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Quadro storico-culturale Al pari del Cristianesimo e dell'Islam, il Buddismo, nato come una grande "eresia" del Brahmanesimo, si è sviluppato come dottrina universale del riscatto dal dolore e della salvezza, nel lungo periodo di tempo che ha visto sorgere, affermarsi e decadere il sistema sociale basato sulla schiavitù, tra il sec. VI a.C. e l'VII d.C. Oggi è praticamente la quarta comunità religiosa mondiale, dopo Cristianesimo, Islam e Induismo, e conta almeno 3-400 milioni di seguaci. Il periodo storico che ha caratterizzato questa prima religione veramente universale è stato ricchissimo di fermenti culturali mondiali. Fra l'VIII e il VI sec. a.C. sono accaduti dei veri terremoti spirituali in tutte le civiltà superiori, dal bacino del Mediterraneo alla Cina. Prendendo come punto di riferimento l'Illuminazione di Siddartha Gotama (circa 523 a.C.), abbiamo che in Grecia tramontano le antiche monarchie di origine sacrale e si sviluppa la filosofia di Pitagora da Samo, Eraclito da Efeso e quella degli Eleati. In Cina, ove insegnano Confucio e Lao Tsu, si estingue l'idealizzato periodo di "Primavere e Autunni". In Persia domina la religione di Zarathustra. A Roma crolla la monarchia. Nel Vicino Oriente declinano le civiltà teocratiche come quella egizia e assiro-babilonese. In pratica gli uomini abbandonano progressivamente il primato dell'intelligenza intuitiva e ispirativa, e tendono a sviluppare l'intelligenza logico-discorsiva. Lo schiavismo ha bisogno di basi più solide per essere giustificato o, quanto meno, tollerato. Questa nuova intelligenza delle cose cerca la verità delle cose nell'interiorità dell'essere umano o in un mondo visto con occhi più disincantati, con una mente meno disponibile a credere in spiegazioni mistiche o in tradizioni arcane. Più in particolare si deve dire che il Buddismo conseguì un immediato successo perché nell'India del VI a.C. la religione brahmanica non solo esprimeva interessi meramente di casta, ma anche perché i sacerdoti, da mediatori tra uomini e divinità, avevano esaltato l'atto di mediazione, il rito, come atto assoluto, facendo dipendere la salvezza da un ritualismo alquanto formale e complicato. I rapporti tra Buddismo e Occidente In Europa le prime notizie sugli usi e costumi degli indiani dell'India e sulla religione buddista giunsero al tempo delle conquiste di Alessandro Magno (326-323 a.C.), il quale era rimasto molto colpito dall'ascetismo indù. Più tardi il re indiano Asoka (III sec. a.C.) invierà dei monaci missionari presso i greci stabilitisi nelle regioni confinanti con l'India nord- occidentale. Si legge in uno dei suoi editti: "Non si deve considerare con riverenza la propria religione, svalutando senza ragione quella di un altro… poiché le religioni degli altri meritano tutte riverenza per una ragione o per l'altra". Tuttavia, il nome di Buddha viene citato per la prima volta solo da Clemente di Alessandria (150-212 d.C.): questo, nonostante che la tradizione cristiana attribuisca già all'apostolo Tommaso la diffusione del vangelo in India. Come fatto interessante va notato che la storia del Buddha venne ripresa e adattata ad un contesto cristiano nel libro Vita bizantina di Baarlam e Ioasaf, di contenuto edificante e di controversa datazione (VIII-IX sec.). Il santo Ioasaf non è altri che il Buddha sotto mentite spoglie. L'opera ebbe grande

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Quadro storico-culturaleAl pari del Cristianesimo e dell'Islam, il Buddismo, nato come una grande "eresia" del Brahmanesimo, si è sviluppato come dottrina universale del riscatto dal dolore e della salvezza, nel lungo periodo di tempo che ha visto sorgere, affermarsi e decadere il sistema sociale basato sulla schiavitù, tra il sec. VI a.C. e l'VII d.C.Oggi è praticamente la quarta comunità religiosa mondiale, dopo Cristianesimo, Islam e Induismo, e conta almeno 3-400 milioni di seguaci.Il periodo storico che ha caratterizzato questa prima religione veramente universale è stato ricchissimo di fermenti culturali mondiali. Fra l'VIII e il VI sec. a.C. sono accaduti dei veri terremoti spirituali in tutte le civiltà superiori, dal bacino del Mediterraneo alla Cina.Prendendo come punto di riferimento l'Illuminazione di Siddartha Gotama (circa 523 a.C.), abbiamo che in Grecia tramontano le antiche monarchie di origine sacrale e si sviluppa la filosofia di Pitagora da Samo, Eraclito da Efeso e quella degli Eleati. In Cina, ove insegnano Confucio e Lao Tsu, si estingue l'idealizzato periodo di "Primavere e Autunni". In Persia domina la religione di Zarathustra. A Roma crolla la monarchia. Nel Vicino Oriente declinano le civiltà teocratiche come quella egizia e assiro-babilonese.In pratica gli uomini abbandonano progressivamente il primato dell'intelligenza intuitiva e ispirativa, e tendono a sviluppare l'intelligenza logico-discorsiva. Lo schiavismo ha bisogno di basi più solide per essere giustificato o, quanto meno, tollerato.Questa nuova intelligenza delle cose cerca la verità delle cose nell'interiorità dell'essere umano o in un mondo visto con occhi più disincantati, con una mente meno disponibile a credere in spiegazioni mistiche o in tradizioni arcane.Più in particolare si deve dire che il Buddismo conseguì un immediato successo perché nell'India del VI a.C. la religione brahmanica non solo esprimeva interessi meramente di casta, ma anche perché i sacerdoti, da mediatori tra uomini e divinità, avevano esaltato l'atto di mediazione, il rito, come atto assoluto, facendo dipendere la salvezza da un ritualismo alquanto formale e complicato.

I rapporti tra Buddismo e OccidenteIn Europa le prime notizie sugli usi e costumi degli indiani dell'India e sulla religione buddista giunsero al tempo delle conquiste di Alessandro Magno (326-323 a.C.), il quale era rimasto molto colpito dall'ascetismo indù.Più tardi il re indiano Asoka (III sec. a.C.) invierà dei monaci missionari presso i greci stabilitisi nelle regioni confinanti con l'India nord-occidentale. Si legge in uno dei suoi editti: "Non si deve considerare con riverenza la propria religione, svalutando senza ragione quella di un altro… poiché le religioni degli altri meritano tutte riverenza per una ragione o per l'altra".Tuttavia, il nome di Buddha viene citato per la prima volta solo da Clemente di Alessandria (150-212 d.C.): questo, nonostante che la tradizione cristiana attribuisca già all'apostolo Tommaso la diffusione del vangelo in India.Come fatto interessante va notato che la storia del Buddha venne ripresa e adattata ad un contesto cristiano nel libro Vita bizantina di Baarlam e Ioasaf, di contenuto edificante e di controversa datazione (VIII-IX sec.). Il santo Ioasaf non è altri che il Buddha sotto mentite spoglie. L'opera ebbe grande successo e diffusione in Europa, tanto da far accogliere il protagonista nel numero dei santi della cristianità.Il periodo d'oro dei contatti tra Oriente e Occidente si realizza, pur in mezzo a terribili crociate, nel XIII sec.: dal francescano Giovanni da Pian del Carpine, che scrisse una Storia dei Mongoli, trattando con molto rispetto i buddisti, a Guglielmo di Rubruck, inviato da re di Francia, sino al famoso Marco Polo, inviato da Venezia, che nel Milione esprime la sua ammirazione per la figura del Buddha..Alla fine del '400, quando gli europei scoprirono la via del mare per andare in Asia, il dialogo si trasformò subito in conquista. Navigatori, commercianti, soldati e missionari portoghesi, spagnoli, francesi e inglesi avevano ben altro da fare che interessarsi del Buddismo. Tra i missionari cristiani interessatisi allo studio delle lingue orientali per comprendere i Canoni, si possono ricordare Francesco Saverio per il Giappone, Matteo Ricci per la Cina, Roberto de Nobili per l'India e Ippolito Desideri per il Tibet.Bisogna comunque aspettare il 1735 prima di avere, a Parigi, una pregevole Descrizione dell'Impero della Cina e della Tartaria cinese, ad opera di P.G.B. du Halde, il quale si serve delle memorie di 27 missionari.

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Ma un vero interesse per le lingue orientali e quindi anche per i testi delle religioni asiatiche matura solo nel XIX sec., allorché E. Burnouf scrisse l'Introduzione alla storia del Buddhismo indiano.Da allora la conoscenza del Buddismo si è progressivamente approfondita e precisata.

Storia di Siddartha GotamaLa letteratura buddista attribuisce la nascita del movimento al principe indiano Siddharta, poi conosciuto col nome di Gotama, che sarebbe vissuto nel VI sec. a.C. (pare sia nato intorno al 563 a.C.), cioè in un periodo storico già caratterizzato dalla disgregazione della primitiva comunità indiana, cui veniva sostituendosi una società basata sullo schiavismo e sulla divisione in classi sociali contrapposte.La religione dominante dell'India, il Brahmanesimo, subì una crisi: aumentò nettamente l'insoddisfazione per l'ingiusta struttura di casta e per l'arbitrio dei sacerdoti brahmani, il cui potere (quasi assoluto nella vita civile) cominciava ad essere minacciato da dinastie guerriere.Va inoltre detto che nel periodo in cui i rapporti schiavistici si rafforzarono (specie nell'India settentrionale), il Brahmanesimo, religione della società schiavistica primitiva, che rifletteva la frantumazione delle comunità tribali, non poteva più servire come base ideologica per i grandi dispotismi schiavistici che si andavano formando.Siddartha era figlio del governatore di uno dei piccoli e bellicosi regni dell'India del nord, tra il Gange e il Nepal. La stirpe guerriera era quella degli Sakya ("potenti"). Egli trascorre la prima parte della sua esistenza nel lusso e nella mondanità della casa paterna, dove riceve un'educazione legata al suo rango, acquisendo anche nozioni di legislazione e di amministrazione.A 16 anni il padre lo fa sposare e dopo 13 anni ha un figlio, ma proprio all'età di 29 anni decide di abbandonare tutto e tutti.Infatti, non avendo mai conosciuto alcun aspetto veramente negativo della vita, in quanto non era mai uscito dai confini del proprio palazzo, rimase un giorno letteralmente sconvolto al vedere, in un villaggio, un vecchio decrepito, un malato grave e un corteo funebre. Improvvisamente capì che esistevano anche le malattie, la vecchiaia e la morte come destino universale degli esseri umani.Infine incontrò un povero asceta che aveva rifiutato volontariamente ogni ricchezza e piacere della vita e che errava felice per la campagna: decise così di seguire il suo esempio.In quei tempi, che segnavano l'inizio della speculazione filosofica indiana, svincolatasi dal ritualismo vedico, non erano pochi gli uomini (specie della casta dei guerrieri), e talvolta anche le donne, che abbandonavano il mondo per dedicarsi a una vita di meditazione e ascesi secondo le ben collaudate tecniche dello yoga.Il Buddha dunque visse per sette anni nella foresta, sottoponendosi - sotto la guida di vari maestri -a digiuni, sofferenze e privazioni d'ogni genere, al fine di conseguire la pace interiore e la conoscenza della verità. Ma non rimase soddisfatto di questa vita.Abbandonò ogni maestro e decise di ricercare da solo la via della Liberazione (mukti). A 35 anni, giunto alla soglia della morte per esaurimento, una notte -secondo la tradizione-, mentre era seduto ai piedi di un albero, sprofondò nei suoi pensieri pervenendo all'"Illuminazione" (Buddha infatti significa "illuminato" o "risvegliato"). Essa consisteva nel rifiutare sia una vita di piaceri, perché troppo effimera, che una vita di sofferenza volontaria, perché fonte di orgoglio.

Le Quattro Nobili VeritàAl momento del "Risveglio" Siddartha credette di riconoscere quattro verità fondamentali dell'esistenza:

1. la realtà dell'esistenza personale e del mondo esteriore è dolore, consistente nell'invarianza delle sue condizioni: nascita, malattia, morte, mancanza di ciò che si desidera, unione con ciò che dispiace, separazione da ciò che si ama;

2. l'origine del dolore è il desiderio di esistere, il bisogno del piacere e anche il suo rifiuto;

3. questa sete generatrice delle rinascite va estinta nel Nirvana (il desiderio va eliminato);

4. la via che conduce all'arresto del dolore è il Dharma (cioè l'Ottuplice Sentiero).

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Insomma, Siddartha ad un certo punto s'era reso conto che l'ascetismo estremo non faceva che respingere a livelli più profondi di coscienza, rafforzandoli, gli impulsi e gli istinti ch'egli presumeva di sradicare.La retta via -disse Buddha- sta nel mezzo (Via Mediana). Il segreto della felicità sta nell'accettarsi così come si è, rinunciando ai desideri, la cui consapevolezza rende infelici non meno della loro realizzazione. Infatti ogni desiderio soddisfatto porta a maturarne un altro ancora più grande. Rinunciare ai desideri significa rinunciare a una inutile sofferenza. La condizione suprema della felicità è quella del Nirvana, in cui l'uomo è felice pur non desiderandolo, è felice perché ha vinto l'Illusione cosmica (maya).

Successo della predicazioneScoperta la vera via, Buddha, che intanto si è già circondato di vari discepoli, comincia con loro a predicare il Dharma (legge, regola della dottrina buddista) per tutta l'India, a partire da Benares e rivolgendosi (diversamente dai brahmani) alla gente comune, usando i loro idiomi locali. Si forma anche una comunità femminile.Dopo circa 40 anni di pellegrinaggio e di insegnamento, egli morì, avvelenato da cibi guasti, e fu cremato dai suoi discepoli secondo il rito indiano (circa 480 a.C.).Nel III a.C. il re Asoka, capo di una dinastia che lottava per unificare sotto il suo dominio la maggior parte dell'India, si convertì al Buddismo e contribuì alla sua diffusione, dentro e fuori dell'India, facendone una religione di stato.Il Buddismo infatti tornava comodo alla dinastia Maurya, originaria di una bassa casta, la quale, dopo aver cacciato i conquistatori greco-macedoni (324 a.C.), e portato a termine l'unificazione nazionale a prezzo di terribili carneficine, aveva bisogno di ordine (e le comunità buddiste erano strutturate con molta disciplina), nonché di un'ideologia nazionale (e il buddismo non era in rapporto coi culti tribali locali, inoltre con la sua dottrina della "non resistenza al male" poteva aiutare i governanti a tenere il popolo sottomesso).E così i missionari buddisti cominciarono a diffondere la Legge del Buddha oltre i confini dell'India, soprattutto in Asia (Kashmir, Himalaya, Birmania, Thailandia), in Africa (Egitto), ma anche lungo le sponde del Mediterraneo (Siria, Egitto, Macedonia, Epiro).

Le prime comunitàNei primi tempi della sua predicazione, il Buddha non ebbe in mente d'imporre una particolare disciplina monastica. Dovrà però farlo quando si troverà ad essere il capo di un Ordine.All'inizio i discepoli provenivano dai ceti più elevati. Venivano esclusi i debitori, gli schiavi, i malati contagiosi, gli incurabili, gli eunuchi, gli assassini, i minori di 15 anni di età e coloro i cui tutori legali si opponevano.Le maniere di vivere il Buddismo sono, ancora oggi, fondamentalmente due: l'appartenenza all'Ordine composto da monaci (bhiksu) o monache (bhiksuni) e la confraternita dei laici (upasaka).Il monaco deve avere la testa rasata, non deve portare barba e baffi; la sua tunica dev'essere ampia e di colore giallo-arancione; una ciotola appesa alla cintura sta a indicare che la questua è il suo unico mezzo di sostentamento; il suo vitto-base dovrebbe essere costituito da pane e acqua, brodo e riso cotto, e comunque egli non deve ingerire alcun alimento solido tra mezzogiorno e l'alba del mattino successivo. Unici oggetti personali, oltre a quelli detti, un paio di scarpe,un rasoio, un ago (per tunica, saio e mantello) e un filtro per l'acqua.Egli non può esercitare un mestiere remunerato e può ricevere doni solo in natura, non in denaro. Il celibato è d'obbligo.Il monaco pratica, circa una volta al mese, la confessione pubblica delle proprie colpe, guidata dal monaco più anziano: sono previste le relative penitenze, specie per chi non si pente (i precetti sono 227).Il monaco non deve essere causa di dolore per alcun essere vivente (animali inclusi).Sul piano rituale, il Buddismo rifiuta le cerimonie raffinate tipiche del brahmanesimo e proibisce ovviamente i sacrifici di animali. Il culto è diretto da monaci che leggono i testi canonici; i laici non prendono parte attiva alle cerimonie divine.I monaci devono essere continuamente in viaggio per diffondere la Legge del Buddha: non hanno quindi fissa dimora; i monasteri sono solo luoghi d'incontro per i giorni di ritiro e per il periodo delle piogge (luglio-ottobre), in cui vige la proibizione di uscire dal monastero, anche per la questua. Possono anche curare l'istruzione religiosa dei giovani.

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Molto praticati i pellegrinaggi presso i luoghi che ricordano le tappe della vita del Buddha.Non avendo lo stato monacale un valore di investitura divina, il monaco può tornare allo stato laicale se non ha più intenzione di seguire le regole dell'ordine.

La legge della causalitàNel Sermone di Benares, con cui il Buddha inizia la sua predicazione, viene chiaramente negata l'essenza a tutte le cose, motivando ciò col fatto che ogni cosa trae la propria realtà da altre cose che ne sono la causa. Solo il Nirvana sfugge a tale destino, in quanto non è uno "stato", bensì una "condizione" di assenza (non c'è morte e vita, gioia e dolore…). Lo stesso "io" non è che una successione di stati di coscienza fondati su un insieme di psichismi, sensazioni e parvenze fisiche. L'io, se lo si intende come "realtà", non è che un'illusione.Il Buddismo infatti parte dal presupposto che tutta la vita è dolore, esso cioè da per scontato che i desideri non possono realizzarsi e che, anche quando lo sono, non procurano la felicità, poiché ne sorgono altri di grado superiore o di diversa natura. In tal senso anche il piacere è dolore, in quanto implica adesione a qualcosa di estraneo.L'origine del dolore è la "sete" o desiderio, che può essere di tre tipi: piacere, voler esistere, non voler esistere, e vi sono tre radici del male: concupiscenza (brama), ira (odio) e ottenebramento (cecità mentale).L'io che non riesce a sottrarsi a questa schiavitù, è destinato a reincarnarsi (samsara) in eterno, almeno fino a quando non si sarà purificato interamente.

I dharmaSecondo i buddisti l'io non è un'entità individuale (come nelle Upanishad), ma è una combinazione di particelle diverse (dharma o qualità spirituali), di tipo sensitivo, volitivo, percettivo e di impulsi innati: non esiste l'unitarietà dell'io né la sua personale immortalità.Le parti costitutive dell'io, o meglio, i fenomeni psico-fisici dell'esistenza vengono classificati come Aggregati, Basi ed Elementi.Gli Aggregati sono cinque:

1. Forma o Materia (il proprio corpo, elementi fisici del mondo); 2. Sensazioni; 3. Nozioni o Ideazioni; 4. Costruzioni psichiche soggettive o propensioni karmiche (complessi innati derivati

dall'ignoranza); 5. Coscienza (scorrere dei pensieri).

Le Basi sono dodici:1. sei sono interne: occhio, orecchio, naso, lingua, corpo e mente, cui corrispondono 2. sei basi esterne: visibile, suono, odore, sapore, tangibile, idee.

Gli Elementi sono diciotto:1. sei basi interne; 2. sei basi esterne 3. e le rispettive conoscenze che tuttavia costituiscono l'elemento mentale: le idee, per

cui si può parlare di 17 elementi effettivi. Questa triplice classificazione è basata sul fatto che il modo di apprendere è diverso tra gli esseri umani: può essere conciso, normale, prolisso, ecc.In altre parole i dharma costituiscono l'infinita varietà dei modi della realtà e quindi gli infiniti accadimenti della nostra esistenza, frutto di azioni compiute in passato e semi di eventi futuri.Io e Mondo sono il risultato dell'unione di vari dharma, che fluiscono continuamente in un perenne gioco di associazioni e dissociazioni, di aggregazioni e disgregazioni, guidato dalla legge etica del karman, che è una sorta di principio retributivo (preso dal Brahmanesimo), secondo cui i dharma sono costretti a reincarnarsi finché l'io non si è purificato: l'uomo deve rispondere sia della vita trascorsa che della vita passata nelle generazioni precedenti. Questa circolazione o flusso dei dharma è la ruota della vita da cui appunto ci si deve liberare.

L'Ottuplice SentieroSul piano pratico il buddista, per arrivare all'eliminazione dei desideri, deve seguire le otto vie fondamentali del Dharma:

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1. retta visione, per cui si contempla la realtà com'è, senza inquinarla coi propri complessi inconsci, abitudini inveterate, pregiudizi, ripugnanze innate, limitazioni caratteriali, memoria automatica ecc.

2. retto pensiero, possibile solo con un esercizio ininterrotto del controllo della propria rappresentazione concettuale;

3. retta parola, cioè sua perfetta corrispondenza, senza enfasi né sciatteria, con l'oggetto enunciato;

4. retta azione, che è l'agire esattamente quando e quanto sia necessario; 5. retta forma di vita, cioè il saper mediare fra le necessità della vita fisica sulla terra e i

fini spirituali che ognuno si propone di conseguire; 6. retto sforzo, cioè saper adeguare esattamente ogni iniziativa all'importanza dello

scopo da conseguire; 7. retta presenza di spirito, cioè costante ricordo di quanto si pensa, si fa e si sente, in

modo da essere continuamente presente a se stesso; 8. retta pratica della meditazione, senza sostare con la mente in stati d'animo depressi

o esaltati.

Il NirvanaSeguendo queste otto strade l'uomo giunge alla perfezione e sprofonda nel Nirvana, il quale -secondo la scuola Mahayana- rappresenta il completo annientamento o non-essere, raggiungibile anche in vita e quindi definibile in senso positivo, come stato di pace totale e di gioia assoluta e di verità ultima, che però solo gli illuminati scorgono.Viceversa, seconda la scuola Hinayana, il Nirvana sfugge a qualsiasi definizione, poiché rappresenta la fine della vita accessibile alla coscienza e il passaggio a un'altra esistenza, inconsapevole, possibile solo dopo la morte.In entrambi i casi Nirvana significa interruzione della catena delle reincarnazioni (samsara).Secondo i buddisti, lo stesso Buddha, prima di nascere come Gotama, avrebbe subìto una lunga serie di rinascite. Egli fu però anche il primo uomo a raggiungere l'Illuminazione, per cui la sua morte ha rappresentato l'immediato passaggio al Nirvana.Nirvana dunque, anche se letteralmente significa "estinzione", spiritualmente significa "beatitudine".

La MeditazioneIl mezzo fondamentale per percorrere l'Ottuplice sentiero è la Meditazione, che si sviluppa su due linee diverse e complementari:

1. Acquietamento o Purificazione 2. Si propone una condizione di totale trasparenza immobile della coscienza (atarassia).

Consiste nel focalizzare l'attenzione su un solo punto, che in realtà è un'immagine simbolica, da utilizzare come supporto per il processo, operando una graduale esclusione degli stimoli sensoriali periferici, che sono i desideri di essere stimolato, avversione, torpore, irrequietezza, scetticismo. L'atto meditativo di volge sul medesimo pensiero dell'asceta, il quale raggiunge i primi quattro livelli di perfezione: quieta felicità, fine del pensiero logico-discorsivo, fine dei fattori emotivi, fine del senso di felicità/infelicità. La "cosa" si tramuta nel "concetto" e il mondo viene appreso "così com'è". Il pensiero diventa consapevolezza universale;

3. Visione penetrativa o Intuizione Consiste in una vigile attenzione rivolta ai fatti fisici, anche minimi, e ai processi mentali. Conduce a una serie di approfondite purificazioni del pensiero, il quale deve giungere alla consapevolezza che l'essenza degli elementi della realtà è data dallo stesso pensiero che se li rappresenta, ma che, di per sé, è inesistente. La realtà va sperimentata come "vuoto", in particolare come vuoto "noetico", al quale cioè corrisponde la condizione soggettiva di "estinzione" (Nirvana), in cui soggetto e oggetto devono identificarsi, altrimenti, di fronte al "nulla" che spiega le cause, l'io potrebbe disperare.

I quattro ConciliLa disciplina delle comunità monastiche (e laicali) andò configurandosi attraverso quattro Concili, il primo dei quali (483 o 477 d.C.), a Rajagriha, ebbe appunto lo scopo di fissare un primo Canone.

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Il secondo Concilio di Vaisali (383 o 367 a.C.), fu causato da una questione di disciplina monacale, ma porterà al più grande scisma in seno al Buddismo, quello tra le scuole Hinayana e Mahayana.I punti controversi furono cinque:

1. un monaco, pur con tutta la sua santità, può essere soggetto a necessità fisiologiche incontrollate;

2. la sua illuminazione non esclude di per sé residui di ignoranza nella vita quotidiana; 3. il monaco può essere soggetto a dubbi; 4. la sua conoscenza su fatti contingenti può essere acquistata con l'aiuto di altri (non

per immediata intuizione); 5. il monaco può definire con parole del linguaggio ordinario la Via ineffabile che

conduce al Risveglio. Come si può notare, erano tutte obiezioni che si ponevano come scopo quello di democratizzare e umanizzare un movimento troppo rigido ed elitario. L'ideale qui diventa non tanto il singolo che ha raggiunto l'Illuminazione per se stesso, con particolari pratiche ascetiche, ma il laico comune, il quale, pur in grado di giungere all'Illuminazione, vi rinuncia e in nome della compassione si adopera per aiutare tutti gli altri esseri umani a trovare la via della perfezione.Duecento anni dopo il secondo Concilio si contano già 18 scuole, ognuna delle quali sostiene di essere la vera interprete della dottrina del Buddha.Il terzo Concilio di Pataliputra, indetto dal sovrano Asoka verso il 243-242, ebbe lo scopo di arginare i tentativi di reintrodurre la nozione hindu dello atman (il "se stesso"), sotto il nome di pudgala ("persona"), responsabile del karman.In questo Concilio, inoltre, un migliaio di monaci lavorarono per nove mesi a controllare, completare e classificare le tradizioni tramandate.Nel quarto Concilio di Harvan si discusse la revisione del Canone operata dalla scuola dei Sarvastivadin, per la quale occorreva preservare un minimo di realtà all'esperienza del mondo, altrimenti verrebbe a mancare il rapporto di causa ed effetto su cui è basata la legge del karman.

Testi canoniciI testi sacri riconosciuti come autentici dal Buddismo sono raccolti in due Canoni, denominati, in base alle scritture usate, Pali e Sanscrito.

1. Il Canone Pali (deciso nel I sec. a.C.) è chiamato anche Tripitaka, perché raggruppa il corpus in tre parti (o "Tre canestri": infatti i libri di ogni raccolta, scritti su fogli di palma, potevano essere contenuti in una cesta). Esso rappresenta una sintesi delle dottrine predicate dal Buddha o a lui attribuite e delle teorie elaborate dalla scuola Hinayana.

2. La prima cesta (Vinaya) comunica le regole da osservare nelle comunità monastiche; essa si compone di tre raccolte di libri: sono talmente voluminosi che per leggerli tutti, al Concilio di Rangoon (1954), ci vollero 169 sedute in 46 giorni;

3. la seconda cesta (Sutra) parla delle conversazioni di Buddha coi suoi discepoli ed è il doppio della prima; la recita dei sutra è la base del culto e della meditazione di monaci e laici. Il loro linguaggio è poetico, le composizione sono ritmiche, molto convincenti le spiegazioni di difficili tematiche spirituali e psicologiche. Questa cesta contiene anche 547 leggende relative alle esistenze precedenti del Buddha;

4. la terza cesta (Abhidarma) fornisce la spiegazione dei principali dogmi del Buddismo contenuti appunto nel Sutra (metafisica). Questi testi sono stati composti da ignoti autori dal III al I sec. a.C. e sono ad uso degli specialisti.

5. Il Canone Sanscrito, nato circa sei secoli dopo la morte del Buddha, varia molto, come suddivisione e denominazioni, da Stato a Stato. Esso sostanzialmente è legato alla scuola Mahayana. Questa tradizione, i cui testi sono molto estesi, sostiene che Buddha avrebbe riservato la parte più sottile della sua verità alle generazioni posteriori. Un'edizione del Canone buddista, il Taisho Shinshu, stampato a Tokyo, comprende ben 100 volumi e fa capire la necessità di dover scegliere una "pars pro toto" per la fede personale. Tra le numerose scritture del Mahayana meritano d'essere ricodarte La sutra della perfetta sapienza e soprattutto il Libro tibetano dei morti, che suscitò grande interesse in Occidente.

Il Buddismo è una religione?

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Buddha non negò esplicitamente l'esistenza degli dèi brahmani, ma questi -secondo la sua filosofia- non possono evitare all'uomo le sofferenze della vita, per cui credere o non credere in loro non cambia le cose. Il cammino che porta alla salvezza l'uomo -secondo Buddha- deve trovarlo da solo.D'altra parte anche le divinità sono, per il Buddismo, soggette al samsara, e l'Assoluto o l'Eterno non corrisponde che al concetto di Vacuità (sunyata). Il Brahman è il nulla (la differenza dall'Induismo è evidente).Le domande metafisiche o teologiche sull'essenza del mondo, sull'origine dell'universo ecc. vengono considerate inutili ai fini dell'Illuminazione. Anche la Cosmogonia è ridotta a pochi enunciati.Il Buddismo vuole porsi come filosofia di vita e soprattutto come pratica meditativa. Nel momento dell'Illuminazione il Buddha avrebbe intuito un preciso imperativo etico: "liberarsi dalle opinioni". L'atteggiamento quindi vuole essere di tipo anti-dogmatico. "La dottrina è simile a una zattera -disse il Buddha -, serve per attraversare e non trasportarsela sulle spalle".Questo ovviamente non significa che il Buddismo, al pari di ogni altra religione, non abbia i propri dogmi, i propri canoni, i propri riti e persino il proprio misticismo.Va inoltre considerato che se si accetta l'idea che la divinità sia il "totalmente altro", non si può escludere l'ipotesi che il Buddismo sia anche una religione.è stata proprio questa particolare forma di "ateismo implicito" o, se vogliamo, di "apofatismo religioso" che per molti intellettuali occidentali ha fatto del Buddismo un oggetto di interesse e di studio: si pensi a Schlegel, a Schleiermacher, ma soprattutto a Schopenhauer, a Hesse (di quest'ultimo è famoso il libro Siddharta). In Italia molto noto fu il libro di Liliana Cavani, Vita di Milarepa. Grande successo ha avuto il recente film di B. Bertolucci, Piccolo Buddha.

Comportamento socialeSul piano del comportamento sociale, il Buddismo rifiuta il sistema brahminico delle caste e riconosce l'uguaglianza formale di tutti gli uomini ("formale" perché di fatto con la dottrina della "non resistenza al male" esso disarma spiritualmente il popolo di fronte agli sfruttatori). Ogni uomo ha uguali possibilità di salvezza morale, poiché tutto dipende dalla sua volontà.Il buddista ama non tanto il singolo, quanto il genere umano. Non si difende dal male ricevuto, non si vendica, non condanna chi commette un omicidio. Nel complesso il buddista ha un atteggiamento di indifferenza per il male, rifiutando soltanto di non compierlo.D'altra parte -dice il Buddismo- "chi ha sana la mente non compete col mondo né lo condanna: la meditazione gli farà conoscere che nessuna cosa è quaggiù durevole, salvo gli affanni del vivere".Il buddista sostanzialmente è convinto che chi compie il male, vedendo la non-reazione da parte di chi lo subisce, ad un certo punto si renderà conto che è inutile continuare a compierlo.

Regole etiche di vitaI precetti fondamentali del Buddismo, per quanto riguarda le regole etiche di vita (sila) sono divisi in tre gruppi: i cinque divieti, gli otto comandamenti e le dieci condotte morali. In pratica si tratta degli stessi comandamenti, cui ogni volta se ne aggiungono altri.

1. I cinque divieti sono: 2. non uccidere alcun essere vivente, 3. non prendere l'altrui proprietà, 4. non toccare la donna altrui, 5. non dire menzogne, 6. non bere bevande inebrianti. 7. Gli otto comandamenti includono i suddetti cinque divieti, cui se ne aggiungono altri

tre: 8. non mangiare cibo nei tempi non dovuti; 9. astieniti dal canto, dalla danza, dalla musica e da ogni spettacolo indecente; non

ornare la tua persona con ghirlande, profumi e unguenti; 10. non usare sedili alti e lussuosi. 11. Gli ultimi due precetti morali sono: 12. non adoperare letti grandi e confortevoli; 13. non commerciare cose d'oro e d'argento.

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Naturalmente questi precetti diventano tanto più esigenti quanto più uno cerca di purificarsi spiritualmente: il divieto di uccidere si estende fino a tutti gli animali, nessuno escluso; l'acqua può essere bevuta solo se filtrata; non si può usare l'aratro perché potrebbe ferire i vermi della terra; la castità sessuale deve essere completa; la povertà dev'essere assoluta ecc.È bene però precisare che per raggiungere la Liberazione, più che una vita moralmente ineccepibile, la quale al massimo può dar luogo a un buon karman, il buddista deve dedicarsi alla Meditazione, che comporta un'energica disciplina ascetica (yoga), la cui esperienza in un certo senso va al di là di ogni morale. L'io deve liberarsi dell'Illusione circa la realtà del mondo e soprattutto circa la sua personalità, per sprofondare nel "non-io", nel "non-essere".Ciò tuttavia non ha impedito a molti monaci d'impegnarsi attivamente a favore delle rivendicazioni democratiche e dell'indipendenza nazionale (vedi p.es. in Vietnam al tempo della guerra contro gli USA).

Virtù moraliQuanto alle virtù morali che deve seguire il buddista, esse in sostanza si riducono a quattro:

1. compassione (percepire dentro di sé la gioia e il dolore dell'altro); 2. amorevolezza verso tutti gli esseri viventi; 3. letizia e considerazione del lato positivo delle cose; 4. imparzialità nel considerare la realtà

La condizione della donnaDurante la sua predicazione, il Buddha sostenne sempre una fondamentale misoginia, al pari di tutti i filosofi dell'antichità.La donna era vista come una fonte di tentazione del tutto incompatibile con la vita ascetica; essa ovviamente non veniva condannata come persona, ma piuttosto come potere di seduzione che porta a quell'attaccamento per la vita che, attraverso le generazioni, perpetua la condizione di "essere nel mondo" e vincola, di conseguenza, l'individuo al suo dolore, alla sua cieca ignoranza, alla ruota delle rinascite.Poiché l'amore e l'unione sessuale sono -secondo Buddha- le forme più primordiali in cui si manifesta la sete di vita, il Buddismo classico non poteva che negare alla donna la possibilità di giungere al Nirvana: l'unica condizione, per una donna, era quella di estinguere in sé tutto ciò che è femminile, cioè in sostanza sforzarsi di sviluppare un pensiero maschile al fine di poter rinascere come "uomo".Solo dopo molte discussioni e polemiche, il Buddha consentì ad ammettere le donne fra i suoi discepoli, in comunità ovviamente separate, soggette a regole analoghe e, in più, alla sorveglianza da parte dell'abate della più vicina comunità monastica maschile, con l'obbligo inoltre di obbedire ai monaci maschi di qualunque età. A queste condizioni era possibile anche per loro raggiungere il Nirvana.Questa forma di maschilismo è venuta attenuandosi col tempo, fino al punto che si è cominciato a produrre, sul piano artistico, delle figure mitiche del Buddha con aspetti femminili.Va detto tuttavia che il Buddismo non interviene negli aspetti della quotidianità e neppure nelle vicende fondamentali della vita, come il matrimonio e la nascita dei figli, i cui riti si basano sempre su usanze locali.Le regole di condotta previste dal Buddismo per la vita matrimoniale sono essenziali, basate sostanzialmente sul buon senso e quindi praticabili da chiunque.

Due scuole fondamentaliIntorno al I sec. d.C., il Buddismo si divide in due tendenze fondamentali, ognuna delle quali, a sua volta, si suddivide in una trentina di correnti:HINAYANA o "piccolo veicolo" (stretta via della salvezza), che richiede una rigorosa osservanza delle otto vie. I seguaci di questa corrente ritengono che solo i monaci possono raggiungere il Nirvana. Non considerano Buddha un dio, ma solo un maestro di perfezione morale. Si dedicano alla predicazione, allo studio dei testi canonici, alla venerazione dei luoghi legati alla vita di Buddha, ecc. Questa corrente nega recisamente l'esistenza dell'atman (l'io individuale), ammessa invece dal Brahmanesimo, e ritiene inutili i riti, le devozioni, i simboli e i sentimenti religiosi. Essa si è diffusa soprattutto in Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia e soprattutto Sri Lanka.

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MAHAYANA o "grande veicolo" (larga via della salvezza), che permette la salvezza anche al laico, in forme meno rigide. La scuola Mahayana, che peraltro sostituì la lingua Pali, usata dal Piccolo Veicolo, con il Sanscrito, costituisce lo sviluppo del Buddismo in senso filosofico, mistico e gnostico. Essa riconosce un gran numero di divinità, fra le quali annovera lo stesso Buddha. Anzi, Siddartha Gotama non sarebbe che uno dei buddha: ne esisterebbero altre centinaia (sovrani del paradiso, del futuro, del mondo ecc.) . Concezione, questa, che permetterà al Buddismo di assimilare facilmente altre religioni.Oltre ai buddha vi sono i santi, cioè coloro che, pur avendo acquistato il diritto d'immergersi nel Nirvana, hanno deciso di restare ancora un po' di tempo sulla terra per salvare gli uomini. I mahayanisti, a differenza degli hinayanisti, credono anche negli spiriti maligni e in altri esseri soprannaturali, nonché nella differenza tra paradiso e inferno, e negano l'esistenza dei dharma come entità a se stanti. Nel paradiso si trovano le anime dei giusti (anche laici) che devono incarnarsi ancora una volta sulla terra prima di raggiungere il Nirvana. Questa corrente, che praticamente non ha nulla del Buddismo originario (che, nonostante tutto, era rimasto un movimento elitario), si è diffusa tra il II e il X sec. nell'Asia centrale, nel Tibet, in Cina, Vietnam, Corea e Giappone, Mongolia e Nepal (per qualche tempo anche in Birmania, Indonesia e India settentrionale).

Vajrayana (Via dei Tantra)La terza corrente del Buddismo, detta anche Veicolo del Diamante, quella meno diffusa (circa 20 milioni di seguaci), e che più si è allontanata dalle origini, insistendo proprio sui punti che il Buddha aveva maggiormente criticato: il ritualismo, la mistica e la magia, si è affermata verso il VI sec., diffodendosi prevalentemente in Mongolia e nel Tibet, ma anche in Nepal, Cina e Giappone.Questa corrente, senza la scuola Mahayana, difficilmente avrebbe potuto costituirsi.I suoi due rami principali sono il Lamaismo e lo Zen.Queste correnti esoteriche (chiamate anche col nome di Veicolo delle formule magiche o Mantrayana), attribuiscono importanza centrale alla ripetizione di formule sacre (mantra) per raggiungere l'Illuminazione.Nel Tibet questa corrente, nata verso il 750, assunse il nome di Lamaismo, diffondendosi anche in Mongolia e Siberia. È L'unica corrente strutturata in maniera gerarchica.Per i suoi seguaci il Tibet rappresenta come una "casa madre" e una "terra promessa". Lhasa, la capitale, è considerata "città sacra". Anche la lingua tibetana è ritenuta "sacra".Essendo il prodotto di una fusione di Buddismo e religioni animistiche e sciamaniche, il Lamaismo dà notevole importanza agli scongiuri magici, alla conoscenza mistica e alla musica, con l'aiuto dei quali esso è convinto di poter raggiungere il Nirvana in tempi molto brevi.Molto influenti sono stati i monaci, chiamati Lama, che riuscirono a costituire un governo ierocratico: nominalmente il potere civile apparteneva agli imperatori cinesi, di fatto erano i monaci a comandare e i loro dirigenti venivano scelti tra le famiglie feudali più influenti.L'ultimo Dalai Lama, non avendo accettato l'unificazione del Tibet con la Cina comunista (1951), imposta da quest'ultima, ha deciso, dopo una rivolta fallita, di espatriare in India nel 1959, insieme a 100.000 rifugiati.Prima dell'unione con la Cina un tibetano su quattro apparteneva a un ordine religioso.Quando il Dalai Lama muore, si pensa ch'egli s'incarni immediatamente in qualche parte del paese. Una ricerca minuziosa viene allora operata tra tutti i neonati maschi che rivelino alcuni segni particolari negli occhi o nelle orecchie o nella pelle… I loro nomi vengono introdotti in un'urna d'oro e poi ne viene estratto uno a sorte. Da quel momento il prescelto viene educato dai sacerdoti, conduce un'esistenza privilegiata e deve astenersi da qualunque forma di impurità e di rapporto sessuale. L'attuale Dalai Lama (XIV Incarnazione) è stato insediato nel 1940. Nel 1990 gli è stato conferito il Premio Nobel per la pace.

Il Buddismo ZenLa corrente più mistica del Buddismo è lo Zen, introdotto in Cina nel VI sec. e arrivato in Giappone nel XII, dove divenne la religione dei samurai.Esso sottolinea l'indivisibilità del Buddha da tutto ciò che esiste: l'uomo quindi può e deve raggiungere, già in questo mondo, l'unità con la divinità. Ciò può avvenire solo tramite un'Illuminazione interiore, istantaneamente, in condizioni eccezionali, provocate anche da stimoli fisici, poiché la verità non può essere raggiunta razionalmente, né può essere espressa in concetti.

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Uno degli stimoli preferiti, in tal senso, è il senso del bello (che include l'arte di disporre i fiori, la cerimonia del tè, la sobria raffinatezza della casa, ecc.). Il controllo della respirazione è una tecnica fondamentale.In questa scuola il monaco può avere famiglia.

IconografiaPer quasi quattro secoli la raffigurazione umana del Buddha, in osservanza alla liturgia aniconica delle primitive scuole buddiste, si limitava a semplici immagini simboliche: impronta dei piedi, un trono vuoto, un turbante, un cavallo senza cavaliere.Attraverso la diffusione del Buddismo nel mondo asiatico, e grazie soprattutto all'emergere della tradizione mahayana, si attuarono, a partire dal II sec. d.C., sensibili modificazioni nell'iconografia. Il Buddha in sostanza diventa un "superuomo", con un corpo "glorioso": il turbante, nella statuaria, è stato tradotto come una protuberanza del cranio; l'urna tra le sopracciglia; l'impronta della ruota della Legge sul palmo della mano o sulla pianta dei piedi; il lobo delle sue orecchie tre volte più lungo del normale.Il Buddha esprime, a seconda degli atteggiamenti, meditazione, rassicurazione, carità, testimonianza (nell'iconografia tantrica il fiore di loto rappresenta la compassione).

Espansione geografica e declino storicoPoiché nel Buddismo non esiste alcunché di etnocentrico, la sua diffusione fu quasi immediata. Nel I sec. della nostra era aveva già raggiunto la Cina; i cinesi lo portarono in Corea e, nel VI sec., i coreani lo introdussero in Giappone, dove, in meno di 50 anni, divenne la religione di stato (VII sec.).Al di fuori dell'India, il Buddismo riuscì facilmente a soppiantare i vecchi culti, ma a condizione di trasformarsi in una religione emotiva e ritualistica, disposta ad accettare varie divinità celesti e spiriti infernali, facendo altresì largo uso della musica e delle arti figurative, delle danze sacre e di fastose processioni.La decadenza del Buddismo cominciò a verificarsi a partire dal VII sec., dapprima in India, con la rinascita del Brahmanesimo, poi, soprattutto nei secoli IX-XV, in Asia centrale, Afghanistan, Indonesia e di nuovo in India, a causa delle invasioni musulmane.Si calcola che almeno 200 milioni di buddisti, che si trovavano in Pakistan e Bangladesh, vennero convertiti a forza all'Islam. A tutt'oggi è rimasto religione di stato solo in Thailandia e Buthan.

Rinascita del BuddismoIl risveglio del Buddismo risale a poco più di un secolo fa ed è dovuto, paradossalmente, all'interesse che alcuni studiosi occidentale cominciarono a mostrare per i suoi testi sacri e i suoi monumenti.Nel 1875 viene fondata a New York un'importante Società teosofica. In Europa il Buddismo costituisce motivo di grande interesse da parte del filosofo tedesco A. Schopenhauer; nel 1879 E. Arnold, col libro The Light of Asia, ne divulga fortemente la conoscenza, tanto che all'inizio del secolo XX viene fondata la Buddhist Society of England.Poi furono gli stessi asiatici a intraprendere una serie di iniziative per far rifiorire questa dottrina. Sul finire del secolo scorso in India viene fondata la Mahabodhi- Society e, subito dopo, organizzazioni simili appaiono in Giappone, Thailandia e Sri Lanka. Il loro scopo è quello di rinnovare il Buddismo, intensificando l'attività missionaria, purificando la pratica religiosa e studiando scientificamente i Canoni.A partire dal 1930 i movimenti di riforma si fanno più decisi. L'appoggio ufficiale dei governi che stanno ottenendo l'indipendenza dal dominio coloniale e l'interesse di studiosi europei permettono un grande rilancio a livello internazionale. Inizia una fase di incontri ad alto livello tra i migliori esponenti del Buddismo.Verso la fine degli anni '40, U Nu, primo ministro birmano, elabora e cerca di propagandare il suo "Buddismo sociale", secondo cui non avrebbe mai potuto esserci il benessere nel suo paese fino a quando non si fosse espropriata la terra ai latifondisti. In particolare, egli sosteneva ch'era impossibile cercare il Nirvana quando si è schiavi delle ricchezze o, al contrario, quando si è angosciati dalla lotta per la sopravvivenza.Per alcuni paesi (Sri Lanka e poi Vietnam, Laos, Cambogia…), il marxismo appariva come lo strumento più idoneo anche per sostenere la battaglia anticoloniale.Nel dicembre 1947 il Congresso pan-singalese invita i buddisti a organizzare un Congresso Internazionale: cosa che si fa nel 1950, sempre in Sri Lanka. Nasce così la World Federation

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of Buddhist, con sede a Banglok, che stabilisce un programma in tre punti: costituzione di un fronte unitario, diffusione degli scritti del Buddha, espansione missionaria anche fuori dell'Asia.Lo sforzo attuale del Buddismo, relativamente all'ultimo punto, è quello di diffondere lo spirito di fratellanza universale e di non-violenza, ovvero quello di collaborare a iniziative umanitarie per combattere il fanatismo e la guerra.Nel 1975 è stata fondata a Parigi l'Unione Buddista Europea, che tiene ogni anno un'assemblea generale, di volta in volta in una diversa sede europea, per discutere i differenti aspetti della presenza del Buddismo in Europa, orientale e occidentale.

In ItaliaIn Italia esistono almeno 60 centri buddisti, in gran parte nelle regioni settentrionali (solo due al sud).Tutte le grandi scuole tradizionali sono presenti: in particolare quella Theravada (Sri Lanka e Sudest asiatico), quella Zen (Giappone) e quella tibetana.Di questi centri, 28 fanno capo all'Unione Buddista Italiana, nata nel 1985 (dei quali 16 sono di scuola tibetana), che è stata riconosciuta dallo Stato come "ente morale avente fini di culto", e che attende di poter firmare un'Intesa vera e propria. L'UBI non è interessata a un insegnamento del Buddismo nella scuola statale, ma chiede di partecipare alla ripartizione dell'8 per mille del gettito Irpef.In tutto i buddisti italiani sono circa 60.000 (di cui 44.000 cinesi e cingalesi immigrati e rifugiati; 16.000 di varie nazionalità, inclusa quella italiana); la presenza femminile, di ceto medio-alto, con interessi nei campi dell'ecologia e della non-violenza, è preponderante: 70%.I monaci buddisti sono una decina di stranieri e una quarantina di italiani, prevalentemente seguaci della tradizione Zen. I monasteri sono tre.Escludendo qualsiasi intento di proselitismo, i buddisti italiani si dedicano prevalentemente al volontariato, ad attività socialmente utili, al dialogo interreligioso e interculturale.Le riviste più importanti sono: Paramita, Siddhi, Sati, Zen, Merigar, che tirano nel complesso più di 7.000 copie.

In Europa e negli Stati UnitiIn Europa i buddisti sarebbero 1,5 milioni, di cui 600.000 in Francia (400.000 rifugiati dal sudest asiatico: Vietnam, Laos e Cambogia, 50.000 di origine cinese, 150.000 francesi. Poi vi sono 300 gruppi di preghiera, 90 Istituti di formazione e 19 centri di meditazione).In Gran Bretagna i buddisti provengono prevalentemente da Birmania, Sri Lanka e Thailandia.Negli USA, contanto anche l'immigrazione asiatica, si arriva a 5-10 milioni di fedeli, di cui almeno 300.000 euro-buddisti, cioè convertiti provenienti da tradizioni giudaico-cristiane.Un grazie particolare ad Aurelio per aver preziosamente collaborato alla stesura di questa pagina.

Bibliografia di testi in lingua italianaTesti canoniciCanone buddhista. Discorsi lunghi, a c. di E. Frola, 2 voll., Laterza, Bari 1961-62.Iti vuttaka e Sutta Nipata, in Classici della religione, UTET, Torino 1978-79.Il Sutra di Hui Nang (Sul Buddismo Zen), Astrolabio, Roma 1976.Buddha, Aforismi e discorsi, a c. di P. Filippani-Ronconi, Newton Compton, Roma 1994.Testi recenti (dagli anni Ottanta a oggi)J. Snelling, Il Buddhismo, Xenia, Milano.G. Sono Fazion, Il Buddha, Cittadella, Assisi.G. Sono Fazion, Viaggio nel Buddhismo Zen, Cittadella, Assisi.W. Rahula, L'insegnamento del Buddha, Paramita, Roma 1984.O. Botto, Buddha e il Buddhismo, Mondadori, Milano 1984.A. Bareau, Vivere il buddhismo, Mondadori, Milano 1990.E. Conze, Breve storia del Buddhismo, Rizzoli, Milano 1985.E. Conze, Il pensiero del buddhismo indiano, Mediterranee, Roma 1988.H. De Lubac, Buddhismo e Occidente, Jaca Book, Milano 1987.H. De Lubac, Aspetti del Buddhismo, Jaca Book, Milano 1980.G. De Lorenzo, Gli ultimi giorni di Gotamo Buddo, Laterza, Bari 1981.G. De Lorenzo, India e buddhismo antico, Laterza, Bari 1981.

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M. Zago, La spiritualità buddhista, Studium, Roma 1986.M. Zago, Il Buddhismo, Rizzoli, Milano 1984.M. Zago, Buddhismo e Cristianesimo in dialogo, Città Nuova, Roma 1985.L. Hearn, Spigolature nei campi di Buddha. Studi sull'Estremo Oriente, Laterza, Bari 1983.P. Filippani-Ronconi, Il buddhismo, Newton Compton, Roma 1994.P. Filippani-Ronconi, Le vie del buddhismo, Basaia, Roma 1986.G. Tucci, Il buddhismo tibetano, Utet, Torino 1987.L. Arena, Storia del Buddhismo Ch'an, Mondadori, Milano 1992.A. Pezzali, Storia del buddhismo, EMI, Bologna 1983.A. Pezzali, La cultura nell'India ieri e oggi, EMI, Bologna 1981.A. David Neel, Il buddhismo di Buddha, Basaia, Roma 1986.C. Garma, Insegnamenti di Yoga tibetano, Roma 1981.T. Izutsu, La filosofia del buddhismo Zen, Roma 1984.K. Mizuno, I concetti fondamentali del Buddhismo, Cittadella, Assisi.T. Gyatso (XIV Dalai Lama), Benevolenza, chiarezza e introspezione, Ubaldini, Roma 1985.J.K. Kadowaki, Lo Zen e la Bibbia, Paoline, Milano 1985.P.L. Mazzocchi, Cristo e Buddha, Kù, Foligno 1987.M. Pisante, Il sacro e le religioni, vol. I (Le religioni dell'India e dell'Oriente), Bastogi, Bari 1980.H. Arvon, Il buddismo, Laterza, Bari 1980.D.T. Suzuki, Saggi sul Buddismo Zen (3 voll.), Mediterranee, Roma 1975-1980.

IL BUDDISMO in massima sintesi (by Aurelio)Il Buddismo è la prima religione universale apparsa nella storia ed è tuttora una delle più importanti vie spirituali dell'Asia.Nato nel VI secolo a.C., Siddharta Gautama iniziò la sua vita come principe nel piccolo stato di Sakyan, 200 km da Benares, ai piedi dell'Himalaya, dopo diversi anni quattro segni lo indussero a meditare sul mondo.Decise di abbandonare la famiglia, nonché il futuro regno. Studiò con i più famosi filosofi dell'epoca, il pensiero metafisico era all'apice della sua fioritura, come nella Grecia contemporanea, ma nulla lo appagava e nulla lo liberava.Decise di dedicarsi completamente alla meditazione, per sei anni visse in assoluta austerità, senza alcun risultato, poi un giorno mentre beveva al fiume, scivolò nell'acqua e fu trascinato dalla corrente fino ad un villaggio dove un giovane lo trasse in salvo e lo curò.Guarito rimase ad osservare le acque del fiume Naranjara e si immerse in meditazione, all'alba del giorno seguente egli raggiunse l'Illuminazione: Siddharta il Principe dei Sakya, non esisteva più.Era diventato il Buddha, l'Illuminato. Ben presto il Buddha, la sua Dottrina (Dharma) e la Comunità dei suoi monaci (Sangha) vennero definiti come le tre Gemme (Triratna), le tre fondamenta del Buddismo.Il Nucleo della dottrina enunciata dal Buddha è dato dalle Quattro Nobili Verità: la verità della sofferenza, della cessazione della sofferenza e del sentiero che conduce all'Illuminazione.Essendo il Buddismo basato su una tolleranza senza riserve, si adattò elasticamente ad abitudini mentali e a sfere culturali diverse, poiché non possedeva né un'organizzazione clericale chiusa con al vertice un'autorità indiscussa, né una dottrina tassativa e ortodossa.

I ciechi e l'elefante rielaborata da Roberto CarvelliSuccesse in India. Tanto tempo fa. Una volta nel parco di Anatapindika, nella città di Jetavana presso Savatthi, religiosi, dotti e scienziati litigavano furiosamente, si accapigliavano, si offendevano. Ognuno pensava di dire ciò che era giusto e ciò che era sbagliato e ognuno aveva l’idea che era giusto ciò che diceva lui e sbagliato quello che diceva un altro. Ognuno era così convinto di essere dalla parte della ragione che neanche ascoltava quello che l’altro aveva da dire e appena si accorgeva che voleva dire qualcosa di diverso lo offendeva dicendo: «È giusto come la penso io, la tua idea è sbagliata». E l’altro lo stesso: «Ma che dici? La mia è l’idea giusta, è la tua che è sbagliata». E litigavano ancora. Per lo più litigavano per un fatto: che uno diceva che l’universo è grande grande grande, così grande che praticamente non ha né una fine e né un inizio. Praticamente: l’universo è infinito. Ma l’altro non era d’accordo perché diceva che invece il mondo è finito e faceva un disegno del villaggio in cui vivevano per dimostrarlo. Ma non litigavano solo per questo. C’era chi diceva che gli animali hanno un’anima e chi diceva di no. Uno che il tempo non ha né un inizio e né una fine – come quell’altro aveva detto

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dell’universo – e l’altro santone si stropicciava la barba e iniziava a contare «uno due tre… mille… vedi che si può contare il tempo? Quindi se si può contare con i numeri a un certo punto finirà!» Nonostante fossero tutte persone molto colte e istruite ognuno però usava la sua sapienza per offendere con le parole l’altro. Uno diceva: «Sei uno stupido. La terra gira, altro che ferma». E l’altro: «Se gira allora tutto dovrebbe cambiare sempre». Poi si davano dello sciocco perché per uno la terra era rotonda e per un altro piatta. Insomma in questa città, che si chiamava Savatthi, regnava una grande confusione. Ma per fortuna tra tutti i saggi ce n’era uno di gran lunga più saggio. Tanto saggio da non cadere nei facili tranelli delle discussioni, da vivere in disparte e con modestia ma sempre disposto ad accettare l’idea espressa da un’altra persona. Questa sua serenità lo rendeva ancora più saggio ed era da tutti riconosciuto come un saggio dei saggi. Anzi diciamo pure il saggio per eccellenza. Ma il nostro dotto amico, saputo di quello strano conflitto, si era molto contrariato perché pensava che era buffo che persone così intelligenti e profonde non riuscissero a trovare un accordo sulla loro ricerca di verità e che fossero convinte che la loro verità fosse così giusta da offendere quella dell’altro. Avrebbe potuto intervenire anche lui cercando di capire cosa diceva uno e cosa l’altro, ma rendendosi conto che non sarebbe servito a nulla entrare nella discussione decise di raccontare una storia che li aiutasse a capire. La storia che gli raccontò era quella di un gruppo di ciechi e di un elefante. E la storia diceva così. Cari monaci, un re in un tempo molto antico, in questa stessa città mandò a chiamare tutti coloro che erano nati ciechi. Dopo che questi si furono raccolti in una piazza mandò a chiamare il proprietario di un elefante a cui fece portare in piazza l’animale. Poi chiamando a uno a uno i ciechi diceva loro: questo è un elefante, secondo te a cosa somiglia? E uno diceva una caldaia, un altro un mantice a seconda della parte dell’animale che gli era stata fatta toccare. Un altro toccava la proboscide e diceva il ramo di un albero. Per uno le zanne erano un aratro. Per un altro il ventre era un granaio. Chi aveva toccato le zampe le aveva scambiate per le colonne di un tempio, chi aveva toccato la coda aveva detto la fune di una barca, chi aveva messo la mano sull’orecchio aveva detto un tappeto. Quando ognuno incontrò l’altro dicendo quello a cui secondo lui somigliava l’animale discutevano animatamente perché ognuno era convinto assolutamente di quello che aveva toccato. Perciò se gli chiedevano a cosa somigliasse un elefante diceva l’oggetto che gli era sembrato di toccare. Naturalmente se uno diceva un mantice e l’altro una caldaia volavano gli insulti perché nessuno metteva in dubbio quello che aveva sentito toccando la parte del corpo dell’elefante. Il re vedendoli così convinti della loro sicurezza e litigiosi si divertiva un mondo. Ma alla fine decise di aiutarli a capire, e a due a due li invitava a toccare quello che aveva toccato l’altro e a chiedergli a cosa somigliasse. Così tutti dicevano quello che sosteneva l’altro e si invertivano i ruoli. Come se fosse stato un gioco li invitò a parlare tra di loro e alla fine tutti si formarono l’idea di come in realtà l’elefante fosse. Tutti furono d’accordo che era un mantice con un ramo di un albero nel mezzo e a lato un aratro con due tappeti sopra un granaio sostenuto da colonne e tirato da una fune di barca. Dopo che il saggio Maestro ebbe finito di raccontare questa storia disse: «Miei saggi discepoli voi fate la stessa cosa. Non sapete ciò che è giusto e ciò che è sbagliato né ciò che è bene e ciò che è male e per questo litigate, vi accapigliate e vi insultate. Se ognuno di voi parlasse e ascoltasse l’altro contemporaneamente la verità vi apparirebbe come una anche se ha molte forme».

Questa parabola è tratta dagli Udana.

La gemma nel vestito rielaborata da Rory CappelliC'era una volta l’India, un paese lontano lontano, dove le strade erano piene di polvere e chi era ricco era ricco sul serio e chi era povero era povero veramente: possedeva solo le vesti che indossava e girava il paese cercando fortuna ed elemosinando del cibo. Un giorno un uomo, pieno di polvere e di fatica e tanto povero da non ricordare più il sapore del vino e del cibo, giunse alla casa di un vecchio amico. L’amico lo fece accomodare, gli fece stendere le gambe e riposare le membra, gli fece adagiare le braccia su morbidi cuscini; gli offrì piatti raffinati, insaporiti e arricchiti dai mille profumi e sapori di tante spezie, specialità di quel paese lontano. E gli versò del vino che scese nella sua gola come un nettare divino, come ambra, come un magico liquido celeste. L’uomo povero si ubriacò e subito si addormentò. L’amico lo guardava dormire, provando pena per lui; decise di aiutarlo. Ma in quel mentre giunse, accaldato per la corsa e per l’affanno, un messaggero del maharajà, che gli riferì che lo si richiedeva per importanti affari in una città lontana. L’amico, però, prima di andare via si avvicinò all’uomo ubriaco e addormentato e cucì nella sua veste un gioiello di rara bellezza e forma e di grande valore, certo che al suo risveglio l’uomo lo avrebbe trovato e che avrebbe così iniziato una vita diversa, fatta di vesti nuove e cibo e bevande tutti i giorni e la certezza di poter dormire in un giaciglio comodo e caldo. E di poter abbracciare, la notte, l’amore; di poter infine eccellere in un campo, come è dato a ogni uomo e a ogni donna che viva nel benessere. L’uomo però al suo risveglio non si accorse di nulla: si mise in viaggio per altre regioni del suo grande paese senza sospettare di essere ricco, con le sue vesti logore, e come unica proprietà un recipiente di latta. Giunse in una città e incontrò un bambino magro magro, con gli occhi grandi e il corpo scheletrico: avrebbe voluto aiutarlo, avrebbe voluto regalargli del latte, scaldarlo con dei panni caldi, ma non poteva fare niente: si sentiva le mani vuote e il cuore gonfio di pena. Lo guardò andare via, sulle sue gambine malferme, mentre lo salutava con i

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suoi occhi grandi e gentili. Giunse in un’altra città dove rimase a lungo: in quel paese nessuno dava l’elemosina, non c’erano monasteri o luoghi di ricovero per i poveri e l’uomo era talmente debole che non riusciva ad andare via, ad affrontare la strada per trovare un posto migliore. Si nutriva di bacche ed erba, ma più spesso assaggiava la polvere della strada. Proprio qui lo incontrò il suo antico amico che gli disse: «Che cosa assurda, vecchio mio! Come mai ti sei ridotto così per procurarti da mangiare e vestire?». Gli porse il braccio e lo aiutò ad alzarsi; lo accompagnò al suo serraglio dove lo attendevano servitori, e cibo fresco e vesti pulite. Allora, dopo che l’uomo si fu rifocillato, ebbe mangiato a volontà e bevuto, dopo che si fu lavato e cambiato, l’amico prese la vecchia veste dell’uomo e gli mostrò, ancora là dove lui stesso l’aveva cucito, il gioiello di inestimabile valore, di grande purezza e bellezza. «È sempre stato qui e tu non lo sapevi, amico mio», gli disse. «Eri ricco e lo sei anche adesso». L’uomo povero non credeva ai propri occhi: il gioiello riluceva tra le sue mani e in un attimo vide tutto ciò che avrebbe potuto essere: del cibo caldo per il bambino dagli occhi grandi e gentili; vesti per tutti i poveri della città; banchetti sontuosi nei quartieri più poveri; e poi canti, danze, letture, poesie, tutto ciò che rende la vita più bella quando il cibo e le vesti non mancano. E lui aveva avuto con sé da tanto tempo questa fonte inesauribile di benefici senza accorgersene. «Che stupido sono stato! – esclamò abbracciando l’amico – Ero così abituato alla mia misera condizione che non cercavo in alcun modo di trasformarla. Adesso capisco che la ricchezza e la felicità non stanno in un qualche posto lontano e irraggiungibile ma fanno parte della vita. Basta solo scoprirle».

Questa parabola è raccontata nel Sutra del Loto.

Tigre di pietra rielaborata da Serenella MeteIl generale Li Kuang osservava l’ampia vallata dall’alto della collina dove sorgeva la ricca dimora della sua famiglia. Le sue proprietà si stendevano al di là dell’orizzonte, oltre i grandi boschi, oltre il corso serpeggiante del fiume, oltre la pianura che si scorgeva in lontananza. L’imperatore Wu, dopo l’ultima vittoria contro l’esercito nemico, gli aveva concesso il feudo più grande di tutto l’impero e la carica di Gran Guardiano della Corona. La sua fama di arciere superava quella dei più grandi guerrieri del passato e si era sparsa fin negli angoli più remoti del Giappone. Il giorno seguente sarebbe partito per la capitale; i servi e gli stallieri stavano caricando i cavalli con un gran numero di magnifici doni per l’imperatore e Li Kuang sorrideva al tramonto ringraziando gli dèi per gli onori e la gloria che le sue imprese coraggiose avevano assicurato al paese e alla sua famiglia. Un improvviso vociare e lo scalpitio di un cavallo interruppero la serenità della sera. Un uomo trafelato si inginocchiò posando ai suoi piedi una sciarpa insanguinata: «Signore, una terribile disgrazia… la grande tigre, Shramana…» Li Kuang riconobbe il velo color del sole che sua madre portava sul capo. Fece un gesto e l’uomo proseguì: «La signora del castello era sul fiume, con le sacerdotesse, per le offerte agli dèi, quando è apparsa la grande tigre: con un balzo è piombata su di lei, divorandola, con un altro balzo è di nuovo sparita nel bosco». Li Kuang sentì il cuore trafitto da mille pugnali, ma gli occhi rimasero di ghiaccio: «Presto, le mie armi, il cavallo e dodici cavalieri!» In pochi istanti il gruppo di arcieri si slanciò giù per la collina, verso il bosco, mentre il sole calante tingeva di rosso il fiume e la pianura. «Shramana, mostro assassino, non sfuggirai alla mia vendetta» pensava Li Kuang; sentiva che stava andando incontro alla battaglia più difficile della sua vita, doveva affrontare faccia a faccia il demone del male che aveva distrutto la sua famiglia, mentre nella sua mente si affacciavano i volti delle donne e degli uomini che negli ultimi mesi erano stati uccisi dalla grande tigre. Sentì che tutto il coraggio che lo aveva reso vittorioso contro gli eserciti nemici questa volta non sarebbe bastato; cercò dentro di sé una forza più profonda e la trovò. Non si era mai sentito così determinato, cavalcava verso il folto del bosco come se conoscesse il punto esatto in cui i suoi occhi e quelli di Shramana si sarebbero incontrati. E all’improvviso, nel mezzo di una radura, la vide, accucciata immobile nella penombra. Con gesti silenziosi e veloci Li Kuang tese l’arco e scagliò una freccia, sentì un sibilo e la vide penetrare nel cuore della tigre. Un grido di vittoria uscì dalle labbra dei suoi uomini, ma quando tutti si avvicinarono al corpo inerte, si accorsero con grande meraviglia che la freccia era penetrata interamente in una grande pietra che avevano scambiato per la tigre. Li Kuang, incredulo, si allontanò dalla roccia e scagliò un’altra freccia, un’altra e un’altra ancora, ma le punte rimbalzarono e le aste si ruppero. «Tanta era la tua fede, Signore! – mormorò un cavaliere – Lo stesso accadde all’Imperatore di Han, il quale credette senza alcun dubbio alle parole del suo servitore, tanto che il fiume gelò ed egli potè portare in salvo il suo esercito». Li Kuang si sedette ai piedi della pietra e le lacrime cominciarono a scendere dai suoi occhi. Si narra che la caccia riprese: la tigre fu raggiunta e uccisa e Li Kuang divenne noto come il Generale Tigre di Pietra.

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Questa storia è raccontata nel Konjaku monogatari shu.

Il principe e l'orco rielaborata da Roberto MingantiIn tempi molto molto antichi, Shakyamuni – prima di diventare un Budda – era nato come figlio di Brahmadatta, il re di Benares. Il giorno in cui doveva essergli dato il nome, il re invitò ottocento saggi per un grande consulto. Gli anziani presero il bambino, lo osservarono attentamente e dissero: «Sommo re, tuo figlio possiede tutti i segni di un grande uomo e, quando tu sarai morto, egli diventerà sovrano. Sarà il più eminente uomo della terra della Melarosa. Diventerà famoso per le sue gesta con le cinque armi». Il re e la regina, sentendo questa predizione, decisero di chiamarlo Cinquearmi.

Il bambino crebbe sano, forte, bello e straordinariamente intelligente. Quando ebbe sedici anni il re lo chiamò e disse: «Figlio mio caro, adesso dovrai apprendere le arti e le scienze». «Da quale maestro dovrò impararle?» chiese Cinquearmi. «Andrai nella città di Takkasila, nel regno del Gandhara – rispose il re – lì troverai il più grande di tutti i maestri». Detto ciò gli consegnò una borsa con mille talenti dicendo: «Questo è il compenso che dovrai dargli». Poi Brahmadatta e la regina lo abbracciarono commossi e lo lasciarono andare. Il giovane principe partì e raggiunse il suo maestro. Per mesi, mesi e mesi imparò tutte le arti e tutte le scienze e, giunto il tempo di tornare dai suoi genitori, si inchinò davanti al saggio precettore per ringraziarlo. Il vecchio lo salutò con affetto e gli fece dono di cinque meravigliose armi. Orgoglioso del regalo, il futuro re di Benares si mise in cammino verso la casa dei suoi genitori. Era allegro e le sue mani carezzavano spesso le armi che brillavano lucenti quando i raggi del sole le colpivano. Camminò per giorni e giorni a passo veloce, attraversando fiumi limpidi, montagne, selve e foreste meravigliose, finché non giunse in un villaggio al confine con un bosco nero e fitto. «Non entrare in quel bosco giovane guerriero – implorarono gli abitanti del villaggio – per favore non farlo: lì abita un orco tremendo chiamato Corazza di Peli. Un essere immondo che ti mangerà sicuramente». «Io non ho paura di nessuno – gridò Cinquearmi – e neanche di quest’orco». Il giovane era coraggioso come un leone e aveva assoluta fiducia in se stesso. Malgrado le preghiere di tutti, si addentrò di slancio nel buio della selva: camminò in mezzo a piante così alte e impenetrabili che nemmeno i raggi del sole riuscivano a bucarne il tetto di foglie. All’improvviso, preceduto da un rumore assordante di rami e tronchi schiacciati, apparve l’orco. Era alto come il più alto degli alberi, la testa enorme come la chioma di un cocco e gli occhi grandi come scodelle. Un becco a uncino pendeva al posto della bocca con due zanne lunghe lunghe che uscivano ai suoi lati. Il ventre era pieno di bitorzoli puzzolenti. Le palme delle mani e dei piedi erano completamente nere come il carbone. Il corpo spropositato era ricoperto da uno strato di pelacci folti e duri come liane. «Dove vai giovinetto? – gridò l’orrido essere – Fermati perché ti devo mangiare». «Orco, io sapevo quel che facevo quando sono entrato in questa foresta – gli rispose il futuro Budda senza paura – Bada a quel che fai assalendomi perché io ti ucciderò con una freccia avvelenata». Il giovane principe prese l’arco e scagliò una freccia, ma questa si impigliò nei peli del mostro. Allora ne scagliò una seconda, una terza, una quarta e così via fino a tirarle tutte e cinquanta: niente da fare, ognuna si fermava nella corazza di peli. L’orco si scrollò facendo risuonare tutti gli alberi della selva e le frecce caddero ai suoi piedi. Fece due passi avanti verso il giovane che prese la spada lunga trentatré pollici e lo colpì: anche questa non gli fece neanche il solletico perché fu bloccata dal pelame. Allora impugnò la lancia lunga e potente e la diresse con forza verso il petto dell’orco: niente da fare ancora, la corazza villosa fermò anche la lancia. Il giovane non si perse d’animo: «Signor Orco – disse – tu non hai mai sentito parlare di me prima d’ora: io sono il principe Cinquearmi. Quando sono entrato in questa tua foresta non ho fatto affidamento sull’arco, sulla spada e sulle frecce: mi sono affidato solo a me stesso. Ora ti ridurrò in polvere e fango». Detto questo gli affibbiò un pugno poderoso, ma la mano destra rimase impigliata nel pelo. Gliene tirò un altro con la sinistra: anche questa rimase bloccata allo stesso modo. Allora gli tirò un calcio prima col piede destro, che rimase aggrovigliato nelle setole, e poi con il sinistro che fece la stessa identica fine. Il principe combatteva coraggiosamente: ormai gli era rimasta libera solo la testa: «Ti batterò ugualmente con la mia testa – gli urlò con voce ferma e risonante – e ti ridurrò in polvere e fango». Così dicendo gli diede un colpo terrificante con il capo, ma anche questo – purtroppo – rimase impigliato nella corazza pelosa.

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Il futuro Budda, avviluppato cinque volte, attaccato in cinque punti, si dibatteva a più non posso sul corpo immane dell’orco: era imprigionato, ma nonostante tutto rimaneva impavido e indomito. Allora il mostro col becco e le zanne pensò: «Questo è un leone di uomo, è una grande persona, non è un semplice individuo: infatti – malgrado sia ormai mia preda – non ha paura di me e non trema di terrore. In tutti questi anni in cui ho terrorizzato il territorio intorno al villaggio non ho mai incontrato uno come lui: ma perché non ha paura di me?». L’orco più pensava in questo modo e più si riempiva di dubbi e perciò non osava divorarlo. Pieno di incertezza si rivolse al principe e gli chiese: «Perché non hai paura di me? Perché non sei terrorizzato dal timore della morte che sto per darti?». Cinquearmi – pur bloccato mani, piedi e testa nei peli – continuava a dibattersi: «Orco perché dovrei aver paura? – rispose – La morte è sicuro che arriverà prima o poi per ogni essere vivente, ma io ho dentro di me una spada di durissimo diamante che tu non potrai mai digerire e che ti taglierà tutte le viscere. Per questo non ti temo». Dicendo così il principe indicava l’arma della saggezza che egli aveva dentro di sé. L’orco ascoltò con attenzione e pensò: «Ogni parola di questo eroe è verità. Del corpo di questo leone di uomo io non potrò digerire neanche un pezzetto di carne della grandezza di un pisello. Lo lascerò andare». Terrorizzato dalla paura della morte, liberò Cinquearmi e gli disse: «Principe, tu sei più coraggioso del re degli animali! Io non ti mangerò. Adesso tu sei libero da me come la luna si libera dalle fauci dell’eclisse. Ritorna felice dai tuoi genitori e dai tuoi amici». Allora il futuro Budda si rivolse all’orco in questo modo: «Io me ne andrò subito, ma voglio dirti una cosa: tu, in una vita precedente, hai commesso tante azioni brutte e malvage, per questo motivo sei rinato come mostro crudele e sanguinario che si nutre della carne e del sangue degli altri esseri. Se anche in questa esistenza presente continuerai a fare così, passerai tutte le tue vite future soffrendo allo stesso modo. Però, oggi, dal momento che mi hai visto, non ti è stato più possibile fare cattive azioni». Il principe spiegò bene alla creatura malvagia l’effetto terribile delle sue cattive azioni e gli insegnò a essere buono, a rispettare gli altri esponendogli il grande beneficio di tale comportamento. L’orco lo ascoltò con grandissima attenzione e si trasformò in un genio della foresta: un essere che proteggeva tutte le persone e che era degno di ricevere offerte da tutti. Il giovane riprese le sue cinque armi, salutò calorosamente il nuovo genio protettore Corazza di pelo, andò nel villaggio e raccontò tutto agli abitanti che furono felicissimi di conoscere la grande trasformazione dell’orco. Poi si diresse col cuore leggero verso Benares da suo padre e sua madre. Dopo qualche anno il vecchio re Brahmadatta morì e Cinquearmi prese il suo posto: visse da grande saggio aiutando tutti e preoccupandosi solo della felicità dei suoi sudditi. Grazie a questa vita così bella e altruista, dopo qualche esistenza rinacque come Budda Shakyamuni.

Questa favola è tratta dal Jataka.

L'uccello Kankucho rielaborata da Marina MarrazziSulle Montagne Nevose vive un uccello chiamato Kankucho, che la notte si lamenta torturato dal freddo pungente e decide che la mattina seguente si costruirà il nido. Ma quando si fa giorno, se ne dimentica e dorme riscaldato dai tiepidi raggi del sole del mattino. Così, senza costruirsi il nido, continua a lamentarsi vanamente per tutta la vita». (Gli scritti di Nichiren Daishonin, vol. 4, p. 243).

Nonna gabbiana abbassò di nuovo i suoi occhialetti sottili, lasciandoli penzolare sulle piume del petto, per poter guardare meglio le espressioni di chi l’aveva ascoltata. In tanti erano venuti a festeggiarla, per il suo novantesimo compleanno, e a sentirla leggere le sue storie. Nonna gabbiana di storie ne conosceva a bizzeffe, della Cina e dell’India, del Giappone e dell’Uruguay. Parlavano di principi e dinastie, di castelli sommersi dagli oceani, di viaggi intorno al mondo. Eppure, non poteva farci niente: quella dell’uccello Kankucho era la sua preferita. Lo capiva bene, lei, l’uccello Kankucho, anche se era una gabbiana nata in quest’isola in mezzo all’oceano e in teoria non doveva avere niente a che vedere con un uccello delle Montagne Nevose. Eppure ci si riconosceva alla

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perfezione. Riconosceva soprattutto quella sua antica indolenza di giovane gabbianella, quando le ore più calde del giorno, invece che ad allenarsi a inseguire le sardine – come le aveva insegnato sua madre – le passava a giocare con le scaglie di luce sul mare, immaginando che fossero pesci fantasma, che scomparivano non appena lei provava a prenderli con il becco. Poi però immancabilmente, al momento di andare a tavola, quando le sue sorelle, i fratelli e tutti i cugini mettevano sullo scoglio comune i pesci pescati per il pranzo, lei non aveva niente da offrire e ci rimaneva sempre molto male. E così ogni volta si riprometteva che il giorno successivo non avrebbe giocato tutto il tempo, e avrebbe pescato qualcosa di buono per i suoi amici. Ma immancabilmente al mattino, quando doveva concentrarsi per scovare sotto la superficie del mare blu scuro la sagoma della piccola sardina, preferiva volare in velocità col vento a favore, e tuffarsi a capofitto per prendere di sorpresa una scaglia di sole abbagliante… E già… Quanto tempo è passato… Nonna gabbiana smise di ricordare, distolse lo sguardo dall’orizzonte e si concentrò sugli occhi dei suoi invitati: erano in tanti e tutti assorti. C’erano tartarughe marine, pinguini, pellicani, altri uccelli acquatici di varia foggia, qualche capra, due muli e diversi granchi che avevano smesso di rincorrersi sul bagnasciuga. Nonna gabbiana ci avrebbe giurato: quasi tutti, dopo aver ascoltato la sua storia, stavano adesso pensando a qualcosa di loro che li faceva assomigliare all’uccello Kankucho. Ma siccome voleva sapere se la sua impressione era giusta, si rivolse a un pinguino maschio che, avendo incrociato il suo sguardo, aveva infilato velocemente le ali nei taschini del gilet, con aria indifferente. «Forse sì… qualche volta… quando faccio tanta fatica a sentire la sveglia di mattina, mi riprometto di andare a letto più presto. Ma ogni sera me ne scordo, e resto a guardare la TV fino a notte fonda…». Nonna gabbiana sorrideva strizzando i suoi lunghi occhi grigi. Apprezzava la sincerità del giovanotto. E così, come d’incanto, tutti i presenti cominciarono a prendere la parola, per dire di quella parte di sé che li faceva pensare all’uccello Kankucho. Anche il piccolo pellicano, che doveva essere nato con l’ultima schiusa, si fece coraggio e cominciò a raccontare di tutte le volte che il cuore gli sobbalzava in gola all’interrogazione della maestra, di come ogni volta pensasse: «Accidenti no! Proprio oggi che non ho studiato bene», e di come decidesse ogni volta di cominciare i compiti di pomeriggio e non dopo cena quando la luce stava per finire. Nonna gabbiana era soddisfatta. La sua festa stava prendendo la piega che lei aveva desiderato. Ogni invitato era a suo agio, parlava di sé e aveva voglia di ascoltare chi gli stava vicino. «Sapete perché questa storia mi piace?» esclamò d’improvviso, zittendo tutti gli altri con un tono acuto e forte. «Perché fa capire che non bisogna vergognarsi di essere pigri e negligenti, perché ogni animale è anche un po’ un uccello Kankucho». «E poi – aggiunse sottovoce con l’aria divertita – fa capire anche un’altra cosa». Tutti la guardavano in silenzio aspettando di sapere. «Fa capire che tutto dipende da noi. Una mia amica mi ha raccontato una volta – non so se scherzasse, ma vi assicuro che di lei ci si può fidare – di aver incontrato, sulle Montagne Nevose, un uccello grande, colorato di verde e di blu, un po’ spennacchiato e dal becco giallo e forte. Tutti lo chiamano Kankucho. Vive sul ramo più alto di un grosso albero, di fronte alla grande vallata, in un nido spazioso, ben fatto, riscaldato, con tanto di scaletta e di veranda esposta a sud. Di mattina si sveglia presto per andare a raccogliere la colazione per tutti i suoi ospiti: diversi uccelli del suo stesso colore, qualche fringuello, un aquilotto, addirittura tre scoiattoli delle nevi. In paese raccontano che un lontano mattino, dopo essere quasi morto di freddo durante l’ennesima notte passata all’addiaccio, aveva incontrato un gruppo di giovani uccelli stranieri, persi nel bosco e quasi assiderati. Quello stesso giorno venne visto intento a intrecciare rametti e pagliuzze, per ore e ore, fino a quando non ebbe compiuto la sua opera. Un bel nido robusto, che chiamò “casa Kankucho”, e che diventò il nido più grande, più allegro – e più caldo – di tutto il paese, sempre aperto agli animali di passaggio. Questo, per lo meno, è quanto si dice in paese. Ma di un fatto si può essere certi – concluse nonna gabbiana ripetendo esattamente le parole della sua amica viaggiatrice – È che in una zona di montagna molto lontana da qui un certo uccello che si fa chiamare Kankucho è stato visto prendere il sole sulla veranda del suo bel nido, e godersi da vero intenditore i tiepidi raggi insieme agli amici o da solo, per riposarsi tra un lavoretto e l’altro».

Sessen Doji rielaborata da Maria Lucia De LucaNell’antico oriente, quando c’erano tante foreste e non avevano ancora inventato né i libri né le scuole, i giovani che volevano diventare saggi andavano a vivere nei boschi per conoscere la natura e scoprire come funziona la vita. Questa storia racconta di un giovane chiamato Sessen Doji che viveva sulle Montagne Nevose, si cibava di frutti e di felci e si vestiva con una pelle di cervo. Osservando attentamente il mondo, il ragazzo comprese che tutto ciò che nasce è destinato a morire. Tutto appare e scompare così velocemente come la luce di un lampo – pensava – come la rugiada che si scioglie al sole del mattino, come la lampada che è spenta facilmente dal vento. Nulla può sfuggire alla morte:

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alla fine tutti faremo il viaggio alle “sorgenti gialle” (il regno dell’oltretomba secondo gli antichi orientali). Sessen Doji voleva capire il perché di tutto questo: si ritirò allora sulla montagna per riflettere e meditare. Guardando dall’alto del cielo, un dio di nome Taishaku lo vide e pensò: «Benché nascano molti pesciolini, sono pochi quelli che diventano pesci adulti; benché i fiori del mango siano molti, sono pochi quelli che danno frutti. Lo stesso avviene per gli esseri umani: molti desiderano ottenere risposte alle loro domande, ma pochi ci riescono. La strada è piena di ostacoli e pochi riescono a perseverare e ad arrivare fino in fondo. Voglio mettere alla prova Sessen Doji». Così pensando, Taishaku prese l’aspetto di un mostro e si materializzò a fianco del giovane. Sessen Doji non era riuscito ancora a scoprire nulla. A un tratto udì una vocina che diceva: «Tutto si trasforma, niente rimane uguale a se stesso. Questa è la legge di nascita e morte». Sorpreso, il giovane pensò: «Fantastico! è proprio quello che ho capito anch’io. Ma certamente chi ha parlato avrà ancora qualcosa da dire». Si guardò intorno, ma non vide nessuno tranne un orribile mostro. Il suo aspetto era terrificante, i capelli erano come delle fiamme, i denti sporgevano dalla bocca come spade e i suoi occhi fissavano ferocemente Sessen Doji. Vedendolo, il giovane si fece coraggio e gli chiese: «Hai pronunciato tu quelle parole?». Il mostro rispose: «Non parlarmi! Non mangio nulla da vari giorni, sono affamato, esausto, sono fuori di me. Avrò detto qualche stupidaggine, ma nel mio intontimento non so nemmeno io cosa ho detto». «Ti prego – disse il giovane – finisci quello che volevi dire. Per me udire metà di un verso è come vedere solo metà della luna o ottenere mezzo gioiello». Rispose il mostro: «Io ora sto morendo di fame e non ho la forza di parlare. Non dirmi più niente!». Il giovane propose: «Potresti insegnarmelo se avessi qualcosa da mangiare?». Il mostro rispose di sì. Esultante di gioia il giovane chiese: «Cosa vorresti mangiare?». «Non me lo chiedere – urlò il mostro – se te lo dicessi, sicuramente rimarresti terrorizzato. Inoltre tu non potresti darmelo». Ma il giovane insistette ancora: «Dimmi cosa vuoi, e io cercherò di procurartelo». Il mostro rispose: «Io mangio soltanto carne umana». Sessen Doji disse: «Non preoccuparti. Il tuo cibo è qui, non devi cercarlo altrove. Ti prego di insegnarmi l’altro verso e io ti offrirò il mio corpo». Il mostro si infuriò e chiese: «Chi potrebbe credere che tu dici la verità? Dopo aver udito il verso, chi mi garantisce che non scapperai?». Sessen Doji rispose: «Questo mio corpo alla fine deve morire: lo dono con gioia per sapere la verità. È come scambiare sassi con oro. Chiamo a testimoni tutti gli dèi e tutti i Budda dell’universo: non potrei ingannarti». A queste parole il mostro si persuase e disse: «Se quel che dici è vero, ti insegnerò il verso». Felicissimo, Sessen Doji si inchinò, giunse le mani e con profondo e sincero rispetto si preparò ad ascoltare. Il mostro parlò: «Soltanto vincendo la paura della morte si può essere veramente felici». Appena udite queste parole Sessen Doji provò una gioia senza limiti. Per ricordarle anche nelle vite successive, le ripeté più volte incidendole profondamente nel suo cuore. Poi scrisse questi versi sulle pietre, sulla superficie delle rocce, sugli alberi lungo la strada, sperando che altre persone li leggessero e comprendessero la verità. Quindi salì su un albero e si gettò davanti al mostro per farsi mangiare. Ma prima che toccasse il suolo, il mostro riprese istantaneamente l’aspetto del dio Taishaku, afferrò al volo il suo corpo, lo depose delicatamente a terra e inchinandosi rispettosamente disse: «Per mettere alla prova il tuo coraggio e il tuo desiderio di scoprire la verità io ho taciuto per un poco un sacro insegnamento del Buddismo e ho fatto soffrire un giovane saggio e buono. Ti prego di perdonarmi». Tutti gli esseri celesti si adunarono e lodarono Sessen Doji: «Ben fatto, ben fatto!». Avendo avuto il coraggio di donare il suo corpo per ascoltare la verità, Sessen Doji visse felice e senza paura per secoli e secoli.

Questa storia è raccontata nel sutra del Nirvana.

Ryunio, figlia del re Drago rielaborata da Gianna MazziniRyunio è una bambina che ha appena compiuto otto anni. È una che capisce subito le cose, anche quelle che non si vedono. Lei, ad esempio, è capace di guardare un paio di scarpe e di capire tutti i viaggi che hanno fatto, lei è capace solo guardando gli occhi delle persone di capire chi sono i loro amici, quali sono i loro dolori, come sarà il loro futuro. Conosce un sacco di cose anche molto difficili, e certe volte si mette tutta seria seria a chiedersi il perché della vita, e i pensieri che fa e le parole con cui li dice sono meravigliosi. E poi, anche se è così piccina, soffre e gioisce per gli altri come fossero tutti figli e figlie sue. È gentile, benevola, dolce, con un carattere sensibile e forte allo stesso tempo. Insomma è davvero magica ed è difficile crederci perché tutti lì dicono che è impossibile essere così saggi quando si è così piccoli e così femmine. Perché le femmine, dicono, non possono diventare così sagge in così poco tempo. Quasi neanche i maschi lo possono, figurati le femmine, dicono (tanto tanto tempo fa c’erano credenze del genere). Tant’è

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che un giorno il signor Accumulo di Saggezza (si chiama proprio così perché sa praticamente tutto), che stava discutendo di cose molto profonde con altri saggi, dice: «Per essere magici lo sappiamo ci vogliono kalpa e kalpa (è così che loro chiamano gli anni), ci vogliono kalpa e kalpa di esercizi difficilissimi senza mai riposare. Solo dopo aver fatto tutto questo ce la si può fare. Non ci posso credere che questa bambina ce l’abbia fatta in così poco tempo». Insieme a lui c’era Manjushri (avevano questi nomi strani a quel tempo e in quel paese). Manjushri era un saggio che l’aveva conosciuta bene per essere stato tanto tempo nel regno del padre di Ryunio, il famoso Re Drago. E poi c’era Shariputra, un saggio conosciuto da tutti perché aveva letto tutti i libri del mondo e conosceva milioni di milioni di parole. E c’era soprattutto Shakyamuni, un saggio saggissimo perché era quello che sapeva guardare meglio nel cuore delle persone e che loro, per questo, chiamavano Budda (Budda è una parola che vuol dire all’incirca “persona che sente il cuore degli altri, desidera la loro felicità e capisce il senso della vita”). Mentre questi signori saggi stavano discutendo sulle capacità di questa bambina, eccola là che appare improvvisamente: Ryunio era proprio piccola come se la ricordava Manjushri. Lei avanza verso di loro e arrivata lì davanti china il capo in segno di rispetto. Allora Shariputra le dice: «Tu presumi di avere raggiunto la conoscenza profonda della vita in così breve tempo ma questo è davvero difficile da credere. Solo dopo aver trascorso tanto tempo e aver fatto tanti esercizi e prove difficilissime alla fine si può ottenere questa conoscenza profonda. E le donne non possono farcela. Figurati le bambine. Come hai fatto?» Allora Ryunio si toglie dalla tasca un gioiello che aveva con lei, prezioso come milioni di mondi, lo porge al Budda Shakyamuni e il Budda lo accetta immediatamente. E poi lei dice, rivolta ad Accumulo di Saggezza e a Shariputra: «Io ho offerto questo gioiello e il Budda l’ha accettato, non è accaduto forse in un attimo?» «Sì», rispondono loro un po’ stupiti. «Allora – riprende Ryunio – ora osservatemi bene e guardate cosa so fare in modo ancora più veloce». E lì successe qualcosa di straordinario: tutti videro la bambina trasformarsi in un istante in un uomo. (Per loro, infatti, solo un uomo poteva essere veramente saggio e capire il senso della vita). Insomma tutti la videro predicare la Legge agli dèi e agli esseri viventi di quel tempo. I cuori di tutte le persone del mondo si riempirono di gioia. Tanti, tantissimi, ascoltandola, riuscirono a capire il senso della vita e come la vita funziona e diventarono felici. Il mondo si scosse e tremò in sei modi diversi. Poi la bimba tornò se stessa, alta poco più di un metro e saggia quanto tutti i mondi. Più alta e saggia di quando per convincerli aveva usato lo stratagemma della trasformazione. Accumulo di Saggezza e Shariputra e tutti gli altri che erano lì capirono. E non se lo scordarono più. Questo racconto è contenuto nel Sutra del Loto. E serve a insegnarci che la comprensione profonda della vita è una capacità che non si guadagna con lo studio o con l’età. La saggezza è una cosa che abbiamo dentro di noi. Che non si ottiene studiando o facendo fatiche grandissime ma andando al cuore delle cose.

Il falco e il piccione rielaborata da Giulio Mario RampelliTantissimo tempo fa, nell’antica India, viveva una divinità chiamata Indra. Era il dio del cielo e aveva poteri illimitati, governava il bello e il brutto tempo, il cielo azzurro e le tempeste, i lampi, i tuoni e i venti. Indra era anche un dio a cui stavano a cuore gli esseri viventi. Grazie al sole e alla pioggia nutriva le piante e le faceva crescere, procurando cibo abbondante per gli animali e per le comunità umane. Egli era sempre alla ricerca di uomini, donne o dèi che avessero una saggezza tanto vasta e profonda da riuscire a comprendere e penetrare l’infinito significato della vita di tutti gli esseri. Quando, osservando la vita della gente, scorgeva un pensiero, una parola o un gesto d’amore per gli altri, il suo cuore gioiva, e il tempo in quella regione manifestava la stessa sua serenità: un tiepido sole scaldava la terra, oppure una pioggia sottile e abbondante nutriva i raccolti. La vista della malvagità e dell’ipocrisia rendevano invece il suo cuore buio e tempestoso e riempiva i suoi occhi di lacrime, tanto da scatenare tempeste, tifoni e terremoti. Un giorno Indra era in preda alla tristezza, perché sembrava che nel mondo degli esseri umani prevalessero soltanto l’egoismo e la violenza. Chiese allora al dio Visvakarma se conosceva qualcuno la cui saggezza e compassione fossero virtù autentiche e non soltanto apparenza. Visvakarma raccontò allora di aver sentito parlare, in una locanda del regno degli esseri umani, di un re, chiamato Sibi, che governava la regione di Kushinagara, il cui comportamento compassionevole rispecchiava la sua saggezza profonda. Pur essendo re egli non esercitava il suo potere per favorire se stesso o alcuni a scapito di altri, ma si considerava al servizio del popolo intero. Non viveva nel lusso, in quanto aveva compreso che possedere ciò di cui gli altri hanno bisogno era anch’essa una forma di violenza. Viveva semplicemente e, attraverso lo sforzo

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costante, ricercava il miglioramento personale e del suo popolo, e il bene di tutti gli esseri viventi. Indra decise allora di conoscerlo, nella speranza che il re Sibi avrebbe in futuro ottenuto il risveglio e fosse divenuto un Budda. Indra sapeva bene che fra tanti pesci piccoli pochi divengono grandi, e che fra tanti frutti di mango acerbi pochi divengono maturi. Tuttavia decise di non abbandonare la speranza. Si trasformò allora in falco, e chiese a Visvakarma di trasformarsi in un piccione dal corpo azzurro come il cielo e gli occhi rossi come rubini, per mettere alla prova la saggezza del re. Scesero dal cielo come un arcobaleno, e il piccione, inseguito dal falco, si rifugiò sotto il trono del re che riceveva in udienza per risolvere le questioni del suo popolo. I volti delle persone si riempirono di stupore nel vedere come persino gli animali cercassero l’aiuto del loro re. Il falcone allora disse: «O re, dammi il piccione che è la mia preda». Ma Sibi, guardando gli occhi pieni di paura della bestia rannicchiata sotto il trono, rispose al falco: «Questo piccione che tu hai inseguito, pieno di paura, è volato fino a me affinché io proteggessi la sua vita. Io sono il re Sibi, e da molti anni ho deciso di proteggere e sostenere la vita di tutti gli esseri viventi. Piuttosto che darti il piccione e permettere in tal modo la sua morte, sono disposto a sacrificare la mia stessa vita». Il falco rispose: «O re, quel piccione è il cibo per me e i miei piccoli. Se è vero che hai promesso di sostenere la vita di tutti gli esseri viventi, non puoi permettere che io e la mia famiglia moriamo di fame. Rendimi il mio cibo». Sibi replicò: «Non hai altro cibo per sostenere la tua vita?». «No – disse il falco – io mi nutro di carne e sangue». Il re disse: «La mia carne sarebbe cibo buono per te?». «Certamente – rispose il falco – se mi darai una quantità della tua carne equivalente al peso del piccione io potrò sfamare me e la mia prole e me ne andrò via lasciando quel piccione in pace». A quelle parole il re provò una gioia profonda, e pensò: «Oggi è veramente un giorno fortunato. Da molti anni mi sforzo di proteggere e fare il bene degli altri. Oggi posso mettere alla prova la mia compassione, e grazie al mio stesso sacrificio sarò in grado di salvare una vita e di provare la giustezza di ciò che sento nel cuore». Chiese allora a un servitore di portare una bilancia e un coltello affilato. Poi si denudò una coscia e gli ordinò di tagliare un pezzo della sua carne. Ma il servitore, terrorizzato, balbettò: «Come posso io tagliare la carne di un re così saggio e buono che tanto ha fatto per me e la mia famiglia? Piuttosto sacrificherei la mia stessa vita per evitarvi un così grande dolore!». Il re allora prese il coltello e, incurante della sofferenza, tagliò egli stesso dalla sua coscia un pezzo di carne grande come il piccione. Pose quindi l’uccello su un piatto della bilancia e la sua carne sull’altro, ma il piccione pesava di più. Indra gli disse allora: «O re, hai sofferto abbastanza. Dammi il piccione e io volerò via contento». Ma il re rispose: «Oramai ho preso la mia decisione, e grazie a essa anche il dolore che provo nel tagliare la mia carne è inferiore alla gioia che provo nel salvare una vita». E così dicendo tagliò un altro pezzo, ma il piccione pesava sempre di più. Il re continuò a tagliare fino a che rimasero di lui solo le bianche ossa, ma la bilancia non si muoveva. All’improvviso il re comprese ciò che non aveva ancora mai compreso: che il valore di una vita poteva essere eguagliato solo da un’altra vita. Salì allora egli stesso sul piatto della bilancia, la quale immediatamente fu in equilibrio. In quel momento la terra tremò e il cielo risuonò di commozione. Il falco si trasformò nel dio Indra, e il piccione nel dio Visvakarma, che si inchinarono di fronte a Sibi, il futuro Budda, e gli donarono all’istante un corpo nuovo e meraviglioso.

Questa favola è stata tratta dal Sutralankara di Asvagosha.

La lampada della povera donna rielaborata da Lodovico ProlaNell’antica India, al tempo del Budda Shakyamuni, esisteva uno stato chiamato Magadha. La capitale del regno era la città di Rajagriha. Alla periferia della città abitava un’anziana donna che ammirava e seguiva con devozione il Budda. Era una donna umile, e aveva un cuore semplice e pulito. Avrebbe da sempre voluto fare un’offerta a Shakyamuni, com’era consuetudine per i credenti di quell’epoca, ma era così povera che spesso non aveva neanche i soldi per mangiare. Un giorno, mentre era seduta ai bordi della strada a mendicare arrivò in paese una grandiosa carovana di carri scintillanti, addobbati con drappi lussuosi e trainati da splendidi destrieri. Venne a sapere che i carri trasportavano cinquemila barili d’olio di lino che il re della nazione Ajatashatru voleva donare al Budda. Profondamente colpita da quanto aveva visto, la donna sentì ancora più forte il desiderio di fare un’offerta a Shakyamuni. Ma non aveva assolutamente denaro. Allora decise di tagliare e vendere i suoi lunghi capelli neri, l’unica cosa preziosa che possedeva. Riuscì in questo modo a comprare una piccola quantità d’olio di lino. Mentre si recava a fare la sua offerta la donna pensò: «Questo poco olio potrà bruciare soltanto metà di una notte. Ma se il Budda si accorgerà della mia sincerità e della mia fede, grazie alla sua infinita compassione, allora la lampada brucerà tutta la notte». Proprio mentre il sole calava dietro l’orizzonte, la povera donna accese la sua piccola lampada accanto alle grandi e sfarzose luci offerte dal re della nazione. Subito dopo il tramonto cominciò ad avvenire qualcosa di strano: un vento proveniente dal monte Sumeru cominciò a soffiare sempre più forte investendo il paese di un’atmosfera magica. Una a una, le lussuose lampade del re Ajatashatru cominciarono a spegnersi. Solo la lampada della povera donna continuava a brillare emanando una luce

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così vivace da illuminare quasi il mondo intero. Il re della nazione, appresa la notizia, andò su tutte le furie: «Com’è possibile?! Ho fatto comprare il miglior olio e le più costose lampade del paese, ma tutti i miei lumi si sono spenti. Come può una piccola lampada di una povera suddita rimanere accesa?». Il mattino seguente gli abitanti e i discepoli del Budda cercarono in ogni modo di spegnere la lampada, ma ogni tentativo falliva miseramente. Il Budda vedendo i vani tentativi dei suoi discepoli intervenne: «Fermatevi! Questa donna ha fatto offerte, nelle sue precedenti esistenze, a diciotto milioni di Budda e nella vita passata ha ricevuto dal Budda la profezia che avrebbe ottenuto la Buddità. Questa nobile donna diventerà un Budda e avrà come nome “Luce della Lampada Sumeru”». Il re Ajatashatru invece, benché avesse offerto una quantità d’olio infinitamente più grande, avendo dimostrato un atteggiamento arrogante e non possedendo la stessa sincerità della povera donna, non ricevette alcuna profezia d’Illuminazione.

Questa parabola è raccontata nel sutra Ajaseo Juketsu.

Nel paese di Braccioteso rielaborata da Roberto CarvelliEra tornato tutto triste da scuola Palì. Tutto triste davvero. E la mamma se ne era accorta: le mamme se ne accorgono sempre quando sei triste. «Che c’è Palì? Dillo a mamma! Perché sei triste?» Lui, il piccolo Palì, niente. Muto, non diceva nulla. Ma la mamma che sapeva come prenderlo chiese: «Problemi a scuola? Di’ la verità… guarda che se hai preso un brutto voto non fa nulla?! Capito?» «No, non è questo…» «E allora che c’è… avanti dillo a mamma tua». «Oggi a scuola la maestra ci ha parlato dell’inferno… e mi ha fatto paura». «Perché, cosa vi ha detto?» «Ha detto che è tutto pieno di fiamme e la gente brucia». «Ma guarda che questo è un modo di dire… un modo per dire che si sta male… Devi sapere che in un paese lontano lontano, a destra di tutte le cartine geografiche, si racconta la storia di un uomo che aveva visto l’inferno e il paradiso e quando gli chiesero cosa avesse visto raccontò che tutti, all’inferno come in paradiso, avevano la stessa tavola imbandita con ogni prelibatezza ma all’inferno erano tutti tristi e sconsolati perché le posate erano delle lunghissime bacchette, con le quali era impossibile portare il cibo alla bocca ed erano tutti magri magri e tristi. Nel paradiso non è che mangiassero nulla di diverso né che avessero bacchette più corte ma… ascolta bene… erano tutti allegri e sazi perché si imboccavano l’un l’altro». Palì era più sereno e disse: «È proprio come la storia che mi ha raccontato papà!» E la mamma: «Quale?» Così, una storia per uno, anche Palì raccontò la sua. Ed era la storia del paese di Braccioteso dove tutti gli abitanti non avevano i gomiti, così non potevano piegare le braccia. C’erano due famiglie: la famiglia Tuttomio e la famiglia Pensoatté. A casa Tuttomio, nonostante le prelibatezze che cucinava la mamma, nessuno mangiava, erano tutti affamati, arrabbiati e nervosi. Li si sentiva litigare, dire parolacce e nel tempo erano diventati magri quasi come grissini. Perché? Perché chiaramente non riuscivano a mettersi in bocca tutte quelle prelibatezze. Appena di fronte abitavano quelli della famiglia Pensoatté. Erano conosciuti come le persone più gentili, allegre e giocherellone del paese. Godevano di ottima salute e di certo non sembrava che morissero di fame. Un giorno, all’ora di pranzo, spinto dalla curiosità e dall’invidia Martino Tuttomio andò a spiare dalla finestra la famiglia Pensoatté e vide una cosa inaudita. Cosa aveva scoperto? Stavano tutti seduti attorno a una tavola rettangolare e a due a due si imboccavano l’uno con l’altro. Una scoperta sensazionale. Martino, entusiasta, corse a dirlo a tutto il paese. Da allora tutti seguirono l’esempio della famiglia Pensoatté e vissero felici, contenti e ben sazi. «Vedi – gli disse la mamma – il paradiso e l’inferno sono nel cuore delle persone, nei loro comportamenti, e quindi è come se esistessero dentro di noi quando ci comportiamo bene o male con le persone o le cose». Palì era davvero più contento ora. Come se fosse in paradiso.

Da un antico racconto cineseSpeciale: La parola agli esperti di Maria Novella De Luca

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Che effetto fanno questi racconti della tradizione buddista su coloro che nella nostra cultura sono per definizione i destinatari di storie del genere, di “fiabe”, i bambini e le bambine?Se esiste un “Pensoatté” dei tempi moderni senza dubbio si chiama Paperino. Contro, naturalmente, Zio Paperone “Tuttomio”. Parola di Guglielmo, sette anni. Nel mondo poi, a dispetto della realtà, ci sono molti più “penso a te” che “tutto mio”, dicono Andrea, Lucilla, Giacomo ed Erica, che elencano tra le categorie degli altruisti doc i genitori, i medici, il Papa, Gesù, Budda, il presidente Ciampi, e a sorpresa anche “le persone povere”. C’era una piccola e singolare platea il primo maggio scorso nelle stanze della redazione di Buddismo e società. Sei bambini, dai cinque ai dieci anni, un gruppetto di adulti, e un improvvisato narratore di fiabe, Riccardo. Un po’ stupiti di ritrovarsi attorno a un tavolo in un giorno di festa, messi però di buon umore dalla merenda di pop corn e patatine, facendo cigolare senza pietà le irresistibili sedie girevoli, i sei bambini ascoltatori si sono sottoposti volentieri all’esperimento di fiabe buddiste più “dibattito”. «C’era una volta, nella città di Anatapindika…». Risate, gomitate, scherzi. «Anato-come?». Riccardo legge la favola dei ciechi e dell’elefante. Le reazioni sono tiepide. Tutti quei saggi che discutono non sembrano appassionare troppo l’auditorio. Giacomo però interviene subito: «Anche noi in classe litighiamo così, e alla fine non si capisce mai chi ha ragione». Appunto, perché un po’ di ragione in realtà ce l’hanno tutti, questo vorrebbe dimostrare la favola. Riccardo: «Un saggio diceva che l’universo era finito, un altro sosteneva che fosse infinito, uno gridava una cosa, l’altro replicava…». Guglielmo: «Io sto con il secondo saggio,

perché è vero, il tempo non finisce». Lucilla taglia di netto: «Questa storia mi sembra troppo vecchia». Il proseguire della favola però, in cui si racconta di come ogni cieco toccando l’elefante sentisse una cosa diversa, riporta in alto l’attenzione. «…Mettendo insieme tutti i commenti venne fuori che quella cosa – l’elefante – che i ciechi potevano toccare ma non vedere era un mantice, no, un ramo, no un aratro, con colonne e funi». Una specie di non-sense assoluto che naturalmente scatena le risate di tutti, comprese le due bambine più piccole, Erica ed Elisa. La morale però non sfugge al drappello di ascoltatori. Andrea: «Il vecchio saggio racconta la storia dei ciechi per dimostrare che nessuno è più bravo di un altro, ma tutti hanno qualcosa di buono». Già, ma a chi potrebbe assomigliare quel canuto signore che mette d’accordo i litigiosi

studiosi buddisti? «Silente, Silente». La risposta arriva all’unisono, da Lucilla, Andrea, Giacomo: «Silente, il mago buono di Harry Potter». È però con la seconda fiaba che l’esperimento della narrazione commentata di questi testi antichi suscita davvero una riflessione. Lo schema semplice – la famiglia Pensoatté e la famiglia Tuttomio – gli egoisti che pur di non aiutare gli altri deperiscono, mentre gli altruisti vivono bene e sono felici, fa nascere subito commenti e reazioni. Elisa: «Ma come facevano a cucinare se dovevano vivere con le braccia tese?». Il narratore Riccardo si improvvisa a questo punto attore-mimo-presentatore e offre al mini pubblico una dimostrazione di quanto sia difficile vivere, mangiare, ma anche grattarsi la testa senza poter piegare i gomiti. Risate in sala. Lucilla: «Per me nel mondo ci sono più Pensoatté che Tuttomio. I Tuttomio sono i miliardari e i ladri». Ma cosa vuole dire questa favola? Risponde Guglielmo: «Vuol dire che se io penso agli altri poi mi ritrovo più felice». Infatti, precisa Erica, «i Pensoatté mangiavano anche se avevano le braccia tese perché uno imboccava l’altro». «Così – scherza Andrea – nella famiglia dei Pensoatté erano tutti ciccioni, nella famiglia Tuttomio erano stecchini…». Al di là dei giochi e delle battute, dopo ben due ore di “lezione festiva”, i bambini stimolati dalle fiabe mettono insieme il puzzle della loro idea di mondo. Il male e la cattiveria ci sono, e così la guerra, la fame, gli insegnanti antipatici e i compagni di classe aggressivi e maneschi. I genitori però, così gli adulti in generale e ancor di più gli anziani, visti come soggetti saggi e amorevoli, fanno parte tutti dell’universo dei Pensoatté, insieme a un buon numero di personaggi dei cartoon, ad alcune personalità politiche e religiose, per arrivare a Budda e Gesù, liberamente accomunati nell’idea del bene del mondo. Insomma per Lucilla, Giacomo, Guglielmo, Andrea, Erica ed Elisa, età massima dieci anni, l’altruismo prevale sull’egoismo, anche se, magari, «essere altruisti ogni tanto costa un po’», soprattutto se si pensa di dover dividere la propria stanza e i propri giocattoli «con una sorella o un fratello rompiscatole». La mattina delle fiabe si conclude con grandi disegni e pennarello, qualche sedia rovesciata, un accenno di cazzotti tra Guglielmo e Andrea, e un pranzo da McDonald’s.