Prof. Leandro Petrucci Storia · I moti rivoluzionari contro la Restaurazione (1820-1848) 1820 Moti...

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Prof. Leandro Petrucci Storia 1 L’ITALIA DAL 1848 al 1900 Una sintesi delle premesse… La Rivoluzione Francese 14 luglio 1789 Presa della Bastiglia e scoppio della Rivoluzione Francese Fase monarchico-costituzionale 4 agosto 1789 Abolizione della feudalità 26 agosto 1789 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino Riforme di tipo liberale in ambito economico, giuridico e amministrativo 1791 Costituzione (monarchia costituzionale suffragio ristretto e censitario) La repubblica giacobina Giugno 1791 Fuga del re Luigi XVI 21 gennaio 1792 Esecuzione del re Luigi XVI 10 agosto 1792 Caduta della monarchia 21 settembre 1792 Proclamazione della Repubblica 1793 Costituzione (repubblica suffragio universale maschile) Guerra civile “Terrore” 27 luglio 1794 Caduta di Robespierre L’ascesa di Napoleone 1795 Abbattuta la repubblica giacobina, nuova Costituzione (parlamento bicamerale + direttorio di 5 membri; suffragio censitario) 1796-1799 Conquiste napoleoniche in Italia e nascita delle repubbliche italiane 1797 Pace di Campoformio: Napoleone cede Venezia all’Austria 1799 Sconfitte francesi in Italia e crollo delle repubbliche, con la restaurazione dei precedenti governi e dure repressioni 1799 Colpo di stato del Direttorio e di Napoleone - che entra a far parte di un triumvirato consolare dotato di pieni poteri, per divenire poi Primo Console con la Costituzione del 25 dicembre 1799 1802 Un plebiscito nomina Napoleone console a vita 1804 Proclamazione dell’Impero – Napoleone imperatore 1812 Massima espansione dell’impero napoleonico in Europa Campagna in Russia e sconfitta francese 1813 Sconfitta di Napoleone a Lipsia ad opera della coalizione tra Inghilterra, Russia, Prussia, Austria 1814 La coalizione antifrancese entra a Parigi e Napoleone deve abdicare in favore di Luigi VXIII di Borbone. La Francia torna ai confini del 1792 1815 La coalizione antifrancese sconfigge Napoleone a Waterloo (nei pressi di Bruxelles) e lo esilia nell’isolotto di Sant’Elena 5 maggio 1821 Morte di Napoleone a Sant’Elena Il Congresso di Vienna (1815) Finito il regime napoleonico, si riportano al governo i precedenti sovrani (“Restaurazione”) e si ritorna all’assolutismo monarchico Principi di equilibrio (evitare futuri scontri: creazione degli stati cuscinetto come Paesi Bassi e Svizzera neutrale) e di legittimità (tornano ai governi i sovrani precedenti al dominio napoleonico)

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L’ITALIA DAL 1848 al 1900

Una sintesi delle premesse…

La Rivoluzione Francese

14 luglio 1789 Presa della Bastiglia e scoppio della Rivoluzione Francese

Fase monarchico-costituzionale

4 agosto 1789 Abolizione della feudalità

26 agosto 1789 Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino

Riforme di tipo liberale in ambito economico, giuridico e amministrativo

1791 Costituzione (monarchia costituzionale – suffragio ristretto e censitario)

La repubblica giacobina

Giugno 1791 Fuga del re Luigi XVI

21 gennaio 1792 Esecuzione del re Luigi XVI

10 agosto 1792 Caduta della monarchia

21 settembre 1792 Proclamazione della Repubblica

1793 Costituzione (repubblica – suffragio universale maschile)

Guerra civile – “Terrore”

27 luglio 1794 Caduta di Robespierre

L’ascesa di Napoleone

1795 Abbattuta la repubblica giacobina, nuova Costituzione (parlamento

bicamerale + direttorio di 5 membri; suffragio censitario)

1796-1799 Conquiste napoleoniche in Italia e nascita delle repubbliche italiane

1797 Pace di Campoformio: Napoleone cede Venezia all’Austria

1799 Sconfitte francesi in Italia e crollo delle repubbliche, con la restaurazione dei

precedenti governi e dure repressioni

1799 Colpo di stato del Direttorio e di Napoleone - che entra a far parte di un

triumvirato consolare dotato di pieni poteri, per divenire poi Primo Console

con la Costituzione del 25 dicembre 1799

1802 Un plebiscito nomina Napoleone console a vita

1804 Proclamazione dell’Impero – Napoleone imperatore

1812 Massima espansione dell’impero napoleonico in Europa

Campagna in Russia e sconfitta francese

1813 Sconfitta di Napoleone a Lipsia ad opera della coalizione tra Inghilterra,

Russia, Prussia, Austria

1814 La coalizione antifrancese entra a Parigi e Napoleone deve abdicare in favore

di Luigi VXIII di Borbone. La Francia torna ai confini del 1792

1815 La coalizione antifrancese sconfigge Napoleone a Waterloo (nei pressi di

Bruxelles) e lo esilia nell’isolotto di Sant’Elena

5 maggio 1821

Morte di Napoleone a Sant’Elena

Il Congresso di Vienna (1815)

Finito il regime napoleonico, si riportano al governo i precedenti sovrani

(“Restaurazione”) e si ritorna all’assolutismo monarchico

Principi di equilibrio (evitare futuri scontri: creazione degli stati cuscinetto

come Paesi Bassi e Svizzera neutrale) e di legittimità (tornano ai governi i

sovrani precedenti al dominio napoleonico)

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Dopo il 1815 L’Italia è così divisa:

- Regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna, Savoia, Nizza, Liguria) con

Vittorio Emanuele I

- Regno Lombardo-Veneto (Lombardia e Veneto) sottoposto

direttamente all’Austria tramite un viceré

- Trentino, Venezia Giulia e Trieste, Istria e Dalmazia: entrano a far

parte dell’Impero Asburgico

- Ducati di Parma, Piacenza, Modena, Massa: sottomessi a sovrani

della dinastia asburgica

- Granducato di Toscana: governato da un sovrano asburgico

- Stato della Chiesa – comprendente Lazio, Umbria, Marche e

Legazioni pontificie (tra cui Bologna, Ravenna, Benevento)

- Regno delle Due Sicilie (Sud Italia e Sicilia) sottomesso a Ferdinando

I di Borbone, politicamente legato all’Austria

La rivoluzione industriale

Ultimi decenni del

Settecento – prima

metà

dell’Ottocento

Mutamento profondo e relativamente rapido (rivoluzione) nell’economia -

inglese prima, europea poi – ad opera del sistema di produzione delle

industrie (industriale)

Condizioni favorevoli: abbondanza di forza lavoro a basso costo per

incremento demografico, disponibilità di risorse naturali (carbone e ferro)

Meccanizzazione della filatura e della tessitura, macchina a vapore, ferrovia

Modernizzazione e urbanizzazione

Le classi sociali: borghesia e proletariato; mobilità sociale e povertà

La questione sociale: lavoro minorile, movimento operaio, sindacato e

società di mutuo soccorso, diritto di sciopero

Marx ed Engels scrivono Il manifesto del partito comunista (1848)

I moti rivoluzionari contro la Restaurazione (1820-1848)

1820 Moti in Spagna e Portogallo per ottenere la Costituzione del 1812, spenti

dalla Francia

1820 Moti nel Regno delle Due Sicilie per costituzione e indipendenza, con

intervento dell’Austria

1821 Il Piemonte si dà una costituzione, ma interviene l’Austria

1821-1829 La Grecia conquista l’indipendenza dall’Impero Ottomano

1825 In Russia: riforme liberali e abolizione della servitù della gleba (terra),

repressione dello zar Nicola I

1830 In Polonia: indipendenza dalla Russia, repressione dello zar Nicola I e

“russificazione”

1830 In Francia: ripristino delle libertà civili e ottenimento di una Costituzione più

liberale con la monarchia di Luigi Filippo d’Orléans

1830-1831 Il Belgio conquista l’indipendenza dall’Olanda

1831 Emilia Romagna: indipendenza dell’Italia centrale, intervento dell’Asutria

1848 In Francia: riforma in senso liberale e democratico, proclamazione della

Repubblica con la presidenza di Luigi Napoleone

1848-1849 Confederazione germanica: riforme costituzionali, unificazione e

costituzione moderata

1848-1849 Impero d’Austria: riforma costituzionale a Vienna, repressione delle

rivendicazioni e ritorno all’ordine

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IL RISORGIMENTO ITALIANO

Il problema nazionale italiano

Con “risorgimento” si intende l’insieme di processi ed eventi che portarono alla conquista

dell’indipendenza politica e all’unificazione dell’Italia, avvenuta nel 1861. Più che un significato

etico-religioso, il termine ha valenza politica, divenendo – all’indomani dell’Unità – il modo per

identificare una “terza Italia” dopo quella di Roma antica e quella rinascimentale.

L’Italia raggiunge dunque l’unità dopo la metà dell’Ottocento, più o meno come la Germania

(1871), ma più in ritardo rispetto a Francia, Gran Bretagna e Spagna che già avevano realizzato la

formazione di stati-nazione. Le condizioni politiche degli altri stati e le grandi idee circolanti in

ambito europeo – libertà, democrazia – favorirono il processo di unificazione italiana attraverso la

formazione di una opinione pubblica nazionale.

L’Italia dopo la Restaurazione (1830) era una realtà frammentata, con un mercato interno

frazionato da dogane e deboli infrastrutture, al punto che ogni regno o ducato commerciava più

facilmente con l’estero che con le realtà italiane limitrofe. Altro fattore divisivo era la lingua, che

ancora era privilegio di pochi, mentre la maggioranza era analfabeta e legata ai dialetti locali.

Infine, dominava il policentrismo: più che sentirsi legati alla patria, si viveva l’appartenenza alla

città o al regno, e ci si impegnava più per tutelare le autonomie locali che per aspirare

all’unificazione italiana.

Nel contempo, andava emergendo una élite liberale, principalmente di estrazione borghese, che

sentiva il peso dell’arretratezza civile ed economica italiana e puntavano alla creazione di un

mercato interno unico, abbattendo le diversità di pesi e misure e riducendo le dogane interne

(processo antesignano della creazione di MEC, CEE ed EU nella seconda metà del Novecento).

Si sviluppa così, negli anni 1830-1840, un dibattito pubblico che, partendo da questioni

economiche, si allarga agli ideali politici in ottica riformista e nazionale, mirando a superare

frammentazione e municipalismo (legame con le singole “patrie” cittadine) tipico dell’Italia del

tempo.

Un elemento favorevole al dibattito politico venne dagli esuli dei moti italiani falliti nel 1830-1831

che, rifugiatisi in Gran Bretagna o Francia, avevano potuto osservare da vicino realtà di stati ben più

moderni dell’Italia, vagheggiando gli obiettivi dell’indipendenza e dell’unità nazionale secondo due

linee di pensiero: una liberale-moderata e una democratica-repubblicana.

Tra i liberal-moderati ritroviamo Gioberti, D’Azeglio, Balbo, Cavour. Tra i democratico-

repubblicani Mazzini, Garibaldi, Cattaneo, Pisacane.

I moderati ritenevano che indipendenza e unità si sarebbero raggiunti con riforme graduali

promosse dagli stessi sovrani interni, fino a giungere a una monarchia costituzionale a carattere

liberale. I democratici puntavano invece alla insurrezione popolare per giungere a una repubblica

fondata sulla sovranità del popolo.

Massimo esponente dei democratici fu Giuseppe Mazzini (1805-1872) che sosteneva il nesso

inscindibile tra nazione e libertà, secondo un nazionalismo intriso di valori etici, religiosi e

romantici. “Dio e popolo” è il binomio che racchiude il suo pensiero, nell’ottica di una rivoluzione

vista come missione da compiere con profonda fede nella religione civile della patria. Più che nella

lotta di classe, Mazzini crede nell’unificazione del popolo tramite una grande opera di educazione

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morale. Pur sostenendo la rivoluzione popolare, non riteneva la Francia propulsore di un processo

europeo, preferendo difendere autonomia e originalità di ogni singola nazione.

Per realizzare il suo programma, Mazzini fondò l’associazione “Giovine Italia” nel 1831,

contrapponendo programmi e azioni pubbliche ai metodi segreti tipici della Carboneria. Pur

contando decine di migliaia di iscritti, l’associazione restò circoscritta al nord e al centro, e alle

classi medie (senza raggiungere le élites borghesi). Col fallimento delle insurrezioni organizzate nel

in Piemonte e Liguria, e l’arresto di molti membri, Mazzini rinunciò alla cospirazione in Italia e,

dall’esilio in Svizzera, fondò la “Giovine Europa” (1834), per dare maggior respiro alle proprie

idee.

I moderati liberali si ispiravano invece alle liberali Gran Bretagna e Francia dove il potere

monarchico era limitato da opportune garanzie di libertà civili ed economiche, oltre che dal

suffragio censitario.

Vincenzo Gioberti (1801-1852), sacerdote piemontese, nel suo Del primato morale e civile degli

italiani (1843) espone un progetto di unità nazionale italiana in forma federativa, ritenendo

irrealistica la meta di unità nazionale tra realtà locali così diverse e specifiche. Una confederazione

di staterelli sovrani a capo dei quali avrebbe dovuto esservi il papa, garante di una rifondazione

etica e politica della nazione (per il cui il pensiero di Gioberti venne detto “neoguelfismo”).

Ancora tra i moderati, troviamo il liberale piemontese Cesare Balbo che, nelle Speranze d’Italia

(1844), individuava nell’Austria il principale ostacolo all’unificazione italiana e vedeva nella

monarchia sabauda l’unica forza capace di sconfiggere il dominio asburgico e creare una

confederazione italiana guidata proprio dal Piemonte.

In Piemonte re Carlo Alberto introduce alcune riforme e codici di impostazione liberali, favorendo

così lo sviluppo della riflessione moderata e suscitando speranze tra i liberal-moderati, tra i quali

Massimo D’Azeglio (1798-1866).

Federalista fu Carlo Cattaneo (1801-1869), tra i maggiori pensatori del Risorgimento.

Condivideva l’ideale democratico di Mazzini e l’ostilità verso un processo di indipendenza guidato

dai sovrani invece che dal popolo, ma immaginava l’Italia non unitaria bensì come federazione

repubblicana di stati (simile agli USA) per salvaguardare le diverse autonomie locali, all’insegna

del binomio “federalismo e libertà” (cfr. la rinascita del progetto federalista con l’emergere nel

panorama politico italiano contemporaneo della Lega Nord).

Il 1848 in Italia

Nel 1846 l’elezione di Pio IX pareva confermare le speranze dei liberal-moderati (in particolare

Gioberti) per alcune riforme e aperture politiche, cui fecero seguito altre riforme in Piemonte e

Toscana. Il tutto alimentò un diffuso sentimento patriottico e anti-austriaco che sfociò nelle

rivoluzioni del 1848-1849 (un ampio movimento che investì l’Europa e non solo l’Italia).

Nel Regno delle Due Sicilie il moto rivoluzionario del 1848 ottenne la concessione della

Costituzione. Sotto la pressione dell’opinione pubblica, concedettero gli statuti anche la Toscana,

lo Stato Pontificio e il Regno di Sardegna (lo Statuto Albertino, che resterà in vigore fino alla

Costituzione Italiana del 1948). Erano detti “statuti” in quanto Costituzioni stabilite e concesse

dai sovrani, di impronta fortemente moderata, con un sistema parlamentare bicamerale (una

camera elettiva a suffragio censitario, l’altra vitalizia di nomina regia; il governo risponde al re, non

al parlamento).

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Tranne i ducati di Parma e Modena e il Lombardo-Veneto, nel 1848 tutti gli stati italiani arrivano a

possedere una costituzione. I sovrani pensavano di conservare così il potere, ma l’eco del

movimento europeo accese rivolte a Venezia (17 marzo 1848) e Milano (le “cinque giornate” del

18-22 marzo 1848) che portarono alla cacciata degli Austriaci.

Mentre i moderati volevano l’unificazione della Lombardia al Piemonte per sancire la fine del

dominio asburgico, i repubblicani vedevano con sospetto l’intervento della monarchia sabauda.

Mentre le due fazioni si dividono, Carlo Alberto (1798-1849) prende l’iniziativa di dichiarare

guerra all’Austria (23 marzo 1848). In quella che venne detta “Prima Guerra d’Indipendenza”

il successo di Carlo Alberto fu immediato, anche per l’appoggio di volontari e patrioti di varie parti

d’Italia, e la Lombardia venne annessa al Regno di Sardegna. Nonostante importanti vittorie

(Curtatone, Montanara), Carlo Alberto non diede il colpo decisivo alla resistenza austrica in Veneto,

venendo anzi sconfitto a Custoza.

Altro fattore di debolezza fu la decisione di Pio IX di ritirare il suo appoggio perché, come Papa,

non voleva opporsi agli Austriaci, cattolici: falliva così il progetto neoguelfo di Gioberti.

Anche nel Regno delle Due Sicilie la situazione precipitò: dinanzi alle pretese di separazione tra

Napoli e Palermo, Ferdinando II di Borbone sciolse il parlamento.

Il fallimento delle aspirazioni moderate diede nuovo vigore alle idee dei democratici, con la

seconda fase del Quarantotto italiano che si aprì con l’insurrezione in Toscana che portò alla

cacciata di Leopoldo II da Firenze. Anche Pio IX dovette lasciare Roma, rifugiandosi a Gaeta,

mentre nel 1849 venne proclamata la Repubblica Romana, guidata da un triumvirato

comprendente anche Mazzini, mentre Giuseppe Garibaldi, repubblicano e mazziniano, comandava

le truppe.

Carlo Alberto, desideroso di espandere il dominio sabaudo, riprese la guerra con l’Austria, nel

1849, ma venne nuovamente sconfitto (a Novara) e, perso così ogni territorio sottratto in

precedenza agli Austriaci, dovette abdicare in favore del figlio Vittorio Emanuele II (che sarà Re

d’Italia dal 1861 al 1878).

Contemporaneamente al fallimento delle rivoluzioni europee sotto i colpi della reazione dei

conservatori, anche in Italia si concluse in modo negativo l’esperienza delle repubbliche

democratiche: Pio IX rientrò a Roma, liberata dall’intervento francese di Luigi Napoleone (che

mirava così a ottenere il consenso del clero e dei cattolici francesi); Leopoldo II tornò a Firenze;

la Sicilia venne riconquistata dall’esercito borbonico; Venezia tornò pienamente sotto il comando

austriaco, dopo aver vissuto una breve parentesi repubblicana (17 marzo 1848 – 23 agosto 1849).

Il bilancio del Quarantotto italiano è negativo per le sconfitte dei progetti unitari e

indipendentisti e per le profonde divergenze tra moderati e repubblicani; ma è positivo per

l’emergere di una opinione pubblica nazionale diffusa non solo tra le élites ma anche presso

consistenti fasce popolari.

La REPUBBLICA è una forma di stato in cui il capo dello stato è eletto dal popolo (direttamente o

tramite le camere rappresentative)

Stato Le Leggi esprimono… I cittadini sono… Fondamento dello stato è…

REPUBBLICA …la volontà del popolo …uguali, in quanto liberi …la virtù

MONARCHIA …la volontà del re, con dei limiti …disuguali …l’onore

DISPOTISMO …la volontà del despota, senza

limiti

…uguali, in quanto servi …la paura

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STATI NAZIONE E IMPERI DOPO IL 1848

1837 In Gran Bretagna inizia il regno della regine Vittoria (1837-1901) durante il quale

il Paese raggiunge l’apice della potenza economica e coloniale e consolida le

proprie istituzioni politiche

1848 Rivoluzioni europee

1852 Luigi Napoleone Bonaparte diviene imperatore di Francia, dopo aver attuato un

colpo di stato (1851) che porta alla nascita del Secondo Impero; il consenso al

bonapartismo si fonda sul ricorso frequente al plebiscito tramite il suffragio

universale.

1854-56 Guerra di Crimea. Gran Bretagna e Francia si oppongono a tentativi di espansione

da parte della Russia, sconfiggendo lo zar in un conflitto che causa moltissime

vittime. Si incrina l’alleanza tra Russia e Austria (che non entra nel conflitto, ma

neppure prende le difese della Russia).

L’Italia partecipa alla guerra e ottiene così di presentare il “caso italiano” alla

conferenza di Parigi del 1856.

1861 Abolizione della servitù della gleba in Russia con lo zar Alessandro II

1862 Bismarck diviene cancelliere in Prussia; convinto antiliberale e assertore del

potere autoritario dello stato, fu campione della Realpolitik, ovvero una politica

realistica e spregiudicata. Seppe condurre la Prussia a una graduale espansione e

alla guida dell’unificazione tedesca.

1865 Riforma elettorale inglese

1866 Vittoria prussiana della guerra con l’Austria. Dopo aver coinvolto l’Austria in una

alleanza contro la Danimarca (1864), Bismarck decide di dichiarare guerra

all’Austria stessa – ne approfitterà l’Italia per condurre la cosiddetta “Terza

Guerra d’Indipendenza” e riconquistare il Veneto – sconfiggendola a Sadowa, in

Boemia (1866)

1867 Nascita della duplice monarchia austro-ungarica: la molteplicità di etnie, popoli e

nazioni pone il problema di una stabilità che pare garantita dalla nascita

dell’Impero Austro-Ungarico (un compromesso che l’Austria accetta per non

perdere definitivamente il potere).

1869 Apertura francese del canale di Suez, tramite una società per azioni controllata

dalla maggioranza franco-inglese e dalla minoranza egiziana. Verrà

nazionalizzato dal presidente d’Egitto Nasser nel 1956, espropriando inglesi e

francesi.

1870 Vittoria prussiana della guerra con la Francia (sconfitta a Sedan). Bismarck

approfitta di una crisi politica in Spagna per opporsi alla Francia e indurre, con

abili manovre diplomatiche, Napoleone stesso a dichiarare guerra alla Prussia per

“ingerenza” in affari di politica internazionale.

1871 Unificazione della Germania e proclamazione del Secondo Reich - dopo il Sacro

Romano Impero di Carlo Magno e prima del Terzo Reich di Adolf Hitler (1933-

1945). Guglielmo I viene proclamato imperatore.

1861-1865 Guerra di Secessione negli USA tra Nord e Sud

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La conquista dell’Unità italiana

Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848-49 in Italia, le posizioni democratico-repubblicana

e liberal-moderata parevano egualmente in crisi. Se il popolo non sembrava in grado di sollevarsi

per conquistare l’indipendenza e l’unità, anche i sovrani italiani parevano più interessati alle proprie

mire di governo che all’unificazione nazionale. Tuttavia, nonostante la “seconda Restaurazione”

italiana del dopo-Quarantotto, l’opinione pubblica nazionale iniziava a causare una crisi di

legittimazione nei diversi governi italiani.

La repressione venne condotta nel Lombardo-Veneto dal maresciallo austriaco Radetzky che

instaurò un duro regime di polizia; la restaurazione fu condotta pure da Leopoldo II in Toscana, da

Pio IX nello Stato Pontificio e da Ferdinando II nel Regno delle Due Sicilie.

Unica eccezione, il Regno di Sardegna, che mantenne in vigore lo Statuto Albertino concesso nel

1848 da re Carlo Alberto all’insegna di una alleanza tra monarchia e classe dirigente che Vittorio

Emanuele II desiderava continuare a mantenere per godere dell’appoggio del liberali.

Massimo D’Azeglio fu primo ministro dal 1849 al 1852 e gli successe Camillo Benso conte di

Cavour. Sotto D’Azeglio vennero approvate le “Leggi Siccardi” (1850), per l’abolizione del foro

ecclesiastico e del diritto d’asilo, avversate dai cattolici e sostenute dai liberali; non passò invece il

matrimonio civile, motivo per cui D’Azeglio dovette dimettersi, in favore di Cavour (che

promise di non presentare più tale legge, che scontentava il senato, di nomina regia e conservatore;

infatti il matrimonio civile verrà approvato dal Parlamento Italiano nel 1865, dopo la morte di

Cavour stesso, avvenuta nel 1861).

Cavour, liberale e riformista, riteneva che il progresso economico e civile del Piemonte fosse la

premessa necessaria perché potesse divenire leader della politica italiana. Diede al governo una

salda maggioranza parlamentare con la politica del “connubio” cioè con l’alleanza tra il “centro-

destro” (di cui Cavour stesso era guida) e il “centro-sinistro” democratico e moderato capeggiato da

Urbano Rattazzi. In tal modo si emarginavano l’estrema sinistra e la destra “clericale”, favorendo

un’alleanza stabile tra aristocrazia e borghesia.

Cavour riteneva che il “connubio” avrebbe permesso di trasformare la monarchia costituzionale in

monarchia parlamentare.

Da convinto liberista, Cavour adottò il libero scambio, abbattendo gradualmente le barriere

doganali, stipulando accordi commerciali che inserirono il Piemonte nel circuito dell’economia

internazionale. Favorì altresì le opere di modernizzazione agricola e di canalizzazione, utilizzando

la spesa pubblica per grandi infrastrutture (strade, ferrovie).

Allo scoppio della guerra di Crimea (1854-56) – combattuta da Francia e Gran Bretagna contro la

Russia per impedirne l’espansione ai danni dell’Impero Ottomano – Cavour scelse di partecipare

con un piccolo contingente per poter poi essere presente al congresso di pace di Parigi (1856) e

rafforzare così l’immagine del Piemonte a livello internazionale e presso l’opinione pubblica

nazionale.

Nel frattempo Mazzini, dall’esilio di Londra, continuava a coordinare progetti di insurrezione

popolare, convinto che i fallimenti del 1848 non dovessero portare ad abbandonare gli ideali

democratici e repubblicani. I nuovi fallimenti del 1853-56, nonché il tragico tentativo compiuto

da Carlo Pisacane con la nefasta spedizione di Sapri (1857) - che avrebbe dovuto innescare un

moto popolare nel Mezzogiorno e vide invece l’opposizione degli stessi contadini che respinsero i

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patrioti e indussero Pisacane al suicidio -, mostrarono la velleità della “via popolare”

all’unificazione italiana.

Nel frattempo Torino, meta di migliaia di esuli, divenne riferimento del movimento nazionale,

raccogliendo consensi anche di molti mazziniani delusi. Cavour colse il clima politico favorevole e

approvò la fondazione della “Società nazionale italiana”, un’organizzazione clandestina che

mirava alla lotta per l’indipendenza sotto la guida dei Savoia, a cui aderì anche Garibaldi.

Secondo Cavour, Napoleone III restava il miglior alleato della causa italiana, in quanto mirava ad

espandersi in Europa ai danni dell’Austria. E quando il mazziniano Felice Orsini compì un

attentato proprio contro Napoleone III (1858), Cavour ebbe gioco facile nel mostrare che

l’imperatore francese aveva rischiato la vita proprio a causa della difficile situazione italiana a cui

occorreva trovare presto una soluzione.

Nel 1858 Cavour e Napoleone III stringono così gli accordi segreti di Plombières, con i quali la

Francia si impegna - in cambio della cessione di Nizza e Savoia - a entrare in guerra a fianco del

Piemonte qualora quest’ultimo fosse attaccato dall’Austria. Napoleone puntava, in realtà, a

ottenere il controllo – diretto o indiretto – dell’area italiana. E pensava che comunque l’Austria non

avrebbe avuto motivo di attaccare il Piemonte, per cui ratificò l’alleanza formale col Regno di

Sardegna nel 1859.

A questo punto, Cavour si mise all’opera, organizzando manovre militari e arruolando volontari, in

modo da provocare l’Austria che inviò un ultimatum al Piemonte. Ovviamente Vittorio Emanuele

II lo respinse e l’Austria dichiarò guerra al Regno di Sardegna. Napoleone III non poté fare a

meno di intervenire, come da accordi, al fianco del Piemonte.

Scoppiò così la “Seconda Guerra d’Indipendenza” (1859) che vide i franco-piemontesi riportare

vittorie importanti (San Martino e Solferino). Ma Napoleone III decise di non procedere oltre e di

ritirarsi, proponendo agli Austriaci la firma dell’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859),

temendo una eccessiva espansione italiana, un eventuale intervento prussiano in sostegno

dell’Austria, e non volendo eccedere nell’ostilità contro gli Asburgo che pure erano cattolici,

dunque ben visti dal papato di Pio IX, del cui appoggio Napoleone III non poteva fare a meno per

conservare il consenso del clero e dei cattolici in Francia.

Nonostante la tregua anticipata, l’Austria cedette la Lombardia alla Francia, che subito la

cedette al Piemonte in cambio di Nizza e Savoia. Il Veneto restava invece sotto il dominio

austriaco.

Sulla scorta della vittoria contro gli austriaci, nel 1859 la Toscana, i ducati, le legazioni pontificie

si sollevarono, si diedero governi provvisori e chiesero l’annessione al Piemonte. La Francia

vedeva così sfumare il progetto di controllare l’Italia, ma non poteva certo opporsi a tale

unificazione e favorire un ritorno degli Austriaci e una loro eventuale espansione nella penisola. Per

la stessa ragione, l’Austria non vedeva di buon occhio in intervento francese, che avrebbe

accresciuto l’influenza di Napoleone III in Italia. Anche Vittorio Emanuele II era “bloccato”: non

poteva accettare le annessioni, per non urtare la Francia, né respingerle, per non perdere il ruolo di

guida del movimento nazionale.

A sbloccare la situazione ci pensò Cavour che, nel 1860, fece indire i plebisciti che videro, col

97% dei consensi, l’approvazione delle annessioni dei diversi regni e ducati. Così si venne ad

avere un’Italia divisa in:

- Regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna + Lombardia, Toscana, Emilia)

- Stato Pontificio (Lazio, Umbria, Marche)

- Regno delle Due Sicilie

- Veneto sotto il dominio austriaco

Come nel 1848, ancora una volta la miccia dell’insurrezione fu accesa in Sicilia con una rivolta

separatista che chiese l’intervento di Garibaldi.

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Il 5 maggio 1860 Garibaldi salpò da Quarto, in Liguria, alla testa di oltre mille volontari

(“spedizione dei mille”) – suscitando la preoccupazione di Cavour, che temeva il carattere

democratico e mazziniano dell’impresa – e sbarcò a Marsala, in Sicilia, assumendo il controllo

dell’isola in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia, sconfiggendo in breve l’esercito borbonico

con l’appoggio entusiasta della popolazione locale.

Nonostante alcune riforme in favore dei contadini, il governo provvisorio della Sicilia non risolse le

tensioni tra proprietari e contadini e, laddove esplosero degli scontri, la repressione guidata da

Garibaldi fu molto dura (ad esempio a Bronte, dove il generale garibaldino Nino Bixio soffocò

nel sangue una rivolta popolare), mostrando le contraddizioni e i limiti della spedizione dei mille.

Sbarcato in Calabria (agosto 1860), Garibaldi entrò poi a Napoli (settembre 1860).

Garibaldi aveva sempre conquistato e assunto il potere nel nome del re Vittorio Emanuele, tuttavia

Cavour temeva una deriva democratica di tale spedizione, che avrebbe potuto convergere su

Roma, come Mazzini avrebbe voluto, per assumere il controllo dell’intera penisola. Con il

pretesto di mantenere la calma nel centro-Italia, Cavour inviò dunque un corpo di spedizione che

sconfisse le truppe del papa e, occupate le Marche e l’Umbria, puntò sulla Campania.

Cavour chiese che i territori liberati/occupati da Garibaldi potessero esprimersi tramite plebisciti in

merito alla possibilità di annettersi al Regno di Sardegna. Garibaldi, per evitare lo scontro col re,

non si oppose. Marche, Umbria, Mezzogiorno e Sicilia votarono dunque l’annessione al

Piemonte. Il 26 ottobre 1860 avvenne lo storico incontro tra Garibaldi e il Re a Teano, con la

consegna del potere a Vittorio Emanuele II che, il 17 marzo 1861, venne proclamato dal

parlamento come “Re d’Italia”, mantenendo lo stesso nome per sottolineare la continuità tra il

nuovo Regno d’Italia e quello sabaudo.

L’età della Destra Storica (1861-1876)

Nel 1861 l’Italia conta 22 milioni di abitanti. Il 70% della forza lavoro è occupato in agricoltura,

poiché il sistema economico è ancora pre-industriale. Le condizioni di vita – operaie e contadine –

sono pessime, a causa delle cattive condizioni igienico-sanitarie (la mortalità infantile arriva fino al

20%). L’Italia è insomma una periferia economica, in ritardo rispetto all’Europa.

Inoltre, secoli di dominazione straniera hanno lasciato in eredità una profonda frammentazione

culturale, linguistica, giuridica. Solo il 2% degli italiani parla la lingua nazionale; il resto della

popolazione usa i dialetti locali.

Dal 1861 il governo è retto dalla cosiddetta “Destra storica”, gruppo di notabili espressione

dell’aristocrazia e della borghesia liberale moderata che avevano guidato – all’insegna del

“connubio” cavouriano – l’unificazione italiana. Uomini dunque appartenenti alla nobiltà sabauda o

alla borghesia imprenditoriale Lombarda. Tra i diversi esponenti, ricordiamo Ricasoli, Minghetti,

La Marmora, Sella. Avevano grande fiducia nel libero mercato e convinti di essere l’élite

dirigente chiamata a governare per il bene del paese.

Ma avevano forti limiti. Anzitutto rappresentavano una base elettorale esigua, poiché il suffragio

censitario dava il voto al 2% degli italiani; inoltre avevano una visione fortemente elitaria della

politica: al governo ci vanno nobili e borghesi, che nutrono nei confronti delle masse popolari

sentimenti oscillanti tra paternalismo e autoritarismo. Ancora: percepivano il Meridione come

una realtà arretrata e del tutto sconosciuta.

Tra i problemi da affrontare, il primo è il completamento dell’unità nazionale, poiché:

- Veneto, Trentino e Trieste sono ancora in mano all’Austria

- Roma e il Lazio sono ancora soggette al potere temporale del Papa (Pio IX, 1846-1878)

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Ma solo il completamento dell’unificazione avrebbe assicurato la necessaria stabilità politica del

Paese. Il contesto internazionale non era così favorevole: l’Austria controllava parte dei territori

italiani, la Francia era irritata per il processo di unificazione che ne aveva deluso le aspettative di

influenza sulla penisola.

Una occasione propizia venne però dalla richiesta della Prussia di Bismarck che, nel 1866,

propose all’Italia di allearsi contro l’Austria. In cambio, il Veneto sarebbe stato ceduto all’Italia

stessa.

Si entrò così nella Terza Guerra d’indipendenza (1866) che, se dal punto di vista militare fu un

disastro (sconfitte a Custoza e nelle acque di Lissa, nell’Adriatico), tuttavia fu una vittoria politica

in quanto l’Austria, sconfitta dalla Prussia, dovette cedere il Veneto al Regno d’Italia.

Altra questione aperta era quella “romana”. La Destra seguiva il programma cavouriano: “libera

Chiesa in libero Stato”, propugnando la separazione tra le due realtà con tale forza che spesso si

travalicò nell’anticlericalismo (cfr. già le Leggi Siccardi, 1850). Se i democratici – Garibaldi,

Mazzini – pensavano a una occupazione popolare di Roma, la Destra liberale era più prudente,

per non urtare la Francia di Napoleone III che difendeva il papa (in funzione dell’appoggio dei

cattolici francesi). Garibaldi prese l’iniziativa di una spedizione che, partendo dal Sud, avrebbe

puntato su Roma, ma le truppe napoleoniche si opposero, ferendo lo stesso Garibaldi.

Nel 1864 si firmò un accordo con Napoleone III per il graduale ritiro delle truppe a difesa di Roma.

Nel 1865 la capitale d’Italia venne spostata da Torino a Firenze, per non intimorire i Francesi

rispetto a Roma e al Papa, ma venne letta dagli italiani come una “rinuncia” a Roma capitale.

Garibaldi tentò un’ulteriore spedizione popolare alla conquista di Roma, ma venne nuovamente

respinto dalle truppe francesi (1867).

Frattanto il mondo cattolico era diviso: chi era “conciliarista” – disposti cioè a mediare,

riconoscendosi “cattolici col Papa, liberali con lo Statuto” – e chi invece era “intransigente”.

Divisione che si acuì dopo l’introduzione del matrimonio civile (1865) e la confisca, da parte delle

stato, di numerose proprietà e immobili ecclesiastici (1866-67).

La reazione di Pio IX non mancò: dopo aver pubblicato il Sillabo (1864) – elenco di 80 tesi

moderniste condannate dalla Chiesa perché di marca socialista o liberale –, nel 1869 il Concilio

Vaticano I proclamò il dogma dell’infallibilità del papa in materia di fede e morale (come

misura preventiva per garantire l’indipendenza spirituale del papa qualora avesse perso quella

politica, per poter così continuare a esercitare l’ufficio di guida della Chiesa).

Approfittando della debolezza di Napoleone III, sconfitto nella guerra franco-prussiana del

1870, il governo italiano scelse un’azione di forza e il 20 settembre 1870 i bersaglieri

penetrarono a Roma per la breccia di Porta Pia, ponendo fine al potere temporale del papa. Pio

IX colpì con la scomunica i responsabili e si dichiarò prigioniero dello stato italiano.

Nel 1871 la Legge delle Guarentigie (“garanzie”), approvata dal parlamento italiano, sancì il

trasferimento della capitale da Firenze a Roma, concedendo al Papa il mantenimento

dell’indipendenza spirituale e della sovranità sullo Città del Vaticano. Pio IX respinse queste

norme in quanto unilaterali e nel 1874 vietò ai cattolici di partecipare alla vita politica italiana

poiché “non expedit”, cioè “non conviene”, coinvolgersi con un governo anticlericale. Si creava

così una profonda frattura tra laici e cattolici.

Frattanto lo Statuto Albertino del 1848 era stato esteso a tutto il Regno d’Italia, imponendo un

accentramento amministrativo che si scontrava con le rivendicazioni di chi, per rispettare le

autonomie e le diversità locali, avrebbe preferito un decentramento amministrativo. Alla fine

prevalse la volontà della classe dirigente sabauda di imporre un rigido controllo centrale sul

fragile stato italiano.

Il sistema scolastico nazionale venne regolato dalla Legge Casati del 1859.

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Il Regno venne diviso in province, rette da prefetti, nominati dal governo; anche i sindaci delle

città erano di nomina governativa. Questo accentramento provocò, soprattutto nel Meridione, un

profondo senso di estraneità verso le istituzioni.

La Destra sosteneva la politica commerciale liberista. In tale ottica, si impose l’unificazione

monetaria, con l’adozione della lira piemontese in tutta Italia nel 1862 (cfr. adozione dell’Euro),

e si stipularono trattati commerciali con Francia e Gran Bretagna. Con effetti contraddittori: si

migliorarono le esportazioni, ma si esposero le merci italiane alla concorrenza di quelle anglo-

francesi, più competitive per un miglior sistema produttivo industriale che in Italia ancora mancava.

Furono fortemente penalizzate in particolare le attività industriale meridionali, solo parzialmente

compensate dall’esportazione di prodotti agricoli specializzati (vino, olio, agrumi).

Altra contraddizione: unita l’Italia, bisognava “cucire lo stivale” con le infrastrutture necessarie –

strade, ferrovie, poste – con una grande spesa pubblica; ma al tempo stesso si inseguiva il

pareggio di bilancio dello stato, per risanare il debito pubblico. Per far ciò, il governo decise di

emettere titoli di debito pubblico e di vendere beni del demanio, oltre che inasprire il prelievo

fiscale.

L’obiettivo del pareggio di bilancio fu effettivamente raggiunto nel 1876 dal ministro delle finanze

Quintino Sella, ma al costo di un grave peggioramento delle condizione economica dei ceti

popolari. Nel 1868 era infatti stata ripristinata la “tassa sul macinato” che colpiva in particolare il

ceto contadino su un consumo fondamentale (il pane), provocando forti proteste.

Non mancarono rivolte contadine e sommosse, soprattutto nel Mezzogiorno, in cui l’ostilità nei

confronti dello stato cresceva anche per l’imposizione del sistema fiscale e della leva obbligatoria

per il servizio militare. L’insieme di queste tensioni e problemi va sotto il nome di “Questione

meridionale”.

La crisi del Sud provocò il rafforzamento di quelle organizzazioni criminose – mafia, camorra –

che già operavano in età borbonica e che sfruttarono il malcontento popolare per raccogliere forti

consensi.

Il Mezzogiorno fu altresì insanguinato dal fenomeno del brigantaggio: bande di ex ufficiali

borbonici, contadini, renitenti alla leva, criminali comuni che si univano per restaurare il caduto

regime e difendere la “patria” meridionale contro i “piemontesi”. Questo fenomeno indeboliva il

senso dello stato nel Meridione, per cui il governo impiegò oltre 100.000 uomini per stroncare

brigantaggio e banditismo, dichiarando lo stato d’assedio nel Sud d’Italia e procedendo a giudizi

sommari con tribunali militare. La repressione, violenta e sanguinaria, pone fine al grosso del

fenomeno entro il 1865.

La Sinistra storica (1876-1896)

Nel 1876, la Destra dovette cedere il governo alla Sinistra, in quanto non era più giudicata

adeguata per affrontare i nuovi problemi che si ponevano una volta realizzata l’Unità nazionale.

In origine la Sinistra coincideva col filone democratico, mazziniano e garibaldino, che aveva

messo da parte l’ideale repubblicano e tornava ora sulla scena politica. Gruppo composito,

comprendeva la piccola e media borghesia settentrionale, ma anche notabili, intellettuali e

proprietari terrieri del Mezzogiorno. Vi erano diverse anime nella Sinistra: una più progressista,

che mirava all’ampliamento della rappresentanza politica, cioè all’estensione del diritto di voto; una

più moderata, che voleva difendere gli interessi della proprietà latifondista meridionale.

Agostino Depretis tenne il governo dal 1876 al 1887, prospettando una vasto programma di

riforme che in realtà portò a risultati inferiori alle aspettative.

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In concreto, realizzò:

- La scolarità elementare obbligatoria, con la legge Coppino (1877)

- L’estensione del diritto di voto dal 2% al 7% (1882)

- L’abolizione della odiata tassa sul macinato (1884)

Promosse inoltre inchieste parlamentari sulla arretratezza della società italiana e sul mondo

contadino, senza però varare alcuna politica di legislazione sociale.

Anche l’estensione del diritto di voto non significò la scomparsa di logiche di clientela e di

corruzione. Anche perché non esistevano ancora i moderni partiti e il parlamento era un’arena in

cui diversi gruppi di notabili cercavano mediazioni a tutela dei propri interessi.

Tale situazione era aggravata dal trasformismo, cioè la tendenza a gestire la vita parlamentare

tramite accordi e scambi di favori, con mediazioni e patteggiamenti che portavano facilmente a

“trasformarsi” da conservatori in progressisti pur di tutelare i propri interessi particolari.

La grande depressione (1873-1896) provocò una forte crisi agraria che indusse la Sinistra ad

abbandonare la politica economica liberista adottando, dal 1877, una politica protezionistica a

tutela dei prodotti nazionali, per difendersi dal grano che giungeva, a bassissimo prezzo, dalle

Americhe.

Mentre l’agricoltura delle aree padane reagì alla crisi con sviluppo di tecniche e colture, il Sud

restava arretrato, legato al latifondo, cercando però di sviluppare le colture specializzate (olivi,

agrumeti).

Si opponevano così due fazioni: da una parte gli agrari, favorevoli ai dazi per proteggere il

frumento italiano dalla concorrenza dei prodotti esteri più a buon mercato; dall’altra, i coltivatori di

prodotti pregiati che vedevano nei pesanti dazi doganali e nel protezionismo un freno alle

esportazioni italiane. Nel contempo, il partito degli industriali rivendicava un più deciso

intervento dello stato nell’economia, per colmare il ritardo e il divario rispetto alla produzione

straniera.

Nel 1887 il libero-scambismo venne di fatto sconfitto e si imposero pesanti tariffe doganali a

tutela del grano e dei prodotti industriali nazionali. Effetto negativo del protezionismo fu l’aumento

del prezzo del pane e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita delle masse popolari.

In positivo, si diede impulso all’industria di base (acciaierie, metalmeccaniche, chimiche) e al

completamento della rete stradale e ferroviaria.

In politica estera, alla neutralità (con inclinazione filo-francese) della Destra, si sostituì con

Depretis l’avvicinamento all’Austria-Ungheria e alla Germania, fino alla firma della Triplice

Alleanza (1882, rinnovata nel 1887) che prevedeva un intervento di reciproca difesa in caso di

aggressione da parte della Francia. In favore di questa scelta giocarono sia le cattive relazioni con

la Francia per ragioni commerciali (dazi doganali) e politiche, sia i timori italiani di restare isolati

dal contesto internazionale.

Nel contempo, si decise di accrescere la spesa pubblica per favorire l’espansione coloniale, per

ragioni economiche e di prestigio internazionale. Si puntò sul Corno d’Africa. Nel 1885 si entrò in

Eritrea, ma un successivo tentativo di penetrazione portò alla reazione della confinante Etiopia e

alla sconfitta del contingente italiano a Dogali, in Eritrea, nel 1887.

Morto Depretis, gli successe nel 1887 Francesco Crispi, che terrà il governo fino al 1896.

Proveniente dall’area democratico-mazziniana, Crispi era uomo forte e autoritario.

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Dovette affrontare gli effetti negativi del protezionismo: i forti dazi doganali avevano infatti

portato a ridurre pesantemente le esportazioni in Francia e ad importare più di quanto di esportasse,

aggravando il passivo della bilancia commerciale e il deficit di bilancio dello stato.

Ammiratore del cancelliere tedesco Bismarck, Crispi concentrò sempre più potere nelle sue mani,

divenendo presidente del Consiglio, ma altresì ministro degli Esteri e degli Interni, rafforzando

il potere dell’esecutivo.

Favorì l’accentramento amministrativo, varando alcune riforme:

- La riforma sanitaria e della pubblica assistenza (accrescendo le responsabilità dello stato

in campi che fino ad allora avevano contato sulla iniziativa e sullo spirito di servizio della

Chiesa)

- Il nuovo codice penale, firmato dal ministro della Giustizia, Giuseppe Zanardelli, con

l’abolizione della pena di morte

- L’aumento del potere dei prefetti

Le condizioni di vita nelle campagne andavano peggiorando, la mortalità epidemica era

altissima; in Meridione non mancavano rivolte e movimenti migratori, mentre nelle aree padane

l’agricoltura capitalistica aveva portato allo sviluppo di un proletariato agricolo con forte

coscienza di classe (scioperi, rivendicazioni salariali).

Messo in minoranza nel 1891, Crispi perse il potere. Gli succedette Giovanni Giolitti (1842-1928),

fautore di un liberalismo “progressista”, convinto che il conflitto sociale andasse affrontato con

mediazione sociale e riforme.

Nel 1893 esplose la rivolta dei Fasci Siciliani – movimento a matrice anarchica, socialista, radicale

– in cui confluirono operai, minatori, contadini. Giolitti rifiutò di ricorrere a misure eccezionali e

questo atteggiamento giudicato troppo “morbido”, unitamente a un suo coinvolgimento nello

scandalo della Banca Romana (in seguito al quale si decise di costituire la Banca d’Italia, nello

stesso 1893), costrinse Giolitti alle dimissioni.

Crispi, tornato al governo come uomo “forte”, represse in Fasci Siciliani decretando lo stato

d’assedio dell’isola e varando leggi eccezionali che colpirono i socialisti (il cui partito, fondato nel

1892, venne sciolto).

La sua politica estera – filotedesca, aggressiva e colonialista – intendeva indirizzare le tensioni

sociali presenti nel paese verso l’esterno.

Con il Trattato di Uccialli (1889), i possedimenti italiani in Eritrea erano stati riconosciuti (1990),

insieme al protettorato italiano sulla Somalia. Alcune controversie interpretative del trattato –

scritto in italiano e lingua amarica – portarono l’Italia a rivendicare il protettorato anche

sull’Etiopia, con al quale si giunse allo scontro armato e alla grave sconfitta di Adua (1896) che

costò la vita a oltre 7.000 soldati italiani. Il governo italiano dovette riconoscere l’indipendenza

dell’Etiopia (che verrà riconquistata però da Mussolini, nel 1935-36) e, per l’umiliante sconfitta,

costrinse Crispi alle dimissioni.

La crisi di fine secolo culmina nei moti popolari di Milano, con il generale Bava Beccaris che spara

sulla folla, causando numerosi morti (1898).

Le tensioni portano l’anarchico Gaetano Bresci, nel 1900, ad uccidere Umberto I, re d’Italia. È la

crisi dello stato liberale, con cui si conclude l’Ottocento italiano.

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La seconda rivoluzione industriale Premesse Grande depressione (1873-1896)

Rivoluzione dei trasporti (prima globalizzazione)

Grandi migrazioni - Telegrafo e telefono

Innovazioni Innovazioni tecnologiche: acciaio / chimica / elettricità - Petrolio (automobile)

Capitalismo

monopolistico

Trust (fusione di società)

Cartelli (accordi per il controllo dei prezzi) - Monopolio / Oligopolio

Protezionismo Intreccio tra economia & politica

Cambia la società Giornali, opinione pubblica, consenso

Discussione sui nuovi diritti: civili / politici / sociali

Dal liberalismo alla democrazia (battaglie per il suffragio universale)

Cambia la politica Nascita dei partiti di massa - PSI (1892) - Classe operaia, diritto di sciopero

L’imperialismo

Alle grandi tendenze storiche del tardo Ottocento – seconda rivoluzione industriale, nascita della

società di massa – si lega anche il fenomeno dell’imperialismo, ovvero della costruzione da parte

delle potenze europee di imperi coloniali estesi nella maggior parte del pianeta. A differenza del

tradizionale colonialismo europeo, l’imperialismo ha di specifico il carattere di conquista militare

e politica, finalizzata al controllo non più di aree circoscritte, bensì di intere regioni.

Direttrici di espansione: Asia e Africa

Protagonisti: Gran Bretagna, Francia, Germania, ma anche Belgio e Italia, nonché Usa e Giappone.

Motivazioni: economiche (la ricerca di materie prime, di nuovi mercati in cui investire i capitali in

eccesso); politiche (il conflitto internazionale tra le grandi potenze, in competizione tra loro); sociali

(dirottare all’esterno le tensioni interne); ideologiche (nazionalismo e razzismo).

Gli USA preferirono a lungo la colonizzazione interna all’America, aprendosi poi all’area del

Pacifico e dell’Asia ma con un modello originale, cioè la penetrazione politica ed economica invece

della conquista militare (la cosiddetta “diplomazia del dollaro”).

La CINA è di fatto spartita in zone di influenza fra Gran Bretagna, Francia, Russia, Germania e

Giappone, benché a fine Ottocento sia formalmente indipendente. È una sorta di “semicolonia” di

tutte le maggiori potenze. La rivolta contro le ingerenze straniere porterà il leader Sun Yat-sen,

fondatore del Partito del Popolo, a proclamare la Repubblica Cinese nel 1912.

L’AFRICA viene assoggettata al 90% dalle potenze straniere con una rapidissima conquista

coloniale (“scramble for Africa”, cioè “corsa affannosa all’Africa”).

I Francesi si muovono da Ovest a Est, dall’Algeria al Corno d’Africa; gli Inglesi invece dal Sud

(Sudafrica) al Nord (Egitto); i Tedeschi occupano gli spazi liberi, in modo strategico; gli Italiani

possiedono la Libia e il Corno d’Africa (Eritrea, Somalia).

Nella Conferenza di Berlino (1884-1885), Bismarck – che ha sempre detto che la Germania non ha

vocazione coloniale, eppure funge da mediatore e arbitro delle ambizioni espansionistiche delle

grandi potenze – sancisce il principio della occupazione di fatto, per evitare discussioni e scontri

per spartizioni operate sulla carta.

Quelle africane non furono colonie di popolamento (come Australia o Nuova Zelanda) bensì di

sfruttamento: gli indigeni coltivavano e producevano, ma erano gli Europei a controllare

l’esportazione delle materie prime e l’importazione di manufatti.