Puglia barocca

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Se a Napoli non si può parlare di barocco prima del 1631, a Lecce il fenomeno deve essere spostato almeno di un quindicennio, con le opere di Cesare Penna, anche se l’esplosione vera e propria del barocco leccese, divenuto ormai salentino, si verificò tra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo. La figura chiave di questo periodo è senza dubbio Giuseppe Zimbalo. Fino alla sua morte avvenuta nel 1710, lo Zimbalo, infatti, occupò un posto di rilievo nel panorama architettonico salentino anche quando la sua attività si intrecciò con quella di Giuseppe Cino. È, comunque, con Mauro Manieri (1687-1744), per via della sua radicale critica all’esasperato decorativismo barocco di quegli anni, che avvenne una svolta decisiva. Fu, però, il terremoto del 1743 a determinare l’affermazione del gusto rocaille, un gusto che unificò il basso con l’alto Salento e che segnò, ancora una volta, la differenza con la Capitanata gravitante sempre di più nell’orbita napoletana.

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Capone Editore

Mario Cazzato

Puglia barocca

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Le foto appartengono all’archivio della Casa editrice tranne quelle dellepagine 15, 52, 55, 84, 92, 93, che sono di Gianni Carluccio, 41, 57, 58, 59, 63,che sono di Vincenzo Marchionno, e 129 e 132 che sono dello studio Cau-tillo di Foggia

Si ringrazia l’architetto Gabriele Rossi per i rilievi della pag. 2

© Copyright 2013 - Capone Editore

Stampa: Tiemme - Manduria - gennaio 2013

ISBN: 9788883491689

Altari maggiori della chiesa delle “Scalze” a Lecce e della chiesa dell’Annunziataa Squinzano (rilievi arch. G. Rossi)

Nella pagina successiva: Martina Franca, casa Ancona

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Una storia generale del barocco pugliese in quanto categoria artistica e se-gnatamente architettonica, non è stata mai, fin qui, composta. E se è vero chela fondamentale monografia di M. Calvesi e M. Manieri Elia (1971) dal titoloArchitettura barocca a Lecce e in Terra di Puglia ha innovato profondamente latradizione storiografica e il suo successivo sviluppo, dei cinque capitoli chela compongono solo una parte dell’ultimo è dedicata ai fenomeni architetto-nici e urbanistici extra leccesi. La successiva e consistente produzione storico-critica si è incaricata di correggere e di arricchire quel quadro, facendoemergere per la Terra di Bari e per la Capitanata fenomeni trascurati o sco-nosciuti: prova ne sia il monumetale volume del 1996 dedicato a quelle areegeografiche dall’Atlante del barocco in Italia (a cura di V. Cazzato, M. Fagiolo,M. Pasculli Ferrara). E tuttavia si è potuto accertare come gran parte dellemanifestazioni barocche del centro e del nord della Puglia hanno una rile-vanza indiscutibile e una frequenza statistica significativa solo a partire dal

Premessa

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XVIII secolo. Per quello precedente, per l’epoca cioè di formazione e di dif-fusione del barocco, l’area protagonista è quasi soltanto Terra d’Otranto e inparticolare l’area leccese con in testa il capoluogo. Qui infatti possiamo age-volmente seguire la nascita e lo sviluppo di un nuovo linguaggio e come que-sto guadagni progressivamente l’intera provincia con significative e nonepisodiche puntate nel barese. In questo senso non si può non essere d’ac-cordo con la storiografia tradizionale che ha parlato giustamente di “baroccoleccese” (V. Cazzato, 2003) e non già di “barocco barese” o di “barocco fog-giano” che in un certo senso, più questo che quello, possiamo considerarecome un’appendice del barocco napoletano tanto da poter essere studiati se-paratamente senza timore di incorrere in errori metodologici così come sug-gerisce il citato Atlante. È perciò, ancora, opportuno partire da Lecce perricostruire l’evoluzione di un nuovo linguaggio che ebbe la forza, tra l’altro,

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Barletta, Palazzo Della Marra

di trasformare per la prima volta dopo il Medioevo il volto delle città. E se sicompie un ulteriore sforzo analitico superando il mero dato architettonicononché alcune convenzioni storiografiche, i due secoli del barocco puglieseinfluirono profondamente sull’assetto urbanistico degli abitati: i casi di Lecce,completamente risemantizzata, di Taviano, di Francavilla Fontana con i suoilunghissimi assi viari, di Montemesola, di Gravina o di Serracapriola sonosolo alcuni degli episodi più emblematici che aspettano ancora una letturaunitaria. Sulla falsariga di quanto ha proposto G. Cantorre in Napoli barocca

(1992) possiamo anche noi tentare una periodizzazione del fenomeno baroccoin Puglia.

Se a Napoli non si può parlare di barocco prima del 1631 (l’attività del Fan-

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zago non si esplica compiutamente prima di questa data), a Lecce questo fe-nomeno deve essere spostato almeno di un quindicennio, con le opere di Ce-sare Penna.

Nel decennio 1647-1656 c’è un grande fermento, rilevante non solo nel lec-cese ma anche in altre aree pugliesi. Dal 1656 al 1670 si verifica l’eplosionevera e propria del barocco leccese che diventa salentino tra gli anni ‘70 e ‘80 delsecolo. In questi decenni la figura chiave è senz’altro Giuseppe Zimbalo. Finoalla sua morte, il 1710, costui occupa sempre un posto di rilievo nel pano-rama architettonico salentino anche quando la sua attività si intreccia conquella di Giuseppe Cino e del suo “clan”. Ma una svolta decisiva si avrà solocon Mauro Manieri (1687-1744) che spingerà l’ambiente artistico verso unaradicale critica dell’esasperato decorativismo barocco di quegli anni. Sarà tut-tavia il terremoto del 1743 a costituirsi come episodio fondamentale dell’af-fermazione del gusto rocaille che unificherà il basso con l’alto Salento,segnando ancora una volta la differenza con la Capitanata gravitante sempredi più nell’orbita napoletana.

La sinteticità di questa ricostruzione, che è soprattutto storica, lascia ne-cessariamente in ombra non pochi fenomeni degni di più ampia trattazione.Pertanto all’interno di tale narrazione sono inserite alcune schede di appro-fondimento che possano essere lette anche autonomamente. La consistenzabibliografia è ridotta all’essenziale e si segnalano soltanto i contributi inno-vativi sul piano critico e documentario.

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La vicenda intellettuale di Vittorio Prioli (1540ca.-1619) – dovizioso ari-stocratico leccese dalle rivendicate origini veneziane, archeologo e “sottileinvestigatore” delle trascorse fortune di Lecce, nonché archivista delle suememorie storiche, creatore, nella sua bella residenza leccese posta in fondoalla strada nuova degli Angeli, di un Museo di epigrafi e statue, celebratissimoai suoi tempi, zio del poeta-guerriero Scipione de’ Monti e cognato dell’ar-chitetto di Carlo V Giangiacomo dell’Acaya – è emblematica dei mutamentid’immagine o se si vuole del mutamento del ruolo economico-territorialeche interessò radicalmente Lecce nel trapasso dal XVI al XVII secolo, quan-d’era ancora e senz’ombra di dubbio, la città più importante della Puglia ov-vero, sottoscrivendo la trionfalistica affermazione del Ferrari, la

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Capitolo Primo

Gli esordi del “barocco leccese”:la formazione di un nuovo linguaggio

Lecce, convento degli Olivetani, pozzettoNella pagina precedente: Lecce, chiesa di Santa Croce, prospetto, particolare

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“secondogenita del Regno”, quasi una “picciola Napoli”. Il genealogistadelle famiglie più importanti della città, qual’era stato il Prioli, cede il passoa interessi verso teatrali attestazioni di culto nei confronti di S. Irene, la civicaprotettrice, in un momento di aspro contrasto tra gesuiti e teatini sulla ge-stione del sacro come sostituto di un’egemonia urbana che divise vertical-mente le componenti aristocratiche della città come per la prima volta hadimostrato M.A. Visceglia. Questo personaggio, tipica incarnazione del-l’umanista affascinato dalle antiquitate, si sostituisce al grande elemosinierein favore dei gesuiti che in un solo colpo offre 2000 ducati per la costruzionedel loro collegio.

La rinascimentale città-capitale si trasforma negli stessi anni, ma lenta-mente, in città-chiesa e la lotta tra teatini e gesuiti rappresenta un episodiocentrale di questa mutazione genetica. La conclusione di siffatto processo èrappresentata dalla pubblicazione della Lecce Sacra dell’Infantino (1634) nellaquale si perde completamente l’immagine della dimensione civile della città– i palazzi, le case, le strade, i gruppi sociali, il commercio, ecc. – in favore diuno spazio urbano la cui realtà appare scandita unicamente dall’interminabile“rosario” dei suoi edifici sacri.

I processi di tridentinizzazione avranno avuto sicuramente un peso rile-vante in questa trasformazione che fu un fenomeno generale. Perché in Terrad’Otranto e in particolare a Lecce questa trasformazione del sentimento reli-gioso o della religiosità tout court in direzione marcatamente controriformatadivenne, più che altrove in Puglia, una trasformazione culturale se non pro-prio di sensibilità e di mentalità?

In altre parole, quali dinamiche si attivarono in maniera tale da rendere larealà della Puglia meridionale assai più ricettiva nei confronti del fenomeno“barocco”? Analizziamo un paio di tali “veicoli” attraverso i quali la nuovapoetica ebbe maggiori opportunità di radicamento e crescita.

In un memorabile saggio del 1957 su il Tasso e le arti figurative, G. C. Argandimostrò che l’esperienza artistica del Tasso attraverso il “progressivo dis-solversi della plastica evidenza dell’immagine, nel suo sfumarsi in un am-biente che a sua volta si sensibilizza e drammatizza” rappresenta unosviluppo che segna il trapasso dal Rinascimento al Barocco. Se nella visionepoetica del Tasso “predominano i notturni, i crepuscoli, le ombre miste d’in-

certa luce o tinte di rossi vespri”, questo vuol dire che la pienezza rinascimen-tale dell’immagine si scioglie in un “febbrile movimento così di persone chedello spazio infinito”. La straordinaria popolarità della Gerusalemme anche esoprattutto in campo figurativo fu un fenomeno fondativo della nuova sen-sibilità barocca dove alla rappresentazione distaccata e obiettiva segue l’at-

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tenzione quasi spasmodica per gli affetti e i sentimenti. E Terra d’Otranto ful’area geografica che accolse con maggiore entusiasmo l’esperienza della poe-sia del Tasso e perciò è in quest’area che appare più chiaro quel processo chedetermina il passaggio dagli ideali estetici rinascimentali a quelli successivi.

All’origine di questo interesse deve esserci stato Scipione de’ Monti chescrisse una perduta Apologia in difesa della Gerusalemme dove chiama il Tasso“mio Torquato” composta poco dopo la pubblicazione del poema. Segue poiil tarantino Cataldo A. Mannarino con Gloria di guerrieri e d’amanti (Napoli1595). Il galateo G. P. D’Alessandro, “poeta ufficiale dei oziosi”, il 1604 diedealle stampe la Dimostrazione dei luoghi tolti ed imitati in più autori dal sig. Tor-

quato Tasso. Gli fa eco il leccese A. Grandi che il 1626 compose Il Tancredi pub-blicato nel 1632 e nel 1636 in 20 canti di ottave proprio come la Gerusalemme

e messo in musica da un compositore locale. La fortuna del tassesco Tancredipresso i letterati locali consiste nella identificazione di questo personaggiostorico con l’omonimo fondatore della Lecce medievale.

Aminta è il poema che S. Sambiasi pubblica a Lecce il 1636 dedicandolo

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Conversano, castello, tela di Paolo Finogliocon episodio della Gerusalemme Liberata

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agli Acquaviva d’Aragona conti di Conversano e duchi di Nardò. C’è tanto diquel materiale per affermare che la provincia – questa provincia – si riappro-pria profondamente della lezione storica del Tasso movimentando significa-tivamente il dibattito culturale. Nel barese, precisamente nella Conversanodegli Acquaviva d’Aragona e propriamente nella galleria del loro castello, fuospitato l’unico ciclo dedicato al Tasso di tutto il Seicento italiano, ossia ledieci grandi tele con scene tratte dalla Gerusalemme liberata eseguite a Con-versano tra il 1641 e il 1643 da Paolo Finoglio, il pittore che più d’ogni altrosi rese responsabile dell’introduzione in Puglia, specialmente in quella meri-dionale, dei primi echi caravaggeschi e, comunque, il più valido tramite didiffusione della cultura pittorica napoletana già a partire dal secondo decen-nio del Seicento.

Un altro aspetto, assai meno studiato e conosciuto del precedente, che con-tribuì notevolmente alla costituzione di un nuovo patrimonio teorico e figu-rativo è costituito dalla precoce diffusione del concettismo e, insieme, diquelle espressioni, anche figurative, legate agli emblemi e alle imprese chedaranno vita, specialemte nel leccese, a episodi estremamente interessanti.Anche qui, all’origine, è un testo di Scipione Ammirato, probabilmente com-posto tutto a Lecce e che rappresenta addirittura uno dei caposaldi di questa“letteratura delle immagini”, pubblicato la prima volta a Napoli – a Leccenon esisteva ancora l’arte tipografica – nel 1562 col titolo Il Rota overo dell’Im-

prese, dialogo dedicato appunto a Bernardino Rota. La diffusione locale di questo genere letterario appare pertanto assai pre-

coce. A Francavilla Fontana sul parapetto del balcone di palazzo Cotognosono scolpiti tre altorilievi tratti letteralmente dall’opera Delle Imprese di G. C.Capaccio pubblicata a Napoli nel 1592. Gli altorilievi in questione sono rife-ribili agli anni quaranta del Seicento e anticipano di poco gli stessi, notissimi,che saranno scolpiti sull’altare dedicato a S. Irene nell’omonima chiesa lec-cese dei teatini, quasi sicuramente da Cesare Penna: tra l’altro il francavilleseCotogno fu in quegli anni uno dei grandi elemosinieri proprio dei teatini lec-cesi. Nell’altorilievo di destra nell’altare della santa protettrice è la nota ve-duta di Lecce sormontata da uno svolazzo col motto biblico (Genesi 9,13)Signum foederis inter te et deum che deve essere interpretato come il patto (diprotezione o di alleanza) tra Irene e la città. Siamo perciò di fronte all’em-blema proprio della santa in una perfetta fusione tra componente verbale eiconica. Ma è questa una cultura già matura che alle spalle presuppone unapenetrazione assai più incisiva di tale letteratura: non è un caso che intornoal 1615 è composta un’opera rimasta manoscritta e ora approdata chissà comein una biblioteca universitaria statunitense intitolata Cento imprese fatte da

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Francesco Cuomo nella caduta del cipresso nel giardino del signor Vittorio Prioli a

Lecce a 11 marzo 1615. Non si trascuri che il già citato G.C. Grandi il 1648 diedealle stampe a Lecce le sue Imprese... miste con alquanti concetti e sentenze figurate;né si pensi che queste forme di espressione simbolica che prevedono la com-presenza di immagini e parole non ebbero una utilizzazione concreta, anzi,verificheremo più oltre e proprio nella nostra area, che furono elaborate espe-rienze che si rifacevano immediatamente alla cultura metropolitana.

Tutto questo materiale divenne ben presto patrimonio comune special-mente nei circoli degli intellettuali legati alle Accademie. In questo contestodi apertura incondizionata nei confronti di tale letteratura di cui erano pienele biblioteche locali – lo abbiamo visto in altra sede con l’eccezionale biblio-teca dei Castromediano di Cavallino – si insinua la fortuna quasi trionfali-stica che in Terra d’Otranto, e assai meno nelle altre parti della Puglia, spettòall’Iconologia di Cesare Ripa accolta senza riserve per quello che era, un re-portario di concetti e di immagini – la prima edizione illustrata è del 1603 –

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Lecce, chiesa di Sant’Irene, “impresa” della titolare

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per letterati ed artisti per rappresentare, proprio come scriveva il Ripa, “le virtù,vizi, affetti e passione umane”. E fu a Cavallino, piccolo feudo alle porte diLecce, che si realizzò la più stupefacente utilizzazione di questo materiale chesarà opportuno illustrare perché rappresentò uno dei momenti più chiari deltrapasso verso una civiltà dell’immagine ormai pienamente barocca che tantainfluenza avrà concretamente sull’evoluzione dei linguaggi artistici locali.

1.1. Un laboratorio di proposte artistiche: Cavallino al tempo dei Castrome-diano nella prima metà del XVII secolo

Non sappiamo se per desiderio di emulazione o per altro, i Castromedianoanche prima dell’imparentamento con gli Acquaviva d’Aragona (1627) fos-sero, come questi, mecenati. Senz’altro furono bibliofili e collezionisti ad unlivello di consapevolezza che ha pochi riscontri nel Mezzogiorno tanto chenel loro palazzo di Cavallino avevano costituito già a metà del secolo la piùricca raccolta libraria e artistica di Terra d’Otranto. Ma rispetto ai duchi diConversano che consideravano il loro castello nient’altro che un contenitore,che all’epoca conservava ancora il severo aspetto quattro-cinquecentesco, aCavallino l’incremento delle collezioni artistiche da un certo punto in poi siaccompagna ad una radicale trasformazione del “castello” in “palazzo” spe-cialmente con la costruzione della famosa galleria che sarà affrescata e prov-vista di un complesso apparato scultoreo disposto su più registri. Ma primadi analizzare questo straordinario interno, riepiloghiamo brevemente quantoaccadde nell’agosto del 1637. Il 5 di quel mese era scomparsa, giovanissima– era nata nel 1609 – la consorte di Francesco Castromediano, dal 1628 primomarchese di Cavallino, Beatrice Acquaviva d’Aragona, dei duchi di Conver-sano. Le sontuose cerimonie funebri si risolsero in una spettacolare ostenta-zione della morte barocca come spettacolo sociale la cui eco e la cui memoriafu affidata ad una serie di opere a stampa edite fino all’anno successivo, tracui emerge quella del domenicano leccese Giovanni Palombo che composeper l’occasione una Descrizione delle pompe funerali nell’esequie dell’illustrissima

signora D. Beatrice Acquaviva d’Aragona, pubblicata a Lecce nel 1638. L’ope-retta è provvista di un’antiporta incisa che raffigura il mausoleo, ossia il cata-falco che il marchese fece costruire nella locale parrocchiale in onore dellascomparsa. È stato già osservato che questo apparato effimero nella struttura enella decorazione ha un modello coltissimo nel mausoleo disegnato il 1599 daDomenico Fontana in occasione delle esequie di Filippo II.

Si tratta di un tempietto a pianta quadrangolare con i lati simili, aperti al

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centro da un arco affiancato da nicchie e sormontato da una cupola: ossia unperfetto organismo a pianta centrale. I quattro lati erano ornati con “otto sta-tue delle principali virtù”, mentre sulla balaustra era scolpita la Fama. È statopure appurato che la fonte iconografica utilizzata è l’Iconologia del Ripa nel-l’edizione padovana del 1630, un esemplare della quale si conservava nella bi-blioteca dei Castromediano. Altre statue (Gloria dè principi, Sincerità,

Immortalità, ecc.) erano mutuate sempre dal Ripa con un’aderenza letteralestupefacente. Tra le statue e le paraste c’erano, dipinte o scolpite, una quan-tità “d’imprese d’anagrammi e versi” composti da “pellegrini ingegni”. Nonè qui il caso di individuare la regia di questa complessa costruzione simbo-lica. Basti osservare che si tratta di un vero e proprio progetto architettoniconel quale si sedimenta quella cultura letteraria tipica del concettismo seicen-tesco con le sue involuzioni poetiche ardite e acute, attraverso un uso ormaimaturo della metafora. Non sappiamo chi ha messo mano a quest’opera, checi appare assai più avanzata dell’architettura che negli anni trenta veniva co-struita come, per esempio, il locale complesso dei domenicani, altra commit-tenza dei Castromediano. E tuttavia possiamo individuare alcuni episodicoevi dove è usata l’Iconologia del Ripa, forte proprio del riconoscimento pro-

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A destra, catafalco allestito nel 1673 a Cavallinoper i funerali di Beatrice Acquaviva d’Aragona

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veniente dal mausoleo acquaviviano. Possiamo fare l’esempio della facciatacon statue mitologiche del palazzo baronale di S. Cesario costruito entro il1634, anche se le statue medesime possono essere posteriori di un decennio.

A livello regionale non possiamo individuare nessuna esperienza similesoprattutto se consideriamo la struttura compositiva realizzata qualche de-cennio dopo nella galleria del palazzo dei Castromediano. Fortunatamentepossediamo un documento inedito quasi coevo che descrive questo interno:

galleria larga palmi 35 e longa palmi 90, d’altezza proporzionata, lamiata, con parte

in croce (ossia simmetriche) n. 4, finestre vitriate n. 6 e quattro balconi con pittura

in fresco per tutta la lamia con le figure delle stelle [ossia le costellazioni zodiacali ed

extrazodiacali], cornicioni a torno di pietra viva lavorati con le imprese della famiglia

e capricci di guerra, con basi in rilievo con loro statue e pavimento di mattoni colo-

rati.

Nell’istessa galleria nel primo ordine vi sono statue di pietra viva di rilievo con loro

imprese e simboli n. 16 di palmi 7 al naturale ignude, lavorate dall’eccellente artefice

et architettore Carlo d’Aprile di Palermo e sono: sapienza, l’onor della virtù, l’occa-

sione, la natura, lo splendore, il giudizio umano, la virtù eroica, il furore, la clemenza,

l’ingegno, l’industria, il dolore, il rumore, il furor dei poeti, la povertà ingegnata, la

virtù. Nell’ordine superiore vi sono statue in pietra n. 23 per mano suddetto artefice.

Due statue di palmi 12 l’una con Enea con il padre Anchise ed Ercole con due altre

statue accavallate. Le altre statue di palmi 9 sono: l’Inverno, la dea Venere, Giove, il

Tempo, la Primavera, la Luna, l’Estate, il Sole, Mercurio, Autunno, Saturno e Marte.Seguivano “nove altre statue a mezzo busto” dei Castromediano. Al cen-

tro della galleria c’era una “fontana d’altezza palmi 18 con tre fonti di porfidomischio... con statua rappresentante l’abbondanza... nell’istessa galleria visono diverse statuette di marmo fino di Trapani ascendenti al n. 19, rappre-sentanti diverse storie, santi e virtù”.

È probabile che la complessità di tale intervento abbia scoraggiato una suadecodificazione, ma è veramente singolare che lo stesso risulti praticamentesconosciuto nonostante che in esso si consumi per la prima volta quel ben

composto ossia la fusione barocca tra architettura, scultura e pittura. Né è statorilevato come la volta astrologica della galleria di Cavallino sia l’unica affre-scata, in queste dimensioni, dopo quella della Sala del Mappamondo di palazzoFarnese a Caprarola compiuta negli anni settanta del Cinquecento, similianche nella composizione di base: lo stesso cielo blu seminato di stelle doratepopolato di costellazioni, 50 a Caprarola probabilmente lo stesso numero aCavallino. Trascurare questi dati ha alterato il senso stesso dello sviluppo ar-

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Cavallino, galleria del Palazzo marchesale

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tistico locale nonché i suoi rapporti con la cultura nazionale. La galleria diCavallino deve essere considerata, anche riguardo al suo ruolo di contenitoredi naturalia ed artificialia come una vera e propria Wunderkammer, uno dei piùsignificativi episodi artistici del barocco meridionale di metà Seicento che èalla base del protagonismo leccese rispetto alla regione.

Studi recenti hanno confermato in Carlo Aprile (1621-1668), autore dellestatue di Cavallino, uno degli scultori più importanti operanti a Palermo,anche se rimangono ancora oscure le ragioni del suo soggiorno leccese e i li-miti cronologici di tale permanenza. Tuttavia i dati a disposizione sembranoconvergere a individuare il termine post quem nella realizzazione di que-st’opera a non oltre il 1656 l’anno della peste, probabilmente collocabile pocodopo il 1652 quando Domenico, primogenito di Francesco, sposa Isabella Ca-racciolo le cui insegne sono disseminate sulle pareti della galleria. Rimane in-soluto il problema dell’identificazione dell’autore del programmaiconografico di questo che è il primo interno pienamente barocco in Puglia.

Si è fatto il nome, specialmente per gli affreschi delle costellazioni dellavolta, del poeta-letterato Ascanio Grandi che può pure averlo ideato assaiprima dell’epoca di effettiva realizzazione e, comunque, non fu certo l’Aprile.Comunque sia, i Castromediano vollero che quell’ambiente rispecchiassel’immagine del cosmo, delle sfere celesti, un cosmo che, seppure descritto perlivelli partendo ovviamente dal basso verso l’alto, appare come un continuorifrangersi di specchi, un continuo rimando da un livello all’altro, la raffigu-razione dell’idea platonica ed anche ermetica per la quale “le cose terrenehanno i loro archetipi in cielo”. All’interno di questa visione costruita con itesti del Cartari, del Ripa e di altri autori ancora, sembra scomparire l’apportoartistico dello scultore e dell’affreschista. Ma non può scomparire per noi per-ché questo enorme cantiere – si consideri che contemporaneamente i Castro-mediano ridisegnavano gli spazi dell’abitato – aveva sicuramente mossol’ambiente artistico locale che a quella data, i primi anni cinquanta del secolo,aveva già dato prove di grande qualità. E ancora una volta queste “prove”non si rintracciano che nel leccese.

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