Il cocchiere, avvolto nella pelliccia di montone, si fumava la pipa, seduto al

suo posto, intanto che i viaggiatori, raggianti, si facevano incartare le provviste

per il viaggio.

Mancava soltanto Pallina. Ella comparve.

Sembrava un po’ agitata, vergognosa, andò timidamente verso i suoi

compagni, i quali, tutti, con lo stesso movimento, si voltarono come se non

l’avessero vista. Con sussiego il conte prese sua moglie sottobraccio

allontanandola dall’impuro contatto.

La ragazza si fermò, sbalordita; e facendosi animo, mormorò umilmente: -

Buongiorno, signora - alla moglie dell’industriale. Costei fece soltanto un salutino

impertinente con la testa, accompagnandolo con un’occhiata di donna perbene

oltraggiata. Pareva che tutti avessero da fare, e le stavano lontani come se avesse

le gonnelle appestate. Poi si precipitarono in carrozza, ed ella entrò sola, per

ultima, rioccupando in silenzio il suo vecchio posto.

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Sembrava che non la vedessero, che non la conoscessero, ma la signora

Loiseau sogguardandola indignata, da lontano, disse al marito, a mezza voce: -

Per fortuna non sto accanto a lei.

La pesante vettura si scosse, e il viaggio ricominciò.

Dapprima nessuno parlò. Pallina non aveva il coraggio di alzar gli occhi. Era

furiosa contro i suoi vicini, e al tempo stesso umiliata per aver ceduto, si sentiva

insozzata dai baci del prussiano fra le braccia del quale l’avevano gettata,

ipocritamente.

La contessa, voltandosi verso la signora Carré-Lamadon, ruppe l’imbarazzante

silenzio.

- Conoscete, mi pare, la signora D’Étrelles?

- Sì, è una mia amica.

- Che donna incantevole!

- Affascinante! Una natura veramente eletta; è assai colta, e artista fino alla

cima dei capelli; canta in modo insuperabile, e disegna alla perfezione.

L’industriale discuteva con il conte e tra il tintinnio dei vetri ogni tanto

venivan fuori parole come: - Cedole... scadenza... premio... a termine.

Loiseau, che aveva sgraffignato all’albergo il vecchio mazzo di carte, unte per i

cinque anni di uso sulle tavole mal pulite, giocava a briscola con sua moglie.

Le suore si tolsero dalla cintura il lungo rosario che vi pendeva, si fecero

insieme il segno della croce, e all’improvviso le loro labbra cominciarono a

muoversi con gran rapidità, accelerando sempre più, quasi a precipizio, quel loro

vago mormorio, come per una corsa d’oremus; ogni tanto baciavano una

medaglia, si segnavano un’altra volta e ricominciavano il loro borbottio rapido e

continuo.

Cornudet, immobile, pensava.

Dopo tre ore che erano in strada, Loiseau raccattò le carte dicendo:

- Ho fame.

Sua moglie prese un pacchettino legato con lo spago, e ne trasse fuori un

pezzo di vitello freddo. Lo tagliò ammodo, in pezzettini regolari, e tutti e due si

misero a mangiare.

- Se facessimo lo stesso anche noi? - disse la contessa. I Carré-Lamadon e il

conte erano d’accordo, e allora furono scartati gli involti. In uno di quei recipienti

ovali che hanno sul coperchio una lepre di ceramica, per indicare che sotto c’è un

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pasticcio di lepre, c’erano vivande succulente, bianchi fiumi di lardo che

attraversavano la carne scura della cacciagione, insieme ad altre carni finemente

macinate. Un bel pezzo di groviera ch’era stato incartato in un giornale, recava

stampato sulla polpa grassa: «cronaca».

Le suore tirarono fuori un pezzo di salame odoroso d’aglio; e Cornudet

infilando insieme le mani nei tasconi del suo cappotto trasse da una quattro uova

sode, e dall’altra un cantuccio di pane. Levò il guscio alle uova, gettandolo ai suoi

piedi, fra la paglia, e le mangiò a morsi facendo cadere sulla sua gran barba dei

pezzetti di tuorlo che parevano stelle, perdute lì in mezzo.

Pallina si era levata dal letto in fretta, sconvolta, e non aveva pensato a

portarsi qualcosa: esasperata, fremente di rabbia, guardava quella gente che

mangiava tranquillamente. Fu presa dapprima da una collera furibonda e aprì la

bocca per gridare a tutti il fatto loro col torrente d’ingiurie che le saliva alle

labbra; ma era così fuori di sé che non riusciva a parlare.

Nessuno la guardava, o pensava a lei. Ella si sentiva soffocata dal disprezzo di

quegli onesti cialtroni che prima l’avevano sacrificata, e poi respinta come una

cosa sudicia e inutile. Ripensò al suo bel paniere pieno di cose buone che

avevano ingordamente mangiato, ai suoi polli lustri di gelatina, ai pasticci, alle

pere, alle quattro bottiglie di bordò; il suo furore svanì subito come una corda

troppo tesa che si spezzi, e si sentì vicina a piangere. Fece sforzi terribili, s’irrigidì,

ingoiò i singhiozzi come fanno i bambini, ma le lacrime salivano, luccicavano

sull’orlo delle palpebre, e presto due lacrimoni, staccandosi dagli occhi, le

rotolarono lentamente sulle guance. Altre le seguirono, più rapide, colando come

le gocce d’acqua che sgorgano dalla roccia e caddero una dopo l’altra sul suo seno

ricolmo.

La contessa se ne accorse e la indicò a suo marito con un segno. Questi

scrollò le spalle, come per dire: - Non ci posso fare nulla, non è colpa mia. - La

signora Loiseau sorrise silenziosa e trionfante, mormorando: - Piange sulla sua

vergogna.

Le suore avevano ricominciato a pregare, dopo aver riposto nel paniere

l’avanzo del salame.

Cornudet, che stava digerendo le uova, stese le sue lunghe gambe sotto il

sedile di faccia, rovesciò il capo, incrociò le braccia, sorrise come chi ha avuto

una buona idea e cominciò a fischiare la Marsigliese.

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I visi di tutti si oscurarono. La canzone popolare di certo non era gradita ai

suoi vicini. S’innervosirono, irritati e pronti a urlare come cani che sentono

suonare un organino. Egli se ne accorse e non si fermò più. Ogni tanto

cantarellava anche le parole:

Amour sacré de la patrie,

Conduis, soutiens, nos bras vengeurs,

Liberté, liberté chérie,

Combats avec tes défenseurs!

La vettura correva più lesta, la neve era più dura; e fino a Dieppe, per tutte le

lunghe e tetre ore del viaggio, tra gli scossoni della strada, al crepuscolo e poi

nella profonda oscurità che sopravvenne, egli continuò con feroce ostinazione il

suo fischio vendicatore e monotono, obbligando le menti stanche ed esasperate a

seguire il canto da cima a fondo, a ricordarsi ogni parola, applicandola a ciascuna

battuta.

Pallina seguitava a piangere; talora un singhiozzo che non era riuscita a

trattenere scivolava tra una strofa e l’altra, nelle tenebre.

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IN FAMIGLIA

Il tram di Neuilly aveva superato porta Maillot e ora correva lungo il vialone

che porta alla Senna. La piccola macchina, con il vagone attaccato dietro,

fischiava per evitare gli ostacoli, sputava vapore, ansimava, simile a una persona

che corra trafelata, e gli stantuffi facevano un rumore come gambe di ferro in

moto. La pesante calura di fine d’una giornata estiva gravava sulla strada, dalla

quale, senza che alitasse il più tenue venticello, si sollevava un polverone bianco,

gessoso, opaco, soffocante e caldo, che si appiccicava alla pelle umida, riempiva

gli occhi, penetrava nei polmoni.

La gente si affacciava sugli usci, cercando un po’ d’aria.

I vetri della carrozza erano abbassati e le tendine sventolavano, agitate dalla

corsa veloce. C’era poca gente dentro, perché nelle giornate calde tutti

preferiscono l’imperiale o le piattaforme. Erano grosse signore buffamente vestite,

le borghesi della periferia che al posto della distinzione che non possiedono

sfoggiano un’intempestiva dignità; e uomini stanchi dell’ufficio, col viso ingiallito,

la schiena curva e una spalla più alta dell’altra per via del lavoro che fanno curvi

sul tavolino. I loro visi scontenti e tristi rivelavano anche le preoccupazioni

domestiche, il continuo bisogno di denaro, le antiche speranze definitivamente

deluse: poiché tutti appartenevano a quell’esercito di poveri diavoli spelacchiati

che vegetano miseramente in una meschina casetta di gesso, dove una aiola fa da

giardino, in mezzo ai terreni di scarico che circondano Parigi.

Proprio accanto allo sportello, un ometto tarchiato, col viso pieno, il ventre che

gli ricadeva fra le gambe divaricate, vestito di nero e decorato, stava discorrendo

con un uomo alto e magro, di apparenza trasandata, che indossava un vestito di

tela bianca molto sporco, e aveva in testa un vecchio panama. Il primo, che

parlava adagio, esitando in modo da sembrare balbuziente, era il signor Caravan,

archivista capo al ministero della Marina. L’altro, ex ufficiale sanitario a bordo di

un piroscafo mercantile, si era stabilito nella frazione di Courbevoie dove

applicava su quella misera gente le vaghe cognizioni di medicina che gli erano

rimaste dopo la sua vita avventurosa. Il suo nome era Chenet, e si faceva

chiamare dottore. Correvano voci sulla sua moralità.

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Caravan aveva sempre fatto la solita vita dei burocrati. Da trent’anni si recava

in ufficio ogni mattina, passando sempre per le stesse strade, incontrandovi

sempre, alla stessa ora, negli stessi posti, gli stessi uomini che andavano al

lavoro; e tornava a casa, ogni sera, rifacendo lo stesso percorso e incontrando di

nuovo le stesse facce, che aveva visto invecchiare.

Ogni giorno, dopo aver preso il giornale da un soldo alla cantonata del

faubourg Saint-Honoré, andava a comprarsi un paio di panini, ed entrava nel

ministero con l’atteggiamento di un colpevole che vada a costituirsi; raggiungeva

in fretta l’ufficio, internamente agitato, aspettandosi sempre qualche rimprovero

per una qualsiasi negligenza che poteva aver commesso.

Nulla era mai intervenuto a modificare la monotona regolarità della sua

esistenza; nessun avvenimento lo interessava che non fosse lavoro d’ufficio,

promozioni o gratifiche. Sia al ministero che in casa (aveva sposato, senza dote, la

figlia di un collega) parlava soltanto di servizio. Nella sua mente atrofizzata dal

bestiale quotidiano lavoro non c’era posto per altri pensieri, per altre speranze,

per altri sogni, se non quelli relativi al ministero. Ma le sue soddisfazioni di

impiegato erano inquinate da un’amarezza: l’ammissione dei commissari di

marina, i lattonieri, come erano chiamati per via dei gradi d’argento, ai posti di

sottocapo e capo; e tutte le sere, a cena, discuteva animatamente con la moglie, la

quale condivideva il suo odio, per dimostrarle che era ingiusto, sotto qualunque

punto di vista, concedere impieghi a Parigi a gente destinata alla navigazione.

Era diventato vecchio, senza essersi accorto che la vita era trascorsa, perché

la scuola si era prolungata nell’ufficio, e gli istruttori che in passato lo facevano

tremare erano oggi sostituiti dai capi che egli temeva moltissimo. La porta di quei

despoti da camera lo faceva fremere da capo a piedi; e quel continuo timore

faceva sì che egli avesse un modo impacciato di presentarsi, un atteggiamento

umile e una specie di balbuzie nervosa.

Conosceva Parigi quanto può conoscerla un cieco condotto ogni giorno dal

cane alla stessa porta; e leggendo nel giornale da un soldo gli avvenimenti e gli

scandali, li considerava racconti di fantasia, inventati apposta per distrarre gli

impiegatucci. Uomo d’ordine, reazionario senza alcun partito, ma nemico di ogni

«novità», saltava le notizie politiche che, d’altronde, la sua gazzetta travisava

sempre a beneficio di interessi altrui; e tutte le sere, risalendo gli Champs

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Elysées, guardava la folla fluttuante a passeggio e l’onda incessante delle

carrozze, come fa il viaggiatore forestiero che attraversi lontane contrade.

In occasione del trentennio obbligatorio di servizio, compiuto proprio in

quell’anno, gli avevano conferito il 1° gennaio la croce della Legion d’Onore con

cui, nelle amministrazioni militari, viene ricompensata la lunga e miserabile

servitù - la chiamano: «leali servizi» - dei tristi forzati incollati alle scartoffie.

L’inaspettata onorificenza gli diede un nuovo, più alto concetto di sé, e gli fece

cambiare abitudini. Non portò più calzoni di colore e giacche fantasia, ma

soltanto calzoni neri e lunghe prefettizie sulle quali il suo «nastrino», assai largo,

spiccava di più; si faceva la barba tutti i giorni, si puliva le unghie con maggior

cura, si cambiava la camicia un giorno sì e uno no: insomma, per un legittimo

senso della decenza e per il rispetto dovuto all’Ordine nazionale del quale ora

faceva parte, era diventato, da un giorno all’altro, un altro Caravan, ripulito,

maestoso e condiscendente.

In casa, diceva ad ogni piè sospinto «la mia croce». Gli era venuto un tale

orgoglio, che non poteva più sopportare che altri avesse all’occhiello nastrini di

qualunque specie. Soprattutto si irritava nel vedere le decorazioni straniere - «in

Francia non dovrebbe essere permesso portarle» - e ce l’aveva in particolar modo

col dottor Chenet, che incontrava tutte le sere sulla tramvia, con un nastrino

diverso: bianco, azzurro, arancione o verde.

D’altra parte le conversazioni dei due uomini, dall’Arco di Trionfo sino a

Neuilly, erano sempre le stesse; e quel giorno, come i giorni precedenti, parlarono

prima dei vari abusi locali che indisponevano entrambi, poiché il sindaco di

Neuilly faceva il comodaccio suo. Poi, come capita sempre se si è con un medico,

Caravan avviò il discorso sulle malattie, sperando così di scroccare gratis qualche

piccolo consiglio o addirittura un parere, se avesse saputo farla bene, senza

mostrare troppo la corda. Da un po’ di tempo era preoccupato per sua madre.

Essa subiva sincopi frequenti e prolungate, e non voleva saperne di curarsi

benché avesse novant’anni suonati.

Caravan si commuoveva per la tarda età della madre e andava ripetendo al

«dottor» Chenet: - Non sono tanti quelli che arrivano a quest’età... - Si fregava le

mani tutto contento, non perché ci tenesse molto nel vedere eternarsi su questa

terra la buona donna, ma perché la lunga durata della vita materna era come una

promessa per lui.

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- Ah, sì, - continuò, - nella mia famiglia si va lontano; io, per conto mio, sono

certo che se non mi capita un accidente morirò vecchio.

L’ufficiale sanitario lo guardò con aria di compatimento; diede una rapida

occhiata al viso rubicondo del suo vicino, al collo adiposo, al ventre che gli

ricadeva tra le gambe flaccide e grasse, a quella rotondità apoplettica di vecchio

impiegato rammollito, e, sollevando con un gesto della mano il vecchio panama

che aveva in capo, gli disse con un sogghigno:

- Non siatene tanto certo, caro mio; vostra madre è uno stecco, mentre voi

siete un bidone gonfio.

Caravan, turbato, non rispose.

Il tram era giunto alla stazione. I due amici scesero, e Chenet offrì il vermut al

caffè del Globo, lì di faccia, che tutti e due erano soliti frequentare. Il padrone, un

amico, tese due dita che essi strinsero al disopra delle bottiglie del banco, poi

andarono a un tavolino ove tre appassionati di domino stavano giocando da

mezzogiorno. Vennero scambiati cordiali saluti, con il «Niente di nuovo?» di

prammatica. I giocatori ripresero la partita; Chenet e Caravan augurarono la

buona sera; gli altri tesero la mano senza alzare il capo, e ognuno dei due s’avviò

a casa per la cena.

Caravan abitava vicino all’incrocio di Courbevoie, in una casetta di due piani

dove a pianterreno c’era un barbiere.

Due camere, una sala da pranzo e una cucina, da cui alcune seggiole

sgangherate giravano da una parte all’altra, secondo le necessità, costituivano

tutto l’appartamento. La signora Caravan passava tutte le sue giornate a

lustrarlo, mentre i suoi figli, Marie Louise di dodici anni e Philippe Auguste di

nove, ruzzavano in mezzo ai rigagnoli della strada assieme a tutti gli altri monelli

del quartiere.

Al piano di sopra Caravan aveva sistemato sua madre, famosa in giro per la

sua avarizia, e tanto magra che la gente diceva che il «Buon Dio» le aveva

applicato i suoi stessi principii di parsimonia. Sempre di cattivo umore, non

passava giorno che non s’arrabbiasse e litigasse. Dalle finestre se la prendeva coi

vicini che stavano sugli usci, con l’erbaiola, con gli spazzini e anche con i monelli,

i quali, per vendicarsi, quand’ella andava fuori la seguivano da lontano e le

gridavano dietro: - Befana!

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Una servetta normanna, sventata in modo inverosimile, faceva le faccende, e

dormiva al secondo piano, vicino alla vecchia, per paura di qualche malore.

Quando Caravan rincasò, la moglie, che aveva la malattia cronica della

pulizia, stava strofinando con uno straccio di flanella le sedie d’acagiù sperdute

nella solitudine delle stanze. Portava sempre i guanti di filo, e in capo, di traverso,

una cuffietta guarnita di nastri multicolori; ogni volta che si faceva trovare

intenta a incerare, spazzolare, lucidare o lavare, diceva: - Io non sono ricca, in

casa mia tutto è modesto, ma la pulizia è il mio lusso, e in fondo è un lusso come

un altro.

Dotata di un caparbio buon senso, in ogni cosa era di guida a suo marito.

Tutte le sere a tavola e poi a letto, discorrevano a lungo delle cose d’ufficio e,

benché avesse vent’anni di più, Caravan si affidava a lei come a un direttore

spirituale e seguiva in tutto e per tutto i suoi consigli.

Bella non era mai stata; ora era proprio brutta, piccola e magrolina. La sua

incapacità a vestirsi aveva sempre occultato i suoi scarsi attributi femminili, che

avrebbero dovuto esser messi in risalto con degli abiti appropriati. Pareva che

avesse sempre la gonna di sghimbescio; si grattava spesso, in qualsiasi punto,

senza curarsi dei presenti, per una specie di mania che era quasi un tic. Il suo

unico ornamento era una profusione di nastri di seta, intrecciati sulle pretenziose

cuffiette che aveva l’abitudine di portare in casa.

Appena vide il marito si alzò, e baciandolo sulle fedine, gli chiese: - Caro, ti sei

ricordato di Potin? - (Era una commissione che egli aveva promesso di farle.)

Caravan si lasciò andare sgomento su una sedia: se n’era dimenticato per la

quarta volta.

- È una fatalità, - disse, - una vera fatalità; ci penso tutto il giorno, e la sera

me ne dimentico sempre.

Era tanto afflitto che la moglie lo consolò:

- Non importa, ci penserai domani. Al ministero, niente di nuovo?

- Sì, una notizia importante; un altro lattoniere nominato sottocapo.

Ella si fece seria:

- In quale ufficio?

- L’ufficio degli acquisti all’estero.

Ella si arrabbiò:

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- Cioè al posto di Ramon, proprio quello che avrei voluto per te. E Ramon, a

riposo?

- A riposo - balbettò lui.

La donna s’infuriò e la cuffia le s’inclinò sulla spalla:

- È finita, ecco, partita chiusa, capisci? lì dentro non c’è più niente da fare. E

come si chiama questo commissario?

- Bonassot.

Ella prese l’Annuario della Marina, che teneva sempre a portata di mano, e

cercò: «Bonassot - Tolone - Nato nel 1851 - Allievo commissario nel 1871,

vicecommissario nel 1875».

- È stato mai imbarcato?

A questa domanda Caravan si sentì riavere. Venne preso da un’allegria che gli

faceva ballonzolare il ventre:

- Come Balin, proprio come Balin, il suo capo.

E aggiunse, ridendo più forte, una vecchia storiella che deliziava tutto il

ministero:

- Guai se li mandassero in vaporino a fare un’ispezione alla stazione navale

del Point-du-Jour, si sentirebbero male durante il tragitto!

Ma la moglie rimaneva seria, come se non avesse inteso, e grattandosi adagio

il mento mormorò:

- Se almeno avessimo un deputato dalla parte nostra! Se alla Camera

venissero a sapere quel che succede là dentro, il ministero salterebbe subito...

Le sue parole vennero interrotte da alcune grida che provenivano dalle scale.

Marie Louise e Philippe Auguste, di ritorno dalla strada, a ogni scalino si davano

schiaffi e calci. La madre accorse, inviperita, li prese ognuno per un braccio, e li

tirò in casa a forza di energici strattoni.

Appena videro il padre si precipitarono su di lui, ed egli li baciò con tenerezza

e a lungo; poi si sedette, e se li prese sulle ginocchia per far due chiacchiere con

loro.

Philippe Auguste era un brutto bambino, spettinato, sudicio da capo a piedi,

con una faccia da cretino. Marie Louise già rassomigliava a sua madre, parlava

come lei, ripeteva le sue parole, ne imitava anche i gesti. Anche ella chiese:

- Niente di nuovo al ministero?

Caravan le rispose allegramente:

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- Il tuo amico Ramon, quello che tutti i mesi viene a cena da noi, sta per

lasciarci, pupetta. C’è un nuovo sottocapo al suo posto.

Ella alzò gli occhi verso il padre e con un compatimento da ragazzina precoce:

- Eccone un altro che ti ha fatto lo sgambetto.

Caravan smise di ridere e non rispose; poi per cambiare argomento si rivolse

alla moglie che ora stava pulendo i vetri:

- La mamma, su, sta bene?

La signora Caravan smise di strofinare, si girò, rimise a posto la cuffia che le

era andata a finire sulla schiena, e con le labbra tremanti:

- Ah! sì, parliamo un po’ di tua madre! Me ne ha combinata una davvero

carina! Figurati che poco fa la signora Lebaudin, la moglie del barbiere, è venuta

su per chiedermi in prestito un pacchetto d’amido; siccome io ero uscita tua

madre l’ha buttata fuori trattandola da «mendicante». Allora, capirai, gliene ho

dette quattro, alla vecchia. Ha fatto finta di non capire, come tutte le volte che le

si dice ciò che merita... ma è sorda come sono sorda io, son finzioni e nient’altro,

tant’è vero che è risalita subito in camera sua, senza aprir bocca.

Caravan, sconcertato, taceva. In quel momento entrò di corsa la servetta

annunciando la cena. Allora, per avvertire la madre, prese un manico di scopa,

che tenevano riposto in un angolo, e batté tre volte contro il soffitto. Quindi

passarono in sala da pranzo, e la signora Caravan scodellò la minestra, mentre

aspettavano la vecchia. Ma costei non veniva, e la minestra si freddava. Perciò si

misero a mangiare adagio adagio, e quando le scodelle furono vuote, aspettarono

un altro poco. La signora Caravan, furente, se la prendeva col marito:

- Lo fa apposta, sai. E tu la difendi sempre.

Egli, molto perplesso e combattuto, disse a Marie Louise di andare a chiamare

la nonna, e rimase fermo, con gli occhi bassi, mentre sua moglie con la punta del

coltello picchiava rabbiosamente il piede del bicchiere.

La porta si aprì all’improvviso, e ricomparve la bambina, sola, pallidissima e

senza fiato. Disse in gran fretta:

- La nonna è caduta in terra.

Caravan si alzò di scatto, e, buttando il tovagliolo sulla tavola, si slanciò su

per le scale facendole risuonare col suo passo pesante e precipitoso, mentre sua

moglie, certa che si trattasse di uno stratagemma della suocera, gli andava dietro

adagio scrollando le spalle con disprezzo.

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La vecchia giaceva distesa bocconi in mezzo alla camera, e quando il figlio

l’ebbe rivoltata, apparve immobile e asciutta, con la pelle ingiallita, rugosa,

incartapecorita, gli occhi chiusi, i denti stretti e il magro corpo irrigidito.

Caravan, in ginocchio accanto a lei, gemeva:

- Oh! povera mamma, povera mamma!

Ma l’altra signora Caravan, dopo averle dato una rapida occhiata, dichiarò:

- Bah! Ha avuto un’altra sincope, ecco; tanto per impedirci di cenare, puoi

esserne certo!

La misero sul letto, la svestirono completamente, e si misero tutti, Caravan,

sua moglie e la serva, a farle delle frizioni. Ma, nonostante i loro sforzi, non

rinveniva. Allora Rosalie fu mandata a chiamare il «dottor» Chenet che abitava

lungo la Senna, verso Suresnes. Era lontano, e l’attesa fu lunga. Finalmente

giunse, e dopo aver visitato, palpato, auscultato la povera vecchia, disse: - È

finita.

Scosso dai singulti Caravan si lasciò andare su quel corpo baciando con

frenesia il volto rigido di sua madre, piangendo tanto che i suoi lacrimoni

cadevano come gocce d’acqua sul viso della morta.

La signora Caravan giovane ebbe una appropriata crisi di dolore: in piedi,

dietro il marito, gemeva piano, stropicciandosi gli occhi con ostinazione.

Caravan, con il viso gonfio, gli scarsi capelli arruffati, bruttissimo nel suo

sincero dolore, si rialzò all’improvviso:

- Ma... siete sicuro, dottore... siete proprio sicuro?...

L’ufficiale sanitario si avvicinò rapidamente e maneggiando il cadavere con

destrezza professionale, come un negoziante che metta in valore la sua merce: -

Ecco, mio caro, guardate l’occhio. - Rialzò la palpebra e videro immutato lo

sguardo della vecchia, forse con la pupilla alquanto ingrandita. Caravan sentì

una stretta al cuore e un brivido di spavento gli percorse le ossa. Chenet afferrò il

braccio rattrappito, fece forza sulle dita per distenderle e, irritato come di fronte a

qualcuno che lo contraddicesse: - Guardate un po’ questa mano, guardate: io non

sbaglio mai, siatene certo.

Caravan ricadde contorcendosi sul letto, quasi mugghiando, mentre sua

moglie, continuando a piagnucolare, cominciò a fare le operazioni necessarie.

Avvicinò il comodino, vi stese una tovaglietta, vi pose sopra quattro candele e le

accese, prese un rametto di bosso che era infilato dietro allo specchio del camino,

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lo mise tra le candele, dentro un piattino che riempì d’acqua fresca, in mancanza

di quella benedetta. Poi, dopo aver riflettuto un istante, buttò nell’acqua un

pizzico di sale, immaginando certo con quell’atto di fare una specie di

consacrazione.

Quando ebbe terminato la figurazione che deve accompagnare la Morte, ella

rimase ferma, in piedi. L’ufficiale sanitario, che l’aveva aiutata a disporre gli

oggetti, le disse all’orecchio:

- Bisogna portar via Caravan.

Ella fece un cenno di assenso e, avvicinatasi a suo marito, sempre

inginocchiato e singhiozzante, lo prese per un braccio, mentre Chenet lo prendeva

per quell’altro.

Dapprima lo fecero sedere, e sua moglie, baciandolo in fronte, prese a

parlargli. L’ufficiale sanitario sosteneva i ragionamenti della donna, consigliava

fermezza, coraggio, rassegnazione, proprio ciò che non si può conservare in simili

fulminee sciagure. Poi lo ripresero sotto braccio e lo portarono via.

Piangeva come se fosse un grosso bambino, con singulti convulsi, affranto,

con le braccia penzoloni, le gambe fiacche; discese la scala senza rendersene

conto, muovendo i piedi macchinalmente.

Lo misero nella poltrona in cui sedeva di solito a tavola, dinanzi alla scodella

quasi vuota, nella quale era rimasto il cucchiaio con un pochino di minestra.

Rimase lì, senza fare un gesto, con lo sguardo fisso al bicchiere, talmente

inebetito che non pensava a nulla.

La signora Caravan, in un canto, stava parlando col dottore, informandosi

sulle formalità necessarie, sulle cose pratiche da farsi. Alla fine Chenet, che

pareva aspettar qualcosa, prese il cappello e, dicendo che non aveva ancora

cenato, salutò e fece per andarsene. La signora esclamò:

- Ma come, non avete cenato? Restate con noi, dottore, restate. Vi daremo

quello che c’è, perché capirete bene che noi non mangeremo molto.

Egli rifiutò, si scusò. Ella insistette:

- Ma via, rimanete. In momenti come questi si è contenti di avere un amico a

fianco, e voi forse potreste convincere mio marito a prendere qualcosa; ha tanto

bisogno di tenersi su.

Il dottore s’inchinò, e, posando il cappello su un mobile:

- Se è per questo, accetto volentieri, signora.

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Costei diede qualche ordine alla spaurita Rosalie, e si mise ella stessa a tavola

- per far finta di mangiare - disse - e tener compagnia al dottore.

Fu servita la minestra fredda. Chenet ne prese due scodelle. Poi comparve un

vassoio di trippa alla lionese odorosa di cipolla, e la signora Caravan decise di

assaggiarla.

- Buonissima - disse il dottore.

Ella sorrise:

- Vero?

Poi, rivolta al marito:

- Prendine un pochino, povero Alfred, tanto per non restare a stomaco vuoto;

pensa che dovrai far nottata!

Caravan porse docilmente il suo piatto, così come si sarebbe messo a letto, se

glielo avessero ordinato, obbediente a tutto, senza resistere né riflettere. Mangiò.

Il dottore si serviva da sé e per tre volte si rivolse al vassoio; invece la signora

Caravan infilzava di tanto in tanto con la punta della forchetta un bel pezzo di

trippa e lo ingoiava con una specie di studiata disattenzione.

Quando venne portata una zuppiera piena di maccheroni, il dottore esclamò:

- Perbacco, che buona roba!

E stavolta la signora Caravan servì tutti. Riempì anche le ciotole in cui

intrugliavano i bambini, i quali, non sorvegliati, bevevano il vino puro, e già

avevano cominciato a prendersi a calci sotto la tavola.

Chenet rammentò quanto quel piatto italiano piacesse a Rossini, e

all’improvviso: - Guarda, fa anche rima, potrebbe essere l’inizio di un poemetto:

Il Rossini molto buoni

Riputava i maccheroni...

Nessuno lo stava a sentire. La signora Caravan, divenuta a un tratto

pensierosa, rifletteva alle probabili conseguenze dell’accaduto; suo marito stava

facendo delle palline di mollica e le metteva in fila sulla tovaglia guardandole

fisso, come un idiota. La sete gli bruciava la gola, e portava incessantemente alle

labbra il bicchiere colmo di vino; la sua mente, già sconvolta dal colpo subìto e

dal dolore, era oscillante, gli pareva che ballasse nel subitaneo sbalordimento

della difficile digestione che era principiata.

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Il dottore beveva come una spugna, s’ubriacava a vista d’occhio, e anche la

signora Caravan subiva la reazione prodotta dalle scosse nervose, ed era agitata,

turbata anzi, e, benché bevesse soltanto acqua, si sentiva la testa piuttosto

annebbiata.

Chenet s’era messo a raccontare storie di decessi che gli parevano buffe. Nella

periferia parigina, abitata da gente di provincia, si nota nei riguardi della morte la

stessa indifferenza che hanno i contadini, anche se si tratta del padre e della

madre; quella mancanza di rispetto, quell’inconscia ferocia tanto comuni nelle

campagne e tanto rare a Parigi.

- L’altra settimana, per esempio, mi chiamarono d’urgenza in via Suteaux;

corro e trovo che il malato era già morto. La famiglia, ai piedi del letto, si stava

scolando una bottiglia di anisetta comprata il giorno prima per soddisfare un

capriccio del moribondo.

La signora Caravan non lo ascoltava, pensava sempre all’eredità, e Caravan,

svanito, non capiva nulla.

Venne servito il caffè, molto forte per sostenere il morale. Ogni tazzina,

annaffiata di cognac, fece imporporare le guance, rimescolando le poche idee

rimaste nei cervelli di già vacillanti.

Tutt’a un tratto il dottore si impadronì della bottiglia e versò a tutti

l’«ammazzacaffè». Senza parlare, intorpiditi dal dolce calore della digestione,

ovattati loro malgrado dal benessere animalesco prodotto dall’alcool dopo il pasto,

centellinavano adagio il cognac zuccherato che lasciava uno sciroppo giallastro in

fondo alle tazzine.

Rosalie mise a letto i bambini che si erano addormentati.

Caravan, spinto dal bisogno di stordimento che si prova nelle sciagure, bevette

parecchie volte; e gli occhi inebetiti gli luccicavano.

Finalmente il dottore si alzò per andarsene, e preso per il braccio l’amico gli

disse:

- Via, venite con me; un po’ d’aria vi farà bene, non bisogna star fermi quando

si soffre.

L’altro ubbidì con docilità, si mise il cappello, prese il bastone, e uscì.

Tenendosi a braccetto, discesero verso la Senna sotto le stelle limpide.

Nella notte calda vagavano nubi odorose, perché in quella stagione tutti i

giardini lì intorno erano pieni di fiori i quali, addormentati durante il giorno,

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pareva che si risvegliassero con l’avvicinarsi della notte, esalando profumi che si

frammischiavano alle leggere brezze vaganti nell’oscurità.

L’ampio viale era deserto e silenzioso, fiancheggiato dai lampioni a gas che si

distendevano fino all’Arco di Trionfo. E laggiù, Parigi rumoreggiava tra vapori

rossastri. Era una specie di continuo brontolio, al quale pareva che talora

rispondesse in lontananza, nella pianura, il fischio di un treno che arrivava a

tutto vapore, o che si allontanava, attraverso la provincia, verso l’Oceano.

L’aria libera sorprese i due uomini colpendoli in pieno viso sconvolse

l’equilibrio del dottore e aumentò le vertigini di Caravan. Egli camminava come in

sogno, con la mente intorpidita, paralizzata, senza provare gran dolore, preso da

una specie di torpore morale che non lo faceva soffrire, e provando anzi un

sollievo che le tiepide esalazioni diffuse nella notte rendevano più forte.

Giunti al ponte, svoltarono a destra, e vennero investiti dalla fresca brezza del

fiume. La Senna scorreva malinconica e placida davanti a un sipario di alti

pioppi; pareva che le stelle navigassero sull’acqua, mosse dalla corrente; una

nebbiolina biancastra ondeggiava sulla riva opposta recando umidi effluvi ai

polmoni. Caravan si fermò all’improvviso, colpito da quell’odore di fiume che gli

rimescolava nel cuore vecchissimi ricordi.

Rivide a un tratto la madre, nei lontani tempi della sua infanzia, inginocchiata

davanti alla porta di casa, laggiù in Piccardia, presso il ruscelletto che

attraversava il giardino, intenta a lavare i panni ammucchiati accanto a lei.

Riudiva i tonfi nel placido silenzio della campagna, e la sua voce che chiamava: -

Alfred, portami il sapone. - Sentiva, allora, il medesimo odore d’acqua che scorre,

di nebbia che si alza dalla terra grondante, di leggero vapore d’acquitrinio, di cui

aveva serbato indimenticabile il sapore, e che ora ritrovava proprio la sera della

morte di sua madre.

Si fermò irrigidendosi, ripreso da uno slancio di disperazione, come se un

lampo avesse rischiarato ad un tratto tutta la vastità della sua disgrazia, e l’odore

del fiume l’avesse sprofondato nell’abisso oscuro dei dolori senza conforto. Si

sentì il cuore straziato al pensiero della separazione senza fine. La sua vita veniva

tagliata in due e tutta la sua giovinezza scompariva inghiottita da quella morte.

Tutto il passato era finito, tutti i ricordi dell’adolescenza svanivano, nessuno

avrebbe più parlato di vecchie cose, di gente conosciuta in passato, del paese, di

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lui stesso, dei suoi affetti trascorsi; una parte del suo essere aveva finito di

esistere, toccava a quell’altra, ora, di morire.

Cominciò la rievocazione dei ricordi. Rivedeva la mamma più giovane, coi

vestiti che si erano logorati su di lei, indossati per tanto tempo che parevano

inseparabili dalla sua persona; la ritrovava in mille circostanze dimenticate: certe

espressioni ormai svanite, il tono della voce, le sue abitudini, le sue manie, le sue

collere, le rughe del volto, i movimenti delle dita magre e tutti gli atteggiamenti

familiari che ora non avrebbe avuto più.

Egli gemeva, aggrappandosi al dottore. Le flaccide gambe gli tremavano, il suo

corpo grasso era squassato dai singulti, e balbettava:

- La mia mamma, la mia povera mamma, la mia povera mamma!...

E il dottore, ancora brillo e desideroso di finire la serata in quei luoghi che

frequentava di nascosto, si spazientì all’acuta crisi di dolore, fece sedere il suo

compagno per terra, sull’erba della riva, e quasi subito lo lasciò, con la scusa di

una visita da fare.

Caravan pianse a lungo; poi quando non ebbe più lacrime, quando la sua

sofferenza fu, per così dire, trascorsa, sentì di nuovo una tranquillità, un sollievo,

un riposo subitanei.

La luna si era levata e bagnava l’orizzonte con la sua placida luce. Gli alti

pioppi si drizzavano con riflessi d’argento, e la nebbia sulla pianura pareva neve

che galleggiasse; il fiume non era più solcato dalle stelle natanti e scorreva

ricoperto di madreperla, corrugato da luccicanti tremori. L’aria era dolce e la

brezza odorosa. C’era una sorta di abbandono nel sonno della terra, e Caravan

beveva la dolcezza della notte, respirava profondamente, credendo di far

penetrare sino alle estremità delle sue membra una freschezza, una pace, una

consolazione sovrumane.

Tuttavia lottava contro il benessere che lo stava invadendo, e ripeteva: -

Mamma, mia povera mamma, - sforzandosi di piangere per una specie di dovere

di uomo perbene; ma non ci riusciva più, e non risentiva più la tristezza di poco

prima ai dolorosi pensieri che l’avevano fatto singhiozzare così a lungo.

Si alzò, per tornare a casa, e cominciò a camminare a passettini, avvolto dalla

tranquilla indifferenza della natura serena, e placato suo malgrado.

Appena fu arrivato sul ponte, vide il fanale dell’ultimo tram che stava per

partire e, dietro, i vetri illuminati del caffè del Globo.

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Provò, allora, il bisogno di raccontare a qualcuno la sua disgrazia, di muover

la compassione, di rendersi interessante. Assunse un aspetto pietoso, spinse la

porta del caffè, e andò verso il banco dove il padrone troneggiava in permanenza.

Sperava di far colpo, che tutti si alzassero in piedi, gli venissero incontro

porgendogli la mano: «Che c’è, cosa avete?».

Ma nessuno si accorse della desolazione del suo volto. Si appoggiò al banco

coi gomiti, e prendendosi la fronte con le mani sussurrò:

- Dio mio, Dio mio!

Il padrone lo guardò:

- Vi sentite male, signor Caravan?

Egli rispose:

- No, caro amico; ma è morta mia madre.

L’altro fece un «Ah!» distratto, e siccome in quel momento nel fondo della sala

un avventore chiedeva ad alta voce: - Una birra, per favore, - rispose subito con

voce tonante: - Ecco, bum!... vengo subito, - e corse a servirlo lasciando Caravan

sbalordito.

Alla stessa tavola di prima, i tre appassionati di domino stavano ancora

giocando, immobili e assorti. Caravan si avvicinò a loro, in cerca di compassione.

Sembrava che non lo vedessero ed egli si decise a parlare:

- Da quando ci siamo lasciati, - disse, - mi è capitata una gran disgrazia.

Sollevarono un poco la testa tutti e tre insieme, ma tenendo sempre lo

sguardo al gioco che avevano in mano.

- E così, che è successo?

- È morta mia madre.

Uno di essi mormorò: - Ah! perbacco - con il tono di falso dolore di chi è

indifferente. Un altro, che non sapeva cosa dire, scosse il capo ed emise una

specie di sibilo triste. Il terzo si rimise a giocare come se avesse pensato: «Tutto

qui?».

Caravan si aspettava una di quelle frasi che si dicono «sgorgate dal cuore».

Vedendosi accolto a quel modo, si allontanò indignato dalla loro calma davanti al

dolore di un amico, benché il dolore, in quel momento, si fosse tanto assopito che

quasi non lo sentiva più.

Uscì.

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Sua moglie lo aspettava in camicia da notte, seduta su di un panchetto

accanto alla finestra aperta, e continuava a pensare all’eredità.

- Spogliati, - gli disse, - parleremo a letto.

Egli alzò il capo, e indicando il soffitto con lo sguardo:

- Ma... di sopra... non c’è nessuno...

- Chiedo scusa, ora c’è Rosalie, e tu andrai a sostituirla verso le tre, dopo aver

dormito un po’.

Nondimeno Caravan rimase in mutande per essere pronto ad ogni occorrenza,

si annodò una pezzuola attorno al capo, poi raggiunse sua moglie che si era già

infilata sotto le lenzuola.

Rimasero per un poco seduti accanto. La donna era pensierosa.

La sua cuffia, anche a quell’ora, era adorna di un fiocco rosa e messa di

traverso, sull’orecchio, come per un’inveterata abitudine di tutte le cuffie che ella

si metteva.

Voltando improvvisamente il capo verso suo marito gli chiese:

- Sai se tua madre abbia fatto testamento?...

Egli era esitante:

- Io... non saprei... No, non c’è dubbio, non l’ha fatto.

La signora Caravan fissò suo marito negli occhi, e con voce bassa e rabbiosa:

- È una vergogna, ecco; perché, insomma, sono dieci anni che ci ammazziamo

a curarla, a darle da dormire e da mangiare! Tua sorella non avrebbe certo fatto

altrettanto, e neanche io, se avessi saputo qual era la ricompensa! Sì, è proprio

una vergogna per la sua memoria. Mi dirai che ci pagava la pensione: è vero, ma

le premure dei figli non si pagano col denaro, si devono riconoscere nel

testamento, dopo la morte. La gente perbene fa così! E così io ho buttato fatiche e

cure, a vuoto! Ah! bella roba! bella roba!

Caravan, smarrito, ripeteva: - Tesoro, tesoro, ti prego, ti scongiuro.

Alla fine la donna si calmò, e riprese col suo solito tono: - Domattina

bisognerà avvertire tua sorella.

Egli trasalì: - Hai ragione, non ci avevo pensato; manderò un telegramma

appena sarà giorno.

Ella l’interruppe, da donna che ha pensato a tutto.

- No, mandaglielo tra le dieci e le undici, perché si abbia almeno il tempo di

respirare prima del suo arrivo. Da Charenton a qui ci vorranno sì e no due ore.

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Diremo che avevi perso la testa. Avvertendola in mattinata non ci

compromettiamo mica!

Caravan si batté la fronte, e col tono timido che aveva sempre ogni qualvolta

parlava del suo superiore - tremava soltanto a pensarci - disse:

- Bisognerà che avverta il ministero.

La moglie rispose: - Perché avvertire? In casi come questo, una dimenticanza è

sempre scusata. Non ti muovere, dammi retta; il tuo superiore non potrà dirti

niente e lo metterai in un bell’impiccio.

- Oh, certo, - egli disse, - e diventerà furioso non vedendomi arrivare. Sì, sì,

hai ragione, è una magnifica idea. Quando gli dirò che mi è morta la madre, sarà

costretto a chetarsi.

E mentre di sopra il corpo della vecchia giaceva accanto alla serva

addormentata, l’impiegato, entusiasta del bello scherzo, si fregava le mani

pensando alla faccia che avrebbe fatto il suo superiore.

La signora Caravan era pensosa, come assillata da una preoccupazione che

non poteva esprimere. Finì per decidersi:

- Tua madre non ti aveva regalato la pendola, quella con la ragazzina e il

misirizzi?

Egli frugò nella memoria e rispose: - Sì, sì, me lo disse; ma tanto tempo fa,

quando venne a star qui, mi disse: «La pendola sarà tua, se avrai cura di me».

La signora Caravan si rasserenò, tranquillizzata: - E allora bisognerà

prenderla, perché se viene tua sorella ce lo impedirà.

Egli esitava: - Credi?

La donna si arrabbiò: - Certo che credo, se è in casa nostra ci appartiene. E lo

stesso è per il canterano di camera sua, quello col marmo; me l’ha regalato a me

un giorno che era di buonumore. Lo porteremo giù assieme alla pendola.

Caravan pareva incredulo: - Ma è una grande responsabilità, mia cara.

Ella si rivoltò furente: - Ah, davvero? Non cambierai proprio mai? Lasceresti

morire di fame i tuoi figlioli, tu, piuttosto di muovere un dito. Quel canterano,

visto che me l’ha regalato, è nostro, non ti pare? E se tua sorella non è contenta,

verrà a dirmelo a me! Io me ne infischio di tua sorella. Su, alzati, portiamo subito

giù ciò che ci ha regalato tua madre.

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Vinto e tremante, Caravan si alzò dal letto, e fece per infilarsi i calzoni, ma la

moglie glielo impedì: - Via, non ne vale la pena, resta in mutande, basta, anch’io

vengo su come mi trovo.

E tutti e due si mossero, nel loro abbigliamento notturno. Salirono la scala

senza far rumore, aprirono la porta con precauzione, ed entrarono nella camera

dove pareva che soltanto le quattro candele accese attorno al piattino del bosso

benedetto vegliassero il rigido riposo della vecchia, perché Rosalie, sdraiata nella

poltrona, con le gambe distese, le mani incrociate in grembo, la testa reclinata,

immobile anch’essa, e con la bocca socchiusa, dormiva, russando leggermente.

Caravan prese la pendola. Era uno di quegli oggetti grotteschi come ne

produsse tanti l’arte dell’Impero. Una giovinetta di bronzo dorato, col capo adorno

di diversi fiori, teneva in mano un misirizzi, che con la sua palla faceva da

bilanciere.

- Dallo a me, - gli disse sua moglie, - tu prendi il marmo del canterano.

Egli obbedì ansimando, e con grande sforzo si mise il marmo sulle spalle.

Tornarono giù. Caravan dovette piegarsi sotto la porta, e si mise a scendere la

scala traballando; mentre sua moglie con la pendola sotto un braccio scendeva

all’indietro, e con la mano libera gli faceva lume.

Quando furono nelle loro stanze ella mandò un gran sospiro: - Il più è fatto, -

disse, - ora andiamo a prendere il resto.

I cassetti del canterano erano pieni degli stracci della vecchia. Bisognava

nasconderli in qualche posto.

La signora Caravan ebbe un’idea:

- Vai a prendere la cassa della legna che è nell’ingresso; è di abete, non vale

due franchi, possiamo benissimo metterla qui.

Quando l’ebbero portata, cominciarono il trasloco.

Tirarono fuori, uno dopo l’altro, i polsini, i colletti, le camicie, le cuffiette, tutti

i poveri stracci della buona donna distesa dietro di loro, e li disposero con metodo

nel cofano della legna, in modo da ingannare la signora Braux, l’altra figlia della

defunta, che sarebbe venuta l’indomani.

Quando ebbero finito, portarono giù, prima i cassetti, poi il mobile, reggendolo

dalle parti; poi, insieme, studiarono per parecchio tempo dove potesse far più

bella figura.

Decisero di metterlo in camera, di faccia al letto, tra le due finestre.

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Dopo averlo messo a posto, fu la signora Caravan che lo riempì con la sua

biancheria. La pendola fu messa sul piano del caminetto, in sala da pranzo, e i

coniugi si misero a guardare che effetto facesse. Ne rimasero deliziati:

- Sta molto bene - disse la moglie.

Il marito rispose: - Sì, molto bene.

Tornarono a letto. La donna spense la candela, e poco dopo, nei due piani

della casa, tutti dormivano.

Quando Caravan riaprì gli occhi era giorno fatto. Si svegliò con la mente

confusa, e gli tornò a mente l’accaduto soltanto dopo qualche istante. Insieme al

ricordo sentì una grande stretta al cuore e balzò dal letto, di nuovo commosso e

sul punto di piangere.

Salì in fretta alla camera di sopra, dove Rosalie stava ancora dormendo, nella

stessa positura della sera prima, avendo fatto tutt’un sonno. La rimandò alle sue

faccende, cambiò le candele che s’erano consumate, guardò a lungo sua madre,

rimuginando nel cervello quelle parvenze di profondi pensieri, quelle banalità tra

religiose e filosofiche che nascono negli intelletti mediocri al cospetto della morte.

Si sentì chiamare dalla moglie, e discese. Ella aveva compilato l’elenco di ciò

che bisognava fare nella mattinata, e glielo diede, spaventandolo.

Lesse:

1) fare la dichiarazione al municipio;

2) chiamare il medico dei morti;

3) ordinare la bara;

4) passare in chiesa;

5) alle pompe funebri;

6) alla tipografia per le partecipazioni;

7) dal notaio;

8) al telegrafo per avvertire i parenti.

In più, un’infinità di piccole commissioni. Egli prese il cappello e uscì.

La notizia si era diffusa e i vicini stavano arrivando per vedere la morta.

A questo proposito, una scenetta si svolgeva dal barbiere del pianterreno, tra

moglie e marito, mentre questi faceva la barba a un cliente.

La moglie, che stava facendo la calza, mormorò: - Un’altra di meno; e

un’avarona, questa, come ce ne sono poche. Non mi era tanto simpatica, ma

bisognerà che vada a vederla lo stesso.

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Il marito, seguitando a insaponare il mento del paziente, brontolò: - Che idea!

Ci vogliono proprio le donne per questo! Non son contente di infastidirvi per tutta

la vita: non vi lasciano in pace neanche dopo morte.

Ma sua moglie, senza scomporsi: - È più forte di me, bisogna che ci vada. Ci

sto pensando da stamattina. Mi pare che se non andassi a vederla, non starei

bene per tutta la vita. Dopo che l’avrò guardata bene, perché mi rimangano

impresse le sue fattezze, sarò soddisfatta.

L’uomo col rasoio si strinse nelle spalle e confidò al cliente che stava

raschiando: - Mi domando e dico che razza di idee possono venire a queste

dannate donne! Non sono proprio io il tipo che si diverte a vedere un morto!

Sua moglie aveva sentito, e senza scomporsi, gli rispose: - È come ti dico io,

come ti dico io.

E posato il lavoro sulla cassa, salì al primo piano.

Erano già arrivate altre due persone vicine, e parlavano dell’accaduto con la

signora Caravan, la quale raccontava i particolari.

Andarono verso la camera mortuaria. Le quattro donne entrarono in punta di

piedi, e una dopo l’altra aspersero il lenzuolo con l’acqua salata; poi si

inginocchiarono, si fecero il segno della croce, borbottando una preghiera; infine

si rialzarono, e con gli occhi spalancati, la bocca semiaperta, osservarono ben

bene il cadavere, mentre la nuora della morta si teneva il fazzoletto sul viso per

simulare un singulto disperato.

Quando si voltò per uscire, vide Marie Louise e Philippe Auguste in piedi

accanto alla porta, tutti e due in camicia, che guardavano incuriositi. Dimenticò il

suo finto dolore, piombò su di loro con la mano alzata, esclamando rabbiosa: -

Filate via, monellacci che non siete altro!

Risalì dieci minuti dopo con un’altra infornata di vicini, e dopo aver scrollato

di nuovo il bosso sul letto della suocera, dopo aver pregato, lacrimato, e compiuto

tutti i suoi doveri, voltandosi rivide i due bambini che erano dentro insieme a lei.

Li prese a scappellotti, per dovere di coscienza; ma la volta dopo non ci fece più

caso; e, a ogni gruppo di visitatori, i due fanciulli si accodavano, si

inginocchiavano e rifacevano pari pari tutto quanto vedevano fare alla madre.

Nel primo pomeriggio la folla dei curiosi diminuì. A un certo punto non venne

più nessuno. La signora Caravan, tornata nel suo appartamento, si diede da fare

per preparare la cerimonia funebre; e la defunta rimase sola.

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La finestra della camera era aperta. Insieme a folate di polvere entrava una

torrida calura; le fiammelle delle candele, vicino al corpo immobile, tremolavano;

e sul lenzuolo, su quel volto con gli occhi chiusi, sulle mani distese, le mosche

andavano e venivano, s’arrampicavano, passeggiavano senza posa, facevano visita

alla vecchia, in attesa della loro ora.

Marie Louise e Philippe Auguste erano ridiscesi a girellare per la strada.

Furono subito attorniati dai compagni, soprattutto femmine, più sveglie e più

pronte a presentire i misteri della vita. Facevano domande come le persone

grandi:

- È morta la tua nonna?

- Sì; ieri sera.

- Com’è un morto?

Marie Louise dava spiegazioni, descriveva le candele, il bosso, il volto. Nei

fanciulli si risvegliò una grande curiosità e chiesero di salire anche loro dalla

morta.

Marie Louise organizzò subito un primo gruppo, cinque bambine e due

bambini: i più grandi e i più svegli. Li obbligò a levarsi le scarpe per non far

rumore, e li fece entrare in casa di nascosto. Salirono lesti come un branco di

topi.

Giunti in camera, la bambina imitò la madre nel regolare il cerimoniale. Guidò

con solennità i suoi compagni, si inginocchiò, si fece il segno della croce, mosse le

labbra, si rialzò, asperse il letto, e mentre i bambini, in gruppo serrato, si

avvicinavano tra spaventati, incuriositi e felici, per contemplare il viso e le mani,

tutt’a un tratto, ella finse di singhiozzare e si coprì gli occhi col fazzolettino. Si

consolò subito pensando agli altri che aspettavano di sotto davanti all’uscio, e

allora trascinò via di corsa i visitatori, e condusse su un altro gruppo, poi un

terzo, perché tutti i monelli della borgata, perfino i piccoli straccioni che

chiedevano l’elemosina, erano accorsi al nuovo divertimento; la bambina ogni

volta rifaceva a perfezione le finte smorfie materne.

Finì per stancarsi, i fanciulli se ne andarono ad altri giochi e la vecchia nonna

rimase sola, dimenticata da tutti.

Il buio invase la camera e sul viso risecchito e rugoso le fiammelle tremolanti

delle candele suscitavano danzanti chiarori.

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Verso le otto Caravan venne su, chiuse la finestra e cambiò le candele. Ormai

entrava tranquillamente, già abituato alla vista del cadavere, come se fosse lì da

mesi. Constatò come ancora non si fosse manifestata la decomposizione, e lo fece

rilevare a sua moglie mentre si mettevano a tavola per la cena. Ella rispose: - Non

lo sai che è di legno, durerebbe un anno...

Mangiarono la minestra senza scambiarsi una parola. I bambini, lasciati liberi

tutto il giorno, erano affranti dalla stanchezza e sonnecchiavano sulla sedia:

rimasero tutti silenziosi.

Ad un tratto la luce della lampada diminuì.

Caravan girò subito la chiave, ma la macchinetta fece un rumore cavernoso,

come un prolungato raschio, e la luce si spense. S’erano dimenticati di comprare

l’olio! Andando dal droghiere si sarebbe ritardata la cena; cercarono delle candele,

ma c’erano rimaste soltanto quelle accese di sopra, sul comodino.

La signora Caravan, pronta nel decidere, mandò Marie Louise a prenderne

due; e l’aspettarono al buio.

Si sentiva chiaramente il passo della bambina che saliva la scala. Seguì

qualche istante di silenzio, poi la bambina ridiscese precipitosamente. Aprì la

porta, atterrita, più sconvolta di quando, la sera prima, aveva annunziato la

catastrofe, e mormoro, senza flato:

- Oh! papà, la nonna si sta vestendo!...

Caravan si rizzò con un tale slancio che mandò la sedia a sbattere contro il

muro.

- Cosa dici?... - balbettò, - cosa mi stai dicendo?

Marie Louise, strozzata dalla paura, ripeté: - La nonna... la nonna si sta

vestendo... sta per scender giù...

Caravan si slanciò per le scale come un pazzo, seguito dalla moglie sbalordita,

ma davanti alla porta del secondo piano si fermò, tremante di paura, senza avere

il coraggio di entrare. Cosa mai avrebbe visto? La signora Caravan, più ardita,

girò la maniglia ed entrò.

La stanza pareva che fosse diventata più buia, e nel mezzo si muoveva una

grande ombra magra. Era la vecchia, in piedi; svegliandosi dal sonno letargico, e

prima ancora di aver ripreso conoscenza si era rigirata su di un fianco, e

sollevatasi su un gomito aveva spento tre delle quattro candele che ardevano

accanto al letto mortuario. Poi, ripigliando forza, si era alzata per cercare i suoi

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panni. Dapprima si era stupita per la sparizione del canterano, ma poi aveva

trovato la sua roba nella cassa della legna e si era vestita tranquillamente. Dopo

aver versato via l’acqua dal piattino, e aver rimesso il bosso dietro la specchiera e

le sedie al loro posto, era pronta per scendere quando le comparvero davanti il

figlio e la nuora.

Caravan si slanciò avanti, le afferrò le mani, la baciò con le lacrime agli occhi,

intanto che dietro di lui sua moglie ripeteva con aria ipocrita:

- Che fortuna, oh! che fortuna!

Ma la vecchia non si commosse, pareva perfino che non capisse, e rigida come

una statua, con lo sguardo gelido, chiese soltanto:

- Ci manca molto alla cena?

Caravan balbettò sgomento: - Certo, mamma, ti stavamo aspettando.

Con insolita premura la prese sottobraccio; e la signora Caravan giovane,

presa la candela, fece lume per le scale, scendendo avanti a loro, all’indietro,

facendo uno scalino per volta, come aveva fatto quella stessa notte, davanti al

marito che portava il marmo.

Al primo piano poco mancò che non urtasse contro della gente che saliva.

Erano i parenti di Charenton, la signora Braux accompagnata dal suo sposo.

La donna, alta e grossa, con una pancia da idropica che le spostava il torso

all’indietro, spalancò gli occhi inorridita, pronta a scappare. Il marito, un

calzolaio socialista, un ometto peloso fino al naso, una specie di scimmia,

mormorò senza commuoversi:

- E allora? È risuscitata?

Non appena la signora Caravan li ebbe riconosciuti, si mise a far loro dei

cenni disperati, e a voce alta disse:

- Guarda, guarda... come mai siete venuti? Che bella sorpresa!

La signora Braux, sbalordita, non capiva, e rispose a mezza voce:

- Siamo venuti per via del vostro telegramma; credevamo che fosse tutto finito.

Suo marito, dietro di lei, le dava dei pizzicotti per farla star zitta, e con un

sorriso maligno nascosto dalla sua folta barba, soggiunse:

- Molto gentile da parte vostra di averci invitati. Siamo venuti subito... -

alludendo all’attrito che c’era da tempo tra le due famiglie.

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Quando la vecchia fu agli ultimi scalini, andò verso di lei con vivacità, le sfregò

contro le guance il pelo che ricopriva le sue e le gridò nell’orecchio, per via della

sordità:

- Come va, mamma; sempre in gamba, eh?

La signora Braux, stupita di ritrovare viva e vegeta colei che s’aspettava di

vedere morta, non osava neanche abbracciarla, e con il suo enorme pancione

ingombrava il pianerottolo, impedendo agli altri di procedere.

La vecchia, inquieta e sospettosa, ma muta, guardava tutta la gente che le

stava attorno, e i suoi occhietti grigi, duri e scrutatori fissavano ora questo ora

quello, pieni di visibili pensieri, che mettevano i figli nell’imbarazzo.

A mo’ di spiegazione Caravan disse: - Si è sentita poco bene, ma ora sta

benissimo, benone: vero, mamma?

Allora la vecchia, riprendendo a camminare, rispose con voce tremolante,

come lontana: - È stata una sincope; sentivo tutto quello che dicevate.

Seguì un silenzio imbarazzato. Entrarono nella sala da pranzo; e si sedettero

dinanzi a una cena improvvisata in pochi minuti.

Soltanto Braux si sentiva a suo agio. La sua faccia di gorilla cattivo era tutta

smorfie; diceva frasi a doppio senso che mettevano tutti nell’imbarazzo.

Il campanello d’ingresso suonava continuamente e Rosalie, smarrita, veniva a

chiamare Caravan il quale si alzava in fretta buttando via il tovagliolo. Il cognato

gli chiese addirittura se fosse giorno di ricevimento. Egli balbettò: - No, soltanto

delle commissioni, nient’altro.

Portarono un pacchetto e Caravan soprappensiero lo aprì. Apparvero le lettere

di partecipazione, listate di nero. Arrossì fino alle orecchie e s’infilò il pacchetto

sotto il panciotto.

Sua madre non aveva visto nulla; continuava a fissare con ostinazione la sua

pendola col misirizzi dorato che si dondolava sul caminetto. L’imbarazzo

aumentava, in un silenzio gelido.

A un certo punto la vecchia, volgendo verso la figlia il suo viso rugoso di

strega, ebbe un lampo di malizia nello sguardo e disse:

- Lunedì mi porterai la tua piccina, voglio vederla.

La signora Braux, raggiante, le gridò:

- Sì, mamma, - mentre la signora Caravan giovane impallidiva e si sentiva

venir meno dall’angoscia.

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Tuttavia gli uomini, un po’ per volta, cominciarono a discorrere; e a proposito

di un nonnulla intavolarono una discussione di politica. Braux, che professava le

dottrine rivoluzionarie e comuniste, si dimenava, con gli occhi accesi nel viso

peloso, e gridava:

- La proprietà, signore mio, è un furto; la terra è di tutti; il diritto all’eredità è

una infamia e una vergogna!...

Ma si fermò di colpo, confuso come chi sa di aver detto una bestialità, e

aggiunse, con tono più dolce:

- Non è il momento di discutere di queste cose.

Si aprì la porta; comparve il «dottor» Chenet. Rimase un momento incerto, ma

si riprese subito, e avvicinatosi alla vecchia:

- Ah! ah! la mamma sta bene oggi. Oh! ne ero certo, vedete; e proprio adesso

salendo le scale mi dicevo: «Scommetto che la nonna sarà in piedi».

E battendole qualche leggero colpettino sulla schiena, aggiunse:

- È solida come il Ponte Nuovo; ci sotterrerà tutti, vedrete.

Si sedette, accettò il caffè che venne offerto e s’intromise nella conversazione

dei due uomini, appoggiando Braux, poiché anche lui si era compromesso nella

Comune.

La vecchia si sentì stanca e volle andarsene. Caravan accorse. Allora ella gli

piantò gli occhi in faccia e gli disse:

- Tu riportami subito su il canterano e la pendola.

E mentre egli balbettava: - Sì, mamma, - prese il braccio della figlia e se ne

andò con lei.

I due Caravan erano spaventati, ammutoliti, sprofondati in una paurosa

rovina; Braux, invece, sorseggiava il caffè fregandosi le mani.

Improvvisamente la signora Caravan, impazzita dalla collera, si gettò su di lui

urlando: - Siete un ladro, un mascalzone, una canaglia... Vi sputo in faccia, vi...

vi...

Non sapeva più cosa dire, soffocata; e quello rideva, e continuava a bere.

In quel momento ridiscese la cognata e la signora Caravan le si slanciò contro:

entrambe, l’una enorme col suo pancione minaccioso, l’altra secca ed epilettica,

con la voce alterata, le mani tremanti, si gettarono addosso torrenti d’ingiurie.

Chenet e Braux si intromisero, e quest’ultimo, afferrando sua moglie per le

spalle, la buttò da una parte gridandole: - Vattene, ciuca, ragli troppo!

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Si sentì ancora che litigavano per la strada, mentre si allontanavano.

Chenet si congedò.

I Caravan si ritrovarono soli.

L’uomo ricadde sulla sedia e mentre gli si formava sulla fronte un sudorino

freddo, sussurrò: - Che cosa racconterò al capufficio?

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STORIA D’UNA RAGAZZA DI CAMPAGNA

I

Il tempo era così bello che i contadini desinarono più in fretta del solito per

tornar subito ai campi.

Rose, la serva, rimase sola nella vasta cucina dove il fuoco rimasto nel camino

stava spengendosi sotto la pentola dell’acqua calda. Di tanto in tanto vi attingeva,

e rigovernava adagio le stoviglie interrompendosi a considerare due vivide chiazze

che, attraverso la finestra, i raggi del sole stampavano sulla lunga tavola e in cui

si vedevano le imperfezioni dei vetri.

Tre galline, assai arditamente, becchettavano le briciole sotto le sedie. Odor di

aia, tiepidi afrori di stalla, arrivavano dalla porta socchiusa; e nel silenzio del

mezzogiorno ardente si udiva il canto del gallo.

Dopo aver finito il suo lavoro, e aver asciugato la tavola, spazzato il camino, e

sistemate le stoviglie sull’alto scaffale in fondo, vicino all’orologio di legno che

scandiva un tic tac sonoro, la ragazza respirò forte, un po’ stordita, oppressa

senza sapere perché. Guardò i muri di argilla annerita, le travi affumicate del

soffitto dalle quali pendevano tele di ragno, aringhe secche e reste di cipolle; poi si

mise a sedere, infastidita dai vecchi odori che il caldo della giornata traeva dal

pavimento di terra battuta, sul quale si erano prosciugate le tante cose sparse nel

corso degli anni. Vi si mischiava anche l’odore acre del latte che inacidiva al

fresco nella stanza accanto. Ella avrebbe voluto mettersi a cucire, come al solito,

ma gliene mancava la forza. Andò sulla soglia a prendere un po’ d’aria.

Carezzata dalla luce ardente, si sentì il cuore penetrato di dolcezza, le membra

invase da un benessere.

Davanti all’uscio il letamaio emanava di continuo vapori luccicanti. Le galline

vi si rivoltolavano sopra, adagiate sul fianco, e cercavano i vermi grattando con

una zampa sola. In mezzo a loro si ergeva il magnifico gallo che ogni tanto ne

sceglieva una, girandole attorno con un leggero chioccolìo di richiamo. La gallina

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si alzava con noncuranza e lo riceveva tranquilla ripiegando le zampe e

sostenendolo sulle ali; poi si scuoteva la polvere dalle penne e tornava a sdraiarsi

sul letamaio, mentre il gallo cantava, enumerando le vittorie, e da tutte le aie tutti

gli altri galli gli rispondevano, quasi lanciandosi sfide amorose da una fattoria

all’altra.

La serva li guardava senza pensare; quindi alzò gli occhi e rimase sbalordita

dal fulgore dei meli in fiore, candidi come teste incipriate.

All’improvviso un puledro, pazzo d’allegria, le passò davanti di galoppo. Fece

due volte il giro dei fossi alberati, poi si fermò di colpo volgendo il capo, come

stupito di esser solo.

Anch’ella provava una gran voglia di correre, un bisogno di muoversi, e al

tempo stesso di sdraiarsi, di distendere le membra, di riposarsi, nell’aria

immobile e calda. Fece qualche passo incerto, con gli occhi chiusi, provando un

benessere animalesco, poi con lentezza andò a cercare le uova nel pollaio. Ce

n’erano tredici, le prese e le portò via. Quando l’ebbe riposte nella credenza si

sentì di nuovo infastidita dall’odore della cucina e uscì per andarsi a sedere

sull’erba.

L’aia della fattoria, recinta dagli alberi, pareva addormentata. L’erba alta, nella

quale fiori gialli splendevano come luci, era d’un verde intenso, un verde nuovo di

primavera. L’ombra si ammassava in tondo al piede dei meli; dai tetti di stoppie

dei fabbricati, sui quali fiorivano ireos con le foglie simili a baionette, si

innalzavano esili fili di fumo, come se l’umidità delle scuderie e delle rimesse

filtrasse attraverso la paglia.

La serva andò sotto la tettoia dove si tenevano i carretti e i barrocci. Lì,

davanti all’incavo del fosso, c’era una larga buca verde piena di viole odorose e al

disopra della proda si poteva vedere la campagna, una vasta pianura ove

crescevano le messi, disseminata di ciuffi d’alberi, e, di tanto in tanto in

lontananza, di gruppi di lavoratori, piccoli come bamboli o di cavalli bianchi,

simili a balocchi, che tiravano un aratro da bambini, guidato da un ometto alto

un dito.

Andò a prendere un mannello di paglia nel granaio e lo buttò nella buca per

sedervisi; ma non stava comoda. Allora lo disfece, sparse la paglia, e si sdraiò

supina, con le braccia sotto il capo e le gambe distese. Lentamente chiuse gli

occhi, assopita in un delizioso abbandono. Stava proprio per addormentarsi

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quando si sentì posare due mani sui seni, e si rialzò di scatto. Era Jacques, il

garzone della fattoria, un giovanottone piccardo, ben piantato, che da un po’ di

tempo le faceva la corte. Quel giorno lavorava nell’ovile, e avendola vista sdraiarsi

all’ombra era venuto di soppiatto, trattenendo il respiro, con gli occhi lucidi e dei

fili di paglia nei capelli.

Cercò di baciarla, ma la ragazza, forte quanto lui, gli diede uno schiaffo;

sornione, egli chiese di far la pace. Si sedettero accanto e cominciarono a parlare

amichevolmente. Parlarono del tempo, propizio alle messi, dell’annata, che si

annunciava buona, del padrone, un brav’uomo, del vicinato, dell’intero paese, di

loro stessi, del loro villaggio, della loro infanzia, dei loro ricordi, dei genitori

lasciati per tanto tempo, forse per sempre. Ella si sentiva commossa a quei

pensieri, ed egli, ostinato nella sua idea, le si avvicinava, si strusciava a lei,

fremendo, in preda al desiderio. Rose diceva:

- Non ho più visto la mamma da tanto tempo. È doloroso star separate così a

lungo.

E volgeva lontano lo sguardo smarrito, attraverso lo spazio, fino al villaggio

che aveva lasciato lassù, lassù, al nord.

All’improvviso egli l’afferrò per il collo e la baciò di nuovo; ma la ragazza lo

colpì così forte in pieno viso col pugno chiuso che gli fece sanguinare il naso. Egli

si rizzò e andò ad appoggiare il capo contro un tronco. Allora Rose si impietosì e,

avvicinandosi, gli chiese:

- Ti fa male?

Egli si mise a ridere. No, non era nulla, soltanto aveva colpito proprio il punto

giusto. Mormorava: - Che accidente! - e la guardava con ammirazione, preso da

rispetto, e da un diverso sentimento, l’inizio di un vero amore, per quella ragazza

gagliarda e solida.

Quando il naso smise di sanguinare, le propose di far due passi, temendo, se

rimanevano ancora accostati, il rude pugno della ragazza. Fu lei stessa a

prenderlo sottobraccio, come fanno i fidanzati, la sera, e gli disse:

- Non sta bene, Jacques, disprezzarmi a questo modo.

Il giovane protestò. No, non la disprezzava, ma era innamorato, ecco.

- Allora mi vorresti sposare? - chiese lei.

Jacques esitò, poi la guardò di tralice mentre ella aveva lo sguardo sperduto

dinanzi a sé, lontano. Aveva le gote rosse e piene, un ampio seno che sporgeva

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sotto la cotonina della camicetta, le labbra turgide, e la gola, scoperta, era

punteggiata di goccioline di sudore. Egli si sentì riprendere dal desiderio, e le

mormorò all’orecchio:

- Sì, che voglio.

Allora lei gli buttò le braccia al collo e lo baciò così a lungo che rimasero

entrambi senza fiato.

Da quel momento si iniziò tra loro l’eterna vicenda dell’amore. Scherzavano

negli angoli, si davano appuntamenti al lume della luna, al riparo di un mucchio

di fieno, e a tavola si facevano dei lividi nelle gambe, con le loro scarpone

chiodate.

Poi, a poco a poco, parve che Jacques si fosse saziato di lei; l’evitava, quasi

non le parlava più, non cercava più d’incontrarla sola. Fu presa dai dubbi e da

una gran tristezza; finché, dopo un certo tempo, si avvide di essere incinta.

Dapprima rimase costernata, poi fu presa da una collera che diventava ogni

giorno più forte, perché egli metteva tanta cura nell’evitarla che non le riusciva

più d’incontrarlo.

Finalmente, una notte, mentre nella fattoria dormivano tutti, uscì senza far

rumore, in sottana e scalza, attraversò l’aia e spinse la porta della scuderia dove

dormiva Jacques, sopra ai cavalli, in una grande cassa riempita di paglia. Il

giovane quando la sentì venire fece finta di russare, ma ella si arrampicò fino a

lui, e lo scosse finché non si fu alzato.

- Si può sapere che cosa vuoi? - le chiese mettendosi a sedere.

Ella, a denti stretti, tremando di furore, gli disse:

- Io voglio che tu mi sposi; voglio, perché me l’hai promesso.

Egli si mise a ridere e rispose:

- Ah, beh! Se si dovessero sposare tutte le ragazze con le quali si è fatto

qualcosa, da un dì sarei sposato!

Rose lo afferrò alla gola, lo rovesciò senza che potesse liberarsi dalla stretta

selvaggia, e, strozzandolo, gli gridò sulla faccia:

- Sono gravida, capisci, sono gravida!...

Egli ansimava, soffocando; e rimasero tutt’e due immobili, silenziosi nel

silenzio nero, turbato solo dal rumore delle mascelle di un cavallo che strappava

un po’ di paglia dalla rastrelliera e la masticava adagio.

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Appena Jacques ebbe capito che ella era la più forte balbettò: - Se è così, va

bene, ti sposerò.

Ma Rose non credeva più alle sue promesse:

- Subito, - disse. - Devi fare le pubblicazioni.

- Subito, - rispose lui.

- Giuralo sul nome di Dio.

Egli esitò qualche istante, poi disse:

- Lo giuro sul nome di Dio.

Allora la ragazza lo lasciò andare e se ne andò senza aggiungere una parola.

Per alcuni giorni non riuscì a parlargli perché ormai la scuderia tutte le notti

veniva chiusa a chiave, e la ragazza non si arrischiava a far rumore, per tema

dello scandalo.

Finché, una mattina, vide venire a colazione un altro garzone. - Jacques se n’è

andato? - chiese.

- Sì, - disse l’altro, - ci sono io al suo posto.

Fu presa da un tremito tanto forte che non le riusciva più di sganciare la

pentola; e quando tutti furono al lavoro, salì nella sua camera e pianse col viso

nel guanciale per non farsi sentire.

Durante il giorno cercò di avere informazioni senza destare sospetti; ma il

pensiero della sua disgrazia l’assillava talmente da farle credere che tutti coloro ai

quali si rivolgeva ridessero con malizia. D’altronde non poté saper altro, se non

che egli si era anche allontanato dal paese.

II

Cominciò per lei una vita di continuo tormento. Lavorava come un automa,

senza pensare a ciò che faceva, con un’idea fissa nella testa: «Se si venisse a

sapere!».

Questa continua ossessione non le consentiva più di ragionare, al punto che

non cercava neanche più il modo di evitare lo scandalo che sentiva avvicinarsi,

ogni giorno di più, irreparabile e sicuro come la morte.

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La mattina si alzava molto più presto degli altri, e, con perseveranza accanita,

si sforzava di guardarsi la vita in un pezzetto di specchio rotto che le serviva per

pettinarsi, ansiosa di sapere se era in quel giorno che gli altri se ne sarebbero

accorti.

E durante la giornata interrompeva continuamente il lavoro per guardare

dall’alto in basso se il ventre non le rialzava troppo il grembiule.

I mesi passavano. Non parlava quasi più e se qualcuno le rivolgeva la parola

non capiva, spaurita, con lo sguardo ebete e le mani tremanti; per questo il

padrone le diceva:

- Povera figliola, sei diventata scema, da un po’ di tempo a questa parte!

In chiesa si nascondeva dietro un pilastro, e siccome non aveva più il coraggio

di confessarsi, temeva d’incontrare il parroco al quale attribuiva il potere

sovrumano di leggere nelle coscienze.

A tavola si sentiva morire se i suoi compagni la guardavano e si immaginava

sempre di essere scoperta dal vaccaro, un ragazzo precoce e sornione, che non

ristava di fissarla con occhi lucidi.

Una mattina il padrone le consegnò una lettera. Non ne aveva mai ricevute e

fu tanto sconvolta che dovette sedersi. Forse era di lui? Siccome non sapeva

leggere, rimase ansiosa e tremante davanti al foglio coperto d’inchiostro. Se lo

mise in tasca, non osando di confidare il suo segreto a nessuno; spesso

interrompeva il lavoro e si metteva a contemplare quelle righe uniformemente

distanziate che finivano con una firma, confusamente immaginandosi che

all’improvviso avrebbe indovinato ciò che significavano. Alla fine, sentendo di

impazzire per l’impazienza e l’inquietudine, andò dal maestro di scuola che la fece

sedere e lesse:

Mia cara figlia, la presente è per dirti che mi sento molto giù; il nostro vicino

mastro Dentu ha preso la penna per mandarti a dire di venire se puoi.

Per la tua madre affezionata

Cesare Dentu, vicesindaco.

Se ne andò senza aprir bocca; ma appena fu sola, si lasciò cadere sul margine

della strada, con le gambe rotte; e vi rimase fino a notte.

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Quando rincasò, raccontò la sua disgrazia al padrone che la lasciò andare per

quanto tempo volesse, promettendo di far fare il suo lavoro da una ragazza a

giornata e di riprenderla al ritorno.

Sua madre era in agonia, e morì il giorno stesso del suo arrivo. L’indomani

Rose partorì un settimino, un orrendo scheletrino, tanto magro da far paura:

sembrava che soffrisse molto, perché non faceva che contrarre dolorosamente le

povere manine, scarne come le zampe di un granchio.

Nondimeno visse.

Rose disse in giro di essersi sposata, ma di non potersi occupare del bambino;

e lo lasciò da certi vicini che promisero di tenerlo bene.

Ritornò alla fattoria.

Nel suo cuore, per tanto tempo tribolato, spuntò, come l’alba, un ignoto amore

per la misera creaturina che aveva lasciato laggiù; ed anche quell’amore

rappresentava una nuova sofferenza continua, di ogni ora e di ogni minuto,

perché era separata da lei.

Soprattutto era martoriata da un pazzesco bisogno di baciarlo, di stringerlo

tra le braccia, di sentirsi sulla carne il calore di quel corpicino. La notte non

dormiva più; durante la giornata non faceva che pensare a lui; e la sera, finito il

lavoro, si sedeva davanti al fuoco, fissandovi lo sguardo, come chi pensa lontano.

Cominciarono a ciarlare sul suo conto, a scherzare sull’innamorato che di

certo aveva, a chiederle se era bello, se era alto se era ricco, a quando le nozze, e

il battesimo... Spesso scappava a piangere sola sola, perché quelle domande le

penetravano nella carne come aghi.

Anche per distrarsi cominciò a lavorare con furore, e, sempre pensando al

figlio, volle trovare il modo di raggranellare molto denaro per lui. Decise di

lavorare tanto che avrebbero dovuto aumentarle il salario.

A poco a poco accentrò su di sé tutti i lavori, fece licenziare una serva che era

diventata inutile dacché ella faticava per due, cominciò a risparmiare sul pane,

sull’olio, sulle candele, sul becchime che si buttava al pollame con troppa

larghezza, sul foraggio delle bestie che andava un po’ sprecato. Divenne avara col

denaro del padrone come se fosse stato il suo; e a furia di fare acquisti

vantaggiosi, di vendere caro quanto usciva dalla casa, e di stornare le astuzie dei

contadini che venivano ad offrirle i loro prodotti, riservò per sé sola gli acquisti e

le vendite, la direzione del lavoro dei braccianti, i conti delle provviste; e in breve

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diventò indispensabile. Esercitava una tale sorveglianza intorno a sé che sotto la

sua direzione la fattoria prosperò in modo prodigioso. Si parlava per dieci

chilometri in giro della «serva di padron Vallin»; e il padrone diceva dappertutto: -

Quella ragazza vale più dell’oro.

Cionondimeno il tempo passava e la paga era sempre quella. Il suo lavoro

veniva accettato come cosa dovuta da qualsiasi buona serva; e Rose cominciò a

rendersi conto con un po’ d’amarezza che se in grazia sua il padrone incassava

cinquanta o cento scudi di più ogni mese, ella continuava a guadagnare 240

franchi l’anno, né uno di più né uno di meno.

Decise di chiedere un aumento. Per tre volte andò dal padrone, ma, quando

era dinanzi a lui, parlava d’altro. Provava una specie di pudore a far richieste di

denaro, come se fosse un’azione di cui vergognarsi. Finalmente, un giorno che il

padrone faceva colazione da solo, in cucina, gli disse piuttosto imbarazzata che

doveva parlargli a tu per tu. Egli alzò il capo, stupito. Aveva le mani appoggiate

sulla tavola, e in una di esse teneva il coltello con la punta in alto, nell’altra un

boccone di pane. Le piantò gli occhi in faccia. Si sentì turbata da quello sguardo e

chiese otto giorni di permesso per andare al paese, perché si sentiva poco bene.

Glieli concesse senz’altro, e, un po’ turbato a sua volta, soggiunse:

- Anch’io devo parlarti quando torni.

III

Il bambino stava per compiere gli otto mesi, ella non lo riconosceva. Era

diventato rosa, paffuto, tutto tondo, come un batuffolo di grasso vivo. I suoi ditini,

divaricati da cicciolotti di carne, si muovevano lentamente, con evidente piacere.

Rose si buttò sul piccolo come su una preda, con slancio animalesco, e lo strinse

così forte che egli si mise a strillare dalla paura. Anch’ella si mise a piangere

perché non la riconosceva e tendeva invece le braccia alla sua balia non appena

riusciva a vederla.

Il giorno dopo si era già abituato al viso di lei e rideva vedendola. Lo portava

con sé in campagna, correva a perdifiato reggendolo a braccia tese, si sedeva

all’ombra delle piante; poi, per la prima volta in vita sua, aprì il suo cuore a

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qualcuno, e benché il piccino non capisse, gli raccontò le sue pene, il suo lavoro, i

fastidi, le speranze, stancandolo con la furia e l’accanimento delle sue carezze.

Provava un’infinita gioia a sentirselo tra le mani, a lavarlo, a vestirlo; felice

persino di nettarlo, come se quelle cure intime rappresentassero una conferma

della sua maternità. Se lo guardava, sempre stupita che fosse suo; e

palleggiandolo diceva sottovoce a se stessa: «È il mio piccino, è il mio piccino».

Singhiozzò durante tutta la strada del ritorno, appena fu arrivata alla fattoria

venne chiamata dal padrone nella sua stanza. Vi andò, molto stupita e turbata,

senza sapere perché.

- Siedi, - le disse.

Ella si sedette, e rimasero per qualche istante accanto, imbarazzati tutti e due,

con le braccia inerti e ingombranti, senza guardarsi in faccia, come fanno i

contadini.

Il padrone, un omone di quarantacinque anni, due volte vedovo, gioviale e

testardo, era in preda a un evidente disagio insolito per lui. Infine si decise e

cominciò a parlare con tono incerto, balbettando un tantino e fissando un punto

lontano della campagna.

- Rose, - disse, - non hai mai pensato a sistemarti?

Ella diventò pallida come una morta. Poiché non gli rispondeva, l’uomo

continuò:

- Sei una brava ragazza, a posto, attiva ed economa. Una moglie come te

sarebbe la fortuna d’un uomo.

Rose continuava a restare immobile, con gli occhi stralunati, senza neanche

cercare di capire, tanto i suoi pensieri turbinavano, come all’avvicinarsi di un

grave pericolo.

Egli si era interrotto un istante, e continuò:

- Vedi, una fattoria senza una padrona non può andare, neanche con una

serva come te.

Tacque non sapendo più cosa dire; e Rose lo guardava con l’aspetto

terrorizzato di chi crede di avere davanti un assassino, e si prepara a fuggire al

primo gesto che questi farà.

Finalmente, dopo cinque minuti, le domandò:

- E allora? Ti va?

Ella, come istupidita, rispose:

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- Cosa, padrone?

E lui, allora, con tono brusco:

- Ma sposarmi, diamine!

Rose si rizzò improvvisamente, poi ricadde sulla sedia, affranta; e vi rimase

senza muoversi come chi è stato colpito da una grande sciagura. Il padrone finì

per spazientirsi:

- Ma allora, cosa vorresti mai?

Ella lo guardava impaurita; lacrime improvvise le salirono agli occhi, e per due

volte ripeté con voce strozzata:

- Non posso, non posso.

- Perché mai? - chiese l’uomo. - Via, via, non fare la stupida, ti do tempo fino a

domani per pensarci.

Provava un gran sollievo per averla fatta finita con quella richiesta, che lo

impacciava assai; e si sbrigò ad andarsene; sicuro che l’indomani la serva

avrebbe accettato una proposta che per lei era addirittura insperabile, e per lui

un ottimo affare perché in questo modo faceva sua per sempre una donna che gli

portava molto di più della più grossa dote del paese.

Tra di loro non potevano esistere scrupoli in quanto alla differenza di

condizioni perché, nelle campagne, tutti a un dipresso sono uguali; il padrone

coltiva la terra come il bracciante, il quale, abbastanza spesso, diventa a sua

volta padrone, e le serve diventano continuamente padrone senza che per questo

vi sia un qualsiasi cambiamento nella loro vita o nelle loro abitudini.

Rose quella notte non dormì. Cadde a sedere sul letto, senza aver neanche la

forza di piangere, tanto si sentiva affranta. Rimaneva inerte, non si sentiva più la

testa, aveva il cervello sparpagliato, come se gliel’avessero scardassato con uno di

quegli strumenti di cui si servono i cardatori per sfilacciare la lana delle

materasse.

Solo a momenti riusciva a mettere insieme dei brincelli di ragionamenti, si

spaventava al pensiero di ciò che sarebbe potuto accadere.

Il terrore aumentava, e ogni volta che nel sonnolento silenzio della casa la

grossa pendola di cucina batteva le ore, ella sudava freddo. Si sentiva andar via la

testa; gli incubi si susseguivano, la candela si spense, e cominciò il delirio, quel

delirio smanioso della gente di campagna che si crede colpita dalla mala sorte, e

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prova un bisogno smodato di andarsene, di fuggire, di correre di fronte alla

sciagura, come un vascello di fronte alla burrasca.

Una civetta squittì; Rose trasalì, si rizzò, si passò le mani sul viso, nei capelli,

tastandosi il corpo, come pazza, poi scese con l’andatura d’una sonnambula.

Giunta nell’aia, si mise a camminare a quattro zampe per non essere vista da

qualche servitore in giro, perché la luna, sul punto di calare, gettava un vivo

chiarore sui campi.

Invece di aprire lo steccato risalì la proda del fosso, e giunta nell’aperta

campagna si mise in cammino. Correva guardando dritto davanti a sé, con un

trotto elastico e precipitoso, lanciando di tanto in tanto un acuto grido. La sua

ombra smisurata allungata per terra al suo fianco, correva con lei, e talvolta un

uccello notturno le roteava sul capo. I cani che la sentivano passare, abbaiavano

dalle aie dei casolari circostanti; uno saltò il fossato per morderla, ma la ragazza

si voltò e gli fece un tale urlaccio che l’animale scappò spaventato e andò a

rannicchiarsi in silenzio nella sua cuccia.

Se una giovane famiglia di lepri folleggiava in un campo, all’avvicinarsi della

furiosa corritrice, simile a una Diana in delirio, le bestie timorose si sbandavano, i

piccoli e la madre rannicchiandosi in un solco, mentre il padre se la dava a

gambe a tutta velocità, e talora la sua ombra saltellante, con le grandi orecchie

diritte, passava sulla luna al tramonto, che ora si stava tuffando in capo al

mondo e illuminava la pianura con una luce obliqua, come un’enorme lanterna

poggiata per terra all’orizzonte.

Le stelle svanivano nella profondità del cielo; alcuni uccelli pispigliavano;

nasceva il giorno. La ragazza, estenuata, ansimava; e si fermò quando il sole

trapassò le porpore dell’aurora.

I piedi enfiati non la portavano più; vide una palude, una gran palude dove

l’acqua stagnante pareva sangue sotto i riflessi rossastri del nuovo giorno, e

zoppicando, a passettini, premendosi il cuore con la mano, andò ad immergervi le

gambe.

Si sedette su una zolla d’erba, si cavò gli scarponi impolverati, si sfilò le calze,

e tuffò i polpacci illividiti nell’onda immobile, dove talvolta salivano bollicine

d’aria.

Un delizioso refrigerio le salì dai talloni fino al petto, e all’improvviso, mentre

guardava fissa la profonda palude, si sentì presa da una vertigine, da un

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desiderio furioso d’immergersi tutta quanta. Là dentro avrebbe finito di soffrire,

finito per sempre. Non pensava più al suo piccino; voleva pace, completo riposo,

un sonno infinito. Si rizzò, tenendo alte le braccia e fece due passi avanti. Ora

affondava fino alle cosce e già stava per buttarsi, quando delle cocenti trafitte alle

caviglie le fecero fare un salto indietro, e gridare disperatamente, perché dalle

ginocchia sino alle punte dei piedi grosse sanguisughe nere le succhiavano la vita

e si gonfiavano, incollate alla carne. Non osava toccarle e urlava dal terrore. Le

sue grida fecero accorrere un contadino che passava lì vicino col carro. Questi

strappò ad una ad una le sanguisughe, compresse con erba le piaghe, e col

barroccio ricondusse la ragazza alla fattoria del suo padrone.

Rimase a letto per quindici giorni, e la mattina che si alzò si era appena

seduta davanti all’uscio che il padrone all’improvviso le si piantò davanti:

- Ebbene, - disse, - affare fatto, no?

Rose dapprima non rispose nulla, ma poiché egli rimaneva lì in piedi a

scrutarla col suo sguardo ostinato, articolò a fatica:

- No, padrone, non posso.

Subito egli s’arrabbiò:

- Non puoi, ragazza, non puoi? E perché?

- Non posso, - ripeté ella rimettendosi a piangere.

- Vuol dire che hai un ganzo!

Tremando di vergogna Rose balbettò:

- Può anche darsi...

Rosso come un papavero, l’uomo barbugliava dalla collera:

- Ah, lo confessi anche, sgualdrina! E chi sarebbe questo bel merlo? uno

straccione, un pezzente, un miserabile, un morto di fame? Di’, su, chi è?

E poiché non rispondeva:

- Ah, non vuoi dirmelo... Te lo dico io chi è... È Jean Bauder.

Ella protestò:

- Oh! no, non lui.

- È Pierre Marbin, allora?

- Oh! no, padrone.

Elencò tutti i giovanotti del paese, e la ragazza, abbattuta, negava,

asciugandosi continuamente le lacrime con la cocca del grembiule turchino. Ma

egli continuava a cercare, con brutale ostinazione, frugando in quel cuore per

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conoscerne il segreto, come un cane da caccia raspa tutto il giorno in una tana

per scovare l’animale che ha fiutato in fondo. Improvvisamente l’uomo esclamò:

- Ah! perdiana! è Jacques, il garzone dell’anno scorso; lo dicevano tutti che vi

parlavate e che vi eravate promessi.

Rose si sentì soffocare; un fiotto di sangue le imporporò il viso; le lacrime

cessarono a un tratto di scorrere, le si asciugarono sulle guance come gocce

d’acqua sul ferro caldo. Protestò:

- No, non è lui, non è lui!

- Proprio no, sicuro? - chiese il furbo contadino che cominciava a fiutare la

verità.

La ragazza rispose precipitosamente:

- Ve lo giuro, ve lo giuro...

Cercava su che cosa giurare, non osando invocare le cose sacre. Egli

l’interruppe:

- Ti seguiva dappertutto, e a tavola ti divorava con gli occhi. Di’ un po’, ti sei

promessa a lui?

Questa volta guardò il padrone in faccia:

- No, mai, mai; vi giuro sul buon Dio che se ora venisse a chiedermi io non lo

vorrei.

Aveva un accento così sincero che il padrone esitò. Quasi a se stesso,

soggiunse:

- E allora? Una disgrazia non t’è successa, perché si saprebbe. E dal momento

che non ci sono state conseguenze una serva non può rifiutare il padrone solo per

questo motivo. Dunque c’è dell’altro.

Rose stretta dall’angoscia non rispondeva più.

Egli chiese ancora:

- Proprio non vuoi?

Ella sospirò:

- Non posso, padrone. - E quegli se ne andò.

La ragazza credette di essersi liberata e passò quasi tranquilla il resto della

giornata, ma era sfiancata e affranta, come se fino dall’alba l’avessero messa al

posto del vecchio cavallo bianco a girare la macchina che batte il grano.

Andò a letto più presto che poté e si addormentò subito.

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Venne svegliata nel cuore della notte da due mani che tastavano il suo letto.

Sussultò spaventata, ma riconobbe subito la voce del padrone che diceva: - Non

aver paura, Rose, sono io che son venuto a parlarti. - Dapprima fu stupita, poi,

siccome quello cercava d’infilarsi sotto le lenzuola, capì cosa volesse, e si mise a

tremare tutta, sentendosi sola nel buio, ancora appesantita dal sonno, e

completamente nuda in un letto, accanto a un uomo che la voleva. Certo che non

accettava, ma resisteva fiaccamente, lottando ella stessa contro l’istinto che è

sempre tanto più forte nelle creature semplici, e senza che la volontà, malsicura

nelle razze inerti e molli, l’aiutasse a proteggersi. Voltava il capo ora verso il muro

ora verso la camera per evitare il contatto con la bocca del padrone che cercava la

sua, e il suo corpo si divincolava un poco sotto le coperte, estenuato dalla fatica

della lotta. L’uomo inebriato dal desiderio si faceva brutale. Tirò via il lenzuolo

con un gesto brusco. Ora ella sentiva che non avrebbe più potuto resistere.

Obbedendo a un pudore da struzzo si nascose il viso tra le mani e non si difese

più.

Il padrone passò la notte con lei. Tornò la sera dopo, e poi ogni notte.

Vissero insieme.

Una mattina le disse: - Ho fatto le pubblicazioni, ci sposeremo quest’altro

mese.

Ella non rispose. Cosa poteva dire? Non si oppose. Cosa poteva fare?

IV

Lo sposò. Si sentiva sprofondata in una buca della quale non avrebbe mai

raggiunto il fondo, dalla quale non sarebbe mai potuta uscire, e ogni specie di

sciagure le stavano sospese sul capo, come grossi macigni destinati a precipitare

alla prima occasione. Per lei suo marito era come uno che ella avesse derubato, e

che da un giorno all’altro se ne sarebbe accorto. Pensava anche al piccino che era

la causa di tutte le sue disgrazie ma anche della felicità che aveva sulla terra.

Andava a trovarlo due volte l’anno, e tornava sempre più triste.

Ma con l’abitudine le sue apprensioni diminuirono, il suo cuore si placò, e

viveva più tranquilla nonostante le fosse rimasto un vago timore nell’anima.

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Passò qualche anno; il bambino stava per compiere sei anni. Ora ella era

quasi felice, quando tutt’a un tratto l’umore del fattore divenne più cupo.

Già da due o tre anni pareva che covasse qualcosa, un cruccio, una malattia

dello spirito che aumentava a poco a poco. Dopo cena si attardava a tavola, con la

testa affondata tra le mani, triste, triste, roso dal dispiacere. Parlava più

vivacemente, talvolta in modo brutale; pareva addirittura che avesse un segreto

rancore contro la moglie; certe volte le rispondeva con rudezza, quasi con collera.

Un giorno che era molto affaccendata, trattò un po’ bruscamente il figlioletto

della vicina che era venuto per farsi dare delle uova, e allora suo marito,

comparso improvvisamente, l’apostrofò con voce cattiva:

- Se fosse tuo non lo tratteresti così.

Ne fu colpita, e incapace di rispondere rientrò in casa, ripresa dalle antiche

pene.

A tavola il fattore non le rivolse la parola, non la guardò nemmeno e pareva

che la detestasse, che la disprezzasse, che sapesse qualcosa.

Smarrita, non ebbe il coraggio di restar sola con lui dopo mangiato, e scappò a

rifugiarsi in chiesa.

Cadeva la notte; la stretta navata era buia e nel silenzio si udiva echeggiare un

passo laggiù verso il coro: era il sacrestano che preparava per la notte la lampada

del tabernacolo. Quella fiammella tremolante, affogata nelle tenebre della volta,

apparve a Rose come un’ultima speranza, e fissandovi lo sguardo, si buttò in

ginocchio.

La piccola lampada notturna salì in alto tra un rumore di catene. Poco dopo

risuonò sul pavimento un tonfo regolare di zoccoli seguito dallo sfregamento e

dallo strascichio di una corda, e la campanina diffuse l’Angelus della sera

attraverso l’oscurità che infittiva.

Vedendo che l’uomo stava per uscire lo raggiunse:

- C’è il signor curato? - disse.

Egli rispose:

- Credo di sì: cena sempre all’Angelus.

Spinse tremando il cancelletto del presbiterio. Il sacerdote stava per mettersi a

tavola. La fece subito sedere.

- Sì, sì; so di che si tratta. Vostro marito mi ha parlato di ciò che vi conduce

qui.

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La povera donna si sentiva mancare. Il sacerdote soggiunse:

- Cosa volete farci, figlia mia?

Ingoiava in fretta cucchiaiate di minestra sbrodolandosi la sottana bisunta e

tesa sulla pancia.

Ella non aveva più il coraggio né di parlare, né di supplicare; si alzò e il curato

le disse:

- Coraggio...

Uscì.

Tornò alla fattoria senza sapere cosa si facesse. I braccianti durante la sua

assenza se n’erano andati e il padrone la stava aspettando. Gli si gettò ai piedi

pesantemente, e gemette piangendo a dirotto:

- Cos’hai contro di me?

Egli si mise a urlare, bestemmiando:

- Ho che non ho figli, perdio! Non si prende mica moglie per rimanersene tutti

e due soli fino in fondo. Ecco cosa ho. Quando una vacca non ha vitellini vuol

dire che non vale nulla. Quando una donna non ha figli, vuol dire che anche lei

non vale nulla.

Rose piangeva, e balbettando ripeteva:

- Non è per colpa mia, non è per colpa mia!

Egli si rabbonì un poco e soggiunse:

- Non dico a te, ma è sempre una brutta cosa.

V

Da quel giorno ebbe un solo pensiero: avere un figlio, un altro; e confessò a

tutti il suo desiderio.

Una vicina le consigliò un rimedio: dar da bere ogni sera al marito un bicchier

d’acqua con un pizzico di cenere. L’uomo acconsentì: ma senza risultato.

Si dissero: «Forse c’è qualche segreto». E cominciarono a chiedere. Gli fu

indicato un pastore che abitava a dieci leghe di distanza; e padron Vallin un bel

giorno attaccò il calessino e andò a consultarlo. Il pastore gli consegnò una

pagnotta sulla quale tracciò dei segni; era una pagnotta fatta di erbe e i coniugi

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dovevano mangiarne un boccone per ciascuno, la notte, prima e dopo i loro

abbracci.

Consumarono tutto il pane senza ottenere alcun risultato.

Un maestro di scuola svelò certi segreti, certe operazioni amorose, sconosciute

in campagna e infallibili, secondo lui. Non riuscirono.

Il curato consigliò un pellegrinaggio al Preziosissimo Sangue di Fécamp: Rose

andò a prosternarsi con la folla all’abbazia, e, mischiando i suoi desideri a quelli

grossolani che si effondevano dal cuore di tutti quei contadini, supplicò Colui che

tutti imploravano di renderla ancora una volta feconda. Ma fu invano. Allora

temette che fosse la punizione per la sua prima colpa, e fu invasa da un immenso

dolore.

Si consumava dal dolore; anche suo marito invecchiava, «si guastava il

sangue», dicevano, si rodeva in inutili speranze.

Poi scoppiò la guerra tra loro due. Egli l’insultava, la picchiava. Tutto il giorno

non faceva che leticare, e la sera, a letto, ansante, astioso, le gettava in faccia

parole oltraggiose e oscene.

Infine una notte, non sapendo più cosa inventare per farla soffrire di più, le

ordinò di alzarsi e di andare ad aspettare che facesse giorno davanti all’uscio,

sotto la pioggia.

Rose non fiatò, non si mosse. L’uomo, fuori di sé, le saltò in ginocchio sul

ventre e stava per accopparla. La donna allora ebbe un impeto di disperata

ribellione, lo respinse contro il muro con un gesto furioso, e rizzandosi a sedere

gridò con voce mutata, sibilante:

- Io ce l’ho, sì, un figliolo; io ce l’ho! L’ho fatto con Jacques; te lo ricordi

Jacques? Doveva sposarmi: invece se ne andò.

- Cosa dici mai, cosa dici?...

Ella si mise a singhiozzare, e attraverso le lacrime che grondavano balbettò:

- Non ti volevo sposare proprio per questo, per questo! Non potevo dirtelo,

perché mi avresti mandata via, me col mio piccino. Sei tu che non hai figli, non lo

sapevi, eh, non lo sapevi!

Lo stupore di lui cresceva, e non faceva che ripetere:

- Tu hai un figliolo? tu hai un figliolo?

Tra i singhiozzi ella disse:

- Mi hai voluta per forza, te ne ricordi, no? Io non volevo sposarti.

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Allora egli si alzò, accese la candela e si mise a passeggiare per la camera, con

le braccia dietro la schiena. La donna seguitava a piangere, gettata sul letto. A un

tratto si fermò dinanzi a lei:

- E così sarebbe colpa mia se non t’ho fatto far figli? - esclamò.

Ella non rispose. L’uomo riprese a camminare, poi si fermò di nuovo,

chiedendo:

- Quanti anni ha il tuo piccino?

La donna mormorò:

- Sta per compiere sei anni.

Egli chiese di nuovo:

- Perché non mi hai detto mai nulla?

- Come avrei potuto dirtelo? - gemette ella.

Rimaneva in piedi, immobile.

- Andiamo, alzati, - disse.

Si sollevò con fatica, ed egli quando vide che si fu alzata, appoggiata al muro,

scoppiò improvvisamente a ridere, con la sua bonaria risata dei bei giorni, e

siccome la donna era sempre sconvolta le disse:

- O via! andremo a prenderlo questo piccino, dal momento che fra noi due non

ne abbiamo.

Ella provò uno spavento tanto grande che se ne avesse avuta la forza sarebbe

scappata. Ma il fattore si fregava le mani borbottando:

- Volevo adottarne uno, l’ho bell’e trovato, l’ho bell’e trovato. Avevo chiesto un

orfanello al parroco.

Quindi, sempre ridendo, baciò sulle guance la moglie piangente e istupidita, e

gridò come se lei non sentisse:

- Andiamo, mamma, andiamo a vedere se c’è rimasta un po’ di minestra. Me

ne mangerei volentieri una scodella.

Ella s’infilò la gonna e scesero giù, e mentre la donna in ginocchio riaccendeva

il fuoco sotto la pentola, egli, raggiante, continuava a camminare in lungo e in

largo per la cucina, ripetendo:

- Ah, sì... mi fa proprio piacere; non faccio per dire, ma sono tanto tanto

contento.

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SCAMPAGNATA

Da cinque mesi c’era il progetto d’andare a mangiare nei dintorni di Parigi, il

giorno della festa della signora Dufour, che si chiamava Petronille. Sicché quella

mattina, dopo aver aspettato la scampagnata per tanto tempo, tutti s’erano alzati

prestissimo.

Dufour s’era fatto prestare la vettura dal lattaio, e s’era messo a guidare lui

stesso. Era una carretta a due ruote, assai decorosa, col tetto sostenuto da

quattro montanti di ferro ai quali erano appese le tendine, che avevano tirato su

per lasciar libera la vista del paesaggio. Quella dietro, sciolta, ondeggiava al vento

come una bandiera. Seduta accanto al suo sposo, la signora Dufour si

spampanava in uno straordinario vestito di seta color ciliegia. Dietro, su due

sedie, c’erano la vecchia nonna e una ragazza. Dietro ancora si scorgevano i

capelli gialli d’un giovane, il quale, in mancanza di seggiole, s’era sdraiato sul

fondo, e lasciava vedere soltanto la testa.

Dopo aver attraversato il viale degli Champs Elysées, e superato le

fortificazioni della porta Maillot, cominciarono a contemplare il paesaggio.

Arrivati al ponte di Neuilly, Dufour aveva detto: - Ecco finalmente la

campagna! - e sentendo questa frase sua moglie s’era commossa sulla natura.

All’incrocio di Courbevoie furono presi d’ammirazione, nel vedere l’ampliarsi

degli orizzonti. A destra laggiù c’era Argenteuil, col campanile dritto; più su si

vedevano le collinette di Sannois e il mulino d’Orgemont. A sinistra, si

disegnavano nel chiaro cielo mattutino l’acquedotto di Marly, e, lontana, si poteva

vedere anche la pianeggiante altura di Saint-Germain; di fronte, al principiare

d’una catena di colline, il terreno smosso indicava il nuovo forte di Cormeilles.

Spingendo lo sguardo nella più profonda lontananza, al disopra di pianure e

villaggi s’intravedeva un cupo verdeggiar di foreste.

Il sole incominciava a farsi sentire; la polvere riempiva di continuo gli occhi e

ai lati della strada si estendeva una campagna interminabilmente spoglia, sporca

e maleodorante. Pareva che un’epidemia l’avesse devastata, e avesse rosicato

anche le case, perché si vedevano scheletri di costruzioni sfondate e

abbandonate, o capanne rimaste a metà per mancato pagamento ai costruttori,

che protendevano le loro quattro mura spoglie di tetto.

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Di tanto in tanto spuntavano nello sterile terreno i lunghi camini delle

fabbriche, unica vegetazione di quei putridi campi sui quali il venticello della

primavera faceva ondeggiare un odore di petrolio e di schisto, misto ad un altro

odore ancor meno gradevole.

Poi avevano attraversato la Senna per la seconda volta: sul ponte era stato un

incanto. Il fiume sfolgorava di luce; succhiata dal sole, si alzava dall’acqua una

nebbiolina; e si provava una dolce quiete, un benefico refrigerio nel respirare

un’aria più pura, non corrotta dal fumo nero delle officine, e dai miasmi degli

scarichi.

Un passante aveva detto il nome del paese: Bezons.

La carrozza si fermò e Dufour si mise a leggere l’allettante insegna d’una

trattoria: - Ristorante Poulin, zuppe alla marinara e fritture, sale da banchetti,

pergolati e altalene. Allora, signora Dufour, ti va bene? Vuoi finalmente deciderti?

A sua volta la donna lesse: - Ristorante Poulin, zuppe alla marinara e fritture,

sale da banchetti, pergolati e altalene.. - Poi guardò ben bene la casa.

Era una locanda di campagna, dipinta di bianco, piantata sul margine della

strada. Dalla porta aperta si vedeva lo zinco lucido del banco davanti al quale

c’erano due operai vestiti a festa.

Finalmente la signora Dufour si decise:

- Sì, va bene, - disse. - E poi c’è anche una bella vista.

La carrozza penetrò in un vasto spiazzo alberato che si stendeva dietro la

casa, separato dalla Senna soltanto dalla strada d’alzaia.

Scesero a terra. Il marito saltò giù per primo e distese le braccia per ricevere

sua moglie. La pedana, retta da due sbarre di ferro, era assai distante, cosicché,

per arrivarci, la signora Dufour dovette mostrare l’inizio del polpaccio, la cui

primiera sottigliezza spariva sotto un’invasione di grasso che scendeva dalle

cosce.

Dufour, già ringalluzzito dalla campagna, le pizzicò il polpaccio, poi la prese

per le ascelle, e la posò pesantemente a terra, come un enorme fagotto.

Ella si spolverò con la mano il vestito di seta, poi si guardò intorno.

Era una donna di trentasei anni all’incirca, molto in carne, rigogliosa e

piacente. Respirava a fatica, strozzata violentemente nell’abbraccio del busto

troppo stretto; la pressione di quell’arnese sospingeva fino al doppio mento la

massa fluttuante del suo petto troppo abbondante.

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Poi la ragazza, poggiando la mano sulla spalla del padre, saltò giù con

leggerezza, senz’aiuto. Il ragazzo coi capelli gialli era sceso posando un piede sulla

ruota, e aiutò Dufour a scaricare la nonna.

Il cavallo fu staccato e legato a un albero; la carretta cadde in avanti, con le

stanghe appoggiate a terra.

Gli uomini, dopo essersi tolta la finanziera, si lavarono le mani in un secchio

d’acqua, e raggiunsero le loro donne, che si erano già messe a far l’altalena.

La signorina Dufour, in piedi sull’altalena, cercava di dondolarsi da sola, ma

non riusciva a prendere abbastanza slancio. Era una bella ragazza di diciotto o

vent’anni; una donna che a incontrarla per la strada si rimane come frustati da

un improvviso desiderio, che lascia per tutta la giornata una vaga inquietudine e

un’eccitazione dei sensi. Era alta, con la vita sottile e i fianchi larghi, aveva la

pelle scurissima, gli occhi grandissimi, i capelli nerissimi. Il suo vestito disegnava

nitidamente la ferma pienezza delle sue carni, accentuata ancor più dal

movimento delle reni, ch’ella faceva per dondolarsi. Le sue braccia tese

stringevano le corde, sopra il capo, di modo che, a ogni slancio, il seno le si

sollevava senza tremolio.

Un soffio di vento le aveva portato via il cappello, facendolo cadere dietro;

l’altalena a poco a poco prendeva movimento, e ad ogni ritorno si potevano vedere

fino al ginocchio le sue gambe sottili, mentre arrivava sul viso degli uomini, che

guardavano ridendo, il vento delle sue sottane, più inebriante dei fumi del vino.

Sull’altra altalena la signora Dufour si lamentava di continuo con voce

monotona: - Cipriano, vieni a spingermi; Cipriano, su, vieni a spingermi! - Alla

fine questi si decise, e dopo essersi rimboccate le maniche della camicia, come si

fa prima d’iniziare un lavoro, riuscì con infinita fatica a far muovere sua moglie.

Aggrappata alle corde, ella teneva le gambe stese per non strusciare in terra, e

godeva dello stordimento che le dava il va e vieni dell’altalena. Le sue carni,

scosse, tremolavano di continuo, come la gelatina su un piatto. Poi, siccome

l’impulso aumentava, fu presa dalla vertigine e dalla paura. Ogni volta che veniva

giù gridava con voce tanto acuta che faceva accorrere tutti i monelli del paese; in

basso, davanti a sé, ella scorgeva confusamente una fioritura di teste sguaiate e

ghignanti ognuna con una smorfia diversa.

Si presentò una serva, e fu ordinato il pranzo.

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- Un fritto di pesciolini della Senna, spezzatino di coniglio, insalata e dolce, -

scandì la signora Dufour, con aria d’importanza. - Portate anche due litri e una

bottiglia di bordò, - disse suo marito. - Mangeremo sull’erba, - aggiunse la

ragazza.

La nonna s’era intenerita vedendo il gatto della casa, e da dieci minuti gli

andava dietro, chiamandolo coi nomi più dolci. L’animale, che senza dubbio era

internamente lusingato da tanta considerazione, stava a portata di mano della

buona vecchia, però senza lasciarsi acchiappare, e girava tranquillamente attorno

agli alberi, vi si strusciava tenendo la coda ritta, con un ronron di piacere.

- Guarda! - gridò all’improvviso il giovanotto coi capelli gialli che esplorava

tutt’intorno: - queste sì che sono barche.

Andarono a vedere. Sotto una piccola tettoia di legno erano sospese due

magnifiche iole da regata lavorate e rifinite come mobili di lusso. Riposavano a

fianco a fianco, simili, nella loro lucida e snella lunghezza, a due belle ragazze

slanciate; e facevano venir voglia di correre sull’acqua, nelle dolci e belle serate, o

nelle limpide mattine d’estate, di sfiorare le sponde fiorite dove file di alberi

bagnano i rami nell’acqua, dove tremola l’eterno brivido delle canne e donde,

come lampi azzurri, s’involano i rapidi martin pescatori.

Tutta la famiglia le contemplava con rispetto.

- Oh! queste sì, son proprio belle, - ripeté Dufour. E dava spiegazioni da

competente. Anche lui, diceva, ai suoi bei tempi aveva praticato il canottaggio;

anzi, con quelli in mano (e faceva la mossa di premere sui remi), se ne infischiava

di tutti; un tempo, alle corse, a Joinville, aveva battuto più d’un inglese. E

scherzò sulla parola «signore» con la quale vengono denominati i due montanti

che sostengono i remi, dicendo che i canottieri, con ragione, non uscivano mai

senza le loro «signore». Così concionando s’era riscaldato, e si ostinava a dire che

con una imbarcazione come quella avrebbe scommesso di fare ventiquattro

chilometri l’ora, senza correr troppo.

- È pronto, - disse la serva, affacciandosi sull’ingresso. Si precipitarono; ma

ecco che il posto migliore (quello che la signora Dufour aveva scelto fra sé per il

desinare) era già occupato da due giovanotti. Indubbiamente erano i proprietari

delle iole, perché erano vestiti da canottieri.

Erano distesi, quasi sdraiati, sulle sedie. Avevano il viso brunito dal sole, il

petto coperto soltanto da una magliettina di cotone bianco che lasciava nude le

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braccia, robuste come quelle dei fabbri. Due bei ragazzoni, forse un po’ troppo

fieri della loro prestanza, ma che in ogni movimento mostravano quell’elastica

grazia delle membra che s’acquista solo con l’esercizio, tanto diverso dalle

deformazioni che gli sforzi faticosi e sempre uguali imprimono sugli operai.

Costoro nel veder la madre si scambiarono un rapido sorriso, e nel vedere la

figlia uno sguardo. - Cediamogli il nostro posto, - disse uno; - così faremo

conoscenza. - L’altro s’alzò subito e tenendo in mano il berretto nero e rosso offrì

cavallerescamente alle signore il solo luogo del giardino dove non battesse il sole.

Gli altri accettarono profondendosi in scuse, e affinché l’atmosfera campestre

fosse accentuata, la famiglia si sistemò sull’erba, senza né tavolini né seggiole.

I due giovani portarono la loro roba un poco più in là e si rimisero a mangiare.

Le loro braccia nude, ch’essi non tralasciavano di mettere in mostra,

imbarazzavano un po’ la ragazza. Fingeva di voltare la testa e di non vederle,

mentre la signora Dufour, più audace, e stimolata da una femminile curiosità che

forse era desiderio, le guardava di continuo e senza dubbio le paragonava con

rimpianto alle segrete bruttezze di suo marito.

Era crollata sull’erba, con le gambe piegate come i sarti, e si dimenava

continuamente col pretesto delle formiche che le erano entrate in qualche posto.

Dufour, reso sgarbato dalla presenza e dalla gentilezza dei due estranei, cercava

invano una posizione comoda, e il giovane coi capelli gialli mangiava come un

orco, in silenzio.

- Che bella giornata, eh, signore? - disse la donnona a uno dei canottieri.

Voleva esser gentile a motivo del posto che avevano ceduto.

- Sì, signora - rispose quegli. - Venite spesso in campagna voi?

- Oh! solo una volta o due l’anno, per prendere un po’ d’aria; e voi?

- Io ci vengo a dormire tutte le sere.

- Ah! dev’esser bello...

- Sì, certo, signora.

E raccontò con poesia la sua vita d’ogni giorno, in modo tale da far vibrare nel

cuore di quei borghesi lontani dall’erba e affamati di passeggiate fra i campi,

quello stupido amore della natura che li ossessiona per tutto l’anno dietro il

banco delle loro botteghe.

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La ragazza, commossa, alzò gli occhi e guardò il canottiere. Dufour aprì bocca

per la prima volta. - Eh, questo sì che è vivere! - disse, e aggiunse: - Un altro po’

di coniglio, cara?

- No, grazie, amico mio.

Ella si voltò di nuovo verso i due giovanotti e indicando le loro braccia, disse: -

Non avete mai freddo, a star così?

Si misero tutti e due a ridere, e spaventarono la famiglia raccontando le loro

prodigiose fatiche, i bagni fatti sudando, le corse fra le nebbie notturne; e si

percossero violentemente il petto, per far sentire che rumore faceva.

- Si vede che siete robusti, - disse il marito, il quale ora non parlava più di

quando vinceva gli inglesi.

Ora la ragazza li guardava di sbieco; il giovane coi capelli gialli, che aveva

bevuto di traverso, tossì violentemente, annaffiando il vestito di seta color ciliegia

della padrona la quale, stizzita, fece portare un po’ d’acqua per lavar le macchie.

Intanto il caldo diventava tremendo. Il fiume scintillante sembrava un braciere

ardente, e i fumi del vino sconvolgevano i cervelli.

Dufour, squassato dal singhiozzo, s’era sbottonato il panciotto e i calzoni; sua

moglie, mezza soffocata, si slacciava a poco a poco il vestito. L’apprendista, tutto

allegro, dondolava il suo testone di capelli filacciosi e si versava un bicchiere dopo

l’altro. La nonna, sentendosi brilla, se ne stava rigida e silenziosa. Quanto alla

ragazza non lasciava scorgere nulla; soltanto gli occhi le brillavano vagamente e la

sua pelle scura si colorava di rosa alle gote.

Il caffè diede il colpo di grazia. Fu lanciata l’idea di cantare, e ognuno recitò il

suo stornello, mentre gli altri applaudivano freneticamente. Poi, s’alzarono, con

gran difficoltà, e mentre le due donne, stordite, respiravano con forza, i due

uomini, completamente cotti, facevano la ginnastica. Pesanti, flaccidi, col viso

paonazzo, s’attaccavano goffamente agli anelli, senza riuscire a tirarsi su; e le loro

camicie minacciavano di continuo di abbandonare i calzoni per sventolare

liberamente come bandiere.

Intanto i canottieri avevano messo le iole in acqua e vennero gentilmente a

proporre alle signore una passeggiata sul fiume.

- Signor Dufour, vuoi? te ne prego! - gridò la donna. Egli la guardò senza

capire, con uno sguardo da ubriaco. Allora uno dei canottieri s’avvicinò tenendo

in mano due canne da pesca. La speranza di prendere qualche ghiozzo, che è

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l’ideale dei bottegai, fece brillare gli occhi istupiditi del brav’uomo, il quale

promise tutto quel che si voleva, e si mise sotto il ponte, all’ombra, coi piedi

penzoloni sull’acqua, accanto al giovanotto coi capelli gialli che s’addormentò

accanto a lui.

Uno dei canottieri si sacrificò: prese la madre. - Al boschetto dell’isola degli

inglesi! - gridò allontanandosi.

L’altra iole si muoveva più lentamente. Il rematore guardava la sua compagna,

con tale intensità che non pensava ad altro; era stato preso da un turbamento

che lo paralizzava.

La ragazza, seduta al posto del timoniere, s’abbandonava alla dolcezza

dell’acqua. Era vuota di pensieri, con una grande calma in tutte le membra, in un

totale abbandono di se stessa. Era diventata rossa rossa e aveva l’affanno. Lo

stordimento del vino, moltiplicato dal calore torrenziale che scorreva tutt’intorno

faceva inclinare al suo passaggio tutti gli alberi della riva. Un indefinito bisogno di

godimento, un ribollire del sangue, percorrevano la sua carne già eccitata dagli

ardori di quella giornata; inoltre la turbava quell’intimità sull’acqua, in mezzo al

paese spopolato dall’incendio del cielo, con quel giovane che la trovava bella, che

le baciava la pelle con gli occhi, che penetrava in lei come il sole, col suo

desiderio.

L’incapacità di parlare non faceva che aumentare il turbamento ed essi allora

si guardavano attorno. Finalmente egli facendo uno sforzo le chiese come si

chiamasse: - Henriette, - rispose la giovane.

- Guarda! guarda! - disse lui. - Io mi chiamo Henri.

S’erano calmati, al suono delle loro voci; e rivolsero il loro interesse alla riva.

L’altra iole s’era fermata, e sembrava che li aspettasse. Il giovane che la portava

gridò: - Vi raggiungeremo nel bosco; andiamo a Robinson, perché la signora ha

sete. - Si piegò sui remi allontanandosi con tale rapidità che presto lo persero di

vista.

Un brontolio continuo che prima si sentiva a malapena s’avvicinava

rapidamente. Il fiume stesso sembrava premere, come se il sordo rumore salisse

dalle sue profondità.

- Cos’è questo rumore? - chiese la ragazza. Era la cascata dello sbarramento

che tagliava il fiume in due all’estremità dell’isola. Egli si sprofondò in una

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spiegazione allorché, tra il rumoreggiare della cascata, sentirono il canto d’un

uccello che sembrava venire assai di lontano.

- Guarda, guarda, - disse egli; - gli usignoli cantano di giorno; vuol dire che le

femmine stanno facendo la cova.

Un usignolo! La ragazza non li aveva mai sentiti, e il pensiero di poterne udire

uno sollevò nel suo cuore una visione di poetici affetti. Un usignolo! Ossia,

l’invisibile testimonio degli appuntamenti che Giulietta invocava dal suo balcone;

la musica del cielo concessa ai baci degli uomini; l’eterno ispiratore delle languide

romanze che aprono azzurri ideali ai poveri cuoricini delle ragazze commosse!

Stava per udire l’usignolo...

- Facciamo piano, - disse il suo compagno; - potremo scendere nel bosco, e

sederci vicino a dov’è lui.

Il canotto sembrava che scivolasse. Spuntarono alcuni alberi dell’isola, la

quale aveva la riva così bassa che gli occhi si perdevano nel fitto del bosco. Si

fermarono; legarono il canotto e s’inoltrarono fra i rami, Henriette appoggiata al

braccio di Henri. - Chinatevi, - disse egli. La ragazza si chinò, e penetrarono in un

inestricabile groviglio di liane, di foglie e di canne, un rifugio introvabile che

bisognava per forza conoscere, e che il giovane, ridendo, chiamava «il suo salotto

riservato».

Proprio sulle loro teste, appollaiato su uno degli alberi che li coprivano,

l’uccello continuava a sfiatarsi. Lanciava trilli e gorgheggi, poi emetteva dei suoni

prolungati e vibranti che riempivano l’aria e parevano perdersi all’orizzonte,

dispiegandosi lungo il corso del fiume, e volando sopra le pianure attraverso

l’infuocato silenzio che appesantiva la campagna.

Non parlavano più, temendo di farlo fuggire. Eran seduti accanto, e pian piano

il braccio di Henri girò intorno alla vita di Henriette, serrandola in una dolce

stretta. Tranquillamente la ragazza tolse la mano audace, e seguitò ad

allontanarla a misura che egli la riavvicinava, senza provare imbarazzo alcuno per

quella carezza, come se fosse stata una cosa naturalissima, che ella respingeva

con altrettanta naturalezza.

Stava ascoltando l’uccello, smarrita in una sorta di estasi. Si sentiva

attraversare da infiniti desideri di felicità, da subitanei slanci d’affetto, da

rivelazioni di sovrumana poesia, da una tale snervatezza e da un intenerimento

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del cuore, che piangeva senza sapere perché. Ora il giovane la stringeva contro di

sé; e lei non lo respingeva più, non ci pensava nemmeno.

All’improvviso l’usignolo tacque. Una voce gridò di lontano: - Henriette!

- Non rispondete, - diss’egli; - farete volar via l’uccello.

Non ci pensava proprio. Rimasero così per un poco. La signora Dufour doveva

esser seduta in qualche posto perché ogni tanto si sentivano vagamente i gridolini

della donnona senza dubbio stuzzicata dall’altro canottiere.

La ragazza seguitava a piangere, in preda a dolcissime sensazioni, con la pelle

calda e picchiettata dovunque da piccoli strani brividi. Henri teneva la testa

appoggiata sulla sua spalla; all’improvviso la baciò sulla bocca. Ella si voltò

furiosamente e per evitarlo si gettò indietro, sulla schiena. Ma egli s’abbatté su di

lei coprendola col suo corpo. Inseguì lungamente la bocca che gli sfuggiva, e,

raggiuntala, vi incollò la sua. Allora, trascinata da un grandissimo desiderio, lei

gli rese il bacio, stringendo il giovane, e la sua resistenza crollò, come schiacciata

da un peso troppo forte.

Tutto, intorno, era calmo. L’uccello ricominciò a cantare. Dapprincipio emise

tre note penetranti che sembravano un richiamo d’amore, poi, dopo una

brevissima pausa, cominciò con più debole canto lentissime modulazioni.

Si levò un molle venticello, suscitando un mormorio di foglie e tra la

profondità dei rami passarono due ardenti sospiri, che si mischiarono al canto

dell’usignolo e al leggero respiro del bosco.

L’uccello era invaso dall’ebbrezza e il suo canto, aumentando a poco a poco

come un incendio che prenda vigore, o una passione che ingrandisca, sembrava

che accompagnasse un crepitio di baci sotto l’albero. Poi, il delirio della sua gola

si scatenò perdutamente. A momenti pareva che fosse lì lì per svenire, e

spasimava a lungo, melodiosamente.

Talora si riposava un poco emettendo soltanto due o tre suoni leggeri e

prolungati, che finivano all’improvviso con una nota acutissima. Oppure si

lanciava in una corsa furiosa fra uno zampillare di diversi toni, di fremiti, di

sussulti, come un impetuoso canto d’amore seguito da grida trionfali.

Ma tacque, sentendo sotto di sé un gemito così profondo, che si poteva

scambiare per l’addio d’un’anima. Il rumore si prolungò un poco, e finì in un

singhiozzo.

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Erano molto pallidi, tutti e due, quando lasciarono il loro letto di verdura. Il

cielo turchino apparve loro oscurato; il sole ardente era spento per i loro occhi;

s’accorsero della solitudine e del silenzio. Camminarono rapidamente, a fianco a

fianco, senza parlarsi, senza toccarsi, perché sembravano divenuti irreconciliabili

nemici, come se tra i loro corpi si fosse levato il disgusto, e tra le loro anime

l’odio.

Ogni tanto Henriette gridava: - Mamma!

Vi fu un trambusto dietro un cespuglio. Henri ebbe l’impressione d’aver visto

una gonna bianca abbassarsi rapida su un grosso polpaccio; l’enorme donna

apparve, un po’ confusa e ancor più rossa, con gli occhi lucidissimi, il petto in

tumulto, forse troppo vicina al suo compagno. Il quale doveva aver visto qualcosa

di veramente buffo, perché il suo viso era attraversato, suo malgrado, da rapide

risate.

La signora Dufour lo prese sottobraccio con aria tenera, e s’incamminarono

verso i canotti. Henri, il quale camminava avanti, sempre silenzioso a fianco della

ragazza, credette ad un tratto di udire il rumore soffocato d’un grosso bacio.

Finalmente arrivarono a Bezons.

Dufour, ritornato in sé, era impaziente. Il giovanotto coi capelli gialli stava

mangiando un boccone prima di lasciar l’albergo. La carretta era attaccata, nel

cortile, e la nonna, già sopra, si disperava temendo che l’oscurità li prendesse per

la strada, siccome i dintorni di Parigi non eran sicuri.

Furono scambiate delle strette di mano, e la famiglia Dufour se ne andò. -

Arrivederci! - gridavano i canottieri. Un sospiro e una lacrima risposero.

Due mesi dopo Henri, passando per via dei Martiri, lesse su una porta:

«Dufour, chincaglierie».

Entrò.

La donnona traboccava dalla cassa. Si riconobbero subito e dopo uno scambio

di cortesie, egli chiese: - E la signorina Henriette come sta?

- Benissimo, grazie; si è sposata.

- Ah, sì?

Si sentì turbato; aggiunse:

- E... con chi?

- Ma, col giovanotto che ci accompagnava, è lui che dovrà continuare la ditta.

- Ho capito.

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Se ne andò con molta tristezza addosso, senza saper neanche bene il perché.

La signora Dufour lo richiamò:

- E il vostro amico? - chiese timidamente.

- Sta bene.

- Fategli i nostri saluti, inteso? E ditegli di venirci a trovare quando passa da

queste parti...

Diventò tutta rossa, e aggiunse: - Ditegli che mi farà molto piacere...

- Non mancherò. Addio!

- No... a presto.

L’anno dopo, in una giornata di domenica molto calda, Henri si vide tornare in

mente tutti i particolari della sua avventura, che non aveva mai scordato,

talmente chiari e desiderabili che se ne andò solo solo nella loro camera, nel

bosco.

Rimase di stucco, entrando. C’era lei, seduta sull’erba, triste, e al suo fianco

c’era suo marito, il giovane coi capelli gialli, anche stavolta in maniche di camicia,

che dormiva coscienziosamente, come un bruto.

Nel vedere Henri divenne così pallida che parve sul punto di svenire. Poi si

misero a parlare con naturalezza, come se fra loro non ci fosse stato mai nulla.

E, mentre egli diceva di essere molto affezionato a quel posto, e di andarci

spesso, di domenica, a riposarsi, rievocando tanti ricordi, la donna lo guardò a

lungo negli occhi.

- Io ci penso tutte le sere.

- Andiamo, su, cara, - disse sbadigliando suo marito, - credo che sia ora

d’andarcene.

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LA CASA TELLIER

I

Ci andavano tutte le sere, verso le undici, né più né meno come al caffè.

Si ritrovavano in sei o sette, sempre gli stessi, e non erano dei gaudenti, ma

gente perbene, commercianti, giovanotti della città; bevevano il certosino

scherzando un poco con le ragazze, oppure parlando di cose serie con Madama, la

quale era rispettata da tutti.

Prima di mezzanotte rincasavano per andare a letto. I giovanotti qualche volta

rimanevano.

La casa era familiare; piccola, dipinta di giallo, sull’angolo di una strada dietro

la chiesa di Santo Stefano; dalle finestre si vedeva il bacino pieno di bastimenti

allo scarico, la grande salina detta «la Chiusa» e, dietro, la costa della Vergine con

la vecchia cappella grigia.

Madama, la quale veniva da una buona famiglia di contadini del dipartimento

dell’Eure, aveva accettato quella professione proprio come sarebbe diventata

modista o cucitrice di bianco. Il pregiudizio del disonore connesso con la

prostituzione, tanto violento e vivo nelle città, non esiste nella campagna

normanna. «È un buon mestiere», dice il contadino, e manda il figlio a reggere un

harem di ragazze come l’avrebbe mandato a dirigere un collegio di educande.

La casa, d’altronde, gliel’aveva lasciata in eredità un vecchio zio che ne era il

proprietario. Madama e suo marito, che facevano i locandieri nei dintorni

d’Yvetot, giudicando più lucrosa l’azienda di Fécamp, avevano subito liquidato la

prima, ed una bella mattina erano arrivati per assumere la direzione dell’impresa

che stava pericolando, per la mancanza dei padroni.

Era brava gente che si fece subito voler bene dal personale e dal vicinato.

Il marito morì di un colpo apoplettico due anni dopo. La nuova professione lo

costringeva a una vita sedentaria, molle, e di conseguenza egli era ingrassato

molto, ed era morto per troppa salute.

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Madama, da quando era vedova, era desiderata invano da tutti i clienti della

ditta; ma aveva fama di essere inattaccabile e le sue stesse pensionarie non erano

riuscite a scoprir nulla su di lei.

Era alta, opulenta, avvenente. Il suo viso, reso pallido dalla vita al chiuso,

luccicava come se fosse ricoperto da una vernice grassa. Una sottile guarnizione

di capelli lanuginosi, finti e arricciolati, le incorniciava la fronte dandole un

aspetto giovanile che contrastava con la maturità delle sue forme. Sempre allegra

e contenta, ella scherzava volentieri, con una sfumatura di ritegno che le sue

nuove occupazioni non erano ancora riuscite a farle perdere. Le parolacce

l’urtavano sempre un poco; e quando un giovanotto chiamava col suo vero nome

l’impresa da lei diretta, si adontava, nauseata. Aveva insomma un’anima delicata,

e nonostante trattasse le sue donne come amiche, ripeteva volentieri che «non

erano dello stesso ramo».

Talvolta, nel corso della settimana, usciva in carrozza d’affitto con una parte

della sua compagnia; andavano a folleggiare sui prati in riva al fiumicello che

scorre nei terreni di Valmont. Erano gite di collegiali in vacanza, corse pazze,

giochi infantili, l’esplosione della gioia di prigioniere inebriate dall’aria aperta.

Sedute sull’erba mangiavano dell’affettato bevendo sidro, e tornavano sul cader

della notte deliziosamente stanche, dolcemente intenerite; in carrozza

abbracciavano Madama, come una buona madre, mansueta e compiacente.

La casa aveva due ingressi. Sull’angolo una specie di caffè cieco si apriva, la

sera, per i popolani e per i marinai. Due delle ragazze che lavoravano nella ditta

erano riservate in particolare ai bisogni di quella parte della clientela. Con l’aiuto

del cameriere, che si chiamava Frédéric, un biondino imberbe e forte come un

bue, esse servivano mezzi litri e bottiglie di birra sulle zoppicanti tavole di marmo,

e, gettando un braccio intorno al collo dei clienti o sedute di traverso sulle loro

ginocchia, li incitavano a bere.

Le altre tre signorine (erano cinque in tutto) costituivano una specie di

aristocrazia, ed erano riservate ai frequentatori del primo piano, a meno che a

pianterreno ci fosse bisogno di loro e non ci fosse nessuno al primo.

Il salotto di Giove, dove si riunivano i borghesi della zona era tappezzato di

carta turchina ed illeggiadrito da un grande disegno raffigurante Leda sdraiata

sotto un cigno. Vi si giungeva da una scala a chiocciola, terminata da una porta

stretta e modesta che dava sulla strada, e al disopra della quale per tutta la notte

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brillava un lanternino dietro a una grata, come quelli che si accendono ancora in

talune città, sotto le Madonne incastrate nei muri.

Lo stabile, umido e vecchio, odorava un po’ di muffa. A tratti un’ondata

d’acqua di Colonia attraversava i corridoi, oppure una porta di sotto, semiaperta,

sbattendo faceva esplodere in tutta la casa, come lo scoppio del tuono, le grida

plebee degli uomini seduti alle tavole del pianterreno, e suscitava sui volti dei

signori del primo piano una smorfia d’inquietudine e di disgusto.

Madama, che era alla mano con i clienti amici suoi, non lasciava mai il

salotto, e si interessava ai pettegolezzi cittadini che costoro le riportavano. La sua

conversazione posata era un diversivo ai discorsi inconcludenti delle tre ragazze;

era come un riposo tra le facezie licenziose dei panciuti borghesi che tutte le sere

si abbandonavano allo stravizio onesto e mediocre di bere un bicchierino di

liquore in compagnia di donne pubbliche.

Le tre signorine del primo piano si chiamavano Fernande, Raphaèlle e Rose la

Cavalla.

Poiché il personale era limitato, avevano cercato che ognuna di loro fosse

come un campione, il riassunto di un tipo femminile, affinché qualsiasi cliente

potesse trovarvi, almeno a un dipresso, la realizzazione del proprio ideale.

Fernande rappresentava la «bella bionda», molto alta, quasi obesa, molle, una

figlia dei campi piena di lentiggini che non volevano scomparire, coi capelli

filacciosi, tagliati cortissimi, chiari e privi di colore, simili alla canapa pettinata,

che le ricoprivano a malapena il cranio.

Raphaèlle, una marsigliese che aveva bazzicato in tutti i porti di mare,

sosteneva l’indispensabile parte della «bella ebrea», magra, con gli zigomi

sporgenti impiastricciati di rossetto. I suoi capelli neri, lustrati col midollo di bue,

le formavano sulle tempie dei riccioletti tirabaci. Gli occhi sarebbero stati belli se

quello destro non avesse avuto una macchia d’albugine. Il naso adunco le

cascava sulla bocca sporgente, dove due denti di sopra, finti, contrastavano con

quelli di sotto che avevano preso, con gli anni, una tinta scura come il legno

vecchio.

Rose la Cavalla, una palla di carne tutta pancia, retta da due gambucce

esilissime, cantava con voce logora dalla mattina alla sera strofette ora salaci ora

sentimentali, raccontava storielle interminabili e insignificanti, smetteva di

parlare soltanto per mangiare, e di mangiare soltanto per parlare, era sempre in

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movimento, agile come uno scoiattolo nonostante il grasso e le zampette sottili; e

le sue risate, cascatelle di gridi acuti, esplodevano senza tregua di qua e di là, in

una camera, nel solaio, nel caffè, dovunque, senza motivo.

Le due donne del pianterreno, Louise soprannominata Tegame, e Flore, detta

Altalena perché zoppicava un poco, la prima sempre vestita da «Libertà» con una

cintura tricolore, l’altra da spagnola di fantasia con degli orecchini di rame che a

ognuno dei suoi passi disuguali le ballonzolavano tra i capelli color carota,

parevano due sguattere rivestite per il carnevale. Simili a tutte le donne del

popolo, né più brutte né più belle, vere serve di locanda, venivano designate nel

porto con il nomignolo di «Due Pompe».

Una pace gelosa, ma turbata di rado, regnava tra le cinque donne, grazie al

conciliante buon senso di Madama e al suo inalterabile buonumore.

La ditta, unica nella cittadina, era frequentata assiduamente. Madama aveva

saputo darle un’apparenza perbene; ed era tanto gentile, tanto premurosa con

tutti, il suo buon cuore era tanto conosciuto, che era circondata da una tal quale

stima. I clienti abituali si facevano in quattro per lei, fieri allorché dimostrava una

più spiccata simpatia per uno di loro; e incontrandosi nel corso della giornata per

i loro affari, si dicevano: «A stasera, dove sapete», così come si dice: «Ci vediamo al

caffè dopo cena».

Insomma la casa Tellier rappresentava una risorsa, e assai di rado c’era chi

mancasse al quotidiano appuntamento.

Una sera, verso la fine di maggio, capitò che il primo ad arrivare, il signor

Poulin, negoziante di legnami ed ex sindaco, trovasse l’uscio chiuso. Il lanternino

dietro la grata era spento; non si sentiva rumore nella casa, che sembrava morta.

Picchiò dapprima piano e poi più forte, senza che nessuno rispondesse. Adagio

adagio risalì la strada, e giunto sulla piazza del mercato si imbatté nel signor

Duvert, l’armaiolo, anche egli diretto allo stesso posto. Ci ritornarono insieme, col

risultato di prima.

Improvvisamente vicino a loro scoppiò un gran chiasso: girato l’angolo videro

un assembramento di marinai inglesi e francesi che picchiavano pugni sugli

sportelli chiusi del caffè.

I due borghesi se la svignarono subito per non compromettersi; ma vennero

fermati da un tenue «psstt». Era il signor Tournevau, il salatore di pesci, che li

aveva visti e li chiamava. Gli raccontarono quel che accadeva, che lo colpì molto

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inquantoché egli, sposato, padre di famiglia e sorvegliatissimo, poteva venire

soltanto il sabato, «securitatis causa», diceva, alludendo a un provvedimento della

polizia sanitaria della quale un amico, il dottor Borde, gli aveva rivelato le visite

periodiche. Quella era proprio la sua serata e ora si trovava a bocca asciutta per

tutta la settimana.

I tre uomini fecero un lungo giro, fino alla banchina; per la strada

incontrarono il giovane signor Philippe, figlio del banchiere e cliente fisso, e il

signor Pimpesse, l’esattore. Ritornarono tutti insieme, passando dalla via «degli

Ebrei», per fare un ultimo tentativo. I marinai esasperati assediavano la casa,

buttavano sassi urlando. I cinque clienti del primo piano ritornarono sui loro

passi più in fretta che poterono e si misero a girovagare per le strade.

Incontrarono anche il signor Dupuis, agente assicuratore, poi il signor Vasse,

giudice del tribunale di commercio, e fecero una lunga passeggiata che li portò in

riva al mare. Si sedettero in fila sul parapetto di granito a guardare lo sgroppare

delle onde. Nell’ombra la cresta schiumosa delle onde aveva un biancheggiare

luminoso che si spengeva subito dopo che s’era prodotto; e il monotono rumore

del mare che si frangeva contro le rocce si prolungava nella notte lungo tutta la

costa dirupata.

- Non è un posto molto allegro, - dichiarò il signor Tournevau quando la

malinconica sosta parve durata abbastanza.

- No, di certo, - rispose il signor Pimpesse, e ripresero a camminare

lentamente.

Dopo aver percorso la strada che domina la costa e che vien chiamata

«Sottobosco» attraversarono la passerella della «Chiusa», passarono a fianco della

ferrovia e si ritrovarono nuovamente in piazza del Mercato. L’esattore Pimpesse e

il pesciaiolo Tournevau si erano messi improvvisamente a discutere a proposito di

un fungo commestibile che uno di essi affermava di aver trovato nei dintorni.

Gli animi erano esacerbati dalla noia, e forse i due sarebbero venuti alle mani,

se non fossero intervenuti gli altri. Il signor Pimpesse rincasò furente, e subito

dopo sorse un altro alterco tra l’ex sindaco e l’agente assicuratore, a proposito

degli emolumenti dell’esattore e dei benefici che questi aveva modo di procurarsi.

Parole ingiuriose fioccavano da entrambe le parti, allorché si scatenò una

tremenda tempesta di grida, e il branco dei marinai, stufi di attendere invano

davanti alla casa chiusa, venne a sfociare nella piazza. Procedevano a braccetto a

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due a due, in lunga processione, schiamazzando furiosamente. Il gruppetto dei

borghesi si nascose in un portone, e la masnada urlante scomparve in direzione

dell’abbazia. A lungo si seguitò a sentire il clamore, che andava diminuendo come

una burrasca che s’allontani; finché tornò il silenzio.

Poulin e Dupuis, arrabbiatissimi l’uno contro l’altro, se n’andarono ognuno

per la sua strada, senza neanche salutarsi.

Gli altri quattro ripresero a camminare, dirigendosi istintivamente verso la

casa Tellier. Era sempre chiusa, muta, impenetrabile. Un ubriaco, tranquillo e

ostinato, picchiava dei colpettini sulle imposte chiuse del caffè, interrompendosi

per chiamare a mezza voce il cameriere. Visto che nessuno gli rispondeva pensò

che la cosa migliore da fare fosse sedersi sullo scalino dell’uscio, e aspettare.

I borghesi stavano per andarsene, quando la banda tumultuante degli uomini

del porto ricomparve in capo alla strada. I marinai francesi strillavano la

Marsigliese, quelli inglesi il Rule Britannia. Si avventarono tutti insieme contro

l’edificio; poi l’ondata dei bruti s’indirizzò verso la banchina, dove fra i marinai

delle due nazioni scoppiò un litigio. Nella rissa un inglese ebbe un braccio rotto e

un francese il naso spaccato.

L’ubriaco, rimasto davanti alla porta, si era messo a piangere, come piangono

i beoni o i bambini contrariati.

Finalmente i borghesi si dispersero.

A poco a poco sulla città turbata ritornò la calma. Ogni tanto si sentiva

sollevarsi qua e là un rumore di voci che si spengeva lontano.

Soltanto il pesciaiolo Tournevau continuava a girovagare, disperato di dover

aspettare fino al sabato successivo; e capiva, sperava in chissà cosa, adirandosi

contro la polizia, che permetteva la chiusura di un istituto di utilità pubblica che

essa stessa sorvegliava e custodiva.

Ci tornò ancora una volta, strisciando lungo i muri, seguitando a chiedersi il

perché della chiusura, e si accorse che sull’ingresso c’era incollato un cartello.

Accese lesto un fiammifero e lesse queste parole, scritte in caratteri disuguali:

«Chiuso per prima comunione».

Allora se ne andò, convinto che era proprio finita.

L’ubriaco si era addormentato, lungo disteso attraverso l’inospitale soglia.

L’indomani tutti i clienti, uno dopo l’altro, fecero in maniera di passare per

quella strada con delle carte sotto il braccio per darsi un contegno; e ognuno di

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loro, con un’occhiata furtiva lesse l’avviso misterioso: «Chiuso per prima

comunione».

II

Il fatto era che Madama aveva un fratello, padrone di una bottega di

falegname al loro paese natale, Virville, nell’Eure.

Quando ella era ancora locandiera a Yvetot, aveva tenuto a battesimo la

figliola di questo fratello, dandole il nome di Constance: Constance Rivet, ed ella

stessa da ragazza era una Rivet. Il falegname che sapeva della buona posizione

della sorella, non la perdeva di vista, anche se non si vedevano spesso, legati

com’erano alle loro occupazioni, e abitando lontani l’uno dall’altra. Ma poiché la

ragazzina stava per compiere i dodici anni e faceva quell’anno la prima

comunione, egli approfittò dell’occasione per un incontro, e scrisse alla sorella

che contava sulla sua presenza alla cerimonia. I loro vecchi genitori erano morti,

ella non poteva opporre un rifiuto alla figlioccia, e allora accettò. Il fratello, che si

chiamava Joseph, sperava che a furia di cortesie forse sarebbe giunto ad ottenere

il testamento in favore della bambina, dato che Madama non aveva figli.

La professione della sorella non turbava in nessun modo la sua coscienza, e,

d’altronde, nessuno al paese lo sapeva. Parlando di lei dicevano soltanto: «La

signora Tellier è una borghese di Fécamp» e questo poteva far credere che ella

vivesse di rendita. Da Fécamp a Virville ci sono almeno quaranta chilometri; e per

i contadini quaranta chilometri sono una distanza più difficilmente superabile

che l’Oceano per una persona civile. La gente di Virville non era mai andata oltre

Rouen; e nulla poteva attirare la gente di Fécamp in un villaggio di cinquecento

focolari, sperduto in mezzo alla pianura e per di più appartenente a un altro

dipartimento. Insomma non sapevano nulla.

Ma avvicinandosi la data della comunione, Madama si trovò in imbarazzo. Non

aveva una sostituta, e non avrebbe mai pensato di abbandonare la casa neanche

per un giorno solo. Le rivalità fra le signorine di sopra e quelle di sotto sarebbero

esplose senz’altro; non c’è dubbio che Frédéric si sarebbe ubriacato, e quello

quando era ubriaco era capace di accoppare chiunque per un sì o per un no.

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Perciò decise di portare con sé tutto il personale, fuorché il cameriere al quale

diede due giorni di permesso.

Si consultò con suo fratello il quale non ebbe nulla da obiettare, anzi si

incaricò di alloggiare per una notte tutta la compagnia. Perciò il sabato mattina il

diretto delle otto trasportò Madama e le sue compagne in una carrozza di seconda

classe.

Fino a Beuzeville restarono sole e gracchiarono come gazze.

Però a quella stazione salì una coppia. L’uomo, un vecchio contadino,

indossava un camiciotto turchino con il collo pieghettato e larghe maniche,

chiuse ai polsi, adorne di un ricamino bianco; portava un vecchio cappello a

cilindro d’antica forma, col pelo divenuto rossiccio, quasi irto, aveva in una mano

un enorme ombrello verde, e nell’altra un capace paniere dal quale spuntavano le

teste spaventate di tre anatre. La donna, irrigidita nel rustico vestito della festa,

pareva una gallina col naso a punta come un becco. Si sedette di fronte al suo

uomo e restò immobile, sbalordita di ritrovarsi in mezzo a una così bella

compagnia.

Infatti nello scompartimento c’era un barbaglio di colori strepitosi. Madama,

vestita di seta turchina da capo a piedi, si drappeggiava inoltre in uno scialle di

falso casimir francese, d’un rosso accecante, sfolgorante. Fernande ansimava

dentro un vestito scozzese col busto stretto a tutta forza dalle sue compagne di

modo che il suo petto cascante s’innalzava in una doppia cupola sempre in

movimento, che sembrava liquida sotto la stoffa.

Raphaèlle aveva un cappello piumato che simulava un nido pieno d’uccelli, e

indossava un vestito lilla coi lustrini d’oro, qualcosa di orientale, che si addiceva

al suo aspetto di ebrea. Rose la Cavalla, in una gonna rosa a larghe balze, pareva

una bambina troppo grassa, o una nana obesa; e le Due Pompe si sarebbe detto

che avessero cucito i loro ridicoli vestiti con delle vecchie tende da finestra, le

antiquate tende a fogliami che risalgono alla Restaurazione.

Appena non furono più sole nello scompartimento le signore presero un’aria

grave e si misero a parlare di cose elevate per fare buona impressione. Ma a

Bolbec entrò un signore con le fedine bionde, le dita inanellate e una catena

d’oro, il quale posò sulla reticella diversi pacchetti involtati con la tela cerata.

Aveva un aspetto faceto e bonario. Salutò, sorrise e chiese con naturalezza: - Le

signore cambiano di guarnigione? - La domanda mise in confusione il gruppo.

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Madama si riprese e volle vendicare l’onore del corpo: - Potreste anche essere più

educato! - rispose seccamente. Egli si scusò: - Domando scusa, volevo dire

monastero. - Madama, non trovando nulla da ridire, o forse ritenendo bastante la

rettifica, strinse le labbra facendo un dignitoso cenno col capo.

Quindi il signore, il quale era seduto tra Rose la Cavalla e il vecchio contadino,

strizzò l’occhio alle tre anatre che sporgevano con la testa dal paniere; poi,

quando sentì che stava conquistando il pubblico, si mise a solleticare gli animali

sotto il becco, mentre faceva buffi discorsetti per tenere allegri i presenti: - E così

abbiamo lasciato il nostro stagnettino! cuen! cuen! cuen! per far la conoscenza

con lo spiedino, cuen! cuen! cuen! - Le disgraziate bestie torcevano il collo per

sfuggire alle carezze, facevano sforzi spaventosi per evadere dalla loro prigione di

vimini, e all’improvviso tutte e tre insieme strillarono sgomente: «Cuen! cuen!

cuen! cuen!». Le donne scoppiarono a ridere. Si piegavano, si davano spinte per

vedere; mostravano uno straordinario interesse per le anatre; e quel signore era

sempre più grazioso, più spiritoso, più lezioso.

Poi Rose volle baciare sul becco le tre bestiole, piegandosi sopra le gambe del

suo vicino. Allora tutte le ragazze vollero fare altrettanto, e il signore le prendeva

sulle ginocchia, le faceva saltellare, le pizzicava; a un tratto cominciò a dare del tu

a tutte.

I due contadini, ancora più impauriti delle loro bestie, rigiravano gli occhi

come ossessi, senza osare un gesto, e sulle loro vecchie facce rugose non appariva

un sorriso, né un sussulto.

Il signore, che era un commesso viaggiatore, per scherzo volle offrire alle

signore delle bretelle e aprì uno dei pacchetti che aveva tirato giù dalla rete. Ma

scherzava, perché il pacchetto conteneva giarrettiere.

Ce n’erano di seta azzurra, di seta rosa, rossa, violetta, malva, fiamma, con le

fibbie di metallo formate da due cuoricini intrecciati e dorati. Le ragazze

gridavano dalla gioia; ma per esaminare i campioni si fecero serie, come ogni

donna che abbia tra le mani un oggetto per adornarsi. Si consultavano con

un’occhiata o una parola sottovoce, rispondendosi allo stesso modo, e Madama

maneggiava vogliosa un paio di giarrettiere arancione, più larghe, più imponenti

delle altre: vere giarrettiere da padrona.

Il signore aspettava, accarezzando un’idea: - Andiamo, gattine, bisogna

provarle, - disse. Ci fu un uragano di proteste fra le ragazze. Stringevano le gonne

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fra le gambe come se temessero di dover subire violenza. Il giovanotto, tranquillo,

aspettava il momento propizio.

- Non vi interessano? - esclamò. - Allora le ripongo. - E soggiunse

astutamente: - Ne offrirò un paio a scelta, a chi le prova. - Le donne si irrigidirono

piene di dignità e non ne volevano sapere. Tuttavia le Due Pompe avevano un’aria

tanto infelice che egli rinnovò la proposta. Era evidente che Flore Altalena era più

indecisa delle altre, tormentata dal desiderio. - Dài, figliola, un po’ di coraggio,

guarda queste lilla, vanno benissimo con il tuo abito. - Si decise, finalmente, e

rialzando la gonna mostrò una gambona di vaccara, mal coperta da una calza

grossolana. Il signore, chinandosi, allacciò la giarrettiera prima sotto il ginocchio,

poi sopra, e solleticava pian piano la ragazza, perché gridasse e si scuotesse.

Finita la prova le regalò le giarrettiere lilla, e chiese: - A chi tocca? - A me; a me! -

risposero tutte insieme. Cominciò con Rose la Cavalla, la quale scoprì una cosa

informe, tonda tonda, senza caviglia, un vero «zampone» come diceva Raphaèlle.

Fernande fu complimentata dal commesso viaggiatore, entusiasmato nel vedere le

sue possenti colonne. Le tibie scarne della bella ebrea ottennero minor successo.

Louise Tegame, per divertirsi, calò la gonna sul capo del commesso e Madama fu

costretta ad intervenire per far smettere lo scherzo troppo spinto. Per ultima,

anche Madama tese la gamba, una bella gamba normanna, grassoccia e

muscolosa; e l’uomo, sorpreso e rapito, cavandosi il cappello salutò con perfetta

galanteria francese quel signor polpaccio.

I due contadini, impietriti dallo stupore, guardavano di traverso con un occhio

solo, e somigliavano così perfettamente a dei polli che l’uomo coi favoriti biondi si

alzò e fece sul naso dei due un «chicchirichì» che scatenò un nuovo uragano di

allegria.

I vecchi discesero a Motteville, con il paniere, le anatre e l’ombrello, e mentre

s’allontanavano s’udì la donna dire al suo uomo: - Sono sgualdrine che vanno in

quell’indemoniata Parigi.

L’ameno commesso viaggiatore scese a Rouen, dopo essere stato tanto

grossolano che Madama fu costretta a trattarlo male. - Ci servirà di lezione,

parlare con il primo venuto, - aggiunse come morale.

Cambiarono treno a Oissel, e alla stazione seguente trovarono il signor Joseph

Rivet che le aspettava con un grosso barroccio pieno di sedie, tirato da un cavallo

bianco.

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Il falegname baciò cortesemente tutte le signore e le aiutò a salire. Tre si

sedettero sulle tre sedie in fondo; Raphaèlle, Madama e il fratello su quelle tre

davanti; e Rose, rimasta senza, si sistemò alla meglio sulle ginocchia della grossa

Fernande; quindi il carro si avviò. Ma il trotto sussultante del ronzino scuoteva

tanto fortemente il barroccio che le sedie presero a ballonzolare, sbattendo le

viaggiatrici a destra e a sinistra tra mosse burattinesche, smorfie impaurite, grida

di terrore interrotte da uno scossone più forte degli altri. Le donne si

aggrappavano alle fiancate del veicolo; i cappelli scivolavano sulle schiene, sui

nasi, o sulle spalle; e il cavallo continuava a trottare allungando la testa, tenendo

la coda ritta, una codina da topo, senza peli, con la quale di tanto in tanto si

batteva le natiche. Joseph Rivet, con un piede puntato su una stanga, l’altra

gamba ripiegata sotto il corpo, i gomiti in alto, teneva le redini. Gli usciva di gola

come un chiocciolio che faceva rizzare le orecchie al cavallo, e ne accelerava

l’andatura.

Ai due lati della strada si stendeva la campagna verde. I colza in fiore

dispiegavano di tanto in tanto una grande tovaglia gialla ondeggiante che

emanava un odore sano e possente, dolce e penetrante, che il vento portava

lontano. Fra la segale già alta i fiordalisi mostravano le loro testine inazzurrate: le

donne avrebbero voluto coglierli, ma Rivet rifiutò di fermarsi. Talvolta poi, un

campo intero pareva annaffiato di sangue, da tanti papaveri che c’erano. In mezzo

alla pianura colorata dai fiori della terra, il barroccio, quasi recasse un mazzo di

fiori di tinte più sgargianti, passava al trotto del cavallo bianco, scompariva dietro

i grandi alberi di una fattoria, e riappariva al principio delle fronde, portando a

spasso fra le messi gialle e verdi, punteggiate di rosso o di turchino, quella

strepitosa barrocciata di donne, che correva veloce sotto il sole.

Era l’una quando giunsero davanti alla casa del falegname.

Le donne erano stremate dalla fatica e pallide per la fame, non avendo

mangiato nulla dacché erano in viaggio. La signora Rivet accorse e le aiutò a

smontare una dopo l’altra, abbracciandole appena toccavano terra; e non si

stancava di sbaciucchiare la cognata nella speranza di ingraziarsela. Mangiarono

nella bottega che era stata sgombrata dei banconi per il pranzo dell’indomani.

Una buona frittata e un cotechino in graticola annaffiato da un buon sidro

frizzante rimisero tutti in allegria. Rivet aveva preso un bicchiere per trincare, e la

moglie serviva, cucinava, portava i piatti, li toglieva, sussurrando all’orecchio di

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ciascuna: - Vi è bastato? - Le tavole allineate contro i muri, i trucioli

ammonticchiati negli angoli, diffondevano un profumo di legno piallato, un odore

di falegnameria, quell’effluvio resinoso che penetra in fondo ai polmoni.

Chiesero della bambina; ma era in chiesa e sarebbe tornata soltanto a sera.

Allora la compagnia uscì per fare un giretto in paese.

Era un villaggetto traversato da una larga strada. Una diecina di case allineate

lungo quell’unica via ospitavano i commercianti del luogo, il macellaio, il

droghiere, il falegname, l’oste, il ciabattino e il fornaio. La chiesa, a un’estremità

di quella specie di strada, era circondata da un piccolo cimitero; e quattro tigli

smisurati piantati dinanzi al portale la ricoprivano tutta con la loro ombra. Era

costruita con blocchi di silice squadrati senza stile, e un campanile di ardesia la

sovrastava. Dopo ricominciava la campagna, chiazzata, di tanto in tanto, da

gruppetti d’alberi che nascondevano i cascinali.

Rivet, benché indossasse il vestito da lavoro, diede cerimoniosamente il

braccio alla sorella, e si mise a camminare con maestà. Sua moglie,

impressionata dall’abito con i lustrini d’oro di Raphaèlle, si era messa fra costei e

Fernande. Dietro, la tondeggiante Rose trotterellava insieme a Louise Tegame e

Flore Altalena, la quale zoppicava, sfinita.

Gli abitanti si affacciavano agli usci, i bambini smettevano di giocare, una

tendina rialzata lasciava intravedere una testa in una cuffia di cotonina; una

vecchia che si reggeva sulle stampelle, e quasi cieca, si fece il segno della croce

come al passaggio di una processione; e tutti seguivano a lungo con lo sguardo le

belle signore della città che erano venute da tanto lontano per la prima

comunione della bambina di Joseph Rivet. Di riflesso, un’immensa stima si

riversava sul falegname.

Passando davanti alla chiesa udirono un coro di fanciulli: un cantico strillato

al cielo da vocettine acute; ma Madama non volle che entrassero, per non

disturbare quei cherubini.

Dopo un giretto per la campagna, e l’elenco delle proprietà più importanti, del

reddito della terra e della produzione del grano, Joseph Rivet ricondusse verso

casa, per sistemarvelo, il gregge delle donne.

C’era pochissimo posto, e aveva dovuto riunirle a due a due nelle stanze.

Rivet, una volta tanto, avrebbe dormito nel laboratorio, sui trucioli; sua moglie

avrebbe diviso il letto con la cognata, e, nella camera accanto, Fernande e

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Raphaèlle avrebbero dormito assieme: Louise e Flore in cucina, su un materasso

messo per terra; e Rose da sola in uno stanzino buio, posto al disopra della scala,

di fianco a un piccolo soppalco dove, per quella notte, avrebbe dormito la

comunicanda.

Quando la bambina tornò a casa le si riversò addosso una pioggia di baci; le

donne vollero carezzarla, e sfogare il bisogno di tenere effusioni, l’abitudine

professionale delle moine, che in treno le aveva spinte a baciare le anatre. La

prendevano sulle ginocchia, le accarezzavano i fini capelli biondi, se la

stringevano fra le braccia, con slanci di violento e spontaneo affetto. La bambina,

buona buona, tutta compunta come se l’assoluzione l’avesse chiusa in se stessa,

si abbandonava, paziente e seria.

La giornata era stata assai faticosa per tutti. Dopo cena andarono subito a

letto. L’infinito silenzio dei campi, che quasi si sarebbe detto religioso, circondava

il villaggio; un silenzio tranquillo, penetrante, che spaziava fino alle stelle. Le

donne, abituate alle serate chiassose della casa pubblica, si sentivano commosse

dal muto riposo della campagna addormentata. Si sentivano la pelle percorsa da

brividi, ma non di freddo, brividi di solitudine che salivano dai loro cuori inquieti

e turbati.

Appena, a due a due, furono nel letto, si strinsero l’una all’altra, come per

difendersi dall’invasione del calmo e profondo sonno della terra. Ma Rose la

Cavalla, sola nell’oscuro bugigattolo e poco avvezza a dormire a braccia vuote, si

sentì presa da timori vaghi e spiacevoli. Mentre si rigirava nel giaciglio, senza

riuscire a prender sonno, sentì dei deboli singhiozzi, come di un bambino che

piange, oltre l’assito dietro al suo capo. Spaventata chiamò piano, e una vocina

affannata le rispose. Era la ragazzina, la quale, abituata a dormire in camera con

la madre, aveva paura, in quello stretto stambugio.

Felice, Rose si alzò e facendo piano per non svegliare nessuno, andò a

prendere la bimba. La portò nel suo letto caldo caldo, l’abbracciò stringendosela

al petto, la coccolò, la avviluppò nella sua esagerata tenerezza, poi, calmatasi, si

addormentò. E fino all’alba la comunicanda poggiò la fronte sul petto nudo della

prostituta.

Fin dalle cinque, all’Angelus, la campanella della parrocchia cominciò a

suonare a distesa, svegliando le signore, che di solito dormivano tutta la

mattinata per riposarsi dalle fatiche notturne.

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Nel villaggio i contadini erano già in piedi. Le donne, indaffarate, andavano da

una porta all’altra, chiacchierando vivacemente, portando con cautela corti vestiti

di mussolina, inamidati che parevano cartone, oppure ceri smisurati con un nodo

di seta frangiata d’oro nel mezzo, e frastagliature di cera che segnavano

l’impugnatura. Il sole, già alto, splendeva nel cielo azzurro nel quale, verso

l’orizzonte, era rimasta una tinta leggermente rosata, una sbiadita traccia

dell’aurora. Frotte di galline razzolavano dinanzi alle case; e qua e là, un gallo

nero con il collo rilucente alzava la testa coperta di porpora, batteva le ali,

lanciava al vento il suo canto metallico che veniva ripetuto dagli altri galli.

Dai comuni più vicini arrivavano carrette che scaricavano sulla soglia degli

usci grandi normanne vestite di scuro, con lo scialletto incrociato sul petto e

fermato da un’antica spilla d’argento. Gli uomini si erano infilati il camiciotto

turchino sopra la finanziera nuova o sopra la vecchia marsina verde della quale si

vedevano spuntare le due code.

Portati i cavalli nelle scuderie rimase sulla strada una doppia fila di carrozze

rustiche, barrocci, calessi, timonelle, carrettoni con panche, veicoli di tutte le

forme ed età, appoggiati sul naso; oppure col culo a terra e le stanghe per aria.

La casa del falegname era come un ronzante e operoso alveare. Le signore, in

copribusto e sottana, coi capelli sciolti sulla schiena, i capelli corti e stenti che si

sarebbero detti sbiaditi e rosicati dall’uso, erano intente a vestire la bambina.

Costei, ritta sulla tavola, non si muoveva, mentre Madama Tellier dirigeva i

movimenti del suo battaglione volante. Le lavarono il viso, la pettinarono, le

acconciarono i capelli, la vestirono, e con una miriade di spille le sistemarono le

pieghe dell’abito, restrinsero la vita, che era troppo larga, perfezionarono

l’eleganza dell’abbigliamento. Poi, quando ebbero finito, fecero sedere la paziente,

raccomandandole di non muoversi; e, a sua volta, l’irrequieto stuolo delle donne

corse ad adornarsi.

La chiesetta aveva ripreso a scampanare. Un gracile tintinnio di campana

povera saliva a sperdersi nel cielo, come una voce troppo flebile, subito disciolta

nell’azzurra immensità.

I comunicandi uscendo dalle case si dirigevano verso l’edificio comunale che

ad un’estremità del villaggio riuniva le due scuole e il municipio, mentre dall’altra

parte c’era la «casa di Dio».

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I genitori, vestiti a festa, con l’aspetto goffo e i movimenti impacciati che

hanno i corpi sempre curvi sul lavoro, venivano dietro ai loro marmocchi. Le

bambine sparivano in una nuvola di tulle nevoso, simile alla panna montata,

mentre i ragazzi, che sembravano camerieri di caffè in embrione, avevano la testa

spalmata di brillantina e camminavano a gambe larghe per non insudiciare i

calzoni neri.

Era un vanto per la famiglia, se il fanciullo era circondato da molti parenti

venuti da lontano; perciò il trionfo del falegname fu pieno. Il reggimento Tellier,

con la padrona in testa, veniva dietro a Constance; il padre dava il braccio a sua

sorella, la madre era a fianco di Raphaèlle, Fernande con Rose, e le Due Pompe

insieme: il corteo sfilava maestosamente come uno stato maggiore in grande

uniforme.

Enorme fu l’impressione nel villaggio.

Alla scuola le bambine si riunirono sotto la cuffia della suora, i ragazzi sotto il

cappello del maestro di scuola, un bell’uomo imponente, e s’incamminarono

intonando un cantico.

In testa i ragazzi si snodavano in due file, tra le due file delle carrozze senza

cavalli; venivano poi le bambine, nello stesso ordine; e poiché gli abitanti del

paese, per riguardo, avevano dato la precedenza alle signore di città, costoro

seguivano immediatamente le bambine, prolungando un poco la doppia fila della

processione, tre a destra e tre a sinistra, coi loro vestiti chiassosi come un mazzo

di fuochi d’artificio.

Il loro ingresso in chiesa portò lo scompiglio tra la popolazione. Si pigiavano, si

voltavano, si spingevano per vederle. Alcune fedeli parlavano quasi ad alta voce,

sbalordite alla vista di quelle signore più ornate delle pianete dei cantori. Il

sindaco offrì il suo banco, il primo a destra accanto al coro, e la signora Tellier vi

prese posto con la sua cognata. Fernande e Raphaèlle, Rose la Cavalla e le Due

Pompe, occuparono, insieme al falegname, il secondo banco.

Il coro della chiesa era gremito di fanciulli in ginocchio, femmine da un lato,

maschi dall’altro, e i lunghi ceri che avevano in mano sembravano lance inclinate

in ogni direzione.

Davanti al leggìo, tre uomini cantavano a gola spiegata. Strascicavano

indefinitamente le sonore sillabe del latino rendendo eterni gli Amen con

innumerevoli a a sostenuti dal serpentone mediante il prolungamento di una nota

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inesistente che la larga bocca dello strumento d’ottone mugghiava senza fine. La

voce acuta di un ragazzo rispondeva, e, di tanto in tanto, un prete seduto in uno

stallo, con una berretta quadrata in capo, si rizzava, bofonchiava qualcosa e

tornava a sedersi mentre i tre cantori ricominciavano, fissando gli sguardi sul

librone del canto gregoriano aperto davanti a loro e sorretto dalle ali spiegate di

un’aquila di legno infilata su un perno.

Poi si fece un gran silenzio. I presenti, tutti insieme, si misero in ginocchio, e

comparve l’officiante, vecchio, venerabile, con i capelli bianchi, reclinato sul calice

che teneva nella mano sinistra. Lo precedevano due chierici in sottana rossa e,

dietro, si vide una schiera di cantori con le scarpe grosse che s’allinearono ai lati

del coro.

Una campanella tintinnò, nel gran silenzio. Iniziava l’ufficio divino. Il

sacerdote passava lentamente davanti al tabernacolo d’oro, faceva genuflessioni,

salmodiava con la sua voce rotta e tremula per la vecchiaia le preghiere

preparatorie. Appena si tacque, i cantori tutti e il serpentone tuonarono insieme,

e vi furono anche degli uomini in chiesa che cominciarono a cantare a voce meno

alta, più umile, come si conviene ai fedeli.

Improvvisamente il Kyrie Eleison zampillò verso il cielo, gridato da tutti i petti

e da tutti i cuori. Granelli di polvere e briciole di legno tarlato piovvero dall’antica

volta, scossa dall’esplosione di grida. Il sole che batteva sulle ardesie del tetto

aveva infuocato la chiesetta come un forno; e una grande commozione, un’attesa

ansiosa, l’avvicinarsi dell’ineffabile mistero, stringevano il cuore dei fanciulli,

serravano le gole delle madri.

Il sacerdote che per un po’ era rimasto seduto, risalì l’altare, e, scoperto il

bianco capo, con gesti tremanti si avvicinava all’istante soprannaturale.

Si voltò verso i fedeli, e, tendendo le mani, pronunciò: «Orate, fratres»,

«pregate, fratelli». Tutti pregavano. Ora il vecchio parroco balbettava a bassa voce

le parole misteriose e supreme; il campanello suonava a distesa; la gente

prosternata invocava Dio, i fanciulli illanguidivano in un’ansietà smisurata.

In quel momento Rose, con la fronte tra le palme, si ricordò improvvisamente

di sua madre, della chiesa del suo paese, della sua prima comunione. Le parve di

essere tornata a quel giorno, quand’era tanto piccola, affogata nel vestitino

bianco; e si mise a piangere. Dapprima pianse piano, lente lacrime sgorgavano

dalle sue palpebre: poi, col sopravvenire dei ricordi, la commozione crebbe, e con

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il collo gonfio, il petto squassato, ella si mise a singhiozzare. Prese il fazzoletto, e

si asciugò gli occhi, si tamponò naso e bocca per non gridare, ma fu inutile: una

specie di rantolo le usciva dalla gola, e altri due sospiri profondi, strazianti, le

risposero, poiché le sue due vicine, Louise e Flore, prostrate accanto a lei, prese

anch’esse dalle medesime lontane ricordanze gemevano versando torrenti di

lacrime.

Ma siccome le lacrime sono contagiose, Madama, a sua volta, si sentì

inumidire le palpebre, e voltandosi verso la cognata vide che tutto il banco

piangeva.

Il sacerdote stava generando il corpo di Dio. I fanciulli non pensavano più a

nulla, piegati sul pavimento da una specie di devoto timore; e, qua e là, nella

chiesa, una donna, una madre, una sorella trascinata dalla strana simpatia delle

profonde commozioni, sconvolta alla vista delle belle signore in ginocchio scosse

da fremiti e singhiozzi, inzuppava il fazzoletto di cotonina a quadri, e, con la mano

sinistra, si premeva con forza il cuore sussultante.

Come la favilla che appicca il fuoco a un campo maturo, le lacrime di Rose e

delle sue compagne si propagarono rapidamente a tutti i presenti. Uomini, donne,

vecchi, giovanotti con il giubbotto nuovo, tutti singhiozzarono, e sul loro capo

sembrava aleggiare qualcosa di sovrumano, uno spirito diffuso, il respiro

prodigioso di un essere invisibile e onnipotente.

Nel coro della chiesa risuonò un colpetto secco: la suora, battendo sul libro da

messa, diede il segnale della comunione e i fanciulli tremanti di divina febbre si

accostarono alla sacra mensa.

Se ne inginocchiò una fila. Il vecchio parroco, tenendo in mano la pisside di

argento dorato, passava davanti a loro, porgendo con due dita la sacra ostia, il

corpo di Cristo, la redenzione del mondo. Essi aprivano la bocca tra spasimi e

smorfie nervose, chiudendo gli occhi, pallidissimi in volto. La stretta tovaglia tesa

sotto i loro menti fremeva come acqua che scorra.

Improvvisamente la chiesa venne percorsa da una specie di follia, un rumore

di gente in delirio, una bufera di singhiozzi e di grida strozzate. Fu come una di

quelle ventate che piegano le foreste, e il sacerdote restò immobile, con l’ostia in

mano, paralizzato dalla commozione, dicendo a se stesso: «È Dio, è Dio che è in

mezzo a noi, che manifesta la sua presenza, che al mio appello discende sul suo

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popolo inginocchiato». Balbettava preghiere sgomente, senza parole, preghiere

dell’anima, in un furioso slancio verso il cielo.

Finì di distribuire la comunione in preda a una tale sovreccitazione religiosa

che le gambe non lo reggevano più, e quando egli stesso ebbe bevuto il sangue del

suo Signore, s’inabissò smarrito in un atto di ringraziamento.

Alle sue spalle il popolo a poco a poco si calmava. I cantori, rinfrancati dalla

dignità della bianca cotta, ricominciarono a cantare con voci meno sicure, ancora

umide; e anche il serpentone pareva affiochito, come se pure lui avesse pianto.

Allora il sacerdote, alzando le mani, fece cenno di tacere, e passando davanti

alle due siepi di comunicanti sperduti in estasi di felicità, avanzò fino alla grata

del coro.

I fedeli si erano messi a sedere con gran rumore di sedie, e ora tutti si

soffiavano forte il naso. Quando videro il parroco fecero silenzio, ed egli cominciò

a parlare piano, con tono esitante, velato.

- Miei cari fratelli, mie care sorelle, figli miei, vi ringrazio dal più profondo del

cuore: mi avete dato la più grande gioia della mia vita. Ho sentito Dio discendere

su di noi, al mio appello. È venuto, era qui, presente; riempiva le vostre anime, vi

faceva traboccare gli occhi. Sono il più vecchio prete della diocesi, e oggi sono

anche il più felice. Si è verificato un miracolo in mezzo a noi, un vero, grande,

sublime miracolo. Mentre Gesù Cristo penetrava per la prima volta nel corpo di

questi fanciulli, lo Spirito Santo, il celeste uccello, il soffio di Dio, si è posato su di

voi, si è impadronito di voi, vi ha presi e piegati come canne al vento.

Poi, con voce più chiara, volgendosi verso i due banchi dov’erano le invitate

del falegname:

- Grazie soprattutto a voi, mie care sorelle, che siete accorse da tanto lontano.

La vostra presenza tra noi, la vostra fede manifesta, la vostra pietà così viva, sono

state per tutti noi un esempio salutare. Voi siete il modello della mia parrocchia;

la vostra commozione ha riscaldato i cuori; senza di voi, forse, questa grande

giornata non avrebbe avuto un carattere veramente divino. Basta talvolta una

sola eletta per decidere il Signore a scendere sul gregge.

La voce gli veniva meno. Aggiunse: - Vi auguro la grazia. E così sia. - Risalì

all’altare per terminare l’ufficio.

Adesso tutti avevano fretta di andarsene. Anche i fanciulli si agitavano,

stanchi della lunga tensione spirituale. D’altronde avevano appetito, e i genitori a

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poco a poco cominciarono ad andarsene, senza aspettare l’ultimo Vangelo, per

terminare i preparativi del pranzo.

All’uscita fu un pigia pigia, un parapiglia chiassoso, un baccano indiavolato di

voci urlanti, marcate dalla cadenza normanna.

La popolazione s’era divisa in due ali, e, quando uscirono i fanciulli, ogni

famiglia si precipitò sul suo.

Constance si trovò circondata, afferrata, abbracciata dallo stuolo delle donne.

Rose soprattutto non si stancava di baciarla. Alla fine la prese per mano, la

signora Tellier le prese l’altra mano, Raphaèlle e Fernande le rialzarono la lunga

gonna di mussolina perché non strascicasse nella polvere; Louise e Flore con la

signora Rivet chiudevano il corteo; e la bambina, compunta, penetrata dal Dio

che portava dentro di sé, si incamminò in mezzo alla scorta d’onore.

Il banchetto era stato preparato nel laboratorio su lunghe tavole sorrette da

cavalletti.

La porta, aperta, dava sulla strada e lasciava entrare tutta l’allegria del

villaggio. Si banchettava ovunque. Da ogni finestra si potevano scorgere tavolate

di gente vestita a festa, e allegre grida venivano dalle case festanti. I contadini, in

maniche di camicia, tracannavano bicchieri colmi di sidro schietto, e in mezzo a

ogni brigata c’erano due fanciulli, qui due bambine, là due maschietti, che

pranzavano in una delle due famiglie.

Ogni tanto, sotto la pesante calma di mezzogiorno, passava attraverso il paese

un barroccino tirato da un vecchio ronzino trotterellante, e il conducente in

giubbotto aveva uno sguardo d’invidia per tutta quella baldoria in mostra.

Nella casa del falegname l’allegria manteneva un certo ritegno, un resto della

commozione del mattino. Soltanto Rivet era brillo, e beveva a più non posso. La

signora Tellier guardava continuamente l’orologio perché, per non saltare il lavoro

due giorni di fila, aveva deciso di ripartire col treno delle 3 e 55, che arrivava a

Fécamp verso sera.

Il falegname cercava di sviare l’attenzione delle sue ospiti per potersele tenere

fino al giorno dopo; ma la signora Tellier non si lasciava distrarre: quando c’erano

di mezzo gli affari non scherzava mai. Subito dopo aver bevuto il caffè ordinò alle

sue pensionarie che andassero in fretta a prepararsi; poi, rivolta al fratello: - E tu

vai subito ad attaccare; - ed ella stessa andò a finire di prepararsi.

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Quando ridiscese, la cognata la stava aspettando per parlarle della bambina;

ed ebbero una lunga conversazione, con nessun risultato. La contadina giocava

d’astuzia, fingendosi commossa, ma la signora Tellier, che teneva la piccola sulle

ginocchia, non prese nessun impegno, e fece vaghe promesse: si sarebbe

interessata della bambina, c’era tempo, e d’altronde si sarebbero rivisti.

Il barroccio non veniva ancora, e le donne non scendevano. Anzi si sentivano

grandi risate, di sopra, tramestìo, grida, batter di mani. Allora, mentre la moglie

del falegname andava nella scuderia per vedere se il carro fosse pronto, Madama

si decise a salire di sopra.

Rivet, completamente ubriaco e mezzo svestito, tentava invano di violentare

Rose la quale sveniva dalle gran risate. Le Due Pompe lo tenevano per le braccia e

cercavano di calmarlo, urtate da quella scena, dopo la cerimonia della mattina;

ma Raphaèlle e Fernande lo aizzavano, torcendosi e tenendosi la pancia dal

ridere, e strillavano ad ognuno degli inutili tentativi dell’ubriaco. L’uomo era

furente: rosso in viso e con i vestiti scomposti, faceva sforzi violenti per liberarsi

dalle due donne che gli si erano aggrappate, e tirando con tutte le sue forze le

sottane di Rose bisbigliava: - Non vuoi? - Madama, indignata, si slanciò sul suo

fratello, lo afferrò per le spalle, e gli diede uno spintone così violento che lo mandò

a sbattere contro il muro.

Un minuto dopo lo si udì pomparsi l’acqua sulla testa, in cortile; e quando

riapparve col carro era già tornato normale.

Si rimisero in viaggio come il giorno prima, e il cavalluccio bianco partì con la

sua andatura rapida e ballonzolante.

Sotto il sole ardente rinacque l’allegria che si era smorzata durante il pasto.

Ora le ragazze si divertivano ai sobbalzi del barroccio, anzi scrollavano le sedie

delle vicine, ridevano per un nonnulla, eccitate dai vani tentativi di Rivet.

Una gran luce inondava i campi, una luce che abbagliava la vista; le ruote

sollevavano dietro il carro due scie di polvere che volteggiavano a lungo sulla

strada.

Improvvisamente Fernande, che era amante della musica, pregò Rose di

cantare, e costei attaccò allegramente il Grosso Parroco di Meudon. Ma Madama la

fece subito smettere, ritenendo che la canzonetta fosse poco adatta alla giornata:

- Cantaci invece qualcosa di Béranger, - soggiunse. Allora Rose, dopo aver

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pensato per qualche istante, scelse La nonna, e cominciò con la sua voce un po’

fioca:

La mia cara nonnina, il dì della sua festa

Bevette un po’ di vino che le salì alla testa.

Col capo confermando, diceva che in passato

Aveva a tutti i canti più d’un innamorato.

Rimpiango il velluto

Del bel viso tondo

Il braccio rotondo

Il tempo perduto.

E le ragazze, in coro, dirette dalla stessa signora Tellier, ripeterono:

Rimpiango il velluto

Del bel viso tondo

Il braccio rotondo

Il tempo perduto.

- Proprio coi fiocchi! - dichiarò Rivet infiammato dal ritornello, e Rose

continuò:

- Ma, come, nonnettina, pudor non avevate?

- No, certo; ché le grazie, dal cielo a me donate,

Appresi ad adoprare da sola, bravamente,

La notte, a quindici anni, dormendo poco o niente.

Urlarono il ritornello tutte insieme, e Rivet batteva il piede sulla stanga,

batteva il tempo con le redini sulla groppa del cavallo, che si mise a galoppare,

come se si sentisse anche lui trasportato dalla foga del ritmo; un galoppo

burrascoso che buttò le donne in fondo al carro, una sull’altra, in mucchio.

Si rialzarono ridendo come pazze. E la canzone continuò strillata a

squarciagola attraverso la campagna, sotto il cielo ardente, in mezzo ai raccolti

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biondeggianti, all’andatura indiavolata del cavallino che ora s’infiammava ad ogni

ripresa del ritornello e ogni volta staccava i suoi cento metri di galoppo, fra

l’esultanza dei viaggiatori.

Ogni tanto qualche spaccapietre alzava il capo e attraverso la sua mascherina

di fil di ferro guardava quel barroccio indemoniato e urlante che correva in mezzo

alla polvere.

Quando scesero davanti alla stazione, il falegname si commosse: - Peccato che

ve ne andiate, ci saremmo divertiti.

Madama gli rispose stancamente: - Ogni cosa al suo tempo, non ci si può

sempre divertire.

Allora un’idea illuminò la mente di Rivet:

- Va bene, - disse, - verrò a trovarvi a Fécamp quest’altro mese. - E guardò

Rose furbescamente, con gli occhi lucidi e lascivi.

- Va bene, - disse la signora Tellier, - vieni pure se vuoi, ma non per fare

sciocchezze.

Rivet non rispose, e sentendo che il treno fischiava, abbracciò in fretta tutte le

donne. Quando fu la volta di Rose, s’impuntò a volerla baciare sulla bocca, ma

essa, ridendo a labbra strette, si scansava ogni volta con un rapido movimento di

lato. La stringeva tra le braccia, ma non poteva raggiungere lo scopo, perché la

frusta che aveva in mano lo impacciava nei suoi tentativi, e la scuoteva

disperatamente dietro la schiena della donna.

- Per Rouen, in carrozza! - gridò il capotreno. Le donne salirono.

Si sentì un esile fischio, ripetuto immediatamente dal sibilo potente della

locomotiva che sputò con fracasso un primo getto di vapore, mentre le ruote

presero a girare adagio con visibile sforzo.

Rivet, lasciata la stazione, era corso al passaggio a livello per rivedere Rose

ancora una volta, e quando la carrozza gremita di quella mercanzia umana gli

passò davanti, fece schioccare la frusta, saltando e cantando a gran voce:

Rimpiango il velluto

Del bel viso tondo

Il braccio rotondo

Il tempo perduto.

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Poi rimase a guardare allontanarsi un fazzoletto bianco sventolante.

III

Dormirono fino all’arrivo, con il sonno placido di chi ha la coscienza a posto; e

quando rincasarono, fresche e riposate per il lavoro di tutte le sere, Madama non

poté fare a meno di esclamare: - Eh, sì! mi stavo già annoiando lontana da casa!...

Pranzarono in fretta, e rivestito l’abito da combattimento aspettarono i clienti.

Il lanternino era stato acceso, il lanternino da tabernacolo, per informare i

passanti che il gregge era tornato all’ovile.

La notizia si sparse in un batter d’occhio, non si sa come, né per mezzo di chi.

Anzi il signor Philippe, il figlio del banchiere, si fece premura di avvisare il signor

Tournevau, prigioniero in famiglia.

Infatti tutte le domeniche il mercante di pesce invitava parecchi cugini a cena,

e stavano bevendo il caffè quando si presentò un uomo con una lettera. Il signor

Tournevau, impressionatissimo, strappò la busta e impallidì: c’erano soltanto

queste poche parole scritte con il lapis: «Baccalà ritrovato; nave entrata in porto,

buon affare per voi. Venite subito».

Si frugò in tasca, diede venti centesimi di mancia al latore e arrossendo fino

alle orecchie: - Devo uscire - disse. E tese alla moglie il laconico e misterioso

biglietto. Chiamò la cameriera: - Presto, soprabito e cappello. - Appena fu in

strada, si mise a correre fischiettando, e la sua impazienza era tanta che il

percorso gli parve due volte più lungo.

La casa Tellier aveva un’aria di festa. Al pianterreno gli scaricatori di porto

facevano un chiasso assordante. Louise e Flore non sapevano più a chi dar retta,

bevevano con questo, bevevano con quello, meritando più che mai il loro

nomignolo di «Due Pompe». Le chiamavano tutti insieme, già ora non bastavano al

daffare, e la notte s’annunziava molto laboriosa.

Il cenacolo del primo piano era già completo alle nove. Il signor Vasse, giudice

del tribunale di commercio, spasimante ufficiale ma platonico di Madama, stava

chiacchierando con lei a bassa voce in un cantuccio; sorridevano entrambi come

se stessero per concludere un accordo. Il signor Poulin, l’ex sindaco, si teneva

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Rose a cavalcioni sulle gambe, ed ella, col viso contro il viso di lui, faceva scorrere

le sue mani tozze tra le candide fedine del brav’uomo. La gonna di seta gialla,

rialzata, mostrava due dita di coscia nuda che risaltavano sul nero dei calzoni, e

le calze rosse erano strette dalle giarrettiere turchine, regalo del commesso

viaggiatore.

La grossa Fernande, distesa sul divano, poggiava i piedi sulla pancia del

signor Pimpesse, l’esattore, e la schiena sul panciotto del giovane signor Philippe,

al quale circondava il collo con la mano destra, mentre con la sinistra teneva la

sigaretta.

Raphaèlle sembrava in trattative con il signor Dupuis, l’agente delle

assicurazioni, e terminò il colloquio con queste parole:

- Sì, tesoro, stasera volentieri. - Poi facendo un rapido giro di valzer per il

salotto: - Stasera tutto ciò che volete - esclamò.

La porta s’aprì di colpo e comparve il signor Tournevau. Lo accolsero grida

entusiastiche: - Viva Tournevau! - E Raphaèlle che stava ancora piroettando gli

andò a finire addosso.

Egli, con un abbraccio straordinario, la strinse a sé e, senza parlare, la sollevò

da terra come una piuma, raggiunse la porta in fondo e col suo vivente fardello

disparve su per la scala, applauditissimo.

Rose stava eccitando l’ex sindaco, lo tempestava di baci, tirandogli le fedine

per fargli star dritta la testa. Approfittò dell’esempio: - Andiamo, fai come lui, - gli

disse: e il brav’uomo si alzò in piedi, si accomodò il panciotto, e seguì la donna

frugandosi nella tasca dove dormiva il suo denaro.

Fernande e Madama rimasero sole con i quattro uomini. - Offro lo

sciampagna, - esclamò il signor Philippe; - signora Tellier, fatecene servire tre

bottiglie

Allora Fernande abbracciandolo gli disse in un orecchio: - Di’, perché non ci

fai ballare? - Egli si alzò, andò a sedersi davanti alla vecchia spinetta

addormentata in un angolo, e fece uscire dal ventre gemebondo dello strumento

un valzer affiochito e piagnucoloso. La ragazzona afferrò l’esattore, Madama si

affidò alle braccia del signor Vasse, e le due coppie giravano scambiandosi baci. Il

signor Vasse, che un tempo aveva ballato in società, faceva il lezioso, e Madama

lo guardava affascinata, con uno sguardo che diceva «sì», un «sì» più discreto e

più delizioso d’una parola.

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Frédéric portò lo sciampagna. Fu stappata la prima bottiglia; quindi il signor

Philippe suonò l’introduzione di una quadriglia.

I quattro ballerini fecero la passeggiata di prammatica con tutte le regole, con

dignità, tra inchini e saluti.

Dopo si misero a bere. Ricomparve il signor Tournevau, soddisfatto, sollevato,

raggiante: - Non so cosa abbia Raphaèlle, ma stasera è perfetta - esclamò. Bevve

d’un fiato la coppa che gli venne offerta, dicendo: - Perdio, che po’ po’ di lusso!

Immediatamente il signor Philippe attaccò una polca vivace e il signor

Tournevau si slanciò con la bella ebrea che teneva sollevata in aria senza farle

toccare i piedi in terra. Il signor Pimpesse e il signor Vasse ripresero la danza con

rinnovato slancio. Di tanto in tanto, una delle due coppie si fermava accanto al

caminetto per tracannare un bicchiere di spumante; e il ballo pareva non dovesse

più finire, quando Rose dischiuse la porta, tenendo un candeliere in mano. Era

scarmigliata, in pantofole e in camicia, eccitata e rossa in viso: - Voglio ballare -

esclamò. - E il tuo vecchio? - le chiese Raphaèlle. Rose scoppiò a ridere: - Lui?

Dorme già, s’addormenta subito. - Afferrò il signor Dupuis che era rimasto

inoperoso sul divano e la polca ricominciò.

Ma le bottiglie erano vuote: - Ne pago una io, - dichiarò il signor Tournevau. -

Anch’io, - annunciò il signor Vasse. - Io pure, - concluse il signor Dupuis. Tutti

applaudirono.

Le cose si mettevano bene, era un ballo sul serio.

Di tanto in tanto Louise e Flore andavano di sopra in gran fretta, facevano un

rapido giro di valzer, mentre, di sotto, i loro clienti si impazientivano; poi

ridiscendevano precipitosamente al caffè, col cuore gonfio di rammarico.

A mezzanotte ballavano ancora. Talora una delle donne scompariva e quando

la cercavano per formare un’altra coppia si accorgevano che mancava anche un

uomo.

- Di dove sbucate? - chiese scherzosamente il signor Philippe proprio nel

momento che il signor Pimpesse rientrava con Fernande. - Siamo stati a vedere

dormire il signor Poulin, - rispose l’esattore. Questa frase ebbe un successo

enorme, e tutti, a turno, salivano a veder dormire il signor Poulin, con qualcuna

delle signorine, le quali si dimostrarono, quella notte, di una gentilezza senza

riscontro. Madama chiudeva gli occhi, aveva lunghi colloqui negli angolini con il

signor Vasse, come per definire gli ultimi particolari di un affare ormai concluso.

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Finalmente, verso l’una, i due uomini sposati, il signor Tournevau e il signor

Pimpesse dichiararono che dovevano andarsene, e chiesero di pagare. Venne

conteggiato solo lo sciampagna e, per giunta, a sei franchi per bottiglia, invece di

dieci, prezzo solito. E poiché si stupivano di tanta generosità, Madama, raggiante,

rispose:

- Eh, non tutti i giorni è festa.

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LA RAGAZZA DI PAUL

Il ristorante Grillon, vero falansterio di canottieri, si stava lentamente

vuotando. Davanti all’uscio era una confusione di grida, di richiami; e dei

giovanottoni con la maglietta bianca, gesticolavano tenendo i remi sulla spalla.

Le donne, in freschi abbigliamenti primaverili, salivano con grande attenzione

sui canotti, si sedevano a poppa aggiustandosi l’abito, mentre il padrone del

ristorante, un pezzo di giovane con la barba rossiccia, famoso per la sua forza,

dava la mano alle donzelle, mantenendo in equilibrio le fragili imbarcazioni.

A loro volta i rematori si mettevano al posto, braccia nude e petto in fuori,

posando per la platea che era composta di borghesi vestiti a festa, di operai e

soldati appoggiati coi gomiti alla balaustra del ponte, e attentissimi allo

spettacolo.

Ad una ad una le imbarcazioni si distaccavano dal pontone. I rematori si

curvavano in avanti, poi si gettavano all’indietro, con movimento regolare; sotto la

spinta dei lunghi remi ricurvi i veloci canotti scivolavano sul fiume,

s’allontanavano, rimpiccolivano, scomparivano infine sotto l’altro ponte - quello

della ferrovia - scendendo giù verso il Ranocchiaio.

Era rimasta soltanto una coppia. Il giovanotto, ancora quasi imberbe, esile,

pallido in viso, stringeva per la vita la sua amante, una brunetta magra che si

muoveva come una cavalletta; ogni tanto si guardavano profondamente negli

occhi.

Il principale gridò: - Via, sbrigatevi, signor Paul. - I due s’avvicinarono.

Paul era fra tutti i clienti della casa il più benvoluto e rispettato. Pagava bene

e con regolarità; mentre gli altri si facevano lungamente pregare, quando

addirittura non sparivano, lasciando il debito. In secondo luogo egli

rappresentava per il ristorante una specie di reclame vivente, perché suo padre

era senatore. Quando un estraneo chiedeva: - Chi è quel giovanottino là, tanto

attaccato alla sua damigella? - un cliente gli rispondeva sottovoce, con aria

d’importanza e di mistero: - È Paul Baron, non lo conoscete? il figlio del

senatore... - E invariabilmente l’altro non poteva fare a meno di dire: - Poveraccio!

ha preso una bella cotta!

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La sora Grillon, una brava donna, pratica del commercio, chiamava il giovane

e la sua compagna «le sue due tortorelle», e pareva molto commossa da

quell’amore così proficuo per la ditta.

La coppia veniva avanti piano piano, la iole Madeleine era pronta; al momento

di salirvi i due si baciarono, tra le risate del pubblico che gremiva il ponte. Paul,

afferrati i remi, si diresse anch’egli verso il Ranocchiaio.

Quando arrivarono, erano quasi le tre, e il gran caffè galleggiante rigurgitava

di gente.

L’immensa zattera, ricoperta da un tetto incatramato sorretto da colonne di

legno, è unita alla graziosissima isola di Croissy da due passerelle, la prima delle

quali entra nel mezzo della costruzione acquatica, mentre l’altra ne unisce

l’estremità a un minuscolo isolotto con un albero piantato nel mezzo, chiamato il

Vaso da Fiori; e di là arriva fino a terra, accanto al botteghino dello stabilimento.

Paul legò la sua imbarcazione a fianco dello zatterone, scavalcò la balaustra

del caffè, e di lì, afferrando per le mani la sua amante, la sollevò e tutti e due si

sedettero all’estremità d’una tavola, uno di faccia all’altro.

Una lunga fila di carrozze era allineata dall’altra parte del fiume sulla strada

d’alzaia.

Le vetture di piazza s’alternavano alle lussuose carrozze degli elegantoni: le

prime pesanti, con l’enorme ventre che schiacciava le molle, attaccate a un

ronzino con il collo cascante e le ginocchia rotte; le altre snelle, slanciate sulle

ruote sottili, avevano i cavalli con le gambe esili e tese, il collo dritto, il morso

bianco di schiuma, e il cocchiere, tutto contegnoso nella sua livrea, con la testa

che sbucava rigida dal grande colletto, stava teso, con la frusta poggiata sulle

ginocchia.

La riva era ricoperta di gente che giungeva raggruppata in famiglie o in

brigate, o a coppie, o solitaria. Strappavano qualche filo d’erba, scendevano fino

all’acqua, risalivano sull’alzaia, e tutti, arrivati allo stesso punto, si fermavano

aspettando il traghetto. Il pesante battello andava continuamente da una riva

all’altra, scaricando i viaggiatori nell’isola.

Il braccio di fiume (chiamato il braccio morto), sul quale s’affaccia il caffè

galleggiante, pareva che dormisse tanto debole era la corrente. Sulle onde

immobili scorrevano flotte di iole, di skifs, di sandolini, di podoscafi, di gigs,

imbarcazioni di ogni forma e tipo, che s’incrociavano, si mischiavano, si urtavano,

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si fermavano all’improvviso per uno strappo delle braccia, e di nuovo si

slanciavano avanti in un brusco sforzo dei muscoli, guizzando con vivacità come

lunghi pesci gialli o rossi.

Altre sopravvenivano continuamente; le une da Chatou, a monte; le altre da

Bougival, a valle; sull’acqua, da una barca all’altra correvano risate, richiami,

domande o rimbeccate. I canottieri esponevano al sole ardente la carne

abbronzata e modellata dei loro bicipiti; e, simili a strani fiori, a fiori natanti,

s’aprivano, in fondo ai canotti, gli ombrelli di seta rossa, verde, bianca o azzurra

delle timoniere.

In mezzo al cielo fiammeggiava un sole di luglio, l’aria sembrava colma di

bruciante allegrezza; non un alito di vento muoveva le foglie dei salici o dei pioppi.

Laggiù, di faccia, il solito Monte Valérien mostrava nella cruda luce i suoi

pendii fortificati; mentre, a destra, l’adorabile poggio di Lauvenciennes, seguiva il

fiume, s’incurvava in semicerchio, lasciando scorgere a tratti, attraverso la

verzura rigogliosa e scura dei grandi giardini, le mura bianche delle case di

campagna.

In prossimità del Ranocchiaio una folla di gente passeggiava sotto gli alberi

giganti, che fanno di questo angolino d’isola il più delizioso parco del mondo.

Donne e ragazze coi capelli gialli, coi seni smisuratamente grossi e i fianchi

abbondanti, il viso impiastrato di belletto, gli occhi bistrati, le labbra

sanguinolente, strette e fasciate in vestiti stravaganti, trascinavano sull’erbetta

fresca il chiassoso cattivo gusto dei loro abbigliamenti; ed al loro fianco c’erano

giovanotti ridicolmente addobbati secondo i figurini della moda, coi guanti gialli

chiari, gli stivaletti di coppale, i frustini sottili come fili e i monocoli che

accrescevano la grullaggine del loro sorriso.

Proprio al Ranocchiaio c’è una strozzatura dell’isola, e sull’altra sponda - dove

anche lì c’è una chiatta che trasporta in continuazione la gente di Croissy - il

rapido braccio, tutto gorghi, risucchi e schiuma, scorre come un torrente. Un

distaccamento di pontieri, in uniforme di artiglieri, era accampato su quella

proda; i soldati, seduti in fila su una lunga trave, guardavano scorrere l’acqua.

Nel caffè galleggiante c’era una gran folla che s’accalcava, furiosa e urlante. I

tavolini di legno, sui quali le bibite versate formavano rivoletti appiccicosi, erano

coperti di bicchieri mezzi vuoti e attorniati di persone mezze ubriache. La folla

urlava, cantava, schiamazzava. Gli uomini coi cappelli all’indietro, i visi arrossati,

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e certi occhi lustri da ubriachi, si dimenavano vociando, spinti da un naturale e

animalesco bisogno d’allegria. Le donne, in attesa di pescare qualche preda per la

sera, si facevano pagar da bere; nello spazio rimasto libero fra i tavolini dominava

il pubblico abituale di quei luoghi, ossia un reggimento di canottieri chiassosi,

insieme alle loro compagne in gonnellino di flanella.

Uno di essi si dimenava al pianoforte, sembrava che usasse insieme le mani e

i piedi; quattro coppie saltellavano una quadriglia, osservate da alcuni giovanotti

eleganti, dignitosi, i quali sarebbero parsi perbene, se, nonostante tutto, il marcio

ch’era in loro non fosse stato evidente.

Costì, difatti, si odora a pieni polmoni la schiuma della società, la crapula

verniciata, la muffa della società parigina; un guazzabuglio di commessi, di

attorucoli, di giornalisti d’infimo ordine, di gentiluomini dissestati, di sospetti

giocatorucci di borsa, di buontemponi bacati, di vecchi gaudenti marciti; equivoca

accozzaglia di tutte le persone sospette, mezzo conosciuti, mezzo perduti, mezzo

riveriti, mezzo disonorati, borsaioli, birbanti, lenoni, cavalieri d’industria con la

camminatura dignitosa e l’aspetto di spacconi, che pareva volessero dire: - Il

primo che mi tratta da mascalzone, lo squarto.

Luoghi come questo trasudano la bestialità, puzzano di canagliume, di

galanterie da bazar. Maschi e femmine son degni gli uni degli altri. Vi aleggia un

odor d’amore, e si fa un duello per un sì o per un no, per sorreggere riputazioni

putride che le sciabolate o le palle di pistola corrodono maggiormente.

Tutte le domeniche c’è qualche abitante di quelle parti che passa di lì a

curiosare; ogni anno vi fanno la loro comparsa giovani e giovanissimi che vengono

a imparare a vivere. I bighelloni vengono a gironzolare; gli ingenui a perdersi.

Giustamente viene chiamato il Ranocchiaio. Accanto allo zatterone coperto

dove si beve, e vicinissimo al Vaso da Fiori, si fa il bagno. Le donne che hanno

bastevoli rotondità vengono a mettere a nudo la loro mercanzia e a cercar clienti.

Le altre, sdegnose, e però imbottite dal cotone, tenute su a forza di elastici,

raddrizzate di qua, aggiustate di là, con aria di disprezzo guardano sguazzare le

loro sorelle.

Su un piccolo trampolino si pigiano i nuotatori per tuffarsi. Lunghi come pali,

tondi come zucche, nodosi come rami d’ulivo, curvati in avanti, o sospinti indietro

dall’ampiezza della pancia, invariabilmente sporchi, saltano nell’acqua facendola

schizzare su fino a quelli che bevono il caffè.

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Nonostante gli immensi alberi che s’incurvavano sulla casa galleggiante, e

nonostante l’acqua tanto vicina, una calura soffocante empiva il luogo. Le

emanazioni dei liquori rovesciati si mischiavano all’odore dei corpi e dei forti

profumi dei quali era impregnata la pelle delle mercantesse d’amore, e che

evaporavano, in quella fornace. Sotto tutti questi diversi odori aleggiava un lieve

profumo di cipria che talora spariva, ritornava, e sempre si ritrovava come se una

mano nascosta avesse scosso nell’aria un invisibile piumino.

Lo spettacolo era sul fiume, dove l’incessante andirivieni delle barche attirava

gli sguardi. Le donne si mettevano in mostra nei sedili, di faccia ai loro maschi

con i muscoli d’acciaio, ed osservavano con disprezzo le mendicanti di desinari

che gironzolavano nell’isola.

Talvolta, quando passava un equipaggio lanciato a tutta velocità, gli amici da

terra gridavano, e allora tutto il pubblico, preso da un’improvvisa follia, si

metteva a urlare.

Dove il fiume faceva angolo, verso Chatou, si vedevano di continuo nuove

barche. S’avvicinavano, diventavano più grandi, e a mano a mano che venivano

riconosciuti i visi, si levavano altri clamori.

Un canotto coperto da una tenda, con quattro donne a bordo, scendeva

lentamente il fiume, seguendo la corrente. Colei che remava era piccola, magra,

sfiorita; indossava un vestitino di mussola, aveva i capelli rialzati sotto un

cappello incerato. Di fronte a lei una grossa biondona in un vestito maschile, di

flanella bianca, stava sdraiata sul fondo del canotto, con le gambe sollevate e

poggiate sul sedile ai lati della rematrice, fumando una sigaretta: ad ogni colpo di

remi il petto e il ventre di lei, sballottati dalla scossa, fremevano.

Dietro, sotto la tenda, due belle ragazze alte e snelle, una bruna e l’altra

bionda, si tenevano per la vita guardando di continuo le loro compagne.

Dal Ranocchiaio partì un grido: - Ecco Lesbo! - e si levò un improvviso furioso

clamore; vi fu uno spaventoso pigia pigia: i bicchieri cadevano, la gente saliva sui

tavolini, e tutti gridavano in un delirio di chiasso: - Lesbo! Lesbo! Lesbo! - Il grido

s’ingrossava facendosi indistinto, nulla più che uno spaventevole urlìo;

all’improvviso pareva innalzarsi di nuovo, salire su nello spazio, coprire la

pianura, empire il fogliame folto dei grandi alberi, espandersi fino alle colline

lontane, arrivare fino al sole.

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La rematrice sentendo l’ovazione s’era tranquillamente fermata. La grossa

bionda distesa sul fondo del canotto si sollevò sui gomiti, volgendo la testa con

noncuranza; e le due belle ragazze, da dietro, si misero a ridere e salutarono la

folla.

Il vocìo raddoppiò, facendo tremare lo stabilimento galleggiante. Gli uomini si

levavano i cappelli, le donne agitavano i fazzoletti, e tutte le voci, acute o gravi,

gridavano insieme: «Lesbo!». Si sarebbe detto che quell’accozzaglia di gente

corrotta salutasse un capo, come le squadre navali che salutano a colpi dl

cannone un ammiraglio.

Anche la numerosa flotta di barche applaudiva il canotto delle donne, che

ripartì in quel suo modo sonnolento per toccar terra un poco più avanti.

Paul, al contrario degli altri, tratta di tasca una chiave cominciò a fischiare

con tutta la sua forza. La sua amante, nervosa, ancora pallida lo guardava ora

con occhi irati. Ma egli pareva esasperato, mosso quasi da una gelosia di

maschio, da un furore profondo, istintivo, disordinato. Balbettò, con le labbra che

gli tremavano dall’indignazione:

- È una cosa vergognosa! Dovrebbero affogarle come cagne, con una pietra

attaccata al collo!

Madeleine s’adirò improvvisamente; la sua vocina acerba diventò sibilante, e

prese a parlare con volubilità quasi per difendere la propria causa.

- Di cosa t’immischi tu? Forse non son libere di far quello che vogliono, dal

momento che non devono nulla a nessuno? Lasciaci in pace, coi tuoi modi,

impicciati degli affari tuoi...

- Se ne immischierà la polizia, però, e io le farò scaraventare a Saint-Lazare!

La donna ebbe un sussulto:

- Tu?

- Sì, proprio io! E intanto ti proibisco di parlarci, con loro, capito? te lo

proibisco!

Gli fece una spallucciata:

- Bello mio, - disse, improvvisamente calma; - farò quel che mi parrà; e se non

sei contento puoi filar via subito. Sono tua moglie? No; e allora stai zitto.

Il giovane non rispose, e rimasero a faccia a faccia, con la bocca contratta; e il

respiro affannoso.

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Le quattro donne stavano entrando dall’altra parte nel grande caffè di legno.

Le due vestite da uomo camminavano davanti: una era magra e pareva un

ragazzetto invecchiato con le tempie ombreggiate di giallo; l’altra colmava il vestito

di flanella bianca, col sedere arrotondava i larghi calzoni, e ondeggiava come

un’oca grassa perché aveva le cosce enormi e le ginocchia in dentro. Le due

amiche le seguivano e la folla dei canottieri veniva a stringer loro la mano.

Fra tutt’e quattro avevano preso in affitto un villinetto in riva al fiume e ci

vivevano, come se fossero state due coppie di sposi.

Il loro vizio era pubblico, ufficiale, palese. Se ne parlava come se fosse stata

una cosa naturale, che quasi quasi le rendeva simpatiche, e si sussurravano

sottovoce strane storie, di drammi nati dalle furiose gelosie femminili, e di segrete

visite alla casetta in riva al fiume di donne conosciute, di attrici.

Un vicino, disgustato di tanta scandalosa rinomanza, aveva avvisato la

gendarmeria, e il brigadiere assieme a un gendarme era venuto a fare

un’inchiesta. Era una missione delicata: in fin dei conti non si poteva

rimproverare nulla a quelle donne, le quali non si davano alla prostituzione. Il

brigadiere, molto perplesso e perfino ignaro di quali delitti precisamente si

trattasse, fece alcune domande a caso, e stese un monumentale rapporto che si

concludeva sostenendo l’innocenza delle quattro donne.

Le risate erano arrivate fino a Saint-Germain.

Attraversarono il Ranocchiaio a passettini, come regine, apparivano fiere della

loro celebrità; felici di tanti sguardi fissi su di loro, superiori alla folla, alla turba,

alla plebe.

Madeleine e il suo amante le guardavano venire: negli occhi della donna

s’accese una fiamma.

Appena le prime due furono all’estremità del tavolo Madeleine gridò: - Pauline!

- La grassa si volse, si fermò, e tenendo sempre per il braccio il suo mozzo

femmina:

- Guarda chi c’è!... Madeleine... Vieni qui, debbo parlarti, gattina.

Le dita di Paul s’aggranchirono sul polso dell’amante; ma costei gli disse: -

Bello mio, se vuoi, te ne puoi anche andare - con un tono tale che egli si trovò

messo in disparte.

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Le donne parlarono sottovoce fra loro tre, restando in piedi. Sulle loro labbra

fiorivano fuggevoli segni d’allegrezza; parlavano fitto; ogni tanto Pauline dava di

sfuggita un’occhiata a Paul, con un sorriso beffardo e cattivo.

A un tratto egli non resse più, si alzò e di slancio le fu accanto, tutto

tremante. Afferrò Madeleine alle spalle: - Vieni, te lo ordino, - disse; - t’ho proibito

di parlare con queste sfacciate...

Pauline a gran voce cominciò a caricarlo di tutti gli insulti del suo repertorio di

pescivendola. Si sentiva un rumore di risate, intorno: chi s’avvicinava, e chi

s’alzava in punta di piedi per vedere meglio. Il giovane, sotto quella scarica di

sporche ingiurie rimase male; gli pareva che le parole, uscendo dalla bocca di lei e

cadendogli addosso lo lordassero, e dinanzi allo scandalo imminente, si tirò

indietro e s’andò ad appoggiare coi gomiti alla balaustra verso il fiume, voltando

la schiena alle tre donne vittoriose.

Rimase lì, guardando l’acqua, e talvolta, con gesto rapido, come per

strapparsela, si tergeva nervosamente col dito una lacrima che si era formata

all’angolo dell’occhio.

Il fatto è ch’egli era appassionatamente innamorato, senza sapere perché;

malgrado i suoi istinti delicati, malgrado la sua ragione, malgrado la sua volontà.

Era caduto in quell’amore, come si può cadere in una buca piena di fango.

Emotivo e delicato per natura, aveva sognato amori squisiti, ideali, pieni di

passioni, ed ecco che quella cavalletta di donna, stupida come tutte le ragazze,

d’una esasperante stupidità, nemmeno bella magra e stizzosa, l’aveva preso,

imprigionato, posseduto, dalla testa ai piedi, corpo e anima. Ed egli subiva quella

stregoneria femminile, misteriosa e onnipotente, quella forza sconosciuta, quella

prodigiosa dominazione, venuta non si sa di dove, del dèmone della carne, che

può gettare l’uomo più equilibrato ai piedi d’una qualsiasi ragazza, senza che

nulla in lei possa spiegare il suo potere fatale e sovrano.

Ora sentiva che alle sue spalle si stava preparando qualche infamia. Sentì

alcune risate che gli giunsero fino al cuore. Che fare? Lo sapeva, ma non poteva.

Guardava fisso, sulla riva di faccia, un uomo immobile che pescava con la

lenza.

All’improvviso quegli, con gesto brusco, trasse dal fiume un pesciolino

d’argento che guizzava in fondo al filo. Cercò di levar l’amo, e lo torse, lo rivoltò,

ma invano, spazientito cominciò a tirare e uscì un brandello di carne e un fagotto

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d’interiora. Paul fremette, egli stesso lacerato fino al cuore; gli parve che

quell’amo fosse il suo amore e che se fosse stato necessario strapparlo, insieme,

sulla cima ricurva d’un ferro attaccato al fondo del suo essere e di cui Madeleine

avesse retto il filo, sarebbe uscito tutto quel che aveva nel petto.

Una mano gli si posò sulla spalla; egli sussultò, si volse: la sua amante era

accanto a lui. Non si parlarono: ella s’appoggiò alla balaustra, come lui, fissando

il fiume.

Cercava cosa dovesse dire ma non trovava nulla. Non era neanche capace di

capire chiaramente che ci fosse in lui; quel che provava era soltanto la gioia di

sentirsela accanto, ritornata, ed una vergognosa vigliaccheria, un bisogno di

perdonar tutto, di permettere tutto, purché ella non lo lasciasse.

Infine, in capo a qualche istante le chiese con voce dolcissima:

- Vuoi che ce ne andiamo? Si starà meglio in barca.

- Sì, gattino mio, - rispose lei.

L’aiutò a scendere nella iole, sostenendola, stringendole le mani commosso,

con gli occhi ancora umidi. Ella lo guardò sorridendo, e si baciarono di nuovo.

Risalirono il fiume pian piano, costeggiando la riva coperta di salici, folta

d’erbe, umida e dolce nel tepore pomeridiano. Quando tornarono al ristorante

Grillon erano appena le sei; sicché, lasciando l’imbarcazione, s’incamminarono a

piedi nell’isola, verso Bezons, attraverso i prati, seguendo gli alti pioppi che

costeggiano il fiume.

I prati, prossimi alla falciatura, erano colmi di fiori. Il sole calante vi stendeva

sopra una tovaglia di luce rossiccia, e nel calore raddolcito del giorno morente le

fluttuanti esalazioni dell’erba si mischiavano agli umidi sentori del fiume,

impregnando l’aria d’un languore tenero, d’una lieve felicità, simile a un vapore di

benessere.

Una snervante mollezza prendeva i cuori, e insieme un senso di comunione

col calmo splendore della sera, col vago e misterioso brivido della vita diffusa

nell’aria, con la penetrante e malinconica poesia che pareva uscir dalle piante,

dalle cose, e sbocciare, rivelata ai sensi in quell’ora dolce e raccolta.

Egli sentiva tutto questo; ma lei non lo capiva. Camminavano a fianco a

fianco; e all’improvviso, stanca di star zitta, la ragazza cominciò a cantare. Cantò

con la sua voce asprigna e in falsetto un motivo in voga, un ritornello che tutti

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avevano in mente, squarciando d’un tratto la profonda e serena armonia della

sera.

Egli la guardò e sentì che fra loro due c’era un abisso invalicabile. Con

l’ombrello ella percuoteva le erbe, stava con la testa un po’ china, guardandosi i

piedi, e cantava facendo degli acuti, tentando dei gorgheggi, azzardando dei trilli.

E dunque quella fronte piccola e stretta che tanto amava era vuota, vuota! Lì

dentro c’era solo quella musica di organino; e i pensieri che per caso vi nascevano

erano uguali a quella musica. Non capiva niente di lui: erano separati più che se

non fossero vissuti insieme. I suoi baci, dunque, non andavano mai più in là delle

labbra?

In quel momento la giovane alzò gli occhi verso di lui e sorrise di nuovo. Paul

profondamente sconvolto spalancò le braccia con raddoppiato amore, e la strinse

appassionatamente.

Poi si mise a spiegazzarle il vestito e lei allora si scostò, sussurrandogli, come

contentino: - Ah, ti voglio proprio bene, gattino mio!

Ma Paul l’afferrò per la vita e come pazzo la trascinò correndo; e intanto la

baciava sulle guance, sulle tempie, sul collo saltando di gioia. Caddero

ansimando ai piedi di un cespuglio incendiato dai raggi del sole al tramonto, e

prima ancora d’aver ripreso fiato si unirono, senza ch’ella capisse perché mai egli

fosse così esaltato.

Stavano tornando indietro tenendosi per mano, quando a un tratto videro di

tra gli alberi, sul fiume, il canotto delle quattro donne. Anche la grossa Pauline li

vide, perché si sollevò su, mandando baci a Madeleine, e gridandole: - A stasera!

Paul ebbe l’impressione che il cuore gli si fosse coperto improvvisamente di

ghiaccio.

Sistemati sotto un pergolato vicino all’acqua, cominciarono a mangiare in

silenzio. Appena fu calata la sera portarono una candela rinchiusa in un globo di

vetro, che mandava una luce debole e vacillante; ogni tanto si sentivano gli

scrosci di risa dei canottieri, nel salone del primo piano.

Verso le frutta Paul disse a Madeleine, stringendole dolcemente una mano: -

Mi sento molto stanco, topino. Se vuoi andremo a letto presto.

Ma ella capì il gioco, e gli lanciò un’occhiata enigmatica, quell’occhiata di

perfidia tanto pronta ad apparire nello sguardo delle donne. Dopo aver riflettuto,

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gli rispose: - Tu puoi andartene a letto, se credi, io per me ho promesso che andrò

al ballo del Ranocchiaio.

Paul fece un sorriso penoso, uno di quei sorrisi con cui si cerca di nascondere

le sofferenze più orribili, ma rispose con tono carezzevole e accorato: - Se tu

volessi essere gentile si potrebbe restare qui noi due soli soli. - La ragazza fece

segno di no con la testa, senza aprir bocca. Egli insistette: - Te ne prego, gattina

mia...

Allora ella esplose: - Hai capito quello che t’ho detto? Se non sei contento, la

porta è aperta. Nessuno ti trattiene. Per quanto mi riguarda, io l’ho promesso, e ci

andrò.

Paul appoggiò i gomiti alla tavola reggendosi la fronte con le mani e rimase

così, immerso in dolorosi pensieri.

I canottieri scesero giù, sempre schiamazzando. Ripartivano sulle loro iole per

il ballo del Ranocchiaio.

- Deciditi, se vieni o non vieni, - disse Madeleine a Paul; - perché allora

chiederò a uno di questi signori di accompagnarmi.

Paul si alzò e mormorò: - Andiamo.

E si mossero.

La notte era nera, piena di stelle, attraversata da un alito rovente carico

d’ardori, di fermenti, di vivi germi, i quali, mischiandosi alla brezza, ne

rallentavano il corso. Faceva scorrere sui visi una calda carezza, accelerava il

respiro rendendolo affannoso, tanto sembrava densa e pesante.

Le imbarcazioni cominciarono a muoversi recando a prua una lanterna

veneziana. Non si vedevano gli scafi, ma solo i lampioncini colorati, svelti e

ondeggianti come lucciole in delirio; si sentivano voci correre nell’ombra, per ogni

dove.

La iole dei due giovani scivolava dolcemente. Allorché un’imbarcazione

lanciata in piena corsa passava accanto a loro, vedevano a un tratto la schiena

bianca del canottiere illuminata dalla lanterna.

Quand’ebbero voltato, dove il fiume faceva gomito, apparve in lontananza il

Ranocchiaio ornato a festa con candelabri, festoni di palloncini colorati, grappoli

di luci. Sulla Senna circolavano lentamente alcuni barconi che raffiguravano

duomi, piramidi, complicati monumenti, mediante fuochi d’ogni specie. Festoni

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infiammati sfioravano l’acqua; e ogni tanto un lampione rosso o azzurro, in cima

a una immensa e invisibile canna da pesca, pareva una grossa stella sospesa.

Tutta quella luminaria spandeva chiarore attorno al caffè, illuminando di sotto

in su i grandi alberi della riva, che si stagliavano coi loro tronchi color grigio

pallido e le foglie, verde latte, sul nero profondo dei campi e del cielo.

L’orchestra, composta di cinque suonatori da strapazzo, gettava al vento la

sua musica da ballo popolare, secca e saltellante, che indusse Madeleine a

cantarellare nuovamente.

Volle entrare subito. Paul voleva, prima, fare un giretto per l’isola; ma dovette

cedere.

La clientela s’era purificata. Rimanevano quasi soltanto i canottieri, qualche

raro borghese, e alcuni giovanotti con le loro ragazze. Il direttore e organizzatore

di quella baraonda, maestoso in uno stanco vestito nero, portava a spasso in

tutte le direzioni la sua testa rovinata di vecchio mercante di pubblici piaceri a

buon prezzo.

La grossa Pauline e le sue compagne non erano ancora arrivate: Paul respirò.

Si ballava: le coppie, a faccia a faccia, saltellavano a tutt’andare buttando le

gambe in aria e facendole arrivare fino al naso del proprio compagno.

Le femmine ancheggiando schizzavano di qua e di là, fra un turbinio di

gonnelle che metteva in mostra la loro biancheria. I loro piedi arrivavano con

sorprendente facilità più su della testa; e dondolavano le pance, sculettavano,

scuotevano i seni, spandendo intorno un forte odore di sudore femminile.

I maschi s’accoccolavano come rospi, con gesti osceni, si contorcevano,

smorfiosi e orrendi, facevan la ruota poggiando le mani a terra, oppure, cercando

di esser buffi, cercavano d’imitare gli atteggiamenti femminili con ridicola grazia.

Una grossa serva e due garzoni servivano ai tavolini.

Siccome il caffè galleggiante era ricoperto soltanto da un tetto, e non c’era

nessun assito che lo dividesse dall’esterno, il disordinato ballo si svolgeva al

cospetto della notte tranquilla e del firmamento impolverato di stelle.

D’improvviso parve che il Mont-Valérien, laggiù, di faccia, si rischiarasse come

se gli avessero dato fuoco, di dietro. Il chiarore s’allargò, s’accentuò, invadendo a

poco a poco il cielo e descrivendo un gran cerchio luminoso, d’una luce pallida e

bianca. Poi apparve, e subito ingrandì, qualcosa di rosso, un rosso ardente come

il metallo sull’incudine. Lentamente prese forma, divenne rotondo, sembrava che

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uscisse di sotterra; e presto la luna, distaccatasi dall’orizzonte, salì dolcemente

nello spazio. A mano a mano che s’innalzava la tinta porporina s’attenuava,

diventava gialla, d’un giallo chiaro e splendente; e l’astro allontanandosi

sembrava rimpicciolire.

Paul la guardò a lungo, perdendosi nella contemplazione, e si dimenticò della

sua amante. Quando si voltò, era sparita.

La cercò inutilmente. Scorreva i tavolini con sguardo ansioso, andava

continuamente su e giù, domandando a questo o quello. Nessuno l’aveva vista.

Vagava così, spasimando per l’inquietudine, quando uno dei garzoni gli disse:

- Cercate la signorina Madeleine? È uscita proprio ora insieme alla signorina

Pauline. - Nello stesso istante Paul scorse in piedi in fondo al caffè il mozzo e le

due belle ragazze, che si tenevano tutt’e tre per la vita, e lo guardavano

bisbigliando fra loro.

Capì; e come un pazzo si slanciò verso l’isola.

Dapprima corse in direzione di Chatou; ma trovandosi davanti alla pianura

tornò indietro. Allora si mise a frugare nei cespugli, a vagabondare all’impazzata,

fermandosi ogni tanto per ascoltare.

I rospi, intorno, gracidavano col loro verso breve e metallico.

Dalla parte di Bougival un uccello ignoto modulava alcuni gorgheggi che

giungevano indeboliti dalla distanza.

La luna riversava sui prati vasti un chiarore molle, come una polvere d’ovatta;

penetrava in mezzo al fogliame, faceva scorrere la sua luce sui tronchi argentati

dei pioppi, picchiettava con la sua pioggia brillante le cime frementi dei grandi

alberi. La poesia inebriante della serata estiva penetrava in Paul, suo malgrado,

passava attraverso la sua folle ambascia, agitava il suo cuore con feroce ironia,

esasperando, nella sua anima dolce e contemplativa, il bisogno d’un ideale affetto,

di appassionate effusioni sul seno d’una donna amante e fedele.

Fu costretto a fermarsi, soffocato dai singhiozzi precipitosi, strazianti.

Passata la crisi, si rimise a girare.

A un tratto, gli parve di ricevere una coltellata: qualcuno si stava baciando,

dietro a quel cespuglio. Vi si precipitò: eran due innamorati, e al suo avvicinarsi

le due figurine s’allontanarono in fretta, allacciate, unite in un bacio senza fine.

Non aveva il coraggio di chiamare, sapendo che lei non avrebbe risposto; aveva

anche una paura tremenda di scoprirle all’improvviso.

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I ritornelli delle quadriglie, con gli a solo strazianti delle trombe, le false risate

del flauto, l’acuta stizza del violino, gli stringevano il cuore, esasperando la sua

sofferenza. La musica rabbiosa e zoppicante correva sotto gli alberi, ora più

debole, ora resa più forte da un soffio improvviso di brezza.

D’improvviso disse a se stesso che forse lei era già tornata al caffè. Sì, sì, era

rientrata! perché no? Aveva perso la testa, da stupido, senza nessun motivo,

trascinato dalle sue paure, dai disordinati sospetti che lo prendevano da un po’ di

tempo a quella parte.

Così, in uno di quei momenti di strana calma che attraversano talora i dolori

più grandi, tornò verso il locale.

Percorse la sala con un’occhiata. Non c’era. Fece il giro dei tavolini, e ad un

tratto si trovò un’altra volta di faccia alle tre donne. Evidentemente il suo aspetto

doveva essere disperato e buffo, perché tutt’e tre insieme scoppiarono a ridere,

vedendolo.

Se ne andò, tornò nell’isola, gettandosi nella macchia, ansimando. Si mise

un’altra volta in ascolto; stette così per parecchio tempo, perché gli ronzavano le

orecchie; infine gli parve di sentire lontano una risatina acuta che ben conosceva;

e avanzò pian pianino, strisciando, scostando i rami, e con il cuore che gli

tempestava talmente nel petto che non poteva più neanche respirare.

Due voci stavano mormorando parole che non poteva ancora distinguere; poi

tacquero.

Gli venne allora una grandissima voglia di scappare, di non veder nulla, di

non saper nulla, di fuggire per sempre lontano dalla furiosa passione che lo

traeva a rovina. Sarebbe tornato a Chatou, avrebbe preso il treno, e non sarebbe

tornato più, non l’avrebbe più vista. Poi, improvvisamente, l’immagine di lei lo

riprese, e la rivide, quando la mattina si svegliava, nel loro letto tiepido, e tutta

languida si stringeva a lui, gettandogli le braccia al collo, coi capelli sciolti, un po’

arruffati sulla fronte gli occhi ancora chiusi e le labbra aperte per il primo bacio; e

l’improvviso ricordo di quell’abbraccio mattutino gli destò un rimpianto frenetico e

un grandissimo desiderio.

Sentiva parlare di nuovo; s’avvicinò, piegato in due. Un gridolino corse

attraverso i rami, vicinissimo a lui. Un grido! Uno di quei gridi d’amore che aveva

imparato a conoscere nelle ore frenetiche della loro intimità. Avanzava ancora,

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sempre, come controvoglia, invincibilmente attirato, senza aver coscienza di

nulla... e la vide.

Oh! se almeno l’avesse trovata con un uomo. Ma così! così! Si sentiva

paralizzato dalla loro stessa infamia. E rimase annientato, sconvolto, come se

avesse scoperto all’improvviso un cadavere amato e mutilato, un mostruoso

delitto contro natura, una immonda profanazione.

Gli venne a mente, in un lampo involontario, il pesciolino del quale aveva

sentito strappare gli intestini... E Madeleine mormorò: - Pauline! - con lo stesso

accento appassionato di quando diceva: - Paul! - Lo percosse un dolore tale che

fuggì via più svelto che poteva.

Andò a sbattere contro due alberi, inciampò in una radice proseguì e si trovò a

un tratto davanti al fiume, davanti al braccio rischiarato dalla luna. La corrente

torrentizia formava ampi vortici nei quali si rifletteva la luce. L’alta sponda

dominava l’acqua come una scogliera, e al suo incontro con l’acqua in una larga

striscia scura si sentivano i mulinelli nell’ombra.

Sull’altra riva si potevano vedere i casolari di Croissy, in piena luce,

digradanti.

Paul vide tutto questo come in sogno, o attraverso un ricordo; non pensava a

nulla, non capiva nulla, e tutto, perfino la sua esistenza, gli appariva incerto,

lontano, obliato, finito.

C’era il fiume. Capì quel che faceva? Volle morire? Era pazzo. Però si volse

verso l’isola, verso di lei; e nella calma aria della notte in cui continuavano a

danzare i ritornelli deboli e ostinati del ballo lanciò un grido spaventoso, con voce

disperata, acutissima, disumana:

- Madeleine!

Lo straziante richiamo attraversò il largo silenzio del cielo, corse tutto

l’orizzonte.

Poi con un enorme salto, un salto da bestia, si precipitò nel fiume. L’acqua

schizzò, si richiuse e là dove egli era scomparso si formarono uno dopo l’altro dei

grandi circoli che allargarono fino all’altra sponda le loro luminose ondulazioni.

Le due donne avevano sentito. Madeleine si levò: - È Paul. - Le venne un

sospetto. - S’è affogato; - disse. E si slanciò verso la riva, dove la grossa Pauline la

raggiunse.

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Un pesante barchetto con due uomini sopra girava e rigirava sull’acqua. Uno

dei due barcaioli remava, l’altro immergeva nell’acqua un gran bastone, e pareva

che cercasse qualcosa. Pauline gridò: - Che fate? Cos’è successo? - Una voce

sconosciuta rispose: - Un uomo s’è affogato.

Le due donne, stravolte, strette l’una contro l’altra, seguivano le evoluzioni

della barca. La musica del Ranocchiaio continuava a impazzare, di lontano,

sembrava che accompagnasse ritmicamente i movimenti dei tristi pescatori; e il

fiume, che ora nascondeva un cadavere, vorticava, sotto la luce.

La ricerca si prolungava. L’orribile attesa faceva tremare Madeleine. Infine,

dopo almeno mezz’ora, uno dei due uomini annunciò: - L’ho preso! - E tirò su il

raffio, pian piano. Un grosso fagotto apparve alla superficie dell’acqua. L’altro

barcaiolo lasciò i remi, e tutti e due, unendo le loro forze, facendo leva sulla

massa inerte, la fecero capitombolare nella barca.

Poi tornarono a riva, cercando un approdo basso e illuminato. Proprio quando

stavano toccando terra, arrivarono anche le donne.

Appena l’ebbe visto, Madeleine indietreggiò, inorridita. Sotto la luce lunare

pareva già verde, con la bocca, gli occhi, il naso, i vestiti pieni di melma. Le dita

strette e irrigidite erano spaventevoli. Tutto il suo corpo era coperto d’una specie

d’intonaco nerastro e liquido. Il viso sembrava gonfio e dai capelli appiccicati dalla

mota colava continuamente un filo d’acqua sporca.

I due uomini lo esaminarono.

- Lo conosci? - disse uno.

L’altro, il traghettatore di Croissy, esitava: - Sì, mi pare d’aver già visto questa

faccia; ma in questo stato, non si può riconoscere bene. - Poi ad un tratto: - Ma è

il signor Paul!

- Chi è il signor Paul? - domandò il suo compagno.

- Ma il signor Paul Baron, - continuò l’altro, - il figlio del senatore, quel

ragazzo tanto innamorato.

L’altro aggiunse filosoficamente:

- Bah! ora ha finito di divertirsi; è un peccato quando si è ricchi!

Madeleine era caduta in terra e singhiozzava Pauline s’accostò al cadavere, e

chiese: - E proprio morto? senza rimedio?

Gli uomini scrollarono le spalle: - Dopo esser stato tutto questo tempo

sott’acqua! altro che!

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Poi uno di essi domandò: - Dove abitava, da Grillon?

- Sì, - rispose l’altro; - bisogna portarcelo; buscheremo qualche soldo.

Risalirono sul barchetto e ripartirono, allontanandosi con lentezza a causa

della corrente veloce; e ancora parecchio tempo dopo che non furono più in vista,

dal luogo ove erano restate le due donne si seguitò a sentire il tonfo regolare dei

remi.

Allora Pauline prese fra le braccia la povera Madeleine piangente, la vezzeggiò,

la baciò a lungo, la consolò: - Che vuoi farci, non è colpa tua, non ti pare? Non si

può mica impedire agli uomini di far delle sciocchezze. L’ha voluto, tanto peggio

per lui, in fin dei conti!

Poi sollevandola:

- Su, cara, vieni a casa a dormire; non puoi mica andare da Grillon, stasera.

La baciò un’altra volta:

- Su, vedrai che noi ti guariremo, - disse.

Madeleine s’alzò e sempre piangendo, ma con singhiozzi più deboli, tenendo la

testa appoggiata sulla spalla di Pauline, come se si fosse rifugiata in un affetto

più intimo e più sicuro, più familiare e più fiducioso, si mosse a piccoli passi.

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LA SIGNORINA FIFÌ

Il comandante prussiano, maggiore conte di Farlsberg, stava finendo di leggere

la posta, sprofondato in una gran poltrona, coi piedi poggiati sull’elegante marmo

del caminetto nel quale gli speroni degli stivali, nei tre mesi da che durava

l’occupazione del castello di Uville, avevano scavato due solchi profondi, che

s’approfondivano ogni giorno di più.

Una tazzina di caffè fumava su un tavolinetto macchiato dai liquori,

bruciacchiato dai sigari intaccato dal temperino dell’ufficiale conquistatore, il

quale, talvolta, mentre appuntiva una matita, si fermava e tracciava sul grazioso

mobile cifre o disegni, seguendo le sue svagate fantasticherie.

Quando ebbe letto la corrispondenza e sfogliato i giornali tedeschi che il

furiere gli aveva portato, si alzò, buttò sul fuoco tre o quattro ciocchi di legna

verde - poiché quei signori per riscaldarsi abbattevano un po’ alla volta il parco -

e si avvicinò alla finestra.

La pioggia cadeva a dirotto, una pioggia normanna che pareva scagliata da

una mano furiosa, una pioggia obliqua, fitta come un tendone, simile a un muro

di strisce oblique, una pioggia che sferzava, schizzava, annegava ogni cosa, una

vera pioggia dei dintorni di Rouen, orinale della Francia.

L’ufficiale si fissò a guardare i prati inondati, e in fondo, l’Andelle gonfia che

straripava; cominciò a tamburellare sui vetri un valzer del Reno, allorché un

rumore lo fece voltare; era il suo secondo, il barone di Kelweingstein, che aveva

un grado equivalente a quello di capitano.

Il maggiore era un gigante con le spalle larghe, adorno di una lunga barba a

ventaglio che gli si stendeva sul petto come un tovagliolo; tutta la sua voluminosa

figura faceva pensare a un pavone militare, un pavone che tenesse la coda

spiegata sotto il mento. Aveva gli occhi azzurri, dolci e freddi, una guancia

segnata da un fendente nella guerra d’Austria: aveva fama di essere una brava

persona e un bravo ufficiale.

Il capitano, un ometto rubicondo con una gran pancia stretta dal cinturone,

portava quasi completamente rasata la barba fiammeggiante, che coi suoi fili di

fuoco faceva pensare, sotto una certa luce, che egli avesse il viso cosparso di

fosforo. A causa di due denti persi non sapeva bene come, durante una notte di

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bagordi, sputava fuori certe parole gonfie che non sempre si riuscivano a capire:

ed era calvo soltanto al sommo del cranio, tonsurato come un frate, con un vello

di capelli riccioluti, dorati e lucidi, intorno alla calotta di pelle nuda.

Il comandante strinse la mano al capitano e ingoiò d’un sorso il caffè (la sesta

tazzina della mattinata), ascoltando il rapporto del suo subordinato sugli

incidenti occorsi nel servizio poi tutti e due si avvicinarono alla finestra

osservando che non era un posto allegro. Il maggiore, uomo tranquillo, sposato, si

adattava a qualunque cosa, ma il capitano barone, gran gaudente, frequentatore

di locali notturni, forsennato conquistatore di donnine, era furente di trovarsi

costretto da tre mesi alla castità in quel luogo sperduto.

Si udì bussare alla porta; il comandante gridò di entrare, e un uomo, uno di

quei loro soldati automi, comparì sulla soglia, annunciando con la sola sua

presenza che la colazione era pronta.

Nella sala da pranzo c’erano già i tre ufficiali inferiori: un tenente, Otto di

Grossling e due sottotenenti: Fritz Scheunaubourg e il marchese Wilhelm d’Eryk,

un biondino altezzoso e brutale con gli uomini, duro con i vinti, e violento come

un’arma da fuoco.

Da quando era in Francia i suoi colleghi lo chiamavano signorina Fifì. Il

soprannome gli veniva sia dal suo personale slanciato, dalla vita sottile che si

sarebbe detta cinta da un busto, dal viso pallido sul quale i baffi nascenti si

vedevano appena; e sia perché aveva preso l’abitudine, per esprimere il suo

sommo disprezzo verso esseri e cose, di adoperare continuamente la locuzione:

fi,fi, pronunciandola con un debole sibilo.

Nella sala da pranzo del castello di Uville, vasta e regale, gli specchi di cristallo

antico incrinati a stella dai colpi di pistola e i grandi arazzi delle Fiandre tagliati a

sciabolate e qua e là penzolanti, rivelavano quali fossero i passatempi della

signorina Fifì quando non aveva nulla da fare.

Ai muri, tre ritratti di famiglia: un guerriero vestito di ferro, un cardinale e un

alto magistrato, fumavano in lunghe pipe di porcellana; e nella sua cornice

sbiadita dagli anni, una nobile dama dai seni imponenti ostentava con aria

arrogante un enorme paio di baffi disegnati col carbone.

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Il desinare degli ufficiali si svolse quasi in silenzio nella stanza mutilata,

incupita dall’acquazzone, triste con il suo volto sconfitto e nella quale il vecchio

impiantito di quercia era diventato duro come il suolo di un’osteria.

Come tutti i giorni, finito il pasto, cominciarono a bere, a fumare e a

discorrere della loro noia. Le bottiglie di cognac e di rosolio passavano di mano in

mano, e tutti, abbandonati sugli schienali delle sedie, bevevano a sorsi piccoli e

frequenti, seguitando a tenere a un’estremità della bocca la lunga cannuccia

ricurva della pipa terminante in un uovo di porcellana, ch’era sempre dipinto

come se dovesse sedurre degli Ottentotti.

Quando il bicchierino era vuoto lo riempivano con gesti di rassegnata

stanchezza. Ma la signorina Fifì ogni volta spezzava il suo, e subito un soldato

gliene portava un altro.

Una nube di fumo acre li avvolgeva e sembrava che stessero per sprofondare

in un’ebbrezza sonnolenta e triste, la grigia ubriachezza della gente che non ha

niente da fare.

Improvvisamente il barone si rizzò, scosso da un impeto di ribellione:

- Perdio! - bestemmiò: - così non può durare. Bisogna inventare qualcosa.

Il tenente Otto e il sottotenente Fritz, che avevano due tipici visi tedeschi,

dalla fisionomia pesante e grave, risposero insieme:

- Che cosa, signor capitano?

Dopo qualche istante di riflessione, questi aggiunse:

- Che cosa? Ecco, dovremmo organizzare una festa, se il comandante lo

permette.

Il maggiore abbandonò la pipa:

- Che festa, capitano?

Il barone gli si avvicinò:

- M’incarico io di ogni cosa, signor comandante. Mando «Dovere» a Rouen, che

ci porti delle signore, so dove potrà trovarle. Si farà preparare una cena qui; non

ci manca nulla, e almeno passeremo una bella serata.

Il conte di Farlsberg alzò le spalle sorridendo: - Siete matto, caro mio. - Ma

tutti gli ufficiali si erano alzati e circondavano il loro superiore supplicandolo:

- Lasciate fare al capitano, signor maggiore, questo posto è così noioso...

Il maggiore finì per cedere:

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- Va bene, - disse; e subito il barone fece chiamare «Dovere». Era costui un

vecchio sottufficiale che nessuno aveva mai visto ridere, ma che eseguiva

fanaticamente gli ordini dei superiori, qualsiasi fossero.

Sull’attenti, impassibile, ricevette le istruzioni del barone. Poi uscì, e cinque

minuti dopo una grossa carretta della dotazione militare, coperta da un tendone

impermeabile teso a cupola, filava rapida sotto la pioggia accanita, al galoppo di

quattro cavalli.

Allora parve che un brivido risvegliasse le menti assopite; i corpi afflosciati si

ricomposero i visi si rianimarono e cominciò la conversazione.

Benché l’acquazzone continuasse con furia immutata, il maggiore affermò che

faceva meno buio, e il tenente Otto annunziò convinto che il cielo si stava

rischiarando.

La signorina Fifì non stava più nella pelle. Si alzava, poi tornava a sedersi. Il

suo sguardo limpido e duro cercava qualcosa da poter rompere. A un tratto,

fissando la dama coi baffi, il giovane cavò la pistola dalla fondina.

- Tu non vedrai nulla, - disse e senza levarsi dalla sedia prese la mira. Due

pallottole, una dopo l’altra, spaccarono gli occhi del ritratto.

- Facciamo la mina! - esclamò poi. La conversazione s’interruppe di colpo,

come se tutti fossero stati presi da un nuovo e forte interesse.

Era la sua invenzione, la mina, il sistema che aveva inventato per distruggere,

il suo divertimento preferito.

Al momento di abbandonare il castello, il legittimo proprietario, conte

Fernando d’Amoys d’Uville, non aveva avuto il tempo di portar via nulla o di

nascondere nulla, fuorché l’argenteria che era stata occultata in un buco di un

muro. E siccome era ricchissimo e splendido, prima della sua precipitosa fuga il

gran salone che si apriva sulla sala da pranzo sembrava la galleria di un museo.

Ai muri erano appesi tele, disegni, acquarelli di pregio, e sui mobili, sugli

scaffali, nelle eleganti vetrine, mille gingilli, vasi, statuine, porcellane di Sassonia,

budda cinesi, avori antichi e vetri di Venezia, popolavano il vasto appartamento,

folla bizzarra e preziosa.

Adesso non rimaneva più quasi nulla. Non che ci fosse stato saccheggio,

perché il maggiore conte di Farlsberg non l’avrebbe mai permesso; ma ogni tanto

la signorina Fifì faceva «la mina», e quel giorno tutti gli ufficiali per cinque minuti

si divertivano davvero.

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Il marchesino andò nel salone a prendere ciò che gli occorreva. Tornò con una

graziosa teiera cinese rosa e la riempì di polvere da sparo. Dopo aver infilato nel

beccuccio una lunga miccia, l’accese e corse a rimettere nel salone l’ordigno

infernale.

Rientrò immediatamente, richiudendo la porta. Tutti i tedeschi stavano

aspettando in piedi, col viso illuminato da una gioia infantile; non appena

l’esplosione scosse il castello, si precipitarono tutti insieme nel salone.

La signorina Fifì, entrata per prima, batteva le mani, in estasi dinanzi a una

Venere di terracotta, priva finalmente della testa; tutti si misero a raccattare i

pezzetti di porcellana, stupiti nel vedere le stranezze delle dentellature dei

frammenti, constatando i nuovi danni, precisando quelli che risalivano

all’esplosione dell’altra volta; e il maggiore guardava con aria paterna il vasto

salone messo a soqquadro da quello scoppio neroniano, e cosparso di resti di

oggetti d’arte. Uscì per primo, dichiarando bonariamente:

- Questa volta è riuscita proprio bene.

Ma nella sala da pranzo era entrata una tromba di fumo che mescolandosi a

quello del tabacco rendeva l’aria irrespirabile. Il comandante aprì la finestra e

tutti gli ufficiali, tornati a bere l’ultimo bicchierino di cognac, vi si avvicinarono.

L’aria umida penetrò nella stanza, recandovi un odore d’inondazione e come

un vapor d’acqua che incipriò le barbe. Guardavano i grandi alberi prostrati

dall’acquazzone, l’ampia valle annebbiata dall’infittirsi delle nubi scure e basse, e,

in lontananza, il campanile della chiesa dritto come una lancia grigia sotto la

pioggia sferzante.

Da quando erano arrivati le campane non avevano mai suonato. La sola

resistenza che gli invasori avessero incontrato nella regione era stata quella del

campanile. Il parroco non s’era rifiutato affatto di ricevere e nutrire i soldati

prussiani; anzi, più d’una volta aveva accettato di bere una bottiglia di birra o di

vino buono con il comandante nemico, il quale spesso si serviva di lui come

benevolo intermediario; ma non gli si doveva chiedere nemmeno un rintocco della

campana; piuttosto si sarebbe fatto fucilare. Era il suo modo di protestare contro

l’invasione; protesta pacifica, del silenzio; l’unica, egli diceva, che convenga a un

sacerdote, uomo di pietà e non di sangue; e tutti, nel giro di dieci leghe,

elogiavano la fermezza e l’eroismo di don Chantavoine, che aveva il coraggio di

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affermare il pubblico lutto e di proclamarlo con l’ostinato mutismo della sua

chiesa.

Tutto il villaggio, entusiasmato da quella resistenza, era pronto a sostenere

fino in fondo il suo pastore, e a rischiare tutto, riputando quella tacita protesta

una salvaguardia dell’onore nazionale.

I contadini credevano di avere acquistato, nel servizio della patria, più meriti

dei cittadini di Belfort e di Strasburgo, credevano di aver dato un esempio uguale

al loro, di aver reso immortale il nome del loro paesucolo; e, all’infuori delle

campane, non rifiutavano nulla ai prussiani vincitori.

Il comandante e gli ufficiali ridevano insieme di questo inoffensivo coraggio, e

siccome tutta la popolazione si mostrava con loro servizievole e docile, tolleravano

volentieri quel silenzioso patriottismo.

Soltanto il marchesino Wilhelm avrebbe voluto far suonare per forza le

campane. La politica condiscendenza del suo superiore verso il prete lo mandava

fuori di sé, e non passava giorno che non supplicasse il comandante di lasciargli

fare «din-don-don» una volta, una volta sola, tanto per ridere un pochino. E lo

chiedeva, facendosi grazioso come una gatta, tutto moine come una donna, con la

voce di una amante desiosa; ma il comandante non cedeva e la signorina Fifì, per

consolarsi, faceva la mina nel castello d’Uville.

I cinque uomini rimasero per qualche minuto ammassati alla finestra, a

fiutare l’aria umida. Poi il tenente Fritz, ridendo pesantemente, esclamò:

- Le signorine non troveranno certamente tempo buono per la loro

passeggiata.

Su queste parole si separarono, ognuno andò a fare il suo servizio, e il

capitano, indaffaratissimo, a far preparare il pranzo.

Quando si riunirono, al cader della sera, scoppiarono a ridere nel vedersi tutti

ripicchiati e luccicanti come nei giorni di rivista: freschi, impomatati, profumati. I

capelli del comandante parevano meno brizzolati della mattina, il capitano s’era

fatto la barba, lasciandosi i baffi che parevano una fiamma sotto il suo naso.

Nonostante la pioggia lasciarono la finestra aperta e ogni tanto uno di loro si

affacciava ad ascoltare. Alle sei e dieci il barone segnalò un lontano rumore di

ruote. Tutti accorsero, e poco dopo si vide arrivare di galoppo la grossa carretta

tirata dai quattro cavalli sbuffanti, fumanti e inzaccherati fino alla groppa.

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Cinque donne balzarono sulla scalinata d’ingresso, cinque belle ragazze scelte

con cura dal collega del capitano al quale «Dovere» aveva portato un biglietto del

suo ufficiale.

Non si erano fatte pregare, sicure di essere pagate bene. Avevano imparato a

conoscere i prussiani, in tre mesi che li bazzicavano, e si sapevano adattare agli

uomini come agli avvenimenti.

- Necessità del mestiere, - dicevano per la strada, forse per rispondere alla

segreta punzecchiatura di un rimasuglio di coscienza.

Entrarono tutti direttamente nella sala da pranzo. Illuminata diventava

ancora più lugubre, tra quel miserevole sfacelo; e la tavola coperta di carni, di

ricco vasellame, dell’argenteria scovata dal muro in cui il proprietario l’aveva

nascosta, faceva sembrare quel luogo una taverna dove i banditi banchettano

dopo il saccheggio. Il capitano, raggiante, s’impadronì delle donne, come se

fossero state oggetti d’uso, e le valutava, le abbracciava, le fiutava, le giudicava

secondo il loro valore di donne di piacere; e poiché i tre giovani volevano subito

prendersene una per ciascuno, si oppose autorevolmente, riservandosi di fare le

parti con perfetta giustizia, secondo il grado di ognuno, per non offendere in

nessun modo la scala gerarchica.

Quindi, per evitare qualunque discussione, contestazione o sospetto di

parzialità, mise in fila le donne per ordine d’altezza, e rivolgendosi alla più alta

con tono di comando:

- Come ti chiami?

- Pamela, - rispose quella alzando la voce.

Allora il capitano sentenziò.

- Numero uno, la nominata Pamela aggiudicata al comandante.

Dopo aver dato un bacio a Biondina, la seconda, in segno di possesso, offerse

al tenente Otto la florida Amande, Eve «il pomodoro» al sottotenente Fritz, e la più

piccina di tutte, Rachel, una giovanissima brunetta con gli occhi neri come

macchie d’inchiostro, un’ebrea che col suo nasino all’insù confermava la regola

generale del naso adunco proprio della sua razza, toccò al più giovane ufficiale,

all’esile marchese Wilhelm d’Eryk.

Erano d’altronde tutte carine e pienotte, senza una fisionomia precisa, rese

quasi uguali di corpo e di pelle dalle quotidiane pratiche amorose e dalla vita in

comune nelle case pubbliche.

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I tre giovanotti volevano portarsi via senz’altro le loro donne, col pretesto di

offrir loro spazzole e sapone per pulirsi, ma il capitano giudiziosamente si oppose

dicendo che esse erano abbastanza in ordine per mettersi a tavola e che coloro i

quali avessero voluto andar su, scendendo avrebbero disturbato e scomodato le

altre coppie. La sua esperienza ebbe il sopravvento, così ci furono soltanto grandi

sbaciucchiamenti di attesa.

A un tratto Rachel parve sul punto di soffocare: tossiva lacrimando e buttando

fumo fuori delle narici. Il marchese, con la scusa di baciarla, le aveva soffiato in

gola una boccata di fumo. Non reagì, non disse una parola, ma guardò fissa il suo

padrone con una collera che risplendeva in fondo alle sue pupille nere.

Si misero a tavola. Perfino il comandante pareva beato, pose alla sua destra

Pamela, alla sua sinistra Biondina, e spiegando il tovagliolo esclamò:

- Avete avuto un’ottima idea, capitano.

I tenenti Otto e Fritz erano corretti come se fossero con delle dame, tanto che

intimidivano un poco le loro vicine; ma il barone di Kelweingstein, abbandonato al

suo vizio, era raggiante, lanciava parole grasse, pareva in fiamme, con la sua

corona di capelli rossi. Diceva galanterie in un francese del Reno; e i suoi

complimenti da bettola, espettorati attraverso il buco dei due denti rotti,

giungevano alle ragazze accompagnati da una mitraglia di saliva.

Esse non capivano nulla; la loro intelligenza parve risvegliarsi soltanto quando

quegli sputò parole oscene e frasi crude, storpiandole con la sua pronuncia.

Allora, tutte insieme, cominciarono a ridere come pazze, piegandosi sulla pancia

dei vicini, ripetendo le parole che il barone s’era messo a storpiare a bella posta

per indurle a dire delle oscenità. Esse, ubriache sin dalle prime bottiglie, ne

vomitavano a volontà, e aperta la porta all’abitudine tornavano ad essere se

stesse: davano baci ai baffi di destra e ai baffi di sinistra, pizzicavano braccia,

lanciavano grida acute, bevevano in tutti i bicchieri, cantavano canzonette

francesi e pezzetti di canzoni tedesche apprese nel loro quotidiano commercio col

nemico.

Ben presto anche gli uomini, inebriati da quelle carni di donne così a portata

del loro naso e delle loro mani, persero la testa, e si misero a urlare, a rompere

piatti, mentre alle loro spalle impassibili soldati li servivano.

Soltanto il comandante serbava un contegno.

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La signorina Fifì aveva preso Rachel sulle ginocchia, e, eccitandosi a freddo,

talvolta le baciava i ricciolini d’ebano sulla nuca, aspirando nel breve spazio tra il

vestito e la nuda carne il dolce calore del corpo e l’aroma che emanava, tal altra

attraverso il vestito la pizzicava furiosamente fino a farla gridare, preso da una

ferocia rabbiosa, agitato da un bisogno di distruzione.

Spesso anche, tenendola tra le braccia e stringendola come se volesse

confondersi con lei, posava a lungo le labbra sulla fresca bocca dell’ebrea, e la

baciava fino a restare senza fiato. Ma a un tratto le diede un morso tanto

profondo che una sottile striscia di sangue dal mento della giovane donna colò

sino al petto.

Anche questa volta ella lo fissò bene nel viso e, asciugandosi la ferita,

mormorò:

- Queste cose si pagano.

Egli rise duramente:

- Pagherò, - disse.

Si era alle frutta. Stavano servendo lo spumante. Il comandante si alzò, e con

lo stesso tono con cui avrebbe brindato alla salute dell’imperatrice Augusta,

brindò: - Alle nostre signore!

Ebbe inizio una serie di brindisi improntati a una galanteria da soldatacci e da

beoni, inframmezzata da facezie oscene, che l’ignoranza della lingua rendeva

ancor più brutali.

Gli ufficiali si alzavano uno dopo l’altro, e si sforzavano di essere spriritosi e

divertenti, mentre le donne, ubriache al punto da non reggersi più in piedi, con lo

sguardo assente, le labbra pesanti, applaudivano ogni volta a più non posso.

Il capitano, con l’intenzione di dare all’orgia un tono di galanteria, alzò ancora

una volta il bicchiere esclamando:

- Alle nostre vittorie sui cuori!

Allora il tenente Otto, sorta di orco della Foresta Nera, si alzò, infiammato e

saturo di vino. Improvvisamente invasato di patriottismo alcolico egli gridò:

- Alle nostre vittorie sulla Francia!

Benché fossero ubriache le donne ammutolirono, e Rachel, fremente, replicò:

- Conosco dei francesi dinanzi ai quali non diresti simili cose.

Il marchesino, che la teneva sempre sulle ginocchia, si mise a ridere,

allegrissimo per il vino bevuto:

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- Ah! ah! ah! Io non ne ho mai incontrati. Basta che ci facciamo vedere perché

se la diano a gambe!

La ragazza, esasperata, gli gridò sulla faccia:

- Menti, sporcaccione!

Per un attimo egli fissò su di lei i suoi occhi chiari nello stesso modo come

prima aveva puntato lo sguardo sul ritratto che aveva crivellato a colpi di pistola;

poi, ridendo ancora, seguitò:

- Ma sì, parliamone, bella mia! Saremmo qui, noi, se essi avessero un po’ di

coraggio? - Poi animandosi: - Siamo i loro padroni! la Francia è nostra!

Rachel con uno scossone lasciò le ginocchia dell’ufficiale e ricadde sulla sua

sedia. Egli si alzò e tendendo il bicchiere fino in mezzo alla tavola ripeté:

- A noi la Francia, e i francesi, i boschi, i campi e le case della Francia!

Gli altri ufficiali, tutti ubriachi fradici, furono scossi improvvisamente da un

entusiasmo militaresco, un entusiasmo di bruti, e afferrarono i loro bicchieri

strepitando: - Viva la Prussia! - e li vuotarono d’un sorso.

Le ragazze non protestarono né fiatarono, impaurite. Anche Rachel taceva,

impotente a rispondere.

Allora il marchesino, posando sul capo dell’ebrea la sua coppa nuovamente

ricolma:

- A noi, - gridò, - anche tutte le donne di Francia!

Rachel si alzò con un tale scatto che la coppa si rovesciò, vuotò, come per un

battesimo, il vino giallo nei capelli neri, e cadde a terra spezzandosi.

Col labbro tremante, ella sfidava con lo sguardo l’ufficiale, che seguitava a

ridere, e con voce strozzata dalla rabbia:

- Questo, questo, questo non è vero, - balbettò. - Non avrete di certo le donne

di Francia!

L’ufficiale si sedette per ridere comodamente e cercando di parlare con accento

parigino:

- Questa è puona, molto puona. Ma allora cosa ci fai tu qui, piccina?

Dapprima ella tacque, sbalordita, turbata sì da non capire, poi, non appena

ebbe afferrato chiaramente quanto egli aveva detto, esclamò con violenza,

indignata:

- Io! Io! Io non sono mica una donna, io sono una puttana, proprio quello che

ci vuole per voi prussiani!

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Non aveva ancora finito, che l’ufficiale la schiaffeggiò con tutta la sua forza; ed

era sul punto di alzare nuovamente la mano, quando, pazza di rabbia, ella afferrò

sulla tavola un coltellino da frutta con la lama d’argento, e con tanta rapidità che

nessuno se ne accorse, glielo piantò dritto nell’incavo del collo, proprio dove

comincia il petto.

La parola che egli stava pronunciando gli si fermò in gola; rimase con la bocca

spalancata, con uno sguardo orrendo.

Tutti si alzarono urlando, tumultuosamente, ma Rachel buttò la sua sedia tra

le gambe del tenente Otto, facendolo cadere lungo disteso, balzò alla finestra,

l’aperse prima che potessero raggiungerla, e si slanciò nella notte, sotto la

pioggia.

In pochi minuti la signorina Fifì era morta.

Allora Fritz e Otto sguainarono le sciabole per massacrare le donne che si

erano buttate strasciconi ai loro piedi. A fatica il maggiore riuscì a impedire il

macello, e fece rinchiudere in una stanza, sotto la guardia di due soldati, le

quattro ragazze smarrite; poi, come se disponesse le truppe per un

combattimento, organizzò le ricerche della fuggitiva, sicuro di acciuffarla.

Cinquanta uomini, minacciati a dovere, furono sguinzagliati nel parco. Altri

duecento frugarono i boschi e tutte le case della valle.

La tavola, sparecchiata in un batter d’occhio, era divenuta ora il letto

mortuario, e i quattro ufficiali, rigidi, rinsaviti, col viso duro degli uomini di

guerra in azione, stavano in piedi presso le finestre, scrutando nell’oscurità.

La pioggia seguitava a cadere a torrenti. Uno sciacquio continuo empiva il

buio, un ondoso mormorio d’acqua che gocciola, d’acqua che schizza.

Improvvisamente risuonò uno sparo, poi, lontanissimo, un altro; per quattro

ore si udirono di tanto in tanto spari vicini o lontani, grida di adunata, strane

parole lanciate come richiamo da voci gutturali.

Al mattino tutti rientrarono. Due soldati erano stati uccisi e tre altri feriti dai

loro stessi compagni nell’ardore della caccia e nella confusione dell’inseguimento

notturno.

Rachel non era stata ritrovata.

Gli abitanti furono terrorizzati, le loro case messe a soqquadro, tutta la

regione fu percorsa, battuta, messa sossopra. Pareva che l’ebrea non avesse

lasciato alcuna traccia.

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Il generale, avvertito, ordinò di non parlar più della cosa, per non dare cattivo

esempio all’esercito, e punì il comandante, il quale punì i suoi subalterni. Il

generale aveva detto:

- Non si fa la guerra per divertirsi e stare con le donne pubbliche.

E il conte di Farlsberg, furente, risolse di vendicarsi sul villaggio.

Poiché gli occorreva un pretesto per scatenarsi senza freno, chiamò il parroco

e gli ordinò di suonare la campana per il funerale del marchese d’Eryk.

Contro ogni aspettazione il prete si mostrò docile, umile, riguardoso. E quando

la salma della signorina Fifì, portata a braccia dai soldati, preceduta, circondata,

seguita da soldati che marciavano col fucile carico, lasciò il castello d’Uville, per

andare al cimitero, per la prima volta la campana scandì i rintocchi funebri con

un ritmo vivace, come se fosse stata accarezzata da una mano amica.

Suonò anche la sera, e anche il giorno seguente e poi ogni giorno; scampanò

quanto vollero. Qualche notte, addirittura, si metteva a suonare da sola, e

lanciava pian piano, nell’ombra, due o tre rintocchi, come se si fosse risvegliata,

non si sa perché, tutta allegra. I contadini del luogo dissero ch’era stregata; e

nessuno, fuorché il parroco e il sacrestano, si avvicinò più al campanile.

La verità è che lassù viveva, nella paura e nella solitudine, una povera

ragazza, nutrita di nascosto dai due uomini.

Vi rimase finché le truppe tedesche ripartirono. Poi, una sera, il parroco si fece

prestare il calesse dal fornaio e ricondusse personalmente la sua prigioniera fino

alle porte di Rouen. Quivi giunti, il sacerdote l’abbracciò, ella discese e, a piedi,

raggiunse in fretta la casa pubblica, la cui padrona credeva che fosse morta.

La trasse di lì, poco tempo dopo, un patriota senza pregiudizi, il quale

dapprima s’innamorò di lei per la sua bella azione, poi le volle bene per la sua

persona e la sposò e ne fece una signora che non valeva meno di tante altre.

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PLENILUNIO

Portava bene il suo nome battagliero, don Marignan. Era un sacerdote alto e

magro, fanatico, di animo retto ma in continua esaltazione. La sua fede era salda,

senza oscillazioni. Era sinceramente convinto di conoscere il suo Dio, di capirne i

disegni, le volontà, le intenzioni.

Talvolta, mentre passeggiava a gran passi lungo il vialetto del suo piccolo

presbiterio di campagna, gli nasceva nella mente una domanda: «Perché Dio ha

fatto questo?». Cercava, con ostinazione, mettendosi nei panni di Dio, e finiva

quasi sempre col trovare la risposta. Non era lui la persona da mormorare, in uno

slancio di pia umiltà: «Signore, i vostri disegni sono impenetrabili...». Diceva tra

sé: «Sono il servo di Dio, quindi devo sapere i motivi delle sue azioni, e prevenirli

se non li so».

In natura tutto gli appariva creato secondo una logica assoluta ed ammirevole.

Domande e risposte si equilibravano sempre: l’alba esisteva perché il risveglio

fosse allegro, le giornate perché le biade maturassero, le serate per preparare al

sonno e le notti buie per dormire.

Le quattro stagioni coincidevano con tutte le necessità dell’agricoltura; mai lo

avrebbe sfiorato il sospetto che la natura non abbia intenzioni, che tutto ciò che

vive si sia dovuto piegare alle dure necessità delle epoche, dei climi, della materia.

Odiava la donna, inconsciamente, la disprezzava per istinto. Spesso ripeteva le

parole di Gesù Cristo: «Donna, che v’è tra me e te?», aggiungendo: «Si direbbe che

anche Dio sia scontento di questa sua opera». Per lui la donna era proprio la

fanciulla dodici volte impura di cui parla il poeta. Era il tentatore che aveva

trascinato al peccato il primo uomo e seguitava nella sua opera di dannazione;

l’essere debole, pericoloso, che misteriosamente turba. E più ancora del loro

corpo, abisso di perdizione, odiava il loro animo amoroso.

Aveva sentito spesso il loro amore riversarglisi addosso, e benché fosse sicuro

d’essere inattaccabile, lo faceva andare in bestia quel bisogno di amare che

sentiva fremere continuamente in esse.

Secondo lui Dio aveva creato la donna soltanto per tentare l’uomo e metterlo

alla prova. Ci si doveva accostare a lei con cautele difensive, temendola come una

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trappola. E difatti ella era come una trappola, con le sue braccia tese e le labbra

dischiuse verso l’uomo.

Era indulgente con le suore, perché i voti le avevano rese innocue; ma

nonostante questo le trattava con durezza, perché sentiva sempre vivo, in fondo a

quei loro cuori incatenati ed umiliati, l’eterno amore che giungeva fino a lui,

benché fosse prete. Lo sentiva nei loro sguardi, più intrisi di pietà degli sguardi

dei monaci, nelle loro estasi in cui si mischiava il sesso nei loro slanci verso

Cristo, che lo indignavano perché si accorgeva che quello era amor di donna,

amor carnale; sentiva quel maledetto amore anche nella loro docilità, nella

dolcezza della voce quando gli parlavano, nei loro occhi bassi, nelle loro lacrime

rassegnate quando le rimproverava con durezza.

Quando usciva dal convento scrollava la sottana e se ne andava svelto svelto,

come se fuggisse un pericolo.

Aveva una nipote che viveva con la madre in una casetta vicino a lui. S’era

ficcato in capo di farla diventare suora di carità.

Era graziosa, spensierata, allegra. Quando lo zio le faceva la predica, rideva:

quand’egli si offendeva con lei, lo abbracciava di slancio, stringendoselo al cuore,

mentre lui senza volere cercava di svincolarsi da quell’abbraccio che gli faceva

godere una dolce gioia, risvegliando in lui quel senso della paternità che dorme in

tutti gli uomini.

Le parlava spesso di Dio, del suo Dio, quando camminavano insieme nei

sentieri in mezzo ai campi. Lei non lo ascoltava e guardava il cielo, le erbe, i fiori,

con una tale felicità di vivere che le sprizzava dallo sguardo. Ogni tanto si

slanciava ad acchiappare un insetto e quando l’aveva preso gridava: - Ma guarda,

zio, com’è carino, mi viene voglia di baciarlo... - Quel bisogno di baciare le mosche

o dei fiori irritava e sconvolgeva il sacerdote, che vi ritrovava una volta di più

l’insopprimibile amore che germina sempre nel cuore femminile.

Un giorno la moglie del sagrestano, che gli sbrigava le faccende di casa, gli

venne a dire con una certa cautela che la sua nipote aveva l’innamorato.

Provò un turbamento terribile, restò col fiato sospeso, col viso tutto

insaponato, perché si stava facendo la barba.

Quando si riprese e poté riflettere e parlare esclamò:

- Non è vero, Mélanie; questa è una bugia!

La contadina si posò una mano sul cuore:

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- Che il Signore mi fulmini se dico una bugia, signor curato. Vi dico che si

vedono tutte le sere, dopo che la vostra sorella è andata a letto. Si trovano al

fiume. Se volete vederli andateci, dalle dieci a mezzanotte.

L’abate smise di grattarsi il mento e cominciò a passeggiare furiosamente,

come faceva quand’era oppresso da gravi pensieri. Quando volle ricominciare a

radersi si tagliò tre volte, dal naso fino all’orecchio.

Restò taciturno per tutta la giornata, pieno d’indignazione e di collera. Al suo

furore di sacerdote davanti all’invincibile amore si aggiungeva l’esasperazione del

padre morale, del tutore, del reggitore d’anima, ingannato, derubato, preso in giro

da una ragazzina; l’egoistica sensazione dei genitori ai quali una fanciulla

annuncia che senza di loro e malgrado loro, ha scelto il suo sposo.

Dopo cena si sforzò di leggere un po’, ma non ci riuscì; e la sua furia cresceva.

Quando suonarono le dieci prese il bastone, un enorme bastone di quercia che

usava sempre nelle sue uscite notturne, quando andava da qualche malato.

Sorridendo guardò il grosso randello, col suo solido pugno di campagnolo gli fece

fare dei minacciosi mulinelli. Ad un tratto lo alzò, e digrignando i denti lo fece

piombare su una seggiola la cui spalliera, spezzata, cadde sul pavimento.

Aprì la porta e si fermò sulla soglia, sorpreso dallo splendore del plenilunio,

tale che di rado capitava di vederlo.

E poiché la sua mente era eccitabile, come dovevano averla quei poeti

sognatori dei padri della Chiesa, egli fu subito distratto e commosso dalla

grandiosa e serena bellezza della pallida notte.

Nel suo giardinetto immerso in quella dolce luce, gli alberi da frutta allineati

disegnavano sul viale, con l’ombra, le loro gracili membra di legno appena

rivestito di foglie; e il caprifoglio gigante arrampicato sul muro della casa esalava

un olezzo delizioso, come zuccherino, facendo ondeggiare nell’aria tiepida e

limpida della sera una sorta di anima profumata.

Respirò profondamente, bevendo l’aria come gli ubriachi bevono il vino, e

cominciò a camminare a passi lenti, meravigliato, estasiato, quasi dimentico della

nipote.

Appena fu in aperta campagna, si fermò per contemplare la pianura inondata

da quella luce carezzevole, immersa nell’incantesimo languido e dolce delle notti

serene. I rospi, senza interruzione, lanciavano nell’aria il loro verso corto e

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metallico, e gli usignoli lontani mischiavano la loro musica che fa sognare senza

pensare, musica lieve e vibrante fatta per i baci, alla seduzione del plenilunio.

Don Marignan riprese a camminare, sentendosi quasi mancare senza motivo.

Era come improvvisamente indebolito, stremato; aveva voglia di mettersi seduto e

di star fermo a contemplare, ad ammirare Dio attraverso la sua opera.

In fondo, seguendo le ondulazioni del fiumicello, serpeggiava una lunga fila di

pioppi. Un vapore fine e bianco, solcato, tinto d’argento e reso lucente dai raggi

della luna, era sospeso intorno e sulle sponde avviluppando il corso tortuoso

dell’acqua con una specie di ovatta leggera e trasparente.

Il sacerdote si fermò un’altra volta, pervaso da una commozione crescente ed

irresistibile.

Lo prese un dubbio, una vaga inquietudine; sorgeva in lui una di quelle

domande che talvolta si poneva.

Perché Dio aveva fatto tutto ciò? Se la notte è destinata al sonno,

all’incoscienza, al riposo, all’oblio di tutto, perché farla più bella del giorno, più

dolce dell’alba e della sera; e perché quell’astro lento e incantevole, più poetico del

sole, che pare destinato, per la sua discrezione, a illuminare cose troppo delicate

e misteriose per la luce del sole, perché rendeva le tenebre così trasparenti?

Perché il più bravo degli uccelli cantori non si riposava come gli altri e

gorgheggiava nell’ombra inquietante?

Perché quel mezzo velo gettato sul mondo? Perché quei brividi nel cuore,

quella commozione nell’anima, quel languore della carne?

Perché un tale sfoggio di seduzioni, che gli uomini non potevano vedere, se

dormivano nei loro letti? A chi era destinato un così sublime spettacolo, una

simile abbondanza di poesia gettata dal cielo sulla terra?

Don Marignan non capiva.

Ed ecco che in fondo alla prateria, sotto la volta di alberi bagnati di nebbia

lucente, apparvero due esseri che camminavano stretti.

L’uomo era più alto, teneva per la spalla la sua compagna e ogni tanto la

baciava sulla fronte. Essi animarono d’un tratto l’immobile paesaggio che li

circondava come una divina cornice fatta apposta per loro. Parevano un essere

solo, a cui quella notte calma e silenziosa fosse destinata; e camminavano in

direzione del sacerdote come una vivente risposta, la risposta che il suo Signore

dava alle sue domande.

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Il sacerdote restò immobile, col cuore che gli batteva forte sconvolto; gli pareva

di assistere ad una scena biblica, come gli amori di Ruth e Booz, al compiersi

della volontà divina in mezzo a uno di quegli scenari grandiosi di cui parlano i

sacri libri. Cominciarono a ronzargli per il capo i versetti del Cantico dei Cantici,

le grida ardenti, i richiami dei corpi, tutta la calda poesia del poema ardente

d’amore.

«Forse Dio ha creato queste notti per velare con l’ideale gli amori degli uomini»,

disse tra sé.

E indietreggiò davanti alla coppia allacciata che seguitava a camminare.

Eppure era la sua nipote; ma si chiedeva se non avrebbe disubbidito a Dio. Dio

non permette l’amore, se lo circonda d’un simile splendore?

Fuggì smarrito, quasi vergognandosi, come se fosse penetrato in un tempio nel

quale non aveva diritto d’entrare.

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151

QUEL PORCO DI MORIN

I

- Senti, mio caro, - dissi a Labarbe, - hai detto un’altra volta le quattro parole:

«Quel porco di Morin». Perché, santo cielo, non ho mai sentito parlare di Morin

senza che lo si qualificasse «porco»?

Labarbe, che oggi è deputato, mi guardò:

- Come fai ad essere di La Rochelle e non conoscere la storia di Morin?

Confessai che non conoscevo la storia di Morin. Allora Labarbe si fregò le mani

e cominciò a raccontare.

- Tu l’hai conosciuto Morin, vero? e ti ricordi la sua bella bottega di mercerie

sul porto, a La Rochelle?

- Sì, perfettamente.

- Ebbene, sappi che Morin nel 1862 o 1863 decise di andare per quindici

giorni a Parigi a spassarsela, con il pretesto di rinnovare le sue mercanzie.

Capisci cosa vogliano dire per un commerciante di provincia quindici giorni a

Parigi. Roba da mettere il fuoco nelle vene. Uno spettacolo per sera, le donne che

ti stuzzicano, un continuo eccitamento della fantasia. C’è da impazzire. Non si

vede altro che ballerine in maglia, attrici scollate, gambe tornite, spalle morbide,

tutto a portata di mano senza che si osi, o si possa toccare. A malapena si può

assaggiare, una volta o due, qualche cosa di più comune. E riparti con il cuore in

agitazione, l’animo eccitato, con una specie di prurito di baci che ti formicola

sulle labbra.

«Morin era in questo stato quando prese il biglietto per il rapido di La Rochelle

delle 8,40 di sera, e passeggiava pieno di rimpianti, e assai turbato, nell’atrio

della stazione d’Orléans. Si fermò di botto davanti ad una giovane donna che

stava abbracciando una vecchia signora. Aveva la veletta rialzata, e Morin, rapito,

mormorò:

« - Perdio! Che bella figliola!

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«Fatti gli addii alla vecchia ella entrò nella sala d’aspetto e Morin la seguì; poi

si diresse verso la banchina e Morin continuò a seguirla, poi salì in uno

scompartimento vuoto e Morin la seguì ancora.

«C’erano pochi viaggiatori nel rapido. La locomotiva fischiò; il treno partì.

Erano soli.

«Morin la divorava con gli occhi. Ella dimostrava da diciannove a vent’anni;

bionda, alta, di portamento sicuro. Si avvolse una coperta da viaggio intorno alle

gambe, e si allungò sul sedile per dormire.

«Morin si chiedeva: “Chi sarà?”. E mille supposizioni, mille congetture gli

passavano per il capo. Diceva a se stesso: “Si raccontano tante avventure di

viaggio. Forse questa è una che mi viene offerta a me. Chissà? La buona fortuna

capita inattesa. Basterebbe forse che io fossi audace. Non è stato Danton a dire:

‘Audacia, audacia, e sempre audacia’? Se non è stato Danton deve essere

Mirabenu. Non importa. Sì, ma l’audacia mi manca, ecco il punto. Oh, se si

sapesse, se si potesse leggere nei cuori! Sono certo che ogni giorno passiamo

accanto a occasioni magnifiche, senza accorgercene. Basterebbe un solo gesto per

farmi capire che ci sta...”

«A questo punto si mise a escogitare combinazioni che lo potessero portare al

trionfo. Immaginava modi cavallereschi di far conoscenza: piccole cortesie che egli

le avrebbe usato; una conversazione viva, galante, che sarebbe finita in una

dichiarazione, che sarebbe finita in... in ciò che pensi.

«Intanto la notte passava e la bella fanciulla continuava a dormire mentre

Morin meditava sulla sua capitolazione.

«Si fece giorno, e il sole mandò il suo primo raggio, un lungo raggio chiaro che

dall’orizzonte giungeva al dolce viso della dormiente.

«Ella si sveglio, si sedette, guardò la campagna, guardo Morin e sorrise.

Sorrise come una donna felice, in modo lusinghiero e allegro. Morin trasalì. Senza

dubbio quel sorriso era per lui, era un invito discreto, era il segnale sognato che

aspettava.

Quel sorriso voleva dire: “Siete uno stupido, uno scimunito, un babbeo, per

essere rimasto impalato sul vostro sedile da ieri sera. Suvvia, guardatemi, non

sono deliziosa? E voi siete capace di restar tutta la notte a tu per tu con una bella

donna senza neanche tentare, stupidone?”

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«Lo guardava sempre sorridendo, anzi cominciava a ridere; ed egli non capiva

più nulla, cercava una parola acconcia, un complimento, insomma qualcosa, una

cosa qualunque. Ma non trovava nulla. Allora, preso dall’audacia degli inetti,

pensò: “Rischio il tutto per tutto; peggio per me”, e di colpo, senza neanche

gridare “attenzione”, si alzò a braccia aperte, con le labbra ghiottamente protese,

e afferrando la ragazza la baciò.

«Ella si rizzò di scatto gridando: - Aiuto! - e, cacciando urla di spavento, aprì lo

sportello; folle di paura agitava le braccia di fuori, cercando di slanciarsi, mentre

Morin, smarrito, convinto che fosse per buttarsi sulla scarpata, la tratteneva per

la gonna balbettando: - Signora... Oh!... Signora...

«Il treno rallentò l’andatura e si fermò. Due ferrovieri accorsero ai disperati

segnali della giovane donna, la quale cadde nelle loro braccia singhiozzando: -

Quest’uomo ha tentato di... di... - E svenne.

«Erano giunti alla stazione di Mauzé. Il gendarme di servizio arrestò Morin.

«Quand’ebbe ripreso i sensi, la vittima della sua brutalità fece la deposizione.

Venne redatto un verbale. Il povero commerciante poté tornare a casa soltanto la

sera, colpito da un procedimento giudiziario per oltraggio al pudore in luogo

pubblico.

II

«A quel tempo ero redattore capo del Fanale delle Charentes, e mi incontravo

tutte le sere con Morin al caffè del Commercio.

«Il giorno dopo l’avventura egli venne a cercarmi perché non sapeva cosa gli

convenisse fare. Non gli nascosi quello che pensavo: - Non sei altro che un porco.

Non ci si comporta in quel modo.

«Piangeva; sua moglie l’aveva picchiato; già vedeva rovinata la sua azienda, il

suo nome nel fango, disonorato; i suoi amici, indignati, gli avrebbero tolto il

saluto. Finì per farmi pietà e chiamai il mio collaboratore Rivet, un ometto

caustico ma di buon consiglio, per sapere cosa ne pensasse.

«Mi suggerì di recarmi dal procuratore imperiale che era un mio amico. Feci

tornare a casa Morin e andai dal magistrato.

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«Appresi che la donna oltraggiata era la signorina Henriette Bonnel, la quale

aveva preso il diploma di maestra in quei giorni a Parigi, e poiché non aveva più

né padre né madre, veniva a trascorrere le vacanze dallo zio e dalla zia, bravi

borghesi di Mauzé.

«La situazione di Morin era grave in quanto che lo zio aveva sporto denuncia.

Il pubblico ministero rinunciava a procedere se la denuncia fosse stata ritirata.

Era questo che bisognava ottenere.

«Mi recai di nuovo da Morin. Lo trovai a letto, malato di paura e di dolore. Sua

moglie, un donnone ossuto e barbuto, non finiva di maltrattarlo. Mi fece passare

in camera gridandomi sulla faccia: - Venite a vedere quel porco di Morin? Eccolo

lì, guardatelo il bel fringuello!

«E si piantò davanti al letto coi pugni sui fianchi. Io esposi la situazione, e

Morin mi supplicò di recarmi dalla famiglia della ragazza: era una missione

delicata ma accettai. Quel poveraccio non smetteva di dirmi: - Ti garantisco che

non l’ho neanche baciata, no, neanche baciata, te lo giuro!

« - Fa lo stesso; sei proprio un porco, - risposi, e presi mille franchi che mi

aveva messo in mano perché li adoperassi nel modo più opportuno.

«Mi garbava poco avventurarmi da solo nella casa dei parenti della ragazza, e

perciò pregai Rivet di accompagnarmi. Accettò a patto che ci andassimo subito,

perché il pomeriggio del giorno dopo aveva cose urgenti da sbrigare a La Rochelle.

«Due ore dopo suonavamo il campanello di una graziosa villetta. Venne ad

aprirci una bella ragazza. Era certamente lei. Sottovoce dissi a Rivet: - Perdio,

comincio a capire Morin.

«Il signor Tonnelet, lo zio, era per l’appunto un abbonato del Fanale, nostro

fervente correligionario in politica, e ci accolse a braccia aperte, facendoci mille

congratulazioni e rallegramenti. Ci strinse la mano entusiasta di accogliere in

casa sua i due redattori del suo giornale. Rivet mi sussurrò all’orecchio: - Credo

che riusciremo ad aggiustare la faccenda di quel porco di Morin.

«La nipote si era allontanata, ed io intavolai il delicato argomento. Feci

intravedere lo spauracchio dello scandalo, feci notare l’inevitabile discredito che

la giovane avrebbe subito per una faccenda come quella in quanto che nessuno

avrebbe creduto che si fosse trattato soltanto di un bacio.

«Il brav’uomo pareva incerto, e non poteva decidere nulla senza la moglie che

sarebbe tornata a casa soltanto a sera inoltrata. Improvvisamente esclamò con

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aria di trionfo: - Ecco, ho un’ottima idea. Siete qui e non vi mollo. Rimarrete a

mangiare con noi e dormirete qui tutti e due; quando sarà venuta mia moglie

vedrete che ci metteremo d’accordo.

«Rivet si mostrava affatto alquanto restio; ma il desiderio di levare dai fastidi

quel porco di Morin ebbe il sopravvento, e accettammo l’invito.

«Lo zio, alzatosi raggiante, chiamò la nipote e ci propose una passeggiata nella

sua proprietà, proclamando: - A stasera le faccende serie.

«Rivet e lui si misero a parlare di politica. In quanto a me, mi ritrovai subito

indietro di pochi passi, a fianco della ragazza che era proprio affascinante,

affascinante.

«Con infinita cautela, presi a parlarle dell’accaduto, cercando di farmene

un’alleata.

«Ella non si mostrava affatto imbarazzata; mi ascoltava con l’aria di chi si

diverte un mondo.

«Le dicevo: - Pensate, signorina, a tutti i fastidi che avreste. Vi toccherà

comparire in tribunale, affrontare sguardi maliziosi, parlare dinanzi a tutti,

raccontare a tutti la penosa scena del treno. Ma via, diciamolo tra noi, non

avreste fatto meglio a non dir nulla, a mettere a posto quello scostumato senza

chiamar gente e magari cambiando carrozza?

«Ella si mise a ridere: - Avete ragione! Ma che volete mai? Ho avuto paura, e

quando si ha paura, non si ragiona. Quando ho capito la mia situazione, mi sono

rammaricata di aver gridato; ma era troppo tardi. Dovete anche considerare che

quell’imbecille si è buttato su di me come una furia, senza neanche dire una

parola, con una faccia da pazzo. Non avevo neanche intuito cosa volesse.

«Mi guardava fisso, senza turbamento o timidezza. Dicevo tra me: “È in

gamba, questa ragazza. Capisco che quel porco di Morin si sia sbagliato”.

«Ripresi in tono scherzoso: - Vedete, signorina, dovete ammettere che egli ha

delle scuse, poiché, tutto considerato, non ci si può trovare dinanzi a una bella

creatura come voi senza provare il desiderio assolutamente legittimo di

abbracciarla.

«Rise più forte, mettendo in mostra tutti i denti: - Tra il desiderio e l’azione,

signore, c’è posto per il rispetto.

«La frase era curiosa, anche se poco chiara. Le chiesi bruscamente: - Ebbene,

vediamo, se adesso vi baciassi io, cosa fareste?

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«Si fermò per squadrarmi da capo a piedi: - Oh, voi, non sarebbe la stessa

cosa, - rispose tranquillamente.

«Lo sapevo bene, perdio, che non sarebbe stata la stessa cosa, dal momento

che in tutta la provincia io ero chiamato: “il bel Labarbe”. Avevo, allora,

trent’anni. Tuttavia le chiesi: - E perché?

« - Ecco, perché non siete stupido quanto lui, - mi rispose alzando le spalle.

Poi, guardandomi di sottecchi aggiunse: - Né altrettanto brutto.

«Prima che ella avesse potuto fare un qualsiasi movimento per sottrarsi, le

avevo schioccato un bel bacio sulla guancia. Troppo tardi ella fece un balzo da un

lato: - Ah, bene! anche voi non fate complimenti. Ma vi consiglierei di non

ricominciare il giochetto.

«Assunsi un’aria umile e le dissi a mezza voce: - Oh! signorina, in quanto a

me, avrei un solo desiderio nel cuore: comparire dinanzi al tribunale sotto la

stessa accusa di Morin.

«Fu la sua volta di dirmi: - E perché.

«Con serietà la fissai negli occhi: - Perché siete una delle più belle creature che

esistano; perché avervi voluto usare violenza sarebbe per me un titolo, un vanto,

una gloria. Perché quando vi avesse vista, la gente direbbe: “Capisco; a Labarbe

metteva conto di rischiare, e in fin dei conti è stato fortunato”.

«Ella tornò a ridere di cuore.

« - Siete proprio buffo!

«Non aveva finito di pronunciare la parola “buffo” che già io la stringevo tra le

braccia tempestandola di baci ingordi ovunque vi fosse un posticino, sui capelli,

sulla fronte, sugli occhi, talvolta sulla bocca, sulle guance, su tutto il capo nel

quale una parte rimaneva sempre vulnerabile mentre ella cercava di difenderne

un’altra.

«Infine si svincolò, rossa e offesa. - Siete volgare, signore, e mi fate pentire di

avervi dato retta.

«Un po’ confuso, le afferrai una mano balbettando: - Scusatemi, scusatemi,

signorina. Vi ho offesa: sono stato brutale! Ma perdonatemi. Se sapeste!... -

Cercavo invano una giustificazione.

« - Non voglio saper nulla, signore, - rispose dopo un breve silenzio.

«Ma mi era venuta un’idea ed esclamai:

« - Signorina, è giusto un anno che vi amo!

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«Realmente sorpresa, rialzò gli occhi. - Sì, signorina, ascoltatemi, - continuai. -

Non conosco Morin e me ne infischio di lui. Non mi importa che vada o no in

prigione e davanti ai tribunali. Voi, vi ho vista qui, l’anno scorso... eravate davanti

al cancello. Rimasi scosso vedendovi e la vostra immagine non mi ha più

abbandonato. Che mi crediate o no, ha poca importanza. Mi siete parsa adorabile;

ero tutto preso del vostro ricordo, volevo rivedervi; ho colto il pretesto di quello

stupido di Morin, ed eccomi qui. Le circostanze mi hanno fatto oltrepassare i

limiti, ma perdonatemi, ve ne scongiuro, perdonatemi.

«Cercando la verità nel mio sguardo, pronta a sorridere di nuovo, mormorò: -

Bugiardo!

«Alzai la mano e con tono sincero (credo anzi che fossi sincero): - Vi giuro che

non mento.

«Ella disse soltanto: - Lasciamo andare.

«Eravamo soli, proprio soli. Rivet e lo zio erano scomparsi nelle svolte dei

vialetti, e io le feci una vera dichiarazione, lunga, dolce, mentre le stringevo e le

baciavo le dita. Ascoltava le mie parole come cose nuove e gradevoli, incerta se

dovesse credervi.

«Finivo per sentirmi turbato e credere a quel che dicevo: ero pallido, oppresso,

tremante; pian piano le passai un braccio intorno alla vita.

«Le parlai sottovoce tra le piccole ciocche ricciolute che le scendevano intorno

alle orecchie. Era rimasta incantata, tanto che pareva morta.

«Poi le nostre mani si incontrarono ed ella strinse le mie; la serrai lentamente

alla vita in una stretta tremante ma sempre più forte; ella non si sottraeva; le

sfiorai la guancia con la bocca, e improvvisamente le mie labbra incontrarono le

sue senza che le avessi cercate. Fu un bacio lungo, lungo, e sarebbe durato anche

di più se non avessi inteso fare: - Hum, hum - qualche passo dietro di me.

«Ella fuggì attraverso un cespuglio. Mi voltai e vidi Rivet che stava

raggiungendomi.

«Si piantò in mezzo al viale dicendomi, serio: - Ebbene, in questo modo sistemi

la faccenda di quel porco di Morin?

«Risposi fatuo: - Si fa quel che si può, mio caro. E lo zio? Cos’hai combinato?

Della nipote ne rispondo io.

« - Con lo zio sono stato meno fortunato, - dichiarò Rivet.

«Lo presi sottobraccio per rientrare in casa.

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III

«La cena mi diede il colpo di grazia. Ero accanto a lei e continuamente le

nostre mani si incontravano sotto la tavola, il mio piede premeva il suo, i nostri

sguardi si congiungevano, si univano.

«Dopo il pranzo si fece un giretto al chiaro di luna e io le versai nell’anima

tutta la tenerezza che mi saliva al cuore. La tenevo stretta contro di me,

baciandola continuamente, inumidendo le mie labbra con le sue. Lo zio e Rivet ci

precedevano discutendo. Le loro ombre li seguivano gravemente sulla ghiaia dei

viali.

«Tornammo a casa. Poco dopo, il fattorino del telegrafo portò un telegramma

della zia che annunciava il suo ritorno soltanto per la mattinata seguente, alle

sette, con il primo treno.

« - Henriette, vai a far vedere le loro camere a questi signori, - disse lo zio.

Stringemmo la mano al brav’uomo e salimmo di sopra. Ella ci condusse prima

alla camera destinata a Rivet, il quale mi sussurrò all’orecchio: - Non c’è stato

pericolo che ci abbia fatto vedere la tua per prima. - Poi accompagnò me. Rimasti

soli, la presi di nuovo tra le braccia, cercando di farle perdere la testa in modo di

mandare all’aria ogni resistenza. Ma quando sentì che stava per cedere, mi sfuggì.

«Mi misi a letto assai contrariato, agitatissimo, scornatissimo, sicuro che non

avrei dormito; e mentre stavo cercando quale balordaggine avessi potuto

commettere, sentii bussare alla porta.

« - Chi è? - domandai.

« - Io - , rispose una voce flebile.

«Mi rivestii in gran fretta; aprii ed ella entrò.

« - Ho dimenticato, - disse, - di chiedervi cosa desiderate per colazione:

cioccolata, tè o caffè?

«L’avevo stretta impetuosamente, la divoravo di baci e balbettavo: - Prendo...

prendo... prendo... - Ma ella mi sgusciò dalle braccia, spense il lume e sparì.

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«Rimasi solo, al buio, furente. Cercavo i fiammiferi e non li trovavo.

Finalmente riuscii a scovarli, e mezzo pazzo uscii nel corridoio con il candeliere in

mano.

«Cosa avrei fatto? Ormai non ragionavo più, volevo ritrovarla, la volevo. Feci

qualche passo. “E se entro in camera dello zio?”, pensai a un tratto. Rimasi

immobile, con la testa vuota e il cuore che mi scoppiava. Dopo qualche istante mi

venne in mente una risposta: “Perdio, dirò che cercavo la camera di Rivet per

parlare con lui di una cosa urgente”.

«Mi misi a ispezionare le porte, sforzandomi di scoprire la sua, di lei. Non c’era

nulla che potesse servirmi d’indicazione. Girai a caso una maniglia. Apersi,

entrai... Henriette, seduta sul letto, impaurita, mi guardava.

«Allora feci scorrere pian piano il paletto, e, avvicinandomi a lei in punta di

piedi, le dissi: - Ho dimenticato, signorina, di chiedervi qualcosa da leggere. - Ella

si dibatteva; ma non tardai ad aprire il libro che cercavo. Il titolo non lo dico. È

veramente il più meraviglioso dei romanzi, il poema più divino.

«Voltata la prima pagina, me lo lasciò leggere a mio piacere; ne sfogliai tanti

capitoli che le nostre candele si consumarono tutte.

«Quindi, dopo averla ringraziata, stavo tornando con passo vellutato in camera

mia, quando venni fermato da una mano brutale, e una voce, quella di Rivet, mi

bisbigliò sul naso: - Non hai ancora finito di sistemare la faccenda di quel porco

di Morin?

«Alle sette del mattino ella mi portò di persona una tazza di cioccolata. Non ne

ho mai bevuta di simile. Una cioccolata da far svenire, soffice, vellutata,

profumata, inebriante. Non mi riusciva di staccare la bocca dall’orlo delizioso di

quella tazza.

«Appena la ragazza fu uscita entrò Rivet, che sembrava innervosito, seccato

come uno che non abbia potuto dormire, e mi disse accigliato: - Se non la pianti,

sai, finirai per rovinare la faccenda di quel porco di Morin.

«Alle otto arrivò la zia. La discussione fu breve. Quelle brave persone ritirarono

la denuncia e io avrei lasciato cinquecento franchi ai poveri del comune.

«Volevano che rimanessimo per tutta la giornata. Si sarebbe anche organizzata

una gita per visitare certe rovine. Henriette, dietro le spalle dei congiunti, mi

faceva dei cenni col capo: “Sì, rimanete”. Per me avrei accettato, ma Rivet si

ostinò a rifiutare.

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«Lo presi in disparte; lo pregai, lo scongiurai. Gli dicevo: - Senti, Rivettino,

fallo per me. - Pareva esasperato, e continuava a dirmi sulla faccia: - Ne ho

abbastanza, mi capisci, delle faccende di quel porco di Morin!

«Fui costretto a partire anch’io. Fu uno dei momenti più penosi della mia vita.

Avrei voluto continuare a sistemare quella faccenda per tutto il resto dei miei

giorni.

«In treno, dopo le energiche e silenziose strette di mani degli addii, dissi a

Rivet: - Non sei che un bestione. - Caro mio, - mi rispose, - cominciavi a seccarmi

un po’ troppo.

«Giunti agli uffici del Fanale vidi che c’era molta gente che ci aspettava...

Appena ci videro, gridarono: - Ebbene, l’avete sistemata la faccenda di quel porco

di Morin?

«Tutta La Rochelle ne era stata turbata. Rivet, che durante il viaggio si era

rasserenato, trattenne a stento le risa, e dichiarò:

« - Sì, tutto è sistemato, grazie a Labarbe.

«E andammo da Morin.

«Era disteso in una poltrona, con i senapismi sulle gambe e le compresse

d’acqua diaccia sul cranio, spasimando di ansia. Tossiva continuamente, con una

tossettina di agonizzante, senza che si sapesse dove l’avesse presa. La moglie lo

sogguardava con gli occhi di una tigre, pronta a divorarlo.

«Appena ci vide, ebbe un tremito che gli scuoteva polsi e ginocchi - Tutto

sistemato, sporcaccione; ma non ricominciare, - gli dissi.

«Si alzò senza fiato, mi prese le mani, me le baciò come se fossi un principe,

pianse, per poco non svenne; abbracciò Rivet, abbracciò, perfino la moglie che

con uno spintone lo fece ricadere nella poltrona.

«Ma da quel colpo non si rimise mai, la paura era stata troppo forte.

«In tutta la contrada ormai lo chiamavano soltanto “Quel porco di Morin”, e

questo epiteto lo trafiggeva come una stilettata ogni qualvolta lo sentiva.

«Quando un ragazzaccio gridava per la strada: - Porco! - egli istintivamente

voltava il capo. Gli amici lo crivellavano di scherzi e ogni volta che mangiava

prosciutto gli chiedevano: - È roba tua?

«Morì due anni dopo.

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«Quanto a me, allorché stavo per presentarmi alle elezioni del 1873, andai a

fare una visita interessata al nuovo notaio di Tausserre, il dottor Belloncle. Venni

ricevuto da una bella donna, alta e formosa.

« - Non mi riconoscete? - mi disse.

« - Balbettai: - Ma... no... signora...

« - ... Henriette Bonnel.

« - Ah!... - E sentii che impallidivo.

«Ella non dimostrava nessun imbarazzo e mi guardava sorridendo.

«Appena mi ebbe lasciato solo col marito questi mi prese le mani e me le

strinse da spezzarmele: - Da tanto tempo, caro signore, volevo venire a trovarvi.

Mia moglie mi ha parlato molto di voi. So... sì, so in quali dolorose circostanze

l’avete conosciuta, so anche che siete stato corretto, pieno di delicatezza di tatto,

di devozione in quella faccenda.. - Esitò, poi a bassa voce, come se dicesse una

frase grossolana: - Nella faccenda di quel porco di Morin».

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DUE AMICI

Parigi era bloccata, affamata, rantolante. Sui tetti i passeri diminuivano e le

fogne si stavano spopolando. Si mangiava qualsiasi cosa.

In una limpida mattinata di gennaio Morissot, orologiaio di professione e

guardia nazionale per necessità, stava passeggiando tristemente sul boulevard di

circonvallazione, con le mani nelle tasche dei calzoni della divisa e la pancia

vuota, quando si fermò di botto davanti a un suo confratello, nel quale riconobbe

un amico. Era il signor Sauvage, una conoscenza fatta sulla sponda del fiume.

Tutte le domeniche, prima della guerra, Morissot partiva all’alba, con una

canna di bambù in mano, e un barattolo di latta a tracolla. Prendeva il treno

d’Argenteuil, scendeva a Colombes e arrivava a piedi fino all’isola Marante.

Appena giunto nel luogo dei suoi sogni cominciava a pescare, e pescava fino a

buio.

Tutte le domeniche s’incontrava laggiù con un ometto grasso e gioviale, il

signor Sauvage, merciaio in via della Madonna di Loreto, anche lui fanatico

pescatore. Spesso stavano una mezza giornata a fianco a fianco, con la lenza in

mano e i piedi penzoloni sull’acqua; erano diventati amici.

Certi giorni non parlavano affatto; altre volte facevano quattro chiacchiere. Ma

andavano benissimo d’accordo anche senza dir nulla, poiché avevano gli stessi

gusti e una identica sensibilità.

Nelle mattine di primavera, verso le dieci, quando il sole ringiovanito faceva

galleggiare sul fiume tranquillo quella nebbiolina che scorre insieme all’acqua, e

riversava sulla schiena dei due accaniti pescatori il benefico calore della nuova

stagione, Morissot diceva talvolta al suo vicino: - Che dolcezza, eh? - e Sauvage

rispondeva: - Non c’è nulla di meglio. - Questo bastava perché si capissero e si

stimassero.

In autunno, verso la fine della giornata, quando il cielo insanguinato dal sole

al tramonto rifletteva nell’acqua le nuvole scarlatte, imporporava tutto il fiume,

infiammava l’orizzonte, rendeva incandescenti e dorava, intorno a loro, gli alberi

già imbionditi, e frementi del brivido dell’inverno, Sauvage guardava sorridendo

Morissot, e diceva: - Che spettacolo! - E Morissot rispondeva, senza levar gli occhi

dal suo sughero: - È meglio del boulevard, no?

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Appena si furono riconosciuti, si strinsero energicamente la mano, commossi

di ritrovarsi in tempi così mutati. Sospirando, Sauvage mormorò: - Quante ne son

successe... - Morissot, serio serio, gemette: - E che tempaccio! Questa è la prima

bella giornata dell’anno.

Difatti il cielo era azzurro e luminoso.

S’incamminarono l’uno accanto all’altro, tristi e pensierosi. Morissot continuò:

- E la pesca, eh? che bel ricordo!

- Quando ci torneremo? - chiese Sauvage.

Entrarono in un caffeuccio e presero insieme l’aperitivo; dopo ricominciarono

a passeggiare sul marciapiede.

D’un tratto Morissot si fermò: - Un altro gocciolino? - Sauvage approvò: - Ai

vostri ordini. - Entrarono in un secondo caffè.

Si sentivano storditi uscendo, turbati come chiunque a digiuno si riempia la

pancia d’alcool.

L’aria era dolce. Un venticello carezzevole solleticava i loro visi.

L’aria tiepida finì di ubriacare Sauvage, che si fermò: - E se ci andassimo?

- Dove?

- A pescare.

- E dove?

- Alla nostra isola. Gli avamposti francesi sono dopo Colombes. Io conosco il

colonnello Dumolin; ci farà passare senza difficoltà.

Morissot fremeva di desiderio: - Sicuro, ci sto. - E si lasciarono per andare a

prendere i loro arnesi.

Un’ora dopo camminavano, accanto, sulla strada maestra; giunsero alla villa

occupata dal colonnello. Alla loro richiesta costui sorrise e acconsentì al

capriccio. Si rimisero in cammino forniti di un lasciapassare.

Ben presto oltrepassarono gli avamposti, attraversarono Colombes

abbandonata, e si trovarono sul margine dei piccoli vigneti che scendono verso la

Senna. Erano circa le undici

Di fronte, il villaggio di Argenteuil pareva morto. Le alture di Orgemont e di

Sannois dominavano il paese. La grande pianura che arriva fino a Nantes era

completamente vuota, i ciliegi spogli e la terra grigia.

Sauvage mostrando a dito le alture mormorò: - Lassù ci sono i prussiani. - I

due amici si sentivano paralizzati dall’inquietudine davanti al paese deserto.

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I prussiani! Non li avevano mai visti, ma erano mesi che li sentivano, intorno a

Parigi, distruggere la Francia, saccheggiare, massacrare, affamare, invisibili ed

onnipotenti. Un superstizioso terrore s’aggiungeva al loro odio per quel popolo

sconosciuto e vincitore.

- E se li incontrassimo? - balbettò Morissot.

Sauvage rispose, con la spavalderia parigina sempre viva nonostante tutto:

- Gli offriremo un po’ di fritto.

Tuttavia esitavano a inoltrarsi nella campagna, intimiditi dal gran silenzio.

Infine Sauvage si decise: - Via, andiamo; però, attenti...

Scesero in un vigneto, chinati in due, strisciando, approfittando dei cespugli

per coprirsi, con lo sguardo inquieto, e l’orecchio teso.

Dovevano ancora attraversare una striscia di terra nuda, per raggiungere la

sponda del fiume. Si misero a correre; e appena furono arrivati alla riva, si

rannicchiarono tra le canne secche.

Morissot incollò l’orecchio a terra per sentire se qualcuno camminasse

d’intorno. Non sentì nulla. Erano soli, proprio soli.

Rinfrancati, cominciarono a pescare.

Di fronte a loro, l’isola Marante, abbandonata, li nascondeva alla vista

dell’altra riva. La piccola trattoria era chiusa, pareva abbandonata da anni.

Sauvage pescò il primo ghiozzo, Morissot il secondo, e continuamente essi

tiravano su le lenze con una bestiolina d’argento che guizzava in cima al filo: una

vera pesca miracolosa.

Mettevano delicatamente i pesci dentro una borsa di rete a maglie molto fitte,

che era immersa nell’acqua, ai loro piedi. E si sentivano prendere da una

deliziosa gioia, la gioia di chi ritrova un piacere prediletto del quale è rimasto

privo per parecchio tempo.

Il buon sole scaldava dolcemente le loro spalle; non sentivano più nulla; non

pensavano più a nulla; il resto del mondo non esisteva più: pescavano.

A un tratto un sordo rumore che pareva venir di sottoterra fece tremare il

suolo. Il cannone ricominciava a tuonare.

Morissot volse la testa e vide, al disopra della riva, verso destra il gran profilo

del Mont-Valérien con un pennacchio bianco sulla fronte: la schiuma della

polvere che aveva sputato allora allora.

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Subito dopo un altro schizzo di fumo partì dalla cima della fortezza: dopo

alcuni istanti si sentì il brontolio d’un’altra detonazione.

Altre ancora ne seguirono: ogni tanto la montagna alitava il suo fiato mortale,

soffiava i vapori che si levavano pian piano nel cielo calmo, formando una nuvola

sopra la cima.

Sauvage alzò le spalle: - Eccoli che ricominciano - disse. Morissot, il quale

stava guardando con ansietà il piumino del suo sughero immergersi senza

interruzione, fu preso da un’improvvisa collera di uomo pacifico, contro quegli

arrabbiati che combattevano in quel modo e brontolò: - Bisogna essere dei veri

imbecilli per ammazzarsi così!...

- Son peggio delle bestie - rispose Sauvage.

E Morissot, che aveva pescato allora un’argentina, dichiarò: - Purtroppo sarà

sempre così, fintanto che ci saranno i governi...

Sauvage lo fermò: - La Repubblica non avrebbe dichiarato la guerra...

- Coi re c’è la guerra all’interno; con la repubblica c’è la guerra all’esterno, - lo

interruppe a sua volta Morissot.

Cominciarono tranquillamente a discutere, sbrogliando le grandi questioni

politiche col loro sano criterio di uomini quieti e limitati, trovandosi d’accordo su

questo: che non sarebbero mai stati liberi. E il Mont-Valérien tuonava senza

quiete, demolendo, un colpo dopo l’altro, le case francesi, macinando le strade,

sfracellando la gente, troncando tanti sogni, tante gioie attese, tante felicità

sperate; aprendo i cuori delle donne, i cuori delle ragazze, i cuori delle madri,

laggiù, in altri paesi, a sofferenze infinite.

- Così è la vita - disse Sauvage.

- Piuttosto dite che è la morte, - aggiunse ridendo Morissot.

Trasalirono, atterriti, sentendo dei passi alle loro spalle; voltatisi, videro in

piedi, dietro a loro, quattro uomini, quattro uomini armati e barbuti, vestiti con la

livrea, come domestici, che portavano in capo dei berretti schiacciati, e li

prendevano di mira coi fucili.

Le lenze sfuggirono dalle loro mani e cominciarono a seguire la corrente.

In capo a pochi istanti erano stati presi, legati, trascinati via, gettati in una

barca, e trasportati nell’isola.

Dietro la casa che credevano abbandonata videro una ventina di soldati

tedeschi.

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Una specie di gigante peloso, il quale, a cavalcioni d’una sedia, stava fumando

in una gran pipa di porcellana, chiese in ottimo francese: - E così, signori, avete

fatto una buona pesca?

Un soldato depose ai piedi dell’ufficiale la rete piena di pesci, che s’era curato

di portar via. Il prussiano sorrise: - Ah! a quanto vedo vi stava andando bene...

Ma ora dobbiamo parlar d’altro. Statemi a sentire e non vi confondete.

«Per me siete due spie mandate ad appostarmi. Allora io vi prendo e vi fucilo.

Facevate finta di pescare, per nascondere meglio le vostre intenzioni. Siete caduti

in mano mia, e tanto peggio per voi; siamo in guerra.

«Però, siccome venite dagli avamposti, sicuramente dovete sapere la parola

d’ordine, per poter rientrare. Ditemi questa parola d’ordine, e vi lascio liberi».

I due amici, l’uno vicino all’altro, tacevano, lividi, con le mani scosse da un

leggero tremolio nervoso.

L’ufficiale continuò: - Non lo saprà nessuno, e voi potrete tornarvene in santa

pace. Il segreto sparirà insieme a voi. Se invece rifiutate morirete, e subito.

Scegliete.

Continuarono a restare immobili, senza aprir bocca.

Il prussiano, sempre calmo, continuò, tendendo una mano verso il fiume: -

Pensate che fra cinque minuti sarete in fondo a quell’acqua! Fra cinque minuti!

Avrete dei parenti, no?

Il Mont-Valérien seguitava a brontolare.

I due pescatori erano ancora immobili e silenziosi. Il tedesco diede alcuni

ordini, nella sua lingua. Poi spostò la sedia, per non essere troppo vicino ai

prigionieri; e dodici uomini si andarono a mettere a venti passi di distanza, nella

posizione di pied-arm.

L’ufficiale riprese: - Vi do un minuto di tempo, non un secondo di più.

Si alzò d’improvviso avvicinandosi ai due francesi, e afferrato Morissot per il

braccio, lo trascinò in disparte e gli disse a bassa voce: - Presto, la parola

d’ordine! Il vostro compagno non ne saprà nulla; farò finta d’impietosirmi.

Morissot non rispose.

Allora il prussiano prese Sauvage e gli fece la stessa domanda.

Neanche Sauvage rispose.

Si ritrovarono un’altra volta a fianco a fianco.

L’ufficiale diede un ordine. I soldati alzarono le armi.

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Lo sguardo di Morissot cadde casualmente nella rete piena di ghiozzi che era

rimasta sull’erba a qualche passo da lui.

Un raggio di sole faceva luccicare i pesci ammassati, che si muovevano

ancora. Fu preso dallo smarrimento. Nonostante i suoi sforzi gli occhi gli si

riempirono di lacrime.

Balbettò: - Addio, signor Sauvage.

Sauvage rispose: - Addio, signor Morissot.

Si strinsero la mano, scossi da capo a piedi da brividi irreprimibili. L’ufficiale

gridò: - Fuoco!

I dodici colpi parvero un colpo solo.

Sauvage cadde di schianto con la faccia contro terra. Morissot, più alto,

oscillò, girò su se stesso, e cadde di traverso sul suo compagno, col viso rivolto al

cielo, mentre dalla giacca forata sul petto gli usciva un fiotto di sangue.

Il tedesco diede altri ordini.

I suoi uomini si dispersero, e tornarono con corde e pietre, che appesero ai

piedi dei morti; poi li trasportarono sulla riva.

Il Mont-Valérien, incappucciato ora da una montagna di fumo, non smetteva

di brontolare.

Due soldati afferrarono Morissot per la testa e per le gambe; altri due presero

Sauvage nello stesso modo. Per qualche istante i due corpi furon fatti oscillare

con forza, e poi, lanciati lontano, descrissero una curva e caddero ritti nel fiume,

poiché le pietre eran legate ai piedi.

L’acqua schizzò, ribollì, fremette e si calmò, mentre piccole onde giungevano

alle sponde.

Un po’ di sangue galleggiava sull’acqua.

L’ufficiale, sempre sereno, disse sottovoce: - I pesci finiranno di sistemarli.

Poi si diresse verso la casa.

A un tratto vide fra l’erba la reticella coi pesci. La raccolse la osservò, sorrise,

e gridò: - Wilhelm!

Un soldato accorse. Il prussiano ordinò, gettandogli la pesca dei due fucilati: -

Fammi friggere subito questi animaletti finché son vivi. Saranno deliziosi.

E riprese a fumar la pipa.

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I GIOIELLI

Il signor Lantin, dopo che ebbe incontrato la giovane donna a una festa in

casa del suo capufficio, fu avvolto dall’amore come in una rete.

Era la figlia d’un esattore di provincia, morto da parecchi anni. In seguito, era

venuta a Parigi con sua madre, la quale cominciò a frequentare alcune famiglie

borghesi, con la speranza di trovar marito alla giovane. Erano persone povere e

onorate, tranquille e dolci. La ragazza sembrava il prototipo della donna onesta

alla quale il giovane ammodo sogna di affidar la sua vita. La sua modesta bellezza

aveva il fascino d’un angelico pudore, e il lievissimo sorriso che non lasciava mai

le sue labbra sembrava un riflesso del cuore.

Tutti cantavano le sue lodi; coloro che la conoscevano non facevano altro che

dire: - Beato chi se la piglierà. Non si potrebbe fare una scelta migliore.

Lantin, il quale era allora archivista capo al ministero dell’Interno con lo

stipendio annuale di tremilacinquecento franchi, la chiese in moglie e la sposò.

Con lei fu straordinariamente felice. Ella governò la casa con una economia

tanto accorta che sembravano vivere nel lusso. Non esistevano premure,

delicatezze, moine, ch’ella non prodigasse a suo marito; e tanta era la forza della

sua seduzione che a sei anni dal loro incontro, egli l’amava ancor più dei primi

giorni.

Le rimproverava soltanto due abitudini, quella del teatro e quella dei gioielli

falsi.

Le sue amiche (conosceva alcune mogli di modesti funzionari) le procuravano

continuamente dei palchi per le commedie in voga, perfino per le prime

rappresentazioni; e di buona o di malavoglia si portava dietro il marito, che dopo

una giornata di lavoro si stancava tremendamente a simili passatempi. La

supplicò di andarci con qualche signora di sua conoscenza che dopo la

riaccompagnasse a casa. Ella aspettò molto tempo prima di cedere, perché

riteneva che far così fosse sconveniente. Infine si decise, per fargli piacere, ed egli

le fu assai grato.

Ben presto il gusto del teatro fece nascere in lei il bisogno di adornarsi. I suoi

abiti rimasero sempre semplici, di buon gusto, sì, ma modesti; e la sua grazia

dolce e irresistibile, umile e sorridente, pareva acquistar nuovo sapore dalla

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semplicità dei suoi abiti; però prese l’abitudine di mettersi alle orecchie due

grosse pietre del Reno, che parevano diamanti, e di portare collane di perle false,

braccialetti di similoro, pettini adorni di varii vetruzzi, che volevano imitare le

pietre di valore.

Suo marito, un po’ seccato per quell’amore dei lustrini, ripeteva spesso: -

Cara, quando non si ha la possibilità di comprarsi i gioielli veri, ci si adorna

soltanto della propria bellezza e della propria grazia, che son sempre i gioielli più

rari.

Ella sorrideva con dolcezza rispondendo:

- Che vuoi farci? Mi piace. È il mio vizio. Lo so che hai ragione, ma non mi

posso mica riformare. Mi sarebbe tanto piaciuto avere dei gioielli!

E si faceva scorrere fra le dita le collane di perle, faceva scintillare le faccette

dei cristalli tagliati, dicendo: - Ma guarda, guarda com’è fatto bene. Si potrebbe

giurare che è vero.

Il marito sorridendo le rispondeva: - Hai dei gusti da zingara.

Qualche volta, la sera, quando stavano seduti tutti e due accanto al fuoco, la

donna portava sul tavolino dove prendevano il tè la scatola di marocchino nella

quale teneva chiusa la «paccottiglia», come la chiamava Lantin; e si metteva a

contemplare i gioielli finti con tanta appassionata attenzione che si sarebbe detto

che ne traesse un godimento segreto e profondo; per forza voleva mettere una

collana attorno al collo del marito, e poi rideva di cuore, esclamando: - Come sei

buffo! - e gli si gettava fra le braccia baciandolo con passione.

Una notte d’inverno rientrò dall’Opera tutta piena di brividi. L’indomani aveva

la tosse. Otto giorni dopo morì d’una flussione al petto.

Per poco Lantin non la seguì nella tomba. La sua disperazione fu così

tremenda che in un mese gli vennero i capelli bianchi. Piangeva dalla mattina alla

sera, con l’anima straziata da un dolore insopportabile, perseguitato dal ricordo,

dal sorriso, dalla voce, da tutte le attrattive della morta.

Il tempo non placò il suo dolore. Spesso, in ufficio, mentre i suoi colleghi

facevano quattro chiacchiere sui fatti del giorno, all’improvviso gli si vedevano le

gote gonfiarsi, il naso raggrinzirsi, gli occhi empirsi di lacrime; faceva una smorfia

orrenda e cominciava a singhiozzare.

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Aveva lasciato intatta la camera della sua compagna, e vi si chiudeva tutti i

giorni per pensare a lei; e tutti i mobili, i vestiti perfino, erano rimasti dove si

trovavano l’ultimo giorno.

Però la vita cominciava a farsi dura per lui. Il suo stipendio, che in mano alla

moglie bastava a tutti i bisogni della casa, ora non era sufficiente più neanche per

lui solo. Con stupore si chiedeva come lei aveva potuto destreggiarsi per riuscire a

fargli bere sempre vini squisiti e mangiare cibi delicati, che ora con le sue

modeste risorse non riusciva più a procurarsi.

Fece qualche debito, e corse dietro al denaro come tutta la gente ridotta a

vivere d’espedienti. Finalmente, una mattina, siccome era senza un soldo, e

mancava una settimana intera alla fine del mese, pensò di vendere qualcosa; e gli

venne subito in mente di disfarsi della «paccottiglia» di sua moglie, perché in

fondo al cuore gli era rimasto come un rancore verso quelle illusioni che prima lo

irritavano. Perfino vederli, tutti i giorni, gli sciupava un poco il ricordo della sua

diletta.

Cercò a lungo nel luccicante mucchietto che ella aveva lasciato, perché fino

agli ultimi giorni di vita aveva seguitato ostinatamente a comprare, portando una

cosa nuova quasi ogni sera; e si decise per la grande collana, che ella preferiva,

pensando che potesse valere sette o otto franchi perché, per essere falso, era un

lavoro fatto con molta cura.

Se la mise in tasca e si diresse verso il ministero passando dai boulevards e

cercando una gioielleria che gl’ispirasse fiducia.

Alla fine ne vide una ed entrò, vergognandosi un poco di mettere in mostra la

sua miseria nel cercare di vendere un oggetto di così scarso valore.

- Signore, - disse al negoziante, - vorrei sapere quanto stimate quest’oggetto.

L’uomo lo prese, lo esaminò, lo rigirò, lo soppesò, prese una lente, chiamò il

commesso e sottovoce gli fece osservare qualcosa, rimise la collana sul banco, e la

guardò da lontano per giudicarne meglio l’effetto.

Lantin era imbarazzato per tutte quelle cerimonie, e stava per dire: - Oh! ma lo

so che non ha nessun valore, - quando il gioielliere disse:

- Questa collana, signore, vale da dodici a quindicimila franchi; però non

posso comprarla se prima non mi direte la sua esatta provenienza.

Il vedovo spalancò gli occhi e restò a bocca aperta, senza capire. Alla fine

balbettò: - Dite che...? Siete sicuro? - L’altro interpretò male il suo stupore e disse

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con tono asciutto: - Potete andare da un altro a sentire se vi danno di più. Per me

vale al massimo quindicimila franchi. Tornate, se non trovate di meglio.

Lantin, completamente istupidito, si riprese la collana e uscì obbedendo a un

confuso bisogno di restare solo, e di pensare.

Ma appena fu per la strada gli venne voglia di ridere e pensò: «Che imbecille,

oh, che imbecille! Se però l’avessi preso in parola! Ecco un gioielliere che non è

neanche capace di distinguere la roba vera da quella falsa!».

Entrò in un’altra bottega, al principio di via della Pace. L’orefice, appena ebbe

visto il gioiello, esclamò:

- Perbacco, la conosco bene questa collana: proviene di qui.

Assai sconvolto Lantin chiese:

- Quanto vale?

- L’ho venduta per venticinquemila franchi, signore. Son disposto a

riprenderla per diciottomila se mi direte, in obbedienza alle disposizioni legali, in

quale modo ne siete venuto in possesso.

Lantin questa volta dovette sedersi, annientato dallo stupore.

- Ma guardatela bene, - disse, - io fino ad oggi avevo creduto che fosse... falsa.

Il gioielliere: - Volete dirmi come vi chiamate?

- Certo. Mi chiamo Lantin, sono impiegato al ministero dell’Interno, sto in via

dei Martiri, 16.

Il negoziante aprì il registro, cercò e poi disse: - Questa collana difatti è stata

mandata all’indirizzo della signora Lantin, in via dei Martiri 16, il 20 luglio 1876.

I due uomini si guardarono negli occhi, l’impiegato smarrito per la sorpresa,

l’orefice credendo di aver di fronte un ladro.

- Volete lasciarmi la collana soltanto per ventiquattr’ore? - riprese

quest’ultimo, - vi faccio una ricevuta.

Lantin balbettò: - Sì, sì; certo.

E uscì piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.

Attraversò la strada, la risalì, s’accorse che andava in una direzione sbagliata,

riscese alle Tuileries, varcò la Senna, s’accorse un’altra volta che sbagliava, tornò

ai Champs Elysées, senza avere in testa un’idea chiara. Cercava di ragionare, di

capire. Sua moglie non aveva potuto comprare un oggetto di tanto valore. No, di

certo. Allora si trattava d’un regalo! Un regalo! Un regalo di chi? Perché?

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S’era fermato, immobile in mezzo al viale. L’orrendo dubbio lo sfiorò. Lei?

Allora anche tutti gli altri gioielli erano dei regali! Gli parve che la terra

ondeggiasse; che un albero davanti a lui crollasse; stese le braccia e cadde, privo

di sensi.

Riprese conoscenza in una farmacia dove l’avevano portato a braccia alcuni

passanti. Si fece condurre a casa, e si rinchiuse dentro.

Pianse disperatamente fino a notte, mordendo un fazzoletto per non urlare.

Poi si coricò, affranto dalla fatica e dal dispiacere, e s’addormentò d’un sonno

pesante.

Lo svegliò un raggio di sole; lentamente s’alzò per andare al ministero. Dopo

un simile colpo era duro mettersi a lavorare. Pensò che avrebbe potuto scusarsi

col capufficio, e gli scrisse. Poi gli venne in mente che doveva tornare dal

gioielliere, e arrossì per la vergogna. Rimase parecchio tempo a pensare. In ogni

caso non poteva lasciare la collana a quell’uomo, sicché si vestì e uscì.

Era bel tempo, il cielo azzurro si stendeva sulla città che pareva sorridere.

Alcune persone bighellonavano davanti a lui, con le mani in tasca.

Vedendole passare Lantin si disse: «Com’è felice chi ha soldi! Col denaro ci si

può liberare perfino dei dispiaceri, si va dove ci pare, si viaggia, ci si distrae. Oh!

se fossi ricco!».

S’accorse d’aver fame, perché era a digiuno dalla sera prima. Ma aveva le

tasche vuote, e allora pensò alla collana. Diciottomila franchi! Diciottomila

franchi erano una somma!

Raggiunse la via della Pace, e cominciò a passeggiare su e giù sul

marciapiede, di fronte al negozio. Diciottomila franchi! Per venti volte fu sul punto

d’entrare, trattenuto sempre dalla vergogna.

Però aveva fame e tanta, e non un centesimo in tasca. Si decise all’improvviso,

di corsa attraversò la strada per non darsi tempo di riflettere, e si precipitò nella

gioielleria.

Il negoziante appena lo vide accorse sollecito, e gli offrì una sedia sorridendo

con gentilezza. Anche i commessi vennero, e guardavano in tralice Lantin, con gli

occhi e le labbra scoppiettanti dall’allegria.

Il gioielliere disse: - Mi sono informato, e se non avete cambiato idea son

pronto a pagarvi la somma che ho proposto.

- Certo, - balbettò l’impiegato.

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L’orefice tirò fuori da un cassetto diciotto grandi biglietti, li contò, li porse a

Lantin, il quale firmò una ricevuta e con mano fremente si mise il denaro in

tasca.

Poi, mentre stava per uscire, si voltò verso il negoziante, il quale continuava a

sorridere, e disse chinando lo sguardo: - Ne avrei... ne avrei degli altri, di gioielli...

che mi vengono dalla stessa eredità. Sareste disposto a prenderli?

Il negoziante s’inchinò: - Certo, signore.

Uno dei commessi uscì, per ridere con comodo; un altro si soffiava

fragorosamente il naso.

Lantin, impassibile, rosso e serio, disse:

- Ora ve li porto.

E prese una carrozza per andare a prendere i gioielli.

Quando, un’ora dopo, tornò al negozio, non aveva ancora mangiato.

Cominciarono a esaminare i gioielli ad uno ad uno, stimandoli. Provenivano quasi

tutti da quella gioielleria.

Ora Lantin discuteva le valutazioni del negoziante, s’incolleriva, esigeva che gli

fossero mostrati i libri delle vendite, e via via che la somma aumentava, parlava

con voce sempre più alta.

I grandi orecchini valevano ventimila franchi; i braccialetti trentacinquemila;

gli spilli, gli anelli, e i medaglioni sedicimila; un finimento di smeraldi e zaffiri

quattordicimila; un solitario che, sospeso a una catena d’oro, formava una

collana, quarantamila; in tutto s’arrivava a centonovantaseimila franchi. Il

negoziante disse, con scherzosa bonomia: - Questa era una persona che spendeva

in gioielli tutti i suoi risparmi.

- È un modo come un altro di collocare il proprio denaro, - rispose gravemente

Lantin.

E se ne andò, dopo aver concordato col negoziante, per il giorno dopo, una

controperizia.

Appena fu in strada, guardò la colonna Vendôme con la voglia

d’arrampicarcisi, come se fosse stato l’albero della cuccagna. Si sentiva così

leggero che avrebbe saltato a piè pari la statua dell’Imperatore arrampicata lassù

in cielo.

Andò a mangiare da Voisin e bevve vino da venti franchi la bottiglia.

Dopo prese una carrozza e fece un giro nel parco.

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Guardava le altre vetrine con un certo disprezzo, bramoso di gridare ai

passanti: - Anch’io son ricco. Possiedo duecentomila franchi.

Gli venne a mente il ministero. Vi si fece portare, entrò decisamente dal

capufficio e annunciò:

- Signore, vengo a dimettermi. Ho ereditato trecentomila franchi.

Andò a salutare i suoi ex colleghi, facendoli partecipi dei suoi progetti di

nuova vita, poi andò a mangiare al caffè Inglese.

Siccome accanto a lui c’era un signore di aspetto perbene, non poté resistere

alla smania di raccontargli, con una certa qual civetteria, che proprio allora aveva

ereditato quattrocentomila franchi.

Per la prima volta in vita sua non s’annoiò, al teatro, e passò la notte con

alcune ragazze allegre.

Si risposò dopo sei mesi. La sua seconda moglie era onestissima, ma con un

brutto carattere. Lo fece soffrire molto.

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SANT’ANTONIO

Lo chiamavano Sant’Antonio perché si chiamava Antoine, e fors’anche perché

era un uomo vivace, allegro, scherzoso, gran mangiatore e più gran bevitore, e

gagliardo cacciatore di serve, nonostante i suoi sessanta anni suonati.

Era un contadinone del paese del Caux, molto colorito, largo di petto e di

pancia, e appollaiato su due gambe lunghe che parevano troppo magre in

confronto al suo corpaccione.

Vedovo, viveva da solo, con una domestica e due servitori, nella fattoria che

dirigeva da furbacchione qual era curando bene i suoi interessi, esperto degli

affari, dell’allevamento del bestiame, e della coltivazione delle sue terre. I suoi due

figlioli e le tre figlie, sposati bene, vivevano lì vicino, e andavano a mangiare col

loro padre una volta al mese. La sua forza era rinomata in tutta la zona; si diceva,

come se fosse un proverbio: «Forte come Sant’Antonio».

Quando venne l’invasione prussiana, Sant’Antonio, all’osteria, prometteva di

mangiarsi un esercito, perché, da vero normanno, le sparava grosse, ed era un

po’ pauroso e fanfarone. Batteva il pugno sulla tavola di legno che traballava,

facendo saltare le tazze e i bicchierini, e, col viso rosso e lo sguardo pieno di

malizia, urlava, con una falsa collera, da uomo allegro qual era: - Bisognerà pure

che ne mangi, perdio! - Era convinto che i prussiani non sarebbero mai giunti

fino a Tanneville; ma quando venne a sapere che erano a Rautôt, non uscì più di

casa, e dal finestrino di cucina teneva continuamente d’occhio la strada,

aspettandosi da un momento all’altro di vedere passare le baionette.

Una mattina, mentre stava mangiando la minestra assieme ai suoi servi,

s’aprì la porta, e apparve padron Chicot, sindaco del comune, seguito da un

soldato che portava in capo un casco nero con la punta di rame. Sant’Antonio

balzò in piedi; la sua gente lo guardava, aspettandosi di vederlo fare a pezzi il

prussiano; si contentò invece di stringere la mano del sindaco, il quale gli disse: -

Eccone uno per te, Sant’Antonio. Sono arrivati stanotte. Soprattutto non fare

sciocchezze, dal momento che parlano di fucilare e di bruciar tutto alla minima

piccolezza: t’ho avvisato. Dagli da mangiare: mi pare un buon ragazzo.

Arrivederci, vado dagli altri. Ce n’è per tutti. - E uscì.

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Sant’Antonio era diventato pallido: guardò il suo prussiano. Era un ragazzone

grasso, con le carni bianche, gli occhi turchini, biondo, barbuto fino agli zigomi, il

quale pareva sciocco, timido e buon figliolo. Il malizioso normanno capì subito

con chi aveva a che fare, e rassicuratosi, gli fece segno di sedere. Poi gli chiese: -

Volete un po’ di minestra?

Lo straniero non capì. Allora Antoine in uno slancio d’audacia, gli spinse fin

sotto il naso una scodella piena, e disse: - To’, butta giù questa, maialone.

Il soldato rispose: - Ja, - e cominciò a mangiare con ingordigia, mentre il

fattore, trionfante, sentendo di aver riconquistato la sua riputazione, strizzava

l’occhio ai servitori i quali facevano grandi smorfie, provando a un tempo gran

paura e gran voglia di ridere.

Quando il prussiano ebbe mangiato la minestra, Sant’Antonio gliene diede

un’altra scodella che scomparve nello stesso modo; ma davanti alla terza che il

fattore voleva fargli mangiare per forza dicendo: - Suvvia, schiaffati in pancia

questa roba qui. Se non ti strozza t’ingrassa; vedrai, maialone mio! - il soldato

fece marcia indietro.

Egli capiva solo che lo volevano far mangiare a sazietà, e rideva contento,

facendo segno che era pieno.

Allora Sant’Antonio, entrato in piena confidenza, gli diede una manata sulla

pancia, gridando:

- Ce ne va di roba, eh, dentro il buzzo del mio maiale!

E all’improvviso si contorse, rosso, da sembrare che gli venisse un colpo,

incapace di parlare.

- Ecco, ecco, Sant’Antonio e il suo maiale. Eccolo il mio maiale! - I tre servi, a

loro volta, scoppiarono a ridere.

Il vecchio era tanto soddisfatto che fece portar l’acquavite, quella buona, tre

stelle, e la distribuì a tutti. Fecero alcuni brindisi col prussiano, e questi, per

complimento, fece schioccare la lingua, per far capire che la trovava squisita. E

Sant’Antonio gli urlava sul naso: - Eh? Questa è di quella buona! Al tuo paese,

maiale mio, non la bevi di certo roba come questa!

Da allora Sant’Antonio non uscì più senza il suo prussiano. Aveva trovato quel

che gli ci voleva: era la sua vendetta, la sua vendetta da furbacchione. Tutto il

paese, pur essendo morto dalla paura, rideva pazzamente alle spalle dei vincitori

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per lo scherzo di Sant’Antonio. E a dire il vero, egli non aveva l’eguale negli

scherzi. C’era solo lui capace di inventarne una a quel modo, quel birbante!

Andava dai vicini, tutti i giorni dopo pranzo, a braccetto col suo tedesco che

presentava allegramente, battendogli sulla spalla: - Eccolo qui, il mio maiale,

guardatelo un po’ come mi s’ingrassa, quest’animale!

I paesani si rallegravano: - È divertente questo diavolo d’Antoine!

- Te lo vendo, César, per tre pistole.

- Lo prendo, Antoine, e t’invito a mangiare il sanguinaccio.

- Io invece voglio i piedi.

- Tastagli la pancia, vedrai, non c’è altro che grasso.

Tutti si facevan l’occhiolino, però senza ridere troppo forte, temendo che alla

fine il prussiano s’accorgesse che lo prendevano in giro. Solo Antoine, che di

giorno in giorno si faceva sempre più ardito, gli dava gran pizzicotti nelle cosce,

gridando: - Non c’è altro che grasso! - e gran manate sul sedere urlando: - È tutta

cotenna; - lo sollevava fra le sue braccia di vecchio colosso capace di portare

un’incudine, dicendo: - Ne pesa seicento netti.

Aveva preso l’abitudine di far offrire da mangiare al suo maiale dovunque

quegli entrasse insieme a lui. Era la grande gioia, il gran divertimento di tutti i

giorni: - Dategli quel che volete, ingoia tutto. - Gli offrivano pane e burro, patate,

guazzetto freddo, sanguinaccio.

Il soldato, stupido e docile, mangiava per cortesia, contentissimo di tutte

quelle premure; si faceva venir l’indigestione, per non rifiutare; e ingrassava sul

serio, la divisa ora gli stava stretta, e questo faceva andare in estasi Sant’Antonio,

il quale ripeteva: - Sai, maiale mio, bisognerà farti un’altra stalla.

Intanto eran diventati ottimi amici; e quando il vecchio per i suoi affari doveva

andare nei dintorni, il prussiano lo accompagnava di sua iniziativa, per il piacere

di stare insieme a lui.

La stagione era rigida; era tutto gelato; il terribile inverno del 1870 pareva che

scagliasse tutti i flagelli insieme sulla Francia.

Compare Antoine, che preparava le cose alla lunga, e approfittava di tutte le

occasioni, prevedendo che sarebbe venuto a mancare il letame per i lavori di

primavera, ne comprò da un vicino che si trovava in bisogno; fu convenuto che

tutte le sere sarebbe andato col barroccio a prendere un carico di concime.

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Così tutti i giorni, sul calar della notte, si metteva in strada, e andava alla

fattoria degli Haules distante circa mezza lega, sempre accompagnato dal suo

maiale. E ogni giorno, dar da mangiare all’animale era una nuova festa. Tutto il

paese accorreva, come quando, la domenica, si va alla messa cantata.

Però il soldato cominciava a diffidare; e quando sentiva ridere troppo forte,

girava intorno sguardi inquieti che talora s’accendevano di una fiamma di collera.

Una sera, quando si fu riempito a sazietà, si rifiutò di mangiare un boccone di

più; e cercò di alzarsi per andar via. Ma Sant’Antonio lo fermò, e ponendogli le

possenti mani sulle spalle lo costrinse a sedersi di nuovo, con tanta violenza, che

la sedia si schiantò.

Scoppiò un uragano d’allegria; e Antoine, esultante, raccogliendo il suo

maiale, finse di fasciargli immaginarie ferite, poi disse: - Dal momento che non

vuoi mangiare, berrai, perdio!

Mandarono a prendere l’acquavite allo spaccio.

Il soldato si guardava attorno con occhi cattivi; però bevve; bevve quanto

vollero; e Sant’Antonio, fra il giubilo dei presenti, gli tenne testa.

Il normanno, rosso come un pomodoro, con gli occhi fiammeggianti, riempiva i

bicchieri, e trincava sbraitando: - Alla tua! - E il prussiano, senza aprir bocca,

mandava giù sorsate di cognac una dopo l’altra.

Fu un combattimento, una battaglia, una rivincita! a chi riuscisse a bere di

più, perbacco! Quando il litro fu scolato non ne potevano più tutti e due. Però

nessuno dei due era stato vinto. Erano pari, se l’erano battuta.

Il giorno dopo avrebbero dovuto ricominciare!

Uscirono esitanti, e si misero a camminare accanto al barroccio di letame che

i due cavalli trascinavano lentamente.

Cominciava a nevicare, e la notte senza luce si rischiarò tristemente al morto

biancore delle pianure. I due uomini furono presi dal freddo, che aumentò la loro

ubriachezza. Sant’Antonio, scontento per non esser riuscito a trionfare, si

divertiva a spingere il suo maiale per le spalle, per mandarlo a finire nel fosso.

L’altro riusciva a schivare gli attacchi tirandosi indietro; e ogni volta mormorava

alcune frasi in tedesco, in tono così irato che il contadino rideva a crepapancia.

Infine il prussiano perse la pazienza; e proprio quando Antoine gli stava dando

un altro spintone rispose con un pugno tremendo, che fece barcollare il colosso.

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Il vecchio allora, infiammato dall’acquavite, afferrò il soldato a mezza vita, lo

scrollò per qualche istante, come se fosse stato un bambino, e lo buttò di slancio

dall’altra parte della strada. Poi, soddisfatto del risultato, incrociò le braccia per

ridere ancora.

Il soldato si rialzò rapidamente, a testa nuda, perché l’elmo gli era rotolato via,

sguainò la sciabola e si slanciò su compare Antoine.

Nel vedere questo il contadino prese la frusta per il mezzo, la sua grande

frusta di bosso, dritta, forte e pieghevole come un nervo di bue.

Il prussiano venne avanti a testa bassa, con l’arma tesa, sicuro di uccidere.

Ma il vecchio afferrò con la mano la lama che gli stava per spaccare il ventre, la

scostò, e con l’impugnatura della frusta colpì duramente alla tempia il suo

nemico, che s’abbatté ai suoi piedi.

Atterrito, istupidito dalla sorpresa, guardò il corpo scosso dapprima da

spasimi, poi immobile, disteso bocconi. Si chinò, lo rivoltò, lo osservò per un

poco.

Aveva gli occhi chiusi; un rivoletto di sangue gli colava da una spaccatura

all’angolo della fronte. Nonostante il buio, papà Antoine poteva vedere la macchia

bruna del sangue sulla neve.

Restò fermo, fuor di sé, mentre il cavallo, col suo passo tranquillo, seguitava a

trascinare il barroccio.

Che fare? Lo avrebbero fucilato! Avrebbero bruciato la fattoria, distrutto il

paese! Che fare? che fare? In qual modo nascondere il corpo, celare la morte,

ingannare i prussiani? Sentì di lontano alcune voci, fra il silenzio delle nevi.

Allora si sgomentò, e raccolto l’elmo ricoprì il capo della sua vittima; poi lo afferrò

per le reni, lo tirò su, si mise a correre, raggiunse il carro e gettò il corpo sul

letame. A casa avrebbe pensato al da farsi.

Camminava pian piano, lambiccandosi il cervello, senza riuscire a trovar

nulla. Si vedeva e si sentiva perduto. Entrò nel cortile di casa sua. Brillava una

luce in un abbaino, la serva non dormiva ancora; rapido, fece indietreggiare il

carro fino all’imboccatura del letamaio. Pensava che, rovesciando il carico, il

corpo posato sopra sarebbe andato sotto, nella fossa; e fece dondolare il

barroccio.

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Come aveva previsto l’uomo fu sepolto sotto il letame. Antoine spianò il

mucchio con la forca e la piantò in terra, lì di fianco. Chiamò il lavorante, gli

ordinò di mettere i cavalli nella scuderia, e se ne andò in camera sua.

Si mise a letto, sempre pensando a quel che avrebbe fatto, ma non gli veniva

nessuna idea: nell’immobilità del letto il suo spavento non faceva che aumentare.

Lo avrebbero fucilato? Sudava, dalla paura; gli battevano i denti; si alzò

tremando, non riusciva più a stare tra le lenzuola.

Scese in cucina, prese dalla credenza la bottiglia del cognac e risalì. Bevette

due bicchieroni, uno dopo l’altro, gettando nuova ebbrezza sulla vecchia, senza

peraltro calmare l’ambascia che lo torturava. Ne aveva combinata una carina,

razza d’imbecille che non era altro!

Ora camminava su e giù, cercando qualche stratagemma, o scusa o

gherminella; e ogni tanto si risciacquava la bocca con una sorsata di tre stelle per

mettersi un po’ di coraggio nello stomaco.

E non riusciva a trovar nulla. Proprio nulla.

Verso mezzanotte il cane da guardia, una specie di mezzo lupo che si

chiamava «Divoratore», cominciò a ululare. Compare Antoine rabbrividì fino alle

midolla; e ogni volta che la bestia ricominciava il suo urlio lugubre e prolungato,

un fremito di paura correva sulla pelle del vecchio.

S’era gettato su una sedia, con le gambe tronche, inebetito: non ce la faceva

più e aspettava ansiosamente che «Divoratore» ricominciasse il suo lamento,

scosso dai fremiti che il terrore comunicava ai nervi.

Nevicava sempre. Era tutto bianco. Le costruzioni che componevano la fattoria

parevano grandi macchie nere. L’uomo s’avvicinò al canile. Il cane dava grandi

strattoni alla catena. Lo sciolse. Allora «Divoratore» fece un balzo, poi si fermò di

botto e stette, col pelo irto, le zampe irrigidite, i denti scoperti, e il naso in

direzione del letamaio.

Sant’Antonio, tremando da capo a piedi, balbettò: - Cos’hai, dunque,

bestiaccia? - e fece qualche passo avanti, frugando con lo sguardo l’ombra incerta

e fosca del cortile.

Allora vide una figura d’uomo seduto sul letame!

Lo guardò paralizzato dall’orrore, ansimante. All’improvviso, vide accanto a sé

il manico del forcone conficcato a terra; lo prese e in uno di quegli slanci di paura

che rendono temerarie le persone più vili, si slanciò avanti per vedere.

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Era il suo prussiano, il quale, tutto fangoso, era uscito dal letto di immondizia

che l’aveva riscaldato e fatto tornare in sé. S’era seduto macchinalmente, ed era

rimasto lì, sotto la neve che lo imbiancava, imbrattato di sudiciume e di sangue,

ancora inebetito dai fumi dell’alcool, stordito dal colpo ricevuto, esausto a causa

della ferita.

Vide Antoine, e troppo intontito per capire, fece una mossa per alzarsi. Ma il

vecchio, appena l’ebbe riconosciuto, schiumò come un animale infuriato.

- Ah, maiale, maiale, non sei ancora morto?!... - borbottò. - E ora volevi

denunciarmi, eh? Aspetta, aspetta!...

E slanciandosi sul tedesco tese in avanti la forca, brandendola come una

lancia, con tutta la forza delle sue braccia, e gli conficcò nel petto le quattro punte

di ferro, fino al manico.

Il soldato si rovesciò sulla schiena emettendo un lungo sospiro di morte;

intanto il vecchio contadino, tirando fuori l’arma dalle ferite, gliela immergeva di

nuovo, un colpo dopo l’altro, nella pancia, nello stomaco, in gola, menando colpi

come un forsennato, crivellando dalla testa ai piedi il corpo palpitante dal quale il

sangue usciva gorgogliando.

Si fermò; aveva l’affanno, e respirò a grandi boccate, placato dal delitto

commesso.

Mentre i galli cantavano nei pollai, e stava per spuntare il giorno, si mise

all’opera per seppellire il cadavere.

Scavò un buco nel letame, finché trovò la terra, cominciò a scavare più giù,

disordinatamente, in uno slancio di forza, muovendo furiosamente le braccia, e

tutto il corpo.

Appena la fossa fu abbastanza profonda, con la forca vi fece rotolare dentro il

cadavere, e la riempì nuovamente di terra, che calpestò a lungo; poi rimise a

posto il letame e sorrise vedendo che la neve alta completava il suo lavoro,

ricoprendo le tracce col suo velo bianco.

Conficcò la forca sul mucchio del letame e tornò in casa. La bottiglia ancora

mezza piena di cognac era rimasta sulla tavola. La vuotò d’un fiato e si buttò sul

letto addormentandosi profondamente.

Si risvegliò lucido, calmo, e ben disposto, in grado di giudicare l’accaduto e di

pensare sul da farsi.

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Di lì a un’ora egli girava per il paese chiedendo dappertutto notizie del suo

soldato. Andò a trovare gli ufficiali per sapere, diceva, perché mai gli avessero

portato via il suo uomo.

Siccome sapevano della sua amicizia, non lo sospettarono; egli stesso diresse

le ricerche dicendo che il prussiano andava tutte le sere a correr la cavallina.

Un vecchio gendarme in pensione, che aveva un albergo nel villaggio vicino e

una graziosa figliola, fu arrestato e fucilato.

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LA REGINA HORTENSE

Per tutta Argenteuil, veniva chiamata la regina Hortense. Nessuno sapeva

perché. Forse perché parlava con tono deciso, come un ufficiale mentre comanda?

Forse perché era alta, ossuta, imperiosa? Forse perché governava un popolo di

animali domestici: galline, gatti, canarini e pappagalletti, animali cari alle zitelle?

Ma ella non coccolava le sue bestie, non le trattava con paroline dolci o con quelle

puerili tenerezze che sembrano gocciolare dalle labbra delle donne sul pelo

vellutato del gatto che fa le fusa. Governava i suoi animali con autorità: regnava.

Era infatti una zitellona, una di quelle zitellone con la voce secca, i gesti

bruschi, le quali pare che abbiano il cuore duro. Le eran capitate sempre delle

buone domestiche, perché la gioventù si piega meglio alle volontà rigide. Non

ammetteva contraddizioni, o repliche, o esitazioni, o svogliatezza, o pigrizia, o

stanchezza. Nessuno l’aveva mai sentita lamentarsi, o rammaricarsi di una

qualsiasi cosa, o invidiare chicchessia. Diceva: «Ognuno ha la sua parte», con

convinzione di fatalista. Non andava in chiesa, non le piacevano i preti, non

credeva nemmeno in Dio, e chiamava le cose della religione «roba per piagnoni».

Da trent’anni che abitava nella sua casina col giardinetto sulla strada, ella

non aveva mai mutato abitudini, soltanto mandava via spietatamente le serve

quando compivano ventun’anni.

Sostituiva senza lacrime e senza rimpianti cani, gatti, e uccelli che morissero

di vecchiaia o per un accidente, sotterrava gli animali morti in un’aiola servendosi

di una piccola vanga, poi spianava la terra strisciandovi sopra il piede con

indifferenza.

In città aveva qualche conoscenza, in certe famiglie di impiegati (i quali

lavoravano a Parigi e ci andavano tutti i giorni). Di tanto in tanto l’invitavano la

sera a prendere il tè. Durante queste riunioni immancabilmente ella si

addormentava; dovevano svegliarla quando era ora di tornare a casa. Non

permetteva mai a nessuno di accompagnarla, perché non aveva mai paura, né di

giorno né di notte. Pareva che i bambini non le piacessero.

Impiegava il tempo in mille lavori da uomo, faceva da falegname, da

giardiniere, tagliava la legna con la sega o con l’ascia, riparava la sua vecchia

casa, e all’occorrenza faceva anche da muratore.

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Aveva dei parenti che venivano a trovarla due volte l’anno: i Cimme e i

Colombel; le sue due sorelle avevano sposato, una un’erborista e l’altra un piccolo

possidente. I Cimme non avevano figlioli; i Colombel ne avevan tre: Henri, Pauline

e Joseph. Henri aveva vent’anni, Pauline diciassette e Joseph appena tre: infatti

era nato quando pareva impossibile che sua madre fosse ancora feconda.

Nessun legame d’affetto univa la zitella ai suoi parenti.

Nella primavera del 1882 la regina Hortense s’ammalò all’improvviso. I vicini

andarono a chiamare un medico, ed ella subito lo buttò fuori. Allora si presentò

un prete, ed ella si alzò dal letto mezza nuda per buttar fuori anche lui.

La servetta, in lacrime, le preparava qualche decotto.

Dopo tre giorni di letto le sue condizioni parevano così gravi che il bottaio lì

accanto, dietro consiglio del medico, che era ritornato nella casa di prepotenza, si

prese la responsabilità di chiamare i parenti.

Costoro giunsero con lo stesso treno, verso le dieci di mattina; i Colombel

avevano condotto anche il piccolo Joseph.

La prima cosa che videro all’ingresso del giardino, fu la servetta che piangeva,

su una sedia, con la faccia verso il muro.

Il cane dormiva sullo zerbino della porta d’ingresso, sotto un’ardente pioggia di

sole; due gatti, che parevano morti, stavano allungati sui davanzali delle due

finestre, con gli occhi chiusi, le zampe stecchite e la coda stesa.

Chiocciando, una grossa gallina portava a spasso per il giardino un

battaglione di pulcini vestiti di piumino giallo leggero come ovatta; una gran

gabbia appesa al muro, ricoperta di centonchio, ospitava una popolazione di

uccelli che si sgolavano nella luce di quella calda mattinata di primavera.

Due pappagallini, in un’altra gabbietta fatta come una casina, stavano buoni

buoni, l’uno a fianco all’altro.

Il signor Cimme, un omaccione sbuffante che entrava dappertutto per primo,

quand’era necessario, facendo scansare gli altri, uomini o donne, chiese:

- E così, Céleste, non va bene?

La servetta gemé fra le lacrime:

- Non mi riconosce neanche più. Il dottore dice che è alla fine.

Tutti si guardarono.

La signora Cimme e la signora Colombel si abbracciarono immediatamente

senza proferire parola. Si somigliavano molto, si erano sempre pettinate coi

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capelli divisi in due bande, e avevano sempre portato scialli rossi di casimir

francese, sfavillanti come bracieri.

Cimme si voltò verso il cognato, un uomo pallido, giallo e secco, rovinato da

una malattia di stomaco, che zoppicava paurosamente, ed esclamò con serietà:

- Caspita! era ora...

Ma nessuno ardiva entrare nella camera della morente, posta al pianterreno.

Perfino Cimme si tirava indietro. Colombel si decise per primo, ed entrò

dondolandosi come l’albero d’un veliero, facendo risuonare il ferro del bastone

sull’impiantito.

Dopo di lui si arrischiarono le due donne e il signor Cimme chiuse il corteo.

Il piccolo Joseph era rimasto fuori, sedotto dalla vista del cane.

Un raggio di sole tagliava in due il letto, illuminando in pieno le mani che si

agitavano nervose, continuamente aprendosi e chiudendosi. Le dita si muovevano

come animate dal pensiero, come se volessero esprimere qualcosa, qualche idea,

come se obbedissero all’intelletto. Il resto del corpo rimaneva immobile sotto il

lenzuolo. Il viso angoloso non aveva un sussulto. Gli occhi erano chiusi.

I parenti si disposero in semicerchio silenziosi e si misero a guardare, col petto

oppresso, il respiro corto. La servetta li aveva seguiti e seguitava a piagnucolare.

Finalmente Cimme chiese:

- Insomma, cos’ha detto di preciso il dottore?

La serva balbettò:

- Dice di lasciarla in pace, non c’è più nulla da fare.

Ma, d’un tratto, le labbra della zitella cominciarono a muoversi. Pareva che

pronunziassero parole silenziose, parole nascoste in quella testa di moribonda,

mentre le mani acceleravano quel loro singolare movimento.

Improvvisamente si mise a parlare, con una vocettina magra che nessuno le

conosceva, una voce che pareva venir di lontano, forse dal profondo del suo cuore

sempre chiuso.

Cimme se ne andò in punta di piedi, trovando penoso quello spettacolo.

Colombel, sentendosi stanca la gamba storpia, si mise a sedere.

Le due donne rimasero in piedi.

Ora la regina Hortense chiacchierava rapidissima, senza che si potesse capire

nulla di quanto diceva. Pronunciava dei nomi, molti nomi, chiamava teneramente

persone immaginarie.

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- Vieni qui, piccolo Philippe, vieni a dare un bacio alla mamma. Vuoi bene alla

tua mamma, eh, bambino mio?... Rose, tu starai attenta alla tua sorellina mentre

io sarò fuori. Soprattutto non lasciarla mai sola; siamo intese? E ricordati di non

toccare i fiammiferi.

Taceva per qualche istante... poi, a voce più alta, come chiamando: -

Henriette... - aspettava un momento e soggiungeva: - Di’ a papà che gli voglio

parlare prima che vada in ufficio. - E poi: - Non mi sento troppo bene oggi, caro;

promettimi di non tornare tardi. Dirai al capufficio che sono malata. Capisci che è

pericoloso lasciare i ragazzi soli mentre io sono a letto. Per pranzo ti farò un piatto

di riso dolce. Piace tanto ai bambini. Chissà come sarà contenta Claire!

Si mise a ridere, giovanilmente e rumorosamente, come non aveva mai riso: -

Guarda, guarda Jean, come s’è conciato il viso! s’è impiastricciato di marmellata

quel sudicetto! Guardalo, tesoro, quant’è buffo!

Colombel, che ogni poco cambiava posto alla sua gamba stanca dal viaggio,

disse sottovoce:

- Sogna di aver figli e marito: è il principio dell’agonia.

Le due sorelle non s’erano ancora mosse, sorprese e istupidite. La servetta

disse:

- Levatevi lo scialle e il cappello; volete passare in salotto?

Esse uscirono senza aver detto una parola. Colombel le seguì zoppicando, e la

moribonda restò di nuovo sola.

Quando si furono sbarazzate dei loro abiti da viaggio, le donne si sedettero.

Uno dei gatti si levò dalla finestra, si stirò, balzò nel salotto e di lì sulle ginocchia

della signora Cimme che cominciò a carezzarlo.

Dalla stanza accanto giungeva la voce dell’agonizzante la quale in quell’ultima

ora viveva la vita che certamente aveva sperato, esprimeva i suoi sogni, proprio

nel momento in cui per lei tutto stava per finire.

Cimme, in giardino, stava giocando col piccolo Joseph e col cane e si divertiva

assai, con quella sua allegria di omaccione che è andato in campagna, senza

pensare minimamente alla moribonda.

A un tratto rientrò in casa e rivolgendosi alla serva:

- Senti, ragazza, bisogna che tu ci dia da mangiare. Cosa preferite, signore

mie?

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Si accordarono su una frittatina con gli odori, un pezzo di filetto con le

patatine novelle, formaggio, e una tazzina di caffè.

E poiché la signora Colombel si frugava in tasca per cercare il borsellino,

Cimme la fermò; e rivolto alla serva: - Hai soldi, no?

- Sissignore, - rispose ella.

- Quanto?

- Quindici franchi.

- Bastano. Sbrigati, figliola: comincio ad aver fame.

La signora Cimme che stava fuori ad ammirare i rampicanti inondati di sole, e

due piccioni in amore sul tetto di fronte, esclamò con tono afflitto:

- Che peccato, essere venuti in una occasione tanto triste! Oggi sarebbe

proprio la giornata adatta per stare in campagna.

Sua sorella sospirò senza rispondere e Colombel, forse turbato dal pensiero

d’una passeggiata, mormorò:

- La gamba mi dà parecchio noia.

Il piccolo Joseph e il cane facevano un chiasso indiavolato: il primo gridava

dalla contentezza, l’altro abbaiava a perdifiato. Giocavano intorno alle tre aiole,

rincorrendosi come matti.

La moribonda seguitava a chiamare i suoi figlioli; discorreva con ognuno di

loro, s’immaginava di vestirli, di carezzarli, di insegnargli a leggere: - Su, Simon,

ripeti: A B C D. Non pronunci giusto: via, D D D, mi senti? Via, ripeti ancora...

Cimme esclamò: - Che stramberie si dicono in momenti simili!

Allora la signora Colombel propose:

- Sarebbe meglio tornare dentro.

Ma Cimme la dissuase subito:

- A far che cosa, dato che non possiamo mutare le sue condizioni? Stiamo

benissimo qui.

Nessuno insistette. La signora Cimme guardava i due pappagallini, di quelli

che sono chiamati inseparabili. Disse qualche frase di elogio per la singolare

fedeltà di quelle bestiole, e di biasimo per gli uomini che non le imitano. Cimme si

mise a ridere, guardò la moglie, canticchiando in tono beffardo: «Tra-la-la,

Tra-la-la» come per far capire tante cose sulla sua fedeltà, di lui, Cimme.

Colombel aveva i crampi allo stomaco e picchiava il bastone sul pavimento.

Il secondo gatto entrò a coda ritta.

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Si misero a tavola soltanto all’una.

Appena ebbe assaggiato il vino, Colombel, al quale era stato raccomandato di

bere soltanto bordò di qualità, richiamò la serva:

- Dimmi un po’, ragazza, non avete niente di meglio in cantina?

- Sissignore, c’è il vino buono che vi servivo quando venivate qui.

- Benone. Vai a prenderne tre bottiglie.

Assaggiarono quel vino che fu giudicato eccellente; non che fosse di gran

provenienza, ma era in cantina da quindici anni. Cimme dichiarò:

- È un vero vino da malati.

Colombel provò una gran voglia di possedere quel vino e interrogò di nuovo la

serva:

- Quanto ne rimane ancora, figliola?

- Oh, quasi tutto, signore. La signorina non lo beveva mai. È il mucchio in

fondo.

Allora Colombel si rivolse al cognato:

- Se credete, Cimme, prenderei la vostra parte di vino in cambio di qualche

altra cosa. Si confà meravigliosamente al mio stomaco.

Anche la chioccia era entrata, col suo branco di pulcini; le due donne si

divertivano a buttarle le briciole.

Joseph e il cane, avendo mangiato abbastanza, furono rimandati in giardino.

La regina Hortense parlava sempre, ma sottovoce, sicché non si distinguevano

più le parole.

Quand’ebbero bevuto il caffè, andarono tutti a constatare le condizioni

dell’ammalata. Pareva tranquilla.

Tornarono fuori e si sedettero in crocchio, in giardino, per fare la siesta.

Ad un tratto il cane si mise a girare intorno alle sedie a tutta velocità, tenendo

qualcosa in bocca. Il bambino gli correva dietro di galoppo. Scomparvero

entrambi nella casa.

Cimme si addormentò con la pancia al sole.

La moribonda riprese a parlare a voce alta. Poi, improvvisamente, si mise a

gridare.

Le due donne e Colombel si affrettarono ad entrare per vedere che cosa

avesse. Cimme, svegliatosi, non si mosse perché quelle cose non gli piacevano.

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S’era messa a sedere, con gli occhi sbarrati. Il cane, per sfuggire alla caccia

del piccolo Joseph, era saltato sul letto, aveva scavalcato l’agonizzante, si era

rifugiato dietro i guanciali e guardava il suo compagno con occhi luccicanti,

pronto a slanciarsi di nuovo per riprendere il gioco. Teneva in bocca una

pantofola della sua padrona, tutta strappata dalle dentate, dopo un’ora che ci

giocava.

Il bambino, intimidito dalla donna rizzatasi all’improvviso di fronte a lui, stava

immobile davanti al letto.

La chioccia, che era entrata anch’essa, spaventata dal chiasso era saltata su

una sedia, e chiamava disperatamente i suoi pulcini che pigolavano atterriti, tra

le quattro gambe della sedia.

La regina Hortense gridava con voce straziante:

- No, no, non voglio morire, non voglio, non voglio! Chi alleverà i miei figlioli?

Chi avrà cura di loro? Chi gli vorrà bene? No, non voglio!... no...

Si arrovesciò sul dorso. Era finita.

Il cane, eccitatissimo, saltò nella camera sgambettando.

Colombel corse alla finestra e chiamò il cognato: - Venite, venite, svelto.

Dev’essere spirata.

Allora Cimme si alzò, e decidendosi a malincuore, entrò nella camera

balbettando:

- Ha durato meno di quanto immaginassi.

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IDILLIO

Il treno aveva lasciato Genova, diretto a Marsiglia, e seguiva le lunghe

ondulazioni della costa rocciosa, guizzando come un serpente di ferro tra il mare

e la montagna, strisciando sulle spiagge gialle orlate dall’argento delle onde brevi,

e penetrando all’improvviso nella gola oscura delle gallerie come un animale nella

tana.

Nell’ultima carrozza del treno una donna formosa e un giovanotto stavano

seduti uno di fronte all’altra, senza parlarsi, lanciandosi un’occhiata di tanto in

tanto. Lei, che avrà avuto venticinque anni, stava accanto al finestrino guardando

il paesaggio. Era una robusta contadina piemontese, con gli occhi neri, il seno

voluminoso e le guance paffute. Aveva sistemato parecchi fagotti sotto il sedile e

si teneva un paniere sulle ginocchia.

Il giovane era sui vent’anni: magro, abbronzato, con il colorito scuro degli

uomini che lavorano all’aria aperta. Accanto a lui, in una pezzuola, c’era tutto il

suo avere: un paio di scarpe, un paio di pantaloni, una camicia e un giubbotto.

Anche lui aveva messo qualcosa sotto il sedile: una vanga e una zappa, legate

assieme con una corda. Andava a cercar lavoro in Francia.

Il sole salendo nel cielo inondava la costa di una pioggia di fuoco; si era verso

la fine di maggio e nell’aria ondeggiavano odori squisiti che dai finestrini aperti

entravano negli scompartimenti.

Gli aranci e i limoni in fiore esalavano nell’aria calma il loro profumo

zuccherino, dolce, intenso e inebriante, lo mescolavano all’olezzo delle rose che

crescevano ovunque, come erbe, lungo la ferrovia, nei ricchi giardini, dinanzi

all’uscio dei casolari e anche in piena campagna.

Sono a casa loro, le rose, su questa riviera! La regione è piena del loro aroma

acuto e leggero, l’aria diventa una leccornia, qualcosa che ha più sapore del vino,

e come quello è inebriante.

Il treno procedeva adagio, come indugiando in quel giardino, tra quelle

dolcezze. Si fermava ad ogni stazioncina, davanti a una casa candida, e ripartiva

con andatura placida, dopo un lungo fischio. Non saliva nessuno. Si sarebbe

detto che tutti sonnecchiassero, che in quella calda mattina di primavera

nessuno fosse capace di muoversi.

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La prosperosa giovane ogni tanto socchiudeva gli occhi e li riapriva

bruscamente quando il paniere stava per cadere, scivolandole dalle ginocchia. Lo

riafferrava con un gesto rapido, guardava fuori del finestrino per qualche minuto

e si riassopiva. Aveva la fronte imperlata di gocce di sudore e respirava a fatica,

come oppressa da qualche sofferenza.

Il giovanotto aveva reclinato il capo e dormiva col sonno pesante dei contadini.

Ad un tratto, appena oltrepassata una stazioncina, la contadina si svegliò,

aprì il paniere, ne trasse un pezzo di pane, un fiaschetto di vino, uova sode e

prugne, delle belle prugne rosse, e si mise a mangiare.

Anche l’uomo si era svegliato di soprassalto e la guardava, guardava ogni

boccone che la donna si portava dal grembo alle labbra. Stava lì con le braccia

conserte, con gli occhi sbarrati, le labbra strette, succhiandosi le gote.

Ella mangiava con ingordigia, e beveva continuamente sorsate di vino per

mandar giù le uova, e poi si fermava per respirare.

Fece sparire ogni cosa: pane, uova, vino. Quando lei ebbe finito di mangiare, il

giovanotto richiuse gli occhi. La donna si sentiva un po’ oppressa e cominciò a

slacciarsi il corpetto; subito l’uomo si rimise a guardarla.

Ella non se ne curò, continuò a sbottonare; e la forte spinta del seno muoveva

la stoffa, facendo intravedere tra le due mammelle, nell’apertura sempre più

larga, il biancore degli indumenti e della pelle.

La contadina si sentì meglio, e disse in italiano: - Fa così caldo che non si

respira.

Il giovanotto rispose nella stessa lingua e con lo stesso accento: - È il tempo

che ci vuole per viaggiare.

Ella domandò: - Siete piemontese?

- Sono di Asti.

- Ed io di Casale.

Erano delle stesse parti. Cominciarono a discorrere.

Fecero quei soliti discorsi insignificanti che la gente del popolo fa sempre e che

bastano ai loro cervelli tardi e limitati. Parlarono dei loro paesi. Avevano dei

conoscenti in comune. Rammentarono delle persone, diventando sempre più

amici ad ogni nuovo nome che entrambi conoscevano. Svelte e rapide le parole

uscivano dalla loro bocca con le finali sonore e la cantilena dell’italiano. Dopo

parlarono di sé.

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Lei era sposata; aveva già tre bambini che aveva affidato a una sua sorella,

perché aveva trovato un posto di balia, un buon posto in casa di una signora

francese, a Marsiglia.

Lui era in cerca di lavoro. Gli avevano detto che l’avrebbe trovato da quelle

parti, dove si stava costruendo molto.

Poi tacquero.

Il caldo si faceva insopportabile e arroventava il tetto delle carrozze. Una nube

di polvere correva dietro il treno e vi penetrava; i profumi degli aranci e delle rose

diventavano più possenti, pareva che fossero più densi, più pesanti.

I due viaggiatori si riaddormentarono.

Riapersero gli occhi quasi nello stesso momento. Il sole calava sul mare,

illuminando l’azzurra distesa con un torrente di luce. L’aria s’era rinfrescata e

diventava più leggera.

La balia ansimava; aveva il corpetto slacciato, le guance tremanti, gli occhi

appannati; e disse con voce oppressa:

- È da ieri sera che non allatto; mi sento come se dovessi svenire da un

momento all’altro.

Non sapendo cosa dire, lui non rispose. La donna soggiunse: - Quando si ha il

latte che ho io, bisogna allattare tre volte al giorno, altrimenti si sta male. È come

se avessi un peso sul cuore, un peso che mi leva il respiro e che mi spezza le

ossa. È una disgrazia aver tanto latte.

- Certo, è una disgrazia. Vi deve dar parecchio fastidio... - rispose lui. Infatti

pareva che la donna si sentisse molto male, accasciata e quasi estenuata.

Mormorò: - Basta premere un poco sopra perché il latte schizzi come da una

fonte. È proprio curioso da vedersi. Non sembrerebbe possibile. A Casale i vicini

venivano sempre a vedere.

- Ah, davvero? - disse lui.

- Sì, certo. Ve lo farei vedere anche a voi, ma non servirebbe a nulla. Ne

uscirebbe troppo poco.

Tacque.

Il convoglio si fermò. In piedi dietro uno steccato una donna reggeva tra le

braccia un bimbo piangente. Era magra e mal vestita.

La balia la guardava, e con tono di compatimento esclamò: - Ecco una che

potrei aiutare; anche il piccolo aiuterebbe me. Guardate, io non sono ricca, e

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difatti lascio la mia casa e i miei parenti, e il mio tesoruccio per andare a servizio,

eppure darei uno scudo per avere quel bimbo per dieci minuti e allattarlo.

Calmerei lui e me. Mi sentirei rinascere.

Tacque di nuovo, poi a più riprese, con la mano che scottava, si asciugò la

fronte gocciolante di sudore. Gemette: - Non ce la faccio più. Mi sento morire. - E

con un gesto incosciente si aperse completamente il vestito.

Venne fuori il seno destro, enorme, turgido, col capezzolo bruno. E la

poveretta si lamentava: - Ah, Dio mio, Dio mio! Come posso fare?

Il treno aveva ripreso la corsa e continuava a procedere in mezzo ai fiori che

esalavano l’odore penetrante delle serate calde. Ogni tanto pareva che sull’azzurro

mare una barca da pesca si fosse addormentata con la candida vela immobile che

si rifletteva nell’acqua come se ci fosse sotto un’altra barca, capovolta.

Turbato il giovane balbettò: - Ma, signora... forse... potrei aiutarvi...

- Sì, se volete, - rispose ella con voce rotta. - Mi fareste un gran favore. Non ce

la faccio più, non ne posso più.

Il giovane s’inginocchiò davanti a lei, che si sporse verso di lui, portandogli

alla bocca, con un gesto di nutrice, la punta scura del seno.

Nel movimento che fece prendendolo con le mani per avvicinarlo all’uomo, ne

sgorgò una goccia di latte. Egli la bevette con avidità prendendo tra le labbra,

come un frutto, la mammella turgida. Si mise a poppare con ingordigia,

regolarmente.

Con le braccia aveva circondato la vita della donna e la stringeva per tenerla

accostata a sé, bevendo a lenti sorsi e muovendo il collo come fanno i lattanti.

Ella disse a un tratto: - Questa, basta. Prendete quest’altra adesso.

Ed egli, docile, prese l’altra.

La donna aveva posato le mani sulla schiena del giovane, ed ora respirava

liberamente, felicemente, assaporando l’effluvio dei fiori misto al venticello che il

movimento del treno faceva penetrare nella carrozza.

- C’è un buon odore, da queste parti, - disse.

Lui non rispose. Continuava a bere a quella fonte viva, con gli occhi chiusi

come per assaporare meglio.

La donna lo scostò con dolcezza.

- Basta ora. Sto meglio. Mi sento rinata.

Il giovane s’era rialzato, asciugandosi la bocca col dorso della mano.

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Rimettendo dentro le due zucche vive che le gonfiavano il petto, la donna

disse:

- Mi avete fatto un gran favore. Vi ringrazio di cuore.

Egli le rispose con tono di riconoscenza:

- Sono io che devo ringraziarvi, signora. Eran due giorni che non mangiavo.

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LA COLLANA

Era una di quelle ragazze belle e seducenti che nascono, come per un errore

del destino, in una famiglia d’impiegati. Era senza dote, senza speranze, non

aveva alcuna possibilità d’essere conosciuta, capita, amata e sposata da un uomo

ricco e raffinato; e lasciò che la sposassero a un impiegatuccio del ministero della

Pubblica Istruzione.

Non potendo far lussi, si vestì con semplicità, ma fu infelice, come se fosse

degradata; perché le donne non appartengono a una casta o a una razza:

bellezza, grazia e fascino sostituiscono per loro nascita e famiglia. La congenita

finezza, l’eleganza istintiva, l’agilità della mente, ecco l’unica gerarchia, che rende

le popolane uguali alle più grandi dame.

Soffriva di continuo, sentendosi destinata a tutte le delicatezze, a tutti i lussi;

soffriva per la povertà del suo appartamento, per la miseria delle pareti, per le

seggiole consumate, la bruttezza delle stoffe. Tutte queste cose, delle quali

un’altra donna delle sue condizioni non si sarebbe nemmeno accorta, la

torturavano, la irritavano. Nel vedere la piccola bretone che le faceva il servizio, si

destavano in lei desolati rimpianti, vaghi sogni. Pensava ad anticamere silenziose,

ovattate da parati orientali, illuminate da grandi torciere di bronzo, a due valletti

in polpe che sonnecchiavano nelle grandi poltrone, intorpiditi dal caldo pesante

del calorifero. Pensava a grandi sale rivestite di sete antiche, a mobili pregiati

adorni di ninnoli preziosi, a salotti civettuoli, profumati, fatti apposta per le

conversazioni del pomeriggio cogli amici più intimi, gli uomini più noti e ricercati,

coloro che tutte le donne invidiano, desiderano, vorrebbero per sé.

Quando sedeva a desinare davanti alla tavola tonda coperta dalla tovaglia di

tre giorni avanti, di fronte al marito che scoperchiava la zuppiera esclamando

estasiato: - Ah, che bella minestra!... Non c’è nulla di meglio... - ella pensava a

pranzi raffinati, a lucenti argenterie, ad arazzi che popolano i muri di antichi

personaggi e strani uccelli in mezzo a foreste incantate; pensava alle vivande

squisite servite in meravigliosi piatti, alle galanterie sussurrate ed ascoltate con

uno sfingeo sorriso, mangiando la carne rosata d’una trota o un’ala di

pollastrella.

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Non aveva bei vestiti, non aveva gioielli; ed erano le sole cose che le

piacessero, quelle per cui si sentiva nata. Avrebbe tanto desiderato piacere, essere

invidiata, essere seducente, corteggiata.

Aveva un’amica ricca, una compagna di convento, e non andava più a trovarla

perché dopo ogni visita provava troppo dispiacere. Piangeva per giornate intere, di

rimpianto, di disperazione, di sconforto.

Una sera il suo marito ritornò a casa tutto trionfante, tenendo in mano una

grande busta:

- Tieni, - disse, - ecco una cosa per te.

Lei strappò nervosamente la busta e ne trasse un cartoncino su cui era

scritto: «Il ministro della Pubblica Istruzione e la signora Ramponneau hanno

l’onore d’invitare i signori Loisel alla serata che si svolgerà lunedì 18 gennaio nel

palazzo del ministero».

Invece d’esser contenta, come si figurava il marito, ella buttò l’invito sulla

tavola, mormorando:

- Che vuoi che me ne faccia?

- Ma, tesoro, pensavo che t’avrebbe fatto piacere. Non andiamo mai in nessun

posto, e questa è una bella, una magnifica occasione. Ho dovuto faticar molto per

ottenere quest’invito; lo vorrebbero tutti, tutti si danno da fare e ce ne son

pochissimi per gl’impiegati. Ci sarà tutta la società governativa.

Lei lo fissava corrucciata e disse con voce impaziente:

- Che cosa vuoi che mi metta addosso, per andare in un posto come quello?

Non ci aveva pensato; balbettò:

- Il vestito che ti metti per andare al teatro; mi pare molto bello.

Tacque, stupito e confuso, nel vedere che sua moglie piangeva. Due lacrimone

colavano lentamente dagli angoli degli occhi agli angoli della bocca.

- Che hai? che hai? - le chiese Loisel.

Con uno sforzo Mathilde s’era dominata e rispose con voce normale,

asciugandosi le guance umide:

- Nulla. Soltanto che non ho vestiti e alla festa non ci posso venire. Dai

quell’invito a qualche tuo collega che abbia la moglie messa un po’ meglio di me.

Loisel era dispiaciuto; disse:

- Via, Mathilde... Quanto verrebbe a costare un vestito decente, che ti

potrebbe servire anche in altre occasioni, qualcosa di semplice?...

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Lei rifletté per qualche istante, facendo i conti e pensando alla somma che

avrebbe potuto chiedere senza avere un rifiuto immediato e provocare lo stupore

spaventato dell’economo impiegatuccio.

Alla fine rispose, esitando:

- Non saprei con esattezza, ma penso che potrei farcela con quattrocento

franchi.

Loisel impallidì leggermente, perché aveva da parte proprio quella somma per

comprarsi un fucile con cui andare a caccia, d’estate, nella pianura di Nanterre,

insieme a degli amici che tutte le domeniche andavano in quei paraggi a tirare

alle allodole.

Eppure rispose:

- Va bene. Ti do quattrocento franchi. Ma guarda di farti fare un bel vestito.

S’avvicinava il giorno della festa e la signora Loisel sembrava triste, inquieta,

preoccupata. Eppure il vestito era pronto. Una sera suo marito le chiese:

- Che hai, Mathilde? Sono tre giorni che mi sembri un po’ strana.

Lei rispose:

- Mi dispiace di non avere nemmeno un gioiello, una pietra, una cosa

qualunque da mettermi addosso. Chissà come sembrerò misera... Quasi quasi

preferirei non andare alla festa.

- Puoi metterti dei fiori freschi, - propose lui. - Di questa stagione sono

elegantissimi. Con dieci franchi ti puoi comprare due o tre rose magnifiche.

Mathilde non pareva convinta:

- No, no... Non c’è niente di più umiliante che apparir poveri in mezzo alle

donne ricche.

Il marito esclamò:

- Quanto sei sciocca! Vai dalla tua amica, la signora Forestier, e fatti prestare

un gioiello da lei. Siete abbastanza amiche perché tu lo possa fare.

Ella mandò un gridolino di gioia:

- È vero. Non ci avevo pensato.

Il giorno dopo andò dalla sua amica e le raccontò in quale imbarazzo si

trovasse.

La signora Forestier andò verso l’armadio a specchio, ne trasse un cofanetto,

lo aprì e disse alla signora Loisel:

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- Ecco, cara: scegli.

Vide braccialetti, una collana di perle, una croce veneziana d’oro e pietre, di

mirabile fattura. Si provava i gioielli davanti allo specchio, esitava, non sapeva

decidersi a toglierseli, a rimetterli dentro. Chiedeva:

- C’è dell’altro?

- Ma sì: cerca; non so che cosa preferisci...

Ad un tratto Mathilde scoprì in una scatola di raso nero una collana di

diamanti, magnifica: sentì una voglia smodata tumultuarle nel cuore. Nel

prenderla le tremavano le mani. Se l’agganciò sopra il vestito accollato e stette a

rimirarsi, in estasi.

Esitante e piena di paura chiese:

- Potresti prestarmela, questa, questa soltanto?

- Ma sì, certo...

Mathilde saltò al collo dell’amica, la baciò con trasporto, e scappò col tesoro.

Venne la sera della festa. La signora Loisel trionfò. Era la più bella di tutte,

elegante, graziosa, sorridente, fuor di sé dalla gioia. Tutti gli uomini la

guardavano, chiedevano chi fosse, cercavano d’esserle presentati. Tutti i segretari

di gabinetto vollero ballare il valzer con lei. Il ministro la notò.

Ballava, inebriata, con slancio, stordita dal piacere, senza pensare a nulla, nel

trionfo della sua bellezza, nella gloria del successo, in una sorta d’aureola di

felicità formata dagli omaggi, dall’ammirazione, dai desideri suscitati, dalla sua

vittoria così completa e così cara al suo cuore di donna.

Andò via alle quattro di mattina. Suo marito da mezzanotte stava dormendo in

un salottino insieme ad altri tre signori le cui mogli si divertivano moltissimo.

Lui le buttò sulle spalle il soprabito che aveva portato, un modesto soprabito

che per la sua povertà contrastava con l’eleganza del vestito da ballo. Mathilde se

ne accorse e volle scappar via per non essere vista dalle altre donne che si

stringevano addosso le loro ricche pellicce.

Loisel la trattenne:

- Aspetta un momento. Piglierai un malanno. Vado a chiamare una carrozza.

Ma lei non gli diede retta e scese rapidamente la scala. Per la strada non

c’erano carrozze, e si misero a cercarne una, chiamando i cocchieri che vedevano

passare di lontano.

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Andarono verso la Senna, senza più speranze, tremando di freddo.

Finalmente, sul lungosenna, trovarono una di quelle carrozzelle nottambule che a

Parigi escono fuori soltanto la notte, come se si vergognassero di mostrare alla

luce la loro miseria.

Furono portati fino all’uscio di casa, in via des Martyres, salirono tristemente

le scale. Era finito, pensava lei. E lui pensava che alle dieci sarebbe dovuto essere

al ministero.

Mathilde si levò il soprabito che le copriva le spalle, davanti allo specchio, per

potersi vedere ancora una volta in tutto il suo splendore. Gettò un grido

improvviso. Non aveva più la collana!

Suo marito, già mezzo spogliato, le chiese:

- Che c’è?

Mathilde si voltò verso di lui, sgomenta:

- Ho perso la collana... la collana della signora Forestier...

Lui si rizzò, esterrefatto:

- Cosa? Come? non è possibile!

Cercarono tra le pieghe del vestito, del mantello, nelle tasche, dappertutto.

Non c’era.

Il marito chiese:

- Sei sicura che l’avevi ancora quando siamo venuti via?

- Sì, me la sono toccata nell’atrio del ministero.

- Ma se l’avessi persa per la strada, si sarebbe sentita cadere. Dev’essere nella

carrozza.

- Può darsi... Hai visto che numero aveva?

- No, e tu?

- Nemmeno io.

Si guardarono atterriti. Finalmente Loisel si rivestì.

- Vado a rifare la strada che abbiamo percorso a piedi, - disse, - per vedere se

la ritrovo.

E uscì. Lei rimase col vestito addosso senza aver la forza d’andare a letto,

afflosciata su una sedia, col cervello vuoto.

Loisel tornò alle sette, senza aver trovato nulla.

Andò alla prefettura di polizia, ai giornali per promettere una ricompensa, alla

società delle carrozze, ovunque un barlume di speranza lo sospingesse.

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Mathilde aspettò per tutta la giornata nello stesso stato di prostrazione,

davanti a quel tremendo disastro.

Loisel tornò a casa la sera, col viso incavato, pallido; non aveva trovato nulla.

- Scrivi alla tua amica, - disse, - che ti s’è rotto il fermaglio della collana, e che

l’hai data ad accomodare. Avremo tempo di pensare qualcosa.

Mathilde scrisse quel che lui dettò.

In capo a una settimana avevano perso qualunque speranza.

Loisel, che era invecchiato di cinque anni, disse:

- Dobbiamo comprarne un’altra...

Il giorno dopo presero l’astuccio e andarono dal gioielliere il cui nome era

scritto nell’interno. Questi consultò i registri:

- No, signora, questa collana non l’abbiamo venduta noi. Soltanto l’astuccio è

nostro.

Allora andarono da un gioielliere all’altro, cercando una collana uguale a

quella perduta, cercando di ricordarsi, tutti e due febbricitanti di dolore e

d’angoscia.

In una bottega del Palazzo Reale trovarono un rosario di diamanti che pareva

preciso a quello che cercavano. Valeva quarantamila franchi. Potevano darlo per

trentaseimila.

Pregarono il gioielliere di non venderla per tre giorni. E misero come

condizione che l’avrebbe ripresa indietro per trentaquattromila franchi se quella

perduta fosse stata ritrovata entro il mese di gennaio.

Loisel possedeva diciottomila franchi che gli aveva lasciato suo padre. Il resto

lo avrebbe preso in prestito.

Andò a chiedere mille franchi da questo, cinquecento da quello, cinque luigi

qui, tre luigi là. Firmò cambiali, prese impegni disastrosi, ebbe a che fare con

usurai e con ogni specie di strozzini. Compromise tutto il resto della sua vita,

rischiò la sua firma senza neanche sapere se avrebbe potuto farle onore e,

angosciato dal pensiero del futuro, della miseria nera che gli sarebbe caduta

addosso, dalla prospettiva delle privazioni fisiche e delle torture morali, andò a

comprare la collana nuova, posando sul banco del gioielliere i trentaseimila

franchi.

Quando la signora Loisel riportò la collana alla signora, costei le disse con

tono seccato:

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- Me l’avresti dovuta riportare prima, potevo averne bisogno...

Non aprì l’astuccio, come Mathilde temeva. Se si fosse accorta dello scambio,

che cosa avrebbe pensato? che avrebbe detto? Poteva anche considerarla una

ladra.

La signora Loisel conobbe l’orribile vita dei bisognosi. Vi si adattò subito,

eroicamente. Era necessario pagare quel tremendo debito. Lo avrebbe pagato.

Licenziarono la servetta, cambiarono casa: andarono a stare in una soffitta.

Mathilde conobbe le più dure faccende, le più odiose fatiche della cucina.

Rigovernò, rovinandosi le unghie rosa sui piatti unti, sui tegami. Lavò la

biancheria sudicia, le camicie, gli stracci, stendendoli ad asciugare su una corda

stesa. Tutte le mattine portava giù la spazzatura e portava su l’acqua, fermandosi

ad ogni piano per ripigliar fiato. Vestita come una donna del popolo, andava

dall’erbaiolo, dal droghiere, dal macellaio, col paniere sottobraccio, tirando sui

prezzi, ricevendo ingiurie pur di difendere a soldo a soldo il suo miserabile

denaro.

Tutti i mesi dovevano pagare cambiali, rinnovarne altre, guadagnar tempo.

Il marito lavorava di sera: teneva la contabilità d’un negoziante, e spesso, di

notte, faceva il copista a cinque soldi per pagina.

Questa vita durò dieci anni.

Dopo dieci anni avevano restituito tutto, compresi gl’interessi degli strozzini e

tutto l’insieme degli interessi composti.

Mathilde pareva una vecchia. Era diventata la donna forte, dura, rude, delle

famiglie povere. Spettinata, con la gonnella di traverso, le mani rosse, parlava a

voce alta, lavava i pavimenti buttandoci l’acqua col secchio. Eppure, qualche

volta, quando suo marito era in ufficio, si sedeva accanto alla finestra e pensava a

quella serata, a quel ballo in cui era stata tanto bella e tanto festeggiata.

Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chi lo sa? Com’è strana

la vita, e mutevole! Quanto poco ci vuole per perdersi o salvarsi!

Una domenica era andata agli Champs-Elysées per distrarsi un po’ dalle

faccende; ad un tratto scorse una signora che stava passeggiando, con un

fanciullo. Era la signora Forestier, sempre giovane, sempre bella, sempre

attraente.

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La signora Loisel si sentì turbata. Le avrebbe rivolto la parola? Sì, certamente.

Anzi, ora che aveva pagato, poteva dirle tutto: perché no?

Le si avvicinò.

- Buongiorno, Jeanne.

L’altra non la riconosceva, ed era stupita di sentirsi chiamare con tanta

confidenza da quella popolana.

- Ma, signora... - balbettò; - non... Credo che vi siate sbagliata...

- No. Sono Mathilde Loisel.

L’amica mandò un grido:

- Oh! Povera Mathilde, come sei cambiata!

- Sì... ho passato giornate dure, da quando non ci siamo più viste, e tanta

miseria... per colpa tua.

- Mia? Per colpa mia?

- Ti ricordi quella collana di diamanti che mi prestasti per andare alla festa del

ministero?

- Sì; ebbene?...

- Ebbene, la persi...

- Ma com’è possibile! Se me l’hai resa!

- Te n’ho comprata un’altra uguale. Sono dieci anni che la stiamo pagando. E

capisci che per noi non è stata una cosa facile. Non avevamo nulla. Ora però è

finito, e sono proprio contenta.

La signora Forestier s’era fermata.

- Mi dici che hai comprato una collana di diamanti per sostituire la mia?

- Sì: non te n’eri accorta, vero? Era proprio uguale.

E sorrideva, orgogliosa e ingenuamente felice.

La signora Forestier, sconvolta, le afferrò le mani:

- Oh, mia povera Mathilde! La mia era falsa! Valeva tutt’al più cinquecento

franchi...

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L’ EREDITÀ

I

Provenienti da tutti gli angoli di Parigi, gli impiegati giungevano a fiotti sotto

l’ampio portone del ministero della Marina, prima ancora che scoccassero le dieci:

si avvicinava Capodanno, periodo di zelo e di promozioni. Uno scalpiccio affrettato

riempiva il vasto palazzo, tortuoso come un labirinto e solcato da inestricabili

corridoi bucati dalle innumerevoli porte che davano accesso agli uffici.

Ognuno si infilava nel proprio cantuccio, stringeva la mano al collega giunto

prima di lui, si toglieva la giacca per indossare quella da lavoro, e si sedeva alla

sua tavola dove mucchi di fogli lo attendevano. Poi si chiedevano notizie negli

uffici accanto. Ci si informava se fosse già venuto il capo, di che umore fosse, se

la posta della giornata fosse tanta.

L’archivista di prima classe signor Cachelin, un ex sottufficiale della fanteria

di marina, diventato, a forza d’anzianità, archivista capo, registrava su un grosso

protocollo tutti i fogli che l’usciere di gabinetto gli consegnava. Di fronte a lui il

copista, compare Savon, un vecchio rimbambito, famoso in tutto il ministero per

le sue disgrazie coniugali, trascriveva adagio adagio un dispaccio del capo, e stava

seduto di traverso, con gli occhi sbiechi, in una posa rigida da copista meticoloso.

Cachelin, un omone coi capelli bianchi e corti che gli si rizzavano a spazzola

sul cranio, discorreva, facendo il suo quotidiano lavoro: - Trentadue dispacci da

Tolone. Quel porco, da solo, ce ne dà quanto gli altri quattro messi insieme. - Poi

rivolse a compare Savon la domanda di tutte le mattine:

- Beh, caro compare Savon, come sta la signora?

Il vecchio, senza interrompere il lavoro, rispose: - Lo sapete pure, signor

Cachelin, che questo è un argomento molto penoso per me.

L’archivista si mise a ridere come rideva tutti gli altri giorni alla stessa

risposta.

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Si aprì la porta ed entrò il signor Maze. Era un bel giovanotto bruno, vestito

con eleganza esagerata, il quale si riputava degradato, lì dentro, ritenendosi al

disopra della sua posizione, sia per il suo fisico che per i suoi modi. Portava dei

grossi anelli, una grossa catena all’orologio, un monocolo, per eleganza, perché

per lavorare se lo toglieva, e muoveva spesso le mani per mettere in mostra i

polsini guarniti da grossi gemelli luccicanti.

Dalla soglia domandò: - Molto da fare oggi? - Cachelin rispose: - È sempre

Tolone che ci dà da fare. È chiaro che fanno gli zelanti perché si avvicina il

Capodanno.

Ma un altro impiegato, spiritoso e faceto, il signor Pitolet, comparve a sua

volta, e chiese ridendo: - Perché, noi forse non facciamo gli zelanti?

Poi, cavando l’orologio, esclamò: - Mancano sette minuti alle dieci e siamo

tutti ai nostri posti! Perbacco! Non lo chiamate zelo, questo? E vi posso anche dire

che Sua Dignità il signor Lesable è arrivato alle nove, contemporaneamente al

nostro illustre capo.

L’archivista smise di scrivere, s’infilò la penna dietro l’orecchio, e appoggiando

i gomiti sullo scrittoio: - Oh, quello lì, se non riesce non sarà perché si è dato

poco da fare...

Pitolet, sedendosi all’angolo della tavola e dondolando la gamba, rispose: - Ma

riuscirà, caro Cachelin, riuscirà, potete esserne certo. Volete scommettere venti

franchi contro un soldo che sarà capufficio fra una diecina d’anni?

Maze, il quale, arrotolandosi una sigaretta, si scaldava le gambe dinanzi al

fuoco, esclamò: - Accidenti! Per conto mio preferirei rimanere a duemila e quattro

per tutta la vita piuttosto che sfiancarmi come lui.

Pitolet piroettò sui tacchi; poi disse con tono ironico: - La qual cosa, mio caro,

non vi impedisce di essere qui, oggi 20 dicembre, prima delle dieci.

L’altro alzò le spalle con indifferenza: - Perdiana! Non voglio neanche far da

scaldino agli altri! Dato che voi siete qui a veder spuntare l’alba, mi tocca fare

altrettanto, pur biasimando la vostra sollecitudine. Ma ci corre da questo a

chiamare il capo «caro maestro» come fa Lesable, andarsene alle sei e mezzo e

portarsi a casa il lavoro. D’altra parte io vado in società e ho altri impegni che mi

portano via tempo.

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Cachelin aveva smesso di protocollare e se ne stava pensoso, con lo sguardo

appuntato davanti a sé, nel vuoto. Poi chiese: - Secondo voi avrà un’altra

promozione quest’anno?

- L’avrà di certo, - esclamò Pitolet; - e magari dieci invece di una. Tanto è un

volpone da nulla!...

Si misero a discorrere di promozioni e di gratifiche, l’eterno problema che, da

un mese, assillava quel popoloso alveare di burocrati, dal pianterreno al tetto.

Si soppesavano le probabilità, si cercava d’indovinare le cifre, si valutavano i

titoli, ci si indignava in anticipo prevedendo delle ingiustizie. Si ricominciavano a

non finire le stesse discussioni del giorno avanti, che si sarebbero ripetute di

sicuro il giorno appresso, con le stesse ragioni, gli stessi argomenti e le stesse

parole.

Entrò un nuovo commesso, piccolino, pallido, di aspetto malaticcio, Boissel, il

quale viveva come in un romanzo di Alexandre Dumas padre. Per lui qualsiasi

cosa diventava un’avventura straordinaria, e tutte le mattine raccontava a Pitolet,

suo compagno di tavolino, gli strani incontri della sera prima, i drammi

immaginari che accadevano nel suo stabile, le grida udite per la strada che

l’avevano costretto ad aprire la finestra e affacciarsi alle tre e venti di notte. Non

c’era giorno che egli non separasse due contendenti, o fermasse cavalli

imbizzarriti o salvasse donne in pericolo, e benché fosse di una debolezza da far

pietà, con voce strascicata e convincente vantava di continuo le gesta compiute

dal suo braccio poderoso.

Appena capì che stavano parlando di Lesable, dichiarò: - Uno di questi giorni

gli dirò il fatto suo a quel moccioso, e se per caso mi passasse avanti, gli darei

una tale strapazzata che gli andrebbe via la voglia di ricominciare!

Maze, sempre fumando, sghignazzò: - Faremo bene a cominciare oggi stesso, -

disse. - So da fonte certa che quest’anno sarete messo da parte per far posto a

Lesable.

Boissel alzò una mano: - Vi giuro che se...

La porta si aprì di nuovo ed entrò, in fretta e con aria preoccupata, un

giovanotto di bassa statura, con le fedine da ufficiale di marina o da avvocato, il

colletto dritto assai alto, che si mangiava le parole come se non avesse mai tempo

di finire ciò che diceva. Distribuì delle strette di mano da uomo che non ha tempo

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da perdere e avvicinandosi all’archivista: - Mio caro Cachelin, vorreste darmi

l’incartamento Chapelou, spago, Tolone. A.T.V. 1875?

L’impiegato si alzò, prese una scatola al disopra del suo capo, ne trasse un

fascio di fogli chiusi in una copertina azzurra, e nel consegnarlo disse: - Ecco,

signor Lesable: sapete che ieri il capo ha tolto tre dispacci da questo

incartamento?

- Sì. Li ho io, grazie.

E il giovanotto se ne andò a passi frettolosi.

Appena fu uscito, Maze dichiarò: - Eh! Che arie! Si direbbe che sia già capo!

Pitolet rispose: - Pazienza, pazienza! Lo sarà prima di noi.

Cachelin non aveva ripreso a scrivere. Si sarebbe detto che un pensiero fisso

lo assillasse. Disse ancora: - Ha un bell’avvenire, quel giovanotto!

Maze mormorò con tono sprezzante: - Per quelli che giudicano il ministero una

carriera, sì. Per gli altri è pochino...

Pitolet l’interruppe: - Avreste per caso l’intenzione di diventare ambasciatore?

L’altro ebbe un gesto d’impazienza: - Non si tratta di me. Per me, me ne

infischio! Però non vuol dire che la condizione di capufficio sarà mai gran che, in

società!

Compare Savon, il copista, non aveva smesso di far le sue copie. Ma da

qualche momento stava ripetutamente intingendo il pennino nel calamaio, poi lo

ripuliva con ostinazione sulla spugna umida che era intorno allo scodellino, senza

che gli riuscisse di scrivere neanche una parola. Il liquido nero scivolava lungo il

metallo e ricadeva in chiazze sul foglio. Il brav’uomo, spaurito e afflitto, guardò la

copia che gli toccava rifare come tante altre da un po’ di tempo in qua, ed esclamò

con tristezza, a bassa voce:

- L’inchiostro è stato truccato di nuovo!...

Su tutte le bocche scoppiò una gran risata. Cachelin con la pancia scuoteva la

tavola; Maze si piegava in due come se volesse infilarsi all’indietro nel caminetto;

Pitolet pestava i piedi, tossiva, scrollava la mano destra come se fosse bagnata, e

anche Boissel stava soffocando, lui che di solito prendeva le cose piuttosto in

modo tragico che allegramente.

Compare Savon asciugò la penna con un lembo della giacca e soggiunse: -

Non c’è niente da ridere. Mi tocca rifare il lavoro due o tre volte.

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Cavò un altro foglio dalla cartella, lo sistemò nel lucido e ricominciò la testata:

«Signor ministro e caro collega...». Il pennino ora teneva l’inchiostro e tracciava

con chiarezza le lettere. Il vecchio riprese la sua posa di traverso e continuò a

copiare.

Gli altri non avevano ancora smesso di ridere. Soffocavano. Oramai erano sei

mesi che facevano questa burla al brav’uomo senza che egli si accorgesse di

nulla. Mettevano qualche goccia d’olio sulla spugnetta umida che serviva a

sgrassare il pennino. Cosicché l’acciaio, unto, non prendeva più l’inchiostro; e il

copista passava ore e ore a stupirsi, ad affliggersi, consumava scatole di pennini e

bottiglie d’inchiostro, e sentenziava che le forniture dell’ufficio erano veramente

difettose.

Poi la burla era diventata un’ossessione, un supplizio. Gli mettevano un po’ di

polvere da sparo nel tabacco, drogavano l’acqua della boccia da cui beveva di

tanto in tanto, e gli avevano fatto credere che, dopo la Comune, la maggior parte

degli oggetti d’uso corrente venissero falsificati a quel modo dai socialisti, per

darne la colpa al governo e provocare la rivoluzione.

In conclusione, egli nutriva un odio tremendo contro gli anarchici, che gli

pareva di vedere in agguato dappertutto, nascosti dappertutto, e aveva una

misteriosa paura dell’ignoto invisibile e temibile.

Nel corridoio risuonò una scampanellata. La conoscevano bene la

scampanellata rabbiosa del capo, il signor Torchebeuf, e si precipitarono tutti alla

porta per tornare ognuno al proprio posto.

Cachelin si rimise a registrare, quindi posò nuovamente la penna e cominciò a

riflettere, tenendosi il capo fra le mani.

Stava maturando un pensiero che lo tormentava da un po’ di tempo. Ex

sottufficiale della fanteria di marina, riformato a cagione di tre ferite, riportate,

una nel Senegal e due in Cocincina ed entrato al ministero per concessione

particolarissima, aveva dovuto ingoiare tanti bocconi amari: miserie, sgarbi,

dispiaceri, nella sua lunga carriera di subordinato d’infimo ordine; per cui

considerava l’autorità ufficiale come la più bella cosa del mondo. Un capufficio gli

pareva un essere eccezionale che vivesse in un mondo superiore; e l’impiegato del

quale sentiva dire: «È un furbo, arriverà presto», gli pareva come di un’altra razza,

di una natura diversa dalla sua.

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Quindi per il suo collega Lesable aveva una grandissima considerazione che

confinava con la venerazione, e nutriva il segreto desiderio, l’ostinato desiderio di

fargli sposare la sua figliola.

Costei, in futuro, sarebbe stata ricca, assai ricca. Tutto il ministero lo sapeva:

la sorella di lui, la signorina Cachelin, possedeva un milione, un milione pulito,

liquido e solido, messo insieme con l’amore, si diceva, ma purificato da una

tardiva devozione.

La zitella, che aveva avuto una vita galante, si era ritirata con cinquecentomila

franchi, ed era riuscita a più che raddoppiarli in diciotto anni di risparmi feroci e

di abitudini più che modeste. Da parecchio tempo abitava col fratello, che era

rimasto vedovo con una bambina, Coralie; ma contribuiva in misura minima alle

spese di casa, conservando e accumulando il suo denaro, e ripetendo

continuamente a Cachelin: - Non preoccuparti, tanto è per tua figlia; ma falla

sposare presto. Voglio vedere dei nipotini. Lei mi darà la gioia di abbracciare un

bambino del nostro sangue.

La cosa era nota negli uffici, e i pretendenti non mancavano. Si diceva che lo

stesso Maze, il bel Maze, l’elegantone della sezione, gironzolasse intorno al signor

Cachelin con scopi manifesti. Ma l’ex sergente, un volpone che conosceva bene la

vita, voleva un giovane di belle speranze, un giovane che sarebbe diventato capo e

che, di riflesso, avrebbe riversato una certa considerazione anche su di lui, César,

il vecchio sottufficiale. Lesable era proprio la persona che cercava e da molto

tempo studiava il modo di tirarselo in casa.

All’improvviso si alzò, fregandosi le mani. Aveva trovato.

Conosceva le debolezze di ognuno. Lesable si poteva prendere soltanto dalla

parte della vanità, della vanità professionale. Sarebbe andato a chiedergli la sua

protezione come si fa coi senatori o coi deputati o coi grandi personaggi.

Cachelin da cinque anni non aveva più avuto promozioni e quell’anno era

sicuro di ottenerla. Avrebbe fatto finta di credere di doverla a Lesable, e l’avrebbe

invitato a pranzo per ringraziarlo.

Appena il progetto fu concepito, lo mise in atto. Staccò dall’armadio la giacca

buona, levandosi quella da lavoro, e riuniti tutti i documenti registrati che

riguardavano il servizio del suo collega, andò verso l’ufficio che costui occupava

da solo, per speciale concessione, per via del suo zelo e dell’importanza dei suoi

compiti.

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Il giovanotto stava scrivendo seduto a una gran tavola, in mezzo a fascicoli

aperti e fogli sparsi, numerati con l’inchiostro turchino.

Appena vide entrare l’archivista, gli chiese con tono familiare nel quale

traspariva una certa considerazione: - E allora, mio caro, mi portate parecchio

lavoro?

- Sì, non c’è male. E vorrei anche parlarvi.

- Sedetevi, caro amico, sono tutto orecchi.

Cachelin si sedette, assunse un’aria intimidita, e con voce malferma:

- Ecco perché son qui, signor Lesable. Non voglio farla lunga. Sarò franco

come un vecchio soldato. Sono venuto a chiedervi un favore.

- E quale?

- In poche parole: mi occorre la promozione, quest’anno. Non ho nessuno che

mi aiuti e ho pensato a voi.

Lesable arrossì un poco, stupito, contento, pieno di orgogliosa confusione.

Tuttavia rispose:

- Ma io non sono nulla, caro amico, meno di voi che fra poco sarete archivista

capo. Non posso far nulla... Pensate che...

Cachelin l’interruppe con una ruvidezza rispettosa: - Via, via, via. Il capo vi dà

retta, e se gli dite una buona parola per me, la cosa è fatta. Pensate che fra

diciotto mesi avrò diritto alla pensione, e mi toccheranno cinquecento franchi di

meno se non ottengo la promozione a Capodanno. Lo so che di me si dice:

«Cachelin non ha bisogno, sua sorella ha un milione». È vero, mia sorella ha un

milione, ma ce l’ha per sé, a me non mi tocca nulla. Sarà per mia figlia, anche

questo è vero, ma una cosa è mia figlia e un’altra io. Sarei già a posto se mia figlia

e mio genero se ne andassero in carrozza e io avessi da mangiare. Capite la mia

situazione, vero?

Lesable assentì col capo: - È giusto, giustissimo, ciò che dite. Il vostro genero

potrebbe mancare nei vostri riguardi. E d’altra parte si preferisce sempre non

dover nulla a nessuno. Insomma, vi prometto di fare quanto posso: parlerò col

capo, gli spiegherò il vostro caso, e insisterò, se sarà necessario. Potete contare su

di me.

Cachelin si alzò, prese le mani del suo collega, scrollandole militarmente e

balbettando: - Grazie, grazie, vi assicuro che se mai si presentasse l’occasione...

se un giorno potessi... - Non finì, non trovando le parole per conchiudere il

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discorso, e se ne andò facendo risuonare nel corridoio il suo passo cadenzato di

vecchio soldato.

Ma udì da lontano uno scampanellio rabbioso e si mise a correre perché aveva

riconosciuto il suono. Era il capo, il signor Torchebeuf, che chiamava il suo

archivista.

Otto giorni dopo, Cachelin trovò sulla scrivania una lettera sigillata, di questo

tenore:

«Mio caro collega, sono felice di annunciarvi che il ministro, su proposta del

nostro direttore e del nostro capo, ha firmato ieri la vostra nomina ad archivista

capo. Domani riceverete la comunicazione ufficiale. Ma per ora non sapete nulla.

D’accordo?

Il vostro Lesable».

César corse immediatamente all’ufficio del giovane collega, lo ringraziò, si

scusò, fece grandi proteste di devozione e di gratitudine.

Infatti il giorno dopo si seppe che i signori Lesable e Cachelin avevano

ottenuto entrambi la promozione. Gli altri impiegati avrebbero atteso un anno più

propizio, e intanto ottenevano una gratificazione che variava da centocinquanta a

trecento franchi.

Boissel dichiarò che una di quelle sere, a mezzanotte, avrebbe aspettato

Lesable all’angolo della strada di casa sua per dargli tante di quelle botte da

lasciarlo lì secco. Gli altri impiegati non aprirono bocca.

Il lunedì seguente Cachelin, appena giunto in ufficio, si recò dal suo

protettore, entrò con aria solenne e con tono cerimonioso gli disse:

- Spero che vorrete farmi l’onore di venire a cena da noi durante le feste.

Sceglierete il giorno che preferite.

Il giovanotto alzò il capo piuttosto sorpreso, guardò fisso il collega; senza

levargli gli occhi di dosso, per leggere ben chiaro il suo pensiero, rispose: - Ma,

mio caro, il fatto è... il fatto è che da un po’ di tempo ho tutte le serate impegnate.

Cachelin insistette con bonarietà: - Suvvia, non dateci questo dispiacere, dopo

il favore che ci avete fatto. Ve ne prego a nome della mia famiglia, e mio.

Lesable, perplesso, esitava. Aveva capito, ma non sapeva che cosa rispondere

perché non aveva avuto il tempo di riflettere e di valutare il pro e il contro. Quindi

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pensò: «Non mi impegno a nulla andando a cena» e accettò con aria soddisfatta,

scegliendo il sabato seguente. Sorridendo, soggiunse: - Per non dovermi alzare

troppo presto la mattina dopo.

II

Cachelin abitava in cima a via Rochechouart, al quinto piano, in un

appartamento con la terrazza, di dove si vedeva tutta Parigi. C’erano tre camere,

una per la sorella, una per la figlia, una per lui; e la stanza da mangiare serviva

da salotto.

In previsione del pranzo stette agitato tutta la settimana. La lista dei piatti

venne discussa a lungo, per combinare un pranzo che fosse al tempo stesso

borghese e fine. Alla fine decisero così: un brodo ristretto con le uova, antipasto

misto, gamberetti e salame, un astice, un bel pollo, pisellini in scatola, pasticcio

di fegato, insalata, gelato e frutta.

Il fegato fu comprato dal pizzicagnolo accanto, con la raccomandazione che

fosse di prima qualità. Venne a costare tre franchi e cinquanta il vasetto. Per il

vino, Cachelin si rivolse al vinaio della cantonata dal quale comprava di solito, a

litri, la rossa bevanda che consumava a tavola. Non volle andare in una bottega

importante per via di questo ragionamento: «I piccoli rivenditori hanno di rado

l’occasione di vendere i vini di qualità. Li tengono in cantina per molto tempo e

perciò diventano eccellenti».

Il sabato rincasò presto, per esser sicuro che fosse tutto pronto. La serva, che

venne ad aprirgli, era più rossa di un gambero perché per la paura di non fare in

tempo aveva acceso il fornello fin da mezzogiorno ed era stata ad arrostirsi la

faccia; e inoltre era in grande agitazione.

Entrò nella sala da pranzo, per controllare ogni cosa. In mezzo alla piccola

stanza, la tavola rotonda era come una gran macchia bianca sotto la forte luce

della lampada coperta da un paralume verde.

Accanto ai quattro piatti, su cui erano posti i tovaglioli, ripiegati a mitria dalla

signorina Cachelin, la zia, erano state disposte le posate di metallo bianco e,

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davanti a ognuno, due bicchieri, uno grande e uno piccolo. Cachelin trovò che

l’apparecchiatura non soddisfaceva l’occhio e chiamò: - Charlotte!

Si aprì la porta di sinistra e comparve una vecchia piuttosto bassa. Di dieci

anni più anziana del fratello, aveva un viso stretto, incorniciato di riccioletti

bianchi fatti con i cartocci. Aveva anche una vocetta che pareva troppo debole per

il suo corpicino ricurvo, e si muoveva con passo strascicato, facendo gesti

stanchi.

Quand’era giovane, dicevano di lei: - Che graziosa creatura!

Adesso era una vecchietta esile, molto pulita per antica abitudine, autoritaria,

testarda, di mentalità ristretta, meticolosa, e facilmente irritabile. Era diventata

molto pia e pareva che avesse interamente dimenticato le avventure del passato.

- Cosa vuoi? - chiese.

Cachelin rispose: - Mi pare che due bicchieri soli non facciano nessun effetto.

Se per caso si dovesse servire lo spumante... Tanto non spenderei più di tre o

quattro franchi, e si potrebbero mettere senz’altro in tavola le coppe. La stanza

piglierebbe un altro aspetto.

La signorina Charlotte disse: - Non vedo proprio l’utilità di questa spesa. Ma

siccome sei tu che paghi, non mi riguarda.

Cachelin esitava, volendo convincere se stesso: - Ti assicuro che sarebbe

molto meglio. E poi, col dolce dei Re Magi darà maggior animazione. -

Quest’argomento era stato decisivo. Prese il cappello, ridiscese le scale e dopo

cinque minuti tornò con una bottiglia su cui c’era un’etichetta ornata di grandi

stemmi con la scritta: «Gran spumante di Champagne del conte di

Chatel-Rénovau».

- L’ho pagato soltanto tre franchi, e pare che sia squisito, - affermò Cachelin.

Prese lui stesso le coppe dalla credenza e le dispose dinanzi ai convitati.

Si aprì la porta di destra. Entrò la figlia. Era alta, grassoccia e rosea: una bella

ragazza di solida razza, coi capelli castani e gli occhi azzurri. Un vestito semplice

le disegnava la vita rotonda e svelta; aveva una voce forte, quasi da uomo, in cui

risuonavano delle note gravi che facevano vibrare. - Oh Dio! - esclamò; - lo

spumante! che bellezza! - e batteva la mani come una bambina.

Suo padre le disse: - Soprattutto cerca di essere gentile con quel signore che

mi ha fatto tanti favori.

La giovane scoppiò in una sonora risata che significava: «Lo so».

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Suonò il campanello dell’ingresso, si udirono porte aprirsi e richiudersi.

Comparve Lesable. Indossava una marsina nera con la cravatta bianca e i guanti

bianchi. Fece effetto. Cachelin gli si era precipitato incontro, confuso ed estasiato:

- Ma, mio caro, siamo noi soli; vedete che io sono in giacchetta...

Il giovanotto rispose: - Lo so, me l’avevate detto, ma io di sera ho l’abitudine di

uscire sempre in marsina. - Salutò, tenendo il gibus sotto il braccio; aveva un

fiore all’occhiello. César fece le presentazioni: - Mia sorella, la signorina Charlotte;

mia figlia, Coralie, che in casa chiamiamo Cora.

Ognuno si inchinò. Cachelin continuò: - Non abbiamo salotto. Non è tanto

comodo, ma ci si abitua. Lesable rispose: - È delizioso!

Gli presero il cappello che egli voleva invece tenere.

Si erano seduti, e lo guardavano un po’ da lontano, attraverso la tavola, senza

che nessuno parlasse più. Cachelin domandò: - È rimasto fino a tardi il capo? Io

sono venuto via presto per dare una mano alle signore.

Lesable rispose con tono disinvolto: - No. Siamo usciti insieme perché

dovevamo parlare della tela per i copertoni di Brest. È una faccenda molto

complessa che ci darà molto da fare.

Cachelin si credette in dovere di informare sua sorella, e rivolgendosi a lei: -

Tutte le questioni complicate le sbriga il signor Lesable. Si può dire che sia un

doppio del capo.

La zitella s’inchinò cortesemente dichiarando: - Oh! lo so lo so, che il signore

ha grandi capacità.

Entrò la serva, spingendo la porta con un ginocchio e tenendo alta tra le mani

una grossa zuppiera. Allora il padrone di casa gridò: - Via, a tavola! Mettetevi lì,

signor Lesable, tra mia sorella e mia figlia. Non credo che voi abbiate paura delle

signore. - E il pranzo cominciò.

Lesable si mostrava galante, con un’arietta di sufficienza, quasi di

condiscendenza, e guardava di soppiatto la ragazza, stupito della sua freschezza,

della sua florida e appetitosa sanità. La signorina Cachelin, sapendo le intenzioni

di suo fratello, si dava da fare, e sosteneva una conversazione che si appigliava ai

più ordinari luoghi comuni. Cachelin, raggiante, parlava a voce alta, scherzava,

mesceva il vino comperato un’ora prima dal vinaio della cantonata, dicendo: - Un

po’ di questo borgognino, signor Lesable. Non dico che sia di marca reale, ma è

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buono, è invecchiato in cantina e non è affatturato di questo posso risponderne.

Ce lo danno certi nostri amici che sono di laggiù.

La ragazza non diceva nulla, un po’ rossa, un po’ intimidita messa in

soggezione dalla vicinanza del giovane, del quale immaginava i pensieri.

Quando comparve l’astice, César esclamò: - Ecco un personaggio con il quale

farò volentieri conoscenza. - Lesable, sorridendo, raccontò che uno scrittore aveva

chiamato l’astice «il cardinale dei mari», senza sapere che quel crostaceo prima di

esser cotto è nero. Cachelin si mise a ridere di tutto cuore, ripetendo: - Ah! ah!

ah! questa è proprio buona. - Ma la signorina Charlotte, indignata, si offese: -

Non capisco come si possa fare un simile paragone. Quel signore non aveva il

senso dell’opportunità. Io ammetto qualsiasi scherzo, ma non mi piace che si

metta in ridicolo il clero in mia presenza.

Il giovanotto, che ci teneva a tornar gradito alla zitella, approfittò

dell’occasione per fare professione di fede cattolica. Parlò delle persone di cattivo

gusto che trattano alla leggera le grandi verità. E concluse: - Per conto mio,

rispetto e venero la religione dei miei padri; ci sono stato educato e ci rimarrò sino

alla morte.

Cachelin non rideva più. Faceva delle pallottoline con la midolla, mormorando:

- È giusto, è giusto. - Poi abbandonò quell’argomento che lo seccava e per la

naturale inclinazione di coloro che fanno tutti i giorni lo stesso lavoro, chiese: -

Chissà il bel Maze come doveva esser furente per non aver ottenuto la

promozione!

Lesable sorrise: - Cosa volete mai? A ciascuno, secondo il suo comportamento!

- E si misero a discorrere del ministero, argomento che appassionava tutti i

convitati, perché le due donne conoscevano gli impiegati quasi quanto Cachelin

stesso, a forza di sentirlo parlare di loro ogni sera.

La signorina Charlotte si interessava molto a Boissel, per le avventure che

vantava e per il suo spirito romanzesco; e la signorina Cora, in segreto, al bel

Maze. D’altronde esse non li avevano mai visti.

Lesable parlava dei colleghi con tono di superiorità, come avrebbe potuto fare

un ministro che giudicasse il personale.

Tutti l’ascoltavano. - Maze non è privo di qualità; ma quando si vuole arrivare,

bisogna lavorare più di quanto faccia lui. Gli piace il bel mondo, i divertimenti.

Tutte cose che ingombrano la mente. Non farà mai molta strada, per colpa sua. E

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forse potrà diventare sottocapo, in grazia delle raccomandazioni che ha, ma

niente di più. In quanto a Pitolet, bisogna riconoscere che scrive bene, ha

un’innegabile eleganza di stile, ma manca di sostanza. È troppo superficiale. Un

ragazzo come lui non si potrebbe mettere a capo di un reparto importante, ma un

superiore intelligente potrebbe servirsene indicandogli da fare.

La signorina Charlotte chiese: - E Boissel?

Lesable si strinse nelle spalle: - Un poveraccio, un poveraccio. Non vede le

cose nelle giuste proporzioni. Inventa certe storie che fanno veramente dormire in

piedi. Per noi, è una nullità.

Cachelin si mise a ridere e dichiarò: - Il migliore è compare Savon. - Tutti si

misero a ridere.

Poi parlarono dei teatri e delle commedie dell’annata. Lesable giudicò la

letteratura drammatica con la stessa autorità, classificando con precisione gli

autori, stabilendo i pregi e i difetti di ognuno con la disinvoltura abituale negli

uomini che si ritengono infallibili e universali.

Avevano terminato l’arrosto. César cominciò a scoprire il recipiente del

pasticcio di fegato con delicate precauzioni che predisponevano a un buon

giudizio. Disse: - Non so se questo sarà riuscito bene. Di solito sono squisiti. Ce li

manda un nostro cugino che abita a Strasburgo.

E ciascuno mangiò con rispettosa lentezza il contenuto del tegame di

terracotta gialla.

Quando comparve il gelato fu un disastro. Era una salsa, un brodo, un liquido

biancastro che ondeggiava nella compostiera. La servetta aveva pregato il garzone

del pasticciere, che era venuto verso le sette, di levarlo lui stesso dalla forma, per

paura di non saperlo fare.

Cachelin, disperato, voleva rimandarlo in cucina, ma poi si calmò pensando al

dolce dei Re Magi, che divise con aria misteriosa, come se vi fosse rinchiuso un

segreto di prim’ordine. Ognuno aveva lo sguardo sul simbolico dolce e lo fecero

girare con la raccomandazione di prenderne una fetta a occhi chiusi.

A chi sarebbe toccata la fava? Tutti sorridevano scioccamente. Lesable fece un

piccolo «Ah!» di stupore e mostrò fra il pollice e l’indice un grosso fagiolo bianco

ancora ricoperto di pasta. Cachelin applaudì, quindi esclamò: - Scegliete la

regina, scegliete la regina!

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Nella mente del re vi fu un momento di incertezza. Non avrebbe compiuto un

atto di buona politica scegliendo la signorina Charlotte? L’avrebbe lusingata,

vinta, conquistata!

Quindi pensò che, a dir la verità, era stato invitato per la signorina Cora e

sarebbe passato per stupido scegliendo la zia. Si voltò allora verso la sua giovane

vicina e presentandole la fava regina: - Signorina, volete permettermi di offrirvela?

Si guardarono in faccia per la prima volta.

Cora rispose: - Grazie, signore, - e ricevette il pegno della regalità.

Egli pensò: «È proprio carina questa ragazza. Ha due occhi magnifici. Ed è ben

piantata, perbacco!».

Una detonazione fece sobbalzare le due donne. Cachelin aveva stappato lo

spumante, che sgorgava impetuoso dalla bottiglia rovesciandosi sulla tovaglia. I

bicchieri furono riempiti di spuma e il padrone di casa esclamò: - È di buona

qualità, si vede. - Ma siccome Lesable stava per bere perché il bicchiere non gli

traboccasse, César esclamò: - Il re beve! il re beve! il re beve! - E la signorina

Charlotte, anch’essa in allegria, strillò con la sua vocetta acuta: - Il re beve! il re

beve!

Lesable vuotò il bicchiere con sicurezza e posandolo sulla tavola disse: -

Vedete come sono disinvolto! - Quindi, rivolgendosi alla signorina Cora: - Tocca a

voi, signorina!

Ella volle bere; ma siccome gli altri si erano messi a gridare: - La regina beve!

la regina beve! - arrossì, si mise a ridere e posò la coppa dinanzi a sé.

La fine della cena fu molto allegra; il re si dimostrava premuroso e galante con

la regina. Dopo che ebbero bevuto i liquori, Cachelin disse: - Ora facciamo

sparecchiare per aver posto. Se non piove potremo passare qualche minuto in

terrazza. - Ci teneva a mostrare la vista, benché fosse notte.

Aprirono la vetrata. Entrò un’arietta umida. Fuori c’era un certo tepore, come

d’aprile; e tutti salirono il gradino che separava la sala da pranzo dal largo

balcone. Si vedeva soltanto un vago lucore stagnante sull’immensa città, simile

alle aureole di luce che si mettono attorno alla testa dei santi. In taluni punti il

chiarore sembrava più vivo, e Cachelin cominciò a spiegare: - Guardate, laggiù c’è

l’Eden che brilla a quel modo Ecco la riga dei boulevards. Si distinguono

benissimo. Di giorno, da qui la vista è magnifica. Potete viaggiare quanto vi pare,

ma non trovereste di meglio.

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Lesable si era appoggiato con i gomiti alla ringhiera accanto a Cora che

guardava nel vuoto, muta, distratta, presa all’improvviso da quel malinconico

languore che talvolta invade l’anima. La signorina Charlotte tornò dentro per

paura dell’umidità. Cachelin continuava a parlare, indicando dove si trovavano gli

Invalidi, il Trocadero, l’arco di trionfo dell’Étoile.

Lesable chiese sottovoce: - E a voi, signorina Cora, vi piace guardare Parigi di

quassù?

Ella fece un piccolo sobbalzo, come se l’avesse svegliata, e rispose: - Io?... sì,

soprattutto la notte; penso a ciò che capita qui sotto, davanti a noi. Quanta gente

felice e quanta disgraziata in tutte queste case! Se si potesse veder tutto, quante

cose si imparerebbero!

Lesable si era accostato a lei, fino a che i loro gomiti e le spalle si toccarono: -

Con la luna dev’essere meraviglioso!

- Ah sì... - ella sussurrò. - Sembra un’incisione di Gustavo Doré. Chissà che

piacere si proverebbe se si potesse passeggiare sui tetti...

Egli le fece molte domande sui suoi gusti, i suoi sogni, i suoi svaghi. Cora

rispondeva con disinvoltura, da ragazza riflessiva, sensata, senza grilli per la

testa. Gli pareva che avesse molto buon senso, pensava che sarebbe stato molto

piacevole poter allacciare quel vitino tondo e solido e baciare a lungo con baci

piccoli e lenti, come si beve a sorsettini un’acquavite deliziosa, quelle guance

fresche, vicino all’orecchio che era illuminato dal riflesso del lume. Si sentiva

attirato, turbato dalla sensazione della donna così vicina, dalla sete di quella

carne matura e vergine, dalla delicata seduzione della ragazza. Gli pareva che

sarebbe rimasto lì per ore e ore, notti intere, settimane sempre a gomito a gomito

con lei, sentendola accanto a sé nel fascino del contatto. E qualcosa che

somigliava a un sentimento poetico lo faceva palpitare al cospetto della grande

Parigi che gli si stendeva davanti illuminata, vivendo la sua vita notturna, vita di

piaceri e di dissolutezze. Gli pareva di dominare l’enorme città, di librarsi su di

essa; sentiva che sarebbe stato delizioso appoggiarsi tutte le sere a quel balcone

accanto a una donna, e amarsi, baciarsi, abbracciarsi sopra l’ampia città, sopra

tutti gli amori che essa rinchiude, sopra le soddisfazioni volgari, sopra i desideri

comuni, vicini alle stelle.

Ci sono delle sere in cui anche agli animi meno esaltati vien fatto di sognare,

come se avessero le ali. Forse era un pochino brillo.

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Cachelin, il quale era andato a prendersi la pipa, tornò accendendola: - So che

non fumate, - disse, - perciò non vi offro sigarette. Non c’è nulla di meglio che una

fumatina quassù. Per me, se fossi costretto ad abitare ai piani di sotto, non ci

vivrei. Potremmo farlo, perché la casa appartiene a mia sorella come le due di

fianco, quella di destra e quella di sinistra. Le danno una buona rendita. Sono

case che non le costarono molto, allora. - E voltandosi verso il salotto gridò: -

Charlotte, quanto li hai pagati questi terreni?

La voce acuta della zitella si mise a parlare. Lesable sentiva dei brandelli di

frasi: - ... Nel milleottocentosessantatré... trentacinque franchi... costruito in

seguito... le tre case... un banchiere... rivenduto almeno a cinquecentomila

franchi...

Ella parlava del suo patrimonio con lo stesso compiacimento di un vecchio

soldato che narri le sue campagne. Enumerava gli acquisti, le proposte che le

erano state fatte dopo, i soprapprezzi, ecc.

Lesable si sentì interessato, e si voltò, appoggiandosi con la schiena alla

ringhiera della terrazza. Ma siccome afferrava soltanto frasi staccate, abbandonò

la sua giovane vicina e rientrò per sentir tutto; e sedutosi a fianco della signorina

Charlotte si trattenne a parlare a lungo con lei sul probabile aumento delle

pigioni e sulle possibilità di reddito del denaro impiegato bene, in titoli e in

immobili.

Se ne andò verso mezzanotte, promettendo di ritornare.

Un mese dopo, nel ministero non si faceva altro che parlare del matrimonio di

Jacques-Léopold Lesable con la signorina Céleste-Coralie Cachelin.

III

La giovane coppia mise su casa sullo stesso pianerottolo di Cachelin e della

signorina Charlotte in un appartamentino preciso al loro, dal quale avevano

sfrattato l’inquilino.

Tuttavia Lesable era preoccupato: la zia non aveva voluto garantire l’eredità a

Cora con un atto definitivo. Pure aveva acconsentito a giurare «dinanzi a Dio» di

aver fatto testamento e di averlo affidato al notaio Belhomme. Aveva inoltre

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promesso che tutto il suo patrimonio sarebbe toccato alla nipote, a una sola

condizione. Sollecitata a rivelare quale fosse questa condizione, rifiutò di dare

spiegazioni, ma giurò un’altra volta con un sorrisino benevolo che era una

condizione facile.

Di fronte alle spiegazioni e alla testardaggine della vecchia beghina, Lesable

pensò di non insistere, e siccome la ragazza gli piaceva molto, il desiderio fu più

forte dell’incertezza ed egli si arrese agli sforzi tenaci di Cachelin.

Adesso era felice, anche se tormentato dal dubbio. Amava sua moglie che non

aveva punto deluso la sua aspettazione. Le sue giornate trascorrevano tranquille

e monotone. In poche settimane si era abituato alla sua nuova condizione di

uomo sposato, pur seguitando a dimostrarsi il perfetto impiegato di sempre.

Passò un anno. Ritornò Capodanno. Con sua grande sorpresa non ebbe la

promozione sulla quale contava. Soltanto Maze e Pitolet salirono di grado; e

Boissel dichiarò in confidenza a Cachelin che aveva deciso di dare una scarica di

botte ai due colleghi una di quelle sere, uscendo, davanti al portone, al cospetto

di tutti. Non fece nulla.

Per otto giorni Lesable non riuscì a dormire dal dispiacere di non essere stato

promosso nonostante il suo zelo. Faceva pur sempre un lavoro da cani; sostituiva

continuamente il sottocapo, signor Rabot, che era ammalato per nove mesi

dell’anno nell’ospedale di Val-de-Grâce: arrivava in ufficio tutte le mattine alle

nove e mezzo; e la sera andava via alle sei e mezzo. Cosa potevano volere di più?

Se non riconoscevano il suo lavoro ed i suoi sforzi, allora avrebbe fatto come gli

altri, nient’altro. Ad ognuno secondo il merito. Come mai il signor Torchebeuf, che

lo trattava come un figlio, aveva potuto sacrificarlo? Voleva sapere, per regolarsi.

Sarebbe andato dal capo per avere una spiegazione.

Un lunedì mattina, prima dell’arrivo dei colleghi, bussò alla porta di quel

potentato.

Una voce stridula gridò: - Avanti! - Lesable entrò.

Seduto a una tavola coperta di scartoffie, piccino piccino, con una testona che

pareva posata sulle cartelle, il signor Torchebeuf stava scrivendo. Vedendo il suo

impiegato preferito, gli disse:

- Buongiorno, Lesable, come va?

Il giovane rispose: - Buongiorno, caro maestro, benissimo, e voi?

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Il capo smise di scrivere e fece ruotare la poltrona. Il suo corpo esile, gracile,

secco, stretto nella redingote nera, di taglio severo, era in tutto sproporzionato al

gran seggiolone con lo schienale di cuoio. Una rosetta di ufficiale della Legion

d’Onore, enorme, risplendente, cento volte troppo grande, anche per la persona

che la portava, brillava come un carbone acceso su quel petto stretto, schiacciato

sotto un gran cranio, quasi che egli si fosse sviluppato al modo dei funghi.

Aveva le mascelle appuntite, le guance infossate, gli occhi sporgenti, una

fronte smisurata, ricoperta dai capelli bianchi che cadevano all’indietro.

Il signor Torchebeuf disse: - Sedetevi, amico mio, e ditemi per quale motivo

siete qui.

Trattava tutti gli altri impiegati con rudezza militare, considerandosi come un

capitano a bordo della sua nave, perché il ministero era per lui un gran

bastimento, la nave ammiraglia di tutte le flotte francesi.

Lesable, piuttosto commosso e pallido, balbettò: - Caro maestro, vorrei

chiedervi se ho mancato in qualcosa.

- Ma no, mio caro, perché mi fate una simile domanda?

- Perché sono rimasto un po’ sorpreso di non aver avuto, quest’anno, la

promozione, come gli anni passati. Permettetemi di spiegarmi bene, caro maestro,

e di chiedervi scusa della mia sfacciataggine. So di aver ricevuto da voi eccezionali

favori e agevolezze insperate. So che, in generale, le promozioni vengono concesse

ogni due o tre anni; ma permettetemi anche di farvi notare che io in ufficio lavoro

all’incirca come quattro impiegati normali con un orario almeno doppio del loro.

Se si mettessero sulla bilancia, da una parte le mie fatiche e il risultato che se ne

ottiene, e dall’altra il compenso che ne ho, si vedrebbe come le prime siano assai

superiori al secondo!

Si era preparato ben bene il discorsetto, e gli pareva che fosse ottimo.

Torchebeuf, sorpreso, cercava che cosa rispondere. Quindi disse con tono

freddino: - Per quanto non sia lecito, per principio, che si discuta di queste cose

tra capo e impiegato, per questa volta, tenuto conto del vostro lavoro meritorio,

voglio rispondervi.

«Anche quest’anno vi ho proposto per la promozione come gli anni scorsi. Ma il

direttore ha scartato il vostro nome per il fatto che il vostro matrimonio vi

garantisce un bell’avvenire, la ricchezza più che l’agiatezza, a cui i vostri modesti

colleghi non potranno mai arrivare. Insomma, per esser giusti non si deve forse

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considerare la situazione di ciascheduno? Voi sarete ricco, ricchissimo. Per voi

trecento franchi all’anno di più non saranno nulla, mentre per la tasca degli altri

questo piccolo aumento conterà molto. Ecco, caro amico, il motivo per cui

quest’anno siete rimasto indietro».

Lesable se ne andò, confuso e innervosito.

Quella sera, a cena, fu scontroso con la moglie. Di solito ella era allegra e di

umore costante, ma caparbia, e non c’era verso che cedesse quando si era messa

in testa una cosa. Lesable non sentiva più l’attrattiva sensuale di lei, come ai

primi tempi, e benché la desiderasse sempre perché era fresca e graziosa, certe

volte provava come un senso di delusione, la delusione così vicina alla nausea

che provoca la vita in comune. Mille particolari volgari o grotteschi,

l’abbigliamento trasandato della mattina, le vestaglie di lana ordinaria, vecchie,

consunte, l’accappatoio sgualcito perché c’erano pochi soldi, e anche veder troppo

da vicino le faccende di casa, della loro casa povera: tutto questo offuscava il

lustro del matrimonio, faceva appassire quel poetico fiore che, da lungi, tanto

seduce i fidanzati.

C’era poi la zia Charlotte la quale, perché non usciva più, riusciva a rendergli

anche più sgradevole la casa; si immischiava in ogni cosa, voleva far tutto a modo

suo. Faceva osservazioni su tutto, e siccome avevano una gran paura di

offenderla, la sopportavano con rassegnazione, ma anche con rabbia nascosta e

sempre crescente.

Girellava per la casa col suo passo strascicato, da vecchia, e diceva con voce

stridula: - Dovreste anche far questo; dovreste anche far quest’altro, - e non la

smetteva mai.

Quando i due sposi erano soli, Lesable, irritato, esclamava: - Tua zia sta

diventando insopportabile. Io non ce la faccio più. Non ce la faccio più, capisci? -

E Cora rispondeva tranquilla: - Cosa posso farci?

Lesable s’arrabbiava: - Parenti di questa specie sono un inferno!

Sempre calma, ella rispondeva: - Va bene, i parenti sono un inferno, ma

l’eredità è buona, no? Perciò non fare lo stupido. Hai interesse quanto me a

trattar bene la zia Charlotte.

Allora Lesable si chetava, non sapendo più cosa rispondere. La zia aveva

cominciato a tormentarli senza tregua con l’idea fissa di un figliolo. Spingeva

Lesable negli angoli e gli soffiava sul viso: - Caro nipote, voglio che siate padre

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prima che io muoia. Voglio vedere il mio erede. Non vorrete mica darmi da

intendere che Cora non è donna da non far figli? Basta guardarla. Caro nipote, ci

si sposa per mettere al mondo dei figlioli, per fondare una famiglia. La Santa

Chiesa condanna i matrimoni sterili. So che non siete ricchi e che un bambino

costa. Ma quando non ci sarò più non vi mancherà nulla. Voglio un piccolo

Lesable, lo voglio, mi capite?

Ma siccome, dopo quindici mesi di matrimonio, il suo desiderio non s’era

ancora avverato, cominciò ad aver dei dubbi e diventò più noiosa; sottovoce dava

consigli a Cora, consigli pratici, da donna che ha avuto esperienza di molte cose,

e sa ricordarsene al momento buono.

Una mattina si sentì male, tanto da non potersi levare dal letto. Non era stata

mai malata e Cachelin, impressionatissimo, andò a bussare all’uscio del genero: -

Andate subito a chiamare il dottor Barbette, e dite al capufficio che io oggi non

vengo, per questo motivo.

Lesable passò una giornata tremenda, non riusciva a lavorare, a protocollare,

e a studiar le pratiche. Torchebeuf, stupito, gli disse: - Oggi siete distratto, signor

Lesable. - E Lesable, turbato, rispose: - Sono molto stanco, caro maestro, ho

passato la notte a vegliare la zia che sta molto male.

Ma il capo disse con freddezza: - Il signor Cachelin è rimasto ad assisterla;

dovrebbe bastare. Non intendo che il mio ufficio vada a rotoli per via degli affari

personali degli impiegati.

Lesable s’era messo l’orologio davanti, sulla tavola, e aspettava le cinque con

impazienza febbrile. Appena sentì suonare l’orologio del cortile, scappò via,

abbandonando per la prima volta il lavoro all’ora regolamentare.

Era così agitato che prese perfino una carrozza per andare a casa, e salì le

scale di corsa.

Gli aprì la donna di servizio, ed egli le disse balbettando: - Come sta?

- Il dottore dice che è molto giù.

Il cuore gli batté forte e si sentì tutto agitato: - Ah, davvero?

Sicché stava per morire?

Non aveva il coraggio di entrare in camera della malata, e fece chiamare

Cachelin che stava presso il capezzale.

Il suocero comparve subito, aprendo pian piano la porta. Era in vestaglia e

papalina come nelle tranquille serate che passava accanto al fuoco; e sussurrò: -

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Sta male, molto male. Ha perso la conoscenza da quattro ore. Oggi dopopranzo le

han perfino dato i Sacramenti.

Lesable si sentì così debole da non potersi reggere e si mise a sedere.

- Dov’è mia moglie?

- Di là, accanto a lei.

- Cos’ha detto di preciso il dottore?

- Dice che è un colpo. Può riprendersi ora come può morire stanotte.

- Di me avete bisogno? Se non vi servo preferirei non entrare. Mi farebbe molto

pena vederla in quello stato.

- No, andate pure a casa. Se ci sarà qualcosa di nuovo vi farò chiamar subito.

Lesable entrò in casa. L’appartamento gli sembrò mutato, più grande, più

luminoso. Ma non sapeva dove stare e andò sulla terrazza.

Erano gli ultimi giorni di luglio, e il sole che stava per scomparire dietro le due

torri del Trocadero riversava una pioggia di fiamme sull’immenso popolo dei tetti.

Ai suoi piedi, il cielo era d’un color rosso acceso, mentre più in alto pareva

tinto d’oro pallido, poi di giallo e di verde, di un verde leggero intriso di luce, e

diventava poi di un colore azzurro puro e fresco, allo zenit.

Le rondini passavano come frecce, appena visibili, e disegnavano sullo sfondo

vermiglio del cielo il profilo curvo e fuggevole delle loro ali. E sulla folla immensa

delle case, sulla campagna lontana, si librava un nembo rosa, vapore infuocato

nel quale salivano, come in un’apoteosi, le punte dei campanili, le cime snelle dei

monumenti. L’arco di trionfo dell’Étoile si rizzava enorme e nero sull’incendio

dell’orizzonte e la cupola degli Invalidi sembrava un altro sole caduto dal

firmamento sul dorso di un edificio.

Lesable si reggeva con le mani alla ringhiera di ferro, beveva l’aria come se

fosse vino, e aveva una gran voglia di saltare, di gridare, di far gesti violenti, pieno

di una gioia profonda e trionfante. La vita gli appariva radiosa, l’avvenire colmo di

felicità! Cosa avrebbe fatto? Si mise a fantasticare.

Un rumore, dietro, a lui, lo fece trasalire. Era sua moglie. Aveva gli occhi

arrossati, le guance un po’ gonfie, l’aria stanca. Gli porse la fronte perché la

baciasse e disse: - Ceneremo dal babbo per esserle vicini. La serva starà con lei

mentre noi mangiamo.

Egli la seguì nell’appartamento accanto.

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Cachelin era già a tavola e aspettava la figlia e il genero. Un pollo freddo,

un’insalata di patate e una fruttiera di fragole erano pronti sulla finestra, e la

minestra fumava nelle scodelle.

Si sedettero. Cachelin disse: - Giornate come questa vorrei che non

capitassero spesso. Non sono allegre. - Aveva parlato con un tono d’indifferenza

nella voce, e una specie di soddisfazione sul volto. Cominciò a mangiare con

grandissimo appetito, trovando squisito il pollo e l’insalata di patate proprio

rinfrescante.

Invece Lesable si sentiva lo stomaco chiuso ed era inquieto; mangiava appena,

con l’orecchio teso alla camera accanto, silenziosa come se non ci fosse nessuno.

Neanche Cora aveva fame; commossa e lacrimosa, ogni tanto si asciugava un

occhio con la cocca del tovagliolo.

Cachelin domandò: - Cosa ha detto il capo?

Lesable disse tanti particolari, e il suocero era incontentabile, glieli faceva

ripetere e insisteva per sapere ogni cosa, come se fosse un anno che non andava

al ministero.

- Deve aver fatto effetto, quando hanno saputo che era malata!

E pensava al suo ritorno glorioso, dopo la morte della sorella, e alle facce dei

colleghi. Tuttavia, come rispondendo alla voce di un segreto rimorso, esclamò: -

Non che le voglia augurare male a quella povera donna! Sa Iddio se vorrei che me

la conservasse a lungo, ma certo farebbe effetto. Compare Savon si scorderebbe

della Comune.

Stavano per cominciare a mangiare le fragole quando la porta della malata si

aprì. La commozione fu tanta che i tre si trovarono in piedi di colpo, sbigottiti. La

servetta comparve con la sua solita aria placida e scema. Disse tranquillamente: -

Non respira più.

Cachelin buttò il tovagliolo sul piatto e si slanciò come un pazzo. Cora lo

seguì, col cuore in tumulto; invece Lesable rimase in piedi accanto alla porta

spiando in distanza la macchia chiara del letto debolmente rischiarato dal giorno

morente. Vedeva la schiena del suocero chino sul letto, fermo ad osservare, e a

un tratto ne intese la voce che pareva lontana, lontanissima, in capo al mondo,

come le voci che si sentono nei sogni e dicono cose straordinarie. Diceva: - È

finita! non si sente più nulla. - Lesable vide sua moglie che si buttava in

ginocchio, con la fronte sulle lenzuola, singhiozzante. Allora si decise a entrare, e

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siccome Cachelin s’era rialzato, poté vedere sul candore del guanciale il volto

della zia Charlotte, con gli occhi chiusi, le guance incavate, così rigida e smorta

da sembrare una figura di cera.

Chiese, angosciato: - È finita?

Cachelin, che stava anche lui contemplando sua sorella, si voltò: si

guardarono. Rispose: - Sì, - sforzandosi di atteggiare il viso a un’espressione

sconsolata; ma i due uomini si erano capiti con un’occhiata, e senza pensarci,

d’istinto, si strinsero la mano come per ringraziarsi vicendevolmente di ciò che

avevano fatto l’uno per l’altro.

Quindi, senza perdere tempo, si occuparono alacremente di tutte le faccende

che la morte esige.

Lesable s’incaricò di andare dal medico, e di fare in tutta fretta i giri più

urgenti.

Prese il cappello e scese le scale di corsa, smanioso di trovarsi per la strada, di

essere solo, per respirare, riflettere, godersi in solitudine la propria felicità.

Quand’ebbe finito, invece di tornare a casa, andò sui boulevards, spinto dal

bisogno di veder gente, di mescolarsi all’animazione, alla felice vita della sera.

Avrebbe voluto gridare ai passanti: «Ho cinquantamila franchi di rendita», e

camminava con le mani in tasca, fermandosi davanti alle vetrine ad ammirare le

belle stoffe, i gioielli, il mobilio di lusso, con questo pensiero felice: «Ora posso

comprarmi queste cose».

Passò improvvisamente davanti a un’impresa di pompe funebri, e un pensiero

inatteso gli traversò la mente: «Se non fosse morta? Se avessero sbagliato?».

Si diresse verso casa, di buon passo, e con quel dubbio che gli girava per il

capo.

Appena rientrato, chiese: - È venuto il dottore?

Cachelin rispose: - Sì, ha constatato la morte, e penserà lui stesso alla

dichiarazione.

Tornarono nella camera della morta. Cora stava sempre piangendo, seduta in

una poltrona. Piangeva piano, senza sforzo, quasi senza più dolore, con la facilità

alle lacrime che hanno le donne.

Quando furono loro tre soli nella stanza, Cachelin disse a voce bassissima: -

Ora che la ragazza è andata a letto, possiamo guardare se c’è qualcosa di

nascosto nei mobili.

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I due uomini si misero all’opera. Vuotavano i cassetti, frugavano nelle tasche,

spiegavano i più insignificanti pezzi di carta. A mezzanotte non avevano ancora

trovato nulla di interessante. Cora si era assopita e russava un tantino, con

regolarità. César chiese: - Rimarremo qui tutta la notte? - Lesable, perplesso,

riteneva che sarebbe stato meglio... Anche il suocero decise: - Allora portiamo

qualcosa per sedere, - e andarono a prendere le altre due seggiole trapuntate che

erano nella camera degli sposi.

Un’ora dopo tutti e tre dormivano, russando ciascuno in modo diverso,

dinanzi al cadavere gelido, nell’immobilità eterna.

Si svegliarono all’alba, quando la servetta entrò nella camera. Subito Cachelin,

fregandosi gli occhi, confessò: - Sarà una mezz’oretta che mi sono un po’

assopito.

Lesable aveva ripreso immediatamente la padronanza di sé, e disse: - Difatti

me ne sono accorto. Io avrò dormito un secondo; avevo chiuso gli occhi per farli

riposare.

Cora andò in casa sua.

Lesable chiese con finta indifferenza: - Quando credete che possiamo andare

dal notaio per conoscere il testamento?

- Ma... anche stamani, se volete.

- È necessario che ci venga anche Cora?

- Sarebbe bene, perché è lei che eredita.

- Allora l’avverto di prepararsi.

E Lesable uscì col suo passo svelto.

Lo studio del notaio Belhomme aveva appena aperto, quando si presentarono

Cachelin, Lesable e la moglie, in lutto stretto e con dei visi addolorati.

Il notaio li ricevette subito, li fece sedere. Cachelin cominciò a parlare: - Signor

notaio, voi mi conoscete: sono il fratello della signorina Charlotte Cachelin. Questi

sono la mia figlia e il mio genero. La mia povera sorella è morta ieri, domani la

seppelliremo. Siccome voi siete il depositario del testamento, siamo venuti a

chiedervi se la defunta non abbia lasciato qualche disposizione riguardante la

sepoltura, o se abbiate qualcosa da dirci.

Il notaio aprì un cassetto, prese una busta, l’aperse, ne cavò un foglio e disse:

- Ecco, signore, una copia del testamento, che potrete conoscere subito. L’altra

copia, uguale precisa a questa, deve rimanere nelle mie mani.

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E lesse: «Io sottoscritta Charlotte Cachelin esprimo le mie ultime volontà.

«Lascio tutto il mio patrimonio, che ammonta a circa un milione e

centoventimila franchi, ai figli che nasceranno dal matrimonio di mia nipote

Céleste-Coralie Cachelin, col godimento del reddito ai genitori, fino alla maggiore

età del primogenito dei discendenti.

«Le disposizioni che seguono regolano la quota di ogni figlio e quella dei

genitori fino alla fine dei loro giorni.

«Nel caso in cui morissi prima che la mia nipote abbia avuto un erede, il mio

patrimonio rimarrà affidato al notaio per tre anni, affinché la mia volontà sopra

espressa possa essere eseguita se un figlio nascesse.

«Ma nel caso in cui il Cielo non concedesse a Coralie un figlio nei tre anni che

seguiranno la mia morte, il mio patrimonio dovrà essere distribuito, a cura del

notaio, ai poveri e agli istituti di beneficenza qui sotto elencati».

Seguiva una serie interminabile di nomi di comunità, e cifre, ordini e

raccomandazioni.

Quindi il notaio Belhomme consegnò cortesemente il documento a Cachelin,

impietrito dallo stupore.

Pensò di dover aggiungere qualche spiegazione: - La signorina Cachelin,

quando mi fece l’onore di parlarmi per la prima volta del suo proposito di far

testamento in questo modo, mi espresse il suo ardente desiderio di vedere un

erede del suo sangue. A tutte le mie obiezioni ella rispose con la più decisa

conferma della sua volontà, basata d’altronde su un sentimento religioso, perché

riteneva che un’unione sterile fosse un segno della maledizione del Cielo.

Sappiate che me ne dispiace molto. - Quindi soggiunse, rivolto a Coralie: - Non ho

dubbi che il desideratum della defunta sarà presto realizzato.

E i tre se ne andarono, troppo sbigottiti per poter pensare a qualcosa.

Tornarono verso casa camminando vicini in silenzio, vergognosi e furenti,

come se si fossero derubati a vicenda. Anche il dolore di Cora era svanito di colpo;

l’ingratitudine della zia la dispensava di piangerla. Lesable, con le labbra bianche

serrate in una contrazione di rabbia, disse infine al suocero: - Datemi quel

testamento, lo voglio conoscere de visu. - Cachelin gli consegnò il foglio e il

giovane lo cominciò a leggere. Si era fermato sul marciapiede e, urtato dai

passanti, rimaneva lì a scrutare le parole con occhio acuto e esercitato. Gli altri

due aspettavano due passi più in là, sempre in silenzio.

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Lesable restituì il testamento dicendo: - Niente da fare. Ci ha bellamente

giocati.

Cachelin, irritato dal crollo delle sue speranze, rispose: - È affar vostro fare un

figliolo, perdio! Eppure lo sapevate che lo desiderava da tanto tempo.

Lesable alzò le spalle senza rispondere.

Rincasando trovarono molta gente ad aspettarli, tutti quelli che si danno da

fare attorno ai morti.

Lesable andò nel suo appartamento senza volersi più curare di nulla e César

trattò male tutti, urlando che lo lasciassero in pace, che voleva farla finita con

quella storia più presto che poteva, e che ci mettevano troppo a levargli di torno la

salma.

Cora, rinchiusa in camera sua, non si faceva sentire. Un’ora dopo Cachelin

andò a bussare alla porta del genero: - Caro Léopold - disse, - vengo a proporvi

qualche idea, perché bisogna che ci mettiamo d’accordo. Penserei di fare,

nonostante tutto, un funerale a modo per non destare sospetti al ministero. Per le

spese c’intenderemo. D’altronde, nulla è perduto, non è tanto che siete sposati e

bisognerebbe proprio che foste disgraziati a non aver figlioli. Ci proverete, va

bene? Pensiamo alle cose più urgenti. Volete passare voi al ministero tra poco? Io

intanto farei gli indirizzi delle partecipazioni.

Lesable dovette riconoscere a malincuore che il suo suocero aveva ragione; e si

sedettero di fronte ai due capi della lunga tavola, per scrivere gli indirizzi sulle

lettere incorniciate di nero.

Dopo mangiarono. Cora riapparve, indifferente, e come se tutte quelle cose

non la riguardassero, e mangiò parecchio perché il giorno prima non aveva

toccato cibo.

Appena il desinare fu finito se ne tornò in camera sua. Lesable uscì per

andare al ministero, e Cachelin andò sulla terrazza per fumare la pipa a

cavalcioni di una sedia. Il pesante sole della giornata estiva scagliava i suoi raggi

a picco sulla moltitudine dei tetti, in alcuni dei quali i lucernari brillavano come il

fuoco, sprizzando raggi accecanti.

Cachelin, in maniche di camicia, sbattendo le palpebre in quella pioggia di

luce, guardava le alture verdi in fondo in fondo, oltre la periferia polverosa.

Pensava che la Senna scorreva, ampia, tranquilla e fresca, ai piedi di quelle

colline coperte di alberi, e che ci si doveva sentire molto meglio sotto il verde,

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bocconi sull’erba proprio in riva al fiume, a sputare nell’acqua, piuttosto che

sull’asfalto scottante della terrazza.

Provava una specie di malessere, al pensiero tormentoso, alla dolorosa

sensazione del loro disastro, della sciagura inattesa, tanto più amara e brutale

quanto più viva e prolungata era stata la speranza, come capita quando la mente

è sottosopra. Esclamò ad alta voce: - Lurida vacca!

Sentì nella stanza, dietro di sé, i movimenti degli impiegati delle pompe

funebri, e il rumore incessante del martello che inchiodava la bara. Dopo la visita

al notaio non aveva più rivisto la sorella.

Ma a poco a poco il tepore, l’incanto luminoso della bella giornata estiva gli

entrarono nel corpo e nell’anima, e pensò che non c’era tanto da disperarsi.

Perché mai sua figlia non avrebbe dovuto aver figli? Il suo genero sembrava

robusto, solido e in buona salute, anche se era un po’ basso. L’avrebbero avuto il

figliolo, per tutti i Santi! E poi era indispensabile.

Lesable era entrato di nascosto nel ministero ed era sgattaiolato nel suo

ufficio. Trovò sulla scrivania un foglio con queste parole: «Il capo vi ha fatto

chiamare». Dapprima fece un gesto d’impazienza, ribellandosi al dispotismo che

tornava ad opprimerlo, poi si sentì spronato da un desiderio improvviso e violento

di riuscire. Anch’egli sarebbe diventato capo, e presto; sarebbe anche salito più in

alto.

Senza nemmeno levarsi il soprabito andò da Torchebeuf. Si presentò col viso

afflitto dei momenti tristi, anzi con qualcosa di più, con l’impronta di una

sofferenza vera e profonda, e l’involontario abbattimento che segnano sul volto le

improvvise avversità.

La testona del capo, china sui fogli, si sollevò: - Per tutta la mattina ho avuto

bisogno di voi, - disse Torchebeuf. - Perché non siete venuto in ufficio? - Lesable

rispose: - Caro maestro, abbiamo avuto la sventura di perdere nostra zia, la

signorina Cachelin, ed anzi ero venuto a pregarvi di venire al trasporto, domani.

Il viso di Torchebeuf si era subito rasserenato. Rispose con una sfumatura di

deferenza: - Allora è un’altra cosa, caro amico. Vi ringrazio e vi lascio in libertà,

perché credo che avrete molto da fare.

Ma Lesable voleva mostrare il suo zelo: - Grazie, caro maestro, è tutto fatto, e

rimarrò qui fino allo scadere dell’orario.

E tornò nella sua stanza.

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La notizia si era sparsa, e da ogni ufficio venivano a congratularsi, piuttosto

che a condolersi con lui, e anche per vedere come si comportasse. Accoglieva le

parole e gli sguardi con un viso rassegnato, da attore, e con un tatto che stupiva.

- Si sorveglia benissimo, - dicevano taluni. E gli altri soggiungevano: - Non vuol

dire, in cuor suo dev’essere esultante.

Maze, il più sfacciato di tutti, con la sua disinvoltura di uomo di mondo, gli

chiese: - Avete saputo con esattezza la cifra del patrimonio?

Lesable rispose con tono completamente disinteressato: - Il testamento parla

di un milione e duecentomila circa. Lo so perché il notaio ci ha dovuto dire subito

talune clausole riguardanti i funerali.

Tutti credevano che Lesable non sarebbe rimasto al ministero. Con

sessantamila franchi di reddito non si continua a scribacchiar pratiche. Si

diventa qualcuno, si può aspirare a quello che più ci piace. Taluni pensavano che

egli puntasse al Consiglio di Stato; altri opinavano che volesse fare il deputato. Il

capo aspettava le sue dimissioni per trasmetterle al direttore.

Tutto il ministero andò ai funerali, che furono giudicati meschini. Corse una

voce: «È stata proprio la signorina Cachelin che li ha voluti a questo modo. Era

scritto nel testamento».

L’indomani Cachelin riprese servizio, e Lesable tornò anche lui, dopo

un’indisposizione che durò una settimana: piuttosto pallido, ma assiduo e zelante

come sempre. Si sarebbe detto che non fosse accaduto nulla nella loro vita. Fu

notato però che fumavano ostentatamente grossi sigari, parlavano della rendita,

delle ferrovie, dei grossi valori, da uomini che possiedono dei titoli; e un giorno si

seppe che avevano preso in affitto una villa nei dintorni di Parigi per la fine

dell’estate.

Pensarono: «Sono avari come la vecchia, ce l’hanno nel sangue: chi

s’assomiglia si piglia. Ognuno fa quel che gli pare, ma è ridicolo rimanere al

ministero con tutti quei soldi».

Dopo un po’ di tempo non ci pensarono più. Li avevano catalogati e giudicati.

IV

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Ai funerali della zia Charlotte, non fece che pensare al milione, consumandosi

in una rabbia tanto più violenta quanto più doveva restar nascosta, e incolpava

tutti della sua lacrimevole disavventura.

Si chiedeva anche: «Perché non ho avuto figli in questi due anni di

matrimonio?». E al timore di vedere la sua unione restare sterile il cuore gli si

stringeva.

Allora, come il ragazzetto che guarda in cima all’albero della cuccagna, alto e

rilucente, la pentola da staccare, e si ripromette di arrivarci a furia di volontà e di

energia, di avere la forza e la tenacia che occorrono, Lesable decise

disperatamente di diventare padre. Lo sono tanti altri, perché non lo sarebbe

anche lui? Forse era stato negligente, trascurato, non conosceva bene le cose, a

motivo della sua completa indifferenza. Siccome non aveva mai provato il

grandissimo desiderio di avere un erede, non ci si era mai messo d’impegno. D’ora

in poi avrebbe fatto qualunque sforzo; non avrebbe trascurato nulla, e sarebbe

riuscito perché così voleva.

Ma appena fu tornato a casa, sentì un certo malessere e dovette mettersi a

letto. La delusione era stata troppo brutale, e ne risentiva le conseguenze.

Il medico disse che la cosa non si doveva prendere sottogamba, gli prescrisse

assoluto riposo, disse che avrebbe dovuto avere molte precauzioni anche in

seguito. Temeva una febbre cerebrale.

Tuttavia Lesable si poté alzare dopo otto giorni e riprese servizio al ministero.

Ma non si sentiva ancora bene, e non s’arrischiava ad accostarsi al letto

coniugale. Era esitante e timoroso, come un generale che stia per dar battaglia,

una battaglia dalla quale dipende l’avvenire. Ogni sera rimandava alla sera dopo,

confidando nella venuta d’una di quelle ore di salute, di benessere, di energia che

ci fanno sentire capaci di tutto. Si tastava continuamente il polso, che gli pareva

debole o agitato, prendeva dei tonici, mangiava carne cruda, e prima di rincasare

faceva lunghe passeggiate igieniche.

Pure, non si sentiva ancora a posto, come avrebbe voluto, e allora gli venne

l’idea di andare a passare la fine dell’estate nei dintorni di Parigi. Si convinse

senz’altro che l’aria aperta della campagna avrebbe avuto un potere straordinario

sul suo organismo. In uno stato come il suo, la campagna produceva benefici

meravigliosi, decisivi. Si confortò con la certezza del successo vicino e non faceva

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che dire al suocero, con voce piena di sottintesi: - Quando saremo in campagna,

mi sentirò meglio, e andrà tutto bene.

La parola stessa: «campagna» gli pareva che avesse un significato misterioso.

Presero in affitto una casetta nel paesino di Bezons, e andarono a starci tutti e

tre. I due uomini partivano a piedi tutte le mattine, attraverso la pianura, per

andare alla stazione di Colombes, e ritornavano tutte le sere a piedi.

Cora, felice di vivere vicino al placido fiume, andava a sedersi sulle sue

sponde, coglieva fiori, portava a casa grandi mazzi di erbe sottili, bionde e

tremolanti.

La sera passeggiavano sulla riva tutti e tre, fino allo sbarramento della Morue,

ed entravano a bere una bottiglia di birra alla trattoria dei Tigli. Il fiume, frenato

dalla lunga fila di pali, entrava fra le connessure, schizzava, ribolliva, schiumava,

su un tratto largo cento metri; il rumorio della cascata faceva fremere il terreno, e

una nebbiolina, un vapore umido galleggiava nell’aria innalzandosi come fumo

leggero, spandendo intorno un odore di acqua sbattuta e come un sapore di fango

rimosso.

Scendeva la sera. Laggiù, di fronte, un gran chiarore mostrava Parigi, e faceva

dire ogni volta a Cachelin: - Però, che città! - Di tanto in tanto sul ponte che taglia

l’estremità dell’isola passava un treno, facendo un rumore di tuono, e scompariva

rapidamente a sinistra o a destra, verso Parigi o verso il mare.

Ritornavano pian piano, guardando alzarsi la luna, sedendosi in riva a un

fosso per ammirarne a lungo, sul fiume tranquillo, la morbida luce gialla che

sembrava scorrere insieme alle acque, marezzata di fiamme nelle increspature

della corrente. I rospi lanciavano il loro grido metallico e breve. I richiami degli

uccelli notturni percorrevano l’aria. E talvolta una grossa ombra silenziosa

scivolava sul fiume, turbandone il corso luminoso e tranquillo. Era una barca di

pescatori di frodo che buttavano all’improvviso il giacchio e lo ritiravano su senza

far rumore, raccogliendo nell’ampia rete oscura i ghiozzi lucidi e frementi, come

un tesoro tratto dal fondo delle acque, un tesoro vivo di pesci d’argento.

Cora, commossa, si appoggiava teneramente al braccio del marito, del quale

aveva intuito i propositi benché egli non ne avesse parlato. Quello, per loro, era

come un nuovo fidanzamento, una nuova attesa dell’abbraccio amoroso. Talvolta

egli le faceva una furtiva carezza sotto l’orecchio, nel punto delizioso dove

comincia la nuca, e sulla carne tenera s’arricciola una fine peluria. Ella

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rispondeva stringendogli la mano: si desideravano, eppure si negavano ancora

l’uno all’altra, sollecitati e trattenuti da una più energica volontà, dal fantasma

del milione.

Cachelin, reso tranquillo dalla fiducia che sentiva intorno a sé, viveva felice,

beveva e mangiava a tutt’andare, e sentiva nascere in sé, verso il crepuscolo,

vampate di poesia, quella goffa commozione che prende le persone più balorde

dinanzi a certe visioni campestri: una pioggia di luce attraverso le fronde, un

tramonto sui colli lontani, coi riflessi di porpora sul fiume. Esclamava: - Io,

dinanzi a questo spettacolo, credo in Dio. Mi sento stringere qui, - e indicava la

bocca dello stomaco, - mi sento sconvolto, stranito. Mi sembra che mi abbiano

tuffato in un bagno che mi fa venir voglia di piangere.

Intanto Lesable migliorava, e si sentiva preso all’improvviso da impulsi che

non gli erano più soliti, dal bisogno di correre come un puledro, di voltolarsi

sull’erba, di gridare dalla contentezza.

Giudicò che l’ora fosse venuta: fu una vera notte di nozze. Poi vi fu la luna di

miele, tutta carezze e speranze.

Ma si accorsero che i loro tentativi restavano infruttuosi, che la loro speranza

era vana.

Fu una disperazione, un disastro. Ma Lesable non si perdette d’animo, e volle

ostinarsi a costo di sforzi sovrumani. Sua moglie, agitata dalla stessa brama e

invasa dalla stessa paura, e anche più robusta di lui, si prestava di buon grado ai

suoi tentativi, stimolava i suoi abbracci, teneva desto senza tregua il suo ardore.

Verso i primi d’ottobre tornarono a Parigi.

La loro vita si faceva sempre più difficile. Si scambiavano frasi sgradevoli, e

Cachelin, che indovinava l’accaduto, li bersagliava con frizzi da caserma, acidi e

grossolani.

Un pensiero li tormentava continuamente, li rodeva, attizzava il loro reciproco

rancore: l’inafferrabile eredità.

Adesso Cora trattava il marito dall’alto, con durezza. Lo trattava come un

ragazzino, un moccioso, un uomo da nulla. E Cachelin, a tavola, non faceva che

dire: - Io, se fossi stato ricco, figlioli ne avrei avuti tanti... Quando si è poveri,

bisogna essere ragionevoli. - E, rivolgendosi alla figliola, soggiungeva: - Tu saresti

come me, e invece.. - E lanciava al genero un’occhiata significativa

accompagnandola con una spallucciata sprezzante.

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Lesable non rispondeva, comportandosi da uomo superiore capitato in una

famiglia di borghesi. Al ministero gli dicevano che aveva una brutta cera. Perfino

il capo gli chiese, una volta: - Vi sentite bene? Mi sembrate cambiato.

Egli rispose: - Ma no, caro maestro, forse sono un po’ stanco. Ho lavorato

molto in questi ultimi tempi, come avrete visto.

Faceva assegnamento sulla promozione di fine d’anno, e con questa speranza

aveva ripreso la sua vita laboriosa di impiegato modello.

Ebbe soltanto una gratificazione insignificante, meno di tutti gli altri. Il suo

suocero Cachelin non ebbe nulla.

Lesable rimase malissimo, e andò un’altra volta dal capo. Per la prima volta lo

chiamò «signore»: - A cosa mi serve, signore, lavorare come lavoro, se non ne devo

raccogliere alcun frutto?

Il testone di Torchebeuf si rizzò impermalito: - Ve l’ho già detto, signor

Lesable, che non avrei più ammesso discussioni su questo argomento tra di noi.

Torno a dirvi che ritengo fuori luogo il vostro reclamo, considerata la vostra

ricchezza in confronto alla povertà dei vostri colleghi...

Lesable non riuscì a trattenersi: - Ma, signore, io non ho un soldo! Nostra zia

ha lasciato tutto il suo avere al primo figlio che nascerà dal mio matrimonio. Io e

il mio suocero viviamo col nostro stipendio.

Il capo, sorpreso, ribatté: - Se non avete nulla adesso, sarete ricco quanto

prima. Dunque è lo stesso.

Lesable si ritirò, atterrito dalla mancata promozione ancora più che

dall’irraggiungibile eredità.

Qualche giorno dopo Cachelin era appena arrivato in ufficio, allorché

entrarono il bel Maze con un sorrisetto sulle labbra, Pitolet, con gli occhi lucidi, e

Boissel, il quale spinse la porta e venne avanti con un’aria eccitata,

sogghignando, e lanciando sguardi di complicità agli altri. Savon seguitava a fare

le sue copie, con la pipa di terracotta all’angolo della bocca, appollaiato sul

seggiolone, con i piedi sulla stecca come i ragazzini.

Stavano tutti zitti. Pareva che aspettassero qualcosa, mentre Cachelin

protocollava le pratiche dicendo a voce alta, come era sua abitudine: - Tolone,

forniture di gavette da ufficiali per il Richelieu. Lorient, scafandri per il Desaix.

Brest, prove sulle tele da vele, di provenienza inglese.

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Apparve Lesable. Veniva tutte le mattine a prendersi le pratiche di sua

pertinenza, perché il suocero non si curava di fargliele portare dal fattorino.

Mentre egli stava frugando tra i fogli sparpagliati sullo scrittoio, Maze lo

guardava di sottecchi fregandosi le mani, e Pitolet, arrotolandosi una sigaretta,

sorrideva a fior di labbro, incapace di trattenere la sua allegria. Si voltò verso il

copista: - Dite un po’, compare Savon, avete imparato molte cose nella vostra

vita?

Il vecchio, intuendo che volessero burlarsi ancora di lui parlando di sua

moglie, non rispose.

Pitolet continuò: - Voi l’avete scoperto il segreto per far figli, nevvero, visto che

ne avete avuti tanti...

Savon alzò il capo: - Eppure lo sapete, signor Pitolet, che non mi piace

scherzare su questo argomento. Ho avuto la disgrazia di sposare una donna

indegna. E appena ebbi la prova della sua infedeltà, mi separai da lei.

Maze, serio, con tono d’indifferenza, gli chiese: - La prova l’avete avuta

parecchie volte, vero?

- Sissignore, - rispose Savon con gravità.

Pitolet riprese la parola: - Ciò non toglie che non siate padre di parecchi figli:

tre o quattro, m’hanno detto.

Il vecchio diventò di brace e balbettò: - State cercando di ferirmi, signor

Pitolet; ma non ci riuscirete. Mia moglie ha avuto tre figli, è vero. Ho motivo di

credere che il primo sia mio, ma rinnego gli altri due.

Pitolet continuò: - Lo dicono tutti che il primo dev’esser vostro. Basta questo.

È una bella cosa avere un figlio, proprio molto bella. Scommetto che Lesable

sarebbe contentissimo di averne anche lui uno, uno solo, come voi.

Cachelin aveva smesso di protocollare. Non rideva affatto, benché Savon fosse

il suo abituale bersaglio, e contro di lui avesse esaurito tutta la serie delle

canzonature indecenti a proposito delle sue disgrazie coniugali.

Lesable aveva riunito le sue carte; ma, sentendo che lo stavano attaccando,

volle rimanere, trattenuto dall’orgoglio. Era confuso e irritato, e aveva voglia di

sapere chi avesse potuto divulgare il suo segreto. Si ricordò di ciò che aveva detto

al capo; e subito capì che avrebbe dovuto dimostrare una grande energia, se non

voleva diventar lo zimbello di tutto il ministero.

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Boissel andava in su e in giù, seguitando a sogghignare. Rifece la voce rauca

degli strilloni e vociò: - Il segreto per far figlioli, dieci centesimi, due soldi!

Comprate il segreto per far figlioli, rivelato dal signor Savon, con molti orrendi

particolari!

Tutti si misero a ridere, fuorché Lesable e il suo suocero. Pitolet, rivolgendosi

a quest’ultimo: - Cosa avete mai? Cachelin? - disse. - Non siete allegro come al

solito. Non vi pare una cosa buffa che Savon abbia avuto un figliolo da sua

moglie? Mi pare una cosa tanto buffa, anzi buffissima. Non ci riescono tutti a

farlo.

Lesable s’era rimesso a riordinare le pratiche, faceva finta di leggere e di non

sentire nulla, ma era diventato smorto.

Boissel, con lo stesso tono da strillone, continuò: - Come possono fare gli eredi

per venire in possesso delle eredità, comperate!

Maze riteneva che quelle fossero spiritosaggini di cattivo gusto, e siccome

aveva un rancore personale verso Lesable, che gli aveva tolto la speranza della

ricchezza che covava segretamente, gli volle chiedere direttamente: - Cosa avete,

Lesable, che siete così pallido?

Lesable rialzò il capo e guardò in faccia il collega. Esitò un momento, con le

labbra tremanti, cercando una risposta che fosse spiritosa e insieme tagliente; ma

non trovò ciò che voleva e disse: - Non ho nulla. Soltanto sono stupito di vedervi

sciupare tanto spirito.

Maze, il quale stava sempre con le spalle appoggiate al caminetto tirando su

con le mani le falde della finanziera, continuò ridendo: - Si fa quel che si può,

caro mio. Siamo come voi, non sempre riusciamo...

Uno scoppio di risa gli troncò la frase. Savon, sbalordito, aveva confusamente

capito che non se la prendevano più con lui, che non si burlavano di lui, e rimase

a bocca spalancata, con la penna per aria. Cachelin aspettava, pronto a buttarsi

coi pugni stretti sul primo che gli fosse capitato.

Lesable balbettò: - Non capisco. In che cosa non sarei riuscito?

Il bel Maze lasciò ricadere una falda dell’abito, si arricciò i baffi, e con tono

grazioso disse: - Lo so che di solito tutto quello che fate vi riesce. Ho fatto male a

parlar di voi. D’altronde, si parlava dei figli di Savon e non dei vostri, perché voi

non ne avete. Ora, siccome quello che fate vi riesce sempre, è evidente che non

avete figli perché non li avete voluti.

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Lesable gli chiese bruscamente: - Di cosa vi immischiate, voi?

Davanti a questo tono provocante anche Maze alzò la voce: - Dite un po’, voi,

cosa vi piglia? Cercate di essere educato o avrete a che fare con me!

Ma Lesable tremava di collera, e perse ogni controllo: - Signor Maze, io non

sono, come voi, né un fatuo, né un bellimbusto. Vi prego di non rivolgermi più la

parola, d’ora in poi. Non mi curo né di voi né dei vostri pari. - E lanciò

un’occhiata di sfida a Pitolet e a Boissel.

Maze aveva capito subito che la vera forza risiede nella calma e nell’ironia; ma,

ferito nella sua vanità, volle colpire al cuore il nemico; perciò disse con tono di

protezione e gli occhi infiammati: - Mio caro Lesable, state superando i limiti.

Capisco il vostro disappunto; è assai spiacevole perdere un patrimonio e perderlo

per tanto poco, per una cosa tanto facile, e tanto semplice... Sentite, vi farò io

questo favore, per nulla, da buon collega. È questione di cinque minuti...

Non aveva finito di parlare che gli arrivò in pieno petto il calamaio di Savon,

lanciatogli contro da Lesable. Un fiotto d’inchiostro gli coprì la faccia,

trasformandolo, con straordinaria rapidità, in un negro. Egli scattò, ruotando gli

occhi bianchi, con la mano alzata a colpire. Ma Cachelin parò il genero afferrando

per la vita il gran Maze, e scrollandolo, spingendolo, dandogli pugni, lo ributtò

contro il muro. Maze si liberò con violenza, aprì la porta e scomparendo gridò ai

due uomini: - Vi farò avere mie notizie!

Pitolet e Boissel gli andarono dietro. Boissel si giustificò della sua moderazione

dicendo che aveva temuto di uccidere qualcuno partecipando alla lotta.

Maze, appena fu tornato nel suo ufficio, cercò di pulirsi, ma non ci riuscì; era

tinto con un inchiostro violetto che aveva la proprietà di essere indelebile e

incancellabile. Stava dinanzi allo specchio, furente e disperato, e si fregava il viso

con l’asciugamano arrotolato. Ne risultò un nero più carico, venato di rosso, a

motivo del sangue che affluiva sotto la pelle.

Boissel e Pitolet l’avevano raggiunto, e s’erano messi a dargli consigli. Secondo

il primo avrebbe dovuto lavarsi il viso con l’olio d’oliva puro; secondo l’altro ci

voleva l’ammoniaca. Mandarono il fattorino dal farmacista per sapere come fare.

Tornò con un liquido giallo e un pezzo di pomice. Non ottennero alcun risultato.

Maze si sedette scoraggiato, e dichiarò: - Ora bisogna sbrigare la questione

d’onore. Volete farmi da testimoni, e andare a chiedere a Lesable o che mi faccia

le sue scuse o che si batta con me?

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Accettarono entrambi e si misero a discutere sul modo di comportarsi. Non

avevano nessuna pratica di quelle faccende, ma non volevano riconoscerlo e,

preoccupandosi di apparire corretti, davano pareri timorosi e contrastanti.

Decisero di consultare un capitano di fregata che dirigeva al ministero il servizio

del carbone. Ne sapeva quanto loro. Dopo aver pensato bene, li consigliò di

andare da Lesable e di pregarlo di metterli in contatto con due suoi amici.

Stavano andando verso l’ufficio del loro collega, quando Boissel si fermò di

colpo: - Non dovremmo avere i guanti?

Pitolet esitò un attimo: - Forse sì. - Ma per procurarsi i guanti sarebbero

dovuti andar fuori, e il capo non scherzava. Allora mandarono un’altra volta il

fattorino perché se ne facesse dare un assortimento da una bottega. Il colore li

fece restare a lungo perplessi. Boissel li avrebbe voluti neri; Pitolet riteneva che

quella tinta fosse inadatta alla circostanza. Li scelsero violetti.

Vedendo entrare i due uomini, solenni e inguantati, Lesable alzò il capo e

domandò con asprezza: - Cosa volete?

- Signore, - rispose Pitolet, - siamo incaricati dal nostro amico signor Maze di

chiedervi di fargli le vostre scuse, oppure di dargli riparazione con le armi, a

causa di ciò che avete fatto contro di lui.

L’ira di Lesable non era ancora sbollita. Egli gridò: - Come? Mi insulta, e

intende ancora provocarmi? Ditegli che disprezzo tutto quanto può dire o fare.

Boissel, tragico, fece un passo avanti: - Ci costringerete, signore, a pubblicare

sui giornali un verbale che vi sarà molto sgradito.

Pitolet, furbo, aggiunse: - E che potrà gravemente nuocere al vostro onore e

alle promozioni future.

Lesable li guardò atterrito. Che fare? Pensò di prender tempo: - Signori, vi

darò la risposta tra cinque minuti. Vorreste aspettarla nell’ufficio del signor

Pitolet?

Appena fu solo si guardò intorno per cercare consiglio e protezione.

Un duello! Avrebbe dovuto fare un duello!

Era turbato, impaurito, da uomo pacifico che non s’è mai sognato una cosa

simile, che non s’è mai preparato a un simile rischio, che non ha mai ristorato il

suo coraggio in vista di un così enorme accadimento. Fece per alzarsi e ricadde a

sedere, con il cuore che gli batteva a precipizio e le gambe che gli si piegavano. La

sua collera e il suo ardire erano scomparsi di colpo. Ma pensando al giudizio del

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ministero e al chiasso che la faccenda avrebbe suscitato in tutti gli uffici, il suo

orgoglio vacillante si risvegliò e non sapendo come decidere andò dal capo a

chieder consiglio.

Torchebeuf rimase sorpreso e perplesso. Non vedeva la necessità di uno

scontro e gli pareva che il lavoro ne avrebbe sofferto di più. - Non saprei cosa

dirvi, - ripeteva. - È una questione d’onore che non mi riguarda. Volete che vi

scriva due parole per il comandante Bouc? È una persona pratica di queste cose

e potrà consigliarvi.

Lesable accettò, e andò dal comandante, il quale consentì anche a fare da

testimonio, e prese un sottocapo per aiutante.

Boissel e Pitolet li aspettavano, sempre inguantati. Avevano preso in prestito

due sedie all’ufficio accanto, per averne quattro.

Si salutarono con dignità e si sedettero. Pitolet cominciò a parlare ed espose la

situazione. Il comandante, dopo averlo ascoltato, rispose: - È un affare serio, ma

non irreparabile: sono le intenzioni che contano. - Era un vecchio marinaio, un

furbacchione, che ci si divertiva.

Cominciò una lunga discussione durante la quale si elaborarono una dopo

l’altra quattro stesure di lettere, poiché le scuse dovevano essere reciproche. Se

Maze riconosceva di non aver avuto la precisa intenzione di offendere, anche

Lesable avrebbe ammesso di aver avuto torto a tirare il calamaio e si sarebbe

scusato della violenza inconsiderata.

I quattro mandatari tornarono dai loro primi.

Maze stava seduto davanti alla sua tavola, ed era inquieto pensando al duello,

anche se sperava di veder l’avversario cedere: si guardava le gote, prima una, poi

l’altra, in uno di quegli specchietti tondi di metallo che tutti gli impiegati tengono

nascosti nel cassetto, per accomodarsi la barba e i capelli e il nodo della cravatta,

la sera, prima d’andar via.

Lesse le lettere che gli venivano presentate e dichiarò con soddisfazione

manifesta: - Mi sembrano perfettamente onorevoli. Sono disposto a firmare.

Lesable, da parte sua, aveva accettato senza discutere il testo redatto dai suoi

secondi, dichiarando: - Poiché voi siete di questo parere, non ho che da

inchinarmi.

E i quattro plenipotenziari si riunirono di nuovo. Si scambiarono le lettere, si

salutarono con gravità, e, chiuso l’incidente, si separarono.

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In tutti gli uffici regnava una straordinaria commozione. Gli impiegati

chiedevano notizie, andavano da una stanza all’altra, si fermavano l’uno con

l’altro nei corridoi.

Quando seppero che l’affare era stato concluso fu una delusione generale.

Qualcuno disse: - Non basta a dare il figliolo a Lesable. - La frase fece il giro del

ministero. Un impiegato ci ricavò una strofetta.

Ma quando pareva che tutto fosse finito, Boissel fece sorgere una difficoltà: -

Quale doveva essere il comportamento dei due avversari quando si fossero trovati

di fronte? Si sarebbero salutati? O avrebbero fatto finta di non conoscersi? -

Decisero di farli incontrare, come per caso, nell’ufficio del capo, davanti al quale

si sarebbero scambiate poche parole di cortesia.

La cerimonia avvenne subito; poi Maze, chiamata una carrozza, tornò a casa

per cercar di pulirsi la pelle.

Lesable e Cachelin tornarono a casa assieme, senza parlarsi, arrabbiati l’uno

contro l’altro, come se quanto era capitato fosse colpa di loro due. Appena fu

arrivato, Lesable scagliò il cappello sul cassettone e gridò alla moglie:

- Ne ho abbastanza. Adesso mi tocca anche fare i duelli per te!

Ella lo guardò sorpresa e già irritata:

- Un duello? E perché?

- Perché Maze mi ha insultato a proposito di te.

Cora gli si avvicinò: - A proposito di me? E come?

Egli si era seduto rabbiosamente in una poltrona. - Mi ha insultato, -

continuò. - Non occorre che ti dica altro.

Ma Cora voleva sapere. - Esigo che tu mi ripeta quello che ti ha detto su di

me.

Lesable arrossì, quindi balbettò: - Ha detto, ha detto... sulla tua sterilità.

Ella sussultò; poi s’infuriò e la brutalità paterna ebbe il sopravvento sulla sua

natura di donna:

- Io? Io sarei sterile? E cosa ne sa quel villano? Sterile con te, sì, perché tu

non sei un uomo! Ma chiunque altro avessi sposato, chiunque altro, capisci, li

avrebbe avuti i figli! Ah! fai bene a parlare! M’è costato caro aver sposato uno

straccio come te!... E cosa gli hai risposto a quel disgraziato?

Lesable, spaventato davanti a quella bufera, balbettò: - L’ho... schiaffeggiato...

- Cora lo guardò stupita: - E lui cosa ha fatto?

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- ... Mi ha mandato i testimoni. Nient’altro. - Adesso ella si interessava alla

faccenda, attratta, come tutte le donne, dalle storie drammatiche; e chiese,

improvvisamente addolcita, con una certa quale stima che le era nata per l’uomo

che stava per rischiare la propria vita:

- Quando vi batterete?

Lesable rispose tranquillo: - Non ci battiamo. Abbiamo sistemato tutto coi

testimoni. Maze mi ha chiesto scusa.

Cora lo guardò con disprezzo: - Ah! mi hanno insultata in tua presenza, e tu

hai lasciato dire, e non ti batti nemmeno! Non ti mancava che di essere vigliacco!

Egli si ribellò: - Ti ordino di tacere. So meglio di te ciò che riguarda il mio

onore. D’altra parte, ecco la lettera di Maze. Eccotela, leggi e vedrai.

Cora prese il foglio, lo scorse, indovinò ogni cosa e disse sogghignando:

- Anche tu hai scritto una lettera? Avete avuto paura uno dell’altro. Oh quanto

siete vigliacchi, voi uomini! Se fossimo noi al vostro posto, noialtre... Insomma, in

questa faccenda, io sono stata insultata. Io, tua moglie; e tu ti sei contentato di

questa! Non c’è da stupirsi se non ce la fai ad aver figli. È tutto proporzionato. Sei

altrettanto... moscio con le donne quanto lo sei con gli uomini. Ah, mi son presa

un bel marito!

Aveva assunto improvvisamente voce e gesti di Cachelin, gesti volgari, da

caserma, e accento da uomo.

Ritta dinanzi a lui, coi pugni sui fianchi, alta, forte vigorosa, con il petto in

fuori, il viso rosso, la voce profonda e vibrante, le fresche guance di bella ragazza

colorite dal sangue che vi era affluito, ella guardava, seduto di fronte a lei,

quell’ometto pallido, un po’ calvo, sbarbato, con le basette corte da avvocato.

Aveva voglia di strozzarlo, di schiacciarlo.

- Non sei buono a nulla, a nulla, - ripeteva. - Anche nell’impiego lasci che tutti

gli altri ti passino davanti.

La porta si aprì: comparve Cachelin, attirato dalle grida, e chiese: - Cosa

succede?

Ella si voltò: - Sto dicendo a questo fantoccio quello che si merita.

Lesable, alzando gli occhi, si accorse della loro somiglianza. Gli parve che si

squarciasse un velo per farglieli vedere tali quali erano, padre e figlia, dello stesso

sangue, della stessa razza volgare e grossolana. Si vide perso, condannato a

vivere per sempre con quel due.

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- Almeno, - disse Cachelin, - se fosse possibile divorziare... Non è una cosa

piacevole aver sposato un cappone.

Lesable si rizzò con un balzo, tremando di collera, fuori di sé per l’insulto. Si

diresse verso il suocero balbettando: - Fuori di qui!... Fuori!... Siete in casa mia,

capite... Vi butto fuori... - E afferrò sul cassettone una bottiglia piena d’acqua

minerale brandendola come una mazza.

Cachelin, impaurito, uscì rinculando e dicendo: - Cosa gli piglia, adesso!

Ma la collera di Lesable non si placò; oramai era troppo. Si rivolse alla moglie

che continuava a guardarlo, un po’ stupita della sua violenza, e dopo aver posato

la bottiglia le gridò: - Con te, poi... con te... - E non sapendo cosa dire, non

avendo nessun motivo da portare, rimase fermo di fronte a lei, col viso sconvolto,

e la voce mutata.

Cora si mise a ridere.

Quella risata era un altro insulto, e fece impazzire Lesable, il quale si slanciò

su di lei, afferrandola per il collo con la mano sinistra, mentre con la destra la

schiaffeggiava furiosamente. Ella indietreggiò, smarrita, senza fiato: trovò il letto e

vi si abbatté riversa. Lesable non la lasciò e continuò a picchiare.

All’improvviso si rialzò, ansante, affranto, e vergognandosi della propria

brutalità, balbettò: - Ecco... ecco... ecco... con te...

Cora non si muoveva, come se fosse morta. Continuava a rimanere supina,

sull’orlo del letto, con il viso nascosto tra le palme. Egli le si avvicinò imbarazzato,

chiedendosi cosa sarebbe capitato, e aspettando che si scoprisse il viso per vedere

che avesse. Dopo qualche minuto, sentendo crescere la sua ambascia, mormorò:

- Cora, senti, Cora! - Ella non rispondeva e non si muoveva. Che aveva mai? Che

faceva? e che avrebbe mai fatto?

Una volta svanita la rabbia, caduta di colpo così com’era venuta, si sentì un

essere odioso, quasi un criminale. Aveva picchiato una donna, la sua donna, lui,

l’uomo tranquillo e freddo, l’uomo educato, sempre ragionevole. Sopravvenuta la

reazione, si sentì commosso, aveva voglia di chiedere perdono, di buttarsi in

ginocchio, di baciare quelle guance battute e arrossate. Con la punta delle dita

toccò piano piano una delle mani che coprivano quel viso invisibile. Sembrava che

ella non sentisse. La blandì, la carezzò, come si fa col cane frustato. Ella non se

ne accorse. Allora disse: - Cora, stammi a sentire, Cora, ho avuto torto, sentimi. -

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Pareva morta. Allora tentò di sollevare quella mano. La staccò facilmente, e vide

un occhio aperto che lo guardava fisso, un occhio inquietante, che lo turbò.

- Senti, Cora, - continuò, - mi sono fatto trasportare dalla collera. È stato tuo

padre che mi ha spinto a ciò. Non si insulta un uomo a quel modo.

Cora non rispose, come se non avesse sentito. Egli non sapeva più che dire,

che fare. La baciò sotto l’orecchio, e alzandosi, le vide una lacrima all’angolo

dell’occhio, una lacrimona che staccandosi le rotolò rapida sulla guancia; la

palpebra sbatteva, chiudendosi ad ogni battito.

Fu preso da una gran pena, e da commozione: aprì le braccia e si distese sulla

moglie, con le labbra scostò l’altra mano, e coprendola di baci supplicava: - Mia

adorata Cora, perdonami, perdonami...

Ella continuava a piangere in silenzio, senza singhiozzi, come si piange per un

dolore profondo.

La teneva stretta a sé, l’accarezzava, le sussurrava all’orecchio tutte le frasi

tenere che gli riusciva di trovare. Ma Cora rimaneva inerte. Tuttavia smise di

piangere. Stettero così per molto tempo, distesi e abbracciati. Calava la sera, e la

camera si empiva d’ombra; e quando fu tutta buia, Lesable si fece più ardito e

sollecitò il perdono in modo tale da ravvivare le loro speranze.

Quando si rialzarono, egli aveva la solita voce e il solito aspetto, come se non

fosse accaduto nulla. Invece Cora pareva intenerita, parlava con voce più dolce

del solito; lanciava sul marito sguardi sottomessi, quasi carezzevoli, come se

l’inaspettata punizione le avesse disteso i nervi, e ammorbidito il cuore. Lesable le

disse tranquillamente: - Tuo padre deve annoiarsi, solo, di là; dovresti andare a

chiamarlo. E poi deve essere ora di cena. - Cora uscì.

Difatti erano le sette, e la servetta venne a dire che la minestra era in tavola;

quindi ricomparve Cachelin, calmo e sorridente, insieme alla figlia. Si misero a

tavola, e chiacchierarono, quella sera, più cordialmente di quanto avessero fatto

da gran tempo, come se fosse capitato qualcosa di lieto per tutti.

V

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Ma le speranze, sempre alimentate e rinnovate, non approdavano mai a nulla.

Di mese in mese la vana attesa, nonostante la perseveranza di Lesable e la buona

volontà della sua compagna, li metteva in una angoscia febbrile. Si

rimproveravano a vicenda l’insuccesso, e lo sposo, disperato, dimagrito, stanco,

soffriva soprattutto per la grossolanità di Cachelin il quale, nella loro battagliera

intimità, lo chiamava soltanto «Signor Gallo», indubbiamente per ricordo di quella

volta che per aver pronunciato la parola «cappone» poco mancò che non si

prendesse una bottigliata sulla testa.

Padre e figlia, uniti per istinto, arrovellandosi al continuo pensiero del grosso

patrimonio così vicino e impossibile da acchiappare, non sapevano più che cosa

inventare per umiliare e torturare l’impotente che era causa della loro infelicità.

Tutti i giorni, quando si mettevano a tavola, Cora ripeteva: - Non abbiamo

gran che da desinare. Se fossimo ricchi sarebbe altrimenti. Ma non è colpa mia.

Quando Lesable usciva per andare all’ufficio, ella gli gridava dalla camera: -

Prendi l’ombrello, se no torni a casa sudicio come uno spazzino. Non è mica colpa

mia se ti tocca ancora fare lo scribacchino.

E quando era lei stessa ad uscire, non mancava di esclamare: - Pensare che se

avessi sposato un altr’uomo a quest’ora avrei la carrozza!

Ci pensava in ogni momento; in qualunque occasione pungeva il marito con

un rimprovero, lo sferzava con un’ingiuria, e gli buttava addosso tutta la colpa

della perdita di quel denaro che poteva essere suo.

Finalmente una sera egli perse di nuovo la pazienza e gridò: - Ma, per tutti i

Santi, la vuoi finire una buona volta? Prima di tutto, se non abbiamo figli, la

colpa è tua, soltanto tua, perché io un figlio ce l’ho...

Mentiva, preferendo qualsiasi cosa all’eterno rimprovero e alla vergogna di

sembrare impotente.

Cora lo guardò dapprima con stupore, cercando la verità nei suoi occhi, poi,

dopo aver capito, con sommo disprezzo: - Tu hai un figlio?

- Sì, - rispose sfrontatamente Lesable, - un figlio naturale che tengo ad

Asnières.

- Allora domani andremo a trovarlo, - continuò tranquillamente Cora; - voglio

vedere com’è fatto.

- Come vuoi, - mormorò Lesable diventando paonazzo.

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Il giorno dopo Cora si alzò alle sette, e allo stupore del marito disse: - Come,

non andiamo più a trovare tuo figlio? Me l’hai promesso ieri sera. Forse oggi non

ce l’hai più?

Lesable balzò dal letto: - Non andremo a trovare mio figlio, ma il dottore, che ti

dirà il fatto tuo.

- Io non ti domando altro, - rispose Cora, con l’aria della donna sicura di se.

Cachelin promise che avrebbe avvisato, al ministero, dell’indisposizione del

genero, e i coniugi Lesable, dopo essersi informati da un medico che abitava nelle

vicinanze, all’una precisa suonavano alla porta del dottor Lefilleul, autore di

parecchie opere sull’igiene della procreazione.

Furono fatti entrare in un salotto bianco decorato d’oro, male arredato, che

pareva spoglio e disabitato nonostante ci fossero molte sedie. Si sedettero.

Lesable era commosso, tremante, e aveva vergogna. Venne il loro turno ed

entrarono in una specie di ufficio dove furono ricevuti da un omacciotto freddo e

cerimonioso.

Aspettò che gli spiegassero il perché della visita, ma Lesable, rosso rosso, non

aveva il coraggio di farlo. Sua moglie si decise, e con la voce calma della persona

decisa a tutto pur di raggiungere lo scopo: - Signor dottore, siamo qui da voi

perché non abbiamo figli. C’è di mezzo un grosso patrimonio.

La visita durò parecchio tempo, fu minuziosa e imbarazzante. Ma Cora

sembrava trovarsi a suo agio, e si prestava all’attento esame del medico con

l’aspetto di chi è animato e sostenuto da un interesse più alto.

Dopo aver studiato i due sposi per più di un’ora, il dottore non si pronunciò.

- Non trovo nulla, - disse, - nulla d’anormale, e nulla di particolare. È un caso

abbastanza frequente. Accade la stessa cosa coi corpi come coi caratteri: vediamo

tanti matrimoni infelici per incompatibilità di carattere, e non c’è da stupirsi di

vederne altri che sono sterili per l’incompatibilità dei corpi. La signora mi sembra

particolarmente ben formata e adatta alla procreazione. Il signore, invece, benché

abbia una conformazione normalissima, mi sembra indebolito, forse anche per via

del suo eccessivo desiderio di diventare padre. Volete permettermi di auscultarvi?

Lesable, turbato, si levò il panciotto e il dottore appoggiò a lungo l’orecchio sul

torace e sul dorso dell’impiegato, e lo palpò ostinatamente dallo stomaco al collo e

dalle reni fino alla nuca. Trovò un lieve disturbo al primo tempo del cuore e anche

una minaccia ai polmoni.

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- Dovete curarvi, signore, dovete curarvi attentamente. Un po’ di anemia, di

esaurimento, nient’altro. Sono inconvenienti per ora insignificanti, ma che

potrebbero diventate incurabili, tra poco.

Lesable, morto di paura, gli chiese una cura. Il dottore gli ordinò una dieta

complicata. Ferro, carni rosse, brodo, per la giornata e poi esercizi fisici, riposo e

vita in campagna durante l’estate. Quindi il dottore diede loro dei consigli per

quando Lesable sarebbe stato meglio. Suggerì certi procedimenti che spesso

erano stati efficaci in casi simili.

La visita costò quaranta franchi.

Quando furono per la strada, Cora esclamò incollerita, pensando al futuro: -

Sono stata servita a dovere!

Egli non rispose. Camminava, pieno di paure, ripensando e pesando ogni

parola del medico. Se l’avesse ingannato? Se avesse visto che era condannato?

Non pensava più all’eredità, o al figlio! Si trattava della sua vita!

Gli pareva di sentirsi un fischio nei polmoni, gli pareva che il cuore gli

battesse a precipizio. Mentre attraversavano le Tuileries ebbe un capogiro e volle

sedersi. Cora, furibonda, rimase in piedi accanto a lui per umiliarlo e lo guardava

dall’alto in basso con aria di compatimento sprezzante. Lesable respirava con

fatica ed esagerava l’affanno provocato dallo spavento: con le dita della sinistra

sul polso destro, contava le pulsazioni dell’arteria.

Cora gli chiese, battendo i piedi spazientita: - Hai finito con le tue storie? Ci

muoviamo? - Egli si alzò, come una vittima, e si rimise in cammino senza aprir

bocca.

Quando Cachelin seppe del risultato della visita, non frenò la sua rabbia.

Urlava: - Siamo conciati bene, davvero conciati bene! - Lanciava occhiate feroci

sul genero, come se volesse divorarlo.

Lesable non gli dava retta, pensava soltanto alla sua salute, alla sua vita in

pericolo. Potevano urlare quanto gli pareva, padre e figlia, ma non erano mica

dentro la sua pelle, e lui la pelle se la voleva guardare.

A tavola, davanti al suo posto, si cominciarono ad allineare le boccettine: e

Lesable, ad ogni pasto, si versava le dosi di medicina, mentre sua moglie

sorrideva, e il suocero rideva a gola spiegata. Tutti i momenti si specchiava, si

metteva la mano sul cuore per studiarne i battiti, e alla fine si fece fare il letto in

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uno stanzino buio che serviva da ripostiglio, perché non voleva aver più contatto

carnale con Cora.

Adesso, per lei, provava un odio pieno di paura, frammisto di disprezzo e

ribrezzo. Tutte le donne gli apparivano come mostri, pericolosi animali che hanno

la missione di uccidere gli uomini; e pensava al testamento della zia Charlotte

soltanto come a un pericolo che aveva corso e che poteva portarlo alla morte.

Trascorsero altri mesi. Mancava soltanto un anno allo scadere del termine

fatale.

Cachelin aveva attaccato nella stanza da pranzo un grosso calendario dal

quale cancellava un giorno tutte le mattine, e tra il furore per la propria

impotenza, la disperazione di sentirsi sfuggire di giorno in giorno la ricchezza, la

rabbia di pensare che gli sarebbe ancora toccato faticare in ufficio e vivere poi fino

alla morte con una pensione di duemila franchi, si sentiva spinto a una violenza

di linguaggio che, per un nonnulla, poteva degenerare in atti violenti.

Non poteva più guardare Lesable senza sentir fremere in sé un bisogno furioso

di picchiarlo, di schiacciarlo, di calpestarlo. Lo odiava con un odio senza limiti.

Ogni qualvolta lo vedeva aprir la porta, e venir dentro, gli sembrava che gli

entrasse in casa un ladro, che l’aveva spogliato di un bene sacro, di un’eredità di

famiglia. Lo odiava più che se fosse un nemico mortale, e al tempo stesso lo

disprezzava per la sua debolezza e soprattutto per la sua viltà, dopo che quegli

aveva rinunciato a perseverare nella comune speranza temendo per la sua salute.

Lesable, difatti, viveva separato dalla moglie più che se non fosse mai stato

unito a lei da alcun legame. Non le si avvicinava più, non la toccava più, evitava

perfino il suo sguardo, per vergogna e per paura.

Tutti i giorni Cachelin chiedeva alla figlia:

- Allora, si è deciso tuo marito?

- No, babbo, - ella rispondeva.

Tutte le sere, a tavola, succedevano scene penose. Cachelin non faceva che

ripetere: - Quando un uomo non è uomo, farebbe meglio a crepare per lasciare il

posto a un altro.

E Cora aggiungeva: - Ci sono al mondo delle persone che sono proprio inutili e

fastidiose. Non riesco a capire cosa ci stiano a fare, dal momento che sono a

carico degli altri.

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Lesable mandava giù le medicine e non rispondeva. Un bel giorno, finalmente,

il suocero gli gridò: - Sentite, voi, se non mutate modi, adesso che state meglio, lo

so io cosa farà mia figlia!...

Il genero, presentendo un nuovo insulto, alzò gli occhi interrogandolo con lo

sguardo. Cachelin continuò: - Invece di voi se ne prenderà un altro, perbacco! E

vi potrete chiamare fortunato se non l’ha ancora fatto. Quando si è sposata una

nullità della vostra specie, tutto è permesso.

Lesable, livido, rispose: - Non sarò certo io a impedirle di seguire i vostri saggi

consigli.

Cora aveva abbassato gli occhi. Cachelin capì oscuramente che l’aveva detta

grossa e rimase un po’ male.

VI

Al ministero pareva che i due uomini vivessero abbastanza di buon accordo. Si

era stabilito tra di loro una specie di tacito patto allo scopo di nascondere ai

colleghi le battaglie familiari. Si chiamavano: «mio caro Cachelin», «mio caro

Lesable», e persino fingevano di scherzare insieme, di essere felici e contenti,

soddisfatti della loro vita.

Lesable e Maze, dal canto loro, si comportavano, l’uno verso l’altro, con la

cortesia cerimoniosa degli avversari che per poco non si sono battuti. Il duello

mancato, del quale avevano sentito il brivido, aveva suscitato in loro una cortesia

esagerata, una stima maggiore, e forse un segreto desiderio di riconciliazione, che

nasceva dall’oscuro timore di nuove complicazioni.

Il loro comportamento di uomini di mondo, che hanno avuto una questione

d’onore, veniva osservato e approvato. Si salutavano da lontano, con una

compostezza severa, scappellandosi con molta dignità. Non si rivolgevano la

parola, perché nessuno dei due lo voleva fare per primo.

Ma una volta Lesable, chiamato d’urgenza dal capo, si mise a correre per

mostrare il suo zelo, e, alla svolta del corridoio, andò a sbattere in pieno contro la

pancia di un impiegato che veniva dalla direzione opposta. Era Maze. Si

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scostarono entrambi, e Lesable, con premura tra cortese e confusa, domandò: -

Vi ho fatto male, signore?

L’altro rispose: - Per niente, signore.

Da quel momento ritennero che sarebbe stato bene, incontrandosi, scambiare

qualche parola. Ne nacque una gara di gentilezze e di premure che in poco tempo

fece nascere una certa familiarità a cui seguì un’intimità temperata dal ritegno,

l’intimità delle persone tra le quali c’è stato un equivoco che ancora trattiene i

loro slanci, per una sorta di timorosa esitazione; ma a poco a poco, a furia di

gentilezze, di visite ricambiate, un’amicizia nacque tra di loro.

Chiacchieravano spesso insieme, quando andavano a prendere informazioni

nella stanza dell’archivista. Lesable aveva abbandonato le sue arie di impiegato

sicuro del proprio avvenire, Maze aveva rinunciato al suo contegno di uomo di

società, e Cachelin prendeva parte alla conversazione, mostrando di interessarsi

alla loro amicizia. Qualche volta, dopo che il bell’impiegato se n’era andato, con il

busto eretto, sfiorando con la fronte l’architrave della porta, Cachelin mormorava,

guardando il suo genero: - Quello sì che è ben piantato!

Una mattina, mentre erano là tutti e quattro, perché il compare Savon non

lasciava mai il suo protocollo, la sedia del brav’uomo, segata senza dubbio da

qualche spiritoso, si sfasciò sotto di lui, mandandolo rotoloni sul pavimento,

mentre gridava dallo spavento.

Gli altri tre accorsero. Savon incolpò del complotto i comunisti, e Maze voleva

vedere per forza dove s’era fatto male. Lui e Cachelin volevano spogliare il vecchio

per fasciarlo, dicevano. Ma quello resisteva disperatamente, gridando che non

s’era fatto nulla.

Quando l’allegria fu passata, Cachelin improvvisamente esclamò: - Sentite un

po’, signor Maze, ora che andiamo così d’accordo, dovreste venire a cena da noi

domenica prossima. Ne saremmo tutti molto contenti, il mio genero, io, la mia

figliola, che vi conosce di nome perché parliamo sempre dell’ufficio. Allora siamo

d’accordo?

Lesable unì le sue preghiere a quelle del suocero, ma con tono più freddo: -

Venite, ci farete piacere.

Maze esitava, turbato e sorridente al pensiero delle chiacchiere che si

sarebbero fatte.

Cachelin insisté: - Via, siamo intesi?

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- Va bene, sì! accetto.

Quando Cachelin, rincasando, disse a Cora: - Sai che il signor Maze viene a

cena da noi domenica? - ella, piuttosto sorpresa, mormorò: - Il signor Maze? Ma

guarda!

E arrossì, senza sapere il perché. Aveva così spesso sentito parlare di lui, dei

suoi modi, delle sue avventure, perché al ministero aveva fama di essere

intraprendente e irresistibile con le donne, che, da parecchio tempo, le era venuta

voglia di conoscerlo.

Cachelin, fregandosi le mani, soggiunse: - Vedrai, è in gamba, e un bel

ragazzo. È alto come un corazziere, e non somiglia certo a tuo marito!

Ella non rispose, confusa, come se si fosse potuto indovinare che spesso aveva

pensato a lui.

La cena fu preparata con le stesse cure avute per quella di Lesable, Cachelin

discuteva le vivande, voleva che riuscisse bene, e, come se un’inconfessata

fiducia, ancora indecisa, gli fosse nata nel cuore, pareva più allegro, come

tranquillizzato da un sicuro e segreto presentimento.

Per tutta la giornata sorvegliò i preparativi con grande agitazione, mentre

Lesable sbrigava un lavoro urgente che aveva portato dall’ufficio la sera avanti. Si

era nella prima settimana di novembre e si avvicinava Capodanno.

Alle sette arrivò Maze, di ottimo umore. Entrò come se fosse in casa sua e, con

un complimento, offrì a Cora un gran mazzo di rose. Con il tono delle persone di

mondo le disse: - Mi sembra, signora, di conoscervi già, di avervi conosciuta

ragazzina; perché ormai sono parecchi anni che vostro padre mi parla di voi.

Cachelin, dopo avere visto i fiori, esclamò: - Questa, almeno, è una cosa fine! -

E la figlia si ricordò che Lesable non li aveva portati quando era venuto per

conoscerla. Il bell’impiegato aveva l’aria felice, rideva allegramente come chi per la

prima volta va a trovare dei vecchi amici, e faceva dei complimenti discreti a Cora,

la quale arrossiva.

Maze la trovò molto desiderabile. Cora lo giudicò molto attraente. Quando se

ne fu andato Cachelin dichiarò: - Che tipo simpatico, eh! e che briccone deve

essere! Dicono che riesca ad accalappiare tutte le donne!

Cora fu meno espansiva, e tuttavia confessò che l’aveva trovato piacevole e

meno posatore di quello che pensasse.

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Lesable che sembrava meno stanco e meno malinconico del solito, disse che

specialmente i primi tempi non lo aveva capito bene.

Maze ritornò, dapprincipio di rado e poi più spesso. Era simpatico a tutti. Lo

stimolavano a venire e lo trattavano bene. Cora gli preparava i piatti che gli

piacevano di più. E l’intimità dei tre uomini divenne in breve tanto stretta che

stavano sempre insieme. Il nuovo amico portava la famiglia al teatro, nei palchi

che otteneva dai giornali.

Rincasavano a piedi, di notte, per le strade piene di gente, fino alla porta di

Lesable. Maze e Cora andavano avanti, con lo stesso passo, a fianco a fianco,

muovendosi con la stessa andatura, con lo stesso ritmo, come due esseri creati

per procedere accanto, nella vita. Parlavano sottovoce, perché si capivano

magnificamente, ridevano, reprimendo le risa; e ogni tanto la giovane donna si

girava per dare un’occhiata al padre e al marito.

Cachelin li covava con sguardi benevoli, e spesso, senza pensare che parlava

al suo genero, diceva: - Sono proprio una bella coppia, fa piacere vederli assieme.

Lesable rispondeva con tranquillità: - Sono quasi della stessa altezza, - ed era

felice di sentire che il cuore gli batteva meno precipitosamente, che aveva meno

affanno, quando camminava svelto, e che si sentiva molto meglio, tanto che

lasciava svanire a poco a poco il risentimento contro il suocero, il quale da

qualche tempo aveva smesso di lanciargli le sue frecciate velenose.

A Capodanno ottenne la promozione. Rimase così contento che, appena entrò

in casa, baciò la moglie, per la prima volta dopo sei mesi. Cora parve stupita,

come se egli avesse fatto una cosa sconvenevole, e lanciò un’occhiata a Maze, il

quale era venuto a fare gli auguri e a presentare i suoi omaggi per il Capodanno.

Anch’egli parve imbarazzato e si voltò verso la finestra, come per non vedere.

Presto Cachelin tornò a essere nervoso e cattivo, ricominciando a bersagliare il

genero con le sue frecciate. Talvolta se la prendeva anche con Maze, come se

anche lui avesse colpa della catastrofe sospesa su di loro e che si avvicinava ogni

giorno di più.

Soltanto Cora sembrava tranquillissima, serenissima, felicissima. Pareva che

avesse dimenticato la scadenza così minacciosa e così vicina.

Arrivò marzo. Ogni speranza pareva perduta perché il ventiquattro luglio si

sarebbero compiuti tre anni dalla morte della zia Charlotte.

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Una primavera precoce faceva rifiorire la terra, e Maze propose agli amici di

fare una passeggiata in riva alla Senna, una domenica, per cogliere le violette nei

cespugli.

Presero il treno la mattina di buon’ora e scesero a Maisons-Laffitte. Un brivido

invernale correva ancora tra i rami spogli, ma l’erba rinverdita, lucente, era già

punteggiata di fiorellini bianchi e azzurri; gli alberi da frutto sulle alture parevano

inghirlandati di rose, con le braccia scarne ricoperte di gemme sbocciate.

La Senna, gonfia, scorreva triste e fangosa per le piogge recenti, tra le rive rose

dalle piene invernali, e tutta la campagna, inzuppata d’acqua, pareva che uscisse

da un bagno, ed esalava una dolce umidità nel tepore dei primi giorni di sole.

Si smarrirono nel parco. Cachelin, cupo, batteva la terra col bastone, più

abbattuto del solito, pensando con maggior amarezza, quel giorno, alla loro

disgrazia, che tra poco sarebbe stata definitiva. Lesable, anch’egli immusonito,

temeva di bagnarsi i piedi nell’erba, mentre sua moglie e Maze coglievano fiori per

farne un mazzetto. Cora, da qualche giorno, pareva indisposta, era patita e

pallida.

Si sentì subito stanca e volle tornare per il desinare. Trovarono una

trattoriuccia appoggiata a un vecchio mulino cadente; e il tradizionale desinare

dei parigini in gita fu servito subito sotto il pergolato, sulla tavola ricoperta da

due tovaglie, vicinissimo al fiume.

Avevano sgranocchiato i ghiozzi fritti, masticato la carne di bue con le patate,

e si stavano passando l’insalatiera colma di foglie verdi, allorché Cora

all’improvviso si alzò e si mise a correre verso la riva, tenendosi il tovagliolo sulla

bocca con tutt’e due le mani.

- Che cos’ha? - chiese Lesable, preoccupato. Maze arrossì, imbarazzato e

balbettò: - Mah... non saprei... stava così bene poco fa! - mentre Cachelin,

sbalordito, restò con la forchetta alzata su cui era ancora infilata una foglia

d’insalata.

Si alzò, cercando sua figlia con lo sguardo. Mentre si sporgeva, la vide con la

testa appoggiata a un albero: si sentiva male. Lo sfiorò un sospetto che gli troncò

le gambe e lo fece ricadere sulla sedia. Lanciava occhiate sbigottite sui due

uomini che adesso sembravano impacciati tutti e due. Li frugava col suo sguardo

ansioso, e non aveva più il coraggio di parlare, pazzo d’angoscia e di speranza.

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Passò un quarto d’ora in un profondo silenzio. Alla fine Cora ricomparve, un

po’ pallida, camminando con fatica. Nessuno le fece domande precise; ma

sembrava che avessero indovinato un avvenimento felice, difficile da dirsi, e che

bruciassero dalla voglia di saperlo e insieme temessero. Soltanto Cachelin le

chiese: - Stai meglio? - Ella rispose: - Sì, grazie, non era nulla. Ma torniamo

presto a casa, ho un po’ di mal di testa.

Al ritorno prese il marito a braccetto come per far capire qualcosa di

misterioso che ancora non osava palesare.

Si separarono alla stazione di Saint-Lazare. Maze si ricordò di avere un

impegno, e se ne andò dopo saluti e strette di mano.

Cachelin, quando fu solo con la figlia e il genero, domandò: - Cosa ti sei

sentita a desinare?

Cora dapprima non rispose nulla; poi, dopo aver esitato, disse: - Non era

nulla! Un pochino di nausea.

Camminava adagio, sorridendo. Lesable si sentiva impacciato, aveva la mente

sconvolta, piena di idee confuse, contraddittorie; brame di lusso, sorda collera,

una vile gelosia, e faceva come i dormiglioni che la mattina chiudono gli occhi per

non vedere il raggio di sole che filtra tra le tende e taglia il loro letto con una

vivida striscia.

Appena fu entrato in casa parlò d’un lavoro da terminare, e andò a

rinchiudersi in camera.

Allora Cachelin posò le mani sulle spalle della figliola: - Sei incinta, vero? - le

chiese. Ella sussurrò: - Credo di sì. Da un paio di mesi.

Cora non aveva finito di parlare che egli, pazzo di gioia, si mise a saltare, e

cominciò a ballarle intorno un cancan, vecchio ricordo dei tempi della caserma.

Alzava le gambe, e saltava, nonostante la pancia, facendo traballare tutto

l’appartamento. I mobili dondolavano, i bicchieri tintinnavano nella credenza, il

lampadario oscillava e vibrava come la lanterna di una nave.

Quindi prese tra le braccia la figlia adorata e la baciò con frenesia; poi,

dandole familiarmente un colpettino sul ventre: - Ah, ci siamo, finalmente! L’hai

detto a tuo marito?

Ella mormorò, presa improvvisamente dalla paura: - No... ancora no...

aspettavo.

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Ma Cachelin esclamò: - Va bene, va bene. Ti vergogni. Aspetta, vado a dirglielo

io.

E andò di corsa nell’appartamento del genero. Vedendolo entrare, Lesable, che

non stava facendo nulla, si alzò. Ma l’altro non gli lasciò il tempo di riaversi: - Lo

sapete che vostra moglie è incinta?

Lo sposo, sbigottito, non sapeva cosa dire, mentre le guance gli si

imporporavano.

- Cosa? Come? Cora? Che avete detto?

- Vi ho detto che è incinta, capite? Che fortuna! - E trasportato dalla gioia, gli

prese le mani, gliele strinse, scrollandogliele, come per congratularsi e

ringraziarlo. Diceva: - Ah! finalmente ci siamo! Bene! Benissimo! Ma pensate,

abbiamo la fortuna in pugno! - E, non reggendo più, se lo strinse tra le braccia.

- Più di un milione, - gridava, - ci pensate? più di un milione. - Ricominciò a

ballare, e a un tratto: - Ma via, venite, vi sta aspettando, venite almeno a darle un

bacio! - e prendendolo per la vita lo spinse davanti a sé proiettandolo come una

palla nel salotto dove Cora era rimasta ad ascoltare, in piedi, tutta agitata.

Appena ebbe visto suo marito indietreggiò, soffocata da un’improvvisa

commozione. Egli era di fronte a lei, pallido e tormentato. Pareva un giudice, e

Cora la colpevole.

Infine egli disse: - Pare che tu sia incinta...

- Pare di sì, - mormorò lei con voce tremante.

Ma Cachelin li prese tutt’e due per il collo e li appiccicò l’uno sull’altra, naso

contro naso, esclamando: - Suvvia, datevi un bacio, per tutti i santi! - Ne vale la

pena sul serio.

E quando li rilasciò, esclamò, traboccante di gioia: - Insomma, abbiamo vinta

la partita. Ora sentite un po’, Léopold, dobbiamo comprare subito una villa in

campagna. Lassù, almeno, potrete ristabilirvi davvero.

A quest’idea, Lesable trasalì. Il suo suocero continuò: - Inviteremo il signor

Torchebeuf e la sua consorte, e siccome il sottocapo sta per andare a riposo

potrete prendere il suo posto. È un bel principio.

Lesable si figurava le cose a mano a mano che Cachelin le diceva, vedeva se

stesso ricevere il capo dinanzi a una bella villa candida, in riva al fiume.

Indossava una giacchetta di tela, e portava un panama in capo.

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Questa speranza gl’insinuava nel cuore un che di dolce, di tiepido, di soave,

che pareva struggersi dentro di lui, farlo diventare leggero e di già migliorato in

salute.

Sorrise, senza rispondere ancora.

Cachelin, ebbro di speranze, navigava tra i sogni. - Chissà? - continuò. -

Potremmo anche diventare influenti nel paese. Forse voi diventerete deputato. In

ogni caso potremo frequentare la buona società del luogo, e permetterci parecchi

lussi. Avrete un cavallino e un calessino per andare alla stazione tutti i giorni.

Immagini di lusso, di eleganze, di benessere, nascevano nella mente di

Lesable. Il pensiero che avrebbe guidato lui stesso il suo bel carrozzino, come i

ricchi dei quali aveva invidiato tanto spesso la sorte, rese completa la sua

soddisfazione. Non seppe trattenersi dal dire: - Eh, queste sì, che son belle cose!

Cora, vedendo che era vinto, sorrise anch’ella, commossa e riconoscente, e

Cachelin, che ormai non vedeva più nessun ostacolo, esclamò:

- Andiamo a cena in trattoria, perbacco. Dobbiamo fare bisboccia!

Al ritorno, erano un po’ brilli tutti e tre; Lesable, che ci vedeva doppio e aveva

le idee confuse, non andò nel suo stanzino buio. Forse per disattenzione o per

smemorataggine, si coricò nel letto ancora vuoto, in cui stava per venire sua

moglie. E per tutta la notte gli parve che il letto oscillasse, come una nave,

beccheggiasse, rullasse e si capovolgesse. Provò anche un po’ di mal di mare.

Quando si svegliò rimase assai sorpreso nel trovarsi Cora tra le braccia.

Ella aprì gli occhi, sorrise, e lo baciò con uno slancio spontaneo, in cui erano

gratitudine e affetto. Con la vocina dolce delle donne quando fanno le moine, Cora

gli disse: - Sii bravo, oggi, non andare al ministero. Ormai non è più necessario

che tu sia tanto puntuale, stiamo per diventare così ricchi... Andremo un’altra

volta in campagna, noi due, noi due soli.

Lesable si sentiva riposato, invaso da quel languido benessere che viene dopo

la spossatezza delle feste, intorpidito dal tepore del letto. Aveva una gran voglia di

restar lì, a lungo, di non far più nulla, e solo vivere tranquillo nelle mollezze. Un

bisogno di ozio, ignorato e potente, gli paralizzava la mente e gli pervadeva tutto il

corpo. Continuo, gioioso, impreciso, un pensiero gli vagava nella mente: «Sarò

ricco, indipendente».

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Ma all’improvviso fu preso da un timore, e chiese sottovoce, come se avesse

avuto paura che i muri sentissero le sue parole: - Ma sei proprio sicura di essere

incinta?

Cora lo rassicurò subito: - Ah, sì! puoi esserne certo. Non mi sono sbagliata.

Lesable aveva ancora qualche dubbio, e cominciò pian piano a tastarla.

Percorse con la mano il ventre gonfio. - Sì, è vero, - esclamò, - ma non partorirai

prima della scadenza. E forse ci contesteranno il nostro diritto.

Questa supposizione fece andare in collera Cora.

Ah! no, certo, non le avrebbero fatto storie, adesso, dopo tante sofferenze,

dopo tante pene, dopo tanti sforzi, ah! no, no. Si era messa a sedere, fuori di sé

dall’indignazione.

- Andiamo subito dal notaio, - disse.

Ma egli ritenne che sarebbe stato bene aver prima un certificato medico.

Perciò tornarono dal dottor Lefilleul.

Questi li riconobbe subito e chiese: - Ebbene, ci siete riusciti?

Diventarono rossi rossi tutti e due, e Cora, un po’ sconcertata, balbettò: -

Credo di sì, dottore.

Il medico si fregò le mani: - Me l’aspettavo, me l’aspettavo. Il mezzo che vi ho

consigliato non fallisce mai, fuorché nel caso di incapacità totale di uno dei due

congiunti.

Dopo aver visitato la giovane donna dichiarò: - Ci siamo, brava!

E scrisse su un foglio: «Io sottoscritto, dottore in medicina della Facoltà di

Parigi, certifico che la signora Coralie Lesable, nata Cachelin, presenta tutti i

sintomi di una gravidanza che data da circa tre mesi».

Quindi, rivolgendosi a Lesable: - E voi? I polmoni, il cuore? - Lo ascoltò e lo

trovò completamente guarito.

Se ne andarono, felici e contenti, a braccetto, con passo leggero. Per la strada

Léopold ebbe un’idea: - Forse faresti bene, prima di presentarci dal notaio, a

metterti un panno o due intorno alla vita, così si vedrà subito, e sarà tanto

meglio. Non potrà credere che si voglia guadagnare tempo.

Tornarono a casa e fu lui stesso a spogliare Cora per disporre la rotondità

ingannnatrice. Mutò di posto ai panni dieci volte, ogni volta si allontanava di

qualche passo per guardare che effetto faceva, procurando di ottenere una

verosimiglianza perfetta.

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Quando fu soddisfatto del risultato, uscirono di nuovo, e per la strada pareva

fiero di avere accanto a sé quel ventre prominente che attestava la sua virilità.

Il notaio li ricevette con benevolenza. Ascoltò quel che gli dissero, scorse il

certificato, e poiché Lesable insisteva disse: - Ma basta guardarla - e lanciò

un’occhiata convinta alla vita ispessita e gonfia della giovane donna.

Aspettavano ansiosamente; l’uomo della legge dichiarò: - Benissimo. Nato o da

nascere il bambino esiste e vive. Per cui soprassederemo all’esecuzione del

testamento fino a che la signora non avrà partorito.

Erano così contenti che appena furono usciti dallo studio, per le scale, si

baciarono.

VII

Dopo la felice scoperta, i tre congiunti vivevano in perfetto accordo. Erano di

umore ilare, placido e sereno. Cachelin aveva ritrovato la giovialità di una volta, e

Cora era piena di premure verso il marito. Anche Lesable pareva un altr’uomo,

sempre contento, pacione come non era stato mai.

Maze veniva più di rado e pareva a disagio, adesso, nella famiglia. Lo

accoglievano sempre bene, ma con un po’ di freddezza: perché la felicità è egoista

e fa a meno degli estranei.

Pareva che perfino Cachelin provasse un certa nascosta ostilità contro il bel

giovane che qualche mese prima aveva accolto in casa con tante premure. Fu lui

a dirgli della gravidanza di Coralie. Glielo disse all’improvviso: - Sapete che mia

figlia è incinta?

Maze, fingendosi sorpreso, rispose:

- Beh! chissà come sarete contenti!

- Altro che! - esclamò Cachelin notando che il suo collega, invece, non

sembrava per niente soddisfatto. Gli uomini non provano gran piacere nel vedere

in quelle condizioni, sia per colpa loro o no, le donne che frequentano con

assiduità.

Tutte le domeniche Maze andava ancora a cenare in casa loro. Passare

insieme quelle serate diventava sempre più faticoso, anche se fra loro non c’era

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stato nessuno screzio; e questo strano imbarazzo aumentava di settimana in

settimana. E una sera, appena Maze se ne fu andato, Cachelin infuriato esclamò:

- Comincio ad averne abbastanza di quello lì!

- La verità è che non ci si guadagna tanto a conoscerlo bene, - rispose Lesable.

Cora aveva chinato gli occhi. Non disse il suo pensiero. Tutte le volte che si

trovava dinanzi al bel Maze pareva impacciata, mentre egli, da parte sua,

appariva quasi vergognoso, non la guardava più sorridendo come una volta, non

offriva più biglietti per il teatro, sembrava che sopportasse come un fardello

inevitabile quell’intimità che fino ad allora era stata così cordiale.

Ma un giovedì, all’ora di cena, quando suo marito tornò dall’ufficio, Cora gli

baciò le fedine, più leziosa del solito, e gli sussurrò all’orecchio:

- Non mi sgriderai mica?

- Per cosa?

- Sai... il signor Maze è venuto a trovarmi poco fa; e io, che non voglio

chiacchiericci sul mio conto, l’ho pregato di non venire mai quando non ci sei tu.

Mi è parso un po’ seccato...

Lesable le chiese, sorpreso:

- E allora? cosa ha detto?

- Oh! niente di preciso, tuttavia non mi è piaciuto, e perciò l’ho pregato di non

venir più affatto. Ora, siccome siete stati tu e babbo a portarmelo qui, e io non ci

sono entrata per nulla, temevo di non farti piacere mettendolo alla porta.

Lesable si sentì invadere da una gioia riconoscente.

- Hai fatto bene, benissimo. Te ne ringrazio, anzi.

Allo scopo di chiarire bene i rapporti fra i due uomini, che lei aveva

anticipatamente stabilito, Cora aggiunse:

- In ufficio farai finta di non saper nulla, lo tratterai come sempre; soltanto

non verrà più qui.

E Lesable, stringendo teneramente la moglie tra le braccia, le coprì di bacetti

gli occhi e le guance. Sei un angelo, - diceva, e sentiva contro il suo il ventre di

Cora, col bambino già cresciuto.

VIII

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Non successe nulla di nuovo fino alla fine della gravidanza. Agli ultimi di

settembre Cora partorì una bambina. Le misero nome Désirée, ma siccome

volevano fare un battesimo solenne, decisero di rimandarlo all’anno dopo, nella

villa che dovevano comprare.

La scelsero ad Asnières, sull’altura che sovrasta la Senna.

Durante l’inverno eran successe cose importanti. Appena in possesso

dell’eredità, Cachelin aveva chiesto la pensione, che gli venne concessa subito, e

quindi aveva lasciato l’impiego. Nei suoi ozi egli ritagliava, con una sottile sega

meccanica, i coperchi delle scatole da sigari, faceva casse da orologi, cofanetti,

portavasi e mille specie di aggeggi curiosi. S’era appassionato a quei lavorucci che

gli erano cominciati a piacere vedendoli fare da un artigiano ambulante sul viale

dell’Opera. E ogni giorno bisognava che tutti ammirassero i suoi nuovi disegni,

sapientemente complicati e insieme puerili.

Lui stesso, in ammirazione dinanzi alla sua opera, esclamava continuamente:

- È incredibile quello che uno riesce a fare!

Il sottocapo, Rabot, era morto, finalmente. Lesable faceva le sue veci, pur non

essendo il titolare, perché non aveva ancora la necessaria anzianità di grado dopo

l’ultima promozione.

Cora aveva capito, indovinato, intuito quali debbano essere i mutamenti che la

ricchezza impone, ed era diventata un’altra donna, più riservata, più elegante.

Per Capodanno ella fece visita alla consorte del capo, un donnone rimasto

provinciale dopo trentacinque anni di vita a Parigi, e seppe pregarla con tanta

grazia e tanta seduzione di voler essere la madrina della sua figlioletta, che la

signora Torchebeuf accettò. Padrino fu il nonno Cachelin.

La cerimonia avvenne in una sfolgorante domenica di giugno. Erano stati

invitati tutti gli impiegati dell’ufficio, fuorché il bel Maze, col quale non avevano

più rapporti.

Alle nove, Lesable stava aspettando davanti alla stazione il treno di Parigi,

mentre uno staffiere, in livrea coi bottoni dorati, teneva per la briglia un florido

cavallino attaccato a un calessino nuovissimo.

Si sentì di lontano un fischio, poi la locomotiva comparve tirandosi dietro un

rosario di carrozze dalle quali uscirono un branco di viaggiatori.

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Torchebeuf scese da una carrozza di prima classe assieme alla moglie tutta

sgargiante, e dalla seconda, invece, vennero fuori Pitolet e Boissel. Non si erano

arrischiati ad invitare compare Savon, ma si erano messi d’accordo che

l’avrebbero incontrato per caso nel pomeriggio, e l’avrebbero fatto restare a cena,

con il consenso del capo.

Lesable si slanciò verso il suo superiore, che si avvicinava, basso basso, col

soprabito infiorato dalla grossa decorazione simile a una rosa rossa spampanata.

Il suo testone spropositato, sul quale era posato un cappello a larghe tese,

schiacciava il suo corpicciolo, che pareva quello di un fenomeno da baraccone: e

sua moglie, se si fosse alzata appena in punta di piedi, avrebbe potuto guardare

facilmente al disopra della sua testa.

Raggiante, Léopold s’inchinava, ringraziava. Li fece salire nel calessino, poi

corse verso i due colleghi rimasti indietro per modestia, strinse loro la mano e si

scusò di non poter portare anche loro nel carrozzino troppo piccolo: - Camminate

lungo il fiume, e giungerete alla mia porta: Villa Désirée, la quarta dopo la svolta.

Spicciatevi.

Salì in carrozza, afferrò le redini, e si avviò, mentre lo staffiere balzava sul

seggiolino posteriore.

La cerimonia si svolse nel modo migliore. Dopo, tornarono alla villa per il

pranzo. Ognuno trovò sotto il tovagliolo un regalo proporzionato alla sua

importanza. La madrina ebbe un braccialetto d’oro massiccio, suo marito una

spilla da cravatta con rubini, Boissel un portafoglio di cuoio di Russia, e Pitolet

una magnifica pipa di schiuma. Désirée offriva quei doni ai suoi nuovi amici.

La signora Torchebeuf, tutta rossa, di confusione e di gioia, si mise al braccio

il cerchio lucente, e il capo, siccome aveva un’esile cravattina nera che non poteva

reggere la spilla, se l’appuntò sul bavero del soprabito, sotto la Legion d’Onore,

come se fosse un’altra decorazione di un ordine minore.

Dalla finestra si scorgeva un lungo nastro d’acqua che saliva verso Suresnes,

lungo le vie alberate. Il sole cadeva a picco, trasformandolo in un fiume di fuoco.

Il principio del pranzo fu austero e serio, a causa della presenza del signor

Torchebeuf e consorte. Ma a poco a poco venne il buonumore. Cachelin lanciò

qualche barzelletta pepata, che sentiva di potersi permettere poiché era ricco, e

tutti risero. Se le avessero dette Pitolet o Boissel sarebbero parse sconvenienti.

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Alla frutta, fecero portare la bambina, e ogni convitato la baciò. Affogata in

una spuma di merletti, la bimba guardava quella gente con i suoi occhietti

azzurri, foschi, senza pensiero, e muoveva ogni tanto il capino paffuto, nel quale

pareva che si cominciasse a destare un principio d’interesse.

Pitolet, tra il chiasso delle voci, sussurrò all’orecchio di Boissel che gli stava

accanto: - Sembra una Mazettina.

Il giorno dopo, la battuta fece il giro del ministero.

Intanto erano suonate le due: furono serviti i liquori, e Cachelin propose di

visitare la villa e poi di andare a fare un giro in riva alla Senna.

I convitati, in fila, girarono da una stanza all’altra, dalla cantina al sottotetto;

quindi percorsero il giardino da un albero all’altro, e poi si divisero in due gruppi

per la passeggiata.

Cachelin, che si sentiva un pochino a disagio con le signore, condusse Boissel

e Pitolet nei caffè lungo il fiume, mentre le signore Torchebeuf e Lesable, coi

rispettivi mariti, passarono sulla riva opposta, non potendo, le signore dabbene,

mescolarsi con la gente scamiciata della domenica.

Camminavano pian pianino, sulla strada alzaia, seguite dai due uomini, i

quali, gravemente, parlavano di cose dell’ufficio.

Sul fiume passavano i canotti, sui quali certi giovanottoni vogavano

vigorosamente, mostrando il gioco dei muscoli sotto la pelle abbronzata. Le

canottiere, distese su pelli d’animali nere o bianche, manovravano il timone,

intorpidite dal sole, tenendosi aperti sulla testa, simili a enormi fiori ondeggianti

sull’acqua, ombrelli di seta rossa, gialla o turchina. Da una barca all’altra

correvano grida, richiami, rimbeccate; e un lontano brusìo di voci, confuso e

continuo, rivelava, laggiù, la brulicante folla dei giorni festivi.

File immobili di pescatori con la lenza stavano lungo il fiume; mentre dei

bagnanti, quasi ignudi, in piedi sui barconi da pesca, si tuffavano a capofitto,

risalivano sulla barca e si rituffavano.

La signora Torchebeuf guardava, stupita. Cora le disse: - È così tutte le

domeniche. Sciupano il posto, che è tanto bello.

Un canotto stava venendo avanti adagio adagio. Due donne vogavano,

portando due giovanotti sdraiati. Una di loro gridò: - Ohé! ohé! donne perbene! Ho

un uomo da vendere, costa poco, lo volete?

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Cora, voltandosi dall’altra parte con disprezzo, prese il braccio della sua

ospite: - Non possiamo neanche restar qui, andiamocene. Che creature

sciagurate!

E tornarono indietro. Torchebeuf stava dicendo a Lesable: - D’accordo per il 1°

gennaio. Il direttore me l’ha promesso formalmente.

- Non so come ringraziarvi, caro maestro, - rispose Lesable.

Tornando a casa trovarono Cachelin, Pitolet e Boissel che ridevano come matti

portando quasi di peso il compare Savon incontrato sulla riva con una donnina,

dicevano per scherzo.

Il vecchio, sbigottito, protestava: - Non è vero, no, non è vero per niente. Non

sta bene, signor Cachelin, dire cose simili, non sta bene.

E Cachelin, soffocando dal ridere, gridava: - Ah! vecchio burlone! La chiamavi

«Piumina d’oca adorata». Sei nelle nostre mani, ora, libertino!

Anche le signore si misero a ridere, tanto il brav’uomo pareva smarrito.

Cachelin soggiunse: - Se il signor Torchebeuf permette, noi lo terremo

prigioniero per castigarlo, e lo faremo cenare con noi.

Il capo, benevolmente, diede il suo consenso. E continuarono a ridere alle

spalle della donna abbandonata sulla riva dal vecchio che continuava a

protestare, addolorato dal brutto scherzo.

Fino a notte egli fornì l’argomento per inesauribili battute di spirito che si

spinsero parecchio avanti.

Cora e la signora Torchebeuf, sedute sotto la tenda della terrazza,

ammiravano i riflessi del tramonto. Il sole gettava sulle foglie una polvere

porporina. Neppure un soffio d’aria muoveva i rami: una pace serena, infinita,

scendeva dal cielo fiammeggiante e tranquillo.

Passava ancora qualche barca, più lenta, che tornava all’approdo.

Cora domandò: - È vero che quel poveretto del signor Savon ha sposato una

donnaccia?

La signora Torchebeuf, che sapeva tutte le cose dell’ufficio, rispose: - Sì,

un’orfana troppo giovane, la quale prima l’ha tradito con un brutto tipo; poi è

scappata con quello. - Quindi la grossa signora soggiunse: - Dico che era un

brutto tipo, ma non ne so nulla. Molti dicono che si volessero bene davvero. Ad

ogni modo il compare Savon non è certo un bell’uomo.

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La signora Lesable rispose con dignità: - Non sarebbe una buona scusa. Il

povero Savon è proprio da compiangere. Anche il nostro vicino, il signor Barbon,

si trova nella stessa situazione. Sua moglie si è innamorata di una specie di

pittore che veniva qui tutte le estati, ed è scappata con lui all’estero. Non capisco

come una donna possa cadere così in basso. Secondo me dovrebbe esserci un

castigo speciale per questi miserabili che portano il disonore nelle famiglie.

In cima al viale comparve la balia che portava Désirée dentro i merletti. La

bimba veniva verso le due signore, rosea nella luce rosso dorata della sera,

guardava il cielo infiammato con lo stesso sguardo vacuo, stupito e incerto che

posava sulle persone.

Gli uomini, che stavano chiacchierando lì accanto, si avvicinarono, e Cachelin

prese la nipotina alzandola sulle braccia, come se avesse voluto portarla nel

firmamento. Essa si stagliava sull’orizzonte lucente col suo lungo vestito bianco

che arrivava fino a terra.

- Ecco, - esclamò il nonno: - questo è il meglio del mondo, non vi sembra,

compare Savon?

Il vecchio non rispose; non aveva nulla da dire, o, forse, pensava a troppe

cose.

Un domestico aprì la vetrata annunciando: - La signora è servita!

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LE SORELLE RONDOLI

I

Io, - disse Pierre Jouvenet, - non conosco l’Italia; ho tentato di andarci un paio

di volte, ma sono stato fermato alla frontiera in tal modo che non ho più potuto

proseguire. Eppure quei due tentativi m’hanno dato un’idea deliziosa delle usanze

di quel bel paese. Devo ancora conoscerne le città, i musei, i capolavori che lo

riempiono. E alla prima occasione cercherò nuovamente d’avventurarmi in

quell’inaccessibile terra.

Non capite? Cercherò di spiegarmi.

Nel 1874 mi venne voglia di vedere Venezia, Firenze, Roma e Napoli; verso il

15 giugno sentii quel bisogno, quando le linfe rigogliose della primavera

riempiono d’una smania di viaggi e d’amore.

Eppure io non sono il tipo del viaggiatore. Spostarmi mi sembra un’azione

inutile e faticosa. Le notti in treno, il sonno sussultante nei vagoni, i dolori di

capo, le ossa rotte, l’indolenzimento dei risvegli in quella scatola rotolante, la pelle

grassa, la polvere di carbone che ti si posa sulle ciglia, sui capelli, l’odore del

carbone che ti riempie, gli orrendi pasti in mezzo agli spifferi dei buffet: ecco,

secondo me, un odioso principio per un viaggio di piacere.

Dopo l’introduzione rappresentata dal «rapido», ecco la tristezza dell’albergo,

del grande albergo così affollato e così vuoto, la camera sconosciuta, angosciosa,

l’equivoco letto!

Tengo al letto più che ad ogni altra cosa. Esso è il santuario della vita. Ogni

notte gli affidiamo il nostro corpo ignudo e stanco, perché lo ristori, lo riposi tra il

candore delle lenzuola e il calore delle piume.

In esso trascorriamo le ore più dolci della vita: le ore dell’amore e del sonno. Il

letto è sacro e noi dobbiamo rispettarlo, venerarlo, amarlo come ciò che abbiamo

di migliore e di più dolce, sulla terra.

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Non posso toccare un lenzuolo d’albergo senza un brivido di disgusto. Che

cosa è accaduto in quel letto, la notte precedente? Quali persone sporche o

ripugnanti hanno dormito su quelle materasse? E mi viene da pensare a tutte le

persone odiose che ogni giorno ci sfiorano: gobbe ripugnanti, pelli foruncolose,

mani sporche che ci fanno pensare ai piedi ed al resto. Penso alla gente che

quando la incontri ti manda sotto il naso zaffate disgustose d’aglio e di selvatico;

penso agli esseri deformi, ai purulenti, al sudore dei malati, a tutte le sozzure e le

sporcizie dell’uomo.

E tutta questa roba è passata nel letto in cui dormirò. Mi vien la nausea,

mentre mi c’infilo.

E i pasti all’albergo, quegl’interminabili pasti in mezzo a gente noiosissima o

grottesca; oppure squallidi e solitari, a un tavolinetto, davanti alla candela

coperta da un paralume...

E le serate angosciose nella città sconosciuta? C’è qualcosa di più straziante

della notte che scende in una città straniera? Cammini in mezzo a un movimento,

a un’agitazione che paiono straordinari, come quelli dei sogni. Guardi gente che

non hai mai visto e che non rivedrai più; l’ascolti parlare di cose che non

t’interessano, dette in una lingua che magari non capisci. Provi la tremenda

sensazione di esserti sperso; hai il cuore stretto, le gambe deboli, l’animo affranto.

Vai avanti come se fuggissi, cammini per non dover tornare in albergo dove ti

troveresti anche più sperso perché sarebbe la casa tua, quella casa a pagamento

di tutti; alla fine ti lasci andare sulla sedia d’un caffè scintillante, e quelle

dorature e quelle luci ti opprimono ancor più delle ombre della strada. Davanti al

bicchiere bavoso che t’ha portato il frettoloso cameriere ti senti così solo che ti par

d’impazzire ed hai voglia di andartene in qualche altro posto, in qualunque posto,

pur di non restare lì, davanti a quel tavolino di marmo, sotto quel lampadario

sfolgorante. E t’accorgi tutt’a un tratto di essere davvero, sempre e dappertutto,

solo al mondo: ma almeno nei luoghi che conosci e dove c’è gente che conosci

provi l’illusione della fraternità umana. In queste ore d’abbandono e di cupo

isolamento nelle città lontane si pensa a lungo, con chiarezza, profondamente. E

allora vedi bene tutta la vita, in un’occhiata sola, libero dalla prospettiva delle

continue speranze, libero dall’inganno delle consuetudini e dall’attesa della

felicità sempre sognata.

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Quando sei lontano puoi capire bene come tutto sia vicino, corto, vuoto;

cercando l’ignoto t’accorgi di come tutto sia mediocre ed effimero; e girando il

mondo t’accorgi di come esso sia piccolo, e quasi sempre uguale, dovunque.

Oh, le malinconiche passeggiate senza meta, per strade sconosciute, come le

conosco bene! Mi fanno più paura di tutto.

Mai e poi mai avrei fatto quel viaggio in Italia da solo, sicché convinsi il mio

amico Paul Pavilly ad accompagnarmi.

Conoscete Paul. Per lui il mondo e la vita sono la donna. Ci sono diverse

persone di questa specie, a cui la vita appare poetica, illuminata dalla donna. Per

costoro la terra è abitabile perché ci sono le donne; il sole splende ed è caldo

perché le illumina; l’aria è buona da respirare perché sfiora la loro pelle e fa

volteggiare i ricciolini delle loro tempie; la luna è incantevole perché le fa sognare

e dà un languido fascino all’amore. Ogni azione di Paul, certamente, ha per

motivo le donne; e tutti i suoi pensieri sono diretti a loro, come pure i suoi sforzi,

le sue speranze.

Un poeta ha condannato questa specie di uomini:

Odio il vate vanesio e lacrimoso

che guarda il cielo sussurrando un nome,

che vede il mondo immenso come vuoto

se non passeggia al fianco di Ninì.

Oh, brava gente che v’affannate,

perché sia noto il povero universo,

ad appender gonnelle sulle siepi

e cuffie bianche su’ verdi pendii,

voi non capite l’armonia celeste

della natura dalle mille voci,

voi che, mai soli sulle snelle prode,

sognate donne al mormorio dei boschi.

Quando parlai a Paul dell’Italia, sulle prime si rifiutò assolutamente di

lasciare Parigi; cominciai a raccontargli avventure di viaggio, gli dissi che le

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italiane hanno fama d’essere deliziose; gli feci intravedere raffinati piaceri, a

Napoli, grazie alla raccomandazione che avevo per un certo signor Michele

Amoroso, molto utile ai viaggiatori per le sue numerose relazioni. Si lasciò

tentare.

II

Prendemmo il «rapido» un giovedì sera, il 26 giugno. Di solito, in questa

stagione, non si va nel Mezzogiorno; eravamo soli, nello scompartimento, tutti e

due di malumore, seccati di lasciare Parigi, rammaricati d’avere ceduto all’idea

del viaggio, rimpiangendo il fresco di Marly, la Senna tanto bella, le sue sponde

così dolci, le deliziose giornate d’ozio in barca, le piacevoli serate di sonnolenza

sulla riva in attesa della notte.

Paul si rannicchiò nel suo cantuccio e appena il treno si fu mosso disse:

- È proprio una stupidaggine andarcene laggiù.

Ormai era troppo tardi perché potesse cambiare idea, e allora io gli risposi:

- Non dovevi venirci.

Non replicò. Ma pareva così furente che mi fece venire una gran voglia di

ridere. Somiglia proprio a uno scoiattolo. Ognuno, sotto i lineamenti umani, ha

qualcosa d’un tipo d’animale come se fosse il marchio della razza primitiva.

Quante persone hanno gole da bulldog, teste caprine, di coniglio, di volpe, di

cavallo, di bue! Paul è uno scoiattolo diventato uomo: ha gli stessi occhietti vispi,

lo stesso pelame fulvo, il naso a punta. il corpo piccolo, sottile, agile, mobilissimo,

e una misteriosa rassomiglianza in tutto l’insieme, come dire?... una somiglianza

nei gesti, nei movimenti, nel portamento, che parrebbe un ricordo.

Alla fine cademmo tutti e due in preda a quel sonno frusciante del treno,

troncato da orrendi crampi alle braccia ed al collo e dagli scossoni delle brusche

fermate.

Ci svegliammo mentre il treno seguiva il corso del Rodano.

Lo stridio continuo delle cicale entrava dal finestrino, quello stridio che pare la

voce della terra calda, il canto della Provenza, e ci gettava sul volto, nel petto,

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nell’anima, l’allegra sensazione del Mezzogiorno, il sapore della terra riarsa, della

patria pietrosa e luminosa del tozzo ulivo dalle foglie color verde grigio.

A una fermata del treno un ferroviere percorse tutto il marciapiede gridando

un sonoro: - Valenza! - un vero Valenza, con la cadenza, la cadenza vera, un

Valenza che ci fece sentire di nuovo il sapore della Provenza, come già ce l’aveva

fatto godere la nota stridula delle cicale.

Fino a Marsiglia nulla di nuovo.

Scendemmo al buffet della stazione per fare colazione.

Quando tornammo nel nostro scompartimento ci trovammo dentro una

donna.

Paul mi lanciò un’occhiata giubilante, si arricciò macchinalmente i baffetti, si

sollevò appena il cappello passandosi le dita aperte, a guisa di pettine, sui capelli

scarmigliati dalla notte di viaggio, e infine si sedette di fronte alla sconosciuta.

Ogni volta che, sia per la strada, sia in società, mi trovo davanti una faccia

nuova, provo un assillante bisogno d’indovinare quale anima, quale intelligenza e

quale carattere si nascondano dietro a quei lineamenti.

Era giovanissima e graziosa, certamente meridionale: aveva due magnifici

occhi, bellissimi capelli neri ondulati, appena appena crespi e così folti, vigorosi e

lunghi che solo a vederli si aveva la sensazione del loro peso sul capo. Era vestita

con eleganza, con un certo cattivo gusto meridionale, e pareva un po’ volgaruccia.

I lineamenti regolari del suo viso non avevano la grazia, la raffinatezza delle razze

eleganti, la delicatezza leggera che i figli degli aristocratici ricevono nascendo, e

che rappresenta come il marchio ereditario d’un sangue meno grosso.

Aveva certi braccialetti troppo larghi per poter essere d’oro, certi orecchini

adorni di pietre trasparenti troppo grandi per essere diamanti; ed in tutta la sua

figura c’era un non so che di popolano. Si capiva che doveva parlare con voce

troppo alta, gridare per qualunque pretesto, gesticolando.

Il treno s’avviò.

Lei se ne stava immobile al suo posto, guardando fisso davanti a sé in un

atteggiamento scontroso, come se fosse su tutte le furie. Non ci aveva nemmen

guardati.

Paul si mise a chiacchierare con me, dicendo frasi d’effetto, e sciorinando una

conversazione studiata per attirare l’attenzione, come i bottegai mettono in

mostra le loro merci più pregiate per suscitare desideri.

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Pareva che non sentisse.

- Tolone! Dieci minuti di fermata, buffet! - gridò il ferroviere.

Paul mi fece cenno di scendere ed appena fummo sul marciapiede disse:

- Chi potrà essere?

Mi misi a ridere:

- Chi lo sa? E poi non me ne importa nulla.

Era eccitato:

- È un bel pezzo di figliola, fresca e gagliarda; e che occhi! Però non sembra

soddisfatta. Deve avere qualche fastidio: non s’è neanche guardata attorno.

- Fai il bello per nulla, - mormorai.

Lui s’adombrò:

- Non faccio il bello, caro mio; mi pare che quella donna sia molto carina, e

basta. Almeno potessi parlarle; ma che potrei dire? Non hai nulla in mente? Chi

potrebbe essere, secondo te?

- Proprio non lo so. Direi un’attricetta che torna alla compagnia, dopo una

fuga amorosa.

Paul s’indigno, come se gli avessi detto qualcosa d’offensivo, e disse:

- Come fai ad accorgertene? Io direi invece che ha un aspetto molto perbene.

Risposi:

- Guarda quei braccialetti, caro mio, quegli orecchini, e com’è vestita... Non mi

stupirei se fosse una ballerina, o forse una cavallerizza, ma piuttosto una

ballerina. C’è qualcosa in lei che sa di teatro.

Questa supposizione non gli andava giù:

- È troppo giovane, avrà a malapena vent’anni.

- Ma, vecchio mio, si possono fare tante di quelle cose prima d’aver vent’anni...

Tra queste ci sono la danza e la recitazione, per non dire delle altre che forse sono

le sole che pratica.

- I viaggiatori dell’espresso di Nizza e Ventimiglia, in carrozza! - gridò il

ferroviere.

Dovemmo risalire. La nostra compagna stava mangiando un’arancia. No, non

aveva belle maniere. S’era stesa un fazzoletto sulle ginocchia, e aveva un modo di

staccare la buccia dorata, di aprir la bocca per afferrare gli spicchi, di sputare i

semi fuori del finestrino, che rivelava una educazione volgare, di abitudini e di

gesti.

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Pareva più che mai ingrugnita e mangiava il frutto con un furore proprio

divertente.

Paul se la mangiava cogli occhi, cercando in che modo potesse attirare la sua

attenzione o eccitare la sua curiosità. Ricominciò a parlare con me, tirando fuori

una sfilata di idee distinte, citando con familiarità dei nomi noti. La ragazza

pareva che non s’accorgesse nemmeno dei suoi sforzi.

Oltrepassammo Fréjus, Saint-Raphaèl: il treno correva attraverso quel

giardino, quel paradiso delle rose, quei boschi d’aranci e limoni in fiore che

portano insieme le bianche zàgare e i frutti dorati, attraverso quel regno dei

profumi, patria dei fiori: la meravigliosa riviera che si stende tra Marsiglia e

Genova.

Bisogna percorrerla di giugno questa costa sulla quale crescono, liberi e

selvaggi, nelle strette vallicelle, sui pendii delle colline, i fiori più belli. E

continuamente si vedono rose: campi, distese, siepi, boschetti di rose.

S’arrampicano sui muri sbocciano sui tetti, salgono sugli alberi, esplodono in

mezzo alle foglie: bianche, rosse, gialle, piccole o grandissime, esili, con un

vestitino unito e semplice, oppure carnose, abbigliate pesantemente e

splendidamente.

Il loro respiro possente e continuo rende l’aria più densa, saporosa e

illanguidente. Quel profumo ancor più penetrante di quello dei fiori d’arancio

raddolcisce l’aria ed è una festa per l’odorato.

La gran costa di rocce brune si distende, bagnata dall’immobile Mediterraneo.

Il pesante sole estivo si riversa in pioggia infuocata sulle montagne, sulle lunghe

spiagge, sul mare d’un color turchino intenso e come solido. Il treno corre

sempre, penetra nelle gallerie per traversare i promontori, striscia sulle

ondulazioni delle colline, passa sull’acqua, su ripide scarpate; ed un dolce, vago

odore salso, di alghe secche, si mischia a tratti al forte e sconvolgente odore dei

fiori.

Paul nulla vedeva, né guardava, né sentiva. Era completamente attratto dalla

viaggiatrice.

A Cannes volle ancora parlarmi e mi fece cenno di scendere. Appena fummo

usciti, mi prese per il braccio:

- Ma lo sai che è proprio meravigliosa! Guarda che occhi... e che capelli! Non

ho mai visto nulla di simile.

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- Calmati, - gli dissi io; - oppure vai all’attacco. Non mi pare inespugnabile,

nonostante il suo aspetto scontroso.

- Ma non potresti parlarle tu? - mi chiese. - lo non so che dirle. Al principio

sono sempre d’una timidezza idiota. Non sono mai stato capace di fermare una

donna, per la strada. La seguo, le giro intorno, mi avvicino, ma non trovo mai le

parole che ci vogliono. Una volta sola tentai una conversazione. Siccome si capiva

nel modo più chiaro che il mio intervento era atteso, e siccome dovevo

assolutamente dire qualcosa, balbettai: «Come state, signora?». Quella mi fece

una risata sulla faccia e io me ne scappai.

Promisi a Paul che avrei fatto del mio meglio per impostare una conversazione,

e, quando fummo tornati ai nostri posti, chiesi con garbo alla nostra vicina:

- Vi dà fastidio il fumo, signora?

Lei rispose:

- Non capisco.

Era italiana! Mi venne voglia di ridere. Paul non sapeva una parola di quella

lingua, sicché dovetti fargli da interprete. Cominciai dunque la mia parte, e dissi,

in italiano:

- Volevo chiedervi, signora, se il fumo vi dà fastidio.

Mi rispose arrabbiata:

- Che mi fa!

Non aveva alzato il capo o lo sguardo su di me, e restai perplesso, non

sapendo se considerare quel «che mi fa» un’autorizzazione, un rifiuto, un sincero

segno d’indifferenza o semplicemente: «Lasciatemi in pace».

Ripetei:

- Signora, non vi dà noia l’odore del tabacco?

Mi rispose: - Mica - con un tono che voleva dire: «Ma levatevi di torno!». Il

permesso però l’aveva dato e dissi a Paul: - Puoi fumare. - Lui mi guardava cogli

occhi stupiti di chi cerca di capire quel che vien detto davanti a lui in una lingua

straniera, e mi chiese, con una faccia davvero buffa:

- Che cosa le hai detto?

- Le ho chiesto se potevamo fumare.

- Non sa il francese?

- Neanche una parola.

- E che ha risposto?

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- Che potevamo fare quel che ci pareva.

E accesi un sigaro.

Paul aggiunse:

- Non t’ha detto altro?

- Caro mio, se tu avessi contato le parole che ha detto, ti saresti potuto

accorgere che ne ha dette sei, e di queste sei due per farmi capire che non sapeva

il francese. Con le altre quattro che rimanevano non poteva dirmi gran che.

Paul pareva infelice, deluso, disorientato.

Invece a un certo punto l’italiana mi chiese, con lo stesso tono scontento che

pareva connaturato in lei:

- Sapete dirmi a che ora arriveremo a Genova?

- Stasera alle undici, signora, - risposi.

E, dopo un momento di silenzio, continuai:

- Andiamo anche noi a Genova, e se strada facendo potessimo esservi utili in

qualcosa ne saremmo ben lieti.

Non mi rispose, ed allora insistetti:

- Siete sola, e se aveste bisogno, siamo ai vostri ordini...

Disse un «mica» così brusco che subito tacqui.

Paul mi chiese:

- Che t’ha detto?

- Ha detto che le piaci molto.

Ma lui non aveva voglia di scherzare e mi pregò, piuttosto seccamente, di non

pigliarlo in giro. Allora gli tradussi sia la richiesta della ragazza, sia la mia galante

offerta così decisamente respinta.

Paul era inquieto come uno scoiattolo in gabbia. Disse:

- Se riuscissimo a sapere in che albergo va, ci potremmo andare anche noi.

Cerca di saperlo, prova a trovare un altro pretesto per parlarle.

Era più facile a dire che a fare; non sapevo che cosa inventare e m’ero

incuriosito anch’io di far conoscenza con quella donnina scontrosa.

Passammo Nizza, Monaco, Mentone e il treno si fermò alla frontiera per la

visita dei bagagli.

Non posso patire quella gente maleducata che mangia in treno, eppure andai

a comprare un mucchio di roba per giocare l’ultima carta, puntando sulla

ghiottoneria della nostra vicina. Sentivo che, di solito, quella ragazza doveva

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essere facile da avvicinare. Ora doveva essere arrabbiata per qualcosa, ma forse

sarebbe bastato un nonnulla, un desiderio suscitato, una parola, una cortesia

appropriata, per rasserenarla, convincerla e conquistarla.

Il treno ripartì. Eravamo sempre noi tre soli. Sparpagliati i miei acquisti sul

sedile, tagliai il pollo, sistemai elegantemente il prosciutto su un foglio, e disposi

con cura accanto alla giovane la frutta e i dolci: fragole, susine, ciliegie, pasticcini

e confetti.

Nel vedere che stavamo cominciando a mangiare, lei tirò fuori da una borsa

un pezzo di cioccolata e due cornetti e cominciò a sgranocchiare coi suoi bei

dentini aguzzi il pane croccante e la cioccolata.

Paul mi disse sottovoce:

- Offrile qualcosa!

- È proprio quello che voglio fare, mio caro, ma non so da che parte

cominciare.

La giovane diede qualche occhiata alle nostre provviste, e m’accorsi che, finiti i

cornetti, avrebbe avuto ancora fame. Lasciai che finisse il suo frugale pasto e le

chiesi:

- Vi sarei grato, signora, se voleste accettare uno di questi frutti.

Rispose nuovamente: - Mica! - ma con voce meno cattiva di prima, e allora

insistetti:

- Ma posso offrirvi un po’ di vino? Non avete bevuto nulla. È vino della vostra

terra, vino italiano, e poiché siamo in casa vostra ci farebbe molto piacere se una

bella bocca italiana accettasse l’offerta dei suoi vicini francesi.

Faceva segno di no col capo, adagio, con la volontà di rifiutare e il desiderio

d’accettare; disse di nuovo «mica», ma con tono quasi gentile. Presi il fiaschetto,

riempii un bicchiere e glielo offrii:

- Bevete, - le dissi, - sarà il benvenuto per noi nella vostra patria.

Prese il bicchiere con aria scontenta, lo vuotò d’un fiato, come se avesse molta

sete e me lo rese senza ringraziarmi.

Allora le offrii le ciliegie:

- Prendete, signora. Ci fareste veramente piacere.

Guardava la frutta sparpagliata accanto a lei e disse, parlando così svelta che

feci fatica a capirla:

- A me non piacciono né le ciliegie né le susine; amo soltanto le fragole.

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- Che cosa ha detto? - mi chiese Paul.

- Ha detto che non le piacciono né le ciliegie né le susine, ma soltanto le

fragole.

Le posai sulle ginocchia il giornale pieno di fragole di bosco. Cominciò subito a

mangiarle con grande sveltezza, pigliandole con la punta delle dita e tirandosele

in bocca da una certa distanza; apriva la bocca, per riceverle, in modo civettuolo e

seducente.

Quand’ebbe finito il mucchietto rosso che vedemmo in pochi istanti diminuire,

dissolversi, sparire, nel vivo agitarsi delle sue mani, le chiesi:

- E ora, che possiamo offrirvi?

- Vorrei un pezzetto di pollo, - rispose.

E se ne mangiò almeno mezzo, anzi lo divorò a grandi morsi, sbranandolo

come un carnivoro. Poi si decise a prendere un po’ di ciliegie, che non le

piacevano, qualche prugna, alcuni pasticcini, e alla fine disse: - Basta - e si

rannicchiò nel suo angoletto.

Cominciavo a divertirmi sul serio e volevo che mangiasse qualcos’altro,

moltiplicando complimenti ed offerte, per convincerla. Ma lei s’arrabbiò di nuovo e

mi buttò sulla faccia un «mica» e lo ripeté, in tono così terribile che non

m’arrischiai più a disturbarle la digestione.

Mi volsi verso il mio amico:

- Mio caro Paul, credo che siamo tornati al punto di prima.

Si faceva buio, una calda notte estiva scendeva lentamente, stendendo le sue

tiepide ombre sulla terra ardente e stanca. Ogni tanto, lontano, sul mare, si

vedevano delle luci sulle punte delle insenature, sui promontori, mentre le stelle

cominciavano ad apparire sull’orizzonte buio, e a volte le confondevo coi fari.

Il profumo degli aranci si faceva più penetrante; lo respiravamo inebriati,

allargando i polmoni per assorbirlo di più. Pareva che nell’aria profumata

volteggiasse qualcosa di dolce, di delizioso, di divino.

D’un tratto vidi, sotto gli alberi che costeggiavano la ferrovia, nell’ombra ormai

densa, come una pioggia di stelle; parevano gocce di luce che saltellassero,

giocassero e corressero tra le foglie, minuscole stelle cadute dal cielo sulla terra

per giocare. Erano le lucciole, le mosche di fuoco, che nell’aria profumata

danzavano uno strano balletto.

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Una di esse entrò per caso nello scompartimento e cominciò a svolazzare

gettando i suoi bagliori intermittenti, segnati da pause di buio. Coprii la lampada

col velo turchino e osservai il volo di quell’insetto fantastico che andava, veniva,

seguendo il capriccio del suo volo fiammante. Si posò d’un tratto tra i capelli neri

della nostra vicina, che s’era addormentata, dopo la cena. Paul era in estasi, cogli

occhi fissi su quel punto luminoso che scintillava, come un vivente gioiello, sulla

fronte della ragazza addormentata.

L’italiana si svegliò verso le dieci e tre quarti, e aveva sempre in mezzo ai

capelli la lucente bestiolina. Vedendo che si muoveva, le dissi:

- Stiamo per arrivare a Genova, signora.

Lei non mi rispose, e disse tra sé, come assillata da un pensiero fisso e

tormentoso:

- E ora che faccio?

Poi mi disse:

- Volete che venga con voi?

Rimasi così stupito che non capivo:

- Come con noi? Che volete dire?

Ella ripeté, infuriandosi di più:

- Volete che venga con voi, subito?

- Sì che voglio, ma voi dove volete andare? Dove volete che vi porti?

Alzò le spalle con suprema indifferenza:

- Dove vi pare. Per me è lo stesso.

Ripeté due volte: - Che mi fa?

- Ma noi, veramente, andiamo all’albergo.

La giovane disse con tono sprezzante:

- E va bene, andiamo all’albergo...

Mi voltai verso Paul e gli dissi:

- M’ha chiesto se la vogliamo portare con noi.

Nel vedere lo sbalordimento del mio amico tornai calmo. Paul balbettò:

- Con noi? e dove, perché, come?

- Che ne so! In questo momento me l’ha proposto, con tono irritatissimo. Le ho

risposto che andiamo all’albergo e lei ha detto: «Va bene, andiamo all’albergo!».

Dev’essere senza un soldo. Eppure è lo stesso uno strano modo di far conoscenza.

Paul, nervoso e fremente, esclamò:

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- Ma sì, sì che voglio... Dille che la porteremo dove vorrà. Esitò un istante ed

aggiunse con voce inquieta:

- Però bisogna sapere con chi vuole andare: con me o con te?

Mi voltai verso l’italiana, che pareva non ascoltarci nemmeno, ricaduta

nell’indifferenza più completa, e le dissi:

- Saremo felicissimi di portarvi con noi, signora; però il mio amico vorrebbe

sapere se voi sceglierete, per appoggiarvi, il suo braccio oppure il mio.

Spalancò gli occhioni neri e mi rispose, un poco stupita:

- Che mi fa?

Mi spiegai:

- In Italia credo che l’amico del cuore, quello che soddisfa tutti i desideri e i

capricci della donna si chiami patito. Chi di noi volete per patito?

La ragazza rispose senza esitare:

- Voi!

Mi volsi a Paul:

- Mi dispiace, mio caro, non hai fortuna: ha scelto me.

Disse tutto rabbioso:

- Meglio per te.

E, dopo aver pensato per qualche istante:

- Ci tieni tanto a portarti dietro quell’impiastro? Bada che ci rovina tutto il

viaggio. Che vuoi che ce ne facciamo d’una donna che pare non so che cosa?

Vedrai che in un albergo ammodo non ci vorranno nemmeno!

Invece l’italiana mi pareva ora assai meglio di quanto mi fosse parsa prima, ed

avevo proprio voglia di portarmela dietro. Questo pensiero addirittura

m’entusiasmava e già mi correvano nel sangue quei leggeri brividi d’attesa

provocati dal pensiero d’una notte d’amore.

- Troppo tardi, per tirarsi indietro, mio caro, - risposi: - abbiamo già accettato.

Sei stato il primo a consigliarmi di rispondere di sì.

- È da stupidi, - brontolò; - ma insomma fai come ti pare.

Il treno fischiò, rallentò: eravamo arrivati.

Scesi, porsi la mano alla mia nuova compagna che saltò agilmente a terra e le

offrii il braccio che lei accettò con una certa ripugnanza. Dopo avere cercato e

ritirato i bagagli, ci avviammo attraverso la città. Paul camminava in silenzio, con

passo nervoso.

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Gli dissi:

- In che albergo andremo? Sarà un po’ difficile andare al Città di Parigi con

una donna, e soprattutto con questa.

- Eh, già, - m’interruppe Paul: - con quest’italiana che pare più una puttana

che una duchessa. Ma poi, non è cosa che mi riguardi fai come ti pare.

Ero indeciso, avevo scritto al Città di Parigi per prenotare le stanze, e ora...

non sapevo più che fare.

Ci seguivano due facchini coi bagagli.

- Dovresti andare avanti tu, - dissi, - e dire che stiamo arrivando; farai capire

al direttore che sono insieme ad una... amica, e che vorremmo delle stanze

separate dalle altre, per non mischiarci cogli altri viaggiatori. Dovrebbe capire. Ci

regoleremo secondo quello che risponderà.

Paul brontolò:

- Tante grazie, ma questi incarichi, e questa parte, non mi vanno. Non sono

mica venuto qui per prepararti le stanze e i piaceri...

Insistetti:

- Via, caro, non t’arrabbiare. È sempre meglio andare in un albergo buono che

in uno cattivo, e poi non è tanto difficile chiedere al direttore tre stanze separate e

una sala da pranzo.

Calcai la voce sul tre, e si convinse.

Andò avanti, lo vidi entrare nel portone di un bell’albergo, mentre io aspettavo

dall’altra parte della strada, trascinandomi dietro l’italiana silenziosa, e seguito a

passo a passo dai due facchini.

Alla fine Paul tornò, con una faccia buia come quella della mia compagna.

- Va bene, - disse, - ci prendono; ma ci sono due camere sole, perciò tu

t’arrangerai.

Lo seguii, un po’ vergognoso di farmi vedere con quella compagnia un po’

equivoca.

Ci dettero due camere separate da un salottino. Ordinai una cena fredda, e un

po’ indeciso mi voltai verso l’italiana:

- Abbiamo soltanto due camere, signora, scegliete quella che vi pare.

Mi rispose con uno dei suoi eterni:

- Che mi fa?

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Allora presi da terra il suo bauletto di legno nero, un vero bauletto da serva e

lo portai nella stanza di destra, che avevo scelto per lei... per noi. Su un pezzo di

carta incollato alla cassetta, una mano francese aveva scritto: «Signorina

Francesca Rondoli, Genova».

- Vi chiamate Francesca? - le chiesi.

Fece cenno di sì col capo, senza rispondermi.

- Ceneremo subito, - continuai; - forse, prima, avreste voglia di fare un po’ di

toletta?

Rispose con un «mica», parola frequente come il «che mi fa», sulle sue labbra.

Insistetti:

- Dopo un viaggio in treno fa piacere pulirsi un poco.

Pensai che forse non aveva tutti gli oggetti indispensabili a una donna, poiché

doveva certo trovarsi in una situazione particolare, come poteva essere la fine

d’una qualche spiacevole avventura; e le portai il mio astuccio da viaggio.

Tirai fuori tutti gli arnesi di pulizia che conteneva: spazzolino per le unghie,

spazzolino da denti nuovo - me ne porto sempre dietro un assortimento, - forbici,

lime, spugne. Stappai una bottiglietta d’acqua di Colonia, una di lavanda

ambrata, un flaconcino di new mown hay, perché potesse scegliere. Aprii la

scatola della cipria, in cui era immerso un morbido piumino. Misi uno dei miei

asciugamani fini di traverso sulla brocca e una saponetta nuova accanto alla

catinella.

Lei seguiva i miei movimenti coi begli occhioni adirati, e non pareva né stupita

né soddisfatta delle mie premure.

- Ecco tutto quel che può occorrervi, - le dissi. - Vi avvertirò quando la cena

sarà pronta.

Tornai in salotto. Paul s’era installato nell’altra camera e vi s’era rinchiuso;

rimasi solo ad aspettare.

Il cameriere andava e veniva, portando piatti, bicchieri. Apparecchiò

lentamente, portò un pollo freddo e m’annunciò che la cena era pronta.

Bussai leggermente alla porta della signorina Rondoli. Gridò: - Entrate. -

Entrai. Fui subito preso alla gola da un odore soffocante di profumi, lo stesso

odore forte e pesante delle botteghe di parrucchiere.

L’italiana stava seduta sul suo bauletto in una posa che stava tra quella della

sognatrice scontenta e della servetta licenziata. Con un’occhiata mi resi conto di

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quello che lei intendeva per far toletta. L’asciugamano era rimasto piegato sulla

brocca ancora piena; il sapone, intatto ed asciutto, stava accanto alla catinella

vuota. Però si sarebbe detto che la giovane avesse bevuto metà delle bocce di

profumo. L’acqua di Colonia era stata rispettata, perché ne mancava appena la

terza parte; ma, per compenso, l’acqua di lavanda ambrata e il new mown hay

erano quasi spariti. Una nube di cipria, una leggera nebbiolina bianca pareva

stagnare ancora nell’aria, da tanto che se n’era impiastricciata viso e collo; sulle

ciglia, sulle sopracciglia e sulle tempie aveva una specie di nevischio; le gote

parevano ingessate, e strati profondi colmavano ogni cavità del suo viso, le narici,

la fossetta del mento, le estremità degli occhi.

Si alzò spandendo un odore così forte che mi sentii venire il mal di capo.

Ci mettemmo a tavola per la cena. Paul era di pessimo umore. Non riuscivo

che a fargli dire frasi di biasimo, giudizi irritati e complimenti sgradevoli.

La signorina Francesca mangiava come un lupo, e appena ebbe finito di

cenare, s’addormentò sul canapè. Vedevo avvicinarsi con preoccupazione l’ora

decisiva della divisione delle camere. Decisi di far precipitare gli eventi e mi

sedetti accanto all’italiana, baciandole galantemente la mano.

Lei dischiuse gli occhi stanchi e mi lanciò, di tra le palpebre sollevate,

un’occhiata addormentata e ancora scontenta.

Le dissi:

- Abbiamo soltanto due camere: mi permettete di dormire nella vostra?

Ella rispose:

- Fate come vi pare. Per me è lo stesso. Che mi fa?

La sua indifferenza mi urtò:

- Allora non vi dispiace che venga con voi?

- Fate come vi pare, non me ne importa.

- Volete andare subito a letto?

- Sì, è meglio: ho sonno...

Si alzò, sbadigliò, tese la mano a Paul che la strinse, arrabbiatissimo, ed io le

feci lume fino alla camera.

Ero un po’ preoccupato.

- Ecco tutto quanto vi occorre, - le dissi.

Ebbi cura di versare io stesso nella catinella la metà dell’acqua della brocca, e

di mettere l’asciugamano accanto al sapone.

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Poi tornai da Paul. Appena fui entrato mi disse:

- Bell’arnese che ti sei preso!

Replicai ridendo:

- Via, via, non dire che l’uva è troppo acerba...

Con una cattiveria sorniona Paul seguitò:

- Vedrai dopo, come te ne pentirai...

Trasalii, preso dalla paura assillante che ci assale dopo gli amori equivoci, la

paura che ci avvelena ogni piacevole incontro, ogni abbraccio imprevisto, ogni

bacio colto alla ventura. Mi mostrai spavaldo:

- Via, che dici... Quella ragazza non è mica di quelle...

Ma ormai m’aveva toccato; aveva scorto sul mio viso l’ombra del dubbio.

- Eh, già! Tu la conosci! Sei davvero straordinario: trovi in treno quest’italiana

che viaggia sola; lei, con un cinismo straordinario, ti offre d’andare a letto con lei,

in un qualsiasi albergo; tu ce la porti: e poi pretendi che non sia una puttana; e

poi ti convinci che è meno pericoloso andare a letto con lei che con un’altra

donna, per esempio, che abbia... il vaiolo!

Rideva, col suo risolino cattivo e malevolo. Mi misi a sedere, angosciato. Che

fare? Aveva ragione lui. Dentro di me si svolse un terribile combattimento fra la

paura e il desiderio.

- Fai come ti pare, - disse Paul, - io t’ho avvisato. Poi non ti lamentare.

Ma nel suo sguardo c’era tale una gioia ironica, tale un piacere di vendetta; e

lui si burlava tanto di me, che non ebbi più esitazioni. Gli tesi la mano.

- Buonanotte, - gli dissi:

È trionfo senza gloria,

la facile vittoria.

E continuai: - Davvero, mio caro, la vittoria vale il pericolo. Ed entrai con

passo fermo nella camera di Francesca.

La meraviglia m’inchiodò sull’uscio: ella già dormiva, stesa rutta ignuda sul

letto. Il sonno l’aveva sorpresa mentre si stava spogliando; ed ora riposava nella

posa seducente del gran nudo di Tiziano.

Pareva che si fosse sdraiata dalla stanchezza, per levarsi le calze, che difatti

eran rimaste sul lenzuolo; poi doveva esserle venuto in mente qualcosa di

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piacevole, senza dubbio, perché aveva aspettato un poco, prima d’alzarsi, che

quella fantasticheria finisse, e, chiudendo gli occhi, s’era assopita dolcemente.

Una camicia da notte col collo ricamato, comprata bell’e fatta, vero lusso di

esordiente, era buttata su una sedia.

Era bella, giovane, soda e fresca.

Che c’è di più seducente della donna addormentata? Quel corpo coi suoi

contorni morbidi, con le sue curve attraenti, con le sue tenere sinuosità che fan

tremare il cuore, pare fatto apposta per stare immobile sul letto. La linea ondosa

che si piega sul fianco, si rialza sull’anca e discende il lieve e grazioso pendio della

gamba, finendo in modo così civettuolo nella punta del piede, rivela il suo fascino

squisito soltanto quando si disegna lunga distesa sulle lenzuola.

Stavo già per dimenticare i consigli di prudenza del mio compagno; ma,

essendomi voltato verso la toletta, vidi sapone, asciugamano e il resto come ve li

avevo lasciati, e allora mi misi a sedere, turbato e indeciso.

Sono rimasto seduto per molto tempo, forse un’ora addirittura, senza

decidermi a nulla, né all’audacia né alla fuga. D’altronde non potevo più

scappare, e dovevo o passare la notte su una sedia oppure mettermi a letto, a mio

rischio e pericolo.

A dormire non ci pensavo nemmeno, avevo la testa in fiamme e gli occhi

troppo indaffarati.

Mi muovevo di continuo: vibrante, febbrile, scontento, nervosissimo. Poi feci

tra me questo ragionamento, per costringermi alla resa: «In fondo, se vado a letto,

non sono mica obbligato a far nulla. E mi riposerò meglio su un materasso che su

una sedia».

Mi spogliai adagio adagio, passai sopra la dormente e mi allungai con la faccia

al muro, voltando le spalle alla tentazione.

Stetti così per diverso tempo, senza chiudere occhio.

Ad un tratto la mia vicina si svegliò. Spalancò due occhi meravigliati e sempre

scontenti, s’accorse di essere nuda e tranquillamente s’infilò la camicia da notte,

indifferente come se io non ci fossi.

Allora... approfittai dell’occasione, senza che lei se ne curasse minimamente.

Si riaddormentò, tranquilla, col capo poggiato sul mio braccio destro.

Meditai sull’imprudenza e sulla debolezza dell’uomo; poi, a mia volta, mi

addormentai.

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Si svegliò presto, da donna abituata alle faccende mattutine. Il movimento che

fece alzandosi mi svegliò; e stetti ad osservarla attraverso le palpebre socchiuse.

Andava su e giù senza fretta, come se fosse stupita di non aver nulla da fare.

Si decise di avvicinarsi alla toletta e in un attimo vuotò quel che era rimasto nelle

boccette di profumo. Per la verità usò anche un po’ d’acqua, ma poca davvero.

Quando ebbe finito di vestirsi si mise a sedere sul suo bauletto tenendosi le

ginocchia tra le mani, pensierosa.

Feci le viste di svegliarmi e le dissi:

- Buongiorno, Francesca.

Lei brontolò, senza dimostrarsi più gentile del giorno prima:

- Buongiorno.

- Avete dormito bene? - le chiesi.

Mi fece cenno di sì col capo, senza aprir bocca; io saltai fuori e le andai

incontro per darle un bacio.

Mi porse il viso con la mossa annoiata della bambina che si lascia carezzare

controvoglia. La presi teneramente fra le braccia (ormai avevo assaggiato il primo

boccone e sarebbe stato assurdo che non continuassi) e baciai con calma gli

occhioni, che lei chiudeva infastidita, le gote fresche, le labbra carnose che lei

distoglieva.

- Non vi piace essere baciata? - le chiesi.

Rispose: - Mica.

Mi sedetti accanto a lei sul bauletto e prendendola a braccetto le dissi:

- Mica, mica, sempre mica! Vi chiamerò la signorina Mica.

Per la prima volta un sorriso le sfiorò le labbra, ma fu talmente rapido che

forse avrò visto male.

- Se mi rispondete sempre «mica» non saprò più che inventare per farvi

piacere. Sentiamo, oggi che vogliamo fare?

Ebbe un attimo di esitazione, come se un fuggevole desiderio le fosse balenato

in mente:

- È lo stesso... come vi pare a voi...

- Allora, signorina Mica, prenderemo una carrozza ed andremo a spasso.

- Come volete, - mormorò lei.

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Paul ci aspettava in salotto con l’espressione infastidita di chi fa il terzo nelle

faccende amorose. Finsi un viso felice e gli strinsi la mano con un’energia che

rivelava confessioni trionfali.

- Che cosa hai intenzione di fare? - mi chiese.

- Di fare un giretto per la città - risposi, - e poi di prendere una carrozza per

vedere qualcosa dei dintorni.

Mangiammo in silenzio, poi c’inoltrammo per le strade, per visitare i musei.

Trascinavo Francesca da un palazzo all’altro: palazzo Spinola, palazzo Doria,

palazzo Marcello Durazzo, palazzo Rosso, palazzo Bianco. Lei non guardava mai

nulla, oppure dava appena un’occhiata stanca e trascurata a tutti quei

capolavori. Paul, furibondo, ci seguiva borbottando osservazioni sgradevoli. Poi

una carrozza ci portò in giro per la campagna, tutti e tre a bocca chiusa.

Tornammo in albergo per cenare.

Il giorno dopo fu la stessa cosa, e quell’altro idem.

Il terzo giorno Paul mi disse:

- Senti, io ti pianto... non voglio mica stare tre settimane a guardar te che fai

all’amore con quella lì!

Ci rimasi molto male, perché, con mio vivo stupore, m’ero affezionato a

Francesca, in un modo strano. L’uomo è debole e sciocco, si lascia accalappiare

da un nonnulla, e diventa vile ogni qualvolta i suoi sensi siano eccitati o

dominati. Ero attaccato a quella ragazza che non conoscevo, a quella ragazza

taciturna e sempre scontenta. Mi piaceva il suo viso imbronciato la smorfia della

sua bocca, il suo sguardo annnoiato, mi piacevano i suoi gesti molli, i suoi

sprezzanti consensi perfino l’indifferenza dei suoi amplessi. Un legame segreto, il

misterioso legame dell’amore bruto, il vincolo segreto del possesso insaziato, mi

teneva avvinto a lei. Lo dissi a Paul, con franchezza. Mi rispose che ero uno

stupido, e poi concluse:

- Allora portatela dietro.

Ma Francesca rifiutò ostinatamente di lasciare Genova, e non volle

spiegarcene il motivo. Pregai, ragionai, promisi: nulla.

Rimasi.

Paul disse che se ne sarebbe andato da solo. Fece i bagagli e rimase.

Passarono altri quindici giorni.

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Francesca, sempre taciturna e di malumore, viveva accanto a me piuttosto che

insieme a me, rispondendo ai miei desideri, alle mie domande, alle mie proposte,

con quel suo eterno: - Che mi fa? - oppure col non meno solito «mica».

Il mio amico era sempre arrabbiato; e alle sue furie rispondevo:

- Se t’annoi, puoi andartene. Non ti trattengo.

Allora mi copriva d’ingiurie e di rimproveri.

- Ormai dove vuoi che vada? Avevamo tre settimane, e sono già passati

quindici giorni! Ti pare che ora possa continuare il viaggio? Dovrei andarmene,

solo, a Venezia, a Firenze, a Roma! Me la pagherai, e più cara di quanto credi! Ti

pare che si possa portar via una persona da Parigi per rinchiuderla in un albergo

di Genova, per colpa d’una donnaccia italiana!

Gli rispondevo tranquillamente:

- Allora tornatene a Parigi.

- È quello che sto per fare! - urlava. - Domani al massimo me ne sarò bell’e

andato!

Invece il giorno dopo era come il giorno prima, lui restava infuriato,

imprecando.

Ormai ci conoscevano, nelle strade in cui giravamo dalla mattina alla sera,

nelle stradine strette e senza marciapiedi di quella città che somiglia a un

immenso labirinto di pietra, traforato da corridoi simili a sotterranei. Andavamo

in quei vicoli percorsi da furiose correnti d’aria, stretti tra muri così alti che

appena si riesce a scorgere il cielo. A volte incontravamo dei francesi, che si

voltavano, stupiti nel riconoscere dei loro compatrioti insieme a quella ragazza di

modi strani, vestita vistosamente, fuori posto, addirittura compromettente in

nostra compagnia.

Camminava a braccetto con me, senza guardar nulla. Perché mai continuava

a stare con me, con noi, coi quali, a quanto pareva, si divertiva così poco? Chi

era? Donde veniva? Che cosa faceva? Aveva qualche progetto, qualche scopo?

Oppure viveva affidandosi alla ventura degli incontri, del caso? Invano cercai di

capirla, di penetrarla, di spiegarmi chi potesse essere. Anzi, più la conoscevo, e

più il mio stupore cresceva. Non doveva essere una furbacchiona che facesse il

mestiere dell’amore. Pareva piuttosto figliola di povera gente, che fosse stata

sedotta trascinata via, abbandonata e ormai perduta. Ma, che mai voleva

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diventare? Che cosa si aspettava? Non pareva proprio che cercasse di

conquistarmi oppure di sfruttarmi seriamente.

Cercai d’interrogarla, di farla parlare sulla sua infanzia, sulla sua famiglia.

Non mi rispose. E seguitai a stare con lei, col cuore libero e i sensi vincolati, mai

stanco di tenere tra le braccia quella femmina scontrosa e superba, accoppiato

con lei come un animale, trattenuto dai sensi, o meglio, sedotto e vinto da quella

sorta di fascino sensuale, giovane, sano e forte, che emanava da lei, dalla sua

pelle gustosa, dalle robuste linee del suo corpo.

Passarono altri otto giorni. S’avvicinava la fine del viaggio perché dovevo

trovarmi a Parigi per l’11 luglio. Paul s’era rassegnato alla disavventura, ma

seguitava a ingiuriarmi. E io cercavo d’inventare divertimenti, distrazioni e

passeggiate per tenere allegri la mia amante e il mio amico; e mi davo un gran da

fare.

Un giorno proposi una passeggiatina a Santa Margherita, deliziosa cittadina in

mezzo ai giardini, che si nasconde ai piedi d’una costa protesa nel mare fino al

paesetto di Portofino. Andavamo tutti e tre per la meravigliosa strada che segue i

contorni della montagna, quando Francesca mi disse:

- Domani non potrò venir fuori con voi. Devo andare a trovare dei parenti.

E non aggiunse altro. Non le feci domande, sicuro che non m’avrebbe risposto.

La mattina seguente s’alzò prestissimo. Siccome io ero rimasto a letto, si

sedette sulla sponda e disse, con tono imbarazzato, contrariato, esitante:

- Se stasera non sarò tornata, verrete a cercarmi?

- Certo, - risposi; - dove dovrò venire?

Ella mi spiegò:

- Andate in via Vittorio Emanuele, poi voltate nel passaggio Falcone e nel

vicolo San Raffaele; entrate nella casa del venditore di mobili e in fondo al cortile,

a destra, chiedete della signora Rondoli.

E se ne andò. Rimasi a bocca aperta.

Nel vedermi solo Paul si stupì:

- Dov’è Francesca? - chiese.

Gli raccontai che cos’era successo.

- Benissimo... - esclamò, - approfittiamo dell’occasione e svignamocela. Tanto

la vacanza è finita, e due giorni di più o di meno non fanno nulla. Coraggio, fai le

valigie, si parte!

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Rifiutai:

- Ma no, mio caro, non posso piantare a questo modo una ragazza, dopo

esserci stato insieme per più di tre settimane. Bisogna che la saluti, che le lasci

qualcosa. Non voglio comportarmi come un mascalzone.

Lui però non voleva sentir ragioni, e mi sollecitò, mi assillò. Pure, non cedetti.

Stetti tutta la giornata in albergo, aspettando che Francesca tornasse. Non si

fece vedere.

La sera, a cena, Paul era raggiante:

- Lo vedi, ti ha piantato, bello mio. Ah, ah, è buffa, è proprio buffa...

Confesso che ero stupito, ed anche un po’ contrariato. Paul rideva, mi

burlava:

- Non è un cattivo sistema, anche se è un po’ rozzo. «Aspettami, torno subito».

Aspetterai per molto tempo? Chi lo sa? E forse sarai tanto ingenuo da andare a

cercarla all’indirizzo che t’ha lasciato: «Per piacere, la signora Rondoli?». «Ma non

sta qui, signore...». Scommetto che avresti voglia d’andarci?

- No, mio caro, - protestai, - e ti garantisco che se entro domattina non sarà

tornata parto con l’espresso delle otto. L’avrò aspettata per ventiquattr’ore, e sarà

abbastanza; così avrò la coscienza tranquilla.

Passai una serata inquieta; ero un po’ triste e nervoso. Davvero sentivo

qualcosa per lei. Andai a letto a mezzanotte, e dormii pochissimo.

Alle sei ero già in piedi. Svegliai Paul, feci i bagagli, e due ore dopo salivamo

sul treno della Francia.

III

L’anno seguente, press’a poco negli stessi giorni, fui ripreso come da una

febbre periodica, dal desiderio di vedere l’Italia.

Mi decisi subito a fare il viaggio, perché la visita di Venezia, di Firenze e di

Roma fa parte dell’educazione dell’uomo di mondo. E inoltre, per quando si è in

società, si dispone d’una quantità d’argomenti di conversazione e si possono

spacciare delle scemenze artistiche, che paiono sempre profonde.

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Questa volta partii solo, ed arrivai a Genova alla stessa ora dell’anno prima,

ma senza aver avuto avventure di viaggio. Andai allo stesso albergo, e per

combinazione mi diedero la stessa camera!

Appena fui a letto mi tornò e mi cominciò a perseguitare con strana insistenza

il ricordo di Francesca, che del resto mi aleggiava nella mente fin dal giorno

prima.

Avete mai provato questa ossessione d’una donna, quando si torna, parecchio

tempo dopo, nei luoghi in cui la si è amata e posseduta?

È una delle sensazioni più violente e più dolorose ch’io conosca. Ci sembra di

vederla entrare, sorridere, aprire le braccia. La sua immagine, fuggevole e precisa,

ci sta davanti, svanisce, ritorna e scompare. Ci tortura come un incubo, ci

prende, ci riempie l’anima e ci turba i sensi, questa irreale presenza. Gli occhi la

vedono, il suo profumo ci perseguita, sentiamo sulle labbra il sapore dei suoi

baci, la carezza della sua carne sulla pelle. Eppure siamo soli, lo sappiamo, e si

soffre dello strano turbamento provocato dall’evocazione d’un fantasma. Ci

sentiamo circondati da una tristezza pesante e angosciosa; ci sembra d’essere

abbandonati per sempre. Qualunque oggetto piglia un significato di desolazione e

porta nel cuore una tremenda impressione d’isolamento e d’abbandono. Non

tornate mai nella città, nella casa, nella camera, nel bosco, nel giardino, alla

panchina dove avete tenuto tra le braccia la donna amata.

Per tutta la notte fui perseguitato dal ricordo di Francesca; e a poco a poco mi

sentii preso dal desiderio di rivederla. Sulle prime era un desiderio confuso, che si

fece via via più preciso, più acuto, più vivo. Decisi di restare a Genova il giorno

dopo per tentare di ritrovarla. Se non ci fossi riuscito avrei preso il treno della

sera.

La mattina dopo mi misi alla ricerca. Mi ricordavo benissimo le informazioni

che m’aveva dato Francesca quando se n’era andata: via Vittorio Emanuele,

passaggio Falcone, vicolo San Raffaele, casa del venditore di mobili, in fondo al

cortile a destra.

Trovai le strade e i luoghi con una certa difficoltà, e picchiai alla porta d’una

specie di capannone mezzo guasto. Venne ad aprirmi una donna corpulenta, che

doveva essere stata bellissima e ora era soltanto molto sporca. Era

esageratamente grassa, ma conservava una notevole maestà di lineamenti. I

capelli spettinati le ricadevano a ciocche sulla fronte e sulle spalle, e quel suo

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corpaccione tremolava sotto una larga vestaglia cosparsa di macchie. Portava una

enorme collana d’oro e a ogni polso un magnifico braccialetto di filigrana

genovese.

Mi chiese con ostilità:

- Che cosa volete?

- Sta qui la signorina Francesca Rondoli? - domandai io. - Che cosa volete da

lei?

- Ebbi il piacere di conoscerla l’anno scorso e avrei voluto rivederla.

La donna mi scrutava con diffidenza:

- Dove l’avete conosciuta?

- Qui, a Genova.

- Come vi chiamate?

Esitai un momento, poi dissi il mio nome. Avevo appena finito di pronunciarlo

che l’italiana sollevò le braccia, come per abbracciarmi:

- Ah! Voi sareste il francese! Come sono contenta di vedervi, come sono

contenta! Ma quanto avete fatto soffrire quella poveretta... V’ha aspettato un

mese, sissignore, un mese intero. Il primo giorno era sicura che sareste venuto a

cercarla; voleva vedere se le volevate bene. E che pianti quando ha capito che non

sareste venuto, che pianti! È andata all’albergo. Voi non c’eravate. Allora ha

pensato che aveste cominciato il viaggio per l’Italia, e che sareste ripassato da

Genova e l’avreste cercata allora, perché non era voluta venire con voi. Sissignore,

ha aspettato più d’un mese; ed era così triste, poverina... Io sono sua madre.

Mi sentivo un po’ a disagio; mi ripresi e le chiesi:

- È qui, ora?

- Nossignore, è a Parigi con un pittore, un giovanotto tanto ammodo che le

vuole molto bene e le dà tutto quel che chiede. Ecco, guardate quello che m’ha

mandato, a me che sono la madre: bello, vero?

E mi mostrò, con vivacità tipicamente meridionale, i grossi braccialetti, la

pesante collana.

- E c’è dell’altro, - continuò, - un paio d’orecchini con le pietre, un vestito di

seta, anelli... Ma di mattina non li porto, me li metto soltanto sul tardi, quando

mi vesto. Ah, sì: è molto, molto felice... Chissà come sarà contenta quando le

scriverò che siete venuto... Ma entrate, sedetevi un momentino... Spero che

gradirete qualcosa...

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Rifiutai, perché avevo deciso di partire col primo treno. Ma la donna m’aveva

preso per il braccio e mi tirava dentro, dicendo:

- Entrate, entrate, signore; bisogna che le dica che siete venuto in casa nostra.

Entrai in una stanzetta piuttosto buia, mobiliata con una tavola ed alcune

sedie.

- È molto, molto felice, ora, - seguitò; - quando l’avete incontrata sul treno

aveva avuto un grosso dispiacere: il suo amico l’aveva piantata, a Marsiglia. Se ne

stava tornando a casa, poverina. Vi ha voluto bene subito, ma era ancora un po’

triste, capirete. Ora non le manca nulla; mi scrive tutto quello che fa. Lui si

chiama Bellemin; dicono che da voi sia un gran pittore. La incontrò passando di

qui, sissignore, per la strada, e s’innamorò subito di lei. Lo volete un bicchiere di

sciroppo? È squisito. Questa volta siete venuto solo?

- Sì, sono solo, - risposi.

Avevo una gran voglia di ridere, che mi cresceva sempre. Sul principio ero

rimasto male, ma i discorsi della signora Rondoli avevano fatto svanire il mio

disappunto. Dovetti bere un bicchiere di sciroppo.

- Sicché siete solo solo? - seguitava lei. - Oh, quanto mi rincresce che non ci

sia Francesca: vi avrebbe fatto compagnia, per il tempo che starete in città. Non

fa piacere andare a spasso da solo, e anche Francesca chissà quanto si

dispiacerà.

Mentre mi alzavo ella esclamò:

- Se volete, potrei mandare con voi Carlotta... Conosce benissimo tutte le

passeggiate. È l’altra mia figliola, signore, la seconda.

Senza dubbio scambiò il mio stupore per un assenso, perché si precipitò alla

porta interna, l’aprì e urlò nel vano d’una scala invisibile:

- Carlotta! Carlotta! scendi subito, fai presto, spicciati, bella!

Volli protestare, ma la donna non me lo permise:

- Vi terrà compagnia; ha un buon carattere ed è più allegra di quell’altra; è

proprio una buona figliola, una buonissima figliola, e io le voglio un gran bene.

Sentivo un ciabattio per le scale; comparve una ragazza alta, bruna, snella e

graziosa, ma anche lei spettinata. Sotto un vestito vecchio della madre

s’indovinava il suo corpo giovane e agile.

Subito la signora Rondoli le spiegò tutto:

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- È il francese di Francesca, sai, quello dell’altr’anno. Era venuto a cercarla; e

ora è solo solo, poverino. Allora gli ho detto che avresti potuto tenergli compagnia

tu.

Carlotta mi guardava coi suoi begli occhi neri, e mormorò sorridendo:

- Se lui vuole, molto volentieri.

Come avrei potuto rifiutare?

- Ma certo che voglio, - dissi.

La signora Rondoli la spinse fuori:

- Svelta, svelta, vatti a vestire, mettiti il vestito blu e il cappello a fiori, sbrigati!

Appena la figliola fu uscita, mi spiegò:

- Ce n’ho altre due, ma sono più piccole. Quanto costa tirar su quattro figli!

Per fortuna la più grande è sistemata.

Mi parlò della sua vita, del marito morto, che era ferroviere, e di tutte le

qualità della figliola Carlotta.

Costei riscese, vestita con lo stesso gusto della sorella più grande, con un

abito vistoso e strano.

Sua madre la ispezionò tutta, la trovò di suo gradimento, e ci disse:

- Adesso andate pure, figlioli.

E, rivolta alla figlia:

- Mi raccomando, non far più tardi delle dieci, stasera, ricordati che chiude il

portone.

Carlotta rispose:

- Stai tranquilla, mamma.

Mi prese a braccetto, ed eccomi in giro con lei per le strade come l’anno prima

con la sua sorella.

Tornai all’albergo per desinare, poi condussi la mia nuova amica a Santa

Margherita, rifacendo l’ultima gita che avevo fatto con Francesca.

Quella sera non tornò a casa, benché il portone chiudesse alle dieci.

Durante i quindici giorni di cui disponevo, portai in giro Carlotta per i dintorni

di Genova. Non mi fece rimpiangere quell’altra.

La mattina della mia partenza la salutai, tutta piangente, e le lasciai un

ricordino per lei e quattro braccialetti per la madre.

Uno di questi giorni avrei in animo di tornare in Italia, e penso con una tal

quale inquietudine, mista a speranza, che la signora Rondoli ha altre due figliole.

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IL DELITTO DI COMPARE BONIFACE

Uscendo dall’ufficio postale, compare Boniface notò che quel giorno il suo giro

sarebbe stato meno lungo del solito, e se ne rallegrò vivamente. Gli toccavano le

terre tutt’intorno al paesino di Vireville, e a sera, quando se ne tornava con passo

lento e stanco, aveva percorso, a volte, forse più di una quarantina di chilometri.

Oggi avrebbe fatto la distribuzione alla svelta, si sarebbe anche potuto

attardare un po’ per la strada e rincasare verso le tre del pomeriggio. Che

bellezza!

Uscì dal paese prendendo la strada di Sennemare e incominciò il lavoro. Era

giugno, il mese verde e fiorito, il mese dei campi.

Il postino indossava la casacca turchina, e in capo aveva il berretto nero coi

galloni rossi. Percorreva gli stretti sentieri fra i campi di colza, di avena o di

grano, affogato nelle messi fino alle spalle, con la testa che emergeva dalle spighe

come se galleggiasse su un mare calmo e verdeggiante, mosso appena da una

brezza leggera.

Entrava nei casolari varcando lo steccato di legno piantato su un fossatello

all’ombra di una doppia fila di faggi; e chiamando per nome il contadino: -

Buondì, padron Chicot, - gli porgeva il giornale Le petit Normand. Il contadino si

puliva la mano sul fondo dei pantaloni, prendeva la gazzetta e la riponeva in tasca

per leggerla in pace dopo mangiato. Il cane, che aveva la cuccia in una botte ai

piedi di un melo storto, guaiva freneticamente, scrollando la catena, e il postino

se ne andava, senza voltarsi, a passo di marcia, allungando le già lunghe gambe,

reggendo la borsa con la mano sinistra, e con la destra giostrando un bastone che

camminava come lui, svelto ed alacre.

Distribuì stampati e lettere nei casolari di Sennemare, poi tagliò attraverso i

campi per consegnare la posta all’esattore che abitava in una casetta isolata a un

chilometro dal borgo.

Era l’esattore nuovo, il signor Chapatis, arrivato la settimana prima e sposato

da poco.

Riceveva un giornale di Parigi e qualche volta il postino, se aveva tempo, gli

dava una scorsa, prima di consegnarlo.

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Quel giorno aprì la borsa e ne trasse il giornale, lo sfilò dalla fascetta, lo aprì e

si mise a leggerlo camminando. La prima pagina l’interessava poco; era

indifferente alla politica, e saltava sempre le notizie finanziarie; però i fatti di

cronaca lo appassionavano.

Quel giorno ce n’erano parecchi. Il racconto di un delitto commesso

nell’abitazione d’un guardacaccia, lo scosse tanto che dovette fermarsi in mezzo a

un prato di trifoglio per rileggerlo più adagio. I particolari erano orribili. Un

boscaiolo, che passava tutte le mattine davanti alla casa del guardacaccia, aveva

visto la soglia macchiata di sangue, come se qualcuno avesse buttato sangue dal

naso. «Stanotte il guardiano avrà ammazzato un coniglio», pensò, ma avvicinatosi

s’accorse che la porta era socchiusa e la serratura divelta.

Allora si spaventò e corse al paese ad avvertire il sindaco, il quale prese di

rinforzo la guardia campestre e il maestro, e tutti e quattro tornarono sul posto.

Trovarono il guardacaccia sgozzato davanti al camino, la moglie strangolata sul

letto e la figlioletta di sei anni soffocata tra le materasse.

Il postino fu così colpito dal racconto, che i particolari dell’assassinio gli

apparivano uno dopo l’altro, e si sentiva piegar le gambe.

Esclamò ad alta voce:

- Porca miseria! Quante mai canaglie ci sono a questo mondo!

Mise il giornale a posto e riprese il cammino con l’immagine del delitto che gli

rigirava per il capo. In breve raggiunse l’abitazione del signor Chapatis, spinse il

cancelletto del giardino e s’avvicinò alla casa. Era una costruzione piccola e

bassa, a un solo piano, e col tetto a punta. Distava almeno cinquecento metri

dalla casa più vicina.

Il postino salì i due gradini dell’ingresso, impugnò la maniglia per aprire

l’uscio, e si accorse che questo era chiuso a chiave. Vide anche che le persiane

non erano state aperte e che non era ancora uscito nessuno.

Non si sentì più tranquillo, perché il signor Chapatis, da quando abitava lì, si

alzava abbastanza presto. Guardò l’orologio. Erano appena le sette e dieci; era

dunque in anticipo di circa un’ora. Non voleva dire, però, perché l’esattore

avrebbe dovuto essere già alzato.

Fece il giro della casa camminando con cautela, come se ci fosse pericolo. Non

notò nulla di sospetto, soltanto alcune impronte di passi in un’aiola di fragole.

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Ma, mentre stava passando di fronte a una finestra, si fermò all’improvviso,

angosciato. Qualcuno gemeva, nella casa.

S’avvicinò, scavalcando una siepetta di timo; mise l’orecchio contro la

persiana per sentir meglio; non c’era più dubbio; qualcuno gemeva. Sentiva

chiaramente un lungo sospiro doloroso, una specie di rantolo, un rumore di lotta,

poi i gemiti diventarono più intensi e più frequenti, salirono di tono

trasformandosi in grida.

Boniface ebbe la certezza che in quell’attimo si stesse compiendo un delitto in

casa dell’esattore, e se la diede a gambe attraverso il giardinetto, e poi nei campi,

tra le messi, correndo a perdifiato, con la borsa che gli batteva sulle reni; finché

spossato, ansimante, sbigottito, arrivò alla porta della gendarmeria.

Il brigadiere Malatour, con chiodi e martello, stava aggiustando una seggiola

rotta. Il gendarme Rautier s’era messo la seggiola tra le ginocchia e teneva un

chiodo sul pezzo rotto: il brigadiere si mordeva i baffi, sbarrava gli occhi, nello

sforzo, e col martello batteva un colpo dopo l’altro sulle dita del suo subordinato.

Appena li vide il postino esclamò:

- Correte, stanno ammazzando l’esattore: presto, presto!

I due uomini interruppero il lavoro, e sollevarono il capo, mostrando il volto

stupito di chi è sorpreso e disturbato.

Boniface, vedendoli più stupefatti che premurosi, ripeté:

- Presto, presto... Gli assassini sono dentro la casa, ho sentito gli urli...

Arriveremo appena in tempo...

Il brigadiere posò il martello a terra, e domandò:

- Chi vi ha dato questa notizia?

Il postino rispose:

- Andavo a portare il giornale e due lettere e mi sono accorto che l’uscio era

chiuso, e l’esattore non s’era alzato. Ho girato attorno alla casa per vedere un po’

cosa stava succedendo, e ho sentito dei gemiti, come se stessero strozzando

qualcuno o gli stessero tagliando la gola. Allora me la sono svignata più svelto che

ho potuto per venire a chiamarvi. Arriveremo appena in tempo.

Il brigadiere si alzò e disse:

- E voi non siete andato a portare aiuto?

Il postino rispose, intimorito:

- Avevo paura di non bastare.

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Convinto, il brigadiere disse:

- Il tempo di vestirmi e sono con voi.

Entrò nella gendarmeria seguito dal milite che portava la seggiola.

Uscirono quasi subito, e tutti e tre, con passo ginnastico, si misero in marcia

verso il luogo del delitto.

Giunti in prossimità della casa rallentarono l’andatura, il brigadiere tirò fuori

la pistola; e pian piano s’introdussero nel giardino, arrivando fino alla casa.

Nessuna nuova traccia mostrava se i malfattori se ne fossero andati. L’uscio era

tuttora chiuso, e anche le finestre.

- Sono in mano nostra, - disse il brigadiere.

Compare Boniface, tremante di commozione, li condusse dalla parte opposta,

e indicando un persiana disse.

- Lì.

Il brigadiere avanzò da solo, e appoggiò l’orecchio contro le stecche. Gli altri

due, con gli occhi fissi su di lui, aspettavano, pronti a tutto.

Rimase a lungo in ascolto, immobile. Per poter avvicinare di più il capo alla

persiana s’era tolto il tricorno, e lo teneva nella destra.

Che cosa udiva? Il suo viso impassibile non rivelava nulla ma ad un tratto i

baffi gli si sollevarono, le sue guance si atteggiarono a una silenziosa risata, e

scavalcando la siepina di timo tornò verso i due uomini che lo guardavano

sbalorditi.

Camminava in punta di piedi, e fece cenno che lo seguissero; arrivato

all’ingresso ingiunse a Boniface d’infilare sotto la porta il giornale e le lettere.

Il postino, benché sbalordito, obbedì docilmente.

- E ora, avanti! - disse il brigadiere.

Ma appena ebbero oltrepassato il cancello si girò verso il postino con aria

beffarda e con sguardo canzonatore, e ammiccando allegro gli disse:

- Siete un bel furbacchione, voi!

Il vecchio chiese:

- Perché? Ho sentito, vi giuro che ho sentito.

Il gendarme non ce la faceva più, e scoppiò a ridere. Rideva fino a farsi

mancare il respiro, reggendosi la pancia, piegato in due, con gli occhi pieni di

lacrime e buffe contrazioni nel viso. Gli altri due lo guardavano sbigottiti.

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E siccome non era in grado né di parlare, né di smettere di ridere, né di far

capire che cosa l’avesse preso, fece una mossa volgare e licenziosa.

Quelli continuavano a non capire, e dovette ripetere il gesto parecchie volte,

accennando col capo alla casa tuttora chiusa.

Tutt’a un tratto il soldato capì e scoppiò in una risata formidabile.

Finalmente il brigadiere si calmò e diede una gran manata scherzosa sulla

pancia del vecchio, esclamando:

- Ah, burlone che non siete altro! Me lo ricorderò il delitto di compare

Boniface!...

Il postino spalancava sempre più gli occhi, e ripeté:

- Vi giuro che ho sentito!

Il brigadiere ricominciò a ridere. Il milite s’era seduto sulla proda del fosso, per

sfogare con comodo la sua ilarità.

- Hai sentito, hai sentito? E tu, tua moglie l’ammazzi a quel modo, eh?...

burlone che non sei altro!

- Mia moglie? - disse compare Boniface.

Rimase pensieroso, poi soggiunse:

- Mia moglie?... Sì, quando gliele suono, strilla; ma strilla, che vuol dire

strillare... Il signor Chapatis sta forse picchiando sua moglie?

Il brigadiere, colto da un accesso di allegria frenetica, lo prese per le spalle

facendolo piroettare come un burattino e gli sussurrò nell’orecchio qualcosa che

lo fece restare di stucco.

Il vecchio, pensieroso, brontolò:

- No... non a quel modo... non a quel modo... a quel modo... la mia non apre

mai bocca... Non me lo sarei mai immaginato... pare impossibile... avrei giurato

che la stessero torturando...

E confuso, smarrito, vergognoso, riprese il cammino tra i campi, mentre il

milite e il brigadiere seguitavano a ridere, e di lontano gli gridavano grasse

parolacce da caserma, seguendo con lo sguardo il berretto nero che s’allontanava

sul tranquillo mare delle messi.

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IL RITORNO

Il mare schiaffeggia la costa con le sue onde brevi e monotone. Bianche

nuvolette svolazzano rapide nel vasto cielo azzurro, portate dal vento, come

uccelli; il paese, nel fondo della valletta che va verso il mare, si sta scaldando al

sole.

Proprio al principio, isolata, c’è la casa dei Martin-Lévesque, sull’orlo della

strada. È una casupola di pescatori, coi muri d’argilla, il tetto di paglia

impennacchiato di giaggioli turchini. Un orticello quadrato grande come un

fazzoletto, nel quale crescono cipolle, cavoli, prezzemolo e sedano, si stende

davanti all’uscio, contornato da una siepe dalla parte della strada.

L’uomo è alla pesca; la donna, davanti alla casupola, sta aggiustando le

maglie d’una gran rete bruna, tesa sul muro come un’immensa ragnatela. Una

ragazzetta di quattordici anni, seduta su una seggiola impagliata poggiata

all’indietro sul cancellino dell’orto, rammenda la biancheria, biancheria da povera

gente, lisa e rattoppata. Un altro ragazzo, più giovane di lei d’un anno, culla tra le

braccia un bambinello che ancora non si muove né parla; e due altri bambini, di

due e tre anni ciascuno, stanno seduti impiastricciando con la terra e tirandosela

sul viso.

Nessuno parla. Il lattante che il ragazzo cerca d’addormentare piange senza

interruzione, con una vocina stridente. Un gatto dorme sul davanzale della

finestra; ai piedi del muro delle violacciocche fiorite formano un bel cuscinetto di

fiori bianchi attorniati di mosche ronzanti.

A un tratto la fanciulletta che sta cucendo vicino al cancello chiama:

- Mamma!

La madre risponde:

- Che c’è?

- È tornato...

Sono preoccupate, da quella mattina presto, perché c’è un uomo che gironzola

intorno alla casa; un uomo anziano, che sembra un mendicante. Lo hanno visto

mentre andavano ad accompagnare il padre alla barca: stava seduto nel fosso,

davanti al loro uscio. E, quando sono tornate dalla spiaggia, era sempre lì, a

guardar la casa.

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Pareva malaticcio e poverissimo. Per più d’un’ora era rimasto immobile; poi,

accortosi che le donne lo guardavano come se fosse un ladro, s’era allontanato

strascicando una gamba.

Ma dopo un po’ l’avevano visto tornare, con quella sua andatura lenta e

stanca; e s’era rimesso a sedere, stavolta un po’ più lontano, come per spiarle.

La madre e le ragazzine avevano paura; la madre soprattutto era inquieta; già

era timorosa di natura, e poi il suo uomo, Lévesque, sarebbe tornato dalla pesca

solamente a notte.

Suo marito si chiamava Lévesque; lei Martin, e allora li chiamavano

Martin-Lévesque, per questo motivo; lei aveva sposato in prime nozze un

marinario di nome Martin, che andava tutte le estati a Terranova a pescare le

aringhe; dopo due anni di matrimonio aveva una bambina ed era incinta di sei

mesi, quando il veliero di suo marito, le Due sorelle, un tre alberi di Dieppe, sparì.

Non se ne ebbero più notizie; nessuno dei marinai che vi erano imbarcati

tornò: fu dato per perso, equipaggio e carico.

La Martin aspettò per dieci anni, allevando faticosamente i due figli; poi,

siccome era una brava donna, fu chiesta in sposa da un pescatore del paese,

Lévesque, vedovo con un figlio. Si sposarono e in tre anni lei ebbe altri due figlioli.

Tiravano avanti laboriosamente e faticosamente. Nella loro casa il pane era

tenuto di conto, e la carne non si vedeva quasi mai. A volte, d’inverno, durante il

maltempo, pigliavano a debito dal fornaio. Ciononostante i bambini stavano bene.

La gente diceva:

- Sono brave persone i Martin-Lévesque. La Martin è una lavoratora e un altro

pescatore bravo come Lévesque non c’è.

La ragazzina seduta al cancelletto disse:

- Sembra che ci conosca. Forse è un povero di Épreville o di Auzebosc.

Ma la madre non poteva sbagliarsi: no, no, non era uno della zona,

certamente!

Ora, siccome quello non si muoveva affatto e seguitava a fissare con

ostinazione la casa, la Martin s’arrabbiò, e, fatta audace dalla paura, prese una

pala e uscì sulla strada:

- Che fate costì? - gridò al vagabondo.

- Piglio il fresco, - rispose lui con voce roca. - Vi do noia?

La donna disse:

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- Perché state davanti a casa mia, a spiare?

L’uomo replicò:

- Non faccio male a nessuno. Non si può stare seduti per la strada?

Non sapendo che rispondere, la donna tornò a casa.

La giornata passò lentamente. Verso mezzogiorno l’uomo se ne andò. Alle

cinque si rifece vedere, poi sparì di nuovo.

Quando tornò Lévesque, a notte fonda, gli raccontarono tutto.

- Sarà un ficcanaso, o un invidioso...

E se ne andò tranquillamente a letto, mentre la sua compagna pensava

sempre a quel vagabondo che l’aveva guardata in un modo così strano.

Il giorno dopo tirava un gran vento e il marinaio, visto che non sarebbe potuto

andare a pesca, aiutò sua moglie ad accomodare le reti.

Verso le nove la figliola più grande, una Martin, che era andata a comprare il

pane, tornò a casa di corsa, spaventata, gridando:

- Mamma, è tornato un’altra volta!...

La madre si sentì rimescolare, e, pallidissima, disse al suo uomo:

- Vagli a dir qualcosa te, Lévesque, che se ne vada, che la smetta di spiarci a

questo modo, perché mi sento tutta agitata.

Lévesque, un pescatore alto, dal viso color mattone, la barba rossa e folta, gli

occhi azzurri bucati da un puntino nero, il collo robusto sempre coperto di lana

per ripararsi dal vento e dalla pioggia in alto mare, uscì tranquillamente e

s’accostò al vagabondo.

Cominciarono a parlare.

La madre e i figli li guardavano di lontano, ansiosi, palpitanti.

Ad un tratto lo sconosciuto s’alzò e insieme a Lévesque si diresse verso la

casa.

La Martin, spaventata, indietreggiava. Suo marito le disse:

- Dagli un pezzetto di pane e un bicchiere di sidro; è digiuno da ierlaltro.

Entrarono in casa tutti e due, seguiti dalla madre e dai figli. Il vagabondo si

mise a sedere e cominciò a mangiare a capo chino, sotto gli sguardi di tutti.

La madre, in piedi, lo scrutava; le due figliole più grandi - una portava il

piccino - stavano addossate all’uscio fissandolo avidamente, e i due bambini,

seduti in mezzo alla cenere del camino, non giocavano più col paiolo affumicato,

per guardare anche loro l’estraneo.

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Lévesque si sedette, e gli chiese:

- Venite di lontano?

- Da Cette.

- A piedi?

- Sì, a piedi; quando uno non ha soldi...

- E dove state andando?

- Qui.

- Conoscete qualcuno?

- Certo

Tacquero. Benché avesse fame, l’estraneo mangiava lentamente e dopo ogni

boccone di pane beveva un sorso di sidro. Aveva un viso macilento, pieno di

grinze, scavato, e l’aspetto di chi ha molto sofferto.

Lévesque chiese, ad un tratto:

- Come vi chiamate?

L’uomo rispose, senza nemmeno levar gli occhi:

- Mi chiamo Martin.

La madre si sentì scorrere per le ossa uno strano brivido. Fece un passo

avanti, come per guardare il vagabondo più da vicino e restò impalata di fronte a

lui, con la bocca aperta e le braccia penzoloni. Stavano tutti zitti. Finalmente

Lévesque disse:

- Siete di queste parti?

Rispose:

- Son di qui.

Alzò il capo, il suo sguardo s’incontrò con quello della donna, e restarono

inchiodati, fissi, come se si fossero fusi in uno.

Ad un tratto lei disse, con voce mutata, bassa e tremante:

- Sei te, marito mio?

Lui rispose lentamente:

- Sì, sono io.

Non si mosse, e seguitò a masticare.

Più sorpreso che commosso Lévesque balbettò:

- Sei proprio te, Martin?

L’altro rispose con semplicità:

- Sì, sono io.

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Il secondo marito chiese:

- E di dove vieni?

- Dalla costa dell’Africa, - rispose Martin. - Si era andati addosso a un banco,

e ci siamo salvati in tre: Picard, Vatinel, e io. E poi ci avevano preso i selvaggi che

ci hanno tenuto dodici anni. Picard e Vatinel sono morti. A me mi ha preso un

esploratore inglese, che m’ha riportato a Cette. E eccomi qui.

La Martin cominciò a piangere, col viso nascosto nel grembiule. - E ora, che si

fa? - disse Lévesque.

Martin chiese:

- Sei te il suo marito?

Lévesque rispose:

- Sì, sono io.

Si guardarono in silenzio.

Martin guardò i ragazzi che gli stavano intorno, indicò le due femmine con un

cenno del capo:

- Son le mie?

Lévesque rispose:

- Sì, sono le tue.

Non si alzò, non le baciò; disse:

- Mamma mia, come son cresciute!

- Che si fa? - ripeté Lévesque.

Martin era soprappensiero; non lo sapeva nemmeno lui. Poi si decise:

- Farò come ti pare a te; non ti voglio far torti. Certo, fa dispiacere, dato che

stai in casa. Io ho due figlioli, tu tre: ognuno si piglia i suoi. La madre è tua? è

mia? Farò come vorrai decidere; ma la casa è mia perché me l’ha lasciata mio

padre, e ci sono nato e ci sono anche le carte dal notaio.

La Martin seguitava a piangere, tra piccoli singhiozzi soffocati nella tela

turchina del grembiule. Le due figlie grandi s’erano avvicinate e guardavano

timorose il loro padre.

Questi aveva finito di mangiare. Disse:

- Allora, che si fa?

Lévesque ebbe un’idea:

- Andiamo dal parroco, deciderà lui.

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Martin s’alzò, andò verso sua moglie, e costei gli si gettò addosso,

singhiozzando:

- Marito mio, sei tornato... sei tornato, povero marito mio!...

Lo abbracciava, in preda ai ricordi del tempo passato, come una ventata di

ricordi che la riportavano ai vent’anni, ai primi abbracci.

Martin s’era commosso anche lui e le baciava la cuffia. Sentendo piangere la

loro madre anche i due bambini accanto al camino cominciarono a urlare tutti e

due insieme, e il marmocchietto, che stava tra le braccia della seconda femmina,

strillò con una vocetta acuta come un piffero stonato.

Lévesque, ritto, aspettava:

- Via, - disse; - andiamo a sistemare questa faccenda.

Martin si sciolse dall’abbraccio; guardava le sue figliole, e allora la madre

disse:

- Dategli almeno un bacio a vostro padre.

Le ragazzine s’avvicinarono tutte e due insieme, con l’occhio asciutto, stupite e

un po’ timorose. Martin le baciò sulle gote, una dopo l’altra, con un bacione

sonoro, alla rustica. Il piccino, trovandosi vicino quel viso sconosciuto, si mise a

urlare in modo tale che quasi gli venivano le convulsioni.

Poi i due uomini uscirono insieme.

Mentre passavano davanti al caffè del Commercio Lévesque chiese:

- Si piglia un gocciolino?

- Certo, certo, - assentì Martin.

Entrarono, e si misero seduti. Il locale era ancora vuoto. Lévesque gridò:

- Ohé, Chicot, due di quella buona! È tornato Martin, te lo ricordi, Martin,

quello della mia moglie, hai capito, quello delle Due sorelle, che s’era perso in

mare...

L’oste, panciuto, sanguigno, gonfio di grasso, s’avvicinò con tre bicchieri in

una mano e una boccia nell’altra, e chiese, tranquillo:

- Sicché, sei tornato, eh, Martin?

Martin rispose:

- Eccomi qui.

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302

YVETTE

I

Uscendo dal caffè Riche, Jean di Servigny disse a Léon Saval: - Possiamo

andare a piedi, se hai voglia. Fa troppo bel tempo per pigliare una carrozza.

- Per me va benissimo, - rispose l’amico.

Jean seguitò:

- Sono appena le undici, arriveremo molto prima di mezzanotte, perciò ci

conviene andare piano piano.

Una folla agitata formicolava sul boulevard, la folla delle notti estive che si

muove, beve, mormora, e scorre come un fiume, beata e soddisfatta. Ogni tanto

un caffè spandeva un gran chiarore sul marciapiede, sulla massa dei bevitori

seduti davanti ai tavolini coperti di bottiglie e di bicchieri, che ostacolavano il

passaggio col loro assembramento. Sulla strada le carrozze con gli occhi rossi,

turchini o verdi passavano rapidamente davanti a quelle luci vive, mostrando per

un attimo il profilo magro e trotterellante del cavallo, in alto la figura del

cocchiere e lo scuro corpo della carrozza. Quelle della Compagnia Urbana

formavano macchie chiare e veloci coi loro riquadri bianchi colpiti dalla luce.

I due amici camminavano a passi lenti, col sigaro in bocca, tenendo i soprabiti

sul braccio, con un fiore all’occhiello, il cappello un poco inclinato, come si porta,

talora, dopo avere mangiato bene, quando il vento è tiepido.

Fin dal collegio erano stretti da una amicizia solida, intima, affettuosa.

Jean di Servigny, piccolo, snello, un po’ calvo, gracile, elegantissimo, coi

baffetti arricciati, gli occhi chiari, le labbra sottili, era uno di quegli uomini

notturni che paiono nati e cresciuti sui boulevard, infaticabili nonostante

sembrino sempre stanchi, robusti, nonostante sian pallidi: uno di quei parigini

sottili ai quali la palestra, la scherma, le docce, i bagni turchi hanno dato una

forza nervosa e artificiale. Era famoso per i bagordi ed altrettanto per lo spirito,

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per la ricchezza, per le relazioni, per la socievolezza, l’amabilità, la galanteria

mondana che certi uomini possiedono in misura speciale.

Vero parigino in tutto, leggero, scettico, mutevole, attraente, energico e

irresoluto, capace di tutto e di nulla, egoista per principio e generoso a impulsi,

consumava con moderazione le sue rendite, si divertiva con igiene. Indifferente ed

appassionato, si abbandonava e si riprendeva continuamente, combattuto da

istinti contrari, a tutti cedendo, per obbedire, alla fin fine, alla sua ragione di

gaudente esperto dotato di una logica da girellino consistente nel seguire il vento,

nel trar profitto dalle circostanze senza affaticarsi a provocarle.

Il suo compagno, Léon Saval, anche lui ricco, era uno di quei magnifici giganti

che fanno voltare le donne per la strada. Pareva un monumento fatto uomo,

modello d’una razza, come quelli che si vedono nelle esposizioni. Troppo bello,

troppo alto, troppo largo, troppo forte, era esagerato in tutto, per eccesso di

qualità. Aveva suscitato innumerevoli passioni.

Chiese, mentre erano davanti al teatro Vaudeville:

- Hai avvisato questa signora che mi avresti presentato a lei?

Servigny si mise a ridere:

- Avvisare la marchesa Obardi? Forse tu avverti il conducente dell’omnibus

che salirai sulla sua carrozza all’angolo del boulevard?

Un po’ pensieroso, Saval chiese:

- Chi è di preciso questa donna?

- Una nuova ricca, - rispose il suo amico, - una puttana deliziosa, venuta fuori

chissà da dove, spuntata fuori un bel giorno, non si sa come, nel mondo degli

avventurieri, un tipo capace di far la sua figura. E poi, che ce ne importa?... Pare

che il suo vero nome, da ragazza - perché è rimasta signorina a tutti gli effetti

fuorché nell’innocenza - sia Octavie Bardin, da cui è stato fatto Obardi,

conservando la prima lettera del nome e togliendo l’ultima del cognome.

«È una donna piacevole, della quale tu, inevitabilmente, diventerai l’amante,

per via del tuo fisico. Non si può presentare Ercole a Messalina, senza che

succeda qualcosa. E poi aggiungo che, se in quella casa l’ingresso è libero, come

lo è nei caffè, non si è obbligati assolutamente a comprare quel che vi si vende. Ci

trovi amore e carte da gioco, ma nessuno ti obbliga né a queste né a quello.

Anche l’uscita è libera.

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«Tre anni fa la marchesa pose piede nel quartiere dell’Étoile, - un quartiere

sospetto, - ed aprì i suoi salotti a tutta quella schiuma dei continenti che viene a

Parigi a esercitare le sue varie capacità sinistre e criminali.

«Cominciai a frequentarla. Come? Non me lo ricordo più. Ci andai come tutti

gli altri, perché lì si gioca, ci sono donne facili e uomini disonesti. Mi piace questo

mondo di filibustieri variamente decorati, tutti forestieri, tutti nobili, tutti titolati,

e tutti sconosciuti alle loro ambasciate, fuorché le spie. Tutti parlano di onore a

proposito delle scarpe, per un nonnulla citano i loro antenati, ogni pretesto è

buono perché raccontino la propria vita: spacconi, bugiardi, furbacchioni,

pericolosi come le loro carte, ingannatori come i loro nomi, coraggiosi perché è

necessario, come i briganti che possono depredare la gente solamente a rischio

della propria vita. Insomma, questa è l’aristocrazia della galera.

«Mi piacciono moltissimo. È interessante conoscerli e penetrarli, divertente

ascoltarli perché spesso sono spiritosi e mai ordinari come i funzionari francesi.

Le loro mogli sono sempre graziose, con un non so che di furberia straniera, col

mistero della loro vita trascorsa, trascorsa forse, per metà, in una casa di

correzione. Generalmente hanno occhi bellissimi, capelli straordinari, insomma il

fisico adatto: grazia inebriante, seduzione che trascina alla follia, un fascino

malsano ed irresistibile. Costoro sono conquistatrici come lo erano un tempo i

soldati di ventura, rapaci, vere femmine di uccelli da preda. Anche loro mi

piacciono molto.

«La marchesa Obardi è il vero tipo di queste sgualdrine eleganti. Matura, e pur

sempre bella, attraente e felina, si sente che è viziosa fino alle midolla. C’è

parecchio da divertirsi in casa sua: si balla, si mangia... insomma si fa tutto quel

che forma i piaceri della vita mondana».

Léon Saval chiese:

- Sei stato, o sei, il suo amante?

Servigny rispose:

- Non lo sono stato, non lo sono, né lo sarò. Io, in quella casa, ci vado

principalmente per la figliola.

- Ah!... Ha una figliola?

- Altro che! Una meraviglia, caro mio! Oggi è la principale attrazione di quella

caverna: alta, splendida, perfettamente matura, - diciotto anni, - bionda per

quanto la madre è bruna, sempre allegra, sempre pronta alle feste, non fa altro

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che ridere a gola spiegata e ballare. Chi se la piglierà? o chi l’ha già presa? Non si

sa. Siamo in dieci che aspettiamo, che speriamo.

«Una ragazza simile, nelle mani d’una donna come la marchesa, è una

fortuna. E fanno gioco stretto, fra tutte e due. Non si riesce a capirci nulla. Forse

stanno aspettando un’occasione... migliore... di me... Ma t’assicuro che saprò

coglierla... l’occasione, se si presenta.

«D’altra parte la ragazza, Yvette, mi scombussola. È un mistero. O è il più

perfetto mostro di astuzia e di perversità che io mai abbia incontrato, o è il più

meraviglioso fenomeno d’innocenza che si possa trovare. Vive in quell’ambiente

infame con una facilità tranquilla e trionfante, o straordinariamente scellerata o

ingenua.

«Splendido rampollo di avventuriera, spuntata sul letame di quel mondo come

una magnifica pianta nutritasi di putridume, oppure figliola di qualche persona

di gran razza, grande artista o gran signore, principe o re, andato a finire una

qualche sera nel letto della madre: non si riesce a capire né chi sia, né che cosa

pensi. Ma ora la vedrai».

Saval si mise a ridere, e disse:

- Ne sei innamorato.

- No. Sono tra i pretendenti, e non è la stessa cosa. Ti presenterò i miei

copretendenti più seri; però io ho probabilità maggiori, ho qualche vantaggio;

hanno, direi, un occhio di riguardo per me.

- Sei innamorato, - ripeté Saval.

- No. Questa ragazza mi turba, mi seduce, m’inquieta, mi attira e mi spaventa.

Diffido di lei come d’una trappola, e ho voglia di lei, come del gelato quando si ha

sete. Subisco il suo fascino, e mi avvicino a lei con l’apprensione che si

dimostrerebbe verso un uomo sospettato di essere un esperto ladro. Quando le

sto accanto sono irragionevolmente attratto dal suo possibile candore e diffido

ragionevolmente della sua non meno probabile furberia. Sento di essere a

contatto d’un essere anormale, fuori delle regole naturali, squisito o ripugnante,

non lo so.

Saval disse per la terza volta:

- Ti ripeto che sei innamorato. Parli di lei con l’enfasi d’un poeta, con un

lirismo da trovatore. Via, torna in te, guardati nel cuore e confessa.

Servigny fece qualche passo senza rispondere; poi riprese:

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- Può darsi. Ma, comunque stiano le cose, mi preoccupa molto. Sì, forse sono

innamorato. Penso troppo a lei. Ci penso quando mi addormento e quando mi

sveglio... e questo è grave. La sua immagine mi segue, mi perseguita, mi

accompagna continuamente, l’ho sempre davanti agli occhi, intorno, dentro di

me. È amore, una simile ossessione fisica? Il suo viso è penetrato tanto

profondamente nel mio sguardo che mi basta di chiuder gli occhi per vederla.

Tutte le volte che la vedo mi viene il batticuore, lo confesso. Perciò le voglio bene,

ma in una strana maniera. La desidero violentemente; eppure l’idea di farne mia

moglie mi parrebbe una follia, una stupideria, una mostruosità. Inoltre mi fa un

po’ paura, come l’uccello che vede su di sé scendere lo sparviero. E poi son geloso

di lei, geloso di tutto quel che ignoro di quell’incomprensibile cuore. Mi chiedo

sempre: «È una incantevole monella, oppure una donna perversa?». Dice cose che

farebbero venire i brividi ad un esercito; ma anche i pappagalli lo fanno. Talvolta

è impudente o impudica al punto di farmi credere al suo immacolato candore,

talvolta ingenua, d’una inverosimile ingenuità, tanto che penso che mai ella sia

stata casta. Mi provoca, mi eccita come una cortigiana e nello stesso tempo è

riservata come una vergine. Pare che mi voglia bene, e mi piglia in giro; si

comporta pubblicamente come se fosse la mia amante, e nell’intimità come se io

fossi il suo fratello o il suo servo.

«A volte m’immagino che abbia tanti amanti quanti ne ha sua madre. A volte,

invece, che ella non sappia nulla della vita; proprio nulla, capisci?

«È un’arrabbiata lettrice di romanzi. Aspettando il meglio sono per intanto il

suo fornitore di libri. Lei mi chiama il suo “bibliotecario”.

«Tutte le settimane la Nuova Libreria le manda, da parte mia, tutto quello che

è uscito, e credo che lei legga tutto, alla rinfusa.

«Ci dev’essere, nella sua testa, una curiosa insalata russa.

«Forse tutto questo pastone di letture entra in qualche modo nel singolare

comportamento di questa ragazza. Deve apparire sotto una strana luce il mondo,

visto attraverso quindicimila romanzi, e ci si devono fare idee assai bislacche

sulle cose.

«Io, per conto mio, sto aspettando. Certo è che mai ho avuto per nessuna

donna l’inclinazione che ho per questa. Ed è altrettanto certo che non la sposerò.

«Perciò, se ha già avuto degli amanti, aumenterò il conto, e se non ne ha avuti,

prenderò il numero uno, come sul tram.

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«Mi pare che sia un caso semplice. Certamente non si sposerà. Chi sposerà la

figliola della marchesa Obardi, di Octavie Bardin? Nessuno, per un migliaio di

motivi.

«Dove potrebbe trovare marito? In società mai. La casa di sua madre è una

casa pubblica, in cui la figlia attira la clientela. Non si sposa nessuno in simili

condizioni.

«Nella borghesia? Meno che meno. E poi la marchesa non è donna da fare un

cattivo affare: darà definitivamente Yvette soltanto ad un uomo di gran posizione,

cosa impossibile.

«Dunque, nel popolo? Peggio che mai... Non c’è via di scampo. Quella ragazza

non è né del mondo, né della borghesia, né del popolo; non può entrare,

attraverso una unione, in nessuna di queste classi della società.

«Da parte di madre, per nascita, educazione, eredità, maniere, abitudini, ella

appartiene alla prostituzione dorata. Non potrà sfuggire ad essa, a meno che non

si faccia suora, cosa improbabile, visti i suoi modi e i suoi gusti. Perciò ha una

sola professione possibile: l’amore. La farà a meno che già non la faccia. Non

potrà evitare il suo destino. Da putta diventerà puttana, semplicemente. Ed io

vorrei essere il perno di questa trasformazione.

«Sto aspettando. I clienti son parecchi. Incontrerai un francese, di Belvigne,

un russo chiamato il principe Kravalov e un italiano, il cavaliere Valreali, i quali

hanno posto decisamente la loro candidatura, e stanno manovrando di

conseguenza. Ci sono poi, sempre intorno a lei, parecchi furfantelli di poca

importanza.

«La marchesa sta spiando. Ma credo che mi abbia messo gli occhi addosso. Sa

che sono assai ricco e più sicuro degli altri.

«Il suo salotto è il più straordinario che io conosca di questo genere. Ci si

possono trovare anche persone assai per bene, come noi, per esempio, che non

siamo i soli. Per quel che riguarda le donne, la marchesa ha trovato, o meglio ha

scelto, quanto c’è di meglio nel vizio delle vuotaborse. Da dove le abbia tirate fuori

non si sa. È un mondo diverso da quello delle vere prostitute, diverso dalla

bohème, diverso da tutti. Lei, del resto, ha avuto un’ispirazione geniale,

scegliendo principalmente le avventuriere con figli, figlie per lo più. In questo

modo uno stupido potrebbe credere di trovarsi in mezzo a donne oneste!...».

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Erano arrivati al viale dei Champs-Elysées. Un venticello leggero passava

attraverso le foglie, morbidamente, scivolava ad intervalli sui volti, come i dolci

soffi d’un gigantesco ventaglio dondolato in qualche posto, nel cielo. Ombre

silenziose erravano sotto gli alberi, altre sulle panchine formavano una macchia

scura. E quelle ombre parlavano sottovoce, come se si stessero confidando

importanti o vergognosi segreti.

Servigny riprese

- Non riesci ad immaginarti la collezione di fantastici titoli che s’incontra in

quel covo.

«Anzi, ti avverto che ti presenterò come il conte Saval, perché Saval soltanto è

troppo poco, saresti mal considerato.»

- Ah, questo poi no! - esclamò l’amico. - Non voglio che si pensi, nemmeno per

una serata, neanche da parte di quella gente, che io abbia voluto ridicolmente

appiccicarmi un titolo... Ah, proprio no!...

Servigny si mise a ridere:

- Sei uno stupido. A me, lì in mezzo, mi hanno battezzato il duca di Servigny,

non so né come mai né perché. Sono e rimango il duca di Servigny senza

protestare o lamentarmi. Non me ne importa. Se non fosse così, mi

disprezzerebbero tremendamente.

Saval non si faceva convincere.

- Tu sei nobile davvero, dunque poco male. Ma io no, resterò l’unico borghese

del salotto. Tanto peggio e tanto meglio. Sarà il mio segno distintivo, e della mia

superiorità.

Servigny insistette:

- Ti assicuro che non è possibile, non è possibile, capisci? Parrebbe quasi una

cosa mostruosa. Faresti la figura d’uno straccione in mezzo a una riunione

d’imperatori. Lascia fare a me; ti presenterò come il viceré dell’alto Mississippi, e

nessuno si stupirà. Quando si fa i grandi non lo si è mai abbastanza.

- Ti ripeto che non voglio.

- E va bene... Sono davvero uno stupido a volerti convincere. Comunque, ti

diffido ad entrare là dentro senza decorarti d’un titolo qualunque, come quando

danno dei mazzolini di violette, alle signore, prima d’entrare in certe botteghe.

Voltarono a destra, nella via di Berri, salirono al primo piano d’un bello stabile

moderno, e lasciarono nelle mani di quattro servitori con le brache corte i loro

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soprabiti ed i bastoni. Un caldo odore di festa, di fiori, di profumi, di donne

appesantiva l’aria; e un gran mormorio confuso e continuo veniva dalle vicine

stanze, che si sentivano essere piene di gente.

Una specie di maestro di cerimonie, alto, dritto, panciuto, serio, col volto

incorniciato di bianchi favoriti, s’avvicinò al nuovo venuto, chiedendo, dopo un

breve ed altero saluto:

- Chi debbo annunciare?

Servigny rispose:

- Il signor Saval.

Allora quello, con voce sonora, spalancando la porta, gridò alla folla degli

invitati:

- Il signor duca di Servigny... Il signor barone Saval...

Il primo salotto era pieno di donne. La prima cosa che si vedeva era una

mostra di seni nudi sopra un fiotto di stoffe sgargianti.

La padrona di casa, che stava chiacchierando, in piedi, con tre amiche, si

voltò e con passo maestoso non privo di grazia s’incamminò sorridendo.

La sua fronte stretta, molto bassa, era coperta da una massa di capelli d’un

nero lucente, folti come vello, che le coprivano un poco le tempie.

Era alta, un po’ troppo massiccia, un po’ troppo grassa, un po’ matura, ma

molto bella, d’una bellezza pesante, calda, possente. Sotto quel casco di capelli

che faceva sognare, sorridere, che la rendeva misteriosamente desiderabile, si

spalancavano due occhi enormi, anch’essi neri. Il naso era sottile, la bocca

grande, molto attraente, fatta per parlare e per conquistare.

Ma la sua più forte attrattiva era la voce. Usciva dalla bocca come l’acqua

dalla sorgente, naturale, leggera, pura e nitida, sì che il sentirla provocava un

godimento fisico. Era una gioia per l’orecchio udire le snelle parole che uscivano

di lì con la stessa grazia d’un ruscello, era una gioia per lo sguardo vedersi aprire,

per farle passare, quelle belle labbra forse un po’ troppo rosse.

Tese la mano a Servigny, il quale la baciò, e lasciando cadere il ventaglio

trattenuto da una catenina d’oro filigranato, porse l’altra a Saval, dicendogli:

- Siate il benvenuto, barone, tutti gli amici del duca sono a casa loro, qui.

E fissò il suo sguardo brillante sul colosso. Sul labbro superiore aveva una

leggera peluria nera, appena un’ombra di baffi che appariva più scura mentre

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parlava. Mandava un buon odore, un odore forte ed inebriante, un profumo

dell’America o delle Indie.

Entravano altre persone: marchesi, conti, principi. Con grazia materna, la

donna disse a Servigny:

- Troverete la mia figliola nell’altro salotto. Divertitevi, signori miei, la casa è

vostra.

Li lasciò per andare incontro ai nuovi arrivati, lanciando a Saval una di quelle

occhiate sorridenti e fuggevoli con cui le donne fanno capire d’aver incontrato una

persona di loro gusto.

Servigny prese il suo amico per il braccio:

- Ti faccio da guida. Questo salotto dove ci troviamo, delle donne, è il Tempio

della Carne, fresca e stantia. Oggetti d’occasione che costano come se fossero

nuovi, ed ancor meglio, cari da prendere in affitto. A destra c’è il gioco: il Tempio

del Denaro. Lo conosci. In fondo, si balla, è il Tempio dell’Innocenza, il santuario

ed il mercato delle ragazze. Là vengono esposti, sotto ogni rapporto, i prodotti di

queste signore. Si consentirebbe perfino a unioni legittime! Là è l’avvenire, la

speranza... delle nostre notti. E son pure la parte più strana di questo museo di

malattie morali, queste ragazzette che hanno l’anima svincolata come le membra

dei figlioli dei saltimbanchi. Andiamo a vederle.

Salutava a destra e a manca con galanteria e complimenti sulle labbra,

coprendo con un vivace sguardo da amatore ogni donna scollata che conosceva.

In fondo al secondo salotto un’orchestra stava suonando un valzer; si

fermarono sulla porta per guardare. Una quindicina di coppie stavano ballando;

gli uomini seri, le donne con un sorriso inchiodato sulle labbra. Anch’esse, come

le loro madri, mostravano parecchia pelle; ed il corpetto di certune era sostenuto

soltanto da un sottile nastro che contornava il principio del braccio, sicché a volte

pareva di vedere come una macchia scura sotto le ascelle.

D’un tratto, dal fondo, si vide slanciarsi una ragazza alta che traversò la sala,

urtando i ballerini e reggendosi con la mano sinistra il lunghissimo strascico

dell’abito. Correva a passettini svelti, come fanno le donne in mezzo alla folla, e

gridò:

- Ah! ecco Muschietto! Buonasera, Muschietto!

Sul suo viso fioriva la vita, splendeva la felicità. Pareva irradiare dalla sua

carne bianca e dorata, di rossa. La massa dei suoi capelli, ritorti sul capo, capelli

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fiammeggianti, cotti nel fuoco, le pesava sulla fronte, gravando sul collo flessibile,

ancora sottile.

Come sua madre era fatta per parlare, così ella appariva fatta per muoversi,

tanto i suoi gesti eran naturali, nobili, semplici. Quasi pareva di provare una gioia

morale ed un benessere fisico nel vederla camminare, muoversi, chinare il capo,

alzare le braccia.

Ripeteva:

- Ah! Muschietto, buonasera, Muschietto...

Servigny le strinse la mano con energia, come a un uomo, e fece le

presentazioni:

- Signorina Yvette, il mio amico, il barone Saval.

Ella salutò il nuovo arrivato, lo guardò:

- Buonasera, signore. Siete così alto tutti i giorni?

Servigny rispose, con quel tono scherzoso che sempre usava con lei per

nascondere le sue diffidenze e le sue incertezze:

- No, signorina. Ha assunto queste eccezionali dimensioni per piacere a vostra

madre, che apprezza molto le masse.

Con comica serietà la ragazza disse:

- Benissimo, allora! Ma quando verrete con me, dovrete diminuire un poco,

per piacere: mi piacciono le dimensioni medie. Ecco, Muschietto ha le proporzioni

che preferisco.

E nel dir questo tese la sua manina aperta a Saval.

Subito dopo chiese:

- Volete ballare, Muschietto? via, un giro di valzer.

Senza rispondere Servigny si slanciò, le strinse la vita con rapido movimento,

ed ambedue scomparvero con la furia d’un turbine.

Sembravano instancabili. A poco a poco gli altri ballerini si fermavano, ed essi

rimasero soli, volteggiando senza fine. Pareva che si fossero dimenticati

dov’erano, quel che facevano; pareva che fossero molto lontani dal ballo, sperduti

in un’estasi. I suonatori dell’orchestra non smettevano, con gli occhi fissi sulla

coppia forsennata; tutti li stavano a guardare, e quando, finalmente, si

fermarono, batterono le mani.

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Yvette era un po’ arrossita, e aveva degli strani occhi, ardenti e timidi, meno

arditi del solito, turbati anzi, turchini e con la pupilla così nera che non parevano

naturali.

Servigny sembrava ubriaco. Si appoggiò alla porta per riprendere l’equilibrio.

Yvette gli disse:

- Mio povero Muschietto, son più forte di voi...

Lui sorrideva nervosamente, se la mangiava cogli occhi, lasciando trasparire

nello sguardo e agli angoli della bocca brame bestiali.

Lei gli stava davanti, lasciando completamente scoperto, alla vista del giovane,

il seno agitato dall’affanno.

- A volte, - seguitò ella, - sembrate un gatto che sta per saltare addosso alla

gente. Via, datemi il braccio, e andiamo a ritrovare il vostro amico.

Senza dire una parola, lui le offrì il braccio e insieme attraversarono il salone.

Saval non era solo. La marchesa Obardi era con lui, e gli parlava di cose

mondane, di sciocchezze, con quella sua voce incantatrice che inebriava.

Guardandolo in fondo agli occhi sembrava che gli dicesse altre parole di quelle

che stava pronunciando con la bocca. Appena vide Servigny il suo viso si fece

sorridente, e, voltandosi verso di lui:

- Sapete, caro duca, che ho preso in affitto una villa a Bougival, per passarci

un paio di mesi? Sono sicura che mi verrete a trovare. Portate il vostro amico.

Anzi, siccome ci andrò lunedì, volete venire a cena da me, tutti e due, sabato

prossimo? Vi terrò con me per tutto il giorno dopo.

Servigny volse bruscamente il capo verso Yvette, la quale sorrideva tranquilla,

serena; ella disse, con voce talmente sicura che non ammetteva esitazioni:

- Certo che Muschietto verrà a cena sabato. Non è neanche necessario

domandarglielo. Faremo un mucchio di sciocchezze, in campagna.

A lui parve di scorgere una promessa in quel suo sorriso, di cogliere

un’intenzione nella sua voce.

La marchesa levò su Saval i suoi occhioni neri:

- Anche voi, barone?

Il sorriso di lei davvero non lasciava dubbi. Saval s’inchinò:

- Troppo onorato, signora.

Con una malizia ingenua o perfida, Yvette mormorò:

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- Scandalizzeremo tutti lassù; vero, Muschietto? E faremo arrabbiare il mio

reggimento...

E con un’occhiata indicava alcuni uomini che la stavano osservando, di

lontano.

Servigny rispose:

- Quanto vorrete, signorina.

Saval chiese:

- Perché la signorina Yvette chiama sempre Muschietto il mio amico?

- Perché, - rispose con candore la ragazza, - scivola sempre dalle mani come il

muschio. Si crede di averlo, e non lo si ha mai.

La marchesa disse con noncuranza, seguendo visibilmente un altro pensiero,

senza lasciare lo sguardo di Saval:

- Questi ragazzi son davvero buffi!

Yvette si offese:

- Non sono buffa, sono sincera. Muschietto mi piace, e mi scappa sempre:

questo m’infastidisce.

Servigny fece un grande inchino:

- Non vi lascerò più, signorina, né giorno né notte.

- Ah, no, proprio no! - esclamò ella con un gesto di terrore. - Di giorno, va

bene, ma di notte sareste imbarazzante.

- E perché? - le chiese egli con impertinenza.

La giovane rispose con tranquilla audacia:

- Perché credo che spogliato non dobbiate stare tanto bene. Senza parere

commossa, la marchesa disse:

- Ma stanno dicendo delle cose enormi... Non si può essere ingenui fino a

questo punto!...

Servigny, con tono beffardo, aggiunse:

- Anch’io la penso così, marchesa.

Yvette lo fissò, e con tono altero, ferita:

- Siete stato grossolano, cosa che vi capita troppo spesso, da un po’ di tempo.

Si voltò, e chiamò:

- Cavaliere, venite a difendermi, mi stanno insultando.

Un uomo magro, bruno, lento di mosse, si avvicinò:

- Chi è il colpevole? - disse con un sorriso sforzato.

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Yvette indicò col capo Servigny.

- È lui; eppure gli voglio più bene che a voi, perché è meno noioso.

Il cavaliere Valreali s’inchinò:

- Si fa quello che si può. Forse noi abbiamo meno qualità, ma non minor

devozione.

Si stava avvicinando un altro uomo, alto, panciuto, coi favoriti grigi, il quale

parlava con voce forte:

- Signorina Yvette, sono il vostro servitore...

- Ah! il signor di Belvigne! - esclamò Yvette.

Voltandosi verso Saval, fece le presentazioni:

- Il mio pretendente ufficiale, grande, grosso, ricco e stupido. Così mi

piacciono. Un vero tamburo maggiore... da pensione. Oh, guarda, voi siete ancor

più grande di lui! Come posso battezzarvi? Ah, ecco! Vi chiamerò il signor di Rodi

figlio, per via del Colosso che certamente doveva essere vostro padre. Ma credo

che voi due abbiate delle cose interessanti da dirvi, sopra la testa degli altri,

perciò buonasera...

E se ne andò con vivacità verso l’orchestra, per pregare i musicisti di suonare

una quadriglia.

La signora Obardi pareva distratta. Disse a Servigny, con voce lenta:

- La pigliate sempre in giro, le farete venire un cattivo carattere e chissà

quanti difettacci.

- Non avete ancora completato la sua educazione? - replicò egli.

Parve che la marchesa non avesse capito; seguitò a sorridere benevolmente.

Ma scorse venire verso di lei un solenne signore tutto costellato di croci, e gli

corse incontro:

- Ah! principe, principe, che felicità!...

Servigny prese a braccetto Saval, e tirandolo in disparte gli disse:

- Ecco l’ultimo pretendente serio, il principe Kravalov. Non ti pare che sia

straordinaria?

Saval rispose:

- Per me sono straordinarie tutte e due, e mi accontento a meraviglia della

madre.

Servigny s’inchinò:

- A tua disposizione, mio caro.

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I ballerini che stavano mettendosi a posto per la quadriglia a due a due, in

due file di fronte, li urtavano.

- Andiamo a vedere un po’ i greci, - disse allora Servigny.

Ed entrarono nella sala da gioco.

Attorno ad ogni tavola c’era un cerchio d’uomini ritti che stavano guardando.

Si udivano poche parole, e ogni tanto il rumore leggero dell’oro gettato sul tappeto

oppure rapidamente raccolto mischiava il suo mormorio metallico al mormorio dei

giocatori, come se la voce del denaro volesse parlare insieme alle voci umane.

Tutti quegli uomini erano decorati di ordini diversi, con strani nastrini, e pur

diversi nel volto avevano la stessa aria severa. Si potevan distinguere soprattutto

dalla barba.

L’americano rigido, con la barba a ferro di cavallo alla Lincoln, l’inglese altero

col suo ventaglio di peli spampanato sul petto, lo spagnolo con un vello nero che

gli copriva financo gli occhi, il romano con gli stessi enormi baffoni che Vittorio

Emanuele ha regalato all’Italia, l’austriaco coi favoriti ed il mento rasato, un

generale russo che pareva avere le labbra armate con due lance di peli appuntiti,

e francesi con baffetti galanti, mostravano la fantasia di tutti i barbieri del mondo.

- Non giochi? - chiese Servigny.

- Io no, e te?

- Qui mai. Vogliamo andarcene? Torneremo un’altra volta con più calma. Oggi

c’è troppa gente, non si può far nulla.

- Andiamo.

E sparvero dietro una tenda che metteva nel vestibolo.

Per la strada, Servigny chiese:

- Sicché, che cosa ne pensi?

- Davvero interessante. Ma mi piace di più il reparto donne del reparto

uomini.

- Altro che! Quelle donne sono quanto di meglio, di quel determinato tipo, noi

possiamo trovare. Non ti pare che accanto a loro si senta odore d’amore come dal

parrucchiere si sente di profumo? Queste sono davvero case dove ci si diverte, per

il denaro che si spende. E che bravura, caro mio, che artiste! Ti è mai capitato di

mangiare dei dolci dal fornaio? Sembrano buoni e non sanno di nulla, perché

l’uomo che li ha impastati sa fare soltanto il pane. Allo stesso modo l’amore d’una

normale donna di mondo mi fa sempre venire a mente quei dolci da garzone

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panettiere, mentre l’amore che si trova in casa della marchesa Obardi è una

squisitezza. Ah, quelle pasticciere li sanno fare bene i loro dolci! Da loro si paga

cinque soldi quello che fuori avresti pagato due soldi, ecco tutto.

Saval chiese:

- Chi è in questo momento il padron di casa?

Servigny scrollò le spalle:

- Non lo so. L’ultimo che sapessi era un pari d’Inghilterra, partito da tre mesi.

Ora credo che viva, forse, sul gioco e sui giocatori, perché anche lei ha alti e

bassi. Piuttosto, sentimi bene, siamo d’accordo di andare sabato a cena da lei, a

Bougival?... In campagna si è più liberi, e vorrò ben sapere quello che Yvette ha

per la testa!

Saval rispose:

- Non chiedo di meglio, tanto più che quel giorno non avrò nulla da fare.

Percorrendo gli Champs-Elysées, sotto il campo infuocato delle stelle,

disturbarono una coppia stesa su una panchina; Servigny mormorò:

- Che sciocchezza, eppure che cosa importante! Come l’amore è comune,

divertente, sempre uguale e sempre diverso! Il miserabile che paga venti soldi per

quella donnetta non le chiede una cosa diversa da quella che io chiederei,

pagando diecimila franchi, ad una Obardi qualunque, né più giovane, né meno

stupida di costei, forse. Che futilità!

Stette silenzioso per qualche istante, poi riprese:

- Eppure sarebbe una bella fortuna poter essere il primo amante di Yvette. Oh,

per questo... darei... darei...

Non riuscì a trovare quello che avrebbe dato. Saval lo salutò, appena furono

giunti sul canto della via Royale.

II

Avevano apparecchiato sulla veranda che dominava il fiume. La villa

Primavera, presa in affitto dalla marchesa Obardi, si trovava proprio a metà del

pendio, esattamente alla curva della Senna, che girava davanti al muro del

giardino, dirigendosi verso Marly.

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Di faccia alla casa, l’isola di Croissy formava un orizzonte di grandi alberi, una

massa di verzura, e si poteva vedere una lunga striscia del largo fiume, fino al

caffè galleggiante del Ranocchiaio, nascosto sotto le foglie.

Stava scendendo la sera, una di quelle calme sere sulla riva del fiume, dolci e

colorate, una di quelle serate tranquille che danno la sensazione della felicità.

Neppure una bava di vento muoveva i rami, neppure un brivido faceva increspare

la superficie limpida e unita della Senna. Non faceva neanche troppo caldo, c’era

tepore nell’aria: era bello vivere. La benefica frescura dalle rive della Senna saliva

verso il cielo sereno.

Il sole stava scomparendo dietro gli alberi, verso altri paesi, e pareva di

respirare il benessere della terra già addormentata, di respirare nella pace dello

spazio la vita indolente del mondo.

Appena usciti dal salotto per mettersi a tavola, tutti andarono in estasi; i cuori

eran pieni di commossa allegria: si sentiva che sarebbe stato bello cenare in

quella campagna, con lo scenario del gran fiume e della fine del giorno,

respirando l’aria limpida e saporosa.

La marchesa era a braccetto con Saval, Yvette con Servigny. Erano loro

quattro soli.

Le due donne parevano completamente diverse che a Parigi, specialmente

Yvette.

Parlava poco, pareva illanguidita, seria.

Saval non la riconosceva più; le chiese:

- Che cosa vi è successo, signorina? Dall’altra settimana, vi trovo molto

cambiata. Siete diventata una persona seria.

Ella rispose:

- La campagna mi fa questo effetto. Non sono più la stessa. Mi sento strana. È

vero che io non sono mai uguale nemmeno per due giorni di seguito; oggi sembro

una pazza, domani il personaggio d’un idillio; cambio come il tempo e non so il

perché. Sarei capace di tutto, secondo il momento. Ci sono giorni che avrei voglia

di ammazzare della gente, non bestie perché non sarei mai capace d’ammazzare

una bestia, ma proprio della gente, e altri giorni che piango per una sciocchezza.

Mi girano per la testa tante idee differenti; dipende da come mi alzo. Ogni

mattina, svegliandomi, potrei dire come sarò fino alla sera. Forse sono le

fantasticherie che mi fanno diventare così. O forse sono i libri che leggo.

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Era tutta vestita di flanella bianca, delicatamente avvolta nella ondeggiante

morbidezza di quella stoffa. Il corsetto largo, a grandi pieghe, segnava, senza

mostrarlo, il petto libero, fermo, già maturo. Il collo sottile usciva da una spuma

di grossi merletti, si chinava in dolci movimenti, più biondo della veste, un gioiello

di carne che portava la pesante massa dei capelli dorati.

Servigny la guardò lungamente. Poi disse:

- Siete adorabile, stasera, signorina. Vorrei vedervi sempre così.

Ella rispose, con un poco della sua normale malizia:

- Non mi fate dichiarazioni, Muschietto. Potrei prenderle sul serio, e vi

costerebbe caro!...

La marchesa appariva felice, molto felice. Tutta vestita di nero, nobilmente

drappeggiata in una veste severa che disegnava le sue forme colme e forti, con un

po’ di rosso sul busto, una ghirlanda di garofani rossi che le cadeva dalla cintura

come una catena, e risaliva a fissarsi sull’anca, una rosa rossa negli scuri capelli,

ella aveva in tutta la persona, in quel semplice abbigliamento su cui i fiori

parevano sanguinare, nello sguardo che quella sera posava sulle persone, nella

voce lenta, nei gesti radi, qualcosa di ardente.

Anche Saval pareva serio e pensieroso. Ogni tanto, con gesto familiare, si

pigliava la barba bruna, che aveva tagliata in punta alla Enrico III, e sembrava

immerso in profondi pensieri

Tutti tacquero per qualche minuto.

Poi, mentre stavano servendo una trota, Servigny disse:

- A volte il silenzio è bello. Ci si sente più vicini quando si sta zitti che quando

si parla; vero, marchesa?

Ella, volgendosi verso di lui, rispose:

- Sì, è vero. È così dolce pensare, insieme, a cose piacevoli...

Levò il suo sguardo caldo verso Saval, e stettero per qualche istante a

contemplarsi, con gli occhi negli occhi.

Ci fu, sotto la tavola, un lieve movimento, quasi impercettibile.

- Signorina Yvette, - seguitò a dire Servigny, - mi farete convincere che siete

innamorata, se seguitate a star così seria. Vediamo di chi mai potete essere

innamorata? Cerchiamo insieme, se ne avete voglia. Trascuro l’esercito degli

spasimanti volgari, e scelgo soltanto i principali: del principe Kravalov?

Udendo questo nome Yvette si svegliò:

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- Mio povero Muschietto, che dite? Il principe sembra un russo da museo delle

cere, al quale abbiano dato delle medaglie in un concorso di acconciature.

- Va bene; togliamo il principe; allora è il visconte Pierre di Belvigne.

Ora ella si mise a ridere, e gli chiese:

- Mi ci vedete voi, attaccata al collo di quel Mostocotto (lo chiamava, secondo i

giorni, Mostocotto, Malvasia, o Vinsanto, perché dava soprannomi a tutti), e

sussurrargli nel naso: Mio caro Pierre, o mio divino Pedro, o mio adorato Pietro, o

mio grazioso Pierrot, porgi quella tua testona di cane alla tua cara mogliettina che

vuole baciarla?...

- Leviamo questi due, - disse allora Servigny. - Rimane il cavaliere Valreali,

che pare protetto dalla marchesa.

Yvette era allegrissima:

- Chi? «Lacrimoso»? Ma se fa il piagnone professionale alla chiesa della

Madeleine! Se va dietro ai funerali di prima classe... Mi par di morire, tutte le

volte che mi guarda.

- E tre... Allora chi vi ha fulminato è stato il barone Saval qui presente.

- No, il signor di Rodi figlio, proprio no, è troppo grande. Mi parrebbe di voler

bene all’Arco di Trionfo dell’Étoile.

- Allora, signorina, è certo che siete innamorata di me, perché io sono l’unico

dei vostri ammiratori del quale ancora non abbiamo parlato. Mi ero tenuto da

parte, per modestia e per prudenza. Non mi resta che ringraziarvi.

Yvette gli rispose con allegra grazia:

- Di voi, Muschietto? Oh, proprio no... vi voglio bene... e non vi voglio bene...

No, aspettate, non voglio scoraggiarvi. Non vi voglio ancora bene... Forse... avete

qualche probabilità... Perseverate, Muschietto, siate devoto, premuroso,

sottomesso, pieno di attenzioni, obbediente ai miei più piccoli capricci, disposto a

tutto per compiacermi... e vedremo... più tardi...

- Ma, signorina, tutto quello che volete, mi piacerebbe di più farlo dopo che

prima, se per voi fosse lo stesso.

Con un’aria da ingenua da commedia, ella chiese:

- Dopo... che cosa, Muschietto?

- Perbacco, dopo che mi avrete dimostrato che mi volete bene!

- D’accordo, fate come se vi volessi bene, credetelo, se volete... - Ma il fatto è

che...

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- Silenzio, Muschietto, basta con quest’argomento.

Servigny fece il saluto militare e tacque.

Il sole s’era sprofondato dietro l’isola, ma tutto il cielo era ancora

fiammeggiante come un braciere, e l’acqua tranquilla del fiume pareva diventata

sangue. Il riflesso dell’orizzonte faceva diventare rossi case, oggetti, persone. La

rosa scarlatta fra i capelli della marchesa sembrava una goccia porporina, caduta

dalle nuvole sul suo capo.

Yvette stava guardando lontano, e sua madre, come per caso, posò la mano

nuda sulla mano di Saval; poi, siccome la ragazza fece un movimento, con gesto

rapido la mano della marchesa volò ad aggiustare qualcosa tra le pieghe del

corsetto.

Servigny, che li stava guardando, disse:

- Se volete, signorina, dopo mangiato andremo a fare un giretto nell’isola...

Ella fu felice di quest’idea:

- Oh, certo! sarà delizioso. Andremo soli soli, vero, Muschietto?

- Oh, sì... soli, signorina.

E tacque nuovamente.

Il gran silenzio dell’orizzonte, il sonnolento riposo della sera intorpidivano le

anime, i corpi, le voci. Esistono ore tranquille, piene di raccoglimento, durante le

quali è quasi impossibile parlare.

I camerieri servivano in silenzio. L’incendio del firmamento si spengeva, e la

notte, lenta, spiegava le sue ombre sulla terra. Saval chiese:

- Avete intenzione di trattenervi qui per molto tempo?

La marchesa rispose, calcando la voce su ogni parola:

- Sì. Fintanto che ci starò bene.

Non ci si vedeva più, e furono portati i lumi, che gettarono sulla tavola una

strana pallida luce, nella grande oscurità dello spazio; subito una pioggia di

moscerini si riversò sulla tovaglia. Gli insetti si bruciavano, passando attraverso i

tubi di vetro e, con le ali e le zampe arrostite, sporcavano tovaglia, piatti e

bicchieri, con una specie di polvere grigia e saltellante.

Li inghiottivano insieme al vino, li mangiavano nei sughi, li vedevano muoversi

sul pane. Ed il volto e le mani erano continuamente solleticati dall’innumerevole

moltitudine volante dei minuscoli insetti.

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Era un continuo buttare via bevande, coprire piatti, mangiare nascondendo il

cibo, con infinite precauzioni.

Era un gioco che divertiva Yvette, a cui Servigny aveva cura di coprire il pane

che portava alla bocca, di badare al suo bicchiere, di stenderle sul capo, come un

tetto, il tovagliolo spiegato. Invece la marchesa, disgustata, s’innervosì, e la cena

fu presto finita.

Yvette non aveva dimenticato la proposta di Servigny. Gli disse:

- Ora andiamo nell’isola...

Sua madre le raccomandò con tono languido:

- Non fate tardi... Noi vi accompagneremo fino al traghetto...

S’incamminarono, a due a due, la giovane e Servigny davanti, sulla strada

d’alzaia. Sentivano, dietro di loro, la marchesa e Saval che parlavano sottovoce,

fitto fitto. Era buio pesto, d’un nero d’inchiostro. Il cielo formicolava di granelli di

fuoco e pareva che li seminasse nel fiume, poiché l’acqua scura era punteggiata di

stelle.

I ranocchi, lungo le sponde, avevano cominciato a gracidare, emettendo il loro

verso strascicato e monotono. E tantissimi usignoli spargevano nell’aria calma il

loro canto leggero.

Ad un tratto Yvette chiese:

- Ma non sento più camminare, dietro a noi... Dove sono andati?

E chiamò:

- Mamma!...

Nessuna voce rispose. La ragazza disse:

- Ma non possono essere lontani, li sentivo parlare un momento fa.

Servigny mormorò:

- Si vede che sono tornati indietro; forse vostra madre aveva freddo...

E la trascinò con sé.

Un lume brillava davanti a loro. Era l’albergo di Martinet, oste e pescatore. Al

richiamo dei giovani, un uomo uscì dalla casa: essi salirono su un grosso battello

ormeggiato tra le erbe della riva.

Il traghettatore prese i remi, e la pesante barca, muovendosi, risvegliava le

stelle addormentate sull’acqua, le faceva ballare perdutamente una danza

disordinata che a poco a poco si calmava, dietro a loro.

Giunsero all’altra riva, scesero sotto gli alti alberi.

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Una frescura di terra umida ondeggiava sotto i rami alti e fitti, sui quali

pareva che ci fossero tanti usignoli quante foglie.

Lontano, un pianoforte cominciò a suonare un valzer popolare.

Servigny aveva preso a braccetto Yvette, e piano piano fece scivolare la mano

dietro la vita di lei, stringendola dolcemente.

- A che pensate? - le chiese.

- Io? A nulla... Mi sento felicissima!...

- Allora non mi volete punto bene?...

- Sì, sì, Muschietto, vi voglio bene, molto bene; ma ora lasciatemi in pace con

queste storie... È troppo bello perché possa stare a sentire le vostre chiacchiere...

Lui la stringeva a sé, per quanto ella, dando delle scossettine, cercasse di

svincolarsi, e sentiva, attraverso la flanella morbida e dolce, il tepore della sua

carne. Balbettò:

- Yvette!

- Che cosa c’è?...

- C’è che vi voglio bene...

- Ora non siete serio, Muschietto...

- Sì che sono serio: è da tanto tempo che vi voglio bene.

Lei tentava sempre di staccarsi da lui, si sforzava di liberare il braccio stretto

fra i petti di tutti e due. E camminavano a fatica, imbarazzati da quel modo di

stare stretti e da quei movimenti, oscillando come ubriachi.

Servigny non sapeva che dire, sentendo bene che non si parla ad una ragazza

come a una donna; era turbato, si domandava quel che avrebbe fatto, se lei

avrebbe acconsentito a ciò che non capiva, e si lambiccava il cervello per trovare

le paroline tenere, precise, decisive, che ci volevano.

Non faceva che ripetere:

- Yvette, oh, Yvette!...

Ad un tratto, a caso, le baciò la guancia. Ella si scansò, e disse, irritata:

- Oh! Siete proprio ridicolo. Volete lasciarmi in pace?

Il tono della voce non rivelava ciò che pensasse o volesse; Servigny, vedendo

che non s’era molto arrabbiata, la baciò proprio sul principio del collo, sulla

peluria dorata che precede i capelli, in quel punto delizioso che da tanto tempo

bramava.

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Lei cominciò a dibattersi, dando grandi strattoni, per sfuggirgli. Ma lui la

reggeva forte, e ponendole l’altra mano sulla spalla, la costrinse a voltare la testa,

le carpì dalle labbra un bacio inebriante e profondo.

Con una rapida ondulazione del corpo Yvette gli scivolò tra le braccia, gli

guizzò lungo il petto, e sfuggita vivacemente dalla stretta, scomparve nell’ombra,

tra un gran fruscio di gonne, simile al rumore dell’uccello che s’invola.

Servigny dapprincipio restò immobile, sorpreso da quell’agilità e dalla

scomparsa improvvisa, poi, non udendo più alcun rumore, chiamò sottovoce:

- Yvette!

Ella non rispose. Cominciò a camminare, frugando con lo sguardo le tenebre,

cercando tra i cespugli la macchia bianca del vestito di lei. Tutto era nero.

Nuovamente chiamò, più forte:

- Signorina Yvette!...

Gli usignoli tacquero.

Accelerò il passo, un poco inquieto, gridando sempre più forte:

- Signorina Yvette, signorina Yvette!...

Nulla: si fermò; stette in ascolto. Tutta l’isola era silenziosa; appena un fremito

di foglie sul suo capo. I ranocchi soltanto seguitavano il loro sonoro gracidio sulle

rive.

Si mise a girare nel bosco, scendendo fino alle sponde ripide e folte di

vegetazione del braccio rapido del fiume, e tornando poi alle sponde basse e nude

del braccio morto. Giunse fin di fronte a Bougival, tornò fino al Ranocchiaio, frugò

dappertutto, sempre ripetendo:

- Signorina Yvette, dove siete? Rispondetemi! Scherzavo! Via, rispondetemi,

non mi fate seguitare a cercare in questo modo!

Lontano, si sentì suonare un orologio. Contò i colpi: mezzanotte. Erano due

ore che girava per l’isola. Gli venne a mente che forse era tornata a casa e tornò

indietro, in grande ansia, passando per il ponte.

Un domestico, addormentato in una poltrona nel vestibolo, lo stava

aspettando.

Dopo averlo svegliato Servigny gli chiese:

- È molto che la signorina Yvette è tornata? Ci siamo lasciati al principio del

paese, perché doveva fare una visita.

Il cameriere rispose:

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- Oh, sì, signor duca... La signorina è tornata prima delle dieci.

Andò in camera sua e si mise a letto.

Restò con gli occhi spalancati, non riuscendo ad addormentarsi. Quel bacio

rubato l’aveva messo in agitazione. Pensava: che voleva mai? che aveva in mente?

che sapeva? Quant’era bella, eccitante!

I suoi desideri, stancati dalla vita ch’egli faceva, da tutte le donne avute, da

tutti gli amori esplorati, si risvegliarono davanti a quella strana fanciulla, così

fresca, irritante ed inspiegabile.

Sentì suonare l’una, poi le due. Non si sarebbe addormentato, certamente.

Aveva caldo, sudava, sentiva il cuore battergli svelto nelle tempie: si alzò per

aprire la finestra.

Entrò un soffio fresco, ed egli lo respirò lungamente. L’ombra densa era

silenziosa, nerissima, immobile. Ma, ad un tratto, vide davanti a sé, nelle tenebre

del giardino, un punto luminoso; pareva un carboncino rosso. Pensò: «È un

sigaro; non può essere altri che Saval...». Lo chiamò sottovoce:

- Léon!

Una voce rispose:

- Sei tu, Jean?

- Sì; aspettami, ora scendo.

Si vestì, uscì, e raggiunse l’amico che fumava, seduto a cavalcioni d’una sedia

di ferro:

- Che fai qui, a quest’ora?

- Mi sto riposando...

E si mise a ridere.

Servigny gli strinse la mano:

- Complimenti, mio caro... Io, invece, m’annoio...

- Questo vuol dire che...

- Vuol dire che... Yvette e sua madre non si somigliano affatto.

- Che è successo? Raccontami...

Servigny raccontò dei suoi tentativi, del loro insuccesso, e seguitò:

- Insomma, questa ragazza mi turba. Figurati che non sono riuscito ad

addormentarmi. È davvero curioso: una ragazzetta... Pare semplice semplice, e

non si riesce a saper nulla, di lei. Una donna che ha vissuto, che ha amato, che

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conosca la vita, si fa presto a capirla. Ma quando si tratta d’una vergine, non si

riesce a capire più nulla. Sto cominciando a credere che mi prenda in giro.

Saval si dondolava sulla sua sedia. Disse, con grande lentezza:

- Stai attento, mio caro, perché quella ti sta portando al matrimonio. Ricordati

tanti esempi illustri. Non è forse usando lo stesso procedimento che la signorina

di Montijo, la quale almeno era di buona razza, riuscì a diventare imperatrice?

Non fare il Napoleone.

- Oh! per questo, non aver paura, - mormorò Servigny; - non sono né ingenuo,

né imperatore. Bisogna essere o l’uno o l’altro di questi due per fare cose simili.

Ma dimmi, hai sonno, tu?

- No, proprio no.

- Vuoi che facciamo una passeggiata sulla riva?

- Volentieri.

Aprirono il cancello e cominciarono a scendere lungo il fiume, in direzione di

Marly.

Era l’ora fresca che precede il giorno, l’ora del gran sonno, del gran riposo,

della calma profonda. Perfino i leggeri rumori della notte erano taciuti: gli usignoli

non cantavano più; i ranocchi avevano smesso di far chiasso; soltanto un animale

sconosciuto stava facendo, in qualche posto, una specie di stridio di sega, leggero,

monotono, regolare come un meccanismo.

Servigny, il quale a momenti era poeta ed anche filosofo, disse ad un tratto:

- Ecco. Questa ragazza mi fa girare completamente la testa. In aritmetica uno

e uno fanno due. In amore, uno e uno dovrebbe fare uno, ed invece fa due lo

stesso. Lo hai mai provato, tu? Il bisogno di assorbire in sé una donna, o di

scomparire in lei? Non sto parlando del bisogno bestiale dell’accoppiamento, ma

del tormento morale e mentale di voler essere tutt’uno con un’altra persona, di

aprirle completamente l’anima, il cuore, di penetrare il suo pensiero fino in fondo.

E invece non sai mai nulla di lei, non scopri mai gli ondeggiamenti della sua

volontà, dei suoi desideri, delle sue opinioni. Mai riesci ad indovinare, neanche

un poco, l’ignoto ed il mistero d’un’anima che pure senti così vicina, d’un’anima

nascosta dietro due occhi che ti guardano, chiari come l’acqua, trasparenti come

se non celassero nulla di segreto, d’un’anima che ti parla attraverso una bocca

amata, che par tua, tanto è il desiderio; d’un’anima che, con le parole, ti

trasmette ad uno ad uno i suoi pensieri, e nonostante ciò rimane più lontana da

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te di quanto le stelle siano lontane l’una dall’altra, ed ancor più impenetrabile

degli astri! È curioso davvero!

Saval rispose:

- Io non chiedo tanto. Non guardo dietro gli occhi. Mi preoccupo poco del

contenuto, ma molto del contenente.

Servigny mormorò:

- Comunque, Yvette è una strana creatura. Come mi accoglierà stamattina?

Mentre stavano arrivando alla Macchina di Marly s’accorsero che il cielo

cominciava ad impallidire.

Alcuni galli cominciarono a cantare nei pollai; il loro verso giungeva un po’

affiochito dallo spessore dei muri. Un uccello, nel parco, a sinistra, pigolava,

ripetendo continuamente un breve ritornello, d’una semplicità ingenua e buffa.

- È ora di tornare... - disse Saval.

Tornarono indietro. Servigny, mentre entrava nella sua camera, vide,

attraverso la finestra rimasta spalancata, l’orizzonte tutto rosa. Chiuse le

persiane, tirò ed incrociò le pesanti tende, si mise a letto e finalmente

s’addormentò.

Per tutto il tempo del sonno sognò di Yvette.

Fu svegliato da uno strano rumore. Si mise a sedere sul letto, in ascolto, ma

non udì nulla. Poi, ad un tratto, contro gli scuri, sentì un rumore simile a quello

che fa la grandine.

Saltò sul letto, corse alla finestra, l’aprì e vide Yvette, ritta in mezzo al viale,

che gli tirava manate di sabbia.

Era vestita di rosa, con un cappello di paglia a falda larga sormontato da una

piuma alla moschettiera, e rideva, maliziosa e maligna.

- Via, Muschietto, state ancora dormendo? Che cosa mai avete fatto stanotte

per dovervi svegliare così tardi? Forse siete andato a caccia d’avventure?

Servigny era rimasto stordito dal violento bagliore della luce che

improvvisamente gli aveva colpito gli occhi; era ancora intorpidito dalla

stanchezza e sorpreso dalla beffarda tranquillità della giovane.

Rispose:

- Vengo subito, signorina, vengo subito. Il tempo di mettere il naso nell’acqua

e scendo subito.

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- Spicciatevi, - gridò ella, - son già le dieci. Devo comunicarvi un grandioso

progetto, un complotto che faremo. E poi, sapete, si desina alle undici...

La trovò seduta su una panchina con un libro sulle ginocchia, un romanzo

qualunque. Lo prese a braccetto, familiarmente, amichevolmente, in un modo

spontaneo ed allegro, come se nulla fosse accaduto la sera prima, e conducendolo

in fondo al giardino:

- Ecco il mio progetto, - disse: - disubbidiremo alla mamma e voi mi porterete

al Ranocchiaio. Lo voglio proprio vedere. Mamma dice che le donne perbene non

possono andare in posti come quello. Ma per me è proprio lo stesso che ci si

possa o non ci si possa andare. Mi ci porterete, vero, Muschietto? E faremo un bel

chiasso, insieme coi canottieri.

Mandava un buon odore, senza che lui potesse esattamente sapere quale

fosse il profumo vago e leggero che le volteggiava attorno. Non era uno di quei

pesanti profumi usati da sua madre, ma appena un discreto sentore, in cui si

poteva percepire un’idea di polvere d’iride, e fors’anche un poco di verbena.

Donde veniva quell’indefinibile profumo? Dall’abito, dai capelli, dalla pelle? Se

lo chiedeva, e, siccome le stava parlando vicino, riceveva sul volto il fiato fresco di

lei, che gli pareva altrettanto delizioso da respirare. Pensò che il fuggevole

profumo che cercava di riconoscere esisteva soltanto perché lo evocavano i suoi

occhi affascinati; ed era una specie d’ingannevole emanazione di quella grazia

giovane e seducente.

Costei gli stava dicendo:

- Allora, siamo intesi, Muschietto? Siccome dopo mangiato farà troppo caldo,

mamma non vorrà uscire... è sempre fiacchissima quando fa caldo. Perciò la

lasceremo col vostro amico e noi andremo via. Sembrerà che andiamo nella

foresta. Se sapeste quanto mi divertirò nel vedere il Ranocchiaio!

Arrivarono davanti al cancello, di faccia alla Senna. Una pioggia di sole cadeva

sul fiume addormentato e lucido. Ne usciva una nebbiolina prodotta dal calore,

come un fumo d’acqua evaporata che produceva sulla superficie dell’acqua un

leggero vapore lucente.

Ogni tanto si vedeva passare un canotto, una rapida iole o una pesante

chiatta, e, di lontano, si udivano i fischi, brevi e lunghi, dei treni che tutte le

domeniche riversano la popolazione di Parigi nella campagna dei dintorni, e dei

vaporini che avvisano del loro passaggio la chiusa di Marly.

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Suonò una campanellina.

Si annunciava il desinare; tornarono a casa.

Il pasto fu silenzioso. Il pesante meriggio di luglio schiacciava la terra,

opprimeva le genti. Il calore pareva denso, paralizzava menti e corpi. Intorpidite,

le parole non uscivano dalle labbra, i movimenti parevano faticosi come se l’aria

opponesse resistenza, fosse diventata più difficile da traversare.

Soltanto Yvette, benché anch’essa silenziosa, pareva vivace, nervosa,

impaziente.

Dopo le frutta chiese:

- Perché non ce ne andiamo a fare una passeggiata nella foresta? Chissà come

si sta bene sotto gli alberi...

La marchesa, che pareva sfinita, mormorò:

- Sei matta? Uscire con un tempo simile?

La ragazza, furba, continuò:

- Va bene; allora ti lasceremo il barone, perché ti tenga compagnia. Io e

Muschietto andremo sulla costa e ci metteremo a leggere sull’erba.

Voltandosi verso Servigny, disse:

- Allora, siamo intesi...

- Ai vostri ordini, signorina, - rispose lui.

Yvette corse a prendere il cappello.

La marchesa scrollò le spalle, sospirando:

- È pazza sul serio...

E stese pigramente, con una specie di stanchezza nel gesto amoroso e

languido, la sua bella mano pallida al barone, il quale la baciò con lentezza.

Yvette e Servigny andarono. Prima costeggiarono la riva, attraversarono il

ponte, entrarono nell’isola, poi si sedettero sulla sponda, dalla parte del braccio

rapido, sotto i salici, perché ancora era troppo presto per andare al Ranocchiaio.

La giovane trasse di tasca un libro e disse ridendo

- Ora, Muschietto leggerà.

E gli tese il volume.

Servigny si schermì:

- Io, signorina? Ma se non so leggere!

Ella gli disse con gravità:

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- Via, niente scuse. Mi sembrate ancora il vero tipo dello spasimante. E il

vostro motto non è: tutto per nulla?

Servigny prese il libro, lo aperse, rimase sorpreso, era un trattato

d’entomologia, sulle formiche, di un autore inglese. Restò immobile, credendo che

si fosse presa gioco di lui, finché ella si spazientì:

- Suvvia, leggete, - gli disse.

- Cos’è? - chiese Servigny: - una scommessa, oppure un semplice capriccio?

- No, mio caro: ho visto questo libro in una libreria, mi hanno detto che è

quanto di meglio esista sulle formiche, perciò ho pensato che sarebbe stato

divertente imparare qualcosa sulla vita di queste bestioline, guardandole correre

in mezzo all’erba. Leggete.

Si stese bocconi, coi gomiti appoggiati per terra, il capo fra le mani, gli occhi

fissi sull’erba.

Servigny cominciò a leggere:

«Tra tutti gli animali, senza dubbio le scimmie antropoidi sono quelle che più

s’avvicinano all’uomo nella struttura anatomica, ma se consideriamo i costumi

delle formiche, la loro organizzazione sociale, le loro grandi comunità, le case e le

strade che costruiscono, le loro abitudini di addomesticare animali e talvolta

perfino di ridurli in schiavitù, siamo costretti ad ammettere che esse possono

reclamare un posto accanto all’uomo nella scala graduatoria dell’intelligenza...».

Seguitò con voce monotona, fermandosi ogni tanto per chiedere:

- Basta?

Yvette faceva segno di «no» col capo; su un fil d’erba aveva preso una formica

spersa, e si divertiva a farla andare da una parte all’altra, rovesciando il filo non

appena la bestiolina aveva raggiunto una delle estremità. Stava ascoltando con

attenzione intensa e silenziosa i particolari sorprendenti sulla vita di quei fragili

animaletti, sui loro impianti sotterranei, sul modo con cui allevano, tengono

segregati e nutrono i gorgoglioni, per bere il liquido zuccherino ch’essi secernono,

nello stesso modo che noi le vacche nelle stalle, sull’abitudine di addomesticare

certi insettucci ciechi che puliscono i formicai, e di far guerre per ricavarne

schiavi che avranno cura dei vincitori con tanta sollecitudine che costoro

perderanno perfino l’abitudine di mangiare da sé.

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A poco a poco, come se nel suo cuore si fosse destata una tenerezza materna

per quella bestiolina così piccola ed intelligente, Yvette se la faceva arrampicare

sul dito, la guardava commossa, come se avesse voglia di darle un bacio.

E mentre Servigny leggeva di come esse vivono in comunità, delle amichevoli

lotte di forza e di destrezza che fanno tra loro, la ragazza entusiasta volle baciare

l’insetto, che le sfuggì e cominciò a correrle sul viso. Allora lei mandò un grido

acuto come se un tremendo pericolo l’avesse minacciata e con gesti precipitosi si

percuoteva la gola per scacciare la bestiola. Servigny ridendo come un matto

prese la formica proprio mentre era vicina ai capelli e baciò lungamente il luogo

della cattura, senza che Yvette scansasse la fronte.

Alzandosi, ella disse:

- Mi piace più d’un romanzo. E ora andiamo al Ranocchiaio.

Giunsero alla parte dell’isola, dov’è il parco, pieno di immensi alberi. Sotto le

alte chiome, lungo la Senna, dove scivolavano i canotti, passeggiavano delle

coppie: ragazze e giovanotti, operai con le loro innamorate, in maniche di camicia,

con la giacchetta sul braccio, il cappello alto buttato all’indietro, con un’aria

stanca di beoni; borghesi con le loro famiglie: le donne cogli abiti della domenica,

e i bimbi trotterellanti intorno ai genitori, simili a una covata di pulcini.

Un rumorio lontano e continuo di voci umane, un clamore sordo e brontolante

annunciava il luogo favorito dai canottieri.

Lo videro all’improvviso. Un immenso galleggiante coperto da un tetto,

ormeggiato alla sponda, e coperto da una folla di maschi e di femmine, seduti a

bere oppure in piedi, che gridavano, cantavano, urlavano, ballavano, facevano le

capriole accompagnati da un pianoforte lamentoso, stonato e rimbombante come

un paiolo.

Certe ragazzone coi capelli rossi che mettevano in mostra, davanti e dietro, la

doppia provocazione del loro seno e del sedere, giravano, con gli occhi invitanti, le

labbra rosse, quasi ubriache, dicendo frasi oscene.

Altre ballavano disperatamente con certi pezzi di giovanotti mezzi nudi, vestiti

d’un paio di calzoni di tela e d’una maglietta di cotone, e con in capo un

berrettino colorato, da fantini.

Tutto quell’insieme mandava un odore di sudore e di cipria, un misto di

emanazioni di profumi e di ascelle.

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I bevitori, seduti attorno alle tavole, mandavano giù liquidi bianchi, rossi,

verdi e gridavano e strillavano senza motivo, per il violento bisogno di

schiamazzare, per il brutale bisogno di sentirsi orecchie e testa pieni di chiasso.

Continuamente dei nuotatori saltavano nell’acqua dal tetto facendo cadere

una pioggia di schizzi sui bevitori più vicini, i quali urlavano selvaggiamente.

Sul fiume sfilava una flotta di imbarcazioni. Le iole lunghe e sottili andavano

rapide, sospinte dalle nude braccia potenti dei rematori, coi muscoli che

guizzavano sotto la pelle abbronzata. Le donne canottiere vestite di flanella

turchina o rossa con un ombrello pure turchino o rosso aperto sul capo,

splendido sotto il sole ardente, si arrovesciavano nei loro sedili in fondo alle

imbarcazioni, e pareva che corressero sull’acqua, immobili e come dormienti.

Altre barche più pesanti passavano più lentamente, piene di gente. Un

collegiale sbronzo, il quale voleva fare il bello, remava con un movimento simile a

quello delle ali d’un mulino, urtava tutti i canotti, mentre i canottieri gli urlavano

contro, poi sparì, smarrito, dopo aver quasi fatto affogare due bagnanti, inseguito

dagli urli della folla ammassata nel gran caffè galleggiante.

Raggiante, Yvette passava in mezzo alla folla chiassosa e varia, a braccetto con

Servigny; pareva felice di quei contatti sospetti e guardava le donnine con occhi

tranquilli e benevoli.

- Guardate quella, Muschietto, che bei capelli! Sembra che si stiano

divertendo sul serio!...

Mentre il pianista, un canottiere vestito di rosso con un enorme cappellone di

paglia sul capo, cominciava un valzer, Yvette improvvisamente strinse il suo

compagno gettandosi nella danza con la solita furia. Ballavano tanto e tanto

freneticamente che tutti li guardavano. I bevitori, in piedi sulle tavole, battevano il

tempo coi piedi, altri sbattendo i bicchieri; e il suonatore pareva impazzito,

colpiva i tasti d’avorio con mani sussultanti, contorcendo il corpo, e dondolando

senza fine il capo coperto dall’immenso cappellone.

Ad un tratto si fermò, si lasciò scivolare per terra, lungo disteso, sepolto sotto

il cappellone, come se fosse morto di fatica. Tutti scoppiarono a ridere, e

batterono le mani.

Come accade negli incidenti, quattro amici si precipitarono a raccogliere il loro

compagno, e lo portarono per le braccia e per le gambe, dopo avergli messo sulla

pancia quella specie di tetto che portava in testa.

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Un bello spirito li seguì intonando il De Profundis, e subito, dietro il finto

morto, si formò una processione, attraverso le strade dell’isola, tirandosi dietro

clienti del caffè, gente che andava a passeggio, tutti quelli che incontravano.

Ridendo a piena gola, estasiata, Yvette si slanciò dietro la processione,

chiacchierando con tutti, inebriata dal movimento e dal chiasso. Alcuni giovanotti

la guardavano negli occhi, si stringevano a lei, eccitati, e pareva che la fiutassero,

che la spogliassero con lo sguardo; Servigny cominciava a pensare che, in fin dei

conti, l’avventura sarebbe finita bene per lui.

La processione seguitava ad andare sempre più svelta, perché i quattro

portantini s’erano messi a correre, seguiti dalla folla schiamazzante. Ad un tratto

si diressero verso la riva, si fermarono appena giunti all’acqua, fecero dondolare il

loro carico, e, lasciandolo tutti e quattro insieme, lo scaraventarono nel fiume.

Un gran grido di gioia scaturì da tutte le bocche mentre il pianista, stordito, si

dimenava, bestemmiava, sputava acqua e impacciato dal fango, si sforzava di

tornare a riva.

Il suo cappellone, che se n’era andato alla deriva, fu riportato da una barca.

Yvette saltava dalla contentezza, batteva le mani e ripeteva:

- Oh! Muschietto, come mi diverto, come mi diverto!

Servigny la osservava, tornato serio, un poco urtato ed offeso di vederla così a

suo agio in quel luogo triviale. Si ribellava in lui quella sorta d’istinto del perbene

che ciascuna persona bennata ha sempre in sé, anche quando si lascia andare;

un istinto che le fa evitare familiarità troppo basse, contatti che sporcano troppo.

Diceva a se stesso, sbalordito: «Sei un tipino di razza!...».

E aveva voglia di darle davvero del tu, come faceva nel pensiero, come si dà

del tu, la prima volta che si vedono, alle donne di tutti.

Non gli pareva neanche diversa da tutte quelle donne coi capelli rossi che li

urtavano gridando frasi oscene, con le loro voci roche e correvano in mezzo alla

folla: quelle parole grasse, brevi e sonore parevano volteggiarvi sopra, nate di lì,

come le mosche sul letamaio. Pareva che nessuno ne fosse urtato o sorpreso.

Yvette sembrava che non se ne accorgesse nemmeno.

- Muschietto, voglio fare il bagno, - disse a un certo punto, - andiamo a

tuffarci.

- Ai vostri ordini, - rispose lui.

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Andarono a prendere in affitto i costumi. Yvette fu pronta per prima, e lo

aspettò ritta sulla riva, sorridente sotto gli sguardi di tutti. Poi, se ne andarono

insieme, nell’acqua tiepida.

Yvette nuotava beata, inebriata, accarezzata dalle onde, fremendo d’un piacere

sensuale, sollevandosi a ogni bracciata, come se avesse voluto slanciarsi fuori del

fiume. Servigny le stava dietro a fatica, sbuffando, scontento di sentirsi così

mediocre.

Ella rallentò l’andatura e voltandosi bruscamente fece il morto, con le braccia

stese e gli occhi aperti nel cielo azzurro. Lui guardava, lunga sul pelo dell’acqua,

la linea sinuosa del suo corpo, i seni fermi, aderenti alla stoffa leggera sì da

mostrare la loro forma rotonda e le punte sporgenti, il ventre appena prominente,

le cosce coperte dall’acqua, i polpacci ignudi che lucevano attraverso l’acqua, i

piedi graziosi che emergevano.

La vedeva tutta come se gli si fosse mostrata apposta per tentarlo, per offrirsi

a lui o per beffarlo ancora. E la desiderò con ardore appassionato, con

un’irritazione esasperata. Ella d’un tratto si voltò, lo guardò e si mise a ridere.

- Che bella testina avete... - gli disse.

Servigny si sentì punto e irritato da quello scherzo; fu preso da una rabbia

cattiva d’innamorato beffato, e, cedendo ad un oscuro bisogno di rappresaglia, a

un desiderio di vendicarsi, di ferirla:

- Vi piacerebbe, quella vita? - le chiese.

Con la sua solita ingenuità ella gli disse:

- Quale vita?

- Via, non mi pigliate in giro. Sapete bene quel che voglio dire.

- No, parola d’onore.

- Andiamo, finiamola con questa commedia. Volete o non volete?

- Non vi capisco.

- Non è possibile che siate così scema. E poi, ve l’ho detto anche ieri sera.

- Ma che cosa? Me ne sono scordata... - Che vi voglio bene...

- Voi?

- Sì, io.

- È uno scherzo...

- Ve lo giuro.

- Allora, dimostratemelo.

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- Non chiedo di meglio.

- Che cosa chiedete?...

- Di dimostrarvelo.

- Va bene, fatelo.

- Ieri sera, però, non mi dicevate queste cose!...

- Perché non m’avete fatto nessuna proposta.

- Che sciocchezza!

- E poi, per prima cosa, non dovete rivolgervi a me...

- Questa è bella! E a chi?

- Alla mamma, certo...

Servigny scoppiò a ridere.

- A vostra madre?... Oh, via... questa è troppo bella...

Yvette era diventata molto seria, e lo guardava fisso.

- Statemi a sentire, Muschietto, se mi volete bene abbastanza da sposarmi,

parlatene prima alla mamma, e poi io vi darò la risposta.

Lui credette che lo volesse ancora prendere in giro, e si arrabbiò sul seno:

- Signorina, mi avete scambiato per qualcun altro...

Yvette seguitava a fissarlo coi suoi occhi dolci e limpidi. Restò un poco

esitante, poi disse:

- Davvero non vi capisco...

Con vivacità, con un che di brusco e di cattivo nella voce, egli le rispose:

- Andiamo, Yvette, smettiamola con questa commedia che sta durando da

troppo tempo. Vi piace far la parte della ragazzina ingenua, ma non vi si addice

tanto, datemi retta. Sapete bene che tra noi non può essere questione di

matrimonio... ma d’amore. Vi ho detto che vi volevo bene, ed è la verità; ve lo

ripeto, vi voglio bene. Non fate più finta di non capirmi, e non trattatemi più come

uno sciocco...

Stavano di fronte, ritti nell’acqua, reggendosi a galla con impercettibili

movimenti delle mani. Yvette restò immobile per qualche istante, come se ancora

non riuscisse a capacitarsi del significato di quelle parole; poi, d’un tratto,

arrossì: tutto il suo viso s’imporporò dal collo fino alle orecchie che diventarono

quasi viola. Senza rispondere nemmeno una parola si diresse verso terra,

nuotando a tutta velocità, a grandi bracciate affannose. Lui non riuscì a

raggiungerla, e ansimava, seguendola.

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La vide uscire dall’acqua, raccogliere l’accappatoio e rientrare nella cabina,

senza nemmeno voltarsi.

Stette molto a vestirsi, assai indeciso su come comportarsi, cercando che

avrebbe potuto dirle, domandandosi se dovesse chiederle scusa oppure

perseverare.

Appena fu pronto lei era già partita, sola sola. Servigny tornò indietro

lentamente, ansioso e inquieto.

La marchesa stava passeggiando a braccetto con Saval, nel viale rotondo,

intorno al prato.

Appena vide Servigny gli disse, con quell’aria trascurata che aveva dal giorno

prima:

- Ve lo avevo detto che non dovevate uscire con questo caldo. Yvette ha preso

un’insolazione. Se ne è andata a letto; era rossa come un papavero, povera

creatura, e aveva un tremendo mal di capo. Avrete camminato al sole, avrete fatto

i matti, che so io? Voi siete più scervellato di lei.

La ragazza non scese, a cena. Siccome volevano portarle su da mangiare,

rispose attraverso la porta che non aveva fame perché si sentiva male, e che la

lasciassero in pace, per favore. I due giovani uomini partirono col treno delle

dieci, promettendo di tornare il giovedì successivo: la marchesa si sedette davanti

alla finestra aperta, fantasticando ed ascoltando la musica saltellante

dell’orchestrina dei canottieri che le giungeva di lontano, nel gran silenzio solenne

della notte.

Attratta dall’amore e nell’amore come si può esserlo dai cavalli o dalla voga,

ella sottostava a improvvisi impeti di affetto, che la pigliavano come una malattia.

Simili passioni la invadevano improvvisamente, la penetravano tutta, la

turbavano, la prostravano, la schiacciavano, a seconda del loro carattere esaltato,

violento, drammatico o sentimentale.

Era una donna nata per amare ed essere amata. Di origini assai umili, s’era

fatta una posizione con l’amore, che era diventato la sua professione senza quasi

che lei se n’accorgesse, agendo d’istinto, per furberia innata; accettava il denaro

come i baci, con naturalezza, senza far distinzioni, usando il suo notevole intuito

in modo irrazionale e semplice, nello stesso modo degli animali, che fanno

diventar sottili le necessità dell’esistenza. Molti uomini eran passati fra le sue

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braccia, senza che ella avesse provato affetto per alcuno, e nemmeno disgusto dei

loro abbracci.

Subiva gli abbracci di nessuna importanza con una tranquilla indifferenza,

così come quando si è in viaggio si mangia di tutte le cucine, per necessità. Ma,

ogni tanto, il suo cuore e la sua carne s’accendevano, ed ella piombava in una

gran passione che durava alcune settimane o alcuni mesi, secondo le qualità

fisiche o morali dell’amante.

Erano i momenti belli della sua vita. Ella amava con tutta l’anima, con tutto il

corpo, con trasporto, con estasi. Si gettava nell’amore come chi si getta in un

fiume per affogarsi, e si lasciava portar via, disposta a morire se fosse stato

necessario, inebriata, sperduta, infinitamente felice. Ogni volta s’immaginava di

non aver mai provato simili sensazioni, prima, e sarebbe rimasta assai sorpresa

se le avessero ricordato quanti uomini diversi ella aveva sognato perdutamente,

per notti intere, guardando le stelle.

Saval l’aveva presa prigioniera, catturata corpo ed anima. Pensava a lui,

cullata dalla sua immagine e dal suo ricordo, nella calma esaltazione della felicità

raggiunta, della felicità presente e sicura.

Un rumore, dietro a lei, la fece voltare. Era entrata Yvette, ancora vestita come

di giorno, ma pallida e con gli occhi brillanti come chi è molto stanco.

S’appoggiò al davanzale, di fronte alla madre:

- Vorrei parlarti, - disse.

La marchesa la guardò, stupita. Le voleva bene in modo egoista, fiera della

sua bellezza come si può esserlo di un patrimonio, ancora troppo bella ella stessa

per esserne gelosa, troppo indifferente per far su di lei i calcoli che le attribuivano

e pure troppo accorta per non aver la coscienza di quanto valesse. Rispose:

- Certo, bambina: che c’è?

Yvette la fissava come se volesse penetrarle nell’anima, come se volesse

afferrare le sensazioni che le sue parole avrebbero destato.

- Ecco: è successo qualcosa di straordinario.

- Che cosa?

- Servigny m’ha detto che mi vuol bene.

La marchesa, inquieta, aspettò. Ma, siccome Yvette non diceva altro, chiese:

- Quando te l’ha detto? Raccontami...

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La giovane, sedendosi ai piedi della madre in una posa carezzevole che le era

solita, aggiunse:

- M’ha chiesto in sposa

La signora Obardi fece un gesto di stupore ed esclamò:

- Servigny? Sei matta?...

Yvette non aveva distolto gli occhi dal volto della madre spiandone il pensiero

e la sorpresa. Chiese, con voce seria:

- Perché devo essere matta? Perché Servigny non dovrebbe sposarmi?

Imbarazzata, la marchesa disse:

- Ti sarai sbagliata, non è possibile. Avrai sentito o capito male, Servigny è

troppo ricco per te... è... troppo... parigino per sposarsi.

Yvette s’era alzata, lentamente. Disse:

- Ma, se mi vuol bene come dice, mamma?

Costei rispose, con un gesto d’impazienza:

- Credevo che fossi abbastanza grande e ne sapessi abbastanza della vita per

non avere idee simili. Servigny è un gaudente e un egoista. Sposerà soltanto una

donna del suo ambiente e ricca come lui. Se ti ha chiesto di sposarlo, è perché

vuole... vuole...

Incapace di esprimere i suoi sospetti, la marchesa tacque un istante, poi

disse:

- Via, lasciami in pace, e vai a letto.

La giovane, come se fosse riuscita a sapere quel che voleva, rispose con voce

docile:

- Sì, mamma...

La baciò sulla fronte e se ne andò con passo tranquillo.

Mentre stava sulla porta, la marchesa la richiamò:

- E l’insolazione?

- Non era vero. Stavo così per via di quei discorsi.

La marchesa disse:

- Ne riparleremo. Ma, soprattutto, per un po’ di tempo, non restare più sola

con lui; e sii ben sicura che non ti sposerà, perché quel che vuole da te è...

comprometterti...

Non aveva trovato nulla di meglio per esprimere il suo pensiero. Yvette tornò

nella sua camera.

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La signora Obardi cominciò a pensare.

Da anni ella viveva in una tranquillità amorosa ed opulenta ed aveva

accuratamente allontanato da sé qualunque pensiero che potesse preoccuparla,

inquietarla e rattristarla. Non aveva mai voluto chiedersi che sarebbe stato di

Yvette: avrebbe sempre fatto in tempo a pensarci quando le difficoltà fossero

sopravvenute. Sentiva, con il suo intuito di cortigiana, che la sua figliola non

avrebbe mai potuto sposare un uomo ricco, appartenente alla società, a meno

d’un caso improbabile, una di quelle sorprese dell’amore che riesce a porre

un’avventuriera sul trono. Ma non ci contava, troppo occupata di se stessa per far

progetti su ciò che non la riguardasse direttamente.

Senza dubbio Yvette avrebbe fatto come sua madre. Sarebbe stata una donna

d’amore. Perché no? Tuttavia, mai la marchesa aveva avuto il coraggio di

chiedersi quando o come ciò sarebbe accaduto.

E ora ecco che questa figliola, all’improvviso e senza alcun preannuncio, le

faceva una di quelle domande a cui non si può rispondere, la costringeva a

prender posizione in un affare tanto difficile, tanto delicato e pericoloso sotto ogni

punto di vista, e inquietante per la sua coscienza, per la coscienza che si deve

dimostrare quando si tratta della propria figlia e di simili faccende.

Era troppo naturalmente furba, d’una furberia sonnecchiante ma mai

addormentata, per essersi illusa anche per un momento sulle vere intenzioni di

Servigny: conosceva gli uomini per esperienza, e soprattutto gli uomini di quella

razza. Perciò, fin dalle prime parole di Yvette, aveva esclamato, quasi suo

malgrado:

- Servigny sposarti? Sei matta?

Come mai aveva usato quel vecchio sistema proprio lui, così esperto e astuto,

lui, un gaudente di quella fatta? Che avrebbe fatto? Come avrebbe potuto mettere

sull’avviso, in maniera chiara, la bambina? Come difenderla? Perché poteva fare

delle grosse sciocchezze...

Chi avrebbe mai creduto che una figliolona come quella fosse rimasta così

ingenua, inesperta, poco furba?

La marchesa, molto perplessa, e già stanca di pensare, cercava quel che

avrebbe potuto fare, senza trovar nulla, perché la situazione le appariva davvero

imbarazzante.

Finché, stanca di tutto quel tramestio, pensò:

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«La sorveglierò da vicino, e agirò secondo le circostanze. Se sarà necessario

parlerò a Servigny, che, da persona fine qual è, mi capirà subito».

Non si chiese che cosa gli avrebbe detto, né quel che lui avrebbe risposto, o

qual genere di convenzione si sarebbe potuta stabilire fra loro: felice di essersi

levata quel peso, senza aver dovuto decidere nulla, ricominciò a pensare al bel

Saval, e, con gli occhi sperduti nella notte, volti a destra, verso quel bagliore

nebbioso che si libra su Parigi, mandò sulle mani dei rapidi baci, e li gettava

nell’ombra, uno dopo l’altro, senza contarli; sottovoce, come se gli stesse

parlando, mormorava:

- Ti voglio bene! ti voglio bene!...

III

Nemmeno Yvette dormiva. Come sua madre, appoggiò i gomiti al davanzale

della finestra spalancata, mentre gli occhi le si empivano di lacrime, le prime

lacrime tristi della sua vita.

Fino ad allora ella aveva vissuto ed era cresciuta nella fiducia stordita e

serena della gioventù felice. Perché mai avrebbe dovuto pensare, riflettere,

cercare? Perché non doveva essere una ragazza come tutte le altre? Perché le

sarebbero dovuti venire dubbi, timori, penosi sospetti?

Pareva che sapesse tutto perché pareva che fosse capace di parlare di tutto,

perché imitava l’intonazione, il comportamento, le frasi arrischiate delle persone

che le vivevano attorno. Ma non ne sapeva più d’una ragazzetta allevata in un

convento perché le audacie delle sue frasi provenivano dalla sua memoria, dalla

facoltà d’imitazione e d’assimilazione che hanno le donne, non da un pensiero

istruito e fatto ardito.

Parlava dell’amore come i figli d’un pittore o d’un musicista parlano di pittura

e di musica fin dall’età di dieci o dodici anni.

Sapeva, o meglio sospettava qual razza di mistero quel nome nascondesse, -

troppe frasi spiritose erano state sussurrate davanti a lei perché la sua innocenza

non ne fosse stata almeno un poco illuminata, - ma in qual modo avrebbe potuto

evitare di pensare che le altre famiglie non somigliassero alla sua?

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Baciavano la mano di sua madre con apparente rispetto; tutti gli amici che

avevano erano titolati; tutti erano o sembravano ricchi; tutti nominavano con

familiarità i principi di casa reale; perfino due figli di re eran venuti diverse volte,

la sera dalla marchesa! In qual modo avrebbe potuto sapere?

Inoltre ella era ingenua di natura. Non cercava né intuiva le persone, come

faceva sua madre. Viveva tranquilla, troppo contenta di vivere per preoccuparsi di

ciò che sarebbe parso sospetto ad altri esseri più calmi, più chiusi, meno

espansivi e trionfanti.

Ed ecco che, d’un tratto, Selvigny, con alcune parole di cui ella aveva sentito

la brutalità senza capirla, aveva risvegliato in lei una improvvisa inquietudine,

dapprima irrazionale, a cui era seguita una tormentosa apprensione.

Era tornata a casa fuggendo come un animale ferito, e in verità era stata

profondamente ferita da quelle parole, che continuamente si ripeteva per

comprenderne appieno il significato, per poterne valutare bene l’estensione:

«Sapete bene che tra noi non può essere questione di matrimonio... ma

d’amore...».

Che cosa aveva voluto dire? E perché una simile ingiuria? Dunque ella

ignorava qualcosa: un segreto, un’onta? Ed era la sola ad ignorarlo, senza

dubbio. Ma che cosa? Era spaventata e prostrata, come quando si scopre

un’infamia nascosta, il tradimento d’un essere amato, uno di quei drammi del

cuore che fanno perdere la testa.

Ed aveva pensato, riflettuto, cercato, pianto, in preda a timori ed a sospetti. E,

a mano a mano che la sua anima giovane ed allegra si rasserenava, ella aveva

cominciato ad imbastire un’avventura, a mettere su una situazione anormale e

drammatica composta da tutti i ricordi dei romanzi poetici che aveva letto. Si era

ricordata di emozionanti peripezie, di storie cupe e commoventi che mischiava e

trasformava nella sua propria storia, abbellendone il mistero appena intravisto e

avvolgendovi la propria vita.

Ora non si disperava più, sognava, sollevava veli, s’immaginava inverosimili

complicazioni, mille cose strane, terribili e affascinanti proprio in virtù della loro

stranezza.

Forse ella era la figliola naturale d’un principe? La sua povera mamma

sedotta, abbandonata, creata marchesa da un re, forse dal re Vittorio Emanuele,

aveva dovuto scappare davanti alla collera della famiglia?

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O invece lei era stata abbandonata dai suoi genitori, gente nobilissima ed

illustrissima, perché frutto d’un amore colpevole, e la marchesa l’aveva raccolta,

allevata ed educata?

Altre supposizioni le attraversavano la mente, e lei le accettava o le rifiutava

secondo il suo capriccio. Si commoveva su se stessa, internamente felice ed

anche triste, soddisfatta principalmente di essere diventata come un’eroina da

romanzo, che avrebbe dovuto assumere e mostrare un atteggiamento nobile e

degno della sua parte. E pensava a questa parte che avrebbe dovuto assumersi,

secondo gli eventi immaginati; la intravedeva vagamente, somigliava a quella d’un

personaggio di Scribe o della Sand, era un misto di devozione, di fierezza, di

abnegazione, di grandezza d’animo, di affetto e di belle parole. La sua mobile

natura quasi quasi si rallegrava di questa novità.

Era restata fino a sera a pensare su quel che dovesse fare e qual sistema

avrebbe usato per strappare la verità alla marchesa.

Quando fu scesa la notte, favorevole alle situazioni tragiche, finalmente ella

aveva escogitato un’astuzia semplice e sottile per ottenere quel che voleva: ossia

di dire bruscamente alla mamma che Servigny l’aveva chiesta in sposa.

A questa notizia certamente la signora Obardi, sorpresa, si sarebbe fatta

scappare una parola o un grido che avrebbero portato la luce nella mente della

figliola.

Così Yvette aveva messo in opera il suo progetto.

Si aspettava un’esplosione di stupore, un’espansione d’amore, confidenze tra

gesti e lacrime.

Ed ecco invece che sua madre, senza né stupirsi né disperarsi, era parsa

seccata e basta; e dal tono imbarazzato, scontento ed inquieto con cui le aveva

risposto, la giovane, risvegliatesi subito in lei sottigliezza e furberia femminili,

aveva capito che non bisognava insistere, che il mistero era di tutt’altra natura,

più difficile da sapere, tanto che avrebbe dovuto cercare d’indovinarlo da sola, e

se n’era tornata in camera sua, col cuore stretto, la disperazione nell’anima,

schiacciata dal timore d’una vera disgrazia, senza neanche sapere per qual

motivo si sentisse tanto agitata. E s’era messa a piangere, appoggiata alla

finestra.

Pianse per parecchio tempo, senza più pensare a nulla, senza cercare di

scoprir null’altro; a poco a poco, mentre l’invadeva la stanchezza, chiuse gli occhi.

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Si assopiva per qualche minuto, in preda al sonno stanco delle persone sfinite

che non hanno la forza di spogliarsi e di mettersi a letto; a quel sonno pesante,

interrotto da bruschi risvegli quando la testa scivola tra le mani.

Andò a letto solamente alle prime luci dell’alba, quando il freddo del mattino

la costrinse a levarsi dalla finestra.

Nei due giorni che seguirono ella mantenne un atteggiamento riservato e

malinconico. Intanto un lavorio di riflessione, rapido e continuo, si compiva nella

sua mente: imparava a spiegare, a indovinare, a ragionare. Una luce, ancora

vaga, sembrava che illuminasse in un modo nuovo persone e cose intorno a lei; e

sospettava di tutti e di tutto quel che aveva creduto, di sua madre perfino. In quei

due giorni fece tutte le supposizioni possibili, esaminò tutte le possibilità, si tuffò

nelle decisioni più estreme, repentinamente, com’era nella sua natura mutevole e

priva di equilibrio. Il mercoledì formò un piano, un modo di comportarsi e un

sistema di spionaggio. Il giovedì mattina si alzò, decisa ad essere più astuta d’un

poliziotto, ed in guerra armata contro tutti.

Decise anche di adottare come motto le parole: «Io, sola», e perse un’ora a

pensare in qual modo dovessero essere disposte per fare un bell’effetto, incise

attorno alle sue cifre, sulla sua carta da lettere.

Saval e Servigny arrivarono alle dieci.

La giovane porse la mano con riservatezza, senz’alcun imbarazzo, e con tono

familiare e serio disse:

- Buongiorno, Muschietto, come va?

- Buongiorno, signorina, non c’è male, e voi?

La spiava.

«Che commedia vorrà recitarmi?», diceva a se stesso.

La marchesa prese a braccetto Saval, lui Yvette, e cominciarono a passeggiare

intorno al prato, apparendo e sparendo continuamente dietro cespugli e gruppetti

d’alberi.

Yvette camminava con aria seria e pensosa, guardando la sabbia del viale,

sembrava ascoltare a malapena quel che le diceva il suo compagno, e non gli

rispondeva affatto.

Ad un tratto gli chiese:

- Mi siete davvero amico, Muschietto?

- Perbacco, signorina.

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- Ma davvero davvero, proprio davvero?

- Tutto vostro, signorina, corpo e anima.

- Fino al punto di non dirmi una bugia, nemmeno una volta sola?

- Anche due volte, se è necessario.

- Fino al punto di dirmi la verità, tutta la sporca verità?

- Sì, signorina.

- Allora, ditemi che cosa pensate, sul serio, del principe Kravalov?...

- Ah... - Vedete che già vi preparate a dirmi una bugia?...

- No, no: sto cercando le parole, le parole appropriate. Mio Dio, il principe

Kravalov è un russo, un vero russo che parla russo ed è nato in Russia, che forse

ha avuto un passaporto per venire in Francia, e che ha di falso soltanto il nome e

il titolo.

- Volete dire che sarebbe...

Servigny dapprima esitò, poi si decise:

- Un avventuriero, signorina...

- Grazie. E il cavalier Valreali non varrà più di lui, vero?

- L’avete detto.

- E il signor di Belvigne?

- Quanto a questo è un’altra cosa È un uomo del mondo... di provincia,

onorabile... fino a un certo punto... soltanto un po’ troppo mal ridotto... per

essersela spassata troppo...

- E voi?

- Io, - rispose Servigny senza esitare, - sono quello che si chiama un gaudente,

un giovane di buona famiglia che aveva intelligenza e l’ha sciupata a dire

spiritosaggini, che aveva buona salute e l’ha persa gozzovigliando, che valeva

qualcosa, forse, e si è disperso nel non far nulla. Mi restano un patrimonio, una

certa pratica della vita, una completa mancanza di pregiudizi, molto disprezzo per

gli uomini, comprese le donne, un senso profondissimo dell’inutilità delle mie

azioni, ed una gran tolleranza per la furfanteria generale. Ogni tanto sono ancora

sincero, come vedete, ed anche capace di affetto, come potrete vedere. Con questi

difetti e queste qualità mi pongo ai vostri ordini, signorina, moralmente e

fisicamente, perché possiate disporre di me a vostro piacimento. Ecco.

Yvette non rideva. Stava a sentire, ponderando le frasi e le intenzioni.

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- Che cosa pensate della contessa di Lammy? - chiese ancora. - Permettetemi

di non dire nulla sulle donne, - rispose Servigny con vivacità.

- Su nessuna?

- Su nessuna.

- Allora vuol dire che le giudicate molto male, tutte quante. Via, cercate un

po’: non fate nessuna eccezione?...

Servigny ridacchiò, con quell’aria insolente che aveva quasi sempre; e disse

con l’audacia brutale ch’era in lui una forza, un’arma:

- Si fa sempre eccezione per i presenti.

La giovane arrossì appena, e chiese, molto calma:

- Allora, che cosa pensate di me?

- Volete che ve lo dica? Va bene. Penso che siate una persona con molto buon

senso, molto pratica o, se preferite, con molto senso pratico, che sa confondere le

carte in tavola molto bene, prendere in giro la gente, nascondere i suoi scopi,

tendere le reti, e che sa aspettare, senza furia... gli eventi.

- È tutto? - chiese Yvette.

- Sì, è tutto.

Allora gli disse, con serietà:

- Vi farò cambiare idea, Muschietto.

E si avvicinò a sua madre, la quale stava camminando a piccoli passi, a capo

chino, con l’andatura languida di chi passeggia parlando sottovoce di cose molto

intime e dolci. Camminando disegnava con la punta dell’ombrello delle figure

sulla rena, forse lettere, e parlava senza guardare Saval, parlava lentamente ma

senza interrompersi, appoggiata al suo braccio e stretta contro di lui. Yvette fissò

lo sguardo su di lei, ed un sospetto, tanto vago che nemmeno lo formulò,

piuttosto sensazione che dubbio, le traversò la mente, come l’ombra della nuvola

sospinta dal vento sulla terra.

Suonò la campana del desinare. Questo fu silenzioso e quasi malinconico.

C’era tempesta nell’aria, come si dice. Nuvoloni immobili parevano acquattati

in fondo all’orizzonte, taciti e pesanti ma gravidi di tempesta.

Appena ebbero preso il caffè, sulla terrazza, la marchesa chiese:

- Allora, piccina, andrai oggi a fare una passeggiata col tuo amico Servigny?

Questo è proprio il tempo adatto per andare a pigliare il fresco sotto gli alberi.

Yvette le lanciò una rapida occhiata, subito distolta.

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- No, mamma, oggi non esco.

La marchesa parve contrariata. Insistette:

- Ma vai a fare una passeggiata, bambina mia, ti farà benissimo.

Allora Yvette disse con voce decisa:

- No, mamma, oggi resto in casa, e sai bene perché, te lo dissi l’altra sera...

La signora Obardi se n’era di già scordata, presa com’era dal desiderio di

restar sola con Saval. Arrossì, turbata ed inquieta per sé, non sapendo come

avrebbe fatto a restar libera un’ora o due; balbettò:

- È vero, non ci pensavo più; hai proprio ragione: chissà dove avevo la testa.

Yvette prese un lavoro di ricamo, chiamato da lei «la salute pubblica», al quale

lavorava cinque o sei volte l’anno nei giorni di calma assoluta, e si sedette su una

seggiolina vicino a sua madre, mentre i due giovani, a cavalcioni di due seggiole

pieghevoli, fumavano sigari.

Le ore trascorsero in una conversazione pigra, che si spengeva di continuo. La

marchesa, nervosissima, gettava occhiate smarrite a Saval, cercava un pretesto, il

mezzo di allontanare sua figlia. Ma capì che non ci sarebbe riuscita, e non

sapendo più quale astuzia usare, disse a Servigny:

- Mio caro duca, vi trattengo tutti e due qui, stasera. Domani andremo a

mangiare alla trattoria Fournaise, a Chatou.

Il giovane capì, sorrise, abbozzò un inchino:

- Ai vostri ordini, marchesa.

La giornata trascorse lenta, triste, sotto la minaccia del temporale.

A poco a poco giunse l’ora di cena. Il cielo pesante si riempiva di nuvole lente e

grevi; nemmeno un brivido muoveva l’aria.

Anche la cena fu silenziosa. Pareva che chissà quale imbarazzo e vago timore

rendessero muti i due uomini e le due donne.

Dopo sparecchiato, essi restarono sulla terrazza, parlando rado. Calava la

sera, soffocante. Ad un tratto l’orizzonte fu squarciato da un immenso raffio di

fuoco che illuminò con una fiamma abbagliante e livida i quattro visi già sepolti

dall’ombra. Poi un rumore lontano, sordo e debole, come il passaggio d’una

carrozza su un ponte, attraversò la terra; e parve che il calore dell’atmosfera

aumentasse, che l’aria diventasse d’un tratto più opprimente, e il silenzio della

sera più profondo.

Yvette si alzò:

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- Vado a letto; il temporale mi dà fastidio.

Tese la fronte alla marchesa, offrì la mano ai due giovani uomini e si

allontanò.

La sua camera era proprio sopra la terrazza: le foglie del grande castagno

piantato davanti alla porta si tinsero d’un chiarore verde, e Servigny stava cogli

occhi fissi su quella pallida luce tra le foglie, dove gli pareva a volte che passasse

un’ombra. Invece, la luce si spense all’improvviso. La signora Obardi mandò un

gran sospiro.

- È andata a letto, - disse.

Servigny si alzò:

- E anch’io farò altrettanto, marchesa, se lo permettete.

Baciò la mano che lei gli tendeva, e scomparve a sua volta.

La marchesa era restata sola con Saval, nella notte.

Subito gli si gettò tra le braccia, lo abbracciò, lo strinse. Benché lui tentasse

d’impedirglielo, gli s’inginocchiò davanti mormorando:

- Voglio guardarti alla luce dei lampi.

Yvette, dopo avere spento la candela, era tornata sul balcone, scalza,

scivolando come un’ombra, e stava ascoltando, morsa da un sospetto doloroso e

confuso.

Non riusciva a vedere perché stava proprio sopra a loro, sul tetto della

terrazza. Udiva soltanto un rumor di voci; e il cuore le batteva così forte che le

empiva le orecchie di fracasso. Una finestra si chiuse, sopra di lei: voleva dire che

Servigny era salito, che sua madre era sola con quell’altro.

Un altro lampo spaccò in due il cielo e le fece sorgere davanti, in un bagliore

violento e sinistro, il paesaggio che conosceva: vide il gran fiume, color del piombo

fuso, simile ai fiumi dei paesi di fantasia. Nello stesso tempo una voce, di sotto,

disse: - Ti amo!

E non sentì più nulla. Uno strano brivido le aveva traversato il corpo, mentre

la sua mente era sperduta in un orrendo turbamento.

Un silenzio pesante, infinito, che pareva il silenzio dell’eternità, gravava sul

mondo. Yvette non riusciva più a respirare, oppressa da qualcosa di sconosciuto

e di tremendo. Un altro lampo infiammò lo spazio, per un attimo illuminò

l’orizzonte, fu seguito quasi subito da un altro, e da altri ancora.

La voce che già aveva sentito, ripeteva, più forte:

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- Quanto ti amo! quanto ti amo!

Yvette la riconosceva bene quella voce: era la voce di sua madre.

Un gocciolone d’acqua tiepida le cadde sulla fronte, e un movimento

impercettibile corse tra le foglie, il fremito della pioggia che comincia.

Poi, di lontano, corse un rumore confuso, simile al rumore del vento fra i rami:

era l’acquazzone pesante che si rovesciava a torrenti sulla terra, sul fiume, sugli

alberi. In pochi istanti l’acqua scorse intorno a lei, la coprì, la schizzò, la bagnò

tutta. La fanciulla non si muoveva, pensando soltanto a quel che aveva udito

sulla terrazza.

Sentì che si alzavano, e salivano alle loro camere. Sentì chiudersi delle porte,

dentro la casa.

La giovane, obbedendo ad un irresistibile desiderio di sapere, che la

confondeva e la torturava, si slanciò per la scala, aprì pian piano il portone, e,

traversando il prato sotto l’acquazzone furioso, corse a nascondersi in un

cespuglio, per guardare le finestre.

Ce n’era soltanto una illuminata, quella di sua madre. Due ombre apparvero

d’un tratto nel rettangolo luminoso, l’una accanto all’altra: poi si avvicinarono e

divennero un’ombra sola. Un altro lampo proiettò sulla facciata un rapidissimo ed

abbagliante schizzo di luce, ed ella poté vederli baciarsi, con le braccia strette

attorno al collo.

Smarrita, senza pensarci, senza sapere quel che facesse, Yvette gridò con

tutta la sua forza, con voce acutissima: - Mamma! - con lo stesso tono con cui si

avverte qualcuno d’un mortale pericolo.

Il suo richiamo disperato si perse nello sciacquio della pioggia, eppure la

coppia si separò, con un atteggiamento inquieto. Una delle ombre scomparve,

mentre l’altra cercava di scrutare nelle tenebre del giardino.

Temendo d’essere sorpresa, d’imbattersi in sua madre, Yvette si slanciò verso

la casa, risalì a precipizio la scala lasciando dietro di sé una traccia gocciolante

da uno scalino all’altro, e si rinchiuse in camera sua, decisa a non aprire a

nessuno.

Senza levarsi le vesti grondanti, appiccicate alla pelle, cadde in ginocchio,

giunse le mani, implorando, nella sua disperazione, una protezione sovrumana, il

misterioso aiuto del cielo, il soccorso che si chiede nelle ore tristi e disperate.

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I fulmini gettavano in continuazione nella camera il loro livido baleno, e Yvette

si poteva vedere improvvisamente nello specchio dell’armadio, coi capelli sciolti e

fradici, così strana che non si riconosceva nemmeno.

Rimase così per tanto tempo che il temporale si allontanò senza che lei se ne

accorgesse. La pioggia smise di cadere, un chiarore invase il cielo ancora pieno di

nuvole, e una frescura tiepida, odorosa, deliziosa, di erbe e di foglie bagnate,

entrò dalla finestra aperta.

Yvette si alzò, si tolse le vesti mosce e ghiacce, senza nemmeno pensare a quel

che faceva, e si mise a letto. Poi restò cogli occhi fissi sul giorno crescente; poi

pianse, poi si mise a pensare.

Sua madre, un amante! Che vergogna! Ma aveva letto tanti libri in cui donne,

e perfino madri, si abbandonavano allo stesso modo e tornavano all’onore nelle

pagine finali, che non si stupiva gran che di trovarsi coinvolta in un dramma

tanto somigliante ai drammi che aveva letto. La primitiva violenza del dispiacere

che aveva provato, il crudele sconvolgimento della sorpresa, già si attenuavano

un poco nel ricordo confuso di analoghe situazioni. Il suo pensiero aveva tanto

vagabondato tra avventure tragiche e poeticamente svolte dai romanzieri, che

quell’orrenda scoperta le cominciava ad apparire come il seguito naturale d’un

romanzo d’appendice incominciato il giorno prima.

Disse a se stessa: «Salverò mia madre».

Quasi rasserenata da questa decisione da eroina, ella si sentì forte, cresciuta,

disposta improvvisamente al sacrificio ed alla lotta. Pensò ai mezzi che avrebbe

dovuto usare: soltanto uno le parve buono, connesso con la sua romanzesca

natura. E, come l’attore prova la scena che reciterà, preparò il colloquio che

doveva avere con la marchesa.

Il sole s’era alzato. I servitori giravano per la casa. Venne la cameriera con la

cioccolata; Yvette le fece posare il vassoio sulla tavola e disse:

- Dite alla mamma che mi sento male, che resterò a letto fino a quando quei

signori saranno andati via, che stanotte non ho chiuso occhio, che prego di non

essere disturbata perché voglio cercar di riposarmi.

La cameriera, sorpresa, guardava le vesti fradicie e buttate sul tappeto come

stracci.

- La signorina è uscita? - chiese

- Sì, ho fatto una passeggiata sotto la pioggia, per rinfrescarmi.

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La donna raccolse la gonnella, le calze, le scarpe fangose e se ne andò

portando su un braccio, con precauzione piena di disgusto, quei panni zuppi,

come se fossero stati quelli d’un annegato.

Yvette aspettò, certa che sua madre sarebbe venuta.

La marchesa entrò, subito balzata dal letto alle prime parole della cameriera,

essendo rimasta nel dubbio dopo quel grido di: «Mamma!» udito nell’ombra.

- Che cos’hai? - le chiese.

Yvette la guardo, balbettò:

- Ho... ho...

Presa da un’improvvisa e tremenda commozione la giovane ansimava e pareva

che soffocasse.

Stupita, la marchesa domandò un’altra volta:

- Via, che cos’hai?

Allora, scordando i progetti e le frasi preparate, Yvette si nascose il viso tra le

mani, balbettando:

- Oh! mamma, mamma!

La signora Obardi stava immobile davanti al letto, troppo agitata per capir

bene, ma indovinando quasi tutto, con quel fine istinto che costituiva la sua

forza.

Siccome Yvette non poteva parlare, strozzata dalle lacrime, sua madre,

innervosita, sentendo avvicinarsi la temuta spiegazione, le chiese:

- Insomma, vuoi dirmi che ti piglia?

Yvette appena poté dire:

- Sta... stanotte ti ho visto... alla finestra...

Pallidissima la marchesa disse:

- E allora?

La figlia ripeté, seguitando a singhiozzare:

- Oh, mamma! mamma!

Nella signora Obardi il timore e l’imbarazzo si stavano trasformando in collera;

scrollò le spalle e si voltò per andarsene.

- Davvero credo che tu sia diventata pazza. Quando avrai finito me lo

manderai a dire.

Ma la giovane disse, d’un tratto, levando dalle mani il viso grondante di

lacrime:

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- No! Stammi a sentire!... Devo parlarti... Mi devi promettere... Partiremo tutte

e due, lontano, in qualche posto di campagna, vivremo come contadine, e

nessuno saprà quello che sarà stato di noi... Di’, mamma, vuoi? ti prego, ti

supplico, vuoi?

Sbalordita, la marchesa era restata in mezzo alla camera. Nelle sue vene

scorreva sangue popolare, sangue irascibile. Una sorta di vergogna e di materno

pudore si mischiavano ad un vago sentimento di paura ed alla collera della donna

passionale che vede il suo amore minacciato; ella fremeva, pronta a chiedere

perdono come a fare qualche violenza.

- Non ti capisco... - disse.

- Mamma, ti ho visto... - seguitò Yvette. - Ti ho visto... stanotte. Non bisogna

più... se sapessi... partiremo tutte e due... ti vorrò tanto bene che ti scorderai di

tutto...

La signora Obardi disse con voce tremante:

- Stammi a sentire, figliola, ci sono cose che ancora non puoi capire... Non

dimenticare... non dimenticare... che ti proibisco di parlare mai più... di simili

cose...

Allora la giovane, assumendo improvvisamente la parte del salvatore che s’era

imposta, disse:

- No, mamma, non sono più una bambina e ho il diritto di sapere. So che in

casa nostra viene gente malfamata, avventurieri, so che per questo motivo

nessuno ci considera; e so anche delle altre cose. Insomma... non bisogna più:

non voglio. Partiremo; venderai i gioielli; se sarà necessario lavoreremo e vivremo

come due donne oneste in qualche posto, molto lontano. E se troverò da

sposarmi, tanto meglio...

La madre la guardava coi suoi occhi neri pieni d’irritazione. Le rispose:

- Sei matta... Fammi il piacere di alzarti e di venir giù a mangiare insieme a

tutti...

- No, mamma. C’è una persona che non voglio più rivedere, mi capisci? Voglio

che se ne vada, o me ne andrò io. Dovrai scegliere fra lui e me.

S’era messa a sedere sul letto, aveva alzato la voce, parlando come sul

palcoscenico, finalmente entrata nel dramma che aveva sognato, quasi

dimenticandosi il suo dolore per ricordarsi soltanto della sua missione.

Piena di stupore la marchesa ripeté:

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- Ma sei matta... - non sapendo che altro dire.

- No, mamma, quell’uomo se ne andrà di casa, o me ne andrò io; non cederò.

- E dove andrai? che farai?

- Non lo so; non importa... Voglio che siamo due donne oneste.

La ripetizione di quella parola: «donne oneste» suscitò nella marchesa un

furore di prostituta; ella gridò:

- Stai zitta! Non ti permetto di parlarmi a questo modo! Io valgo quanto

un’altra, capisci? È vero, sono una cortigiana, e ne sono orgogliosa; le donne

oneste non valgono quanto me!...

Yvette la guardava atterrita; balbettò:

- Oh, mamma!...

La marchesa s’era esaltata, eccitata:

- Sì, sì! sono una cortigiana! E allora? Se non lo fossi, tu a quest’ora saresti

una serva, come lo sono stata io, andresti a giornata per un franco e cinquanta,

dovresti lavare i piatti e la tua padrona ti manderebbe dal macellaio e, sentimi

bene, ti manderebbe via se tu perdessi tempo, mentre ora tu non fai nulla tutto il

giorno proprio perché io sono una cortigiana. Ecco. Quando sei soltanto una

serva, una povera ragazza con cinquanta franchi da parte, devi arrangiarti se non

vuoi vivere sempre da morta di fame; e per le donne non c’è da scegliere, capisci,

quando fanno le serve! Noi non possiamo far soldi coi nostri stipendi o giocando

in borsa: abbiamo soltanto il nostro corpo, il nostro corpo...

Si batteva il petto come il penitente che si stia confessando e, rossa ed

esaltata, andava verso il letto:

- Quando sei una bella ragazza devi vivere con la tua bellezza, oppure patire la

fame per tutta la vita... tutta la vita... Non c’è scelta.

D’un tratto ritornò al primo argomento:

- Come se non lo facessero anche le donne oneste! Sono delle schifose, capisci,

perché nessuno ce le obbliga. Loro hanno soldi, comodità e divertimenti, e si

pigliano gli uomini per vizio. Sono loro che sono schifose...

Stava vicino al letto di Yvette, che aveva voglia di chiamare aiuto, di scappare,

e piangeva forte come un bambino che sia stato castigato.

La marchesa tacque, guardò la sua figliola, e vedendola fuor di sé dalla

disperazione si sentì così piena di dolore, di rimorsi, di compassione e d’affetto,

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che si buttò sul letto spalancando le braccia e cominciò a singhiozzare,

balbettando:

- Piccina mia, piccina mia, se sapessi quanto mi dispiace...

E piansero tutte e due, a lungo.

Poi la marchesa, nella quale la disperazione non durava tanto, si tirò su,

piano piano, e disse sottovoce:

- Allora, che vuoi farci, così stanno le cose, e io non ci posso far nulla. Bisogna

pigliare la vita come viene.

Yvette seguitava a piangere. Il colpo per lei era stato troppo forte e troppo

inaspettato, perché potesse pensare, e riaversi.

Sua madre continuò:

- Via, alzati e vieni a mangiare, così nessuno si accorgerà di nulla.

La ragazza faceva segno di no col capo, non riuscendo a parlare; finalmente

poté dire con voce lenta, colma di singhiozzi:

- No, mamma, hai sentito quel che ti ho detto; non cambierò idea. Non uscirò

di camera prima che se ne siano andati. Non voglio più vedere gente di quella

razza, mai, mai più. Se tornano, allora... non mi vedrai più...

La marchesa s’era asciugata gli occhi, e stanca di tante commozioni mormorò:

- Via, pensaci, non far la bambina...

E, dopo un momento di riflessione:

- Va bene, sarà meglio che per stamattina ti riposi. Ti verrò a trovare

dopopranzo.

La baciò sulla fronte e uscì per andarsi a vestire, già calma.

Appena sua madre fu uscita Yvette si alzò, andò a mettere il chiavistello per

restarsene veramente sola, e poi cominciò a pensare.

Verso le undici la cameriera bussò e chiese attraverso l’uscio:

- La signora marchesa fa chiedere alla signorina se ha bisogno di nulla, e quel

che vuole per desinare.

- Non ho fame, - rispose Yvette. - E prego di non essere disturbata.

Rimase a letto come se fosse stata malata per davvero.

Verso le tre sentì bussare di nuovo.

- Chi è? - chiese lei.

Rispose la voce di sua madre:

- Sono io, piccina, vengo a vedere come stai.

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Yvette esitò. Che fare? Aprì, e tornò a letto.

La marchesa s’avvicinò, e parlando sottovoce come se fosse stata vicino ad

una convalescente, disse:

- Allora, stai meglio? Non vuoi mangiare nemmeno un uovo?

- No, grazie, non voglio nulla.

La signora Obardi si sedette accanto al letto. Stettero così, senza dir nulla,

finché la marchesa, nel vedere che la sua figliola seguitava a stare immobile, con

le mani inerti stese sulle lenzuola, le chiese:

- Non ti alzi?

Yvette rispose:

- Sì, mamma, subito.

Ed aggiunse con tono serio, parlando lentamente:

- Ho pensato a lungo, mamma, e ho deciso. Stammi a sentire: il passato è

passato, quindi lasciamo andare. Ma l’avvenire dovrà essere diverso, altrimenti so

già quello che dovrò fare. E non parliamone più.

La marchesa cominciò a spazientirsi, perché credeva che la spiegazione

dovesse essere finita. Era troppo. Quella stupidona della sua figliola certe cose

avrebbe dovuto saperle già da tempo. Pure, non rispose nulla, e ripeté:

- Sicché, ti alzi?

- Sì, sono pronta.

La mamma le fece da cameriera, le porse calze, busto, gonnelle; poi

l’abbracciò:

- Non vuoi fare un giretto, prima di cena?

- Sì, volentieri, mamma.

Andarono a fare una passeggiata lungo la riva, parlando poco, e di nonnulla.

IV

Il giorno dopo, di mattinata, Yvette se n’andò sola soletta a sedersi nel luogo

dove Servigny le aveva letto la storia delle formiche.

«Non me ne andrò di qui, - aveva detto tra sé, - finché non avrò preso una

decisione».

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Ai suoi piedi l’acqua, la snella acqua del braccio vivo, scorreva, piena di

mulinelli, di grandi bolle che si succedevano in silenziosa fuga, tra profondi

volteggi.

Già ella aveva considerato tutti gli aspetti della situazione, tutti i modi

d’uscirne.

Che avrebbe fatto se la mamma non avesse osservato scrupolosamente le

condizioni che le aveva imposto, se non avesse rinunciato alla sua vita, al suo

mondo, a tutto, per andare a nascondersi con lei in un paese lontano?

Sarebbe potuta andar sola... scappare; ma dove, come, di che avrebbe

vissuto?

Lavorare? In che cosa? Ed a chi rivolgersi per trovare lavoro? La vita umile e

triste delle operaie, delle ragazze del popolo, le pareva vergognosa, indegna di lei.

Pensò di diventare istitutrice, come accade nei romanzi, ed essere amata e

sposata dal padroncino. Ma era necessario che lei fosse di gran buona razza, per

poter dire, quando il padre furente le rimproverasse di avergli tolto l’amore del

suo figliolo, per poter dire con voce fiera:

- Mi chiamo Yvette Obardi.

Non poteva farlo. Inoltre sarebbe stato un mezzo comune, logoro.

Il convento non era migliore; e lei non si sentiva nessuna vocazione per la vita

religiosa; la sua pietà era intermittente e passeggera. Nessuno avrebbe potuto

salvarla, sposandola, nella sua situazione. Non avrebbe potuto accettare alcun

aiuto da un uomo; non c’era via d’uscita, nessun rimedio definitivo!

Lei voleva qualcosa di energico, che fosse davvero grande, forte, che potesse

servire d’esempio; sicché decise di morire.

Decise tutto d’un tratto, con tranquillità, come se si fosse trattato d’un

viaggio; senza pensarci, senza vedere la morte e capire che essa è la fine senza

ricominciamento, la partenza senza ritorno, l’eterno addio alla terra e alla vita.

Si trovò immediatamente disposta all’estrema decisione, con la leggerezza

delle anime giovani ed esaltate.

Pensò ai mezzi da usare; ma tutti le parvero di esecuzione difficile e rischiosa,

ed in più richiedevano un’azione violenta che le ripugnava.

Scartò subito il pugnale e la pistola, che possono soltanto ferire, storpiare o

sfigurare ed esigono una mano pratica e ferma; la corda che è troppo comune, il

suicidio dei poveri, ridicolo e brutto; l’acqua perché sapeva nuotare. Restava il

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veleno: ma quale? Quasi tutti fanno soffrire, provocano il vomito; e lei non voleva

né soffrire né vomitare. Pensò al cloroformio, ricordandosi d’avere letto nella

cronaca dei giornali come aveva fatto una ragazza ad asfissiarsi con esso.

Subito si sentì fiera della decisione, provò un intimo orgoglio, una sensazione

di fierezza. Avrebbero visto che cos’era lei, e quanto valeva.

Tornò a Bougival, andò dal farmacista, e gli chiese un po’ di cloroformio

perché le faceva male un dente. Il farmacista la conosceva, e gliene diede una

boccettina.

Poi andò a piedi a Croissy, e ivi si procurò un’altra boccettina del veleno. Ne

ebbe un’altra a Chatou, una quarta a Rueil, e tornò a casa per il desinare, in

ritardo.

Dopo quella camminata aveva parecchia fame, e mangiò molto, col piacere di

chi è stato stimolato dall’esercizio.

Sua madre, felice di vederla così affamata, si tranquillizzò; mentre si alzavano

da tavola le disse:

- I nostri amici verranno qui, domenica. Ho invitato il principe, il cavaliere e il

signor di Belvigne.

Yvette impallidì ma non rispose. Quasi subito uscì, andò alla stazione e prese

un biglietto per Parigi.

Stette tutto il pomeriggio a girare da una farmacia all’altra, comprando in

ciascuna qualche goccia di cloroformio.

La sera tornò a casa con le tasche piene di boccettine.

Il giorno dopo ricominciò la manovra, ed essendo entrata casualmente da un

droghiere, poté avere, tutto in una volta, un quarto di litro.

Il sabato non uscì. Era una giornata nuvolosa e tiepida che ella trascorse tutta

sulla terrazza, adagiata su una poltrona di vimini.

Non pensava a nulla, decisa e tranquilla.

Il giorno dopo indossò un vestito azzurro che le stava benissimo: voleva essere

bella.

Guardandosi nello specchio, disse improvvisamente fra sé: «Domani sarò

morta». Sentì uno strano brivido attraversarle il corpo: morta! Non parlerò più,

non penserò più, nessuno mi vedrà più. E anch’io non vedrò più nulla!

Si guardava il viso con attenzione, come se non l’avesse mai visto, scrutando

specialmente gli occhi, scoprendo mille particolari nuovi, un carattere segreto

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nella fisionomia, di cui non s’era accorta, ed era stupita di vedersi, come se si

trovasse di faccia a una persona estranea, una nuova amica.

Diceva fra sé:

«Sono io, sì, sono proprio io in questo specchio. Com’è strano guardarsi...

Senza lo specchio non potremmo conoscerci. Tutti gli altri sarebbero come noi,

ma noi non lo saremmo...».

Si prese le lunghe trecce, facendosele scorrere sul petto, e con la coda

dell’occhio seguiva i suoi gesti, le sue pose, i suoi movimenti.

«Come son bella!», pensava. «E domani sarò morta, là, su quel letto...»

Guardò il letto e le parve di vedercisi stesa, bianca come le lenzuola.

«Morta. Tra otto giorni questo viso, questi occhi, queste gote saranno un nero

marciume, rinchiusi in una cassa, in mezzo alla terra. »

Si sentì stringere il cuore da una tremenda angoscia.

Il sole limpido pioveva sulla campagna, la dolce aria mattutina entrava dalla

finestra.

Si sedette pensando sempre a questo: «Morta...». Era come se il mondo stesse

per scomparire; invece no: non sarebbe cambiato nulla nel mondo, nemmeno in

quella camera. Sì, perché la sua camera sarebbe restata uguale, con quel letto,

quelle seggiole, quella toletta; e lei sarebbe partita per sempre, e nessuno sarebbe

triste. Forse, sua madre...

Avrebbero detto: «Quant’era bella, povera Yvette!»; e basta. Si guardò ancora la

mano appoggiata al bracciolo della poltrona, e pensò nuovamente alla

putrefazione, al brulichio nero e fetente che sarebbe diventata la sua carne. Provò

un altro brivido di orrore, e non riusciva a capire bene come fosse possibile che lei

sparisse, e non sparisse insieme anche la terra: tanto si sentiva parte di tutto,

della campagna, dell’aria, del sole, della vita.

Sentì uno scoppio di risa venire dal giardino, un rumor di voci, richiami,

l’allegria vivace della scampagnata all’inizio; riconobbe la voce sonora del signor

di Belvigne, che cantava:

Affacciati alla finestra, amore mio;

son qui che attendo, pieno di desio.

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Soprappensiero ella si alzò e si affacciò. Tutti applaudirono. C’erano tutti e

cinque, e altri due signori che lei non conosceva.

Si tirò indietro di scatto, ferita dal pensiero che tutti quegli uomini venivano a

divertirsi con sua madre, una cortigiana.

La campanella suonò per il desinare.

«Gli farò vedere come si muore», pensò la giovane.

E scese con passo fermo, con un po’ della decisione che dovevano avere i

martiri cristiani allorché entravano nel circo dove li aspettavano i leoni.

Strinse la mano a tutti, sorridendo affabilmente, ma con una certa alterezza.

- Siete meno musona, oggi, signorina? - le chiese Servigny.

- Oggi voglio fare pazzie, - gli rispose con tono severo e strano: - sono del mio

umore di Parigi; state attento.

E, voltandosi verso Belvigne:

- Voi sarete il mio patito, caro Malvasia. Dopo mangiato vi porto tutti alla festa

di Marly.

Difatti a Marly c’era festa. Le furono presentati i due nuovi, il conte di Tamine

ed il marchese di Briquetot.

A tavola ella quasi non parlò, radunando la sua volontà per l’allegria del

pomeriggio, perché nessuno potesse capire, perché nessuno si stupisse prima del

tempo, perché dopo potessero dire: - Chi l’avrebbe immaginato? Pareva tanto

felice, e contenta... Che succede mai in quelle testoline...

Si sforzava di non pensare alla sera, all’ora stabilita, allorché tutti sarebbero

stati sulla terrazza.

Bevve più vino che poté per eccitarsi, e due bicchierini di cognac; alzandosi da

tavola era tutta rossa, la testa le girava un poco, le pareva d’avere caldo nel corpo

e nel cervello, ed era risoluta, decisa a tutto.

- Avanti, andiamo! - gridò.

A braccetto con Belvigne regolò il passo degli altri.

- Allora, voi sarete il mio battaglione! Servigny, siete nominato sergente;

resterete fuori delle file, a destra, e farete marciare davanti a tutti la guardia

straniera, i due Esotici, il principe e il cavaliere, e, dietro, le due nuove reclute

che sono venute oggi sotto le armi. Avanti!

S’incamminarono. Servigny imitava la tromba, e i due nuovi fingevano di

suonare il tamburo. Belvigne, confuso, disse sottovoce:

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- Signorina Yvette, siate buona, vi comprometterete...

- Casomai io comprometterò voi, caro Uvasecca. Per quel che mi riguarda non

me ne importa un fico. Domani non sarà più nulla. Peggio per voi, che siete

voluto venir fuori con una ragazzaccia come me...

Attraversarono Bougival, tra lo stupore dei passanti. Tutti si voltavano; la

gente s’affacciava sugli usci; i viaggiatori del trenino che va da Rueil a Marly

fecero l’abbaione; gli uomini, ritti sulle piattaforme, gridavano:

- Nell’acqua! nell’acqua!

Yvette andava con passo militaresco, reggendo per il braccio Belvigne, come se

fosse un suo prigioniero. Non rideva, il suo viso era pallido e serio, sinistramente

immobile. Di tanto in tanto Servigny smetteva di fare il verso della tromba per

lanciare dei comandi; il principe ed il cavaliere si divertivano molto e ritenevano

che fosse una cosa di gusto ed originale. I due giovanotti suonavano

ininterrottamente il tamburo.

Arrivarono sul luogo della festa, scatenando un parapiglia. Delle ragazze

applaudirono, dei giovanotti sghignazzarono; un omaccione, che portava la moglie

a spasso, disse con voce piena d’invidia:

- Quella lì è gente che non s’annoia...

Yvette vide una giostra coi cavalli di legno e costrinse Belvigne a montare

accanto a lei, mentre il resto della truppa balzava sulle bestie volteggianti.

Quando il giro fu finito ella rifiutò di scendere costringendo la sua scorta a

restare per altri cinque giri, con gran divertimento del pubblico che li pigliava in

giro. Quando scesero, Belvigne, livido, aveva la nausea.

Poi cominciarono a girare in mezzo ai baracconi. Yvette obbligò i suoi uomini a

pesarsi, in mezzo a un crocchio di spettatori; li costrinse a comprare dei ridicoli

giocattoli, e a portarli. Il principe e il cavaliere cominciarono a pensare che lo

scherzo andasse troppo oltre; invece Servigny e i due tamburini seguitavano

imperterriti.

Finalmente arrivarono in fondo al paese. Allora Yvette lanciò ai suoi seguaci

un’occhiata sorniona e cattiva; le era venuto uno strano capriccio e li fece

allineare sulla sponda destra, che domina il fiume.

- Chi mi vuole più bene si butti nell’acqua, - disse.

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Nessuno si mosse. Dietro a loro s’era addensato un gruppetto di persone;

alcune donne, col grembiule bianco, li guardavano stupite; due marmittoni in

pantaloni rossi ridevano come scemi.

- Allora, - ripeté Yvette; - non c’è nessuno tra voi che sia capace di buttarsi

nell’acqua perché io lo voglio?

Servigny mormorò:

- Dopotutto...

E, ritto, si buttò nell’acqua.

Gli schizzi arrivarono fino ai piedi di Yvette. Un mormorio di stupore e di

allegria si levò dalla folla.

La giovane raccattò un pezzetto di legno e lo buttò nell’acqua gridando:

- Portamelo indietro!

Servigny si lanciò a nuoto, prese con la bocca, come un cane, il legno

galleggiante, tornò indietro, risalì la sponda e mise un ginocchio in terra per

presentarlo a Yvette.

- Bravo! - gli disse ella prendendo il legno; e gli carezzò amichevolmente i

capelli.

Una donnona, indignata, esclamò:

- Ma guarda che roba!

Un altro disse:

- Che razza di divertimenti...

Un uomo disse:

- Io, certo, non mi sarei bagnato per una ragazza.

Yvette riprese il braccio di Belvigne, gridando con violenza a costui:

- Siete un buonannulla, caro mio; non sapete quel che avete perso.

Tornarono indietro. La ragazza guardava i passanti con aria irritata:

- Mi paiono tutti scemi, - disse.

E, levando gli occhi sul viso del suo compagno:

- Anche voi, del resto, - aggiunse.

Belvigne s’inchinò. Volgendosi, la giovane s’accorse che il principe e il

cavaliere erano spariti. Servigny, serio e gocciolante, non suonava più la tromba e

camminava tristemente accanto ai due giovanotti i quali, stanchi, avevano

smesso di fare il rullio del tamburo.

Yvette rise seccamente:

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- Vi siete stancati, eh? Eppure, non è divertimento, questo? Siete venuti

apposta, e io ve ne ho dato per quanto avete pagato.

Seguitò a camminare senza aggiungere altro, quando d’un tratto Belvigne

s’accorse che ella piangeva. Spaventato, le chiese:

- Che cosa avete?

- Lasciatemi stare, - mormorò lei, - non vi riguarda...

Ma Belvigne insisteva, scioccamente:

- Via, signorina, ditemi quello che avete... Vi siete dispiaciuta di qualcosa?

Yvette ripeté, spazientita:

- State zitto!

E, non resistendo alla disperata tristezza che le soffocava il cuore, scoppiò in

singhiozzi talmente violenti che non riusciva più a camminare.

S’era coperta il viso con le mani e ansimava, rantolava, spasimante, sommersa

dalla violenza della disperazione.

Belvigne restò impalato accanto a lei, capace soltanto di ripetere:

- Non capisco...

Servigny s’intromise bruscamente:

- Andiamo, signorina, torniamo a casa; non sta bene che vi vedano piangere

per la strada. Perché fate di queste sciocchezze, se poi vi rattristano?

La prese per il braccio, facendola camminare. Ma, appena furono davanti al

cancello della villa, Yvette spiccò la corsa, attraversò il giardino, salì la scala e

andò a rinchiudersi in camera.

Riapparve all’ora di cena, pallidissima, serissima. Invece tutti gli altri erano

allegri. Servigny aveva comprato in paese dei vestiti da operaio, pantaloni di

velluto, una camicia a fiori, una maglia, un camiciotto, e parlava come la gente

del popolo.

Yvette aveva fretta che finisse, sentiva che le stava per mancare il coraggio.

Subito dopo il caffè risalì in camera sua.

Udiva le voci allegre, sotto la finestra. Il cavaliere stava dicendo spiritosaggini

un po’ spinte, faceva giochi di parole grossolani e goffi, da straniero che conosce

poco bene la lingua.

In preda alla disperazione Yvette stette ad ascoltare. Servigny, brillo, imitava

l’operaio beone, e chiamava «padrona» la marchesa; a un certo punto disse a

Saval:

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- Ohé! padrone!...

Tutti scoppiarono a ridere.

Allora Yvette si decise. Prese un foglio della sua carta da lettere e scrisse:

«Bougival, domenica, ore 21.

«Muoio, per non dover diventare una mantenuta.

Yvette».

E, a mo’ di post scriptum:

«Addio, cara mamma: perdono».

Chiuse la busta, la indirizzò alla signora marchesa Obardi.

Poi trascinò la poltrona a sdraio vicino alla finestra, collocò un tavolinetto a

portata di mano e ci mise sopra il boccione del cloroformio e alcuni batuffoli di

ovatta.

Un immenso rosaio carico di fiori saliva dalla terrazza fino alla finestra:

esalava nella notte il suo profumo dolce e leggero che entrava nella camera a

ondate. Yvette lo aspirò per alcuni istanti. Nel cielo nero navigava la falce della

luna, attraversata da veli di vapore.

Yvette pensava: «Sto per morire! sto per morire!». E si sentiva mancare, col

petto gonfio di singhiozzi, schiacciato dall’ambascia. Provava il bisogno di

raccomandarsi a qualcuno, di essere salvata, amata.

Si udì la voce di Servigny; raccontava una storiella licenziosa, interrotta

continuamente da scrosci di risa. Il riso della marchesa spiccava sugli altri; ed

ella diceva:

- Ah, certe cose le sapete dire soltanto voi... ah! ah! ah!

Yvette stappò la bottiglia e versò un po’ del liquido sul cotone. Un odore

zuccherino, forte e strano, si sparse; e nell’avvicinarsi alle labbra l’ovatta ella

aspirò quell’effluvio forte e irritante che la fece tossire.

Chiudendo la bocca, cominciò ad aspirare, a bere a lunghe sorsate il vapore

mortale, chiudendo gli occhi, cercando di non pensare, di ignorare.

Sul principio le parve che il petto le si allargasse, s’ingrandisse, che la sua

anima fino a quel momento pesante e carica di dolore, divenisse leggera, sempre

più leggera, quasi che il peso che l’opprimeva si fosse alzato, alleviato, fosse

volato via.

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Sentiva che qualcosa di vivo e di piacevole le penetrava le membra, fino alle

estremità, le riempiva la carne, come una vaga ebbrezza, una dolce febbre.

S’accorse che il cotone era asciutto, stupita di non essere ancora morta; le

pareva che i suoi sensi fossero più acuti, sottili, svegli.

Udiva tutte le parole che venivan dette sulla terrazza. Il principe Kravalov

stava raccontando in qual modo aveva ucciso in duello un generale austriaco.

E molto lontano, nella campagna, ascoltava i rumori notturni: l’abbaiare

intermittente di un cane, il corto verso dei rospi l’impercettibile fremito delle

foglie.

Riprese la bottiglia, inzuppò ancora il batuffolo di ovatta, ed aspirò. Durante

alcuni istanti, non sentì più nulla; poi il lento e incantevole benessere, che già

l’aveva posseduta, la riprese.

Per due volte versò il cloroformio nel cotone, avida della sensazione fisica,

della sensazione morale, del sognante torpore nel quale la sua anima si perdeva.

Le pareva di non avere più ossa, carne, gambe, braccia. Pian piano le avevano

tolto tutto, senza che lei se ne accorgesse. Il cloroformio le aveva svuotato tutto il

corpo, lasciandole il pensiero più sveglio, più vivo, più vasto e più libero di come

lei avesse mai provato.

Si ricordava tante cose dimenticate, particolari dell’infanzia, piacevoli

nonnulla. La sua mente, improvvisamente dotata d’una sconosciuta agilità,

balzava dall’una all’altra tra le più diverse idee, correva per mille avventure,

vagabondava nel passato e si sperdeva negli eventi sperati dell’avvenire. E il

pensiero, attivo e noncurante al tempo stesso, aveva come un fascino sensuale,

ed ella, fantasticando a quel modo, provava un piacere divino.

Seguitava ad udire le voci ma non distingueva più le parole che prendevano

altri significati, facendola penetrare e sperdere in un incantamento strano e vario.

Era su una gran nave che correva lungo una bella regione fiorita. Sulla riva

c’erano delle persone, che parlavano a voce alta; e lei d’un tratto si trovava a

terra, senza sapere come: Servigny, vestito da principe, veniva a prenderla per

portarla a vedere una lotta di tori.

Le strade eran piene di gente che chiacchierava, e lei ascoltava senza stupirsi

le conversazioni, quasi che conoscesse quella gente; difatti attraverso l’ebbrezza

ella udiva ancora le risate e le voci degli amici di sua madre, sulla terrazza.

Tutto si fece vago.

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Poi ella si destò, in un torpore delizioso, e si ricordò con una certa fatica.

Dunque non era ancora morta.

Ma ora si sentiva così riposata, godeva di un tale benessere fisico e una tale

dolcezza della mente, che non aveva alcuna fretta di finire, ed avrebbe voluto che

quel delizioso assopimento durasse per sempre.

Respirava con lentezza e contemplava la luna, in mezzo agli alberi, di fronte a

lei. Era mutato qualcosa nella sua mente; non pensava più come prima: il

cloroformio le aveva ammorbidito corpo e anima, aveva placato il suo dolore, e

addormentato la sua volontà di morire.

Perché non doveva vivere? Perché non doveva essere amata? Perché non

doveva trascorrere una vita felice? Ora tutto questo le appariva possibile, facile e

sicuro; nella vita tutto era dolce, buono, piacevole. Voleva seguitare a sognare,

sicché versò dell’altra acqua di sogno sul cotone e ne aspirò l’effluvio,

allontanando di tanto in tanto il veleno dalle narici per non assorbirne troppo, per

non morire.

Guardava la luna e ci vedeva dentro un viso di donna. Ricominciò a percorrere

le strade dell’ebbrezza dell’oppio, popolate d’immagini. Quel viso si dondolava nel

cielo, poi si metteva a cantare, con una voce nota, l’Alleluia d’amore.

Era la marchesa, che s’era messa al pianoforte.

Ora Yvette aveva le ali. Stava volando nella notte, limpida e bella, sopra boschi

e fiumi. Volava con voluttà, spalancando le ali, trasportata dal vento come da una

carezza. Scivolava nell’aria che le baciava la pelle e andava tanto svelta che non

poteva più nemmeno vedere quel che c’era di sotto, ed era seduta sulla riva d’uno

stagno, e stava pescando, con la lenza in mano.

Qualcosa tirava il filo, e traendolo dall’acqua ecco una magnifica collana di

perle che tempo prima aveva desiderato. Non se ne stupiva e guardava Servigny,

apparsole accanto senza che sapesse come, anche lui con la canna in mano,

mentre tirava fuori dal fiume un cavallo di legno.

Ebbe nuovamente la sensazione di svegliarsi e sentì che di sotto la

chiamavano.

Sua madre aveva detto:

- Spengi la candela.

Chiara e buffa si levò la voce di Servigny:

- Signorina Yvette, volete spengere la candela?

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E tutti intonarono in coro.

- Signorina Yvette, volete spengere la candela?

Versò dell’altro cloroformio sul cotone, ma siccome non voleva morire lo tenne

abbastanza lontano dal viso, abbastanza da poter respirare l’aria fresca della

notte, mentre l’odore asfissiante del narcotico si spargeva per tutta la camera;

aveva capito che stavano per salire: si mise in una posa abbandonata, da

moribonda, ed aspettò.

La marchesa diceva:

- Sono un po’ impensierita. Quella sciocchina s’è addormentata lasciando il

lume sulla tavola. Manderò Clementina a spengerlo e a chiudere la finestra del

balcone che è rimasta spalancata.

Un momento dopo la cameriera bussava alla porta chiamando:

- Signorina! signorina!

Dopo una pausa seguitò:

- Signorina, la marchesa vi prega di spengere la candela e di chiudere la

finestra.

Aspettò un altro po’ e bussò con più forza, gridando:

- Signorina! signorina!

Yvette non rispondeva, e la domestica tornò giù e disse alla marchesa:

- La signorina dev’essersi addormentata, perché la porta è chiusa col

chiavistello, e non sono riuscita a svegliarla.

- Ma non possiamo lasciarla così... - mormorò la marchesa.

Dietro il consiglio di Servigny tutti si riunirono sotto la finestra della giovane

ed urlarono in coro:

- Ohé! Ohé! Ohé! signorina Yvette!

Il clamore s’innalzò nella notte tranquilla, volò sotto la luna nell’aria limpida,

si sparse sul paese addormentato; e lo sentirono svanire, simile al rumore d’un

treno che s’allontana.

Yvette non rispondeva; la marchesa disse:

- Speriamo che non le sia successo nulla; ora sono impaurita per davvero...

Servigny colse, dal grosso rosaio che cresceva sul muro, le rose rosse e i

boccioli non ancora dischiusi, e cominciò a lanciarli nella camera attraverso la

finestra.

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Al primo fiore che giunse, Yvette ebbe un soprassalto e fu sul punto di gridare.

Poi ne vennero altri, che le caddero sull’abito, sui capelli, oppure oltre la testa, a

coprire il letto.

La marchesa gridò di nuovo, con voce strozzata:

- Yvette, cara Yvette, rispondi.

Servigny disse:

- È davvero strano... voglio arrampicarmi sul balcone.

Il cavaliere s’indignò:

- Ah, no... sarebbe una parzialità... Protesto, è un sistema troppo buono, e un

momento troppo buono, per un appuntamento.

Gli altri, credendo a uno scherzo della ragazza, esclamarono:

- Protestiamo! È un trucco, preparato in anticipo. Non deve salire

La marchesa, turbata, diceva:

- Bisogna andare a vedere

Il principe disse, facendo un gesto drammatico:

- Anche lei favorisce il duca: siamo traditi.

- Giochiamo a testa e croce chi dovrà salire, - disse il cavaliere.

Trasse di tasca una moneta d’oro da cento franchi e si rivolse al principe:

- Croce, - disse.

Venne testa.

A sua volta il principe lanciò la moneta, dicendo a Saval:

- Scegliete, signore.

Saval disse:

- Testa.

Venne croce.

Il principe fece la stessa domanda a tutti gli altri, e tutti persero.

Era restato solo Servigny, il quale disse con la sua solita insolenza:

- Ah, ah: qui s’imbroglia

- Lanciatela voi stesso, caro duca.

Servigny prese la moneta e la buttò in aria gridando:

- Testa!

Venne croce.

Servigny s’inchinò, e indicando con la mano la balaustra, disse:

- A voi, caro principe.

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Questi si guardava attorno inquieto.

- Che cercate? - gli chiese il cavaliere.

- Mah... mi pare... che... una scala.

Scoppiò una gran risata. Saval venne avanti, dicendo:

- Vi aiuteremo noi.

Lo sollevò tra le sue braccia erculee.

- Afferratevi al balcone.

Il principe obbedì, Saval lo lasciò e quello rimase sospeso, agitando i piedi nel

vuoto. Servigny prese quelle gambe spaventate che cercavano un punto

d’appoggio e tirò con tutte le sue forze. Le mani del principe lasciarono la presa ed

egli cadde come un masso sulla pancia di Belvigne che s’era fatto avanti per

sostenerlo.

- Sotto a chi tocca! - disse Servigny.

Nessuno si presentò.

- Via, Belvigne, un po’ di coraggio.

- No, grazie, ci tengo alla pelle.

- Avanti, cavaliere; dovreste essere abituato alle scalate.

- Vi lascio il posto, caro duca.

- Hm, hm... nemmeno io ci tengo tanto...

Servigny scrutava la balaustra. Spiccò un salto, poggiò le mani sul balcone e a

forza di pugno si tirò su, si dondolò come un ginnasta e superò la balaustra.

Gli altri, col naso per aria, applaudivano. Ma subito Servigny ricomparve.

- Correte, correte! Yvette è svenuta!

Urlando la marchesa si slanciò per la scala.

La ragazza, sdraiata, con gli occhi chiusi, faceva la morta. La madre entrò,

sgomenta, e le si buttò addosso.

- Che cos’ha, che cos’ha, ditemi!...

Servigny raccolse dal pavimento la bottiglia del cloroformio. - S’è asfissiata, -

disse.

Poggiò l’orecchio sul seno della giovane, e aggiunse:

- Ma non è morta; la faremo tornare in sé. Avete un po’ d’ammoniaca?

La cameriera, tutta confusa, ripeteva:

- Che cosa? che cosa?

- Acqua antisterica...

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- Sissignore.

- Portatemela subito, e lasciate la porta aperta per fare un po’ di corrente.

La marchesa, in ginocchio, singhiozzava:

- Yvette, Yvette, figlia mia, figliolina mia, stammi a sentire, rispondimi, Yvette!

Oh Dio, oh Dio, che cosa le è successo?

Gli uomini spaventati si muovevano inutilmente, portando acqua,

asciugamani, bicchieri, aceto.

Uno disse: - Bisogna spogliarla!

La marchesa, fuor di sé, cercò di spogliare la figlia, ma non aveva il controllo

dei suoi gesti. Le tremavano le mani, si confondeva, gemeva: - Non posso, non

posso...

La cameriera era tornata con una bottiglia; Servigny subito la stappò e ne

versò metà del contenuto su un fazzoletto. Poi lo mise sotto il naso di Yvette, che

parve soffocare.

- Meno male, respira, - disse Servigny. - Non è nulla.

Le lavò le tempie, le gote e il collo con quel liquido dal forte odore. Poi fece

segno alla cameriera di slacciare la giovane, e quando costei fu rimasta in

gonnella e camicia, la sollevò tra le braccia e la portò sul letto, fremendo, turbato

dall’odore di quel corpo quasi nudo, dal contatto di quelle carni, dal madore dei

seni appena appena coperti, che cedevano sotto le sue labbra.

Appena Yvette fu a letto, egli si rialzò, pallidissimo.

- Ora rinviene, - disse, non è nulla.

Aveva sentito il suo respiro, continuo e regolare. Nel vedere tutti quegli uomini

che stavano con gli occhi fissi su Yvette stesa sul letto, egli trasalì, in preda ad

una irritazione gelosa, e andando verso di loro disse:

- Signori, siamo troppi in questa camera; lasciateci soli, il signor Saval ed io,

insieme alla marchesa.

Parlava con tono asciutto e autorevole. Gli altri se ne andarono subito.

La signora Obardi afferrò il suo amante, lo strinse e, col capo levato verso di

lui, gli gridò:

- Salvatela, salvatela!

Nel voltarsi, Servigny vide una lettera sulla tavola. La prese, con mossa

rapida, ne lesse l’indirizzo. Capì, e pensò: «Forse la marchesa non dovrebbe

vederla». Aprì la busta e scorse le poche righe che conteneva:

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«Muoio, per non dover diventare un mantenuta.

Yvette.

«Addio, cara mamma: perdono».

«Caspita, - pensò; - è un affar serio».

E si nascose in tasca la lettera.

Si riavvicinò al letto e gli venne in mente che forse la ragazza s’era riavuta, ma

non aveva il coraggio di farlo vedere, per vergogna, per umiliazione, per timore

delle domande.

La marchesa s’era inginocchiata e piangeva, con la testa poggiata sul piede del

letto. Disse d’un tratto:

- Un dottore! Bisogna chiamare un dottore!

Servigny, dopo avere parlottato con Saval, le disse:

- No, non ce n’è bisogno. Uscite un momento, un momento solo, e vi prometto

che quando tornerete Yvette vi abbraccerà.

Il barone prese per il braccio la signora Obardi e la trascinò fuori.

Servigny si sedette accanto al letto, prese la mano della fanciulla, e sussurrò:

- Signorina, statemi a sentire...

Lei non rispose. Si sentiva così bene, sdraiata così comodamente e dolcemente

che non si sarebbe voluta più muovere, né parlare, e avrebbe desiderato passare

la vita in quel modo. Godeva d’un infinito benessere, che mai aveva provato

l’uguale.

La tiepida aria notturna entrava a soffi leggeri e vellutati e le sfiorava

squisitamente e impercettibilmente il viso. Era una carezza, un bacio del vento, il

respiro lento e fresco d’un ventaglio fabbricato con le foglie dei boschi e le ombre

della notte, con la nebbia dei fiumi e con tutti i fiori, poiché le rose lanciate sul

suo letto e quelle che s’arrampicavano sul balcone mischiavano il loro languido

olezzo al sano aroma della brezza notturna.

Yvette beveva quell’aria così buona, a occhi chiusi, tranquilla nell’ebbrezza

dell’oppio, ancora persistente; non aveva più voglia di morire, ma una voglia forte

ed imperiosa di vivere, di essere felice, in qualunque modo, di essere amata, sì,

amata.

Servigny ripeté:

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- Signorina Yvette, statemi a sentire...

Allora lei si decise ad aprire gli occhi. Servigny, vedendola riprendersi, disse:

- Andiamo, andiamo: che sono mai queste sciocchezze?

- Povero Muschietto, - mormorò lei, - soffrivo tanto...

Servigny le strinse paternamente la mano:

- E un bel risultato avreste avuto, bello davvero! Promettetemi di non

ricominciare.

Yvette non rispose, ma fece una mossetta col capo, accentuata da un sorriso

che si sentiva più che vedersi.

Servigny trasse di tasca la lettera che aveva trovato sulla tavola.

- Devo farla vedere a vostra madre?

Yvette fece segno di no col capo.

Servigny non sapeva più che dire, gli pareva che non ci fosse via d’uscita.

Infine mormorò:

- Cara bambina, bisogna sapersi adattare alle situazioni più difficili. Capisco il

vostro dolore, e vi prometto...

- Siete buono... - balbettò Yvette.

Tacquero. Servigny fissava la giovane. Negli occhi di lei c’era come qualcosa di

tenero, di languido; d’un tratto ella sollevò le braccia come se avesse voluto

attirarlo a sé. Servigny si chinò, sentendo che lo chiamava; le loro labbra si

unirono.

Restarono così a lungo, con gli occhi chiusi. Servigny si rese conto che stava

per perdere il controllo, e si rialzò. La giovane gli sorrideva con vero affetto; con le

mani sulle spalle di lui, lo tratteneva.

- Vado a cercare vostra madre, - disse lui.

- Un momento ancora, - disse Yvette: - sto così bene...

Dopo una pausa di silenzio, ella disse sottovoce, tanto che lui poté capire a

malapena.

- Mi vorrete bene?

Servigny s’inginocchiò accanto al letto e, baciandole la mano che aveva

trattenuto fra le sue:

- Vi adoro, - disse.

Si sentivano dei passi vicino, verso la porta. Servigny balzò in piedi ed esclamò

con la sua voce solita, che pareva sempre un po’ ironica:

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- Ora potete entrare. È fatto.

La marchesa si slanciò sulla figlia con le braccia spalancate e la strinse

freneticamente bagnandole il viso di lacrime. Servigny, con l’anima in estasi, i

sensi eccitati, uscì sul balcone per respirare la freschissima aria notturna,

fischiettando:

La donna è mobile

qual piuma al vento...

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TOINE

I

Lo conoscevano entro un raggio di quaranta chilometri compare Toine, Toine il

grosso, Toine Acquavite: Antoine Mâcheblé detto Ponce, oste di Tournevent.

Aveva reso celebre quel minuscolo villaggio sprofondato in un anfratto della

valletta che scendeva al mare, misero gruppo di dieci casupole normanne cinte di

fossi e di piante.

Quelle casupole erano come rannicchiate nel fondo della forra coperta d’erbe e

di giunchi, proprio dietro la curva che aveva dato il nome al villaggio: Tournevent.

Pareva che si fossero rifugiate in quella buca, come gli uccelli che si nascondono

nei solchi, nelle giornate di burrasca, a cercar riparo contro l’impetuoso vento

marino, quel vento duro e salso che viene dall’alto mare, che consuma e scotta

come la fiamma, prosciuga e distrugge come il gelo invernale.

Tutto quanto il villaggio pareva di proprietà di Antoine Mâcheblé detto Ponce

oppure, altrettanto spesso, Toine e Toine Acquavite per via che diceva sempre:

- L’acquavite che vendo io è la meglio di Francia.

Ed eran vent’anni che dissetava il paese con la sua acquavite e i suoi ponci,

perché tutte le volte che la gente gli chiedeva: - Che si beve, compa’? - lui

rispondeva:

- Cosa vuoi bere, genero mio? Un ponce, un bel poncino che ti scalda la

pancia e ti schiarisce le idee: non c’è altro, per la salute.

Aveva l’abitudine di chiamare tutti «genero mio», benché mai avesse avuto

figlie sposate o da maritare.

Eh! lo conoscevano bene Toine Ponce, l’uomo più grosso del cantone, perfino

del circondario. La sua casetta pareva ridicolmente stretta e bassa, perché lui

potesse starci, e quando la gente lo vedeva ritto sull’uscio, dove passava giornate

intere, si chiedeva come avrebbe fatto a entrarci. E lui entrava tutte le volte che

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c’era un cliente, perché Toine Acquavite era invitato di diritto a bersi il suo

bicchierino, in qualunque ordinazione.

L’osteria si chiamava «Al ritrovo degli amici» e difatti compar Toine era amico

di tutta la regione; venivano perfino da Fécamp e da Montvilliers a trovarlo e a

divertirsi sentendolo chiacchierare: perché quell’omaccione avrebbe fatto ridere

una mummia. Aveva un certo modo di pigliare in giro senza offendere, di far

l’occhiolino per far capire quel che non diceva a parole, di battersi le cosce negli

scoppi d’allegria, che ogni volta faceva crepar dal ridere, anche non volendo. Era

già uno spasso anche soltanto a vederlo bere. Beveva finché gliene offrivano,

qualsiasi cosa, cogli occhi maliziosi che gli brillavano d’una duplice contentezza,

provocata dal piacere di tracannare e di raggranellar soldi, e poi dalla baldoria.

I buontemponi gli chiedevano:

- Perché non provi a bere il mare, compa’?

Lui rispondeva:

- Ci sono due ostacoli contrari: primis che è salato e secundis che mi

toccherebbe metterlo in bottiglia per via che la trippa non mi si piega per farmi

bere a quel bicchiere!

Bisognava sentirlo quando litigava con sua moglie! Era una tale commedia che

si sarebbe volentieri pagato il biglietto. Da trent’anni erano sposati e non passava

giorno che non s’accapigliassero. Soltanto che Toine ci si divertiva, e invece la

moglie s’arrabbiava. Lei era una normanna lunga lunga che camminava a passi

da trampoliere e aveva una testa di barbagianni arrabbiato. Passava le giornate

ad allevar polli, nel cortiletto dietro l’osteria, e era rinomata per come sapeva

ingrassarli.

Quando la gente altolocata di Fécamp dava un pranzo di riguardo e ci teneva

che riuscisse bene, era necessario che offrissero un pensionante della moglie di

Toine.

Ma costei era nata di malumore ed era sempre scontenta, di tutto. Era

arrabbiata contro il mondo intero e ce l’aveva in particolare contro il marito, per

la sua allegria, la sua rinomanza, la sua salute, la sua grassezza. Lo trattava da

fannullone perché guadagnava senza far niente, diceva che aveva una gola

d’acquaio, perché mangiava e beveva come dieci persone normali; non c’era

giorno che lei non dicesse, infuriata:

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- Ma non starebbe meglio nel porcile un trogolone come questo? Tutto questo

grasso fa venire il vomito...

E poi urlava:

- Ma aspetta, aspetta un po’ e vedremo cosa capiterà, vedremo! Scoppierà

come una vescica questo trippone!...

Toine scoppiava in un’allegra risata e rispondeva, battendosi la pancia:

- Ohé, comare Gallina, tavola mia, perché non provi a ingrassare i tuoi polli,

quanto me? Prova, se ci riesci...

E, rimboccandosi una manica sul braccio enorme:

- Guarda che ciccia, comare, questa è un’ala...

I clienti picchiavano pugni sulla tavola torcendosi dalle risa battevano i piedi

per terra, sputavano, in un delirio d’allegria.

La vecchia, furibonda, continuava:

- Aspetta, aspetta un po’... vedrai cosa capiterà... scoppierai come un budello

troppo pieno...

E se ne andava, fuori di sé, tra le risate di tutti.

Toine, difatti, faceva sbalordire a vederlo, da tanto ch’era diventato grasso e

grosso, rosso e sbuffante. Era una di quelle enormi creature con le quali la morte

pare che si voglia divertire, con furbizie, strizzatine d’occhio e perfidie

pagliaccesche, rendendo comico, in modo irresistibile, il suo lento lavorio di

distruzione. Invece di rivelarsi come con gli altri, quella strega, nei capelli bianchi,

nella magrezza, nelle rughe, in quella decadenza progressiva che fa esclamare,

con un brivido: - Accipicchia, quant’è cambiato! - si divertiva, questo qui, a farlo

diventare sempre più mostruoso e buffo, a spennellarlo di rosso e di turchino, a

gonfiarlo, facendolo apparire dotato d’una salute sovrumana; e le deformazioni

che infligge a tutti, in lui diventavano oggetto di riso, balorde, divertenti, invece

che sinistre e pietose.

- Aspetta, aspetta un po’ e vedremo cosa capiterà... - ripeteva la moglie.

II

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Capitò che Toine ebbe un colpo e rimase paralizzato. Dovettero metterlo a

letto, quel colosso, nella stanzina che stava dietro il tramezzo che la separava

dall’osteria, perché potesse sentire i discorsi e far quattro chiacchiere cogli amici;

difatti la testa gli era rimasta lucida e libera, mentre il suo corpaccione enorme

era immobile e non si poteva muoverlo né sollevarlo. Dapprincipio s’era sperato

che le sue gambone avrebbero riacquistato un po’ d’energia, ma quella speranza

svanì presto e Toine Acquavite passò le giornate e le nottate in quel letto che

veniva rifatto una volta alla settimana, con l’aiuto di quattro amici che venivano a

tirar su l’oste pigliandolo per le gambe e per le braccia, mentre veniva rivoltato il

pagliericcio.

Era rimasto allegro; ma il suo buonumore era differente: più timido, più

umile, con certi timori da bambinetto davanti alla moglie, la quale non faceva che

urlare, tutto il giorno:

- Eccolo qui, la gola d’acquaio, eccolo qui il fannullone, il buonannulla, il

trogolone! Bella roba, bella roba!

Lui non rispondeva più. Si limitava a far l’occhiolino, dietro le spalle della

vecchia, e a rivoltarsi, unico movimento che gli fosse consentito. Questo esercizio

lo chiamava «fronte a nord» oppure «fronte a sud».

La sua più gran distrazione consisteva nell’ascoltare i discorsi che venivan

fatti nell’osteria, e a parlare attraverso la parete quando riconosceva la voce di

qualche amico. Gridava:

- Ehi, genero mio, Célestin, sei te?

E Célestin Maloisel rispondeva:

- Sono io, compare Toine; hai ricominciato a galoppare, coniglione?

Toine Acquavite rispondeva:

- A galoppare ancora no, ma non sono dimagrito e la carcassa è sempre

buona...

Cominciò a far venire i più intimi nella cameretta, per fargli compagnia,

benché soffrisse di vederli bere senza di lui. Non faceva che ripetere:

- È questo che mi dispiace di più, genero mio: di non poter bere più la mia

acquavite, porca miseria. Di tutto il resto me ne buggero, ma questa di non poter

bere non mi va giù.

S’affacciava alla finestra la testa di barbagianni della moglie, che urlava:

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- Guardatelo, guardatelo, questo fannullone, che bisogna dargli da mangiare,

lavarlo e pulirlo, come i maiali!

E, sparita la vecchia, a volte balzava sul davanzale un galletto con le penne

rosse che guardava in giro col suo occhio tondo e curioso e poi mandava il suo

sonoro chicchirichì; qualche volta anche un paio di galline arrivavano fino al letto,

cercando briciole per terra.

Dopo un po’ gli amici di Toine Acquavite disertarono la sala dell’osteria per

andare a far quattro chiacchiere intorno al letto dell’omaccione, tutti i

dopopranzi. Anche dal letto quel buontempone di Toine li faceva ancora divertire:

avrebbe fatto ridere il diavolo, quel birbante! Erano in tre che venivano tutti i

giorni: Célestin Maloisel, uno spilungone un po’ torto, come il tronco d’un melo;

Prosper Horslaville, un secchetto con un naso da scoiattolo, maligno e furbo come

la volpe, e Césaire Paumelle, che non apriva mai bocca, ma si divertiva lo stesso.

Pigliavano una tavola dal cortile, la poggiavano sul fianco del letto e giù,

grandi partite a domino, dalle due alle sei.

Ma la moglie diventò insopportabile. Non poteva sopportare che quel grosso

fannullone seguitasse a distrarsi e a giocare a domino, a letto; sicché, quando

vedeva che avevano cominciato la partita, correva come una furia, rovesciava la

tavola mandando tutto all’aria e pigliava i pezzi per metterli di là, urlando che era

anche troppo mantenere quel ciccione a ufo, senza doverlo vedere divertirsi come

se pigliasse in giro la povera gente che sgobbava dalla mattina alla sera.

Célestin Maloisel e Césaire Paumelle chinavano il capo, ma Prosper Horslaville

aizzava la vecchia e si divertiva alle sue arrabbiature.

Un giorno, vedendola più furiosa del solito, le disse:

- Sentite un po’, comare, sapete cosa farei io, se fossi in voi?

Lei aspettò che si spiegasse, piantandogli in faccia i suoi occhi da civetta.

- È caldo come un forno, il vostro marito, perché non esce mai di letto... io gli

farei covare le uova.

La vecchia rimase a bocca aperta; pensò che la pigliassero in giro e fissò il

visetto furbo del contadino, che seguitò:

- Gliene metterei cinque sotto un braccio, cinque sotto quell’altro, e nello

stesso giorno metterei una chioccia alla cova: così nascerebbero insieme, e

appena i gusci fossero aperti porterei i pulcini di vostro marito alla chioccia,

perché li tiri su. Potreste avere più polli, comare mia.

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La vecchia, ancora stupita, chiese:

- Si può fare?

- Se si può fare? - ribatté l’uomo. - E perché non si potrebbe fare? Se si

possono mettere a cova le uova dentro una cassetta, tanto più si possono mettere

in un letto caldo.

Questo ragionamento la colpì, e se ne andò calmata, soprappensiero.

Dopo otto giorni entrò nella camera di Toine col grembiule pieno di uova, e

disse:

- Ho messo la chioccia gialla con dieci uova; e eccone dieci per te: bada di non

romperle.

Toine, sbalordito, chiese:

- Cosa vuoi?

- Voglio che tu le covi, buonannulla, - rispose lei.

Dapprincipio Toine fece una risata; poi, siccome la donna insisteva, si

arrabbiò, resistette e rifiutò nel modo più energico di farsi mettere sotto la braccia

quel seme di polli che si sarebbe dovuto schiudere al calore del suo corpo.

Allora la vecchia, furiosa, esclamò:

- Non avrai nulla da mangiare finché non ti metterai a covare. Vedremo chi

l’avrà vinta.

Toine, preoccupato, non rispose.

Appena sentì suonare mezzogiorno chiamò:

- Ehi, moglie, è cotta la minestra?

La vecchia gli gridò, dalla cucina:

- Per te minestra non ce n’è, fannullone.

Toine credette che scherzasse e si mise ad aspettare, poi la pregò, la supplicò,

bestemmiò, fece parecchi «fronte a nord» e «fronte a sud» di disperazione, diede

gran pugni sul muro, ma alla fine dovette rassegnarsi a farsi mettere cinque uova

contro il fianco sinistro: ed ebbe la minestra. Quando arrivarono gli amici

credettero che stesse male, tanto pareva strano ed impacciato.

Fecero la solita partita. Ma pareva che Toine non ci si divertisse e muoveva la

mano con gran lentezza, tra infinite precauzioni.

- Ma cos’hai, il braccio legato? - chiese Horslaville.

Toine rispose:

- Mi sento come un peso sulla spalla.

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In quel momento si sentì entrar gente nell’osteria e i giocatori tacquero.

Era il sindaco con l’aggiunto. Ordinarono due bicchierini d’acquavite e si

misero a discorrere degli affari del paese. Parlavano sottovoce, e allora Toine

Ponce volle metter l’orecchio sul tramezzo, ma si dimenticò le uova: fece un

rapido «fronte a nord» e si ritrovò sopra una frittata.

Mandò una tale bestemmia che la moglie corse, capì il disastro: con un gesto

brusco lo scoperse. Nel vedere quell’impiastro giallo appiccicato contro il fianco

del marito rimase dapprincipio senza parola, troppo indignata per poter dire

qualcosa.

Poi, fremendo di rabbia, si buttò sul paralitico e cominciò a picchiargli gran

botte sulla pancia, come faceva con la biancheria quando andava allo stagno a

lavare. Una manata dopo l’altra, facevano un rumore sordo, svelte come le zampe

d’un coniglio che batta il tamburo.

I tre amici di Toine si torcevano dalle risate, tossivano, starnutivano, urlavano,

mentre l’omaccione, atterrito, cercava di parare gli attacchi di sua moglie, con

prudenza, per non rompere le cinque uova che aveva dall’altra parte.

III

Toine fu vinto. Dovette covare, rinunciare alle partite a domino ed a qualsiasi

movimento perché la vecchia, feroce, lo faceva star senza mangiare ogni volta che

rompeva un uovo.

Se ne stava sdraiato a guardare il soffitto, immobile, con le braccia aperte

come ali, a scaldare addosso a sé i germi dei polli rinchiusi nei gusci bianchi.

Parlava sempre sottovoce come se temesse il rumore al pari del movimento, e

si preoccupava della chioccia gialla che, nel pollaio, faceva il suo stesso lavoro.

Chiedeva alla moglie:

- Ha mangiato la gallina, stanotte?

La vecchia andava dalla chioccia al marito, dal marito alla chioccia, tutta

agitata, ossessa addirittura dal pensiero dei pulcini che maturavano nel letto e

nel pollaio.

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I paesani che conoscevano la storia passavano, seri e curiosi, a chiedere

notizie di Toine. Entravano in punta di piedi, come si fa dai malati, e chiedevano,

interessati:

- Allora, come va?

Toine rispondeva:

- Va abbastanza bene, ma mi sento tutto indolenzito da tanto che ho caldo; mi

pare che mi camminino le formicole sulla pelle.

Una mattina la moglie entrò tutta agitata e disse:

- La gialla ce n’ha sette; tre erano cattive.

Toine ebbe un tuffo al cuore. E lui, quanti ne avrebbe avuti?

Chiese:

- Ci manca tanto? - con la stessa angoscia della donna che sta per partorire.

La vecchia rispose, inferocita e tormentata dalla paura di far fiasco:

- Così pare!...

Aspettarono. Gli amici, avvertiti che era venuto il tempo, arrivarono, anche

loro impensieriti.

Se ne parlava in tutte le case e si chiedevano informazioni d’uscio in uscio.

Verso le tre Toine s’appisolò. Ora passava metà delle giornate a dormire. Lo

svegliò uno strano solletico sotto il braccio destro; si frugò con la mano sinistra e

prese una bestiolina coperta di ovatta gialla che gli si muoveva tra le dita.

Ebbe una tale impressione che si mise a urlare e lasciò andare il pulcino che

gli saltò sul petto. L’osteria era piena di gente: corsero tutti nella cameretta e la

riempirono, facendo cerchio intorno al letto come attorno a un saltimbanco; la

vecchia, subito arrivata, prese con precauzione il pulcino che s’era rannicchiato

sotto la barba di Toine.

Nessuno fiatava. Era una calda giornata d’aprile. Dalla finestra aperta si

sentiva la gallina chiocciare per chiamare i pulcini appena nati.

Toine, grondante sudore per l’agitazione, il timore, la commozione mormorò:

- Ce ne dev’essere un altro sotto il braccio sinistro.

La moglie infilò nel letto la sua manona secca e tirò fuori, con la stessa cura

d’una levatrice, un altro pulcino.

I vicini lo vollero vedere, se lo passarono, osservandolo con attenzione, come

se fosse stato un fenomeno.

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Per altri venti minuti non ne vennero; poi ne uscirono dal guscio quattro tutti

insieme.

Ci fu un gran busìo tra i presenti. Toine sorrise, felice del successo, e si

cominciava a inorgoglire della sua strana paternità. Dopo tutto di gente come lui

non se ne vedeva tanto spesso! Era davvero un uomo straordinario!

- Siamo a sei, - disse: - per tutti i diavoli, che battesimo!

Scoppiarono tutti a ridere. Altra gente riempiva l’osteria e altri ancora stavano

aspettando davanti all’uscio

Sì sentiva domandare:

- Quanti sono?

- Finora sei.

La vecchia portò alla chioccia la nuova famiglia e la bestia chiocciava senza

posa, rizzava le penne, e apriva le ali per riparare il branco dei suoi figli, sempre

più numeroso.

- Eccone un altro! - gridò Toine.

Invece s’era sbagliato: ce n’erano tre! Fu un trionfo! L’ultimo ruppe il guscio

alle sette di sera. Tutte le uova erano buone! Toine, ebbro di gioia, sollevato e

trionfante, baciò la peluria del pulcino e quasi lo soffocò con le labbra. Voleva

tenerselo nel letto fino alla mattina dopo, in uno slancio di affetto materno per

quella bestiola che aveva portato alla luce; ma la vecchia, senza badare alle sue

suppliche, lo portò via come gli altri.

La gente, soddisfatta, se ne andò via commentando l’accaduto; Horslaville,

rimasto per ultimo, chiese: - Di’ un po’, Toine, il primo che metti in padella

m’inviti? Al pensiero della fricassea il viso di Toine s’illuminò: - Sicuro che ti

invito, sicuro, genero mio, - rispose.

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LA PICCOLA ROQUE

I

Il procaccia Médéric Rompel, che i paesani familiarmente chiamavano Mede,

partì alla solita ora dall’ufficio postale di Roüy-le-Tors. Traversò la cittadina coi

suoi lunghi passi di vecchio soldato, tagliò per i campi di Villaume per giungere

sulla riva della Brindille da cui, seguendo la corrente, arrivava al villaggio di

Carvelin, dove cominciava la distribuzione.

Camminava alla svelta, lungo il fiumicello che spumeggiava, brontolava,

ribolliva e correva nel suo letto erboso, sotto una volta di salici. I grossi ciottoli,

fermando la corrente, creavano attorno a sé un tondo rigonfio d’acqua, come una

cravatta che finiva in un nodo di schiuma. Qua e là, c’erano cascate alte un

piede, talvolta invisibili, che facevano, sotto le foglie, sotto le liane, sotto un tetto

di verzura, un chiasso iroso e dolce; più oltre le sponde si allargavano,

s’incontrava un tranquillo laghetto nel quale le trote guizzavano in mezzo a quei

lunghi capelli verdi che ondeggiano in fondo ai ruscelli calmi.

Médéric camminava senza veder nulla, pensando soltanto a questo: «La prima

lettera è per i Poivron, e dopo ne devo portare una al signor Renardet: perciò

bisogna che traversi il bosco».

Il suo camiciotto turchino stretto alla vita da una cintola di cuoio nero

passava con moto svelto e regolare sulla siepe verde dei salici; e il suo grosso

bastone di agrifoglio gli camminava accanto come un’altra gamba.

Traversò la Brindille sul ponte fatto con un sol tronco d’albero gettato da una

sponda all’altra, che aveva come ringhiera una corda sorretta da due paletti

piantati per terra.

Il bosco, proprietà di Renardet, sindaco di Carvelin e il più grosso possidente

di quei luoghi, era pieno di alberi antichi, enormi, ritti come colonne, che si

stendevano per una lunghezza di due chilometri sulla riva destra del ruscello che

faceva da confine all’immensa volta di foglie. Lungo il corso dell’acqua erano

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spuntati dei grandi arbusti, sotto i raggi del sole; ma cotto il bosco non si trovava

altro che muschio, un muschio spesso, dolce e morbido che spandeva nell’aria

stagnante un odorino di muffa e di rami morti.

Médéric rallentò l’andatura, si levò il berretto nero ornato d’un gallone rosso,

si asciugò la fronte: già faceva caldo in campagna, benché non fossero ancora le

otto di mattina.

S’era appena rimesso in capo il berretto, riprendendo la sua marcia energica,

allorché vide ai piedi d’un albero un coltellino da ragazzi. Lo stava raccattando

quando vide anche un ditale, e, vicino a questo, una scatolina per aghi.

Li prese, e pensò: «Li porto dal sindaco». Poi si rimise in marcia, ma teneva gli

occhi aperti, aspettandosi di trovare qualche altra cosa.

Improvvisamente si fermò di botto, come se avesse urtato contro una stanga

di legno: a dieci passi davanti a lui, supino, giaceva sul muschio un corpo

infantile, completamente nudo. Era una bambinetta, che avrà avuto dodici anni.

Stava a braccia aperte, a gambe larghe, col viso coperto da un fazzoletto. Aveva le

cosce macchiate di sangue.

Médéric cominciò a camminare in punta di piedi, come se avesse paura di far

rumore, oppure avesse temuto qualche pericolo: e spalancava gli occhi.

Che era mai quella roba? Di certo, stava dormendo. Ma poi pensò che nessuno

si mette a dormire nudo, alle sette e mezzo di mattina, sotto il fresco degli alberi.

Allora era morta; e quello era un delitto. A quell’idea un brivido gli corse per la

schiena, bench’egli fosse un vecchio soldato. Era così raro un omicidio, nel paese,

e poi l’omicidio d’una bambina, che non riusciva a credere ai suoi occhi. Però non

aveva nessuna ferita, tranne quel sangue coagulato sulle gambe. In che modo era

stata uccisa?

Si fermò vicino a lei, e la guardò, appoggiato al bastone. La conosceva di certo,

perché conosceva tutti gli abitanti del luogo; ma, non potendola vedere in viso,

non poteva sapere chi era. Si chinò per levarle il fazzoletto dalla faccia; ma si

fermò, con la mano stesa, trattenuto da un pensiero. Aveva il diritto di muovere

qualcosa dal cadavere, prima che la giustizia avesse fatto le sue constatazioni?

Per lui la giustizia era come una specie di generale al quale nulla sfugge, e che dà

uguale importanza a un bottone perduto e a una coltellata nella pancia. Forse

sotto quel fazzoletto si sarebbe trovata una prova essenziale; e comunque era un

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corpo di reato che poteva perdere il suo valore, se toccato da una mano

maldestra.

Allora volle rialzarsi per correre dal sindaco, ma fu trattenuto da un altro

pensiero. Se, per caso, la bambina fosse ancora viva, non avrebbe potuto

abbandonarla a quel modo. Pianino pianino si mise in ginocchio, ma tenendosi

lontano, per prudenza, e stese una mano verso il piede di lei. Era freddo, gelato

da quel terribile freddo che rende spaventevole la carne morta, e non lascia più

dubbi. Dopo averla toccata, il procaccia, come raccontò dopo, si sentì sottosopra,

con la bocca completamente asciutta. Si alzò di scatto e cominciò a correre sotto

gli alberi verso la casa del signor Renardet.

Andava a passo svelto, col bastone sottobraccio, i pugni stretti, il capo

proteso, mentre il sacco di cuoio, pieno di lettere e giornali, gli batteva

ritmicamente sulla schiena.

La casa del sindaco era all’estremità del bosco, che gli faceva da parco, e

bagnava tutta una parte dei suoi muri in un piccolo stagno formato in quel punto

dalla Brindille.

Era una casona quadrata, di pietra grigia, molto antica, che un tempo aveva

anche subito degli assedi, e finiva in una enorme torre, alta venti metri, costruita

nell’acqua.

Dall’alto di quella specie di cittadella un tempo si sorvegliava tutto il paese. La

chiamavano, chissà perché, torre della Volpe; e da quell’appellativo, senza

dubbio, era derivato il cognome Renardet, portato dai proprietari del feudo,

rimasto alla stessa famiglia per più di duecento anni. Infatti i Renardet

appartenevano a quella borghesia quasi nobile che spesso s’incontrava in

provincia, prima della Rivoluzione.

Il procaccia entrò di volata nella cucina, dove la servitù stava mangiando,

gridando:

- E alzato il signor sindaco? Gli devo parlare subito.

Siccome Médéric era conosciuto come una persona seria e riflessiva, capirono

subito che era accaduto qualcosa di grave.

Il sindaco, avvertito, ordinò che lo facessero entrare. Pallido ed ansimante, il

procaccia, col berretto in mano, trovò il sindaco seduto davanti ad una lunga

tavola coperta di fogli sparpagliati.

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Era un omaccione grande e grosso, pesante, rosso, forte come un toro, assai

benvoluto in paese nonostante il suo carattere straordinariamente violento. Avrà

avuto una quarantina d’anni, era vedovo da sei mesi e viveva sulle sue terre, da

gentiluomo campagnolo. Col suo carattere focoso si era spesso immischiato in

spiacevoli storie da cui sempre lo traevano fuori i magistrati di Roüy-le-Tors, suoi

amici, indulgenti e discreti. Un giorno aveva buttato giù dal sedile il guidatore

della diligenza perché stava per schiacciare il suo cane da ferma Micmac...

Un’altra volta aveva rotto le costole a un guardiacaccia che gli voleva far la

contravvenzione perché stava attraversando col fucile sotto il braccio le terre d’un

vicino... Un’altra volta aveva preso per il colletto il sottoprefetto fermatosi nel

villaggio durante un viaggio amministrativo che Renardet voleva definire viaggio

elettorale: egli infatti faceva l’opposizione al governo, per tradizione familiare.

- Cos’è successo, Médéric? - chiese il sindaco.

- Ho trovato una bambina morta nel vostro bosco...

Renardet si rizzò col viso infuocato.

- Come... una bambina?

- Sissignore, una bambina, tutta nuda, supina, sporca di sangue, e morta,

proprio morta.

Il sindaco bestemmiò:

- Perdio! Scommetto che è la piccola Roque. Mi sono venuti a dire proprio ora

che ieri sera non è tornata a casa. Dove l’avete trovata?

Il procaccia spiegò tutto, fornì particolari, si offerse di far da guida.

Ma Renardet gli rispose bruscamente:

- No, non ho nessun bisogno di voi. Mandatemi subito la guardia campestre, il

segretario comunale e il dottore, e andate a finire il vostro giro. Via, via, andate, e

dite che mi raggiungano nel bosco.

Disciplinato, il procaccia obbedì e se ne andò, furibondo e dispiaciuto di non

potere assistere alle constatazioni.

Anche il sindaco uscì, dopo avere preso il suo cappellone di feltro grigio, molle,

a tese larghissime, e si fermò per qualche istante sulla soglia di casa. Davanti a

lui si stendeva un ampio prato nel quale splendevano tre grandi macchie, di color

rosso turchino e bianco, tre aiole di fiori sbocciati, una di fronte alla facciata le

altre sui fianchi. Più in là si rizzavano fino al cielo i primi alberi del bosco, mentre

a sinistra, oltre la Brindille allargata in stagno, si vedevano verdi campagne, una

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regione verde e piatta tagliata da canaletti e da siepi di salici che parevano mostri:

nani, tozzi, nodosi, coi rami sempre tagliati, che reggevano sul tronco enorme e

corto un fremente piumetto di ramicelli.

A destra, dietro alle scuderie, alle rimesse, a tutte le costruzioni della

proprietà, cominciava il paese, ricco, popolato da allevatori di bovini.

Pian piano Renardet scese la scalinata, svoltò a sinistra, giungendo alla

sponda del ruscello che cominciò a seguire a passi lenti, con le mani dietro la

schiena. Camminava a fronte china; ogni tanto si guardava attorno, per vedere se

arrivasse qualcuno di coloro che aveva mandato a chiamare.

Giunto che fu sotto gli alberi si fermò, si tolse il cappello e si asciugò la fronte,

come aveva fatto Médéric: l’ardente sole di luglio cadeva sulla terra come pioggia

di fuoco. Poi riprese a camminare, si fermò di nuovo, tornò indietro.

Improvvisamente, abbassandosi, inzuppò il fazzoletto nel ruscello che scorreva ai

suoi piedi, e se lo mise sul capo, sotto il cappello. Gocciole d’acqua gli colarono

sulle tempie, sulle orecchie ancora violette, sul collo rosso e possente, e

penetrarono, una dopo l’altra, sotto il colletto bianco della camicia.

Siccome non si vedeva ancora nessuno, egli cominciò a battere col piede per

terra, e a gridare: - Ohé, ohé!

Poi, sotto gli alberi, apparve il dottore: era un ometto magro, ex chirurgo

militare, stimato per molto bravo nella zona. Essendo stato ferito, durante il

servizio militare, zoppicava e s’aiutava con un bastone, per camminare.

Poi si videro la guardia campestre e il segretario comunale, i quali, avvertiti

nello stesso tempo, arrivavano insieme. I loro visi apparivano sgomenti, mentre

essi accorrevano, alternando passo a trotto per sbrigarsi di più, e muovendo

talmente le braccia da sembrare di far più lavoro con quelle che con le gambe.

Renardet disse al dottore:

- Sapete di che si tratta?

- Sì, Médéric ha trovato nel bosco una bambina morta.

- Bene, allora andiamo.

Cominciarono a camminare accanto, seguiti dagli altri due. Sul muschio i loro

passi non facevano alcun rumore: cogli occhi essi cercavano davanti a sé.

Ad un tratto il dottor Labarbe stese il braccio:

- Ecco, ecco, là!

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Assai lontano, sotto gli alberi, si vedeva qualcosa di chiaro. Se non avessero

saputo che era, non l’avrebbero potuto capire. Appariva lucente e bianco, come

un lenzuolo caduto: un raggio di sole scivolato attraverso i rami illuminava la

carne pallida con una larga striscia che colpiva obliquamente il ventre.

Avvicinandosi potevano distinguere le forme: il capo coperto rivolto verso l’acqua,

le due braccia aperte come se l’avessero crocifissa.

- Sento un caldo tremendo... - disse il sindaco.

Chinandosi verso la Brindille inzuppò un’altra volta il fazzoletto nell’acqua, e

se lo rimise sulla fronte.

Il medico affrettò il passo, interessato dalla scoperta. Appena si trovò vicino al

cadavere si chinò per esaminarlo, senza toccare nulla. S’era messo un paio

d’occhiali a stringinaso, come si fa quando si vuole guardare un oggetto strano, e

girava pian piano intorno al corpo.

Disse, senza nemmeno rialzarsi:

- Violenza ed assassinio, che ora constateremo subito. La bambina era già

quasi donna, guardatele il petto.

I due seni, già assai sviluppati, si afflosciavano sul petto, resi molli dalla

morte.

Il dottore, con mossa leggera, levò il fazzoletto che copriva la faccia, la quale

apparve: nera, spaventosa, con la lingua fuori della bocca, gli occhi sbarrati.

- Perbacco, - disse egli, - l’hanno strozzata, dopo avere fatto...

Palpava il collo:

- Strozzata con le mani, senza lasciar tracce di nessun genere, né segni

d’unghie o impronte di dita. Benissimo. È la piccola Roque, proprio lei.

Rimise delicatamente a posto il fazzoletto:

- Non ho altro da fare, qui: è morta da dodici ore almeno. Bisogna avvertire il

tribunale.

Renardet, con le mani dietro la schiena, guardava fissamente il corpicino steso

sull’erba. Mormorò:

- Che miserabile! Bisognerebbe trovare i vestiti...

Il dottore stava tastando le mani, le braccia, le gambe. Disse:

- Certamente aveva fatto il bagno. Dovevano stare sulla riva.

Il sindaco ordinò:

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- Tu, Principe (era il segretario comunale), andrai a cercarmi questi vestiti

lungo il ruscello. Tu, Maxime (era la guardia campestre), fai una corsa a

Roüy-le-Tors a chiamare il giudice istruttore e i gendarmi. Bisogna che siano qui

entro un’ora, hai capito?

I due uomini si allontanarono svelti, e Renardet disse al dottore:

- Chi sarà mai quella bestia che ha potuto fare una cosa simile, in un paese

come questo?

- Chi lo sa? - mormorò il dottore. - Tutti possono averlo fatto. Tutti in

particolare e nessuno in generale. Sarà stato qualche vagabondo, un disoccupato.

Da quando siamo diventati una repubblica non si fa che incontrar di questa gente

per le strade.

Eran tutti e due bonapartisti.

- Sì, certo, - riprese il sindaco, - non può essere stato altro che un estraneo,

un passante, un vagabondo senza arte né parte...

- ... E senza donne... - finì il dottore con una punta d’ironia. - Non avendo né

da mangiare né da dormire, s’è procurato il resto. Non si può dire quanti uomini

vi siano sulla terra capaci di fare una cosa simile, in certi momenti. Lo sapevate,

voi, che la bambina era sparita?

- Sì, sua madre era venuta da me, ieri sera verso le nove perché la piccola non

era tornata a casa all’ora di cena, le sette.

Fino a mezzanotte l’abbiamo chiamata, per tutte le strade, ma non abbiamo

pensato al bosco. E poi, si doveva aspettare il giorno per poterla cercare bene.

- Volete un sigaro? - chiese il dottore.

- Grazie, non ho voglia di fumare. Mi fa effetto, questo spettacolo.

Stavano tutti e due davanti a quel fragile corpo d’adolescente, pallidissimo sul

muschio scuro. Un moscone con la pancia turchina, che stava passeggiando su

una coscia, si fermò sulle macchie di sangue, poi risalì, e percorrendo il fianco

con quella sua andatura vivace e scattante, si arrampicò su un seno, scese e

andò a esplorare quell’altro, cercando qualcosa da bere sulla morta. I due uomini

guardavano quel punto nero che si muoveva.

Il dottore disse:

- Quant’è graziosa, una mosca sulla pelle... Le donne del secolo scorso

avevano ragione a applicarsele sul viso. Perché oggi non si usa più?

Il sindaco pareva che non lo sentisse nemmeno, sperduto nei suoi pensieri.

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D’un tratto si voltò, sorpreso da un rumore: una donna con la cuffia e il

grembiule turchino stava correndo sotto gli alberi. Era la madre, la Roque.

Appena ebbe visto Renardet, cominciò a urlare:

- La mia bimba, dov’è la mia bimba?...

Era tanto fuor di sé che non guardava nemmeno per terra. Ad un tratto la

vide, si fermò subito, giunse le mani e levò le braccia, mandando un urlo acuto e

straziante, come un animale mutilato.

Si slanciò verso il cadavere, cadde ginocchioni e tolse, come strappandolo, il

fazzoletto che copriva il volto. Non appena ebbe visto quell’orrendo volto, nero e

contorto, si rizzò di scatto, e poi si prostrò con la faccia a terra, gettando,

attraverso lo spessore del muschio, grida spaventevoli, senza mai fermarsi.

Il suo gran corpo magro, sul quale le vesti parevano incollate, era scosso dalle

convulsioni, palpitava. Si vedevano le caviglie ossute, i polpacci magri coperti di

grosse calze turchine, tremare orrendamente; scavava la terra con le dita

adunche, come per farvi un buco e nascondervisi.

Commosso, il medico mormorò:

- Povera donna!...

Il ventre di Renardet mandò uno strano rumore; e poi egli fece un forte

starnuto che gli uscì insieme dal naso e dalla bocca, e tirando fuori di tasca il

fazzoletto, cominciò a piangerci dentro, tossendo, singhiozzando, soffiandosi

rumorosamente il naso. Balbettava:

- Ma... ma... ma... maledetto quel porco che l’ha ridotta in questo stato... Vo...

vorrei vedergli tagliare il collo...

Riapparì Principe, col viso afflitto e le mani vuote.

- Non sono riuscito a trovar nulla, signor sindaco... - mormorò; - non c’è nulla

in nessun posto...

L’altro, sgomento, gli rispose con una voce grassa e affogata nelle lacrime:

- Che cosa non trovi?

- I panni della piccola...

- Cerca, cerca ancora... e... se non li trovi... farai i conti con me...

Principe, ben sapendo che non si poteva opporsi al sindaco, si allontanò con

passo scoraggiato, gettando di traverso sul cadavere una occhiata timorosa.

Si udivano sotto gli alberi voci lontane, un confuso rumore, il rumore d’una

folla che s’avvicinava; Médéric, nel suo giro, aveva seminato la notizia di porta in

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porta. I paesani, dapprima stupiti, avevano chiacchierato del fatto per la strada,

sulle soglie; poi s’eran riuniti, avevano cianciato, discusso, commentato

l’accaduto per qualche minuto; ed ora venivano a vedere.

Giungevano a gruppi, un poco esitanti ed inquieti, per timore della prima

impressione. Non appena ebbero visto il corpo si fermarono, senza più coraggio di

venire avanti, parlando sottovoce. Poi si fecero coraggio, fecero qualche passo, si

fermarono e avanzarono di nuovo, e presto formarono intorno alla morta, a sua

madre, al dottore e a Renardet, un circolo fitto, mosso e rumoroso che si

stringeva sotto la pressione dei nuovi venuti. Arrivarono a toccare il cadavere;

alcuni si abbassarono perfino a palparlo. Il medico li scostò. Ma il sindaco,

uscendo improvvisamente dal suo torpore, s’infuriò, ed afferrando il bastone del

dottor Labarbe, si gettò sui suoi amministrati, balbettando.

- Levatevi dai corbelli, levatevi... massa di animali... andatevene via!

In un attimo il cerchio dei curiosi si allargò di duecento metri.

La Roque s’era rialzata, rivoltata, seduta; ed ora piangeva col viso tra le mani.

Nella folla, si stava discutendo; e avidi occhi di ragazzi frugavano quel giovane

corpo scoperto. Renardet se ne accorse, e levandosi la larga giacca di tela la gettò

sul corpo della fanciulletta che vi sparì sotto.

I curiosi si avvicinavano piano piano; il bosco si empiva di gente; un continuo

rumore di voci saliva sotto il fitto fogliame dei grandi alberi.

Il sindaco, in maniche di camicia e col bastone in mano, stava in

atteggiamento combattivo. Pareva che la curiosità della gente lo facesse andare in

bestia; ripeteva:

- Se uno di voi s’avvicina, gli spacco la testa come un cane...

I paesani avevano molta paura di lui, e si tennero a distanza. Il dottor

Labarbe, fumando, si sedette accanto alla Roque, parlandole, cercando di

distrarla. Subito la donna si tolse le mani dalla faccia, e rispose con un torrente

di frasi lacrimose, vuotando il suo dolore nell’abbondanza delle parole. Raccontò

tutta la sua vita, il suo matrimonio, la morte del suo marito, mandriano di bovi

ucciso da una cornata, l’infanzia della figliola, la sua miserabile esistenza di

vedova priva di risorse, col carico di quella piccina. Aveva soltanto lei, la piccola

Roque, e gliel’avevano ammazzata, in quel bosco. D’un tratto volle rivederla, e,

trascinandosi ginocchioni fino al cadavere, sollevò la giacca che la copriva, poi la

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lasciò ricadere e si rimise a urlare. La gente tacque, osservando con avidità tutti i

gesti della madre.

Ad un tratto ci fu un gran movimento, e si sentì gridare:

- I gendarmi, i gendarmi!

Si vedevano, lontano, due gendarmi giungere di gran trotto, facendo da scorta

al capitano e ad un omettino con le fedine rosse che ballava come una scimmia

sopra un’alta giumenta bianca.

La guardia campestre aveva trovato il signor Putoin, il giudice istruttore,

proprio mentre stava per montare a cavallo per fare la sua solita passeggiata,

poiché egli si atteggiava a bel cavaliere, con gran divertimento degli ufficiali.

Scese assieme al capitano, strinse la mano al sindaco e al dottore, gettando

un’occhiata da faina sulla giacchetta di tela gonfiata dal corpo che vi giaceva

sotto.

Appena l’ebbero messo a conoscenza dei fatti, fece disperdere il pubblico. I

gendarmi cacciarono la gente dal bosco, ma dall’altra parte del ruscello, sulla

pianura, apparve ben presto una gran siepe di teste eccitate e irrequiete.

A sua volta il medico fornì delle spiegazioni che Renardet scriveva con la

matita sul suo taccuino. Furono fatte le constatazioni, registrate e commentate,

senza che ne uscisse null’altro di nuovo. Anche Maxime era tornato, senza aver

trovato traccia dei vestiti.

Quella scomparsa sorprendeva tutti, e non si poteva spiegare che con un

furto; però, siccome quegli stracci tutti insieme non valevano nemmeno una lira,

anche il furto era inammissibile.

Giudice istruttore, sindaco, capitano e dottore s’eran messi a cercare a due a

due, scostando perfino i più insignificanti ramoscelli lungo la riva.

Renardet diceva al giudice:

- Come può essere che quel miserabile abbia nascosto o portato via i vestiti,

lasciando il corpo così esposto, alla vista di tutti?

L’altro, sornione e perspicace, rispose:

- Eh... forse è un’astuzia. Questo delitto dev’essere opera o d’un bruto oppure

d’un furbo di tre cotte. In ogni caso, sapremo scoprirlo.

Un rumore di ruote li fece voltare. Erano il sostituto del procuratore, il medico

e il cancelliere del tribunale che stavano arrivando. Le ricerche furon riprese, tra

discussioni animate.

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Ad un tratto Renardet disse:

- Restate tutti a desinare da me, nevvero?

Tutti accettarono con gran sorrisi, ed il giudice istruttore, pensando che per

quella giornata s’erano occupati anche troppo della piccola Roque, disse,

volgendosi verso il sindaco:

- Posso far portare il corpo in casa vostra? Avrete una camera dove si possa

tenerla fino a stasera...

Il sindaco, turbato e balbettante, rispose:

- Sì... no... no... A dire la verità, preferirei che non fosse portata a casa mia...

per via... per via dei domestici... che... che già parlano troppo dei fantasmi nella...

nella torre... nella torre della Volpe... Sapete com’è... se ne andrebbero via tutti...

No, no, preferirei che non la portassero...

Il magistrato sorrise:

- Va bene, va bene... La farò portar subito a Roüy, per l’esame legale.

E, volgendosi verso il sostituto:

- Posso adoperare la vostra carrozza, vero?

- Naturalmente...

Tutti tornarono verso il cadavere. Ora la Roque, seduta accanto alla sua

figliola, la teneva per la mano e guardava davanti a sé con aria sperduta e ebete.

I due medici tentarono di condurla via, perché non vedesse quando avrebbero

portato via il corpo della bambina; ma lei capì subito la loro intenzione, e,

buttandosi sul cadavere, lo abbracciò. Standovi sdraiata sopra, ella gridava:

- No, non portatela via, è mia, è mia, ora è mia. Me l’hanno ammazzata, e

voglio tenermela io, non ve la darò!

Gli uomini, tra turbati ed indecisi, le facevano cerchio attorno. Renardet

s’inginocchiò, per parlarle:

- Statemi bene a sentire: bisogna farlo, per poter sapere chi l’ha ammazzata;

se no non riusciremo mai a saperlo, e bisogna cercarlo, invece, per poterlo

castigare... Ve la ridaranno non appena l’avremo trovato, ve lo prometto...

Questa promessa infiammò la donna e fece brillare una luce d’odio nel suo

sguardo smarrito:

- Allora, lo prenderete? - disse.

- Sì, ve lo prometto.

Lei si rialzò, decisa ormai a lasciarli fare; ma il capitano mormorò:

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- È proprio strano che non si trovino i vestiti...

Allora un’idea nuova, che ancora non l’aveva sfiorata, penetrò in quel suo

cervello di contadina; chiese:

- Dove sono i vestiti? Sono miei: li voglio. Dove li avete messi?

Le spiegarono come non si riuscisse a trovarli; e lei li reclamò con disperata

ostinazione, piangendo e gemendo:

- Sono miei, li voglio; dove sono? Li voglio...

Più tentavano di calmarla e più lei singhiozzava e si ostinava. Ora non voleva

più il corpo, ma le vesti, le vesti della sua figliola, forse sia per l’incosciente

cupidigia della miserabile per la quale un po’ di denaro rappresenta già una

fortuna, sia per affetto materno. E quando il piccolo corpo, arrotolato nelle

coperte che erano state prese in casa di Renardet, fu messo nella carrozza, la

donna, ritta sotto gli alberi, sostenuta dal sindaco e dal capitano, gridava:

- Nulla, nulla, non ho potuto pigliare nulla, nulla, nemmeno la cuffiettina, la

sua cuffiettina!... nulla, nulla, nemmeno la cuffiettina....

Era arrivato il parroco, un prete molto giovane, già grasso. S’incaricò di

condur via la Roque, e insieme se ne andarono verso il paese. Il dolore della

madre si attenuava, sotto le frasi mielate del prete, che le prometteva mille

compensi. Ma lei ripeteva:

- Almeno avessi la cuffiettina... - ostinandosi in quell’idea che ora

predominava sulle altre.

Di lontano Renardet gridava:

- Signor curato, siete a mangiare da me... Fra un’ora...

Il sacerdote voltò il capo e rispose:

- Volentieri, signor sindaco. Sarò da voi a mezzogiorno.

Tutti si diressero verso la casa, di cui attraverso i rami già si poteva scorgere

la grigia facciata e la gran torre piantata sulla riva della Brindille.

Il desinare fu lungo: si parlò del delitto. Tutti si trovavano d’accordo: era stato

commesso da qualche vagabondo che passava per caso, mentre la bambina

faceva il bagno.

Poi i magistrati se ne riandarono a Roüy, annunciando che sarebbero tornati

la mattina dopo, presto; il dottore e il parroco rientrarono a casa loro e Renardet,

dopo una lunga passeggiata attraverso i campi, tornò nel bosco, dove rimase a

passeggiare fino a notte, a passi lenti, con le mani dietro la schiena.

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Andò a letto molto presto e la mattina seguente ancora dormiva quando il

giudice istruttore entrò in camera sua. Questi si stropicciava le mani, pareva

contento; disse:

- Ah, ah, state ancora dormendo? Ma noi abbiamo delle novità, stamani...

Il sindaco s’era seduto sul letto:

- Che c’è?

- Qualcosa di strano. Vi ricordate che ieri la madre voleva un ricordo della

figliola, soprattutto una cuffietta? Bene: stamani, mentre apriva la porta, ha

trovato, sulla soglia, i due zoccoletti della bambina. Questo prova che il delitto è

stato commesso da qualcuno del paese, che ha avuto pietà di lei. Inoltre il

procaccia Médéric mi ha portato il ditale, il temperino e l’agoraio della morta.

L’uomo, portando via i vestiti per nasconderli, ha fatto cadere questi oggetti che

erano in tasca. Io trovo che è importante soprattutto il fatto degli zoccoli, che

indica nell’assassino una certa cultura morale e una certa possibilità di

commozione. Perciò ora, se volete, passeremo in rivista i principali abitanti del

paese.

Il sindaco s’era alzato. Suonò per farsi portare l’acqua calda per la barba.

Disse:

- Volentieri; ma sarà una cosa lunga, perciò possiamo cominciar subito.

Putoin s’era seduto a cavalcione d’una seggiola, continuando, anche in casa,

con quella sua mania dell’equitazione.

Renardet si stava coprendo il mento di schiuma bianca, guardandosi nello

specchio; poi affilò il rasoio sulla coramella, e seguitò:

- Il principale abitante di Carvelin si chiama Joseph Renardet, sindaco, ricco

possidente, persona bisbetica che picchia le guardie e i cocchieri...

Il giudice istruttore si mise a ridere:

- Basta, basta... Andiamo pure avanti...

- Il secondo in ordine d’importanza è Pelledent, primo assessore, allevatore di

bovini, anche lui ricco possidente, contadino furbo e sornione, avvedutissimo in

tutte le questioni di denaro, ma incapace, secondo me, di avere fatto una cosa

simile.

- Andiamo avanti, - disse Putoin.

Renardet, sempre radendosi e lavandosi, continuò l’ispezione morale di tutti

gli abitanti di Carvelin.

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Dopo due ore di discussione i loro sospetti si fermarono su tre individui poco

raccomandabili: un bracconiere che si chiamava Cavalle, un pescatore di trote e

di gamberi che si chiamava Paquet e un conduttore di bovi che si chiamava

Clovis.

II

Le ricerche durarono per tutta l’estate: il criminale non fu scoperto. Le

persone sospette, arrestate, dimostrarono facilmente la loro innocenza, per cui il

tribunale dovette rinunciare a dar la caccia al colpevole.

Ma pareva che quel delitto avesse stranamente commosso il paese. Era

rimasta nell’animo degli abitanti un’inquietudine, una vaga paura, una

sensazione di misterioso terrore, derivante non soltanto dall’impossibilità di

scoprire qualunque traccia, ma anche e soprattutto dalla strana scoperta degli

zoccoli davanti alla porta della Roque, il giorno dopo il delitto. La certezza che

l’assassino avesse assistito alle constatazioni, che ancora vivesse nel villaggio, era

sempre presente alla mente di tutti, senza dubbio, perseguitava tutti, pareva che

gravasse sul paese come una continua minaccia.

Anche il bosco era diventato un luogo temuto, evitato e, si credeva,

frequentato dalle anime. Prima i paesani ci andavano a passeggio tutte le

domeniche dopopranzo; si mettevano a sedere sul muschio ai piedi degli enormi

alberi, oppure seguivano il corso dell’acqua guardando le trote che guizzavano in

mezzo alle erbe. I ragazzi giocavano a palla, a tappo, a bocce, in certi punti dove

avevano scoperto, spianato e battuto la terra; e le ragazze, in file di cinque o sei,

andavano a spasso tenendosi a braccetto, strillando con le loro voci acute certe

romanze che grattavano le orecchie, facendo certe stonature che turbavano l’aria

tranquilla e facevano allegare i denti come l’aceto. Invece ora più nessuno andava

sotto la volta fitta ed alta, quasi temendo di trovare qualche cadavere disteso.

Venne l’autunno, caddero le foglie. Cadevano giorno e notte, calavano

volteggiando, tonde e leggere, lungo i grandi tronchi; e già si cominciava a vedere

il cielo, attraverso i rami. Ogni tanto, allorché una ventata passava sulle cime,

quella pioggia lenta e continua s’ispessiva improvvisamente, diventava come un

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acquazzone appena frusciante che copriva il muschio con uno spesso tappeto

giallo che scricchiolava un poco sotto il passo. Ed il mormorio quasi

impercettibile, l’ondeggiante mormorio della caduta, continuo, dolce e triste,

pareva un lamento, e le foglie che seguitavano a cadere parevano lacrime, grandi

lacrime versate dai grandi alberi tristi che piangevano giorno e notte sulla fine

dell’anno, sulla fine delle tiepide albe e dei dolci crepuscoli, sulla fine dei caldi

venticelli e dei limpidi soli, e fors’anche sul delitto che avevano visto commettere

sotto la loro ombra, sulla fanciulla violata ed uccisa ai loro piedi. Piangevano nel

silenzio del bosco deserto e vuoto, del bosco abbandonato e temuto nel quale

doveva errare, sola, l’anima, l’anima piccola della morticina.

La Brindille, ingrossata dai temporali, scorreva più svelta, gialla e irosa, tra le

sue sponde aride, tra due siepi di salici magri e ignudi.

Ora, ecco che Renardet, d’un tratto, ricominciò a passeggiare nel bosco. Tutti i

giorni al cader della notte usciva di casa, scendeva la scalinata a passi lenti, e se

ne andava sotto gli alberi con aria pensierosa, con le mani in tasca. Camminava a

lungo sul muschio umido e morbido, mentre una legione di corvi, accorsi da ogni

parte per dormire sulle alte chiome, si svolgeva attraverso lo spazio come un

immenso velo da lutto che ondeggiasse al vento, facendo un grande e sinistro

schiamazzo.

Ogni tanto si posavano, bucando di macchie nere i rami intrecciati contro il

cielo rosso, sanguinante dei crepuscoli d’autunno. Poi, di colpo, ripartivano

gracidando spaventosamente, svolgendo di nuovo sul bosco il lungo e scuro

festone del loro volo.

Infine si buttavano sulle cime più alte, ed a poco a poco i loro clamori

cessavano, mentre la notte avanzando mischiava le loro piume nere al nero dello

spazio.

Renardet girava ancora lentamente in mezzo agli alberi; poi, quando non

poteva più camminare nel buio fitto, tornava a casa, si buttava come un sasso

nella poltrona, davanti al luminoso caminetto, tendeva verso il fuoco i piedi

umidi, che fumavano per parecchio tempo.

Una mattina, una grande notizia corse per il paese: il sindaco faceva abbattere

il bosco.

Già venti boscaioli stavano lavorando. Avevano cominciato dalla parte più

vicina alla casa, e andavano in fretta, sotto la sorveglianza del padrone.

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Anzitutto i tagliatori s’arrampicano sul tronco.

Legati a esso da un collare di corda, lo abbracciano e alzando una gamba

dando come un calcio al tronco in modo che la punta d’acciaio fissata alla suola

delle loro scarpe penetri nel legno e vi resti conficcata sicché l’uomo possa

sollevarsi come su uno scalino, colpire con la punta dell’altro piede, e così via.

Ogni volta che l’uomo sale porta più su il collare di corda che lo trattiene

all’albero. Dalle reni gli pende e brilla la roncola d’acciaio. Si arrampica piano

piano, come un animale parassita che assalga un gigante, sale pesantemente

lungo l’immensa colonna, l’abbraccia e la sperona per andare a decapitarla.

Appena è giunto ai primi rami si ferma, si stacca dal fianco la roncola affilata

e colpisce. Colpisce lentamente, con metodo, intaccando il ramo proprio vicino al

tronco finché all’improvviso quello scricchiola, si piega, s’inclina, si strappa e

crolla sfiorando nella caduta gli alberi vicini. Poi si schiaccia al suolo tra uno

schianto di legna spezzata e i suoi ramicelli seguitano per parecchio tempo a

palpitare.

Il terreno si copriva di rottami che altri uomini, a loro volta, tagliavano,

legavano in fascine e ammucchiavano, mentre gli alberi ancora in piedi

somigliavano a pali smisurati, a giganteschi pioli amputati e rasi dal tagliente

acciaio delle roncole.

Quando il tagliatore aveva finito il suo lavoro, lasciava in cima al fusto dritto e

sottile la collana di corda che aveva portato, ridiscendeva con l’aiuto degli speroni

lungo il tronco scoronato, che i boscaioli cominciavano ad attaccare alla base,

battendo gran colpi che risuonavano in tutto il bosco.

Quando la ferita al piede della pianta pareva abbastanza profonda, gli uomini

tiravano la corda fissata alla cima, mandavano un grido cadenzato, e l’immenso

tronco scricchiolava e cadeva a terra producendo lo stesso sordo rumore e

rimbombo di una cannonata lontana.

Ogni giorno il bosco scemava, perdeva gli alberi abbattuti, come un esercito

perde i soldati.

Renardet non se ne andava mai via; stava lì dalla mattina alla sera,

contemplando immobile, con le mani dietro la schiena, la morte del suo bosco.

Ogni albero che cadeva, ci poggiava sopra il piede, come se fosse stato un

cadavere. Poi alzava lo sguardo sul successivo, con una specie d’impazienza

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segreta e tranquilla, quasi che aspettasse o sperasse qualcosa, dopo tutto quel

massacro.

Intanto si stavano avvicinando al luogo dov’era stata trovata la piccola Roque.

Ci arrivarono una sera, all’ora del crepuscolo

Il cielo era coperto, ed era buio: i boscaioli volevano interrompere il lavoro,

rinviando al giorno dopo la caduta d’un enorme faggio, ma il sindaco si oppose, e

volle che subito si togliessero i rami e si buttasse giù il colosso alla cui ombra

s’era svolto il delitto.

Quando il tagliatore l’ebbe denudato, ed ebbe finito la sua acconciatura di

condannato a morte, quando gli spaccalegna ne ebbero distrutto la base, cinque

uomini cominciarono a tirar la corda fissata sulla cima.

L’albero resisteva: il suo tronco possente, benché intaccato fino a metà, era

rigido come il ferro. Tutti insieme gli operai, con un saltello regolare, tendevano la

corda chinandosi fino a terra, e mandando un grido soffocato che rivelava e

regolava il loro sforzo.

Due spaccalegna, ritti accanto al gigante, con l’ascia in pugno, parevano due

carnefici pronti a colpir di nuovo, e Renardet, immobile, con la mano sulla

corteccia, aspettava la caduta con una commozione inquieta e nervosa.

Uno degli uomini gli disse:

- State troppo vicino, signor sindaco; vi potrebbe far male, quando casca...

Il sindaco non rispose né si mosse; pareva anzi che volesse abbrancare lui

stesso il faggio per stenderlo giù, come un lottatore.

Ad un tratto, al piede dell’alta colonna di legno, ci fu una sorta di lacerazione

che corse fino alla cima, simile a un brivido doloroso; la pianta s’inchinò un poco,

come per cadere, eppure resistendo ancora. Eccitati, gli uomini s’irrigidirono, si

sforzarono maggiormente, e, mentre l’albero spezzato crollava, Renardet

improvvisamente fece un passo avanti e si fermò, con le spalle sollevate, per

ricevere l’irresistibile e mortale urto che l’avrebbe schiacciato al suolo.

Ma il faggio, avendo deviato un poco, gli sfiorò le reni, e lo mandò a cadere

cinque metri più avanti, con la faccia a terra.

Gli operai si slanciarono per rialzarlo, ma lui già s’era tirato su in ginocchio,

stordito, cogli occhi sbarrati, e si passava la mano sulla fronte, come se si

svegliasse da un attacco di pazzia.

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Quando fu in piedi, gli uomini, sorpresi, lo interrogarono, non riuscendo a

capire quel che aveva fatto. Ed egli rispose, balbettando, che aveva avuto un

attimo di smarrimento, e aveva creduto di poter riuscire a passare sotto l’albero,

proprio come i monelli passano correndo davanti alle carrozze che vanno di trotto,

che aveva sfidato il pericolo, che da otto giorni gli cresceva la voglia di farlo e si

chiedeva, tutte le volte che un albero scricchiolava e stava per cadere, se avrebbe

potuto passarci sotto senza farsi toccare. Riconosceva che era una sciocchezza,

ma tutti hanno simili momenti d’insania e simili tentazioni d’una stupidità

puerile.

Parlava con lentezza, cercando le parole, con voce sorda; e poi se se andò

dicendo:

- Arrivederci a domani, amici...

In camera sua, si sedette davanti alla tavola rischiarata vivamente dalla

lampada coperta da un paralume; si prese la fronte tra le mani e cominciò a

piangere.

Pianse per molto tempo, poi s’asciugò gli occhi, rialzò il capo e guardò la

pendola. Non erano ancora le sei. Pensò: «C’è tempo, prima di cena», e andò a

chiudere la porta a chiave. Poi si rimise a sedere davanti alla tavola, tolse dal

cassetto di mezzo una pistola, la posò sulle carte, in piena luce: l’acciaio dell’arma

riluceva, mandava bagliori come di fiamma.

Renardet stette a contemplarla per un po’ con lo sguardo stravolto d’una

persona ubriaca: poi s’alzò e si mise a camminare.

Andava in su e in giù, ogni tanto si fermava e subito riprendeva a camminare;

aprì la porta del camerino, inzuppò un asciugamano nella brocca dell’acqua e si

bagnò la fronte, come aveva fatto la mattina del delitto. Poi si rimise a

camminare. Tutte le volte che passava davanti alla tavola il suo sguardo era

attirato dall’arma lucente, la sua mano era sollecitata; ma poi guardava la

pendola e pensava: «C’è tempo».

Suonarono le sei e mezzo. Allora prese la pistola, spalancò la bocca con una

smorfia orrenda, ci infilò dentro la canna, come se avesse voluto ingoiarla.

Rimase per qualche istante così, fermo, col dito sul grilletto, poi, scosso da un

brivido d’orrore, sputò l’arma sul tappeto.

Ricadde nella poltrona, singhiozzando: - Non posso! Non ho il coraggio. Oh

Dio, Dio! Come posso fare per avere il coraggio d’ammazzarmi?

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Sentì bussare alla porta; si rizzò, sgomento. Un servo diceva:

- La cena è pronta...

Rispose:

- Va bene, scendo.

Raccolse la pistola, la richiuse nuovamente nel cassetto, poi si guardò nello

specchio del caminetto per vedere se il suo viso non apparisse troppo convulso.

Era rosso come sempre, forse un po’ troppo. Null’altro. Scese, e si mise a tavola.

Mangiò con lentezza, tirando per le lunghe, come se non volesse ritrovarsi solo

con se stesso. Poi fumò una pipata dopo l’altra, mentre sparecchiavano la tavola.

Infine, salì in camera sua.

Appena ebbe chiuso col chiavistello, guardò sotto il letto, aprì tutti gli armadi,

esplorò tutti i cantucci, frugò in tutti i mobili. Dopo accese le candele del

caminetto e si voltò indietro diverse volte, percorrendo la stanza con lo sguardo,

con un terrore angosciato che gli deformava il volto, poiché ben sapeva che stava

per vederla, come tutte le notti, stava per vedere la piccola Roque, la ragazza che

aveva violentato e poi strozzato.

Tutte le notti l’orrenda visione ricominciava. Dapprima si sentiva nelle

orecchie una specie di brontolio, come il rumore d’una battitrice o il passaggio

lontano d’un treno su un ponte. Allora gli veniva l’affanno, si sentiva soffocare e

doveva sbottonarsi il colletto, slacciarsi la cintola. Camminava, per far circolare il

sangue, cercava di leggere, si sforzava di cantare: ma era tutto inutile; suo

malgrado il pensiero gli tornava al giorno del delitto, glielo faceva ripetere in tutti i

più segreti particolari, con tutte le più forti sensazioni, dal primo all’ultimo

minuto.

La mattina di quell’orrenda giornata, alzandosi, aveva provato un certo

stordimento, un mal di capo che attribuì al caldo, sicché rimase in camera fino

all’ora del desinare. Dopo mangiato, aveva fatto la siesta; poi era uscito, alla fine

del pomeriggio, per respirare un po’ d’aria fresca e ristoratrice sotto gli alberi del

bosco.

Ma, appena fuori, l’aria pesante e ardente della campagna aumentò il suo

senso d’oppressione. Il sole, ancora alto in cielo, riversava torrenti di luce ardente

sulla terra calcinata, arida e sitibonda. Nemmeno un soffio di vento muoveva le

foglie. Tutti gli animali, gli uccelli e perfino le cavallette, stavano zitti. Renardet

arrivò sotto i grandi alberi e cominciò a camminare sul muschio, dove la Brindille

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evaporava un po’ di frescura, sotto l’immenso tetto dei rami. Ma si sentiva male lo

stesso: gli pareva che una mano sconosciuta ed invisibile gli stringesse il collo; e

non pensava quasi più, dato anche che normalmente aveva poche idee per la

testa. Soltanto una vaga idea lo tormentava da tre mesi, l’idea di risposarsi. Non

riusciva a viver solo: ne soffriva fisicamente e moralmente. Abituato da dieci anni

a sentirsi una donna accanto, abituato alla sua presenza continua, al suo

quotidiano abbraccio, aveva un bisogno forte e confuso di quel contatto

incessante, di quell’amore regolare. Dopo la morte della moglie egli soffriva,

soffriva, senza capir bene perché, di non sentire più le gonne di lei sfiorargli le

gambe, ogni giorno, di non potersi più calmare e indebolire tra le sue braccia,

soprattutto. Era vedovo appena da sei mesi, e già cercava nelle vicinanze una

ragazza o una vedova da sposare appena fosse finito il lutto.

Aveva un’anima casta, ma un possente corpo da Ercole: immagini sensuali

avevano cominciato a turbargli il sonno e la veglia. Le scacciava, e quelle

tornavano. In certi momenti, sorridendo di se stesso, mormorava: «Sono come

Sant’Antonio...».

Quella mattina gli eran venute parecchie di quelle visioni opprimenti; ebbe

voglia di andare a fare un bagno nella Brindille per rinfrescarsi e placare l’ardore

del sangue.

Conosceva un posticino, un po’ nell’interno, dove c’era un’ansa larga e

profonda in cui la gente del paese si bagnava, talvolta, d’estate. Ci andò.

Folti salici nascondevano quel limpido bacino dove la corrente si riposava,

faceva un sonnellino prima di riprendere il cammino. Nell’avvicinarsi gli parve di

sentire un rumore leggero, uno sciacquio che non era quello del ruscello sulle

sponde. Scostò pian piano le foglie e guardò. Una giovinetta, nuda e bianca

attraverso l’onda trasparente, batteva l’acqua con le mani, faceva delle mosse di

danza, girava su se stessa con gesti gentili. Non era più una bambina e non era

ancora donna; era grassa e formata, eppure sembrava ancora una monella,

cresciuta in fretta, quasi matura.

Immobile trattenne il respiro, attonito, angosciato, preso da un turbamento

strano e forte. Gli era venuto il batticuore, come se uno dei suoi sogni sensuali si

fosse avverato, come se una fata impura gli avesse fatto apparire davanti

quell’essere conturbante e troppo giovane, piccola Venere rusticana nata dai

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ribollimenti del ruscelletto come l’altra, quella grande, era nata dalle onde del

mare.

Ecco che la fanciulla uscì dall’acqua, senza vederlo, venne verso di lui per

cercare gli abiti e rivestirsi. A mano a mano che s’avvicinava, a passettini esitanti

per timore dei sassi puntuti, egli si sentiva sospinto verso di lei da una

irresistibile forza, da uno slancio bestiale che gl’increspava la carne, gli

ottenebrava l’anima e lo faceva tremare da capo a piedi.

La sentì ferma, per qualche istante, dietro il salice che lo nascondeva. Perse

completamente la testa, scostò i rami, si precipitò su lei, la prese tra le braccia.

Ella cadde, troppo sgomenta per resistere, troppo atterrita per chiamare: la

possedette senza nemmeno capire quel che facesse.

Si svegliò dal delitto come da un incubo. La fanciulla cominciava a piangere.

- Stai zitta, - le disse. - Stai zitta. Ti darò tanti soldi.

Lei non lo ascoltava e seguitava a singhiozzare.

- Vuoi stare zitta, vuoi stare zitta, vuoi stare zitta?... - seguitò lui.

La fanciulla urlò e si contorse per fuggire.

Improvvisamente lui capì di essere perduto; la prese per il collo perché non le

uscissero più dalla bocca quei gridi strazianti e terribili. Mentre la bambina

seguitava a dibattersi con la forza esasperata di chi vuole sfuggire alla morte, egli

strinse la sua mano di colosso su quella piccola gola gonfia di urla e la sua stretta

era così furente che in pochi istanti la strozzò, benché non intendesse

ammazzarla ma soltanto farla tacere.

Poi si rizzò, pietrificato dall’orrore.

Lei gli giaceva davanti, sanguinante, col viso nero. Stava per scappare quando

nella sua anima sconvolta sorse il misterioso e confuso istinto che guida gli esseri

in pericolo.

Poco mancò che non buttasse il corpo nell’acqua; ma un altro impulso lo

sospinse verso i vestiti, che radunò in un pacchettino. Con un pezzo di spago che

aveva in tasca li legò e li nascose in un profondo buco del ruscello, sotto un

tronco d’albero che si bagnava nella Brindille.

Poi se ne andò alla svelta, arrivò alla campagna, fece un grandissimo giro per

farsi vedere da certi contadini che stavano dall’altra parte del paese e rientrò per

la cena alla solita ora, raccontando ai domestici tutta la passeggiata che aveva

fatto.

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Eppure quella notte dormì di un pesante sonno animalesco, come talvolta

devono dormire i condannati a morte. Aprì gli occhi soltanto alle prime luci

dell’alba e si mise ad aspettare la normale ora del suo risveglio, torturato dalla

paura che il crimine fosse scoperto.

Poi dovette assistere a tutte le constatazioni. Agì come un sonnambulo, in una

sorta d’allucinazione che gli mostrava uomini, persone e cose attraverso una

sorta di sogno, in una nube di ebbrezza, con quel sospetto d’irrealtà che

sconvolge le menti durante le grandi catastrofi.

Soltanto il grido straziante della Roque gli traversava l’anima. Per poco non si

buttò ai piedi della donna gridando: «Sono stato io...». Ma riuscì a trattenersi.

Durante la notte andò a ripescare gli zoccoli della morta e li portò sulla soglia

della madre.

Finché durò l’inchiesta ed egli dovette guidare e ingannare la giustizia, restò

calmo, padrone di sé, furbo e sorridente. Discuteva tranquillamente coi magistrati

tutte le loro supposizioni, combatteva le loro opinioni, demoliva i loro

ragionamenti. Godeva, anche, in un modo aspro e doloroso, a sconvolgere le loro

ricerche, a imbrogliare le loro idee, a far risultare innocenti coloro ch’essi

sospettavano.

Ma, da quando le ricerche furono abbandonate, egli a poco a poco s’innervosì,

diventò più eccitabile di prima, ancorché riuscisse a dominare gl’impeti di collera.

Un rumore improvviso lo faceva sobbalzare impaurito; fremeva per un nonnulla, a

volte trasaliva se una mosca gli si posava sulla fronte. Lo prese allora un

imperioso bisogno di movimento, che lo costrinse a fare passeggiate straordinarie,

a star ritto per notti intere camminando su e giù nella camera.

Non era mica tormentato dai rimorsi. La sua natura brutale non era fatta per

percepire sfumature di sentimento o timori morali. Uomo energico e violento, nato

per guerreggiare, per saccheggiare i paesi conquistati e massacrare i vinti, con

selvaggi istinti di cacciatore e lottatore, per lui la vita umana non contava nulla.

Rispettava la Chiesa, per politica, ma non credeva né a Dio né al diavolo e quindi

non s’aspettava da nessun’altra vita castighi o ricompense per le azioni commesse

in questa. Ciò in cui egli credeva era una confusa filosofia formata delle idee di

tutti gli Enciclopedisti del secolo passato: considerava la religione come una

sanzione morale della legge; e credeva che l’una e l’altra fossero state inventate

dagli uomini per regolare i rapporti sociali.

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Uccidere qualcuno in duello, o in guerra, o in un litigio, o per disgrazia, o per

vendetta, o anche per malvagità, gli sarebbe parsa un’azione divertente e

spavalda, che non avrebbe lasciato nella sua mente una traccia maggiore della

fucilata tirata su una lepre; ma era restato profondamente turbato dall’assassinio

della fanciulla. Lo aveva commesso nell’accecamento d’una irresistibile ebbrezza,

in una tempesta di sensualità che aveva travolto la sua ragione. E gli era restato

nel cuore e nella carne e sulle labbra, perfino nelle sue dita di assassino, una

specie di amore bestiale, misto a un orrore impaurito, per la fanciullina che aveva

sorpreso e vigliaccamente ucciso. Il suo pensiero tornava di continuo a

quell’orribile scena; benché si sforzasse di scacciarne l’immagine, di metterla da

parte con orrore, se la sentiva girare nella mente, intorno alla persona, in attesa

di riapparire.

Cominciò ad aver paura della sera, dell’ombra che gli calava attorno. Non

sapeva ancora perché le tenebre lo spaventassero, ma le temeva istintivamente: le

sentiva colme di terrori. Il giorno non è fatto per la paura: si vedono esseri e cose,

e s’incontrano soltanto gli esseri e le cose che si mostrano alla luce. Ma la notte,

la notte buia più spessa d’una muraglia, vuota ed infinita, così nera e grande,

nella quale si possono sfiorare cose tanto spaventevoli, la notte in cui si sente

girare il misterioso terrore, gli sembrava che nascondesse un pericolo ignoto,

vicino e minaccioso. Quale?

Lo seppe presto. Una sera, molto tardi, mentre stava nella sua poltrona,

perché non poteva dormire, gli parve di veder muovere la tendina della finestra.

Attese, inquieto, mentre il cuore gli batteva forte: la stoffa non si muoveva più;

poi, d’un tratto, si mosse di nuovo o almeno gli parve che si muovesse. Non ebbe

il coraggio d’alzarsi, non respirava nemmeno; eppure era coraggioso: spesso s’era

battuto, e gli sarebbe piaciuto scoprire dei ladri in casa.

Si muoveva davvero quella tendina? Seguitava a chiederselo, nel timore che gli

occhi l’avessero ingannato. Che cos’era, d’altronde, un leggero brivido della tenda,

quel tremolio delle pieghe, quell’ondeggiamento che provoca il vento? Renardet

stava con gli occhi sbarrati, il collo teso; finché d’un tratto si levò, vergognandosi

della sua paura, fece due passi, prese la stoffa a piene mani e la scostò.

Dapprincipio vide soltanto i vetri neri, neri come lucenti lastre d’inchiostro. La

gran notte impenetrabile si stendeva dietro ad essi fino all’orizzonte invisibile. Lui

stava ritto, di fronte a quell’ombra illimitata, e d’un tratto scorse una luce che si

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muoveva e pareva lontana: accostò il viso al vetro pensando che fosse un

pescatore di frodo in cerca di granchi nella Brindille, perché era mezzanotte

passata e la luce strisciava sul bordo dell’acqua, sotto il bosco. Non riuscendo

ancora a distinguere nulla, Renardet si protesse gli occhi con le mani, e d’un

tratto il barlume divenne chiarore e vide la piccola Roque nuda e sanguinante sul

muschio.

Pieno di raccapriccio indietreggiò, urtò contro la poltrona e cadde all’indietro.

Restò qualche istante così, angosciato, poi si mise a sedere e cominciò a pensare.

Aveva avuto un’allucinazione, provocata da quel ladro notturno che camminava

sulla riva con la lanterna. E poi non c’era nulla di strano che il ricordo del delitto

provocasse la visione della morta.

Si rialzò, bevve un bicchier d’acqua, e si rimise a sedere: «Che faccio, se

ricomincia?» pensava. E sentiva, era certo che sarebbe ricominciato. Già la

finestra stimolava il suo sguardo, lo attirava. Per non vederla più rivoltò la

poltrona, prese un libro e cercò di leggere. Ma presto credette, gli parve di sentire

qualcosa muoversi, dietro a lui, e fece piroettare la poltrona su una zampa. La

tendina si muoveva ancora; sì, s’era mossa davvero questa volta, non c’eran

dubbi; si slanciò e la prese con tanta violenza, che la tirò giù, con tutto il

palchetto: poi incollò avidamente il viso sul vetro. Di fuori era tutto nero: respirò

con la stessa gioia dell’uomo al quale sia stata salvata la vita.

Si rimise a sedere; ma quasi subito lo riprese il desiderio di guardare un’altra

volta dalla finestra. Da quando era caduta la tenda essa era diventata come una

nera apertura, attraente e temibile, sulla campagna buia. Per non cedere alla

pericolosa tentazione si spogliò, spense i lumi, si mise a letto e chiuse gli occhi.

Immobile, supino, con la pelle calda e madida, aspettava il sonno.

All’improvviso fu abbagliato da una gran luce, aperse gli occhi, credendo che

bruciasse la casa. Era tutto nero. Si sollevò, poggiandosi sul gomito, per cercare

di distinguere la finestra che seguitava ad attirarlo invincibilmente. A forza di

frugare con lo sguardo vide qualche stella; si alzò, traversò la camera a tastoni,

con le mani stese, trovò i vetri, vi poggiò la fronte. Sotto gli alberi il corpo della

fanciulla brillava come fosforo, illuminando l’erba intorno!

Renardet mandò un grido e corse verso il letto, dove rimase fino alla mattina,

con la testa nascosta sotto il guanciale.

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Da quel momento la sua vita diventò insopportabile. Le giornate passavano

nel terrore delle notti; ed ogni notte la visione ricominciava. Appena s’era chiuso

in camera tentava di lottare, ma invano; una forza irresistibile lo sollevava, lo

portava fino al vetro, come a chiamare il fantasma: la vedeva subito, sdraiata sul

luogo del delitto, con le braccia e le gambe spalancate, come l’avevano trovata. Poi

la morta si alzava, camminava a passettini, come aveva fatto la fanciulla uscendo

dall’acqua. Veniva pian piano, attraversando in linea retta il prato, passando

sull’aiola di fiori secchi, e si alzava nell’aria, verso la finestra di Renardet. Gli

andava incontro come aveva fatto il giorno del delitto: incontro al suo assassino.

L’uomo indietreggiava davanti all’apparizione, indietreggiava fino al letto, vi si

lasciava cadere, ben sapendo che la piccola era entrata, ed ora stava dietro la

tenda, che si sarebbe subito mossa. Fino all’alba guardava fissamente la tenda,

aspettandosi ad ogni istante di vederne uscire la sua vittima. Ma costei non

usciva: restava sotto la stoffa agitata ogni tanto da un fremito. Renardet stringeva

le dita aggranchite sulle lenzuola, come aveva stretto la gola della piccola Roque.

Udiva battere le ore; sentiva, nel silenzio, il ticchettio della pendola e i palpiti

profondi del suo cuore. E soffriva, quel miserabile, più di quanto abbia mai

sofferto alcun altro uomo.

Appena sul soffitto si vedeva una striscia bianca che annunciava il giorno, si

sentiva libero, finalmente solo, solo nella camera: si rimetteva a letto. Dormiva

alcune ore, d’un sonno inquieto e febbrile, durante il quale gli accadeva di

sognare le sue spaventose visioni.

Più tardi, quando scendeva per il desinare, era sfinito, come dopo

straordinarie fatiche; appena mangiava, perseguitato dal timore di colei che

avrebbe rivisto la notte seguente.

Sapeva bene che non poteva essere un’apparizione, che i morti non tornano,

che la sua anima malata ed ossessa da quell’unico pensiero, da

quell’indimenticabile ricordo, era la sola causa del suo supplizio, la sola

evocatrice della morta; essa la chiamava, la resuscitava, gliela metteva davanti

agli occhi, gliela stampava indelebilmente nello sguardo.

Ma sapeva anche che non sarebbe guarito, che mai sarebbe sfuggito alla

persecuzione selvaggia della sua memoria; e piuttosto di sopportare ancora quei

tormenti, decise di morire.

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Cercò il modo d’ammazzarsi. Voleva qualcosa di semplice e naturale, che non

facesse credere a un suicidio. Ci teneva alla sua reputazione, al nome che gli era

stato lasciato dai suoi avi: se avessero sospettato la causa della sua morte, senza

dubbio avrebbero pensato al delitto impunito, all’assassino introvabile, e prima o

poi l’avrebbero accusato.

Gli era venuta una strana idea, di farsi schiacciare dall’albero sotto cui aveva

ucciso la piccola Roque. Decise di far buttare giù il bosco e di fingere un

incidente. Ma il faggio si rifiutò di spezzargli le reni.

Tornato a casa, fuor di sé dalla disperazione, aveva preso la pistola, ma non

aveva avuto il coraggio di sparare.

Era venuta l’ora di cena; aveva mangiato, poi era tornato su, senza sapere

quel che avrebbe fatto. Si sentiva vigliacco, ora che era sfuggito una volta alla

morte! Poc’anzi era pronto forte, deciso, arbitro del suo coraggio, della sua

decisione, ora era debole, aveva paura della morte quanta ne aveva della morta.

«Non ce la farò più, non ce la farò più», balbettava; e guardava terrorizzato ora

l’arma sulla tavola, ora la tenda che copriva la finestra. Gli pareva perfino che

sarebbe accaduto qualcosa di tremendo, appena la sua vita fosse finita.

Qualcosa? Che cosa? Forse si sarebbero incontrati? Lei lo spiava, l’aspettava, lo

chiamava e si faceva vedere tutte le sere, perché voleva prenderlo, a sua volta,

voleva attirarlo nella vendetta e convincerlo a morire.

Cominciò a piangere come un bimbo, ripetendo: - Non ce la farò più, non ce la

farò più.

Cadde ginocchioni, balbettando: - Mio Dio, mio Dio...

Eppure non credeva in Dio.

Non aveva davvero il coraggio di guardare la finestra dove sapeva che stava

rannicchiata l’apparizione, né la tavola dove brillava la pistola.

Appena si fu alzato, disse a voce alta: - Non può durare bisogna finirla.

Il suono della sua voce nella camera silenziosa gli suscitò un brivido di paura

che gli traversò le membra, ma siccome non riusciva a decidersi, siccome ben

sapeva che il suo dito avrebbe rifiutato di premere il grilletto, tornò a nascondere

il capo sotto le coperte, e si mise a pensare.

Doveva trovar qualcosa che lo costringesse a morire, inventare un trucco

contro se stesso che non gli permettesse esitazioni, ritardi o rimpianti. Invidiava i

condannati che vengono condotti al patibolo in mezzo ai soldati. Oh! se potesse

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pregare qualcuno di sparargli addosso; se potesse, dichiarando lo stato in cui si

trovava, aprire la sua anima, confessare il suo delitto ad un amico fidato che non

lo dicesse mai, e ottenere che costui lo uccidesse!... Ma a chi poteva chiedere un

così tremendo favore? A chi? Pensò alle varie persone che conosceva. Il dottore?

No, avrebbe raccontato tutto, dopo...

D’improvviso uno strano pensiero gli attraversò la mente. Avrebbe scritto al

giudice istruttore, che conosceva intimamente, per denunciarsi da sé. Nella

lettera gli avrebbe detto tutto: del delitto, delle torture che pativa, della decisione

di morire, delle sue esitazioni, del mezzo che aveva escogitato per sforzare il suo

vacillante coraggio. Lo avrebbe supplicato in nome della loro vecchia amicizia di

distruggere la lettera non appena avesse saputo che il colpevole s’era condannato

da sé. Renardet sapeva che poteva fidarsi di quel magistrato, lo conosceva come

persona sicura, discreta, incapace perfino di dire una frase leggera. Era uno di

quegli uomini dotati d’una coscienza inflessibile, governata, diretta e regolata

dalla sola ragione.

Appena ebbe concepito quel progetto, una strana gioia gli invase l’anima. Si

sentiva tranquillo. Avrebbe scritto la lettera, e, con calma, la mattina l’avrebbe

messa nella cassetta che stava sul muro della masseria, sarebbe salito sulla torre

per vedere quando arrivava il procaccia, e appena l’uomo col camiciotto turchino

se ne fosse andato, si sarebbe buttato a capo in giù sulle rocce ov’erano poste le

fondamenta. Avrebbe fatto in modo che lo vedessero gli operai che stavano

abbattendo il bosco. Si sarebbe potuto arrampicare sull’alto scalino che reggeva

l’asta della bandiera che veniva alzata nei giorni di festa. Avrebbe stroncato l’asta

e si sarebbe precipitato insieme ad essa. Tutti avrebbero creduto in un incidente,

e lui sarebbe morto sul colpo, dati il suo peso e l’altezza della torre.

Subito uscì dal letto, andò alla tavola e cominciò a scrivere; non dimenticò

nulla, né un particolare del delitto, né un particolare della sua vita tormentata, né

un particolare delle torture che lo straziavano; finì annunciando che s’era

condannato da sé, che avrebbe giustiziato il criminale, e pregava il suo amico, il

suo vecchio amico, di vigilare affinché la sua memoria non fosse mai accusata».

Nel finire la lettera s’accorse che era spuntato il giorno. La chiuse, la sigillò,

scrisse l’indirizzo, scese con passo leggero, corse fino alla cassettina bianca

fissata sul muro, all’angolo della masseria, e, quando vi ebbe gettato dentro

quella carta che gli pesava in mano, tornò su alla svelta, mise il paletto al portone

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e salì in cima alla torre per aspettare il passaggio del procaccia che si sarebbe

portato via la sua sentenza di morte.

Si sentiva calmo, sollevato, salvo!

Un vento freddo ed asciutto, di ghiaccio, gli percoteva la faccia. Lo aspirava

con avidità, a bocca aperta, bevendo quella carezza gelida. Il cielo era d’un rosso

ardente ed invernale, e la campagna bianca di brina brillava sotto i primi raggi del

sole come se fosse stata cosparsa di polvere di vetro. Renardet, dritto, a testa

nuda, guardava il paesaggio, la campagna a destra, a sinistra il paese coi camini

che già cominciavano a fumare per la colazione.

Ai suoi piedi vedeva scorrere la Brindille, tra le rocce su cui si sarebbe

schiacciato fra poco. Si sentiva rinascere, in quella bella alba gelata, pieno di

forza e vita. La luce lo inondava, lo circondava, lo riempiva come una speranza.

Mille ricordi gli venivano alla mente, ricordi di mattinate simili, di marce svelte

sulla terra dura che risuonava sotto il passo, di felici cacce sulla riva degli stagni

in cui dormono le anatre selvatiche. Tutte le cose buone che gli piacevano, le cose

buone della vita s’affollavano nel suo ricordo, lo stimolavano con nuovi desideri,

ridestavano i vigorosi appetiti del suo corpo attivo e possente.

E stava per morire... Perché? Stava per ammazzarsi, a quel modo, perché

aveva paura d’un’ombra? Paura di nulla... Era ricco, ed ancora giovane. Che

pazzia! Ma gli sarebbe bastata una distrazione, una vacanza, un viaggio, per

dimenticare! Quella stessa notte non aveva visto la fanciulla, perché la sua mente

era occupata e s’era distratta. Forse non l’avrebbe rivista più! E poi, se lo

perseguitava in quella casa, non lo avrebbe seguito altrove! La terra era grande,

l’avvenire lungo... Perché morire?

Il suo sguardo vagava sulla campagna, e scorse una macchia turchina nel

sentiero che costeggiava la Brindille. Era Médéric che veniva a portare le lettere

dalla cittadina ed a portar via quelle del paese.

Renardet sussultò, ebbe una sensazione di dolore fisico, e si slanciò per la

scala a chiocciola, per ripigliare la sua lettera, per farsela ridare dal postino. Gli

importava poco d’essere visto ora; correva tra l’erba su cui pareva schiumeggiare

il lieve ghiaccio della notte, ed arrivò davanti alla cassetta, all’angolo della

fattoria, nello stesso istante del procaccia.

Costui aveva aperto lo sportello di legno e stava prendendo le lettere che vi

avevano messo gli abitanti del paese.

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- Buongiorno, Médéric, - gli disse Renardet.

- Buongiorno, signor sindaco.

- Sentite, Médéric: ho buttato nella buca una lettera di cui ora ho bisogno.

Vorrei che me la ridaste.

- Va bene, signor sindaco, ora ve la ridò...

Il postino alzò gli occhi. Restò sbigottito, nel vedere il viso di Renardet: le

guance violette, lo sguardo smarrito, gli occhi cerchiati di nero e quasi

sprofondati nelle orbite, i capelli spettinati, la barba in disordine, la cravatta

sciolta. Si vedeva che non era andato a letto.

- Vi sentite male, signor sindaco? - chiese Médéric.

Nel capire quanto dovesse parere strano il suo contegno l’altro si confuse e

balbettò:

- No... no... Sono saltato giù dal letto per venirvi a chiedere questa lettera...

Stavo dormendo... capite?

Un vago sospetto passò nella mente del vecchio soldato.

- Quale lettera? - chiese.

- Quella che mi dovete restituire...

Ora Médéric esitava perché l’atteggiamento del sindaco non gli pareva

naturale. Forse in quella lettera c’era un segreto, un segreto di politica. Sapeva

che Renardet non era repubblicano, e sapeva i trucchi e le frodi che vengon fatti

durante le elezioni.

- A chi era indirizzata la lettera? - chiese.

- Al giudice istruttore Putoin; Putoin, il mio amico, lo sapete!

Il procaccia cercò tra le carte e trovò quella reclamata. Si mise a guardarla,

girandola e rigirandola tra le dita, molto indeciso e turbato dal timore di

commettere un grave sbaglio o di farsi nemico il sindaco.

Nel vedere la sua esitazione Renardet fece un movimento per afferrare la

lettera e levargliela. Quel gesto brusco convinse Médéric che si trattava d’un

mistero importante, e lo decise a fare il suo dovere a qualunque costo.

Buttò la busta dentro il sacco, lo richiuse, rispondendo:

- Non posso, signor sindaco. Siccome era indirizzata alla giustizia, non posso.

Una tremenda angoscia strinse il cuore di Renardet, che balbettò:

- Ma voi mi conoscete bene. Potete anche riconoscere la mia scrittura. Vi dico

che ho bisogno di questa lettera...

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- Non posso.

- Via, Médéric, sapete bene che non vi inganno: vi dico che ne ho bisogno.

- No. Non posso.

Un brivido di collera passò nell’anima violenta di Renardet.

- Ma, perdiana, state attento. Sapete che non scherzo, e che posso farvi

saltare il posto, caro mio, senza aspettar tanto. E poi sono o non sono il sindaco

del paese? Vi ordino di darmi quella lettera.

Il procaccia rispose con fermezza:

- No. Non posso, signor sindaco.

Fuori di sé Renardet lo prese per un braccio, per togliergli il sacco; ma il

postino con uno scossone si svincolò e, indietreggiando, levò il suo grosso

bastone di agrifoglio. Disse, sempre calmo:

- Non mi toccate, signor sindaco, se no picchio... State attento... Faccio il mio

dovere!

Renardet si sentì perduto, e di colpo diventò umile, dolce, implorante come un

bambino:

- Andiamo, andiamo, siate buono, ridatemi quella lettera, saprò

ricompensarvi; vi darò dei soldi, sì, sì, vi darò cento franchi, avete capito? cento

franchi...

Médéric si voltò e cominciò a camminare.

Renardet lo seguì, ansimando, balbettando.

- Médéric, Médéric, statemi a sentire, vi darò mille franchi, avete capito? Mille

franchi...

L’altro seguitava a camminare, senza rispondere. Renardet riprese:

- Vi farò ricco... Capite? quel che vorrete... Cinquantamila franchi...

Cinquantamila franchi per quella lettera... Va bene? No? Allora centomila, sì?

Centomila franchi, avete sentito? centomila franchi... centomila franchi...

Il procaccia si voltò, col viso duro, l’occhio severo:

- Ora basta, oppure ripeterò alla giustizia tutto quel che mi avete detto.

Renardet si fermò. Era finito. Non c’era più speranza. Si voltò e corse verso

casa sua, simile a un animale in fuga.

Fu la volta di Médéric di fermarsi, e di contemplare con stupore quella fuga.

Vide il sindaco entrare in casa e rimase ad aspettare, come se dovesse accadere

qualcosa di straordinario.

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Difatti dopo poco l’alta figura di Renardet apparve sulla sommità della torre

della Volpe. Correva intorno alla terrazza, come un matto; poi afferrò l’asta della

bandiera e la scrollò con furia senza riuscire a spezzarla; infine, come un

nuotatore che si tuffa di testa, si lanciò nel vuoto, con le mani stese avanti.

Médéric corse per portargli aiuto. Mentre traversava il parco vide gli

spaccalegna che andavano al lavoro. Li chiamò di lontano, informandoli, a grida,

della disgrazia: ai piedi del muro c’era un corpo sanguinante col capo sfracellato

contro una roccia. La Brindille circondava quella roccia e nelle sue acque, in quel

punto ampie, limpide e tranquille, si vedeva colare un sottile rivolo rosa di

cervello commisto a sangue.

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L’HORLÀ

8 maggio

Che splendida giornata! Sono stato tutta la mattina sdraiato sull’erba, davanti

a casa, sotto l’enorme platano che la copre tutta, la ripara e le dà ombra. Voglio

bene a questi luoghi, e mi piace starci perché qui sono le mie radici, quelle

profonde e lievi radici che uniscono un uomo alla terra dove sono nati e morti i

suoi avi, che lo uniscono alle usanze e ai cibi, alle espressioni e al dialetto dei

contadini, all’odore della terra, dei paesetti e dell’aria stessa.

Voglio bene alla casa dove son cresciuto. Dalle finestre vedo scorrere la Senna:

lungo il giardino, proprio dietro alla strada, quasi dentro, la grande e ampia

Senna che va da Rouen a Le Havre, piena di barche che la percorrono.

In fondo a destra c’è Rouen, la grande città dai tetti turchini, popolata dalle

cime aguzze dei campanili gotici. Sono innumerevoli, grossi e sottili, dominati

dalla guglia bronzea della cattedrale, e tutti pieni di campane che suonano

nell’aria azzurra delle belle mattine, facendo giungere fino a me il loro dolce e

remoto ronzio di ferro, il loro canto di bronzo che viene ora forte, ora lieve,

secondo che il vento si desta o s’addormenta.

Come si stava bene quella mattina!

Verso le undici una lunga fila di barconi, trascinati da un rimorchiatore

grosso come una mosca che rantolava di fatica vomitando un fumo denso,

passarono davanti al cancello.

Dopo due golette inglesi con la bandiera rossa che sventolava nel cielo, venne

un magnifico tre alberi brasiliano, bianchissimo, pulitissimo e lucente... Fui così

contento di vederlo che chissà perché, m’inchinai a salutarlo.

11 maggio.

Da qualche giorno ho un po’ di febbre; non mi sento bene, o meglio, mi sento

triste.

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Da dove verranno gl’influssi misteriosi che mutano la nostra felicità in

scoraggiamento, e la nostra fiducia in disperazione?

Par quasi che l’aria, l’invisibile aria, sia piena di Potenze inconoscibili delle

quali subiamo la misteriosa vicinanza. Mi sveglio tutto allegro, ho voglia di

cantare. Perché? Vado sulla sponda del fiume e, dopo aver fatto una

passeggiatina, torno indietro tutto sconsolato, come se a casa m’aspettasse una

disgrazia. Perché? Forse un brivido di freddo che abbia sfiorato la pelle mi ha

scosso i nervi, mi ha ottenebrato l’anima? Forse la forma delle nuvole o il colore

della luce, il colore delle cose tanto mutevoli, nel varcare la soglia del mio

sguardo, ha sconvolto il mio pensiero? Chi lo sa? Tutto quello che ci circonda,

tutto quello che guardiamo senza vedere, tutto quello che sfioriamo senza

accorgercene, tutto quello che tocchiamo senza saperlo, tutto quello in cui

c’imbattiamo senza distinguerlo, provoca in noi, nei nostri organi e attraverso essi

nelle nostre idee, perfino nel nostro cuore, un effetto rapido, sorprendente,

inspiegabile.

Quanto è profondo il mistero dell’Invisibile! Non riusciamo a sondarlo coi

nostri sensi miserabili: con gli occhi incapaci di scorgere ciò che è troppo piccolo

o troppo grande o troppo vicino o troppo lontano; né gli abitanti d’una stella né

quelli d’una goccia d’acqua... con le orecchie ingannatrici, poiché ci trasmettono

le vibrazioni dell’aria come note sonore; si potrebbero paragonare a fate che

compiono il miracolo di mutare in rumore il movimento e con questa metamorfosi

danno origine alla musica la quale trasforma in canto la silenziosa agitazione

della natura... con l’odorato, più debole di quello del cane... col gusto, che a

stento riesce a distinguere gli anni del vino.

Ah! se avessimo altri organi che potessero compiere per noi altri miracoli:

quante cose ancora sapremmo scoprire intorno a noi!

16 maggio.

Son malato davvero. Eppure il mese passato stavo così bene! Ho una febbre

tremenda, o meglio una irritazione febbrile che mi fa soffrire nell’anima e nel

corpo. Ho sempre la terribile sensazione d’un pericolo incombente, l’ansia d’una

disgrazia che stia per accadere o della morte che s’avvicina: un presentimento che

senza dubbio è l’attesa d’un male ancora sconosciuto, che germina nel sangue e

nella carne.

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18 maggio.

Sono stato dal dottore, perché non riuscivo più a dormire. Mi ha trovato il

polso più svelto, la pupilla dilatata, i nervi sovreccitati, ma nessun sintomo

preoccupante. Dovrò fare delle docce e bere bromuro di potassio.

25 maggio.

Nessun mutamento! Sono in condizioni veramente strane. A mano a mano che

s’avvicina la sera mi piglia un’incomprensibile inquietudine, come se la notte

celasse una terribile minaccia. Ceno presto e poi cerco di leggere; ma non capisco

le parole; a stento distinguo le lettere. Comincio a passeggiare su e giù per il

salotto, oppresso da un timore vago e irresistibile, il timore del sonno e il timore

del letto.

Verso le dieci salgo in camera. Appena entrato do due mandate di chiave e

serro il chiavistello: ho paura... di che? Fino a oggi non ho temuto di nulla... Apro

gli armadi, guardo sotto il letto; tendo l’orecchio... per ascoltare: che cosa? Com’è

strano che un semplice malessere, forse un disturbo della circolazione,

l’irritazione d’una fibra nervosa, una leggera congestione, un piccolo

perturbamento nel funzionamento tanto imperfetto e delicato della nostra

macchina vivente, possano trasformare in malinconico l’uomo più allegro, e in

vigliacco il più coraggioso! Vado a letto e aspetto il sonno, come se aspettassi il

boia. Lo aspetto e tremo per la sua venuta; mi palpita il cuore, mi sento le gambe

percorse da fremiti; e il mio corpo trasale, fra il caldo delle lenzuola, finché cado a

un tratto nel sonno, così come chi si getta per annegarsi in un pozzo d’acqua

stagnante. Non lo sento più venire, come prima, questo perfido sonno, che sta

nascosto vicino a me e mi spia, sta per afferrarmi la testa, chiudermi gli occhi,

annullarmi.

Dormo a lungo, due o tre ore, poi ecco un sogno, no... un incubo. So bene che

sono coricato e sto dormendo, lo sento e lo so; e sento pure qualcuno che mi

s’avvicina, mi guarda, mi palpa, sale sul letto, mi s’inginocchia sul petto, mi

afferra il collo tra le mani, e stringe, stringe con tutte le sue forze, per strozzarmi.

Io mi dibatto, legato da quell’atroce impotenza che ci paralizza nei sogni; voglio

gridare ma non posso, voglio muovermi ma non posso; tento, con sforzi tremendi,

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ansimando, di voltarmi, di scacciare l’essere che mi schiaccia e mi soffoca: non

posso!

All’improvviso mi sveglio, terrorizzato, tutto bagnato di sudore. Accendo la

candela. Sono solo.

Dopo la crisi, che si ripete tutte le notti, riesco ad addormentarmi e sto

tranquillo fino all’alba.

2 giugno.

Le mie condizioni si sono aggravate. Che cosa avrò mai? Il bromuro non mi fa

nulla; le docce non mi fanno nulla. Poco fa, per stancarmi un poco (eppure, mi

sento così stanco!) andai a fare una girata nella foresta di Roumare. Sul principio

credetti che l’aria fresca, dolce e leggera, odorosa di erbe e di foglie, mi versasse

nelle vene nuovo sangue e nel cuore nuova energia. Imboccai una gran pista di

caccia e svoltai in direzione della Bouille, per un viale stretto tra due schiere di

alberi smisuratamente alti che interponevano un tetto verde, fitto, quasi nero, tra

il cielo e me.

Mi sentii rabbrividire, non per il freddo, ma per una strana angoscia.

Allungai il passo, turbato di essere solo nel bosco, intimorito senza motivo,

scioccamente, dalla solitudine. Ad un tratto mi parve d’essere seguito, che

qualcuno mi camminasse dietro, vicino vicino, sì da toccarmi.

Mi voltai di scatto. Non c’era nessuno. Dietro a me vidi il viale ampio e dritto,

vuoto, alto, tremendamente vuoto, e dall’altra parte s’allungava a perdita d’occhio

nello stesso modo, uguale, spaventoso.

Chiusi gli occhi. Perché? E cominciai a fare giravolte su un tallone, a gran

velocità, come una trottola. Stavo per cadere, riaprii gli occhi, e gli alberi, intorno

a me, ballavano, la terra ondeggiava. Fui obbligato a sedermi. Dopo di che non

sapevo più da che parte fossi venuto. Strano! Strano, strano davvero! Non sapevo

più nulla. Mi avviai verso destra e mi ritrovai nella pista che mi aveva portato nel

cuore della foresta.

3 giugno.

Ho passato una notte orribile. Partirò per qualche settimana. Son certo che un

viaggetto mi farà ristabilire.

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2 luglio.

Torno a casa. Sono guarito. Ho fatto un viaggio meraviglioso. Ho visitato il

monte Saint-Michel, per la prima volta.

Che visione, per chi arriva ad Avranches verso sera, come feci io! La città è su

una collina; mi portarono in un giardino pubblico, in capo alla città. Lanciai un

grido di meraviglia. Davanti a me, a perdita d’occhio, si stendeva una baia

smisurata, fra due coste divergenti che si perdevano nella nebbia, in fondo; e

nell’immensa baia gialla, sotto un cielo d’oro e di luce s’innalzava cupo e aguzzo

uno strano monte, tra le sabbie. Il sole stava per scomparire e sull’orizzonte

ancora in fiamme si disegnava il profilo della fantastica roccia che porta sulla

cima un monumento fantastico.

Mi avviai all’alba. Il mare era basso come la sera prima e, a mano a mano che

m’avvicinavo, vedevo rizzarsi davanti a me la straordinaria abbazia. Dopo aver

camminato per parecchie ore raggiunsi l’enorme ammasso di pietre che regge la

cittadina dominata dalla gran chiesa. Salii la via stretta e ripida ed entrai nella

più ammirevole dimora gotica che sia stata costruita per Dio sulla terra: grande

come una città, piena di sale basse schiacciate da volte, e di alte gallerie

sostenute da esili colonne. Entrai in quel gigantesco gioiello di granito, lieve come

un merletto, coperto di torri, di snelli campanili sui quali s’arrampicano scale

arricciolate, e che lanciano nel cielo turchino del giorno e nel cielo nero della

notte le loro teste strane irte di chimere, di diavoli, di fantastici animali, di fiori

mostruosi, uniti fra loro da sottili archi traforati.

Quando fui sulla cima, dissi al monaco che m’accompagnava: - Come dovete

star bene qui, padre!

Rispose: - C’è molto vento, signore... - e ci mettemmo a parlare guardando il

mare che saliva e correva sulla spiaggia, ricoprendola d’una corazza d’acciaio.

Il monaco mi raccontò delle storie, tutte le vecchie storie di quei luoghi:

leggende, sempre leggende.

Ce ne fu una che mi colpì. Gli abitanti del paese, la gente del monte, dicono

che di notte si sente parlare fra le sabbie e poi si sentono due capre belare, una

facendo un verso forte, l’altra debole. Gl’increduli affermano che si tratta dei gridi

degli uccelli marini, tanto simili a belati e talora a lamenti umani; ma i pescatori

che rientrano a casa tardi giurano d’avere incontrato, fra una marea e l’altra, un

vecchio pastore che gironzolava fra le dune, attorno alla cittadina così lontana dal

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mondo, un vecchio con la testa sempre coperta dal mantello, che conduce davanti

a sé un capro col viso d’uomo e una capra col viso di donna, tutti e due con

lunghi capelli bianchi, e parlano ininterrottamente, litigano in una lingua

sconosciuta, e ad un tratto smettono di gridare e belano con tutta la loro forza.

Chiesi al monaco: - Voi ci credete?

- Non lo so... - rispose sottovoce.

Io seguitai: - Se esistessero sulla terra altri esseri oltre a noi, come potremmo

ignorarli, dopo tanto tempo, come non li avreste visti, voi; come non li avrei visti,

io?

- Forse riusciamo a vedere la centomillesima parte di ciò che esiste? - rispose.

- Pensate al vento, la forza maggiore della natura, che rovescia gli uomini, abbatte

gli edifici, sradica gli alberi, solleva il mare in montagne d’acqua, distrugge le

coste, getta sui frangenti le navi più grandi, il vento che uccide, che fischia, che

geme, che mugge: l’avete mai visto, potete vederlo? Eppure esiste.

Davanti a questo semplice ragionamento tacqui. Quell’uomo era un saggio, o

forse uno stupido: non avrei potuto dirlo con precisione: ma tacqui. Ciò che egli

diceva l’avevo pensato parecchie volte.

3 luglio.

Ho dormito male; in verità, qui ci dev’essere una specie d’influenza febbrile,

perché anche il mio cocchiere soffre del mio stesso male. Ieri, tornando, avevo

notato il suo strano pallore. Gli chiesi: - Che cosa avete, Giovanni?

- Ho che non riesco più a riposare, signore; le nottate mi mangiano le giornate.

Da quando il signore partì è stato come un malefizio.

Gli altri domestici stanno bene; ma io ho una gran paura che mi ripigli.

4 luglio.

Mi ha ripreso. Sono tornati i vecchi incubi. Stanotte ho sentito qualcuno che

mi stava rannicchiato addosso e, con la bocca attaccata alla mia, mi beveva la

vita dalle labbra, me la succhiava dalla gola, come avrebbe fatto una sanguisuga.

Poi s’è alzato, sazio, e io mi sono svegliato, così abbattuto, infranto, annientato,

che non ce la facevo neanche a muovermi. Se dura così qualche altro giorno

dovrò ripartire.

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5 luglio.

Son diventato matto? Quel che è avvenuto stanotte, quel che ho visto, è così

strano che a pensarci la testa mi va via!

Come tutte le sere, avevo chiuso la porta a chiave; poi, avendo sete, bevvi un

mezzo bicchier d’acqua e notai casualmente che la caraffa era piena fino all’orlo.

Dopo mi coricai e mi sprofondai in uno dei miei orrendi sonni, dal quale mi

trasse dopo circa due ore uno scossone ancor più orrendo.

Figuratevi una persona che venga assassinata nel sonno e si desti con un

coltello piantato nei polmoni e rantoli, coperta di sangue, e non riesca più a

respirare, e sia sul punto di morire e non capisca... ecco.

Finalmente mi riebbi e sentii ancora sete; accesi la candela e andai verso la

tavola dov’era la caraffa. La sollevai inclinandola sul bicchiere; non ne uscì nulla:

era vuota, completamente vuota! Dapprincipio non capii; poi fui invaso da una

commozione fortissima, tanto che dovetti sedermi o piuttosto caddi su una sedia!

Dopo mi rizzai di scatto per guardarmi attorno, mi sedetti di nuovo, fuori di me

per lo stupore e la paura, davanti al cristallo trasparente. Lo guardavo

fissamente, cercando di capire. Mi tremavano le mani. Chi aveva bevuto l’acqua?

Chi? Io? senza dubbio, io. Non potevo essere stato altri che io! Ciò significa che

ero sonnambulo, che vivevo, senza saperlo, quella misteriosa doppia vita che ci fa

dubitare dell’esistenza, in noi, di due esseri, oppure di un essere estraneo,

inconoscibile e invisibile, il quale dia vita, nei momenti in cui la nostra anima è

intorpidita, al nostro corpo prigioniero che gli obbedisce come a noi stessi; anzi

più che a noi stessi.

Chi potrà capire la mia spaventosa angoscia? Chi potrà capire la commozione

d’un uomo sano di mente, ben desto, col cervello a posto, il quale guarda

terrorizzato attraverso il vetro d’una caraffa, perché è sparita un po’ d’acqua

mentre egli dormiva? Restai così fino all’alba senza avere il coraggio di tornare a

letto.

6 luglio.

Impazzisco. Stanotte hanno bevuto un’altra volta l’acqua della caraffa; o

meglio, ho bevuto!

Sono io? io? o chi allora? chi? Dio mio! Sto impazzendo... Chi mi salverà?

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10 luglio.

Ho fatto degli straordinari esperimenti.

Sono proprio ammattito. Eppure...

Il 6 luglio, prima di mettermi a letto ho posato sulla tavola vino, latte, acqua,

pane e fragole.

Hanno bevuto - ho bevuto - tutta l’acqua e un po’ di latte. Non sono stati

toccati né il vino, né il pane, né le fragole.

Il 7 luglio ho rifatto la prova, con lo stesso risultato.

L’8 luglio ho tolto acqua e latte. Non è stato toccato nulla.

Finalmente, il 9 luglio ho messo sulla tavola soltanto acqua e latte, e ho

avvolto le caraffe con della mussolina bianca, legando i tappi con lo spago. Poi mi

sono stropicciato la barba, le labbra e le mani con della piombaggine e sono

andato a letto.

Mi ha preso quel sonno invincibile, a cui è seguito l’orrendo risveglio. Non mi

ero mosso; sulle lenzuola non c’era nemmeno una macchia. Mi slanciai verso la

tavola. I panni che avviluppavano le bottiglie erano immacolati; palpitando di

timore disfeci i lacci. Avevano bevuto tutta l’acqua! avevano bevuto tutto il latte!

Ah, Dio mio!

Parto subito per Parigi.

12 luglio.

Parigi. Credo di avere perso la testa, nei giorni scorsi. Son diventato lo

zimbello della mia fantasia esaurita, oppure sarò veramente sonnambulo, sarò

stato vittima d’una di quelle influenze, accertate ma inspiegabili, che son

chiamate suggestioni. Comunque ero vicino a diventar matto, e sono bastate

ventiquattr’ore di Parigi per rimettermi in sesto.

Ieri dopo aver fatto girate e visite che mi hanno rimesso nel cuore un po’ d’aria

fresca e ristoratrice, ho voluto finire la serata al Teatro Francese. Vi si

rappresentava una commedia di Alexandre Dumas figlio, il cui spirito vivo e forte

ha completato la mia guarigione. In verità la solitudine è nociva all’intelligenza

operante. È necessario che intorno a noi vi siano uomini che pensano e parlano.

Quando restiamo a lungo soli popoliamo il vuoto di fantasmi.

Sono tornato all’albergo di ottimo umore, passando dai boulevards. In mezzo

alla folla pensavo con ironia ai miei terrori, alle supposizioni della settimana

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passata, allorché credevo che un essere invisibile vivesse sotto il mio tetto.

Quanto è debole la nostra mente, e pronta a turbarsi, a smarrirsi, se appena la

colpisce un fatterello inspiegabile!

Invece di dire queste semplici parole: «Non capisco, perché mi sfugge il

motivo», subito c’immaginiamo spaventevoli misteri e poteri soprannaturali.

14 luglio.

Festa della Repubblica. Ho passeggiato per le strade. I petardi e le bandiere mi

divertivano come un ragazzo. Eppure è veramente idiota essere felici a data fissa,

per decreto governativo. Il popolo è uno stupido gregge, ora scioccamente

paziente, ora ferocemente ribelle. Gli dicono: «Divertiti». E si diverte. Gli dicono:

«Vai a combattere col tuo vicino». E va a combattere. Gli dicono: «Vota per

l’Imperatore». E vota per l’Imperatore. Poi gli dicono: «Vota per la Repubblica». E

vota per la Repubblica.

Anche coloro che dirigono sono sciocchi, soltanto invece di obbedire ad altri

uomini obbediscono ai principii i quali non possono che essere stupidi, sterili e

falsi per il fatto stesso che sono principii, ovvero idee considerate sicure e

immutabili in un mondo in cui non s’è certi di nulla, poiché perfino la luce è

un’illusione, e il rumore è un’illusione.

16 luglio.

Ieri ho assistito a certi fatti che mi hanno assai turbato.

Desinavo dalla mia cugina, maritata a Sable, che comanda il 76° cacciatori a

Limoges. C’erano due giovani donne, una delle quali ha sposato il dottor Parent

che si interessa di malattie nervose e delle straordinarie manifestazioni che in

questo periodo sono provocate dagli esperimenti sull’ipnotismo e sulla

suggestione.

Il dottor Parent ci parlò a lungo degli straordinari risultati che sono stati

ottenuti da scienziati inglesi e dai medici della scuola di Nancy.

Mi citò fatti così strani che non ci potevo proprio credere, e glielo dissi:

- Siamo in procinto di scoprire, - diceva, - uno dei più importanti segreti della

natura, ossia uno dei più importanti segreti della Terra: altri ve ne sono, di

diversa importanza, lassù nelle stelle. Da quando l’uomo pensa, da quando è

capace di esprimere e scrivere il suo pensiero, egli sente di sfiorare un mistero

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che i suoi sensi grossolani e imperfetti non riescono a penetrare e cerca di

supplire all’impotenza degli organi con gli sforzi dell’intelligenza. Finché

l’intelligenza era ancora allo stato rudimentale, il terrore dei fenomeni invisibili

assumeva forme scioccamente spaventose, da cui son nate le credenze popolari

nel soprannaturale, le leggende degli spiriti vagabondi, delle fate, degli gnomi, dei

fantasmi e voglio anche aggiungere la leggenda di Dio, poiché le nostre concezioni

dell’operaio creatore, da qualunque religione provengano, sono le più mediocri

invenzioni, e le più sciocche e inammissibili che siano uscite dal cervello

spaventato delle creature. Non c’è nulla di più vero della frase di Voltaire: «Dio ha

fatto l’uomo a sua immagine, ma l’uomo gli ha reso la pariglia».

«Ora, dopo più d’un secolo, sembra di presentire l’avvento di qualcosa di

nuovo. Mesmer ed alcuni altri ci hanno messo su una strada imprevedibile, e

davvero siamo giunti, specialmente da quattro o cinque anni a questa parte, a

risultati sorprendenti.»

La mia cugina, anch’ella completamente incredula, sorrideva. Il dottor Parent

le disse: - Volete che provi ad addormentarvi, signora?

- Sì, certo.

Ella si sedette su una poltrona e il dottore cominciò a guardarla fissamente,

incantandola. Ero turbato, il cuore mi batteva a precipizio e mi sentivo la gola

chiusa. Vedevo gli occhi della signora Sable appesantirsi, la sua bocca torcersi, e

il suo seno affannare.

Dopo dieci minuti dormiva.

- Ponetevi dietro a lei, - disse il dottore.

Mi sedetti dietro a lei. Il dottore le mise in mano un biglietto da visita e le

disse: - Questo è uno specchio; cosa ci vedete?

- Vedo mio cugino, - rispose ella.

- Che sta facendo?

- Si attorciglia i baffi.

- E ora?

- Si leva di tasca una fotografia.

- Chi raffigura la fotografia?

- Lui.

Era vero! La fotografia mi era stata consegnata quella sera stessa all’albergo.

- Come è ritratto in questa fotografia?

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- In piedi, col cappello in mano.

Sicché ella vedeva in quel pezzetto di cartone come se fosse stato uno

specchio!

Le due giovani donne, spaventate, dicevano: - Basta! Basta! Il dottore

proseguì: - Domani vi alzerete alle otto, andrete da vostro cugino, all’albergo, e lo

pregherete di prestarvi cinquemila franchi che vuole vostro marito e che vi

chiederà al suo ritorno.

E la svegliò.

Tornando all’albergo ripensavo a quella curiosa seduta e fui preso da dubbi,

non sulla buona fede, assoluta ed insospettabile, della mia cugina che conoscevo

come una sorella fin dall’infanzia; ma sulla possibilità d’un trucco del dottore.

Forse egli nascondeva in mano uno specchio e lo mostrava alla giovane

addormentata, insieme al biglietto da visita? I prestigiatori di professione fanno

cose ben più notevoli.

Me ne andai a letto.

Stamani, verso le otto e mezzo, il mio cameriere è venuto a svegliarmi

dicendomi:

- La signora Sable vuol parlarvi subito.

Mi vestii in fretta e la feci introdurre.

Si sedette visibilmente turbata, tenendo gli occhi abbassati; e senza levarsi la

veletta mi disse:

- Caro cugino, devo chiedervi un gran favore.

- Che cosa, cugina?

- Sono molto imbarazzata, eppure devo dirvelo. Ho bisogno assoluto di

cinquemila franchi.

- Cosa mi dite? Voi...

- Sì, io: o meglio mio marito, che m’ha incaricato di trovarli.

Ero così stupito che nel risponderle balbettavo. Mi chiedevo se non si

prendesse beffa di me, d’accordo col dottor Parent, se si trattasse d’uno scherzo

ben preparato e bene eseguito.

Pure, guardandola attentamente, i miei dubbi scomparvero. Quella richiesta le

doveva riuscire tanto dolorosa che tremava e mi accorsi che stava sul punto di

scoppiare in singhiozzi.

So che è ricchissima, perciò le dissi:

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- Ma come, vostro marito non può disporre di cinquemila franchi? Suvvia,

pensateci un poco... Siete sicura che vi abbia detto di venirmeli a chiedere?

Restò esitante per qualche secondo, come se si sforzasse di frugare nella

memoria, e mi rispose:

- Sì, sì, sono sicura.

- Vi ha scritto?

Esitò ancora, riflettendo. Indovinai il lavorio tormentoso della sua mente. Non

lo sapeva. Sapeva solamente di dovermi chiedere in prestito cinquemila franchi

per suo marito. Decise di mentire.

- Sì, m’ha scritto.

- Quando? Ieri non mi avete detto nulla.

- Ho ricevuto una lettera stamattina.

- Potete farmela vedere?

- No... no... no... c’erano cose troppo intime, troppo personali... sicché l’ho...

l’ho bruciata.

- Insomma vostro marito ha dei debiti...

Esitò di nuovo, e poi mormorò:

- Non lo so.

Le dissi bruscamente:

- Il fatto è, cara cugina, che in questo momento non posso disporre di

cinquemila franchi.

Mandò un’esclamazione di dolore:

- Oh! vi prego! vi prego, trovateli!...

S’era eccitata, aveva giunto le mani, come per pregarmi. La sua voce aveva

mutato tono: piangeva e balbettava, torturata, dominata dall’irresistibile ordine

che aveva ricevuto.

- Vi supplico... sapeste quanto soffro... ne ho bisogno per oggi.

Ebbi compassione di lei.

- Ve li farò avere subito, ve lo giuro.

- Oh, grazie! - esclamò: - come siete buono...

- Vi ricordate, - seguitai, - cos’è successo ieri sera a casa vostra?

- Sì.

- Vi ricordate di essere stata addormentata dal dottor Parent?

- Sì.

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- Lui vi ha ordinato di venire stamattina da me a chiedermi in prestito

cinquemila franchi, e in questo momento voi gli state obbedendo.

Stette qualche secondo a pensare, e mi rispose:

- Ma me lo ha chiesto mio marito...

Cercai, per un’ora, di convincerla, ma non ci riuscii.

Quando se ne fu andata, corsi subito dal dottore. Stava per uscire. Sorridendo

mi ascoltò, poi disse:

- Ci credete ora?

- Per forza.

- Andiamo dalla vostra cugina.

Costei stava sonnecchiando, sfinita, su una poltrona a sdraio. Il dottore la

prese per il polso, la guardò per un poco, tenendole una mano davanti agli occhi,

che a poco a poco, sotto quell’insostenibile influenza magnetica, si chiusero.

Appena si fu addormentata le disse:

- Vostro marito non ha più bisogno dei cinquemila franchi. Perciò

dimenticatevi di essere andata dal vostro cugino a supplicarlo di prestarveli; e

anzi, se lui ve ne parlerà non lo capirete.

Dopo la ridestò. Io trassi di tasca il portafoglio.

- Allora, mia cara cugina, eccovi quel che mi avete chiesto stamani...

Restò così sorpresa che non ebbi il coraggio d’insistere. Provai a rinfrescarle la

memoria ma seguitò a negare con forza, credette che la pigliassi in giro e

insomma ci mancò poco che s’offendesse.

Sono tornato or ora, non m’è riuscito di mangiare nulla, tanto

quell’esperimento mi ha sconvolto.

19 luglio.

Parecchie delle persone alle quali ho raccontato questa storia mi hanno preso

in giro. Non so più che cosa pensare. Il sapiente dice: È possibile?

21 luglio.

Sono stato a mangiare a Bougival, e ho passato la serata al ballo dei

canottieri. Tutto, ne son certo, dipende dal luogo e dall’ambiente. Credere al

soprannaturale nell’isola del Ranocchiaio parrebbe il colmo della pazzia... ma in

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cima al monte Saint-Michel... o in India? Risentiamo spaventosamente l’influsso

di ciò che ci circonda. Tornerò a casa la settimana prossima.

30 luglio.

Da ieri sono tornato a casa. Va tutto bene.

2 agosto.

Nulla di nuovo; fa un tempo bellissimo. Passo le giornate a veder scorrere la

Senna.

4 agosto.

Litigi fra i domestici. Dicono che durante la notte qualcuno rompe i bicchieri

negli armadi. Il cameriere accusa la cuoca, costei accusa la guardarobiera, la

quale accusa gli altri due. Chi è il colpevole? Sarebbe bravo chi lo scoprisse.

6 agosto.

Questa volta non sono matto. Ho visto... ho visto... ho visto!... non posso più

avere dubbi... ho visto... Mi sento ancora i brividi... sento ancora quella gelida

paura: ho visto!

Stavo passeggiando nel roseto, verso le due, al sole... nel viale delle rose

d’autunno che incominciano a fiorire.

Mi fermai a guardare un «Gigante delle battaglie» che portava tre magnifici

fiori, allorché vidi chiarissimamente, vicino a me, il gambo d’una di queste rose

piegarsi, come se una mano invisibile l’avesse torta e poi spezzarsi come se la

medesima mano l’avesse colta. La rosa si innalzò seguendo la curva che avrebbe

descritto un braccio portandolo verso una bocca, e restò sospesa nell’aria

limpida, da sé, immobile, spaventevole macchia rossa a tre passi dai miei occhi!

Fuori di me, mi gettai su di essa per afferrarla. Non presi nulla: era

scomparsa. Provai una rabbia furibonda contro me stesso; un uomo ragionevole e

serio non può avere simili allucinazioni.

Ma si trattava davvero d’una allucinazione? Mi voltai per cercare lo stelo e

subito lo ritrovai sul rosaio, spezzato di fresco, fra le altre due rose attaccate al

ramo.

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Tornai in casa sconvolto; ora sono sicuro, come son sicuro che esistono il

giorno e la notte, che accanto a me c’è un essere invisibile, il quale si nutre di

latte e d’acqua, può toccare gli oggetti, prenderli e spostarli, e dunque possiede

una natura materiale anche se inavvertibile ai nostri sensi, e che vive, con me,

sotto il mio tetto...

7 agosto.

Ho dormito tranquillamente. Lui ha bevuto l’acqua della caraffa, ma non mi

ha dato fastidio, mentre dormivo...

Mi chiedo se sono impazzito. Mentre passeggiavo al sole, lungo il fiume, ho

cominciato a dubitare della mia ragione. Non erano dubbi vaghi, come ne ho avuti

finora, ma dubbi precisi, assoluti. Ho visto dei matti; ne ho conosciuti certi che

erano normali, lucidi ed intelligenti in tutto, fuorché su un punto. Parlavano di

tutto con chiarezza, con disinvoltura, con profondità, ed ecco che all’improvviso il

loro pensiero, sfiorando lo scoglio della pazzia, s’infrangeva in mille pezzi e

spariva in quell’oceano spaventevole e furioso, pieno d’onde ribollenti, di nebbie e

di tempeste, chiamato «demenza».

Certo crederei d’essere matto, completamente, se non fossi cosciente e non

conoscessi perfettamente la mia condizione e non la penetrassi, analizzandola con

completa lucidità. Quindi, non sarei altro che un allucinato ragionante. Nella mia

mente potrebbe essere accaduto qualcosa, un turbamento del genere di quelli che

i fisiologi cercano di notare, di precisare, che avrebbe prodotto una sorta di

profondo crepaccio nell’ordine e nella logica delle mie idee. Fenomeni simili

accadono in sogno, allorché vaghiamo nelle più inverosimili fantasmagorie senza

essere sorpresi, perché l’apparecchio di verifica, il senso del controllo, è

addormentato, mentre le facoltà immaginative vegliano e lavorano. Non può

essere che uno degl’impercettibili tasti della tastiera cerebrale si sia paralizzato?

Ci sono uomini che, dopo un incidente, perdono la memoria dei nomi propri, dei

verbi o dei numeri, oppure soltanto delle date. Oggi sono state dimostrate le

localizzazioni di ciascuna parte del pensiero. Non ci sarebbe nulla di strano, se la

facoltà di controllare la verità di certe allucinazioni si trovi, in questo momento,

impedita.

Stavo pensando a questo, mentre seguivo la riva del fiume. Il sole inondava

tutto con la sua luce, rendeva deliziosa la terra, empiva il mio sguardo d’amore

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verso la vita, verso le rondini, che con la loro agilità fanno la gioia dei miei occhi,

verso le erbe della riva, che col loro fremito fanno la felicità delle mie orecchie.

Eppure, a poco a poco, mi sentivo prendere da un inspiegabile malessere. Era

come se una forza occulta mi appesantisse, mi fermasse, m’impedisse di

proseguire e mi riportasse indietro. Sentivo quel bisogno doloroso di tornare, che

opprime allorché si è lasciato a casa un caro malato, e si ha il presentimento che

il suo stato si sia aggravato.

Tornavo, dunque, senza volere, con la certezza di trovare, a casa, una cattiva

notizia: una lettera oppure un telegramma. Invece non c’era nulla, e restai più

sorpreso e turbato che se avessi nuovamente avuto di quelle fantastiche visioni.

8 agosto.

Ieri ho passato una serata orrenda. Non si manifesta più, ma me lo sento

vicino, che mi spia, che mi guarda, mi penetra e mi domina: più temibile, ora ch’è

nascosto, che se manifestasse la sua invisibile e continua presenza con fenomeni

soprannaturali.

Però son riuscito a dormire.

9 agosto.

Nulla, ma ho paura.

10 agosto.

Nulla: che accadrà domani?

11 agosto.

Sempre nulla: ma non posso più restare a casa, con questo timore e questo

pensiero nell’anima; partirò.

12 agosto, ore 22.

Per tutta la giornata ho cercato d’andarmene; ma non ho potuto. Avrei voluto

compiere quell’azione liberatrice così semplice e facile; uscire, salire in carrozza

per andare a Rouen. Invece non ho potuto. Perché?

13 agosto.

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Quando si hanno certe malattie, pare che l’energia del nostro corpo sia

completamente spenta, che i muscoli siano allentati, le ossa siano molli come

carne e la carne liquida come l’acqua. Ecco quello che provo nella mente, in modo

strano e attristante. Non ho più forza, né coraggio, né alcun potere su di me,

nemmeno per muovermi. Non posso più volere; c’è qualcuno che vuole in vece

mia, ed io obbedisco.

14 agosto.

Sono perduto! Qualcuno possiede e governa l’anima mia! La possiede!

Qualcuno comanda le mie azioni, i miei movimenti, i miei pensieri. Io non sono

più nulla, altro che lo spettatore dominato e atterrito di ciò che compio. Voglio

uscire, ma non posso; lui non vuole. E mi tocca restare, smarrito e tremante,

nella poltrona in cui lui mi costringe a star seduto. Avrei voglia soltanto di

alzarmi, di sollevarmi, per credere d’essere ancora padrone di me. Ma non posso!

Sono ribadito alla poltrona e questa aderisce al pavimento in tal modo che

nessuna forza potrebbe sollevarmi.

Poi, all’improvviso, bisogna, assolutamente bisogna che vada in fondo al

giardino a cogliere le fragole e mangiarle. Ci vado; colgo le fragole, e le mangio!

Oh, mio Dio! mio Dio! mio Dio! Esiste un Dio? se ce n’è uno, liberatemi,

salvatemi, aiutatemi. Perdono, pietà, grazia! Salvatemi! Che tormento, che

tortura, che orrore!

15 agosto.

Capisco ora in qual modo era posseduta e dominata la mia povera cugina,

quando venne a chiedermi in prestito cinquemila franchi. Era succube d’una

volontà estranea penetrata in lei, come un’altra anima parassita e dominatrice.

Forse il mondo sta per finire?

Ma chi è, chi è colui che mi governa, chi è quest’essere invisibile,

inconoscibile, questo vagabondo d’una razza soprannaturale?...

Sicché esistono, gl’Invisibili! Come mai, dunque, da quando c’è il mondo, non

si sono manifestati mai in modo preciso, come ora fanno con me? Non m’è mai

capitato di leggere nulla che somigliasse a quel che sta accadendo nella mia casa.

Oh! se potessi andarmene, se potessi fuggire, andare via e non tornare! Sarei

salvo! Ma non posso...

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16 agosto.

Oggi sono potuto fuggire per due ore, come il prigioniero che trova aperta per

caso la porta della cella. Ho sentito, improvvisamente, che ero libero, che lui se

n’era andato. Subito ho ordinato di attaccare e sono arrivato a Rouen. Ah, che

gioia poter dire a qualcuno che obbedisce: - Andiamo a Rouen!

Ho fatto fermare davanti alla Biblioteca e sono andato a prendere in prestito il

grande trattato del dottor Hermann Herestauss sugli abitatori sconosciuti del

mondo antico e moderno.

Mentre risalivo in carrozza, volevo dire: «Alla stazione!», ma ho gridato - non

detto: gridato! - con voce così forte che la gente si voltava: - A casa!, - poi sono

caduto, sgomento e angosciato, sui cuscini. M’aveva ritrovato e ripreso...

17 agosto.

Ah! che nottata! che nottata! Eppure mi pare quasi che dovrei rallegrarmi.

Fino all’una di mattina ho letto. Hermann Herestauss, dottore in filosofia e

teogonia, ha scritto la storia e le manifestazioni di tutti gli esseri invisibili che

errano intorno all’uomo, o che egli sogna. Ne descrive origine, dominio e poteri.

Ma nessuno di costoro somiglia a colui che mi ha preso.

Parrebbe che l’uomo, da quando pensa, abbia presentito e temuto l’avvento

d’un essere nuovo, più forte di lui, che debba essere il suo successore nel mondo;

e, non potendo prevedere la natura di costui, abbia creato, nel suo terrore, la

fantastica popolazione degli esseri occulti, vaghi fantasmi germinati dalla paura.

Lessi dunque fino all’una di mattina, poi andai a sedermi vicino alla finestra

aperta, perché il vento tranquillo della notte mi rinfrescasse la mente e i pensieri.

L’aria era buona e tiepida. In altri momenti, come mi sarebbe piaciuta una

simile notte!

Non c’era luna. In fondo al cielo nero le stelle mandavano scintillii frementi.

Chi abita in quei mondi: quali forme, quali esseri, quali animali e quali piante

esistono laggiù? Quelli che pensano, in quei lontani universi, che cosa sanno più

di noi? Quali poteri costoro hanno più dei nostri? Che cosa vedono, che noi non

vediamo? Forse, un giorno o l’altro uno di costoro attraverserà lo spazio ed

apparirà sulla terra per conquistarla, come i normanni, nei tempi lontani,

varcavano i mari per asservire i popoli più deboli.

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Siamo tanto deboli, tanto disarmati, ignoranti e piccoli, noi, su questo granello

di fango sciolto in una goccia d’acqua!...

Fantasticando a questo modo, carezzato dal fresco venticello della sera,

m’addormentai.

Avrò dormito per circa quaranta minuti, quando riapersi gli occhi, senza

muovermi, ridestato da uno strano e confuso turbamento. Sulle prime non vidi

nulla, poi mi parve che una pagina del libro, ch’era rimasto aperto sulla tavola, si

fosse voltata da sé. Dalla finestra non era entrato nemmeno un soffio d’aria.

Restai sorpreso; e aspettai. Dopo circa quattro minuti, vidi, vidi, sì, vidi con

questi occhi un’altra pagina sollevarsi e posarsi sulla precedente, come se un dito

l’avesse sfogliata. La poltrona era, pareva vuota; ma capii che c’era lui, seduto al

mio posto, e stava leggendo. Con un salto furioso, un salto da bestia ribelle che

stia per sbranare il domatore, traversai la stanza per acchiapparlo, per stringerlo,

per ammazzarlo!... Ma, prima che potessi arrivarci, la poltrona si rovesciò, come

se qualcuno stesse scappando... la tavola traballò, il lume si rovesciò, si spense e

la finestra si chiuse, come se un malvivente, sorpreso, fosse fuggito nella notte,

afferrandosi alle imposte e tirandole a sé.

Dunque, era scappato... aveva avuto paura; paura di me, lui!

Allora... domani, o dopo... un giorno qualunque... potrei stringerlo fra le

braccia, e schiacciarlo contro il suolo! Non capita che anche i cani, certe volte,

mordano e strozzino i loro padroni?

18 agosto.

Sono stato a pensare per tutta la giornata. Sì, sì: ubbidirò, starò dietro a tutti i

suoi impulsi, a tutti i suoi voleri; sarò umile, sottomesso, codardo. Lui è il più

forte. Ma verrà il momento...

19 agosto.

Ho saputo... ho saputo tutto! Ecco che cosa ho letto sulla Rivista del mondo

scientifico: «Ci è giunta una notizia assai strana da Rio de Janeiro. Un’epidemia di

pazzia, paragonabile a quelle follie contagiose che colpivano i popoli dell’Europa

nel Medioevo, infierisce nella provincia di San Paolo. Gli abitanti abbandonano le

case, i paesi, i campi e dicono d’essere perseguitati, posseduti e governati, come

un gregge umano, da esseri invisibili ma tangibili, una specie di vampiri che si

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nutrono della loro vita mentre essi dormono, e inoltre bevono acqua e latte senza

toccare, a quanto risulta, altri alimenti.

«Il professor don Pedro Henriquez, accompagnato da diversi altri medici, è

partito per la provincia di San Paolo per studiare in loco l’origine e le

manifestazioni di questa stranissima forma di pazzia, e per proporre

all’Imperatore i provvedimenti più opportuni per ristabilire l’ordine fra quelle

popolazioni in delirio».

Ah, sì, sì, mi ricordo! Quel bel tre alberi brasiliano che risaliva la Senna, e

passò sotto le mie finestre, l’8 maggio! Mi parve così bello, così bianco, così

allegro! E lui era lì sopra, che veniva di laggiù, dove la sua razza è nata! Ha visto

la mia casa anch’essa bianca; ed è saltato dalla nave sulla riva. Ah! Dio mio!

Ora so, capisco. Il regno dell’uomo è finito.

È Lui, che suscitò i primi terrori nelle popolazioni ignoranti, Lui, che

gl’inquieti sacerdoti esorcizzavano, Lui, che gli stregoni evocavano nelle cupe notti

senza vederlo ancora comparire, Lui al quale i presentimenti dei momentanei

padroni del mondo diedero le forme graziose o mostruose degli gnomi, degli

spiriti, dei genii, delle fate, dei folletti... Dopo le grossolane concezioni partorite

dal primitivo spavento uomini più perspicaci l’hanno presentito con chiarezza

maggiore. Mesmer l’aveva intuito e i medici, da dieci anni a questa parte, hanno

scoperto con precisione qual sia la natura del suo potere, prima ancora che Lui

stesso l’avesse manifestato. Ed hanno usato l’arma di questo nuovo signore, la

dominazione d’una volontà misteriosa sull’anima umana resa schiava. L’hanno

chiamato magnetismo, ipnotismo, suggestione... Li ho visti divertirsi come ragazzi

sventati, con quell’orrendo potere. Poveri noi! Disgrazia sull’uomo! È venuto... il...

il come si chiama... mi pare che mi dica il suo nome e io non riesco a udirlo, il...

sì, sta gridando... Sto in ascolto... non sento... ripete... l’Horlà! Ora ho sentito:

l’Horlà! È lui: l’Horlà; è venuto!

L’avvoltoio ha mangiato la colomba; il lupo ha mangiato la pecora; il leone ha

divorato il bufalo dalle corna aguzze; l’uomo ha ucciso il leone con la freccia, con

la spada, con la polvere; e l’Horlà farà dell’uomo ciò che noi abbiamo fatto del

cavallo e del bue: una cosa sua, un suo servo e suo cibo, soltanto col potere della

sua volontà. Poveri noi!

Eppure l’animale, alcune volte, si ribella e uccide chi l’ha domato: anch’io lo

voglio... potrei farlo; ma bisogna che lo veda, lo tocchi, che sappia chi è! Gli

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scienziati dicono che l’occhio degli animali, diverso dal nostro, vede in modo

diverso da noi. Così il mio occhio non riesce a distinguere questo nuovo arrivato,

che mi sta opprimendo.

Perché? Ah, ora mi ricordo le parole di quel monaco, sul monte Saint-Michel: -

Forse riusciamo a vedere la centomillesima parte di ciò che esiste? Pensate al

vento, la forza maggiore della natura, che rovescia gli uomini, abbatte gli edifici,

sradica gli alberi, solleva il mare in montagne d’acqua, distrugge le coste, getta

sui frangenti le navi più grandi; il vento che uccide, che fischia, che geme, che

mugge: l’avete mai visto, potete vederlo? Eppure esiste!

Seguitavo a pensare: il mio occhio è così debole ed imperfetto che non riesce

nemmeno a distinguere i corpi duri, se sono trasparenti come il vetro! Basta che

un vetro limpido, senza l’amalgama che lo rende specchio, si trovi davanti a me:

non riuscirò a vederlo e mi ci getterò contro come l’uccello penetrato in una

camera va a battere contro i vetri della finestra. Mille e mille altre cose

l’ingannano, lo disviano. Non c’è da stupirsi che non riesca a scorgere un corpo

nuovo, che possa essere traversato dalla luce.

Un nuovo essere! Perché no? Doveva venire per forza! Perché mai dovremmo

essere noi gli ultimi? Non riusciamo a vederlo, come pure tutti gli altri esseri nati

prima di noi? Ciò è a motivo della sua natura più perfetta, del suo corpo più

sottile e più rifinito del nostro, del nostro che è formato tanto goffamente ed è

pieno d’organi sempre stanchi, sempre sforzati, come motori troppo complessi,

che vive come una pianta e come un animale, nutrendosi con fatica d’aria, d’erbe

e di carne, macchina animale sottoposta a malattie, a deformazioni, a

putrefazione, bolsa, imprecisa, semplice e strana, ingegnosamente malfatta,

grossolana e delicata, abbozzo d’un essere che potrebbe diventare intelligente e

magnifico.

Esistiamo in tanti, al mondo, dall’ostrica all’uomo; perché non ce ne dovrebbe

essere un altro, una volta che si sia compiuto il periodo che divide le successive

apparizioni delle varie specie?

Perché non dovrebbe essercene un altro? Perché non altri alberi dagl’immensi

fiori che sboccino e profumino intere regioni? Perché non altri elementi, fuori del

fuoco, dell’aria, della terra e dell’acqua? Sono quattro, appena quattro, questi

padri, che nutrono tutti gli esseri! E perché non dovrebbero essere quaranta,

quattrocento, quattromila? Che povertà, che meschinità, che miseria! che avarizia

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nel dare, che ristrettezza nell’invenzione, che pesantezza nella fattura! Ah,

l’elefante e l’ippopotamo: che grazia! Il cammello: che eleganza!

Potrete dirmi: la farfalla; un fiore che vola! Ma io ne immagino una grande

come cento universi, con ali di cui non saprei dire la forma, la bellezza, il colore, il

movimento... ma li vedo... Va da una stella all’altra, spargendo frescura e

profumo, con l’armonioso e lieve vento della sua corsa... I popoli di lassù la

guardano passare, estasiati, incantati...

Ma che ho? È Lui, l’Horlà, che mi possiede e mi costringe a pensare a queste

pazzie! È dentro di me: è Lui l’anima mia! Lo ucciderò!

19 agosto.

Lo ucciderò! L’ho visto!

Ieri sera mi sono seduto davanti alla tavola e fingevo di leggere, con grande

attenzione. Sapevo che mi sarebbe venuto attorno, vicino, così vicino che forse

l’avrei potuto toccare... prendere... Allora, con la forza della disperazione, con le

mani, le ginocchia, il petto, la fronte, i denti, l’avrei strozzato, schiacciato, morso,

sbranato...

Lo spiavo, con tutti i miei organi sovreccitati.

Avevo acceso i due lumi e le otto candele del caminetto, come se tutta quella

luce m’avesse potuto aiutare a scoprirlo.

Di fronte a me c’era il letto, un antico letto di quercia con le colonnine; a

destra il caminetto, a sinistra la porta che avevo chiuso accuratamente, dopo

averla lasciata aperta per molto tempo, per attirarlo: alle mie spalle c’era un

altissimo armadio a specchio che usavo, ogni giorno, per farmi la barba, per

vestirmi: tutte le volte che ci passavo davanti ero abituato a guardarmici riflesso,

da capo a piedi.

Dunque, facevo finta di scrivere, per ingannarlo; perché anche lui mi stava

spiando. Ad un tratto lo sentii, fui certo che stava leggendo, oltre la mia spalla,

che c’era, e mi sfiorava l’orecchio.

Mi rizzai, con le mani tese, voltandomi con tanta sveltezza che fui per cadere.

C’era luce come in pieno giorno, eppure non mi vidi, nello specchio! Era vuoto,

limpido, profondo, pieno di luce! Ma la mia immagine non c’era! Ed io ci stavo di

faccia, vedevo il gran vetro nitido, da cima a fondo; lo fissavo cogli occhi sbarrati,

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e non osavo né fare un passo né muovermi, certo che ci fosse lui, che mi sarebbe

ancora sfuggito, mentre il suo corpo impercettibile aveva assorbito la mia

immagine...

Che paura ebbi! Poi, ecco che cominciai a vedermi, in fondo allo specchio, in

mezzo a una nebbia, come un velo d’acqua; e mi pareva che quell’acqua

scivolasse lentamente da destra a sinistra, rendendo più precisa la mia

immagine. Era come la fine d’un’eclissi. Ciò che mi nascondeva a me stesso non

pareva avere contorni ben definiti, ma una sorta di trasparenza opaca che a poco

a poco s’illimpidiva.

Finalmente potetti vedermi bene, come facevo tutti i giorni quando mi

guardavo.

L’avevo visto. M’è rimasto addosso, quello spavento, che ancora mi fa

rabbrividire...

20 agosto.

Come fare a ucciderlo, se non mi riesce d’arrivarlo? Col veleno? Mi vedrebbe

mischiarlo all’acqua; e poi, avrebbero effetto sul suo corpo i nostri veleni? No, no

di certo. Allora... allora...

21 agosto.

Ho fatto venire un magnano di Rouen e gli ho ordinato, per la mia camera,

delle persiane di ferro, come ce ne sono a Parigi in certi palazzi privati, al

pianterreno, per timore dei ladri. Dovrà farmi anche una porta uguale. Farò la

figura del vigliacco, ma me ne infischio!

10 settembre.

Rouen, albergo Continentale. È fatto... fatto... Ma, sarà morto? La mia anima è

sottosopra, per quel che è accaduto.

Ieri, dunque, il magnano ha sistemato porta e finestra di ferro. Ho lasciato

tutto spalancato fino a mezzanotte, per quanto facesse piuttosto freddino.

Ad un tratto, sentii che era venuto e fui preso da una gioia sfrenata. Mi sono

alzato pian piano, sono andato di qua, di là, diverse volte, perché non capisse

nulla; mi son levato gli stivaletti, infilandomi le pantofole; poi ho chiuso le

persiane, e poi, dirigendomi tranquillamente verso la porta, l’ho chiusa a doppia

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mandata. Sono tornato alla finestra, l’ho fermata con un paletto e mi sono messo

la chiave in tasca.

Subito, capii che mi girava attorno, che s’era impaurito, e m’ordinava

d’aprirgli. Fui sul punto di cedere ma non cedetti: mi misi con le spalle alla porta,

la socchiusi quanto bastava per passare, andando all’indietro; data la mia

altezza, col capo toccavo il limitare. Ero sicuro che non sarebbe potuto scappare e

lo chiusi: solo, solissimo! Che gioia! l’avevo preso! Scesi le scale di corsa: nel

salotto sotto la camera presi le due lampade e ne rovesciai tutto l’olio sul tappeto

e sui mobili: poi gli diedi fuoco e scappai dopo avere chiuso accuratamente, a due

mandate, il portone d’ingresso.

Mi andai a nascondere in fondo al giardino, in un boschetto d’alloro. Quanto,

quanto ci volle! Era tutto nero, silenzioso ed immobile: né un soffio d’aria, né una

stella, ma invisibili montagne di nuvole, che mi gravavano sull’anima ed erano

così pesanti... pesanti...

Fissavo la casa, ed aspettavo. Quanto ci volle! M’ero già convinto che il fuoco

si fosse spento da sé, o che Lui l’avesse spento; quando una delle finestre del

pianterreno si schiantò sotto la spinta dell’incendio e una fiamma rossa e gialla,

lunga, molle, carezzevole, salì sul muro bianco, baciandolo fino al tetto. Un

bagliore corse sugli alberi, i rami, le foglie, insieme a un brivido: un brivido di

paura! Gli uccelli si destavano; un cane cominciò ad ululare: pareva che si

facesse giorno. Altre due finestre si schiantarono e m’accorsi che tutto il

pianterreno della casa era diventato uno spaventevole braciere. Ed ecco che un

grido orrendo, acutissimo, straziante, un grido di donna, traversò la notte e due

abbaini s’aprirono! Avevo dimenticato i domestici! Vidi i loro visi atterriti, le loro

braccia che si agitavano.

Sgomento e atterrito cominciai a correre verso il paese, urlando: - Aiuto! aiuto!

- Incontrai alcune persone che stavano già venendo e tornai indietro con costoro,

per vedere.

Ora la casa era tutt’un rogo, orribile e meraviglioso; un rogo mostruoso che

rischiarava tutto, nel quale stavano bruciando degli uomini, ed anche Lui, Lui, il

mio prigioniero, il nuovo Essere, il nuovo padrone, l’Horlà!

Improvvisamente il tetto fu ingoiato tra i muri, e un vulcano di fiamme schizzò

fino al cielo. Da tutte le finestre che s’aprivano sulla fornace, potevo vedere

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l’interno di quella specie di tino di fiamme e pensavo che Lui stava lì dentro,

morto...

Morto? Era possibile? Il suo corpo, quel corpo che poteva essere attraversato

dalla luce, non era indistruttibile dai nostri sistemi?

Se non fosse morto?... Forse, soltanto il tempo può qualcosa contro questo

Essere invisibile e temibile. Perché mai avrebbe un corpo trasparente ed

inconoscibile, un corpo di Spirito, se anch’esso deve temere i mali, le ferite, le

infermità e la precoce distruzione?

La distruzione... tutta la paura dell’uomo proviene da essa. Dopo l’uomo,

l’Horlà. Dopo colui che può morire ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, per

qualunque accidente, è venuto colui che deve morire soltanto nel giorno che gli è

stato fissato, alla sua ora, al suo minuto, perché ha raggiunto il limite

dell’esistenza!

No... no... certamente... non è morto... E allora... allora... dovrò uccidermi...

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MOSCA

- Ne ho viste di cose buffe, - ci disse: - e di ragazze buffe, quando facevo il

canottiere!

Quante volte mi è venuta la voglia di scrivere un librettino intitolato Sulla

Senna, per raccontare la vita che ho fatto dai venti ai trent’anni: forte e

spensierata, un misto d’allegria e di povertà, di chiasso e d’energia.

Facevo l’impiegato, ero povero in canna; ora sono un uomo arrivato che può

permettersi di sciupare grosse somme per un capriccio momentaneo. Allora mille

desideri modesti e irrealizzabili mi coloravano la vita di vaghe attese. Oggi, in

verità, non so che razza di fantasia potrebbe farmi alzare dalla poltrona su cui

sonnecchio. Com’era semplice, bello, e difficile vivere così: tra l’ufficio, a Parigi, ed

il fiume ad Argenteuil!

Per dieci anni l’unica, grande ed esclusiva passione che ebbi, fu la Senna. Oh,

il bel fiume, calmo, variato, fetido, pieno di miraggi e di sozzure! Credo di averlo

amato tanto perché mi ha fatto capire il significato della vita. Ah! passeggiate

lungo le sponde fiorite, le mie amiche ranocchie che cantavano sulle foglie di

ninfea con la pancia al fresco; i gigli d’acqua, agghindati e fragili, tra le erbe alte e

sottili che d’un tratto mi aprivano, dietro un salice, una pagina d’album

giapponese, allorché il martin pescatore, simile a una fiamma turchina, fuggiva

davanti a me! Quanto ho amato tutto ciò, con un amore istintivo degli occhi che

si propagava per tutto il corpo in una gioia naturale e profonda!

Allo stesso modo che altri si ricordano di tenere notti, io mi ricordo del levar

del sole tra le brume mattutine, ondeggianti, vaganti vapori, bianchi, prima

dell’aurora, come son bianchi i morti, e non appena il primo raggio scivola sui

prati, rosati che è un incanto; e così mi ricordo la luna che inargentava l’acqua

fremente e rapida con una luce che faceva fiorire tutti i sogni.

Tutto ciò, simbolo dell’eterna illusione, aveva origine, per me, da quell’acqua

marcia che trascinava verso il mare le sozzure di Parigi.

E che vita allegra coi compagni! Eravamo una banda di cinque - oggi siamo

tutti uomini posati; - siccome eravamo tutti poveri avevamo fondato in una

bettola di Argenteuil una indefinibile colonia, padrona soltanto di una camera

nella quale certamente ho trascorso le più pazze serate della mia vita. Le nostre

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uniche preoccupazioni erano di vogare e di divertirci; poiché per noi - fuorché per

uno - il remo costituiva una vera religione. Mi vengono in mente avventure così

strane, scherzi talmente inverosimili, inventati da noi cinque mascalzoni che

nessuno oggi ci crederebbe. Oggi non si vive più come allora, neanche sulla

Senna, perché nella gente d’oggi è morta l’indiavolata fantasia che ci dava fiato.

Fra tutti e cinque avevamo una barca sola, comprata con grande fatica, e nella

quale abbiamo riso come non rideremo mai più. Era una barca larga, un poco

pesante, ma solida, comoda e spaziosa. Non vi descriverò i miei compagni. Ce

n’era uno, piccolo, furbissimo, soprannominato «Turchinetto»; un altro era alto, di

aspetto selvaggio, con gli occhi grigi e i capelli neri, soprannominato «Tomahawk»;

un altro pigro e spiritoso, soprannominato «Tòcco», l’unico che non prendeva mai

i remi in mano, con la scusa che avrebbe fatto rovesciare la barca, un altro

ancora, snello, elegante, tutto azzimato, soprannominato «Occhio Solo», in ricordo

del romanzo di Cladel - allora recente - e perché portava il monocolo; infine io,

che ero stato battezzato «Joseph il Pruno». Andavamo benissimo d’accordo, e ci

rammaricavamo di una cosa sola: di non avere una timoniera. Una donna è

indispensabile in una barca. Indispensabile, perché mantiene desti il cuore e la

mente, perché dà vita, diverte, distrae, frizza, e perché è decorativa, con

l’ombrellino rosso che scivola fra le sponde verdi. Però non volevamo una

timoniera usuale, perché noi cinque non somigliavamo all’altra gente. Ci voleva

qualcosa di poco comune, di strano, di raro, che potesse adattarsi a tutto.

Ragazze al timone ne avevamo provate parecchie, e senza successo, ma una vera

timoniera no; stupide canottiere che preferivano sempre il vinello inebriante

all’acqua che scorre e che trasporta le barchette. Le tenevamo per una domenica,

poi le mandavamo via disgustati.

Ora, capitò che un sabato sera Occhio Solo ci portò un esserino esile, vivace,

saltellante, di aspetto beffardo, sprizzante estro e furberia, la furberia che

sostituisce lo spirito, nei monelli di ambo i sessi fioriti sul selciato parigino. Era

carina, non bella, un abbozzo di donna, nella quale però c’era tutto, una figurina

come quelle che i disegnatori tracciano con quattro segni sui tavolini dei caffè,

dopo mangiato, fra un bicchierino d’acquavite e una sigaretta. La natura produce

talvolta esseri simili.

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La prima sera costei ci sorprese, ci divertì, ci lasciò interdetti, tanto era

imprevedibile. Piombata in una tana di uomini pronti a qualunque pazzia, capì

subito come andavano le cose e il giorno seguente ci aveva di già conquistati.

D’altro canto era proprio picchiata, era nata con un bicchiere d’assenzio in

corpo, che sua madre aveva bevuto quando stava per partorirla; e non s’era mai

più rimessa a posto, perché anche la sua balia - diceva lei - si aggiustava il

sangue a forza di bere ratafià; ed ella stessa non chiamava mai altrimenti che «la

mia santa famiglia» le bottiglie in fila dietro il banco del vinaio.

Non so chi fu di noi a battezzarla «Mosca» e perché fu chiamata così, ma il

soprannome le stava bene, e le rimase. Sicché la nostra barca, che si chiamava

Foglia rovesciata, fece scivolare ogni settimana sulla Senna, fra Asnières e

Maisons-Laffitte, cinque giovani allegri e robusti, governati, di sotto a un ombrello

di carta colorata, da una personcina vivace e sventata che ci trattava come

schiavi incaricati di portarla a spasso sull’acqua, e alla quale volevamo molto

bene.

Le volevamo tutti molto bene, dapprima per mille motivi poi per uno solo. In

fondo alla nostra imbarcazione ella era come un piccolo mulino a parole che il

vento sull’acqua faceva cicalare. Chiacchierava senza sosta facendo lo stesso

rumore regolare e leggero delle macchine alate che girano col vento; diceva senza

pensarci le cose più impensate, più strambe e sbalorditive. Nella sua mente, che

pareva composta tutta di pezzi differenti, brandelli di ogni specie e colore, e non

cuciti ma imbastiti, c’erano: fantasia come in un racconto di fate, franceseria,

impudicizia, impudenza, imprevisto, comicità; e aria, aria, e paesaggio, come in

un viaggio in pallone.

Le facevamo delle domande soltanto per provocare le sue risposte, che

saltavano fuori non si sa di dove. Il più delle volte la punzecchiavamo con questa:

- Perché ti chiami Mosca?

Trovava delle spiegazioni così inverosimili che dovevamo smettere di remare

per ridere.

Ci piaceva anche come donna, e Tòcco, che non remava mai e stava tutto il

santo giorno seduto al timone accanto a lei, una volta rispose lui alla solita

domanda: - Perché ti chiami Mosca?

- Perché è una piccola cantarella.

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Sì, una piccola cantarella ronzante e inebriante: non la cantarella classica,

velenosa, lucida e incappucciata, ma una piccola cantarella con le ali rossastre,

che cominciava a turbare un po’ l’intero equipaggio della Foglia rovesciata.

Quante sciocche spiritosaggini su quella foglia, dove Mosca s’era posata!

Occhio Solo, dacché Mosca era con noi, aveva assunto certe maniere superiori

dell’uomo che ha una donna in mezzo ad altri quattro che non ce l’hanno.

Abusava del suo privilegio al punto che qualche volta ci faceva rabbia, baciando

Mosca davanti a noi, facendosela sedere sulle ginocchia, dopo che s’era finito di

mangiare, e concedendosi tante altre prerogative umilianti ed irritanti.

In camera li avevamo isolati con una tenda.

Non tardai però ad accorgermi che io e i miei compagni, in fondo ai nostri

cervelli di solitari, dovevamo fare il medesimo ragionamento:

«Perché, in virtù di quale legge eccezionale, di quale assurdo principio, Mosca,

che sembra priva di pregiudizi, sarebbe fedele al suo amante, quando le signore

della migliore società non lo sono ai loro mariti?».

Le nostre considerazioni erano giuste. Non tardammo a convincercene.

Soltanto, avremmo dovuto pensarci subito, per non dover rimpiangere il tempo

perduto. Mosca tradì Occhio Solo con tutti gli altri marinai della Foglia rovesciata.

Lo tradì alla prima richiesta di ognuno di noi, senza far storie, senza resistere.

Mio Dio, le persone pudiche si scandalizzeranno. E perché? Qual è la

cortigiana alla moda che non abbia una dozzina d’amanti, e quale di questi

amanti è così scemo da non saperlo? Non è forse di moda passare la serata da

una donna celebre e reputata, così come si passa la serata all’Opera, al Teatro

Francese, all’Odéon, dacché vi si rappresenta il repertorio semiclassico? Ci si

mette in dieci per mantenere una cocotte che a malapena riesce a razionare la

sua disponibilità, così come ci si associa in dieci per avere un cavallo da corsa

montato da un fantino solo, vera immagine dell’amante del cuore.

Per delicatezza, lasciavamo Mosca a Occhio Solo dal sabato sera al lunedì

mattina. Le giornate di navigazione appartenevano a lui. Lo tradivamo soltanto

durante la settimana, a Parigi, lontano dalla Senna, la qual cosa, per dei

canottieri come noi, non era quasi più tradire.

In tutta la storia c’era questo di notevole i quattro ladruncoli dei favori di

Mosca non ignoravano la spartizione, anzi ne parlavano fra loro, e anche con lei,

con velate allusioni che la facevano ridere di cuore. Occhio Solo pareva che non

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capisse nulla; e la sua speciale condizione faceva nascere un po’ d’imbarazzo fra

noi e lui: era come se lo mettesse in disparte, lo isolasse, rizzasse una barriera

attraverso la fiducia che c’era fra noi, la nostra vecchia intimità. Perciò ai nostri

occhi era come se egli facesse la parte difficile e un tantino ridicola dell’amante

tradito, quasi del marito.

E siccome era molto intelligente, dotato di uno spirito sveglio e vigile, qualche

volta ci chiedevamo, un po’ inquieti, se non se ne fosse accorto.

Si preoccupò di farcelo sapere in un modo che fu penoso per tutti. Stavamo

andando a mangiare a Bougival, e vogavamo vigorosamente quando Tòcco, che

quella mattina aveva i modi trionfanti dell’uomo soddisfatto, e, seduto a fianco

della timoniera, sembrava secondo me stringersi un po’ troppo liberamente a lei,

fermò la voga gridando - Stop!

Gli otto remi uscirono dall’acqua.

Voltandosi verso la sua vicina esclamò:

- Perché ti chiami Mosca?

Prima che lei potesse rispondere, si sentì la voce di Occhio Solo seduto

davanti, dire seccamente:

- Perché si posa su tutte le carogne.

Ci fu dapprima un gran silenzio, un senso di disagio seguito da una gran

voglia di ridere. Anche Mosca non sapeva cosa fare.

Tòcco ordinò:

- Avanti tutti!

La barca riprese ad andare.

L’incidente era chiuso, la luce fatta.

L’accaduto non mutò per nulla le nostre abitudini, e d’altro canto ristabilì la

cordialità tra Occhio Solo e noi. Egli tornò ad essere l’onorato proprietario di

Mosca, dal sabato sera al lunedì mattina, e la sua superiorità su di noi venne

ribadita da quella definizione che chiuse, inoltre, l’era delle domande sul nome

«Mosca».

In seguito, ci contentammo del nostro posto in sottordine, di amici

riconoscenti e devoti che approfittavano con discrezione dei giorni feriali, senza

litigare.

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Andò tutto benissimo per circa tre mesi. Ma ecco che improvvisamente Mosca

assunse modi curiosi con tutti noi. Era meno allegra del solito, nervosa,

irrequieta, quasi irascibile. Le domandavamo di continuo:

- Cos’hai?...

Rispondeva:

- Niente. Lasciami stare.

Fu Occhio Solo che un sabato sera ci fece la rivelazione. Ci eravamo messi a

tavola nella salettina da pranzo che il trattore Barbichon riservava per noi nella

sua osteria, e, finita la minestra, aspettavamo il fritto, quando il nostro amico,

che pareva preoccupato anche lui, prima prese la mano di Mosca, poi disse:

- Miei cari compagni, debbo dirvi una cosa molto grave, che forse provocherà

lunghe discussioni. D’altronde potremo ragionare tra un piatto e l’altro. Questa

poveretta di Mosca mi ha dato una tremenda notizia, e mi ha incaricato di

comunicarvela.

«Si tratta di questo: è incinta. Non è il momento di abbandonarla, ed è vietata

la ricerca della paternità».

Restammo a bocca aperta, presentendo il disastro: ci guardavamo l’un l’altro

con la voglia di accusare qualcuno. Ma chi? chi? Mai come in quel momento

sentii la perfidia della natura, che si beffa crudelmente di noi, non permettendo a

nessun uomo di sapere con sicurezza se egli sia o no il padre di suo figlio.

Poi, a poco a poco, una specie di consolazione nata da un confuso senso di

solidarietà, ci confortò.

Tomahawk, che parlava di rado, decretò l’inizio della distensione con questa

frase:

- Bah! tanto meglio... l’unione fa la forza.

Uno sguattero portò i ghiozzi. Non li prendemmo d’assalto, come al solito,

perché eravamo ancora preoccupati.

Occhio Solo aggiunse:

- In questa circostanza lei è stata così delicata che mi ha fatto una confessione

completa. Amici miei, noi siamo tutti ugualmente colpevoli. Diamoci la mano e

adottiamo il nascituro.

La decisione fu presa all’unanimità. Alzammo la mano sul vassoio del pesce

fritto e giurammo:

- L’adottiamo.

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Salva, liberata a un tratto dall’orrendo peso della preoccupazione che da un

mese la torturava, Mosca, la gentile e squilibrata mendicante dell’amore, esclamò:

- Oh, amici miei! amici miei! Avete un cuore d’oro... d’oro... d’oro... Grazie a

tutti!

E per la prima volta davanti a noi, pianse.

Da quel momento nella barca si parlò del bambino come se fosse già nato, e

ognuno di noi s’interessava, con sollecitudine esagerata, del lento e graduale

accrescersi dei fianchi della nostra timoniera.

Si smetteva di vogare per chiedere:

- Mosca?

Lei rispondeva:

- Presente!

- Maschio o femmina?

- Maschio.

- E cosa farà quando sarà grande?

Allora ella sbrigliava la fantasia nei modi più bizzarri. Faceva racconti

interminabili, invenzioni sbalorditive, dal giorno della nascita fino al definitivo

trionfo.

Quel figlioletto fu tutto, nei sogni ingenui, appassionati e commoventi della

straordinaria creatura che ora viveva castamente in mezzo a noi chiamandoci «i

cinque papà». Se lo figurò, e ne parlò, come un navigante che scopre un nuovo

mondo più vasto dell’America; poi come un generale che restituisce alla Francia

l’Alsazia Lorena; poi come un imperatore che fonda una dinastia di sovrani saggi

e generosi che procurano alla nostra patria una durevole felicità; poi come uno

scienziato che dapprima ritrova il segreto della fabbricazione dell’oro, e quindi

quello della vita eterna; poi come un aeronauta che inventa il modo di andare a

visitare gli astri e trasforma l’infinito cielo in un immenso passeggio per gli

uomini, realizzazione dei sogni più imprevisti e più splendidi.

Dio! quanto fu cara e divertente la povera piccina, fino alla fine dell’estate!

Il venti di settembre il suo sogno s’infranse. Avevamo mangiato a

Maisons-Laffitte, e al ritorno, quando passavamo davanti a Saint-Germain ella

ebbe sete, e ci chiese di fermarci al Pecq.

Da un po’ di tempo s’era appesantita, e ciò la infastidiva parecchio.

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Non ce la faceva più a sgambettare come prima, né a saltare dalla barca alla

riva, com’era abituata a fare. Ci si provava ancora, nonostante le nostre grida, e i

nostri avvertimenti, e se non ci fossero state le nostre braccia ad afferrarla, chissà

quante volte sarebbe caduta.

Quel giorno fu tanto imprudente che volle scendere a terra prima che la barca

si fosse fermata, per una di quelle bravate, con cui talvolta gli atleti indisposti, o

stanchi, causano la propria morte.

Proprio quando stavamo per accostare, e senza che avessimo potuto prevedere

o prevenire la sua mossa, si alzò, prese lo slancio, e cercò di saltare sulla

banchina.

Debole com’era, toccò il margine della pietra soltanto con la punta del piede,

scivolò, urtò in pieno lo spigolo col ventre, lanciò un grand’urlo e scomparve

nell’acqua.

Ci tuffammo tutti e cinque insieme e riportammo a terra una povera creatura

disfatta, pallida come una morta, già presa da atroci dolori.

La trasportammo in fretta nella locanda più vicina, e mandammo a chiamare

un medico.

Per tutte le dieci ore che durò l’aborto ella sopportò con coraggio addirittura

eroico le torture più tremende. Intorno a lei noi ci disperavamo, palpitando

d’angoscia e di timore.

Si sgravò di un bambino morto; per qualche giorno ancora fummo in grande

ansia per la sua vita.

Finalmente una mattina il dottore ci disse: - Credo che sia salva. È di ferro,

questa ragazza... - Entrammo nella camera tutti insieme, raggianti.

Occhio Solo parlò a nome di tutti:

- Sei fuori pericolo, cara Mosca, e ne siamo felici.

Per la seconda volta Mosca pianse davanti a noi, e con gli occhi velati dalle

lacrime balbettò:

- Oh! se sapeste... se sapeste... che dolore... che gran dolore... non potrò mai

consolarmi!

- Di che cosa, cara Mosca?

- Di averlo ucciso. Perché l’ho ucciso! Oh, ma senza volere... che disgrazia!

Singhiozzava. Commossi, le stavamo intorno, senza sapere cosa dire.

Soggiunse:

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- L’avete visto, voi?

Rispondemmo a una voce:

- Sì.

- Era un maschio, vero?

- Sì.

- Era bello, vero?

Esitammo. Turchinetto, che aveva meno scrupoli di noi, si decise:

- Bellissimo.

Fece male, perché Mosca riprese a lamentarsi, a urlare quasi, dalla

disperazione.

Allora Occhio Solo, che era forse quello che le voleva più bene, per calmarla

ebbe un’idea geniale, e, baciandola sugli occhi velati dal pianto:

- Consolati, cara Mosca, consolati, - disse: - te ne faremo un altro.

Il senso comico che in lei era innato, si risvegliò d’un tratto: e a metà convinta

e a metà scherzosa ci chiese, ancora lacrimando e con il cuore gonfio di pena,

guardandoci:

- Sul serio?

Rispondemmo tutti insieme:

- Sul serio.

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L’OLIVETO

I

Appena scorsero la barca di don Vilbois che tornava dalla pesca, gli uomini del

porto, il porticciolo di Garandon in fondo all’insenatura di Pisca, tra Marsiglia e

Tolone, scesero alla riva per dare una mano a tirarla in secco. Il prete era solo e

remava come un vero marinaio, nonostante i suoi cinquant’otto anni. Le maniche

rimboccate sulle braccia muscolose, la tonaca rialzata e serrata tra le ginocchia,

un po’ slacciata sul petto, un cappello a campana, di sughero ricoperto di tela

bianca, sul capo, in sostituzione del tricorno posato sulla panchina a fianco,

aveva tutto l’aspetto di un ecclesiastico dei paesi tropicali, più adatto a menare

vita avventurosa che a dire la messa.

Di tanto in tanto dava un’occhiatina dietro di sé per veder bene il luogo

d’approdo, poi riprendeva a vogare con ritmo metodico e deciso, per dimostrare

una volta di più, ai cattivi marinai del Mezzogiorno, come ci sappiano fare gli

uomini del Settentrione.

La barca toccò la sabbia a tutta andatura e vi strisciò sopra come se stesse

per risalire tutta la spiaggia penetrandovi con la chiglia: quindi si fermò di botto e

i cinque che lo guardavano arrivare si avvicinarono affabili, contenti e premurosi.

- Ebbene... - disse uno di loro con forte accento provenzale; - buona pesca,

signor parroco?

Don Vilbois tirò i remi nella barca, si tolse il cappello di sughero per sostituirlo

con il tricorno, si tirò giù le maniche, si riabbottonò la tonaca, quindi, ripresi il

contegno e i modi di pastore del villaggio, rispose con fierezza:

- Sì, sì, buonissima: tre cefali, due murene e qualche girella.

I cinque pescatori si erano accostati alla barca e, chini sui bordi,

consideravano i pesci da intenditori, i cefali grassi, le murene dalla testa piatta,

schifosi serpenti di mare, e le girelle violacce striate a zigzag da dorature color

buccia d’arancia.

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Uno disse:

- Ve li porto a casa, signor parroco.

- Grazie, bravo...

Salutati tutti con una stretta di mano, il prete si avviò, seguito da uno di loro

e lasciando agli altri la cura di ricoverare la sua imbarcazione. Ancora accaldato

dalla vogata vigorosa, di tanto in tanto, passando sotto l’ombra leggera degli olivi,

si toglieva il tricorno per sentire l’aria della sera, ancora tiepida ma rinfrescata da

una lieve brezza marina, sulla fronte quadrata, incorniciata da capelli candidi

tagliati corti a spazzola, una fronte di militare più che di prete. Il villaggio si

mostrava in cima ad un’altura, nel mezzo di un valloncello che finiva pianeggiante

verso il mare.

Era una sera di luglio. Il sole accecante, prossimo a raggiungere la sagoma

dentata di lontane colline, allungava di traverso sulla strada bianca, sepolta sotto

un sudario di polvere, l’ombra smisurata dell’ecclesiastico, e il suo tricorno

proiettava nei campi accanto un’ingrandita macchia scura che pareva giocasse ad

arrampicarsi a saltelloni su tutti i tronchi degli olivi che incontrava, e quindi

ricadeva a terra dove strisciava tra gli alberi.

I passi di don Vilbois sollevavano nubi di polvere finissima, quella specie di

farina impalpabile di cui sono ricoperte in estate le strade provenzali di

campagna, che saliva in fumo sulla balza della tonaca e vi formava un’orlatura

grigia più intensa in basso e poi sempre più tenue. Meno accaldato, adesso, egli

camminava con le mani in tasca, con il passo lento e possente di un montanaro

che compie un’ascensione. Il suo sguardo tranquillo era rivolto al villaggio, al suo

villaggio, dove era parroco da una ventina d’anni, il villaggio ch’egli stesso aveva

scelto, ottenendolo come un grande favore, e dove contava di morire. La chiesa, la

sua chiesa, sovrastava l’ampio cono di case che le si affollavano attorno con due

torri di pietra scura, disuguali e quadrate, che rizzavano in quel bel valloncello

meridionale la loro antica sagoma, simili più a difese d’un castello fortificato che

non a campanili di un sacro edificio.

Il prete era soddisfatto perché aveva pescato tre cefali, due murene e qualche

girella.

Avrebbe goduto di un nuovo piccolo trionfo sui suoi parrocchiani, lui che

veniva rispettato perché, nonostante l’età, era forse l’uomo più ben fornito di

muscoli di tutto il paese. Queste piccole innocenti vanità costituivano il più

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grande dei suoi piaceri. Con la pistola sapeva spezzare il gambo di un fiore,

qualche volta tirava di sciabola con il tabaccaio, suo vicino di casa, che era stato

maestro di scherma nell’esercito, e nuotava meglio di chiunque altro della costa.

Egli era stato, d’altronde, un uomo di mondo molto noto in passato, molto

elegante, il barone di Vilbois, e s’era fatto prete a trentadue anni in seguito a una

delusione d’amore.

Rampollo di una vecchia famiglia piccarda, monarchica e religiosa, che da

secoli dava i suoi figli all’esercito, alla magistratura o al clero, aveva pensato, in

gioventù, di prendere gli ordini, come gli consigliava sua madre, ma, dietro le

insistenze di suo padre, decise semplicemente di andare a Parigi per studiarvi

legge e prepararsi a un qualche serio incarico di tribunale.

Ma mentre stava finendo gli studi, suo padre morì di una polmonite contratta

a caccia in palude e sua madre soccombette al dolore poco tempo dopo. Perciò

egli ereditò un grosso patrimonio e rinunciò a qualsiasi carriera, contentandosi di

vivere da uomo ricco.

Bel giovanotto, intelligente benché di mente limitata dalle idee, dalle

tradizioni, dai principii, ereditari come i suoi muscoli, riuscì simpatico, ebbe

successo tra la gente seria e si godette la vita da uomo giovane, rigido, danaroso e

stimato.

Ma gli accadde d’innamorarsi di una giovane attrice incontrata qualche volta

in casa di un amico, una giovanissima allieva del conservatorio, che esordì

all’Odéon con un successo clamoroso.

Se ne innamorò con tutta la violenza di un uomo costruito tutto d’un pezzo.

Se ne innamorò vedendola nella parte romantica che le aveva valso un trionfo il

giorno in cui ella si era presentata al giudizio del pubblico.

Era graziosa, di natura perversa e aveva un aspetto di bambina ingenua che

Vilbois definiva un’aria d’angelo. Ella seppe conquistarselo completamente, farne

un forsennato in delirio, uno di quei dementi estatici che uno sguardo, o le

gonnelle di una donna possono far ardere sul rogo delle passioni mortali. Egli ne

fece la sua amante, volle che abbandonasse il teatro e l’amò per quattro anni, con

ardore sempre crescente. E avrebbe certamente finito per sposarla, nonostante le

tradizioni d’onore della sua famiglia, se un certo giorno non avesse scoperto che

ella lo tradiva con l’amico che gliel’aveva fatta conoscere.

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Il dramma fu tanto più tremendo perché la donna era incinta ed egli aspettava

la nascita del bambino, per decidersi al matrimonio.

Quando ebbe le prove del tradimento, certe lettere trovare in un cassetto, le

rinfacciò la sua infedeltà, la sua perfidia, la sua ignominia, con tutta la brutalità

di semiselvaggio, qual era.

Ma lei, figlia del marciapiede parigino, impudente quanto impudica, sicura

dell’altro uomo quanto di questo, arditamente come le ragazze del popolo che

vanno alle barricate per semplice bravata, gli tenne testa e l’insultò, e quando egli

stava per picchiarla gli mostrò il ventre.

Vilbois si trattenne impallidendo, pensando che là dentro, in quella carne

insozzata, in quel corpo vile, in quella creatura immonda, c’era un suo rampollo,

un suo figliolo! Allora si gettò su di lei, per schiacciarli entrambi, per annullare la

doppia vergogna. Ella ebbe paura, si sentì perduta, e, caduta a terra sotto i suoi

pugni, vedendo il piede di lui alzato per colpire il fianco turgido in cui viveva già

un embrione di uomo, tese le mani per ripararsi e gridò:

- Non ammazzarmi. Non è tuo figlio, è di lui!

Egli fece un balzo indietro, talmente stupito, talmente sbalordito che il suo

furore restò sospeso al pari del suo piede. Balbettò:

- Cosa?... Cosa dici?

La donna, invasa a un tratto da una paura folle della morte, intravista negli

occhi e nei gesti tremanti dell’uomo, ripeté:

- Non è tuo, è suo!

Annientato, egli mormorò a denti stretti:

- Il bambino?

- Sì.

- Tu menti.

E, di nuovo, rifece il movimento del piede che sta per schiacciare, mentre la

sua amante, rialzatasi in ginocchio, cercava d’indietreggiare balbettando sempre:

- Ma se ti dico che è di lui! Se fosse tuo non avrei già partorito da tanto

tempo?

Questa frase lo colpì come la verità stessa, si sentì convinto da una di quelle

folgorazioni del pensiero in cui tutti i ragionamenti si presentano con lampante

chiarezza: precisi, irrefutabili, concludenti, irresistibili; si sentì sicuro di non

essere padre del disgraziato bambino che quella sciagurata portava in seno; e,

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sollevato, liberato, quasi placato ad un tratto, rinunciò ad annientare quell’infame

creatura.

Le disse con voce più tranquilla:

- Alzati, vattene, che non ti veda mai più.

Ella ubbidì, vinta, e se ne andò.

Non la rivide mai più.

Se ne andò anche lui. Andò nel Mezzogiorno, verso il sole, e si fermò in un

villaggio nel mezzo d’un valloncello in riva al Mediterraneo. Gli piacque una

locanda che guardava il mare, prese lì una camera e vi rimase. Lì dimorò per

diciotto mesi, nel dolore, nella disperazione, in un completo isolamento. Visse nel

ricordo straziante della traditrice, del suo faccino, del suo ardore, della sua

inconfessabile malìa, col rimpianto della sua presenza e delle sue carezze.

Vagabondava per le vallette di Provenza, sotto il sole schermato dalle foglioline

grigiastre degli olivi, con il capo dolorante per l’ossessione che l’occupava.

In quella solitudine dolorosa, le sue antiche idee di pietà, l’ardore un po’

spento della sua primitiva fede, gli tornarono adagio adagio nel cuore. La religione

che, in passato, gli era parsa un rifugio contro la vita ancora ignorata, gli

appariva ora come il rifugio contro la vita ingannatrice e tormentosa. Aveva

conservato l’abitudine della preghiera. Vi si aggrappò, nel dolore e, all’imbrunire,

andava spesso ad inginocchiarsi nella chiesa in penombra dove, in fondo al coro,

brillava solitaria la fiammella della lampada, sacra guardia del santuario, simbolo

della divina presenza.

Confidò le sue pene a quel Dio, al suo Dio, e gli sottomise tutta la sua miseria.

Gli chiedeva consiglio, misericordia, pietà, soccorso, protezione, consolazione, e

nella preghiera, ogni giorno più fervente, egli poneva una sempre più profonda

commozione.

Il suo cuore ferito, roso dall’amore per una donna, si era rimarginato e

palpitava, sempre avido di tenerezza. A poco a poco, a forza di pregare, di vivere

come un eremita con crescenti pratiche di devozione e di abbandonarsi alla

segreta comunione delle anime pie col Salvatore che consola e chiama a sé i

derelitti, il mistico amore di Dio vinse in lui l’amore terreno.

Tornò all’antico divisamento, e decise di offrire alla Chiesa una vita spezzata

che poco mancò non avesse dato intatta.

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Divenne dunque sacerdote. Grazie alla sua famiglia e alle sue conoscenze,

ottenne la nomina a parroco di quel villaggio di Provenza in cui il caso l’aveva

condotto, e dopo aver dato in beneficenza gran parte del suo patrimonio serbando

per sé soltanto ciò che gli consentiva di essere utile e soccorrevole ai poveri sino

alla sua morte, si rifugiò in una pacata esistenza di pratiche di pietà e di

dedizione ai suoi simili.

Fu un prete di vedute limitate, ma buono, una specie di guida religiosa col

temperamento di un soldato, una guida della Chiesa che rimetteva a forza sulla

buona strada l’umanità smarrita, cieca, sperduta nella foresta della vita in cui i

nostri istinti, i nostri gusti, i nostri desideri, sono sentieri che disviano. Ma

rimase viva in lui buona parte dell’uomo che era stato. Continuarono a piacergli

gli esercizi violenti, i nobili sport, le armi e detestava le donne, tutte, con la paura

del bambino dinanzi a un pericolo misterioso.

II

Il marinaio che accompagnava il prete si sentiva in corpo la voglia di

discorrere propria dei meridionali. Ma non ardiva, per via della gran soggezione

che il parroco esercitava sul suo gregge.

Infine arrischiò:

- Dunque, - disse, - vi trovate bene nelle vostra casetta di campagna, signor

parroco?

Questa casetta era una di quelle microscopiche costruzioni in cui i provenzali

della città e dei villaggi vanno a ficcarsi d’estate per godersi l’aria buona. Il prete

aveva affittato quella scatola in mezzo a un campo, a cinque minuti dalla casa

parrocchiale che era assai angusta, imprigionata nel centro dell’abitato, proprio a

ridosso della chiesa.

Anche d’estate, egli abitava saltuariamente in quel posticino di campagna; vi

andava a trascorrere appena qualche giorno di tanto in tanto, per vivere tra il

verde e sparare con la pistola.

- Sì, mio caro, - disse il prete, - mi ci trovo benissimo.

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Adesso si vedeva la casetta bassa, costruita tra gli alberi, dipinta di rosa,

zebrata, sminuzzata, tagliuzzata a pezzettini dai rami e dalle foglie degli olivi

piantati nel campo senza cinta, e sembrava che fosse spuntata lì come un fungo

provenzale.

Si scorgeva anche una donna d’alta statura che andava e veniva in atto di

apparecchiare per la cena una piccola tavola sulla quale, ogni volta, deponeva con

metodica lentezza un solo coperto: un piatto, un tovagliolo, un bicchiere. Portava

sui capelli la cuffiettina delle alsaziane, un aguzzo cono di seta o di velluto nero

sul quale si rizza un fungo bianco.

Quando il prete giudicò di poter essere udito la chiamò:

- Marguerite!

Ella si fermò cercando con lo sguardo, e, riconosciuto il padrone, rispose:

- Ah! siete voi, signor parroco?

- Sì, ho fatto buona pesca... friggetemi subito un cefalo, un cefalo al burro,

soltanto burro: intesi?

La serva, che era venuta incontro ai due uomini, esaminava da intenditrice i

pesci che il marinaio le porgeva.

- Veramente, abbiamo già un pollo col riso, - disse.

- Tanto meglio. Il pesce del giorno prima non è mai come il pesce che esce

dall’acqua. Farò un pranzo coi fiocchi, cosa che non capita spesso; e, d’altronde,

non è poi un peccato troppo grosso...

La donna scelse il cefalo e, portandoselo via, si girò:

- Ah! un uomo è venuto a cercarvi tre volte, signor parroco.

Egli domandò con indifferenza:

- Un uomo? Che razza d’uomo?

- Uno che a vederlo non ispira fiducia.

- Cosa? Un mendicante?

- Forse sì, non lo so. Direi piuttosto un maoufatan.

Don Vilbois sorrise a quel nome che in provenzale significa malfattore,

vagabondo delle strade maestre, anche perché conosceva il pavido animo di

Marguerite che non poteva stare in campagna senza immaginare tutto il giorno, e

soprattutto tutta la notte, ch’erano sempre in pericolo d’essere assassinati.

Il prete congedò il marinaio porgendogli qualche soldo; e, siccome aveva

conservato abitudini di pulizia e modi di uomo di mondo, stava dicendo: - Vado a

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risciacquarmi un tantino mani e faccia... - quando Marguerite, dalla cucina ov’era

intenta a raschiare con un coltello il dorso del cefalo dalla coda alla testa

staccando in minute lamelle argentee le scaglie un po’ macchiate di sangue, gli

gridò:

- Eccolo qui!...

Il prete si girò verso il sentiero e vide infatti un uomo che veniva adagio verso

casa sua e che da lontano sembrava assai male in arnese. L’aspettò, sorridendo

ancora della paura della serva e pensando: «Davvero ha ragione lei, sembra

proprio un maoufatan... ».

Lo sconosciuto si avvicinava senza affrettarsi, con le mani in tasca e lo

sguardo rivolto al prete. Era giovane, con la barba incolta, bionda e ricciuta, i

capelli gli si arricciolavano a ciocche spuntando da un cappello a cencio talmente

unto e sformato che non sarebbe più stato possibile indovinarne la primitiva

forma e colore. Aveva indosso un soprabito color marrone, un paio di calzoni

sfrangiati in fondo; calzava ciabatte di corda che gli davano un’andatura

dinoccolata, silenziosa, inquietante, un passo furtivo di vagabondo.

Quando si trovò a poca distanza dal prete, si levò il cencio che gli riparava la

fronte, salutando con un gesto alquanto teatrale e scoprendo una testa avvizzita

da crapulone, calva alla sommità del cranio, indice di stravizi o di stanchezza

precoce in un uomo che non poteva avere più di venticinque anni.

Il prete si levò subito il cappello anche lui, indovinando e sentendo che quello

non era il solito vagabondo, l’operaio disoccupato o il pregiudicato, tra una

condanna e l’altra, che non sa più parlare altro linguaggio che non sia quello

misterioso delle carceri.

- Buon giorno, signor parroco, - disse l’uomo.

Il prete rispose semplicemente: - Salve, - non volendo dire «signore» a quel

viandante sospetto e cencioso. Si guardarono negli occhi e don Vilbois, sotto lo

sguardo del vagabondo, si sentì a disagio, inquieto come se si trovasse di fronte a

un nemico sconosciuto, preso da quello strano turbamento che s’infiltra con un

brivido nella pelle e nel sangue.

Infine, il vagabondo disse:

- Ebbene, non mi riconoscete?

Il prete, sbalordito, rispose:

- Niente affatto, proprio non vi conosco.

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- Ah! non mi riconoscete? Guardatemi meglio!

- Inutile guardarvi. Non vi ho mai veduto.

- È vero, - continuò l’altro ironico, - ma voglio mostrarvi una persona che

conoscete di certo.

Si rimise il cappello in capo e si sbottonò il soprabito. Sotto era a torso nudo.

Una fusciacca rossa, attorcigliata attorno al ventre incavato, gli sosteneva i

calzoni sulle anche.

Cavò una busta dalla tasca, una di quelle inverosimili buste incrostate di

macchie d’ogni sorta, una di quelle buste che, tra i cenci degli straccioni

vagabondi, servono a conservare i documenti, veri o falsi, rubati o legittimi,

difensori preziosi della libertà contro il gendarme in cui ci si può imbattere. Ne

tolse una fotografia, uno di quei cartoni grandi come un foglio di carta da lettere

che usavano una volta, ingiallito, frusto, strascicato dappertutto da tanto tempo,

riscaldato dal corpo di quell’uomo e offuscato dal suo calore.

Alzandolo a lato del proprio viso, domandò:

- Questo, lo conoscete?

Il reverendo fece due passi avanti per vederci meglio e impallidì esterrefatto

perché quello era il suo ritratto, fatto per Lei, ai tempi lontani dell’amore.

Non rispose nulla; non capiva.

Il vagabondo ripeté:

- Lo conoscete, questo?

E il prete balbettò:

- Ma sì.

- Chi è?

- Sono io.

- Ne siete certo?

- E allora! guardateci, guardateci tutti e due adesso, il vostro ritratto e me.

Si era già accorto, il pover’uomo, che i due esseri, quello della fotografia e

quello che ghignava a lato, si somigliavano come fratelli; ma ancora non capiva, e

barbugliò:

- Insomma, cosa volete?

Allora lo straccione, con voce cattiva:

- Cosa voglio? Che mi riconosciate, anzitutto.

- Ma voi chi siete?

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- Chi sono? Chiedetelo al primo che incontrate per la strada, chiedetelo alla

vostra domestica, andiamo a chiederlo al sindaco del paese, se vi pare,

mostrandogli questa, e si farà una bella risata, ve lo dico io! Ah! vorreste negare

che sono vostro figlio, papà curato?

Allora il vecchio, alzando le braccia con gesto biblico e disperato, gemette:

- Non è vero.

Il giovanotto gli andò sotto, naso a naso.

- Ah! non è vero? Reverendo, bisogna smetterla con le menzogne, mi capite?

Stava in atteggiamento minaccioso e teneva i pugni chiusi, parlando con così

violenta sicurezza che il prete, indietreggiando, si chiese chi dei due stesse

ingannandosi in quel momento.

Tuttavia affermò ancora una volta:

- Io non ho mai avuto figli.

L’altro replicò:

- E neanche un’amante?

Il vecchio pronunciò risolutamente una sola parola, una fiera confessione:

- Sì.

- E quell’amante non ve la siete levata dai piedi quand’era incinta?

D’improvviso l’antica collera, soffocata venticinque anni prima, non proprio

soffocata ma sepolta in fondo al cuore dell’uomo, spezzò il masso di fede, di

rassegnata devozione, di totale rinuncia che egli vi aveva deposto sopra. Fuori di

sé, gridò:

- L’ho scacciata perché mi aveva tradito, perché portava in seno il figlio di un

altro, se no l’avrei ammazzata, e voi con lei.

Il giovane ebbe un attimo d’esitazione, sorpreso a sua volta dalla collera del

prete e replicò con più calma:

- Chi vi disse che fosse il figlio di un altro?

- Lei, lei stessa, tenendomi testa.

Allora il vagabondo, senza contestare l’affermazione e col tono di un

mascalzone che giudica una causa, concluse:

- Ebbene! Vuol dire che la mamma s’è ingannata nel pigliarvi in giro, ecco

tutto...

Tornato più padrone di sé, dopo lo scatto di furore, il prete interrogò a sua

volta:

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- Chi ve l’ha detto, a voi, di essere mio figlio?

- Lei stessa, in punto di morte, signor parroco... e questa.

E rimise la fotografia sotto gli occhi del prete.

Il vecchio la prese e adagio, lungamente, col cuore pervaso dall’angoscia,

confrontò lo sconosciuto viandante con la propria vecchia immagine, e non ebbe

più dubbi: quello era davvero suo figlio.

Sentì uno strazio nell’anima, un turbamento indicibile, tremendamente

doloroso, come il rimorso di un antico delitto. Capiva una parte, intuiva il resto,

rivedeva la scena brutale della rottura. La donna, per aver salva la vita

minacciata dall’uomo oltraggiato, la perfida femmina traditrice, gli aveva urlato in

faccia quella menzogna. E la menzogna le era servita. Suo figlio era nato, si era

sviluppato, era diventato quel sordido pezzente vagabondo che puzzava di vizio

come un caprone puzza di bestia.

Sussurrò:

- Facciamo due passi, ci spiegheremo meglio.

L’altro sogghignò:

- Certo, perbacco! Sono venuto proprio per questo.

S’incamminarono assieme, a fianco a fianco, nell’oliveto. Il sole era

tramontato. Il frizzante crepuscolo del Mezzogiorno scendeva un invisibile

mantello di frescura sulla campagna.

Il prete rabbrividiva e alzando gli occhi d’improvviso in un movimento abituale

all’officiante, vide ovunque attorno a sé, tremolante sotto la volta del cielo, il

tenue fogliame grigiastro del sacro albero che aveva accolto sotto la sua ombra

leggera il più grande dolore, il solo istante di smarrimento di Cristo.

Sgorgò in lui dal profondo una preghiera, breve e disperata dettata da quella

voce interiore che non giunge alle labbra e con la quale i fedeli implorano il

Salvatore: - Dio mio, aiutatemi!

Quindi, rivolgendosi al figlio:

- Dunque, vostra madre è morta?

Una nuova pena si risvegliò in lui mentre pronunciava le parole: «Vostra

madre è morta», e gli stringeva il cuore; una povera debolezza della carne

dell’uomo che non ha dimenticato interamente e un’eco crudele della tortura

subita, ma, forse, ancor più perché era morta; un riflusso della delirante e breve

felicità della giovinezza di cui ora non rimaneva altro se non la piaga del ricordo.

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Il giovane rispose:

- Sì, signor parroco; mia madre è morta.

- Molto tempo fa?

- Sì, sono già tre anni.

Il prete ebbe un altro dubbio.

- Perché non siete venuto a cercarmi prima?

L’altro esitò.

- Non potevo. Avevo certi impedimenti... Ma scusatemi d’interrompere queste

confidenze che vi farò più tardi, particolareggiate fin che vorrete, per dirvi che non

ho mangiato da ieri mattina.

Uno slancio di pietà percorse il vecchio che stendendo le mani disse:

- Oh! povero ragazzo!

Il giovanotto prese le due grandi mani tese che rinchiusero le sue dita, più

sottili, tiepide e febbricitanti.

Quindi rispose con il tono beffardo che di rado mancava sulle sue labbra:

- Credo che finiremo davvero per intenderci.

Il prete si avviò.

- Andiamo a cena, - disse.

Adesso pensava, con piacere istintivo, imprecisato e bizzarro, al bel pesce che

aveva pescato e che, aggiunto alla gallina col riso, sarebbe stato, per quel giorno,

un buon pranzo per quello sciagurato ragazzo.

L’Arlesiana, scontenta e di già brontolona, era in attesa dinanzi all’uscio.

- Marguerite, - gridò il prete, - levate subito la tavola di qui e portatela in

salotto, svelta, svelta, e apparecchiate per due, subito.

La domestica rimase sbalordita all’idea che il prete potesse cenare con quel

manigoldo.

Don Vilbois diede una mano anche lui a sparecchiare e a trasportare la tavola,

che era stata apparecchiata per lui solo, nell’unica stanza a pianterreno.

Cinque minuti dopo era seduto di faccia al vagabondo, davanti alla zuppiera

colma di una minestra di cavoli dalla quale saliva, tra i loro due volti, una piccola

nube di bollente vapore.

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III

Appena gli venne versata la minestra nella scodella, il vagabondo si mise a

ingoiarla avidamente. Il prete non aveva più fame, e sorbiva adagio il buon brodo

di cavoli tralasciando le fette di pane che vi erano inzuppate.

Ad un tratto domandò:

- Come vi chiamate?

Il giovane sogghignò, soddisfatto di riempirsi la pancia.

- Padre ignoto. Soltanto il casato di mia madre che probabilmente non avrete

ancora dimenticato. Per compenso ho un doppio nome di battesimo che non mi

piace molto: Philippe-Auguste.

Il prete impallidì, e, con un nodo alla gola, domandò ancora:

- Perché vi hanno messo questi due nomi?

Il vagabondo si strinse nelle spalle.

- Dovreste indovinarlo. Dopo d’avervi lasciato, la mamma ha voluto far credere

al vostro rivale che ero figlio suo, e quello ci ha creduto fino a che io ebbi una

quindicina d’anni. Ma da quel momento cominciai a rassomigliarvi un po’ troppo.

Quella canaglia mi rinnegò. Mi aveva dunque messo quei due nomi,

Philippe-Auguste, e se avessi avuto la fortuna di non rassomigliare a nessuno, o

di essere semplicemente figlio di un terzo farabutto che nessuno avesse mai visto,

oggi mi chiamerei il visconte Philippe-Auguste di Pravallon, rampollo riconosciuto

tardivamente dal conte dello stesso nome, senatore. Per conto mio mi sono

battezzato: «Scalogna».

- Come fate a sapere queste cose?

- Perché ci sono state delle spiegazioni in presenza mia, spiegazioni molto

chiare, perdio, siatene certo. Ah! sono queste le cose che insegnano a vivere.

Il sacerdote si sentiva oppresso da un qualcosa di più penoso e straziante di

quanto avesse provato e sofferto fino allora. Era come l’inizio di una soffocazione

crescente che avrebbe finito per ucciderlo, provocata non da ciò che udiva, ma dal

modo con cui era detto e dalla faccia di canaglia che l’esprimeva. Tra quel giovane

e lui, tra lui e suo figlio, si stava scavando una cloaca d’immondizie morali che,

per certe anime, sono veleni letali. Quello era suo figlio? Ancora non poteva

convincersene. Ne voleva le prove, tutte; saper tutto, sentire tutto, ascoltare tutto,

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soffrire di tutto. Ancora gli vennero in mente gli olivi che circondavano la casetta

e mormorò per la seconda volta: - Mio Dio, aiutatemi!

Philippe-Auguste aveva finito la minestra. Domandò:

- Non si mangia altro, reverendo?

La voce del padrone non sarebbe stata sentita da Marguerite nella cucina -

separata dalla casa, in una costruzione attigua - e per chiamarla il prete si

serviva di un gong cinese che era appeso dietro alle sue spalle.

Prese perciò il martello di cuoio e colpì parecchie volte la lastra di metallo. Ne

scaturì un suono dapprima debole, che poi aumentò accentuandosi, vibrante,

acuto, acutissimo, lacerante, orribile lamento del bronzo percosso.

La domestica comparve. Aveva l’aria imbronciata e dava furenti occhiate al

maoufatan, come se avesse presentito, con l’istinto del cane fedele, il dramma che

stava abbattendosi sul padrone. Recava in mano il piatto del cefalo arrostito che

esalava un odore appetitoso di burro fresco.

Il prete spaccò il pesce per lungo con un cucchiaio e offrì la parte migliore al

figlio della sua giovinezza:

- L’ho pescato io stesso poco fa, - disse con un resto di fierezza che affiorava

ancora dalla sua pena.

Marguerite non se ne andava.

Il prete aggiunse:

- Portate il vino, quello buono, vino del capo Corso.

La donna fece quasi un gesto di ribellione, ed egli dovette ripetere, assumendo

un tono severo:

- Andate, due bottiglie.

Quando offriva il vino buono a qualcuno, ne offriva una bottiglia anche a se

stesso.

Philippe-Auguste, raggiante, esclamò:

- Magnifico. Buon’idea. Non ho più mangiato così da un bel pezzo.

La serva ritornò dopo un paio di minuti che il prete trovò lunghi come

l’eternità, tanto gli bruciava in petto, adesso, il bisogno di sapere, più divorante

del fuoco dell’inferno.

Le bottiglie erano state stappate, ma la domestica non si muoveva, con gli

occhi sbarrati sul giovanotto.

- Andate pure, - disse il parroco.

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Ella finse di non aver sentito.

Il prete ripeté quasi con durezza:

- Vi ho detto di lasciarci soli.

Allora la donna se ne andò.

Philippe-Auguste mangiava il pesce con furia vorace; e suo padre lo guardava,

sempre più sorpreso e addolorato dalla bassezza che scopriva in quel volto, che

pure gli somigliava tanto.

I pezzettini che don Vilbois si metteva in bocca non gli andavano giù, perché la

sua gola strozzata ne rifiutava il passaggio; masticava a lungo cercando, tra tutte

le domande che gli venivano in mente, quella che avrebbe dato più pronta la

risposta desiderata.

Finì per mormorare:

- Di che cosa è morta?

- Di petto.

- È stata malata molto tempo?

- Diciotto mesi circa.

- Come le era venuta?

- Non si è saputo.

Tacquero. Il prete rifletteva. Le cose che avrebbe voluto sapere erano tante e

l’opprimevano perché dal giorno della rottura, dal giorno in cui per poco non

l’uccise, egli non ne aveva più saputo nulla. E non aveva neanche desiderato di

sapere, perché l’aveva gettata risolutamente nella fossa dell’oblio, lei e i giorni

della felicità; ma ecco che adesso, ad un tratto, adesso che ella era morta,

rinasceva in lui un ardente bisogno di sapere, un desiderio geloso, quasi un

desiderio d’innamorato.

Soggiunse:

- Non era mica sola, vero?

- No, viveva sempre con lui.

Il vecchio trasalì.

- Con lui? Con Pravallon?

- Certo.

E l’uomo che era stato tradito fece il conto che la donna che l’aveva ingannato

aveva vissuto più di trent’anni col suo rivale.

Quasi senza volere mormorò:

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- Furono felici insieme?

Il giovanotto rispose sogghignando:

- Certo. Con alti e bassi. Sarebbe andato tutto bene se non ci fossi stato io. Ho

sempre scombinato tutto, io.

- Come? Perché? - disse il prete.

- Ve l’ho già detto. Perché mi aveva creduto suo figlio fino a che io ebbi

quindici anni. Non era poi neanche troppo stupido, il vecchio, si è accorto della

somiglianza da solo, e allora cominciarono le scenate. Io origliavo agli usci.

Accusava mia madre di avergliela data a bere. La mamma rispondeva: «È stata

colpa mia? Tu sapevi benissimo, quando mi hai presa, ch’ero l’amante di

quell’altro». L’altro sareste voi.

- Ah! Parlavano di me, qualche volta?

- Sì, ma non dissero mai il vostro nome in mia presenza, salvo che alla fine,

proprio alla fine, negli ultimi giorni, quando la mamma sentì che era la fine. Non

si fidavano mica tanto.

- E voi... Voi avete saputo in tenera età che vostra madre si trovava in una

posizione irregolare?

- Perbacco! Non sono poi mica tanto ingenuo, io, lasciamo stare! e non lo sono

mai stato. Sono cose che s’indovinano subito, appena si comincia a guardarsi

attorno.

Philippe-Auguste buttava giù un bicchiere dopo l’altro. Gli occhi gli

luccicavano e il lungo digiuno gli causava una rapida ebbrezza.

Il prete se ne accorse; pensò di fermarlo, poi gli venne in mente che

l’ubriachezza l’avrebbe reso imprudente e loquace, e, presa la bottiglia, fu lui

stesso a riempire il bicchiere del giovanotto.

Marguerite portò il pollo col riso. Posò il piatto sulla tavola e piantò di nuovo

gli occhi in faccia al vagabondo. Indignata, disse al padrone:

- Guardate che è ubriaco, signor parroco.

- Lasciaci in pace, - le rispose il prete, - e vattene.

Ella uscì sbattendo la porta.

Don Vilbois domandò:

- Cosa diceva di me vostra madre?

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- Ciò che si dice di solito di un uomo che è stato piantato che eravate assurdo,

fastidioso per una donna, e che le avreste reso la vita impossibile con le vostre

idee.

- L’ha detto spesso?

- Sì; qualche volta con dei sotterfugi, perché non capissi, ma io indovinavo

ogni cosa.

- E voi, come vi trattavano, in casa!

- Io? Da principio benissimo; e malissimo dopo. Quando la mamma si è

accorta che io scombinavo tutto, mi ha buttato a mare.

- Come?

- Come? Semplicissimo. Feci qualche sciocchezzuola, verso i sedici anni, e

quei mascalzoni mi misero in una casa di correzione per sbarazzarsi di me.

Puntò i gomiti sulla tavola, appoggiò le guance alle palme, e, completamente

ubriaco, con la mente stravolta dal vino, venne preso all’improvviso da

quell’irresistibile bisogno di parlare di sé che fa divagare gli avvinazzati in

fantasiose vanterie.

Sorrideva con grazia, con una grazia femminea delle labbra, una grazia

perversa che il prete riconobbe subito. Non soltanto la riconobbe ma la sentì,

odiata e carezzevole, la stessa grazia che allora l’aveva conquistato e perduto. In

quel momento il ragazzo rassomigliava di più alla madre, non nei tratti, ma nello

sguardo ammaliatore e falso, e soprattutto nella seduzione del sorriso bugiardo

che pareva dischiudere la porta delle sue labbra a tutte le interne sozzure.

Philippe-Auguste si mise a raccontare:

- Ah! ah! ah! che razza di vita ho fatto, io, dalla casa di correzione in poi, una

buffa vita che un romanziere mi pagherebbe a caro prezzo. Davvero che Dumas

padre, nel suo Montecristo, non le ha inventate più strane di quelle capitate a me.

Tacque, con la filosofica gravità dell’uomo brillo che vuol riflettere, quindi

riprese, con lentezza:

- Se si vuole che un ragazzo metta la testa a partito, qualunque cosa egli abbia

fatto, non bisogna mandarlo in una casa di correzione per via delle conoscenze

che farà là dentro. Ne avevo combinata una coi fiocchi, io, ma mi è andata male.

Una sera, verso le nove, andavo a spasso con tre compagni, ed eravamo un po’

bevuti tutti e quattro, ed ecco che sullo stradone, vicino al traghetto di Folac,

incontriamo una carrozza in cui dormivano tutti, il conducente e la sua famiglia,

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gente di Martinon che era stata a cenare in città. Io afferro il cavallo per le briglie,

lo faccio entrare sul barcone del traghetto e il barcone lo spingo in mezzo al

fiume. Si fa un po’ di rumore, l’uomo che conduceva si risveglia, non vede niente

e frusta. Il cavallo parte e salta nella broda con la carrozza. Tutti affogati! I

compagni mi hanno denunciato. Prima, mentre facevo lo scherzo, si erano

sbellicati. Proprio non c’era venuto in mente che potesse finire tanto male.

Pensavamo a un bel bagno, tanto per ridere.

«Dopo questa ne ho combinate delle altre, più decise, per rifarmi della prima

che, parola d’onore, non meritava davvero la casa di correzione. Ma non vale la

pena di raccontarvela. Voglio dirvi soltanto l’ultima, perché questa vi piacerà, ne

sono sicuro. Vi ho vendicato, babbo».

Il prete guardava suo figlio con occhi terrorizzati e aveva smesso di mangiare.

Philippe-Auguste stava per ricominciare.

- No, - disse il prete, - non ora, dopo.

Si girò, e con un colpo fece urlare lo stridulo piatto cinese.

Marguerite comparve immediatamente.

Il padrone ordinò con voce così dura che ella chinò il capo spaventata e docile:

- Portaci il lume e tutto quel che hai ancora da mettere in tavola, e poi non

farti più vedere sino a che non ti chiamerò col gong.

Ella uscì, tornò e posò sulla tavola un lume di porcellana bianca

incappucciato di verde, un grosso pezzo di formaggio, la frutta e se ne andò.

Il prete disse risoluto:

- Ora ti ascolto.

Philippe-Auguste si riempì tranquillamente il piatto e si versò da bere. La

seconda bottiglia era quasi alla fine, senza che il prete l’avesse assaggiata.

Il giovanotto riprese a parlare barbugliando, con la bocca impastata dal vino e

dai cibi:

- Eccola, l’ultima. È buona davvero. Ero tornato a casa... e ci restavo contro la

loro volontà perché essi avevano paura... avevano paura di me... Ah! a me non

bisogna pestarmi i piedi... a me... io, se mi pestano i piedi sono capace di tutto...

«Sapete che... vivevano assieme e non assieme. Avevano due domicilii; lui, un

domicilio di senatore e un domicilio di amante. Ma viveva più in casa della

mamma che in casa sua, perché non poteva più fare a meno di lei. Ah!... era in

gamba lei, una dritta... sapeva come si tiene un uomo!... Se l’era preso corpo ed

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anima, e se l’è tenuto sino alla fine. Quanto sono stupidi gli uomini! Dunque, io

ero tornato e li dominavo con la paura. Me la so cavare, io, quando occorre; e in

quanto ad astuzia, furberia, e pugni anche, non temo nessuno. Un certo giorno la

mamma si ammala e lui la porta in una sua bella proprietà nei dintorni di

Meulan, in mezzo a un parco grande quanto una foresta. C’è stata circa diciotto

mesi... come vi ho già detto. Poi ci accorgiamo che la fine si sta avvicinando. Lui

veniva da Parigi tutti i giorni; era molto addolorato, proprio dolore vero. Una

mattina rimasero insieme a cianciare per un’ora, e io stavo chiedendomi cosa

avessero da dirsi quando mi fecero chiamare. La mamma mi disse:

« - Sto per morire e voglio rivelarti una cosa, nonostante il parere contrario del

conte (lo chiamava sempre “il conte’’ parlando di lui). Ti voglio dire il nome di tuo

padre, che è ancora vivo.

«Glielo avevo chiesto cento volte... cento volte almeno, il nome di mio padre...

almeno cento volte... e si era sempre rifiutata di dirmelo... Una volta l’avevo anche

presa a schiaffi per farla parlare, ma non era servito a nulla. E, in seguito, tanto

per cavarsela mi raccontò che voi eravate morto senza un soldo, che eravate una

persona di poco conto, un errore di giovinezza, uno sbaglio di verginella, che so

io. E me l’aveva girata tanto bene che io ci avevo dato dentro in pieno alla vostra

morte.

«Dunque, mi disse:

« - Il nome di tuo padre...

«L’altro, seduto in una poltrona, disse per tre volte:

« - Fate male, fate male, fate male, Rosette.

«La mamma si tirò a sedere sul letto. La vedo ancora, con i pomelli rossi e gli

occhi lucidi, perché, tutto sommato, mi voleva bene, e gli rispose:

« - Allora fate voi qualcosa per lui, Philippe.

«Rivolgendogli la parola lo chiamava Philippe e me mi chiamava Auguste.

«Egli si mise a gridare come un forsennato:

« - Per questo crapulone mai, per questo farabutto, questo delinquente,

questo... questo... questo...

«Ne trovò delle qualifiche per me! come se non si fosse mai occupato d’altro in

vita sua.

«Stavo per arrabbiarmi, ma la mamma mi fece tacere e gli disse:

« - Volete farlo morire di fame, visto che io non ho nulla?

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«Senza turbarsi, egli rispose:

« - Rosette, io vi ho dato trentacinquemila franchi l’anno, per trent’anni, che fa

più di un milione. In grazia mia avete vissuto da donna ricca, amata, e oso dire

felice. Non sono debitore di nulla verso questo sciagurato che ci ha reso penosi i

nostri ultimi anni, e da me egli non avrà nulla, inutile insistere, ditegli il nome

dell’altro, se vi pare. Fate male, ma io me ne lavo le mani.

«Allora la mamma si rivolse verso di me.

«Io pensavo: “Benone... sto per ritrovare il mio vero padre... se ha grana sono

salvo...”.

«Mi disse:

« - Tuo padre, il barone di Vilbois, è oggi don Vilbois, parroco di Garandon, nei

dintorni di Tolone. Era il mio amante, e lo lasciai per quest’altro.

«Si mise a raccontarmi ogni cosa, salvo la beffa che vi fece circa la gravidanza.

D’altronde, le donne, credete a me, la verità intera non la dicono mai.»

Ghignava, incosciente, sfogando liberamente il suo luridume. Continuò a bere,

e, sempre ilare, soggiunse:

- La mamma morì due giorni... due giorni dopo. Abbiamo accompagnato la

bara sino al cimitero, lui e io... Buffo no?... lui e io... e tre domestici... nessun

altro... Lui piangeva come un vitello.... Sembravamo padre e figlio...

«Quindi tornammo a casa, noi due soli. Io pensavo: “Devo squagliarmela senza

un soldo?”. Possedevo cinquanta franchi in tutto. Cosa avrei potuto inventare per

vendicarmi?

«Lui mi tocca un braccio e mi dice:

« - Devo parlarvi.

«Lo seguii nel suo studio. Si siede alla scrivania, poi, borbottando tra le

lacrime mi dice che non intende essere così cattivo verso di me come aveva detto

alla mamma e mi scongiura di non venire a dar fastidio a voi... - È un affare che

riguarda noi due, voi e me... - Mi offre un biglietto da mille... da mille... Cosa me

ne faccio, io, di mille franchi... un uomo come me! Vidi che nel cassetto ce n’erano

altri, un bel mucchio. La vista di quella roba mi fece venire la voglia di sgozzarlo.

Allungai la mano per prendere il biglietto che mi porgeva, ma, invece di ricevere

l’elemosina, mi gettai su di lui, lo buttai per terra, gli strinsi il collo finché gli vidi

rivoltare gli occhi, e poi, quando mi parve che stesse per andarsene, gli misi un

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bavaglio, lo legai, lo svestii, lo rigirai e... ah! ah! ah! vi ho vendicato in un modo

divertentissimo...»

Philippe-Auguste tossicchiava, soffocato dall’allegria, e sulle sue labbra,

sempre atteggiate a un ghigno feroce e gaio, don Vilbois rivedeva l’antico sorriso

della donna, quel sorriso che gli aveva fatto dar di volta al cervello.

- E dopo? - chiese.

- Dopo... ah! ah! ah!... Nel caminetto c’era un bel fuoco... era dicembre... per

via del freddo... è morta... la mamma... un bel fuoco di carbone... Afferro

l’attizzatoio... lo faccio arroventare... e mi metto... a fargli delle croci sul dorso:

otto, dieci, non so quante, poi lo rivolto e gliene faccio altrettante sulla pancia.

Divertente, non trovi, babbo? Così si marchiavano i forzati, in altri tempi. Lui si

torceva come un’anguilla... ma l’avevo imbavagliato bene e non poteva gridare...

Quindi presi i biglietti - dodici - col mio, tredici... non mi ha portato fortuna.

Scappai, dicendo ai domestici di non disturbare il conte sino all’ora del pranzo,

perché dormiva.

«Ero certo che non avrebbe fiatato, per paura dello scandalo, visto che era

senatore. M’ingannai. Quattro giorni dopo venivo pizzicato in un ristorante di

Parigi. Mi affibbiarono tre anni di prigione. Ecco perché non sono potuto venir

prima a cercarvi».

Bevette di nuovo, e barbugliando talmente da pronunziare a malapena le

parole:

- Adesso... babbo... babbo parroco!... Buffo, avere il babbo parroco! Ah! ah! ah!

bisogna essere carini col pargolo, perché il pargolo non è uno qualunque... e ne

ha combinate di belle, nevvero?... di belle... al vecchio.

La stessa collera che l’aveva messo fuor di sé davanti all’amante fedifraga,

riafferrava ora don Vilbois di fronte a quel giovane spregevole.

Lui che aveva largamente perdonato, nel nome di Dio, i segreti infami

sussurrati nel mistero del confessionale, si sentiva senza pietà, senza clemenza

per proprio conto, e ora non invocava più in aiuto il Dio soccorritore e

misericordioso, perché capiva che nessuna protezione celeste o terrestre avrebbe

potuto salvare, in terra, coloro sui quali gravano simili sciagure.

Tutto l’ardore del suo cuore appassionato e del suo sangue ardente, sopito dal

sacerdozio, si risvegliava in rivolta incontenibile contro il suo miserabile figlio,

contro la somiglianza che aveva con lui, e anche contro la madre, l’indegna madre

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che l’aveva concepito simile a sé, e contro la fatalità che legava a lui quel

malfattore, come la palla al piede del galeotto.

Egli vedeva, prevedeva ogni cosa con improvvisa lucidità, risvegliato da quel

colpo dal pio sonno tranquillo di venticinque anni.

Convinto senz’altro di dover parlare con forza per essere temuto da quella

canaglia e terrorizzarla di primo acchito, con i denti stretti e senza tener conto

dello stato di ubriachezza di lui, gli disse:

- Adesso che mi avete raccontato tutto, state a sentire me. Partirete

domattina. Abiterete in una località che v’indicherò e che non abbandonerete mai

senza mio ordine. Vi passerò una pensione sufficiente per vivere modestamente,

perché non ho denaro. Se mi disubbidirete anche una sola volta, sarà finita per

voi e dovrete fare i conti con me...

Nonostante fosse abbrutito dal vino, Philippe-Auguste capì la minaccia e,

subito, si mostrò il criminale che era in lui. Tra i rutti, sputò queste parole:

- Ah! babbo, a me non la si fa... sei prete, sei in mano mia... e dovrai filare

quatto quatto come gli altri!

Il prete sobbalzò, e sentì nei suoi muscoli di vecchio ercole un prepotente

bisogno di afferrare quel mostro, di piegarlo come una canna e provargli che gli

toccava cedere.

Diede una spinta alla tavola buttandogliela addosso e gli urlò:

- Ah! state in guardia, state in guardia... io non ho paura di nessuno...

L’ubriaco perse l’equilibrio, barcollò sulla sedia. Sentendo che stava per

cadere in terra e che era in potere del prete, con un’occhiata da assassino allungò

la mano verso uno dei coltelli rimasti sulla tovaglia. Don Vilbois vide il gesto e

diede un’altra spinta alla tavola, facendo cadere riverso a terra suo figlio. La

lampada si rovesciò e si spense.

Dopo qualche istante, un leggero tintinnio di vetro infranto risuonò nel buio,

poi si sentì come il frusciare di un corpo molle che striscia, poi più nulla.

Spenta la lampada, un’oscurità subitanea li avvolse così repentina, inattesa e

profonda che essi rimasero storditi come da un fatto terrificante. L’ubriaco,

addossato alla parete, non si muoveva; e il prete era rimasto seduto, piombato

nelle tenebre in cui la sua collera affogava. Il nero velo che gli era caduto addosso

fermava la sua collera e anche lo sdegno furente del suo animo; si sentì preso da

altri pensieri, cupi e tristi come l’oscurità.

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Si fece silenzio, un pesante silenzio di tomba chiusa, dove nulla può vivere e

respirare. E nulla giungeva più dal di fuori, né il rotolare di un carro in

lontananza, né l’abbaiare di un cane, neanche l’alitare d’un soffio d’aria tra i rami

o sui muri.

Passò molto tempo, forse un’ora. Poi, il gong risuonò improvvisamente.

Risuonò percosso da un colpo solo, duro, secco e forte, seguito da un gran

rumore strano, come di una caduta o di una sedia rovesciata.

Marguerite, che stava all’erta, accorse, ma appena ebbe aperto l’uscio

indietreggiò, spaventata dal buio profondo. Quindi, tremante, col cuore che le

batteva a precipizio, chiamò con voce ansante e sommessa:

- Signor parroco, signor parroco!

Nessuno rispose, né si mosse nulla.

«Dio mio, Dio mio, - pensò la donna, - cos’hanno mai fatto, cosa è capitato?».

Non ardiva entrare, né andare a prendere un lume, sentì un desiderio

insensato di fuggire, di urlare, nonostante le gambe non le reggessero e stesse per

cadere in terra. Ripeteva:

- Signor parroco, signor parroco, sono io, Marguerite.

Ma, ad un tratto, nonostante la paura, il desiderio istintivo di portare aiuto al

padrone, e uno di quegli slanci di coraggio che possono avere le donne e che le

rendono talvolta eroiche, le riempirono l’animo di esterrefatta audacia. Corse in

cucina e tornò col suo lumino.

Si fermò sulla soglia della stanza. Vide anzitutto, disteso lungo la parete, il

vagabondo che dormiva o pareva dormire; poi la lampada rovesciata, poi, sotto la

tavola, le scarpe nere e le gambe con le calze nere di don Vilbois, che doveva esser

crollato a terra urtando il gong con il capo.

Scossa dal terrore, con le mani che le tremavano, ella ripeteva:

- Dio mio, Dio mio, cos’è successo?

E facendo qualche passettino in avanti, lentamente, sentì di scivolare su

qualche cosa di grasso e poco mancò che cadesse.

Chinatasi, s’accorse che sul pavimento rosso scorreva un liquido pure rosso

che si spandeva intorno ai suoi piedi e andava verso l’uscio. Indovinò che era

sangue.

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Fuggì come impazzita, abbandonando il lumino per non vedere più, e si

precipitò attraverso la campagna, diretta al villaggio: camminava urtando negli

alberi, con lo sguardo fisso alle luci lontane, urlando.

La sua voce stridula lacerava la notte come il verso sinistro della civetta;

gridava senza posa: «Il maoufatan... il maoufatan... il maoufatan...».

Giunta che fu alle prime case, gli uomini le furono intorno spaventati, ma ella

si dibatteva senza rispondere perché aveva la testa sconvolta.

Finirono per capire che doveva essere capitata una disgrazia nella casetta di

campagna del parroco e un gruppetto d’uomini si armò per accorrere in aiuto.

In mezzo all’oliveto la piccola casetta dipinta di rosa era diventata invisibile e

nera nella notte profonda e muta. Dopo che l’unica luce della finestra illuminata

si era spenta come un occhio chiuso, la casetta era rimasta affogata nel buio,

sperduta nelle tenebre, introvabile per chiunque non fosse del posto.

Le luci correvano quasi rasente terra, attraverso gli alberi, dirette ad essa.

Seguivano sull’erba riarsa strisce di chiarore giallastro e, sotto i barbagli vaganti,

i tronchi tormentati degli olivi somigliavano talvolta a mostri, a serpenti infernali

attorcigliati e contorti. I riflessi proiettati fecero sorgere all’improvviso dal buio

qualcosa di chiaro e d’imprecisato, quindi il muro basso e quadrato della piccola

dimora tornò color di rosa sotto le lanterne. Le portavano i contadini che

accompagnavano due gendarmi con la pistola impugnata, la guardia campestre, il

sindaco e Marguerite, sostenuta da altri uomini perché non si reggeva.

Dinanzi alla porta rimasta aperta, spaventevole, ci fu un attimo di esitazione.

Il brigadiere, afferrata una lanterna, entrò seguito dagli altri.

La serva non aveva mentito. Il sangue, adesso rappreso, copriva il pavimento

come un tappeto. Era arrivato fino al vagabondo, bagnandogli una gamba e una

mano.

Padre e figlio dormivano; l’uno, con la gola tagliata, dormiva il sonno eterno,

l’altro il sonno degli ubriachi. I due gendarmi si buttarono su quest’ultimo, e

prima che si svegliasse, aveva le manette ai polsi.

Si fregò gli occhi, istupidito dal vino, e quando scorse il cadavere del prete

sembrò terrorizzato, come se non capisse.

- Perché non è scappato? - chiese il sindaco.

- Era troppo ubriaco, - rispose il brigadiere.

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E furono tutti di quel parere, perché nessuno avrebbe mai pensato che don

Vilbois, forse, poteva essersi dato la morte.

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L’INUTILE BELLEZZA

I

L’elegantissima carrozza attaccata a una pariglia, due morelli splendidi, stava

aspettando dinanzi alla scalea del palazzo. Era la fine di giugno, verso le cinque e

mezza, e tra i tetti delle ali che rinchiudevano il cortile d’onore, si stendeva un

cielo pieno di luce, di calore, di letizia.

La contessa di Mascaret comparve sulla scalea proprio nel momento in cui

suo marito, che rincasava, stava attraversando l’androne. Egli si fermò un istante

a guardare la moglie e impallidì leggermente. Ella era bellissima, slanciata, piena

di distinzione, col viso di un ovale perfetto, un colorito di avorio dorato, grandi

occhi grigi e capelli neri. Salì in carrozza senza guardarlo, senza neanche

mostrare di averlo scorto, e con un incesso così squisitamente di razza che egli

sentì nuovamente in cuore il morso dell’infame gelosia che da tempo lo divorava.

Egli le si avvicinò salutando:

- Andate a fare un passeggiata? - disse.

Ella lasciò passare due parole attraverso le labbra sdegnose:

- Come vedete.

- Al parco?

- Probabilmente.

- Mi permettereste di accompagnarvi?

- La carrozza è vostra.

Senza stupirsi del tono delle risposte, egli salì e si sedette a fianco della

moglie.

- Al parco, - ordinò.

Il domestico balzò in serpa accanto al cocchiere, e i cavalli, al solito,

scalpitarono dondolando il capo come per un saluto sino a che non ebbero

svoltato nella strada.

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I due sposi stavano l’uno a fianco dell’altra senza parlare. Il marito cercava il

modo per iniziare la conversazione, ma il viso della moglie restava così

ostinatamente duro che gliene mancò l’ardire.

Infine egli allungò di soppiatto una mano verso quella inguantata di lei,

toccandola come per caso, ma il gesto della contessa per scostare il braccio fu

così vivace e così disgustato da farlo desistere titubante, malgrado le sue

abitudini di despota autoritario.

- Gabrielle! - mormorò.

- Che volete? - chiese la contessa senza volgere il capo.

- Vi trovo adorabile.

Ella non rispose, conservando il suo atteggiamento di regina irritata.

Stavano risalendo gli Champs Elysées verso l’Arco di Trionfo dell’Étoile.

L’immenso monumento in cima alla lunga strada apriva il suo arco colossale sul

cielo rosso. Pareva che il sole calasse su di esso cospargendolo dall’orizzonte di

una polvere di fuoco.

E la fiumana delle carrozze, spruzzate di brillii sugli ottoni, sulle argentature e

sui cristalli dei finimenti e dei fanali, formava una doppia corrente, verso il parco

e verso la città.

- Mia cara Gabrielle, - disse nuovamente il conte di Mascaret.

Allora, non potendone più, ella replicò esasperata:

- Lasciatemi stare, ve ne prego. Ora non posso neanche più rimanere sola

nella mia carrozza...

Egli finse di non aver sentito, e seguitò:

- Non siete mai stata così graziosa come oggi.

La contessa, oramai spazientita, non trattenne più la collera e replicò:

- Fate male ad accorgervene perché vi giuro che non sarò mai più vostra.

Allora egli restò stupefatto e sconvolto; la sua abituale violenza riprese il

sopravvento e lanciò un: - Che cosa significa? - che rivelava più il brutale padrone

che non l’uomo innamorato.

Ella ripeté a bassa voce, benché i servi non potessero udire, tra l’assordante

rotolio delle ruote:

- Ah! che cosa significa? che cosa significa? Finalmente vi riconosco! Volete

che ve lo dica?

- Sì.

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- Che vi dica tutto?

- Sì.

- Tutto quello che ho nel cuore da quando sono vittima del vostro feroce

egoismo?

Il conte era diventato rosso per lo stupore e l’irritazione. Brontolò a denti

stretti:

- Sì, dite pure!...

Era un uomo alto di statura, largo di spalle, con una gran barba rossa, un

bell’uomo, un gentiluomo, un uomo di mondo che aveva fama d’essere un perfetto

marito e un padre eccellente.

Per la prima volta da quando erano usciti dal palazzo ella si voltò verso di lui

fissandolo bene nel viso.

- Ah! vi dirò qualcosa di molto spiacevole, ma sappiate che sono pronta a

tutto, che sfiderò tutto, che non temo nessuno, e voi, oggi, meno di chiunque

altro.

Anche lui la guardava negli occhi, di già scosso dalla rabbia.

- Siete pazza! - mormorò.

- No, ma non voglio più essere vittima dell’odioso supplizio della maternità che

state imponendomi da undici anni. Voglio finalmente vivere come una signora del

mio mondo, come ne ho diritto, come ne hanno diritto tutte le donne.

- Non capisco, - balbettò il marito impallidendo improvvisamente.

- Certo che capite. Sono oramai tre mesi che ho avuto il mio ultimo bambino,

e poiché sono ancora assai bella e, nonostante i vostri sforzi, ben poco sformata

secondo quanto voi stesso avete rilevato poco fa incontrandomi all’ingresso di

casa vostra, giudicate che sia ora di rendermi di nuovo incinta.

- State sragionando.

- No: ho trent’anni e sette figli. Siamo sposati da undici anni e voi contate di

continuare a questo modo per altri dieci, dopo di che non sarete più geloso.

- Non vi permetto di continuare a parlarmi in questo modo, - rispose il conte

afferrandole il braccio e stringendolo.

- E io continuerò sino in fondo, sino a che non vi avrò detto tutto ciò che

intendo dirvi; e se cercaste d’impedirmelo alzerò la voce in modo da farmi sentire

dai domestici a cassetta. Vi ho lasciato salire proprio per questo motivo, perché ci

sono questi testimoni che vi costringono ad ascoltarmi e a contenervi. State a

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sentire. Mi siete sempre stato antipatico e ve l’ho sempre mostrato, perché non ho

mai mentito, signore. Mi avete sposata contro la mia volontà, avete costretto i

miei genitori, che si trovavano in condizioni difficili, a darmi a voi che siete

ricchissimo. Mi hanno obbligata, facendomi piangere. Mi avete dunque comperata

e dal giorno che sono stata in vostro potere, dal giorno che ho cominciato a

diventare per voi una compagna disposta ad affezionarmi, a dimenticare i vostri

modi d’intimidazione e di coercizione per ricordarmi soltanto che dovevo essere

una moglie devota ed amarvi quanto più mi fosse possibile, voi siete diventato

geloso come nessun uomo lo è mai stato, geloso come una spia, in modo basso,

ignobile, degradante per voi e insultante per me. Non erano neanche otto mesi

che eravamo sposati e già mi sospettavate di ogni perfidia. Me lo avete anche fatto

capire. Che vergogna! E poiché non potevate impedirmi di essere bella e piacente,

di essere giudicata nei salotti, e anche nei giornali, una delle donne più graziose

di Parigi, avete cercato che cosa escogitare per allontanare da me l’omaggio della

gente, e vi è venuta l’abominevole idea di farmi trascorrere la vita in una continua

gravidanza sino a disgustare chiunque. Oh! non negatelo! Per molto tempo non

capii, poi indovinai. Ve ne siete anche vantato con vostra sorella, che me lo disse,

perché mi vuol bene ed ha avuto schifo della vostra grossolanità di villanzone. Ah!

rammentate le nostre lotte, le porte sfasciate, le serrature forzate! A quale

esistenza mi avete condannata da undici anni, un’esistenza di riproduttrice in

una stazione di monta! Poi, appena mi trovavo incinta, voi provavate disgusto di

me e non vi vedevo più per mesi e mesi. Venivo mandata in campagna, tra il

verde, in mezzo ai prati, a fare il mio piccolo. E quando ricomparivo, fresca e

bella, indistruttibile, sempre seducente e sempre circondata di omaggi, ogni volta

sperando che finalmente avrei cominciato a vivere, almeno per un po’, come una

giovane donna ricca che appartiene alla società, allora la gelosia vi riprendeva e

ricominciavate a perseguitarmi con l’odioso e infame desiderio che anche in

questo momento, accanto a me, vi fa soffrire. Non è desiderio di possedermi - non

mi sarei mai rifiutata a voi - ma desiderio di deformarmi.

«Per di più è capitata una cosa abominevole e così misteriosa che mi ci è

voluto parecchio tempo per capirla (a forza di seguire le vostre azioni e i vostri

pensieri mi sono scaltrita): vi siete affezionato ai vostri figli per la tranquillità che

essi vi hanno procurato durante tutto il tempo che io li ho portati nel ventre.

L’avversione che avevate per me, congiunta agli ignobili sospetti,

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momentaneamente sopiti, e alla gioia di vedermi ingrossare, hanno formato il

vostro affetto per loro.

«Ah! quante volte ho sentito in voi questa gioia, quante volte l’ho vista nei

vostri occhi e l’ho intuita! I vostri figli, voi li amate come vittorie conseguite, non

come sangue vostro. Vittorie su di me, sulla mia giovinezza, sulla mia bellezza,

sul mio fascino, sulle dichiarazioni che mi venivano rivolte e anche su quelle che,

non dette, venivano bisbigliate intorno a me. Siete fiero dei vostri figli, vi

pavoneggiate con loro, li portate al Bois di Boulogne in carrozzino scoperto e a

Montmorency sui somarelli. Li conducevate alle mattinate teatrali perché la gente

vi vedesse in mezzo a loro ed esclamasse: - Che buon padre! - e lo si dicesse in

giro...».

Il conte le aveva afferrato il polso con selvaggia brutalità e lo strinse così

violentemente che essa tacque soffocando il lamento che le straziava il petto.

- Voglio bene ai miei figli, capite? - disse a bassa voce. - Ciò che state dicendo

è vergognoso per una madre. Ma voi mi appartenete. Io sono il padrone... Posso

esigere da voi ciò che voglio e quando lo voglio... ho la legge dalla mia parte...

Cercava di schiacciarle le dita nella stretta di tenaglia del suo grosso polso

muscoloso. Ella, livida dal dolore, cercava inutilmente di ritirare la mano dalla

morsa che gliela stritolava. Ansimava dal dolore e le salivano le lacrime agli occhi.

- Vi rendete conto che io sono il padrone?... - egli disse: - e il più forte?

Aveva allentato un poco la stretta.

- Credete che io sia religiosa? - ella disse.

- Ma sì, - balbettò lui sorpreso.

- Siete sicuro che io creda in Dio?

- Ma sì.

- Che potrei mentire facendovi un giuramento dinanzi a un altare che

racchiuda il corpo del Signore?

- No.

- Vorreste accompagnarmi in chiesa?

- A che fare?

- Lo saprete. Acconsentite?

- Sì, se ci tenete

- Philippe, - chiamò la contessa alzando la voce.

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Il cocchiere, piegando un po’ il collo, senza perdere di vista i cavalli, sembrò

che voltasse soltanto l’orecchio alla padrona, la quale aggiunse:

- Andiamo alla chiesa di Saint-Philippe-du-Roule.

La carrozza, che stava per giungere alla porta del Bois di Boulogne, girò verso

Parigi.

Marito e moglie non scambiarono più una parola durante il nuovo tragitto.

Quando la carrozza fu dinanzi al tempio, la signora di Mascaret d’un balzo fu a

terra ed entrò, seguita a pochi passi dal conte.

Ella avanzò senza fermarsi sin presso alla balaustra dell’altar maggiore,

cadendo in ginocchio accanto a una sedia. Si nascose il viso tra le mani e pregò.

Pregò a lungo, e il conte, in piedi dietro di lei, si accorse che ella piangeva.

Piangeva silenziosamente, come piangono le donne nell’angoscia. C’era, nel suo

corpo, come una specie di ondulazione che finiva con un leggero singulto

represso, soffocato tra le dita.

Ma il conte di Mascaret ritenne che la cosa andasse troppo per le lunghe, e le

toccò una spalla.

Ella si risvegliò, come se avesse subito una scottatura. Rialzandosi fissò il

marito negli occhi.

- Ecco cosa devo dirvi. Non ho timore di nulla, potrete fare ciò che vorrete. Se

vi parrà mi potrete anche ammazzare. Uno dei vostri figli non è vostro figlio. Lo

giuro dinanzi a Dio che è qui a sentirmi. Era il solo modo che io avessi per

vendicarmi di voi, della vostra abominevole tirannia di maschio, dei lavori forzati

della procreazione ai quali mi avete condannata.

Chi è stato il mio amante? Non lo saprete mai. Sospetterete tutti. Non lo

scoprirete. Mi sono data a lui senza amore e senza piacere, soltanto per tradirvi.

E anche lui mi ha reso madre. Qual è il figlio suo? Non lo saprete mai. Ne ho

sette, cercate... Questa confessione contavo di farvela più in là, tra molto tempo,

perché non ci si vendica di un uomo tradendolo, ma facendoglielo sapere. Mi

avete costretta a dirvelo oggi... Ho finito.

Riattraversò la chiesa quasi fuggendo, diretta alla porta spalancata sulla

strada, aspettandosi di sentire dietro a sé il passo rapido dello sposo che aveva

affrontato, e di afflosciarsi sul pavimento sotto la mazzata del suo pugno.

Non sentì nulla e raggiunse la carrozza. Vi fu sopra d’un balzo, contratta

dall’angoscia, ansimante di paura.

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- A palazzo, - gridò al cocchiere.

I cavalli partirono di trotto serrato.

II

La contessa di Mascaret, chiusa nella sua camera, stava aspettando l’ora del

pranzo come un condannato a morte aspetta il momento dell’esecuzione. Cosa

avrebbe fatto egli? Era tornato a casa? Despota, iroso, pronto ad ogni violenza,

cosa aveva meditato, cosa aveva preparato, cosa aveva deciso? Nessun rumore

nei palazzo... ella guardava ad ogni istante le lancette dell’orologio a pendolo. La

cameriera era venuta per la toletta vespertina, poi se n’era andata.

Suonarono le otto e subito dopo vennero picchiati due colpi alla porta.

- Avanti.

- La signora contessa è servita, - disse il maggiordomo affacciandosi.

- Il conte è tornato?

- Sì, signora contessa. Il signor conte è già in sala da pranzo.

Ella pensò per un attimo di munirsi di una piccola pistola, acquistata poco

tempo prima in previsione del dramma che le si stava formando in cuore; ma poi

rifletté che tutti i suoi figli sarebbero stati presenti e prese soltanto un flaconcino

di sali.

Quando entrò nella stanza suo marito stava aspettando in piedi accanto alla

sedia. Si scambiarono un leggero saluto e si sedettero. A loro volta i figli presero

posto. I tre maschietti con il precettore, don Marin, a destra della madre; le tre

bambine con la governante inglese, la signorina Smith, erano a sinistra. L’ultimo

figlio, di tre mesi, restava in camera con la balia.

Le tre femminucce, la maggiore aveva dieci anni, erano tutte e tre bionde,

vestite di celeste con guarnizioni di merletto bianco, e parevano tre deliziose

bambole. La più piccola non aveva tre anni. Già carine tutte e tre, promettevano

di diventare belle come la loro madre.

I tre ragazzi, due castani e il maggiore, di nove anni, di già moretto, facevano

prevedere uomini vigorosi, di alta statura, di ampie spalle. Tutta la famiglia

pareva di uno stesso sangue, forte e vitale.

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Il prete recitò il Benedicite, come faceva sempre quando non c’erano invitati.

Se c’erano estranei i figlioli non comparivano a tavola. Il pranzo ebbe inizio.

La contessa, turbata come non aveva certo previsto, rimaneva con gli occhi

bassi, mentre il conte esaminava le fisionomie ora dei ragazzi, ora delle bambine,

con sguardi angosciati che passavano dall’uno all’altro. Ad un tratto, posando il

calice sulla tavola lo ruppe e l’acqua arrossata macchiò la tovaglia. Il rumore

provocato da quel piccolo incidente fece fare un sobbalzo alla contessa. Per la

prima volta i due si guardarono. Da quel momento, contro la loro stessa volontà,

nonostante lo spasimo della loro carne e dei loro cuori, sconvolti ad ogni incontro

degli occhi, essi non smisero più d’incrociare i loro sguardi come canne di pistole.

Il prete sentiva che c’era un disagio di cui ignorava la causa, e cercava di

mettere in piedi un po’ di conversazione. Sgranava argomenti di discorso l’uno

dopo l’altro, senza che i suoi vani tentativi facessero sbocciare un’idea o nascere

una parola.

La contessa, con tatto femminile e obbedendo al proprio istinto di signora, per

due o tre volte cercò di rispondergli, ma invano. Non riusciva a trovare le parole

nella sua mente sconvolta, e la sua voce le faceva quasi paura, nel silenzio della

grande sala in cui si udivano soltanto i tenui rumori delle posate e dei piatti.

Improvvisamente suo marito, sporgendosi avanti, disse:

- In questo luogo, in mezzo ai vostri figli, mi confermate col giuramento la

sincerità di quanto mi avete dichiarato poco fa?

L’odio che le ardeva nelle vene la fece balzare in piedi e, rispondendo alla

richiesta con la stessa energia con cui sosteneva lo sguardo di lui, essa levò le

mani, la destra sul capo dei ragazzi, la sinistra su quelli delle bambine, e con voce

risoluta, sicura, piena di fermezza, disse:

- Sul capo dei miei figli, giuro di aver detto la verità.

Il conte si alzò; con un gesto di rabbia buttò il tovagliolo sulla tavola e nel

voltarsi mandò la sedia contro il muro. Quindi uscì senza profferire parola.

Allora la contessa, con un gran sospiro, come chi ha ottenuto la prima

vittoria, e con voce placata disse:

- Non fateci caso, miei cari. Papà ha avuto una grossa pena, poco fa. Ne soffre

ancora molto, ma tra qualche giorno sarà tutto passato.

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Poi si mise a discorrere con il prete, chiacchierò con la signorina Smith; ebbe

per ognuno dei figlioli frasi piene di tenerezza, di affetto, quelle moine materne

che inteneriscono i giovani cuori.

Terminato il pranzo, passò nel salone con tutta la casata. Fece parlare i più

grandi, raccontò favole ai piccini, e, quando venne per tutti l’ora di andare a letto,

li baciò a lungo e tornò, sola, in camera sua.

Rimase in attesa, perché era certa ch’egli sarebbe venuto. Ora che i figli non le

erano più accanto, si decise a difendere la propria pelle di creatura umana, come

aveva difeso la propria vita di signora della società; nascose nella tasca del vestito

la piccola pistola carica che aveva comperato qualche giorno prima.

Le ore passavano, le ore suonavano. Tutti i rumori del palazzo si spensero.

Soltanto le carrozze di piazza protraevano per le strade il loro rotolio indistinto,

fievole e lontano attraverso i parati dei muri.

Ella attendeva, energica e nervosa, senza più paura di lui, adesso, pronta a

tutto e quasi trionfante poiché aveva trovato per lui un supplizio di ogni istante,

per tutta la vita.

La prima luce del giorno s’insinuò al disotto delle frange in fondo alle tende

senza che egli si fosse presentato. Allora ella capì, con stupore; che non sarebbe

venuto. Chiusa a chiave la porta, tirato il paletto di sicurezza che lei stessa aveva

fatto applicare, finì per andare a letto, rimanendo a meditare con gli occhi

spalancati, senza più capire, senza poter indovinare ciò che egli avrebbe fatto.

La cameriera, portandole il tè, le consegnò una lettera del marito. Costui le

scriveva che partiva per un viaggio abbastanza lungo, e l’avvertiva, nel post

scriptum, che il notaio le avrebbe fornito il denaro necessario per tutte le spese.

III

All’Opéra, durante un intervallo di Roberto il Diavolo. In platea, due signori in

piedi, cilindro in capo, panciotto abbondantemente aperto sullo sparato bianco

luccicante dell’oro e delle pietre dei gemelli, guardavano i palchi affollati di

signore scollate, indiamantate, imperlate sbocciate in quella serra luminosa dove

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la bellezza dei volti, lo splendore delle spalle sembravano come una fioritura

offerta agli sguardi tra i suoni e il brusio delle voci umane.

I due amici voltavano le spalle all’orchestra e, chiacchierando, puntavano i

binocoli su tutta quella galleria di eleganze, su tutta quella esposizione di grazia

vera o falsa, di gioielli, di lusso, di pretese, sfoggiata nel giro dell’ampio teatro.

Uno dei due, Roger di Salins, disse al compagno Bernard Grandin:

- Guarda com’è sempre bella la contessa di Mascaret...

L’altro, allora, rivolse il binocolo verso un palco di centro, su una signora

dall’aspetto ancora giovanissimo ed una sfolgorante bellezza che pareva attirare

gli sguardi da ogni punto della sala. Un pallore con riflessi d’avorio la faceva

parere una statua, e sui suoi capelli, neri come la notte un sottile diadema

cosparso di diamanti brillava come una via lattea.

Dopo averla guardata per un momento, Bernard Grandin rispose con tono

giocoso di sincera ammirazione:

- Eh! lo credo che è bella! Che età può avere adesso?

- Aspetta... Posso dirtela esattamente. La conosco sin dall’infanzia. L’ho vista

esordire in società da signorina. Ella ha... trenta... trenta... trentasei anni.

- Non è possibile.

- Ne sono sicuro.

- Ne dimostra venticinque...

- E ha sette figli!

- Incredibile...

- Sono vivi tutti e sette, e lei è una buonissima madre. Vado qualche volta in

casa loro, che è piacevole, molto tranquilla e molto per bene. Ella ha realizzato il

fenomeno della famiglia in seno alla società.

- Un bel fatto. E non ci sono mai stati chiacchiericci sul suo conto?

- Mai.

- E il marito? Un tipo singolare, no?

- Sì e no. Forse, tra di loro può esserci stato un piccolo dramma, uno di quei

piccoli drammi di famiglia di cui si ha il sospetto senza che si possano mai

conoscere bene e che tuttavia a un dipresso s’indovinano.

- E che cosa?

- Non saprei dire. Adesso Mascaret è un gran gaudente, dopo essere stato un

perfetto coniuge. Finché si comportò da buon marito, aveva un pessimo carattere,

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ombroso e arcigno. Dacché si è dato alla bella vita, è diventato molto indifferente,

ma si direbbe che abbia una grossa preoccupazione, una pena, un verme roditore

che lo fa invecchiare rapidamente.

I due amici filosofarono alquanto sulle pene segrete, inconoscibili, che

dissimiglianze di caratteri o forse antipatie fisiche, inavvertite dapprima, possono

far nascere in una famiglia.

Roger di Salins, che aveva sempre il binocolo puntato sulla contessa di

Mascaret, aggiunse:

- È incredibile che quella donna abbia avuto sette figli!

- Sì, in undici anni. Dopo di che, a trent’anni ha chiuso il suo periodo di

produzione, per entrare nel brillante periodo di rappresentanza che non pare

prossimo alla fine.

- Povere donne!

- Perché le compiangi?

- Perché? Ah, caro mio, ma pensa un po’! Undici anni di gravidanze per una

come quella! Che inferno! Tutta la giovinezza, tutta la bellezza, tutta la speranza

di successo, tutto l’ideale poetico di vita brillante sacrificato all’abominevole legge

della riproduzione che riduce una donna normale al livello di una semplice

macchina incubatrice.

- Che vuoi farci? È la natura!

- Sì, ma io dico che la natura è la nostra nemica, che bisogna continuamente

lottare contro la natura perché essa cerca sempre di riportarci alla condizione di

animali. Quanto c’è di pulito, di bello, di elegante l’ideale sulla terra non è Dio che

ce l’ha messo, ma l’uomo, il cervello umano. Siamo stati noi a portare nel creato,

inneggiandovi, interpretando, ammirando da poeti, idealizzando da artisti,

spiegando da scienziati (sbagliando magari, ma scoprendo ingegnose ragioni dei

fenomeni), un po’ di grazia, di bellezza, di fascino sconosciuto e di mistero. Dio ha

soltanto creato degli esseri grossolani, pieni di germi di malattie, i quali, dopo

qualche anno di rigoglio animalesco, invecchiano nelle infermità con tutta la

laidezza e l’impotenza della decrepitezza umana. Si direbbe che li abbia fatti

soltanto perché si riproducano sozzamente e poi muoiano, come gl’insetti effimeri

delle serate estive. Ho detto: «Perché si riproducano sozzamente» ed insisto. Esiste

infatti qualcosa di più ignobile, di più ripugnante, dell’atto osceno e ridicolo della

riproduzione degli esseri, contro il quale tutti gli animi delicati sono e saranno

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eternamente in rivolta? Dato che tutti gli organi inventati dal Creatore economo e

malevolo servono a due scopi, perché non ne ha scelti altri che non fossero sudici

e insozzati ai quali affidare questa sacra missione, la più nobile e la più esaltante

delle funzioni umane? La bocca che nutre il corpo con alimenti materiali diffonde

altresì la parola e il pensiero. La carne si ristora per il suo tramite e al tempo

stesso comunica le idee. Il naso, che dà ai polmoni l’aria vitale, adduce al cervello

tutti i profumi del mondo: l’odore dei fiori, dei boschi, degli alberi, del mare.

L’orecchio, che ci consente di comunicare con i nostri simili, ci ha anche dato

modo d’inventare la musica, di creare i sogni, la felicità, l’infinito e anche il

godimento fisico dei suoni. Ma si direbbe che il Creatore, sornione e cinico, abbia

voluto proibire all’uomo l’incontro con la donna. Per rivalsa, l’uomo ha inventato

l’amore, che non è poi una cattiva risposta al Dio beffardo, e l’ha tanto bene

ornato di poesia letteraria che la donna dimentica spesso a quali contatti si trova

costretta. Quelli, fra di noi, che non riescono ad ingannare se stessi esaltandosi,

hanno inventato il vizio e raffinato le orge, che è un altro modo di burlarsi di Dio e

di rendere omaggio, un impudico omaggio, alla bellezza.

«Ma le persone comuni fanno figli come animali accoppiati legalmente.

«Guarda quella donna! Non è forse un abominio pensare che un tale gioiello,

una perla nata per essere bella, ammirata, festeggiata, adorata, abbia speso

undici anni della sua vita per dare eredi al conte di Mascaret?».

- C’è molto di vero nelle tue parole; ma pochi ti capirebbero, - rispose Bernard

Grandin, ridendo.

Salins s’infervorava.

- Sai come io concepisco Dio? - aggiunse. - Come un mostruoso organo

creatore, a noi sconosciuto, che spanda negli spazi miliardi di mondi, come un

unico pesce seminerebbe le uova nel mare. Crea perché è la sua funzione di Dio;

ma ignora ciò che fa, stupidamente prolifico, inconscio delle combinazioni di ogni

sorta prodotte dal suo germe disseminato. Il pensiero umano è un lieve e

fortunato accidente dovuto al caso delle fecondazioni, un accidente locale,

passeggero, imprevisto, destinato a scomparire con la terra, e a rifarsi qui magari

o altrove, sempre uguale o differente, assieme alle nuove combinazioni degli eterni

ricominciamenti. Dobbiamo al piccolo accidente dell’intelligenza se non ci

troviamo bene in un ambiente che non è fatto per noi, che non è stato preparato

per accoglierci, ricoverare, nutrire e soddisfare degli esseri pensanti; e gli

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dobbiamo anche di dover lottare senza posa, quando siamo veramente civili e

raffinati, contro ciò che viene chiamato «i disegni della Provvidenza».

Grandin, che l’ascoltava attentamente, conoscendo da sempre le brillanti

risorse della sua fantasia, gli domandò:

- Così tu credi che il pensiero umano sia un prodotto spontaneo dei ciechi

parti divini?

- Perbacco! una funzione fortuita dei centri nervosi del nostro cervello, simile

alle reazioni chimiche imprevedibili in nuovi miscugli, simile anche a una

produzione di elettricità con sfregamenti o vicinanze insospettate, simile a tutti

quei fenomeni generati dall’infinito e fecondo rigoglio della materia che vive.

«E, mio caro, la prova è lampante per chiunque voglia guardare attorno a se.

Se il pensiero umano, voluto da un creatore cosciente, avesse dovuto essere quale

è poi diventato, tanto differente dal pensiero e dalla rassegnazione degli animali, e

così esigente, ricercatore, tormentato, credi che il mondo creato per accogliere

l’essere che oggi noi siamo, sarebbe lo scomodo giardino zoologico, orto da

insalata, il campo silvestre, roccioso e sferico, nel quale la vostra Provvidenza ci

aveva destinati a vivere ignudi nelle grotte o sotto gli alberi, a nutrirci di animali

massacrati, nostri fratelli, o di legumi crudi spuntati sotto il sole e le piogge?

«Basta un momento di riflessione per convincerci che la terra non è fatta per

esseri come noi. Il pensiero sbocciato e sviluppatosi per un miracolo nervoso delle

cellule del capo, per impotente, ignorante e incerto che sia e magari sempre sarà,

rende noi intellettuali eterni e miserevoli esiliati su questa terra.

«Contemplata, questa terra quale Dio l’ha data a quelli che l’abitano. Non è

palesemente e unicamente sistemata e arborata per gli animali? Cosa c’è per noi?

Niente. E per gli animali, tutto: caverne, alberi, foglie, sorgenti, rifugi, alimenti e

bevande. Per cui, gente difficile come me non ci si troverà mai bene. Soltanto

quelli che si approssimano, alle bestie possono essere contenti e soddisfatti. Ma

gli altri, quelli che hanno sensibilità, i poeti, i sognatori, i pensatori, gl’inquieti!...

Ah! disgraziati!

«Mangio cavoli e carote, perdio, cipolle, rape e ravanelli perché sono stato

costretto ad abituarmici, persino a prendervi gusto, e perché non c’è altro. Ma

sono alimento da conigli e da capre, come l’erba e il trifoglio lo sono per i cavalli e

le vacche. Quando, in un campo, vedo le spighe di grano maturo, non ho alcun

dubbio che siano spuntate per il becco dei passeri e delle allodole, certo non per

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la mia bocca. Perciò, mangiando il pane derubo gli uccelli, come derubo la

donnola e la volpe quando mangio una gallina. La quaglia, il piccione e la pernice,

non sono forse le naturali prede dello sparviero, come la pecora, il capretto e il

bue quelle dei grossi carnivori, piuttosto che carni da ingrassare per servircele

assortite, assieme a tartufi che i maiali avrebbero dissotterrato appositamente per

noi?

«Mio caro, quaggiù gli animali non hanno che da lasciarsi vivere. Sono in casa

loro, alloggiati e nutriti, non hanno che da brucare o cacciare e mangiarsi l’un

l’altro secondo il loro istinto, visto che Dio non ha previsto la dolcezza e i pacifici

costumi, ma ha previsto soltanto la morte degli esseri accaniti a distruggersi e a

divorarsi.

«Ma noi! Ah! ah! ce n’è voluto di lavoro, sforzi, pazienza inventiva,

immaginativa, industriosità, talento e genialità, per rendere alla meglio abitabile

questo nostro suolo di radici e di pietre! Pensa a quanto abbiamo fatto

nonostante la natura, contro la natura, per sistemarci in modo appena mediocre,

appena pulito, appena comodo, appena elegante e non ancora degno di noi.

«E quanto più siamo civili, intelligenti, raffinati, tanto più ci tocca vincere e

dominare l’istinto animale che rappresenta, in noi, la volontà di Dio.

«Pensa che abbiamo dovuto inventare la civilizzazione, che comprende tante

cose, ma tante, tante, e di ogni specie, dai calzini al telefono. Pensa a tutto ciò

che vedi ogni giorno, a tutto ciò che serve a tutte le nostre necessità.

«Per alleviare la nostra condizione di bestie, abbiamo scoperto e fabbricato

ogni cosa, cominciando dalle case, e poi alimenti squisiti, dolciumi, bibite, liquori,

tessuti, vestiti, letti, carrozze, ferrovie, macchine innumerevoli; per di più

abbiamo inventato le scienze e le arti, la scrittura e i versi. Sì, abbiamo creato le

arti, la poesia, la musica, la pittura. Tutti gli ideali provengono da noi, e anche

tutti gli abbellimenti della vista, i vestiti delle donne e il talento degli uomini, che

hanno finito per adornare ai nostri occhi e renderla meno nuda, meno monotona

e meno dura, la nostra esistenza di semplici riproduttori, per la quale, soltanto, la

Provvidenza ci aveva animati.

«Guarda questo teatro. Non ci vedi un mondo umano creato da noi, non

previsto dai Destini Eterni, ignorato da Essi, comprensibile soltanto al nostro

spirito, una graziosa distrazione sensuale, intelligente, inventata unicamente da e

per il piccolo animaletto insoddisfatto e inquieto che noi siamo?

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«Considera quella signora, la contessa. Dio l’aveva fatta perché vivesse in una

grotta, ignuda, avvolta in pelli di animali. Non è meglio così com’è ora? A

proposito, si sa perché mai il suo bestione di marito, che ha accanto a sé una

simile compagna, e, soprattutto, dopo essere stato così volgare da renderla madre

sette volte, l’abbia piantata tutt’a un tratto per correr dietro le donnine?».

Grandin rispose:

- Eh, caro mio, probabilmente l’unico motivo deve essere proprio quello. Deve

aver finito per trovare che gli costava troppo caro dormire sempre nel suo letto.

Per economia domestica è giunto agli stessi principii che tu proclami da filosofo.

Si udirono i tre colpi per l’inizio dell’ultimo atto. I due amici si rigirarono, si

tolsero il cappello e si sedettero.

IV

Nella carrozza che li riaccompagnava a casa dopo lo spettacolo all’Opéra, il

conte e la contessa di Mascaret, seduti a fianco, non si dicevano una parola. Ma

ecco che il marito, improvvisamente, si rivolse alla moglie:

- Gabrielle!

- Che volete?

- Non trovate che ormai ha durato abbastanza?

- Che cosa?

- L’abominevole supplizio al quale mi avete condannato da sei anni a questa

parte.

- Che volete mai, non posso farci nulla...

- Insomma, ditemi qual è.

- Mai.

- Ma pensate che io non posso più guardare i miei figli, vedermeli intorno,

senza sentire il morso di quel dubbio... Ditemi qual è e vi giuro che vi perdonerò,

che tratterò lui come gli altri.

- Non ne ho il diritto.

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- Non capite che non ne posso più di questa vita, che quel pensiero mi rode e

che quella domanda mi si pone continuamente e ogni volta che guardo i miei

figli?

- Dunque avete sofferto molto? - ella chiese.

- Spaventosamente. Altrimenti, come avrei potuto sopportare l’orrore di vivere

accanto a voi, e l’orrore, anche più forte, di sentire, di sapere che tra i miei figli ve

n’è uno non mio, che non riesco ad indovinare e che m’impedisce di amare gli

altri?

- Cosicché, - tornò a ripetere lei, - avete proprio molto sofferto?...

- Ma se vi dico che ogni giorno per me è un insopportabile supplizio, - rispose

il conte con voce contenuta e dolorosa. - Se no, se non li amassi sarei forse

tornato, avrei abitato la nostra casa, accanto a voi e accanto a loro? Ah! con me,

vi siete comportata in modo atroce. Le sole tenerezze del mio cuore sono per i miei

figli, lo sapete pure. Per loro, sono un padre dei vecchi tempi, come per voi sono

stato il marito delle famiglie di una volta, perché io sono un istintivo, un uomo

della natura, un uomo dei tempi passati. Sì, lo ammetto, mi avete reso

ciecamente geloso perché voi siete una donna di altra specie, di un’altr’anima,

con altre aspirazioni. Ah! ciò che mi avete detto non lo dimenticherò mai.

D’altronde, dopo di allora, non mi sono più curato di voi. Non vi ho ammazzata

perché non avrei più avuto modo, su questa terra, di scoprire quale dei vostri figli

non sia anche mio. Ho aspettato, ma ho sofferto più di quanto possiate supporre,

perché non posso più amarli, salvo forse i primi due; non oso più guardarli,

chiamarli, accarezzarli, non posso più prenderne uno sulle ginocchia senza

chiedermi: «Sarà questo?». Con voi mi sono comportato correttamente e sono

anche stato buono e compiacente, in questi sei anni. Ditemi la verità e vi giuro

che non vi farò alcun male...

Nell’oscurità della carrozza gli parve che ella fosse commossa, e sentiva che

avrebbe finalmente parlato.

- Vi prego, - disse il marito, - vi scongiuro...

Ella mormorò:

- Forse sono stata più colpevole di quanto non crediate. Ma non potevo più

sopportare quell’odiosa vita di continue gravidanze. Avevo un solo modo per

allontanarvi dal mio letto. Ho mentito dinanzi a Dio, e ho mentito con la mano

alzata sul capo dei miei figli. Non vi ho mai tradito.

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Il conte le afferrò il braccio nell’ombra, stringendolo come in quel terribile

giorno della passeggiata al parco, e balbettò:

- Ma è proprio vero?

- È vero...

Ma egli, sconvolto dall’angoscia, gemette:

- Ah! Ricadrò in altri dubbi senza fine! Quando mi avete mentito, allora o

adesso? Come credervi, ora? Come aver fede in una donna dopo di ciò? Non saprò

mai più a cosa credere, e avrei preferito che mi aveste detto: «È Jacques», o «È

Jeanne».

La carrozza entrò nel cortile del palazzo. Quando si fu fermata davanti alla

scalea il conte ne discese per primo, e, come sempre, offerse il braccio alla moglie

per salire i gradini.

Giunti al primo piano egli disse:

- Posso ancora parlarvi un momento?

Ella rispose:

- Volentieri.

Entrarono in un salottino. Un domestico, alquanto stupito, venne ad

accendere i candelabri.

Appena furono soli, il conte soggiunse:

- Come sapere la verità? Vi ho supplicata cento volte di parlare, e siete sempre

rimasta muta, impenetrabile, inflessibile, inesorabile, e stasera mi dite di aver

mentito. Avete potuto lasciarmi credere una tal cosa per sei anni? No, è adesso

che mentite; non so per quale motivo, forse perché avete pietà di me?...

Ella rispose in tono sincero e convinto:

- Se non vi avessi mentito allora, in questi sei anni avrei avuto altri quattro

figli.

- Parla così una madre? - esclamò il marito.

- Ah! non mi sento per nulla madre di figli che non sono nati, mi basta di

essere la madre di quelli che ho e di amarli con tutto il mio cuore. Sono, siamo

donne di un mondo civile signore. Non siamo più e ci rifiutiamo di essere semplici

femmine che ripopolano la terra.

Si alzò ed il conte le prese le mani:

- Una parola, una parola sola, Gabrielle. Mi avete detto la verità?

- Ve l’ho detta. Non vi ho mai tradito.

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Egli la guardò in viso, così bella con gli occhi grigi come cieli freddi. Nella cupa

capigliatura, nella notte opaca dei suoi capelli neri brillava il diadema cosparso di

diamanti, simile a una via lattea. Egli sentì allora, d’improvviso, sentì come per

una specie d’intuizione, che quella creatura non era soltanto più la donna

destinata a perpetuare una razza, ma il prodotto bizzarro e misterioso di tutti i

nostri complessi desideri, accumulatisi lungo i secoli, sviati dal loro primitivo e

divino scopo verso una bellezza mistica, intravista e irraggiungibile. Sono così

alcune che fioriscono soltanto per i nostri sogni, adorne di tutto quanto la civiltà

ha inventato di poesia, di lusso ideale, di fascino estetico per la donna, per la

statua di carne che avviva la febbre dei sensi come gli appetiti immateriali.

Il marito rimaneva in piedi dinanzi a lei, stupefatto della sua tardiva ed oscura

scoperta, confusamente legata alla causa della sua antica gelosia e rendendosi

conto a malapena di tutto.

- Vi credo, - disse infine. - Sento che adesso non mi mentite, mentre allora mi

era sempre sembrato di non sentirvi sincera.

Ella gli porse la mano:

- Amici, dunque?

Egli baciò la mano che gli veniva tesa e aggiunse:

- Siamo amici. Grazie, Gabrielle.

Quindi uscì, guardandola ancora, meravigliandosi che fosse ancora così bella,

e sentendo nascere in sé una strana commozione, forse più temibile dell’antico e

semplice amore.

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488

INDICE

PALLINA

IN FAMIGLIA

STORIA D’UNA RAGAZZA DI CAMPAGNA

I

II

III

IV

V

SCAMPAGNATA

LA CASA TELLIER

I

II

III

LA RAGAZZA DI PAUL

LA SIGNORINA FIFÌ

PLENILUNIO

QUEL PORCO DI MORIN

I

II

III

DUE AMICI

I GIOIELLI

SANT’ANTONIO

LA REGINA HORTENSE

IDILLIO

LA COLLANA

L’ EREDITÀ

I

II

III

IV

V

VI

VII

VIII

LE SORELLE RONDOLI

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I

II

III

IL DELITTO DI COMPARE BONIFACE

IL RITORNO

YVETTE

I

II

III

IV

TOINE

I

II

III

LA PICCOLA ROQUE

I

II

L’HORLÀ

MOSCA

L’OLIVETO

I

II

III

L’INUTILE BELLEZZA

I

II

III

IV

INDICE