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9 8 PREFAZIONE F ra gli obiettivi di questo volume, il titolo sottolinea quell’universalità che può ri- sultare sorprendente in molteplici aspetti, per quanto da sempre si parli di “plauso univer- sale” per Raffaello, “poeta dell’umanità”, figlio del “secondo Dante” (Giovanni Santi). Già Pas- savant, nel 1860, scriveva: “Raffaello possiede in un grado unico, nella storia dell’arte, tutte le per- fezioni, e il suo genio brilla fra tutti per questa prodigiosa universalità”. Claudio Strinati la evidenzia in termini origina- lissimi, in tredici capitoli, attraversando le pro- blematiche concernenti la cronologia, il conte- sto, i rapporti con la committenza, i significati dei capolavori, l’autografia e le collaborazioni. Nell’Appendice, abbiamo voluto infine riscopri- re la modernità e l’attualità universale del Raf- faellismo anche nell’arte contemporanea e nel- le avanguardie del XX secolo: un obiettivo non meno sorprendente, per noi essenziale, nel con- trastare il luogo comune e improprio che con- sidera Raffaello irrimediabilmente estromesso dalle attenzioni estetiche e creative del nostro tempo. Nell’insieme prende forma uno strumento ne- cessario nel fornire elementi conoscitivi a più li- velli: dal racconto critico all’eloquenza delle im- magini che scorrono in parallelo, si affiancano e interagiscono. Il racconto visivo procede per tipologie, nel variare delle composizioni dinami- che delle Madonne, nella psicologia dei ritratti, nella teatralità di scene sacre e mitologiche, dalle atmosfere di paesaggi animati agli sguardi e ai gesti espressivi, dai fiori e gioielli emblematici alle presenze di animali e decorazioni simboli- che. Se con “Leonardo Infinito” abbiamo proposto, fra l’altro, la concezione enciclopedica di un nodo della conoscenza e delle più diverse espe- rienze interdisciplinari, “Raffaello Universale” manifesta l’intreccio di idee, forme, relazioni e confronti. In entrambi, con caratteristiche naturalmente differenti, trionfa il concetto dell’invenzione e quindi del genio che irrompe, nell’opera, nell’ar- te, nella civiltà. Al di là della moda dei misteri, Raffaello con- densa filosofia e teologia con un’intensità che non è il furor michelangiolesco, non è tragedia ma piuttosto concerto. Strinati scrive della sua “Contemporaneità ed Eternità”, della “sfera es- soterica e sfera esoterica, in cui il sapiente im- mette i dati essenziali della scienza e della cono- scenza e si rivolge agli iniziati che sono in grado di comprendere un linguaggio integralmente simbolico”. Raffaello ha saputo conciliare ed esaltare l’anti- chità classica e il rinnovamento, il fato e l’idea- le, eros e thanatos, il potere spirituale e quello politico, la scienza del Rinascimento e lo spirito religioso. Questo “Raffaello Universale”, al di là del re- pertorio completo dei celebri capolavori, vuole offrire l’emozione delle reinterpretazioni e delle riscoperte, risultato di ricerche senza pregiudizi, che intendono mettere a frutto il riesame delle fonti, il divenire della critica e i risultati di re- stauri e indagini tecnologiche, recuperando ope- re trascurate oppure fraintese, o che si credevano disperse. Tutto ciò evitando facili entusiasmi ed eccessi nelle attribuzioni, presentando ragione- volmente alcune varianti e versioni dei soggetti inventati da Raffaello e subito celebrati, spesso replicati nella sua bottega per soddisfare presti- giose committenze. Le particolarità della fabbrica dell’arte raffael- lesca pongono continui interrogativi in progress. Anche fra i disegni si distinguono quelli asse- gnati al maestro urbinate o incerti, i modelli per la bottega e per incisioni o altre applicazioni, i cartoni da tradurre in affreschi e arazzi, le va- rianti in corso d’opera, le collaborazioni con ar- tisti geniali come Giulio Romano, o pur sempre eccellenti, da Penni a Raimondi. Il problema dell’autografia e dell’intervento di collaboratori mette in discussione molti dipin- ti, suggerisce nuove ipotesi e richiede confronti. Questa metodologia viene qui introdotta con al- cuni esempi significativi. Il primo, alle due pagi- ne che seguono, concerne il celebre Autoritratto degli Uffizi e quello proposto da Gian Lorenzo Mellini, praticamente sconosciuto finora, ma che si può ritenere convincente per ragioni tecniche, stilistiche e iconografiche, anche in rapporto all’autoritratto nella Scuola di Atene. Le due ta- vole vengono pubblicate a fronte, per la prima volta a grandi dimensioni, senza privilegiare né l’una né l’altra. Saranno i lettori, specialisti e cul- tori, a formulare un loro giudizio. Le didascalie introducono spesso, in sintesi, le stesse questioni in rapporto con gli aggiorna- menti degli studi e le contrastanti opinioni della critica e della storia dell’arte. I tentativi poetici di Raffaello mostrano i loro limiti in confronto al disegno, ma rivelano un’in- tenzionalità in parallelo agli studi e agli scritti teorici sull’antichità e l’architettura. Poiché “ogni epoca ha il suo Raffaello”, gli appa- rati forniscono le coordinate della storiografia, della letteratura artistica e della fortuna critica. Era considerato “l’ultimo dei pittori antichi, il primo dei moderni” fino all’Ottocento, quan- do fu messo in discussione, per l’accademismo da un lato, il manierismo e l’intellettualismo dall’altro. L’urbinate è stato mitizzato, conside- rato difficile o, inspiegabilmente, troppo facile fino alla noia; infine, nella Parigi delle avanguar- die, appare come l’artista più incompreso, o più divino. Grandi maestri, da Renoir a Picasso, da Modigliani a Dalì, rilanciano il Raffaellismo nel Novecento, e riteniamo fondamentale ricostru- ire e far conoscere come gli artisti lo hanno in- terpretato, dal post-cubismo al surrealismo, dalle neo-avanguardie al post-concettualismo, fino ai giorni nostri. Gli esami scientifici di Maurizio Seracini con- sentono di approfondire e di riconoscere l’opera di Raffaello pittore, alla luce dei pentimenti e del disegno sottostante, evidenziati da radiografie e riflettografie. A Raffaello è mancato il tempo per dare vita alla sua città ideale e ad altre utopie; ma nelle pitture ha saputo concentrare concezioni matematiche, geometrie e linee di forza, che si compenetrano in meccaniche celestiali, esprimendo l’armonia del bello ideale nella metafisica dell’artificio e del sublime. Una dinamica interiore e concettuale si nasconde nella perfezione, nella superficie della pittura e, senza velature, si condensa e respira in sollecitazioni sensoriali, che questo libro intende raccogliere e offrire in un oggetto d’amore, con le intensità e le provocazioni di un’opera ad arte. Alessandro Vezzosi

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PREFAZIONE

Fra gli obiettivi di questo volume, il titolo sottolinea quell’universalità che può ri-sultare sorprendente in molteplici aspetti,

per quanto da sempre si parli di “plauso univer-sale” per Raffaello, “poeta dell’umanità”, figlio del “secondo Dante” (Giovanni Santi). Già Pas-savant, nel 1860, scriveva: “Raffaello possiede in un grado unico, nella storia dell’arte, tutte le per-fezioni, e il suo genio brilla fra tutti per questa prodigiosa universalità”.Claudio Strinati la evidenzia in termini origina-lissimi, in tredici capitoli, attraversando le pro-blematiche concernenti la cronologia, il conte-sto, i rapporti con la committenza, i significati dei capolavori, l’autografia e le collaborazioni.Nell’Appendice, abbiamo voluto infine riscopri-re la modernità e l’attualità universale del Raf-faellismo anche nell’arte contemporanea e nel-le avanguardie del XX secolo: un obiettivo non meno sorprendente, per noi essenziale, nel con-trastare il luogo comune e improprio che con-sidera Raffaello irrimediabilmente estromesso dalle attenzioni estetiche e creative del nostro tempo.Nell’insieme prende forma uno strumento ne-cessario nel fornire elementi conoscitivi a più li-velli: dal racconto critico all’eloquenza delle im-magini che scorrono in parallelo, si affiancano e interagiscono. Il racconto visivo procede per tipologie, nel variare delle composizioni dinami-che delle Madonne, nella psicologia dei ritratti,

nella teatralità di scene sacre e mitologiche, dalle atmosfere di paesaggi animati agli sguardi e ai gesti espressivi, dai fiori e gioielli emblematici alle presenze di animali e decorazioni simboli-che.Se con “Leonardo Infinito” abbiamo proposto, fra l’altro, la concezione enciclopedica di un nodo della conoscenza e delle più diverse espe-rienze interdisciplinari, “Raffaello Universale” manifesta l’intreccio di idee, forme, relazioni e confronti.In entrambi, con caratteristiche naturalmente differenti, trionfa il concetto dell’invenzione e quindi del genio che irrompe, nell’opera, nell’ar-te, nella civiltà.Al di là della moda dei misteri, Raffaello con-densa filosofia e teologia con un’ intensità che non è il furor michelangiolesco, non è tragedia ma piuttosto concerto. Strinati scrive della sua “Contemporaneità ed Eternità”, della “sfera es-soterica e sfera esoterica, in cui il sapiente im-mette i dati essenziali della scienza e della cono-scenza e si rivolge agli iniziati che sono in grado di comprendere un linguaggio integralmente simbolico”.Raffaello ha saputo conciliare ed esaltare l’anti-chità classica e il rinnovamento, il fato e l’idea-le, eros e thanatos, il potere spirituale e quello politico, la scienza del Rinascimento e lo spirito religioso.Questo “Raffaello Universale”, al di là del re-

pertorio completo dei celebri capolavori, vuole offrire l’emozione delle reinterpretazioni e delle riscoperte, risultato di ricerche senza pregiudizi, che intendono mettere a frutto il riesame delle fonti, il divenire della critica e i risultati di re-stauri e indagini tecnologiche, recuperando ope-re trascurate oppure fraintese, o che si credevano disperse. Tutto ciò evitando facili entusiasmi ed eccessi nelle attribuzioni, presentando ragione-volmente alcune varianti e versioni dei soggetti inventati da Raffaello e subito celebrati, spesso replicati nella sua bottega per soddisfare presti-giose committenze.Le particolarità della fabbrica dell’arte raffael-lesca pongono continui interrogativi in progress. Anche fra i disegni si distinguono quelli asse-gnati al maestro urbinate o incerti, i modelli per la bottega e per incisioni o altre applicazioni, i cartoni da tradurre in affreschi e arazzi, le va-rianti in corso d’opera, le collaborazioni con ar-tisti geniali come Giulio Romano, o pur sempre eccellenti, da Penni a Raimondi.Il problema dell’autografia e dell’intervento di collaboratori mette in discussione molti dipin-ti, suggerisce nuove ipotesi e richiede confronti. Questa metodologia viene qui introdotta con al-cuni esempi significativi. Il primo, alle due pagi-ne che seguono, concerne il celebre Autoritratto degli Uffizi e quello proposto da Gian Lorenzo Mellini, praticamente sconosciuto finora, ma che si può ritenere convincente per ragioni tecniche, stilistiche e iconografiche, anche in rapporto all’autoritratto nella Scuola di Atene. Le due ta-vole vengono pubblicate a fronte, per la prima volta a grandi dimensioni, senza privilegiare né l’una né l’altra. Saranno i lettori, specialisti e cul-tori, a formulare un loro giudizio.Le didascalie introducono spesso, in sintesi, le stesse questioni in rapporto con gli aggiorna-menti degli studi e le contrastanti opinioni della critica e della storia dell’arte. I tentativi poetici di Raffaello mostrano i loro

limiti in confronto al disegno, ma rivelano un’in-tenzionalità in parallelo agli studi e agli scritti teorici sull’antichità e l’architettura.Poiché “ogni epoca ha il suo Raffaello”, gli appa-rati forniscono le coordinate della storiografia, della letteratura artistica e della fortuna critica. Era considerato “l’ultimo dei pittori antichi, il primo dei moderni” fino all’Ottocento, quan-do fu messo in discussione, per l’accademismo da un lato, il manierismo e l’intellettualismo dall’altro. L’urbinate è stato mitizzato, conside-rato difficile o, inspiegabilmente, troppo facile fino alla noia; infine, nella Parigi delle avanguar-die, appare come l’artista più incompreso, o più divino. Grandi maestri, da Renoir a Picasso, da Modigliani a Dalì, rilanciano il Raffaellismo nel Novecento, e riteniamo fondamentale ricostru-ire e far conoscere come gli artisti lo hanno in-terpretato, dal post-cubismo al surrealismo, dalle neo-avanguardie al post-concettualismo, fino ai giorni nostri. Gli esami scientifici di Maurizio Seracini con-sentono di approfondire e di riconoscere l’opera di Raffaello pittore, alla luce dei pentimenti e del disegno sottostante, evidenziati da radiografie e riflettografie.A Raffaello è mancato il tempo per dare vita alla sua città ideale e ad altre utopie; ma nelle pitture ha saputo concentrare concezioni matematiche, geometrie e linee di forza, che si compenetrano in meccaniche celestiali, esprimendo l’armonia del bello ideale nella metafisica dell’artificio e del sublime. Una dinamica interiore e concettuale si nasconde nella perfezione, nella superficie della pittura e, senza velature, si condensa e respira in sollecitazioni sensoriali, che questo libro intende raccogliere e offrire in un oggetto d’amore, con le intensità e le provocazioni di un’opera ad arte.

Alessandro Vezzosi

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1. L’esordio nell’ambiente urbinate

(a fronte) (sopra) Ritratto di Baldassarre Castiglione e allegoria con Aurora che discende dal suo carro sulla Terra, con due geni che trattengono i cavalli, medaglia in bronzo attribuita anche a Raffaello, diametro cm 3,7. Londra, British Museum.(sotto) Padre Eterno con Cherubini e Vergine Maria con la corona, 1500-1501, olio su tavola, cm 112x75 (l’Eterno), 51x41 (Maria). Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte. Frammenti della pala con L’incoronazione del beato Nicola da Tolentino per la chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello.

(pagine precedenti)(sinistra) Autoritratto (tradizionalmente riconosciuto), olio su tavola, cm 47,5x33. Firenze, Galleria degli Uffizi.(destra) Autoritratto (attribuzione di Gian Lorenzo Mellini), olio su tavola, cm 46,3x35,5. Collezione privata.(questa pagina) Astronomia, affresco del soffitto della Stanza della Segnatura (particolare), 1509-1511, Palazzi Vaticani.

Nel 1554 il letterato Ludovico Dolce pubblicò un libro dal titolo Lettere di diversi eccellenti uomini. Tra queste ne riportò una indirizzata al conte

Baldassar Castiglione e scritta da Raffaello Sanzio, anche se tale lettera non recava firma. Il testo fu trascritto integralmente dal Dolce e da quel momento in poi è stato considerato fondamentale per comprendere le idee e l’arte di Raffaello. Nessuno ha mai potuto stabilire se questa lettera sia stata veramente scritta da Raffaello o da altri che vollero attribuire al grande pittore delle idee e delle espressioni che, in effetti, non erano sue. Ma non c’è dubbio sul fatto che una lunga tradizione critica ha considerato autentica la lettera sostenendo, anzi, che una corretta interpretazione di un tale scritto permette di comprendere molti aspetti dell’arte raffaellesca.Non è possibile risolvere l’enigma, ma è evidente che la lingua con cui la lettera è scritta si direbbe quella di un letterato, di un uomo di vasta e raffinata cultura e di evidente profondità di pensiero. Ci si può chiedere dunque se Raffaello Sanzio sia stato veramente un uomo del genere e se la lettera, scritta o non scritta da lui, rifletta sul serio il suo modo di pensare, di lavorare e di rapportarsi con gli amici. Certo l’interlocutore, Baldassar Castiglione, ebbe rapporti con Raffaello che gli fece un ritratto meraviglioso, conservato oggi al Louvre. Dalla qualità veramente sublime del Ritratto si capisce subito come un legame profondo dovette esistere tra i due uomini. Il fatto, allora, che Raffaello si confidasse con Baldassar Castiglione è del tutto plausibile. Tuttavia i due personaggi avevano avuto una vita e una formazione molto diverse. Castiglione era, a quell’epoca, il prototipo stesso del letterato e dello studioso con spiccate at-titudini politiche e diplomatiche. Nato a Casatico presso Mantova nel 1478, era un po’ più anziano di Raffaello, nato nel

1483. Era nobile, al contrario di Raffaello, che era però un figlio d’arte molto particolare, dato che il padre, Giovanni Santi, fu un noto pittore titolare di una fiorente bottega nella Urbino della fine del Quattrocento, ma fu anche un intelligente e fine scrittore, assumendo quindi una posizione diversa rispetto ad altri eminenti artisti suoi coetanei e non soltanto nell’ambiente urbinate dove operò. Castiglione, però, partiva in ogni caso da una condizione socialmente e culturalmente più importante rispetto a quella di Raffaello e aveva vissuto la tipica vita del nobile letterato per come si svolgeva in quell’epoca. Dotato di eletto ingegno, di

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Studi per l ’Incoronazione di San Nicola da Tolentino, c. 1500-1501, recto, matita nera su stilo, traforature lungo una linea verticale al centro, quadrettato. Londra, National Gallery.

Angelo, 1500-1501, olio su tavola, cm 31x27. Brescia, Pinacoteca Tosio Martinengo. Frammento della pala con L’incoronazione del beato Nicola da Tolentino.(a fronte) Angelo, 1500-1501, olio su tavola, cm 57x36. Parigi, Louvre. Frammento della pala con L’incoronazione del beato Nicola da Tolentino.

bell’aspetto e di variegata cultura, Castiglione era stato al servizio di varie corti. Indubbiamente era la personalità di spicco nell’ambiente urbinate e si pensa per lo più che abbia conosciuto Raffaello intorno al 1504, quando il giovane ventenne pittore era ormai molto ben avviato verso la sua luminosissima carriera. Fondamentalmente, il ruolo del Castiglione fu quello di ambasciatore, di rappresentante della corte con funzioni politiche e culturali. La lettera, pubblicata dal Dolce e riferita a Raffaello, non è datata ma potrebbe essere stata scritta, a giudizio dei maggiori esperti moderni che hanno vagliato l’argomento, quando il Castiglione fu destinato a rappresentare a Roma il duca di Urbino Francesco Maria I Della Rovere nell’anno 1513. La lettera, forse, fu scritta subito dopo. Castiglione, successivamente, ebbe alterne e non facili vicende. Già nel 1516, Francesco Maria I Della Rovere perse il potere e il Castiglione gli restò fedele ma, poco tempo dopo, mutò incarico prima come ambasciatore dei Gonzaga presso il pontefice poi, dal 1525, quando ormai

Raffaello era scomparso da cinque anni, come nunzio apostolico in Spagna. La lettera di Raffaello, insomma, dovrebbe essere stata scritta quando l’urbinate, tra il 1513 e il 1514, era a Roma al culmine della sua gloria di pittore, l’artista forse più importante attivo per il papa, dalla fama ormai universale. Sembrava che fosse incontrastato nel suo dominio dell’ambiente, anche se le cose sarebbero presto mutate e in maniera del tutto imprevista. Ma, al momento, Raffaello era il principe dei pittori e la lettera, dunque, può essere letta come testimonianza emblematica del trionfo di un artista che comunica a uno dei maggiori intellettuali del suo tempo l’interpretazione corretta del suo lavoro. Il primo punto fondamentale contenuto nella lettera è quello del rapporto strettissimo tra pittura e letteratura. Scrive il maestro: “Ho fatto disegni in più maniere sopra l’inventione di V.S.”.Non sappiamo quale fosse l’inventione, ma quel che Raffaello vuole mettere in luce è che Baldassar Castiglione gli aveva suggerito un argomento da trattare in pittura

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Giovanni Santi, Sacra Conversazione con la Resurrezione di Cristo, 1481, affresco, cm 420x295. Cagli, Chiesa di San Domenico, Cappella Tiranni.

(l’inventione, appunto) e Raffaello stava preparando tale pittura da realizzare facendo una serie di disegni. Dal punto di vista della filosofia dell’arte, un tale argomento è veramente importante perché spiega un metodo di lavoro tutt’altro che ovvio per la mentalità del tempo. A dire il vero, le parole di Raffaello potrebbero essere interpretate anche in altri due modi. La prima ipotesi potrebbe essere quella che Baldassar Castiglione gli avesse chiesto proprio un disegno per la sua collezione o per la collezione di qualche amico. Non un’opera pittorica ma esplicitamente uno o più disegni. L’ipotesi è del tutto plausibile, perché molti intellettuali erano amanti del disegno in sé e l’arte del disegno non da tutti era considerata preparatoria per l’opera pittorica, ma era vista come autonoma rispetto alla pittura, con una propria altissima dignità e rilevanza. Raffaello fin da giovanissimo era stato considerato, e ben a ragione, come maestro eccelso nel disegno e quindi il Castiglione avrebbe potuto suggerirgli un argomento per ottenere un disegno che lo illustrasse. Un’altra ipotesi è che Raffaello avesse elaborato dei disegni per farne trarre poi delle incisioni da qualche suo collaboratore. In questo caso, l’opera sarebbe stata tirata in più copie e sarebbe potuta finire nelle mani di più collezionisti appassionati dell’opera di Raffaello. Anche tale ipotesi è del tutto plausibile perché Raffaello, nel momento culminate della sua carriera, comprese molto bene la straordinaria utilità di far circolare i suoi disegni attraverso le stampe ed ebbe nella sua scuola un grandissimo incisore come il bolognese Marcantonio Raimondi, che eseguì stampe memorabili dalle sue invenzioni, da intendere questa volta non solo come soggetti ma proprio come immagini. In ogni caso, non conosciamo l’invenzione che il Castiglione diede a Raffaello e non conosciamo un preciso dipinto, una precisa stampa o un preciso disegno che possano essere collegati con lavori di Raffaello oggi ancora conservati.Occorre indagare sulla base delle ipotesi. Ma la frase di Raffaello nella lettera ha un significato inequivocabile, qualunque sia la deduzione che noi ne ricaviamo. Significa che l’artista svolge la sua missione al massimo livello quando entra in sintonia con la classe intellettuale, che ha necessità di trasformare in immagini le proprie elaborazioni filosofiche e letterarie. L’artista è tanto più grande quanto più sa trarre disegni dagli spunti letterari e lo fa attraverso “varie maniere”.Quest’ultima espressione fa riflettere sull’impostazione generale che Raffaello aveva dato alla sua carriera di pittore. Nel linguaggio cinquecentesco, “maniera” vuol dire fondamentalmente “stile”, cioè modo di esprimersi attraverso specifiche formule disegnative e cromatiche e compositive. Non c’è dubbio sul fatto che Raffaello aveva affrontato un argomento del genere fin da giovanissimo e vi aveva dato una soluzione personale e molto interessante.

Per comprendere questo dato, che è essenziale per tutta la sua vicenda, occorre fare un passo indietro a tornare a Raffaello giovanissimo mentre impara l’arte nella bottega paterna a Urbino.L’ambiente artistico urbinate, nell’ultimo trentennio del Quattrocento, fu molto rilevante e stimolante, e Raffaello nacque in un mondo letteralmente votato all’arte. È plausibile che il giovanissimo Raffaello si sia formato nella bottega paterna e abbia assimilato per tempo l’elevato livello intellettuale che non poteva non esservi vigente. Giovanni Santi, il padre, non era solo un pittore di doti notevoli e di cospicua creatività, ma era anche uno scrittore apprezzato nell’ambiente della corte e orientato su valori umanistici di indubbia pregnanza. Nel preambolo alla sua famosa Cronaca rimata (cominciata alla fine degli anni Settanta e rimasta incompiuta per la morte), in cui descrive la situazione artistica del suo tempo, mostrandosi esperto del pensiero di Leon Battista Alberti e di Piero della Francesca e arrivando a mettere in luce anche le presenze giovanili che riteneva già degne di gloriosa memoria, Santi scrive che il committente deve essere il primo a elevare il proprio pensiero attraverso la cognizione delle virtù e delle Arti Liberali per diventare egli stesso discepolo delle Muse. Sono gli stessi principi su cui il grande figlio Raffaello imposterà la sua gloria nella Stanza della Segnatura in Vaticano, dove si dimostrerà memore di tale lezione e della dottrina bramantesca che a Urbino aveva trovato consacrazione in sintonia con le idee del duca Federico, sostenitore delle Arti del Quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia e musica) ed estimatore sommo delle Arti Meccaniche.Giovanni Santi era un dotto, storico e autore teatrale di qualche rilievo, che conosceva bene la biblioteca del duca Federico ricchissima di codici miniati, quasi a compendio di quella sapienza umanistica che nella corte di Urbino trovava degnissima dimora, consentendo a Raffaello fanciullo, accanto a suo padre, di conoscere tanti aspetti della pittura quattrocentesca anche di ambiente fiorentino. È da credere che Raffaello restasse sostanzialmente a Urbino fin quasi alla fine del secolo. Il padre muore nel 1494 quando il figlio ha undici anni, ma è possibile che ben presto Raffaello abbia raccolto la legittima eredità paterna assumendo la funzione di direttore della bottega urbinate, presso la quale lavoravano artisti di un certo calibro. Pensiamo per esempio a Timoteo Viti, un pittore di alta qualità, rientrato ventiquattrenne a Urbino dopo un apprendistato presso la bottega bolognese di Francesco Francia subito dopo la morte di Giovanni Santi, e a quell’Evangelista da Piandimeleto che è ricordato nel celebre documento dell’anno 1500 di allocazione della pala d’altare del San Nicola da Tolentino per la cappella dei Baronci nella chiesa di Sant’Agostino a Città di Castello, in cui compare il nome di Raffaello come “maestro”, un maestro definito “illustris” in un altro documento del tempo,

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Eusebio da Cremona resuscita tre uomini dalla morte, c. 1502-1503, olio su tavola, cm 25,6x43,9. Lisbona, Museu Nacional de Arte Antiga.

San Girolamo salva Silvano e punisce l ’eretico Sabiniano, c. 1502-1503, olio su tavola, cm 24,8x42. Raleigh, North Carolina Museum of Art.(a fronte) Crocifissione con due angeli, la Vergine e i santi Gerolamo, Maddalena e Giovanni Evangelista (Crocifissione Mond), 1503-1504, olio su tavola, cm 280x165. Londra, National Gallery.

all’età di diciassette anni. Dal padre, Raffaello aveva assimilato il supremo principio, più volte illustrato da Giovanni Santi nei suoi scritti, del ruolo della pittura nella società moderna consistente in una sostanziale parità con la letteratura e la storia. In alcuni versi della Cronaca rimata, Santi aveva scritto: “E il secul nostro tanto la divora / che una tal dote infusa da li dei / fra le mechaniche arte voglion porre / ingrati, iniqui, sconoscenti e rei”. Raffaello giovanissimo apprende questa invettiva ed è notevole il piglio polemico e generoso con cui Giovani Santi enuncia un presupposto che non fu certo il solo a sostenere ma che dovette essere al centro della sua vita di artista e soprattutto di direttore di una bottega importante. E qui emerge il grande tema dell’invenzione di cui Raffaello parla in apertura della lettera a Baldassar Castiglione. Giovanni Santi, infatti, dimostrò di aver compiuto un passo rilevante nella rivendicazione del ruolo del pittore come inventore del senso profondo dell’opera. Certo, si trattava di un principio umanistico vigente dalla generazione di Giotto e i suoi seguaci, ma alla corte di Urbino lo sviluppo vertiginoso della dottrina letteraria e teatrale implicava un vero e proprio scatto in avanti da parte del pittore, attribuendo all’arte la funzione di guida di tutte le attività che avessero a che fare con la sua visione. Nella cappella Tiranni della chiesa di San Domenico a Cagli, Giovanni Santi lascia uno dei suoi più alti capolavori, la Resurrezione di Cristo sovrastante una pala d’altare con la Madonna col Bambino e Santi. Tutto lo spazio della parete di fondo e l’arcone sovrastante sono invasi da un unico affresco, in cui la misura delle reciproche proporzioni e i rapporti tra i personaggi sono regolati da un principio di omogeneità totale. Lo spazio in cui è raffigurata la Resurrezione e quello della pala d’altare sottostante è lo stesso. La costruzione dello spazio inferiore è realizzata sulla base del principio della prospettiva centrale, composta con un’architettura illusiva; lo spazio della Resurrezione è un paesaggio in cui la tomba del Cristo è una piramide, dentro la quale l’incasso del sepolcro corrisponde allo schienale del trono della Vergine sottostante. Santi, all’interno dell’iconografia tradizionale

e consolidata, inventa la continuità dello spazio e delle figure, per cui i soldati che dormono mentre Cristo risorto benedice, poggiano un piede sulla cornice superiore della sacra rappresentazione sottostante, sopra la quale c’è la roccia del paese, dove Cristo risorge, che entra direttamente nella struttura architettonica dell’assemblea dei santi. L’opera è molto bella, anche se duramente segnata secondo l’influenza fiamminga che in Urbino era inevitabile per un maestro come Santi, ma dimostra la coscienza dell’invenzione da parte dell’umanista avverso alle convenzioni della forma e ansioso di dare una lezione solenne a chi non capisce cosa sia la pittura. Era nell’ambiente favorevole, ma per suo figlio la sfida era stata appena preparata. Santi lavora con una sola maniera ma è chiaro che è insofferente anche di questo, perché cerca una via di ampliamento delle cognizioni che l’ambiente urbinate sollecitava implicitamente. Piero della Francesca e Giusto di Gand, Pedro Berruguete, Francesco di Giorgio Martini e Bramante avevano dimostrato con la loro presenza quanto fosse difficile mantenere un unico livello di eloquio valido sempre e per tutti. Giovanni Santi vedeva bene come il sublime Botticelli e l’aspro Signorelli avessero convissuto proprio in quel periodo accanto a Perugino e al Pintoricchio, due umbri tanto simili e pure così intimamente contraddittori, accanto ai duri fiorentini come Ghirlandaio e Cosimo Rosselli o all’incompreso genio Bartolomeo della Gatta. Aveva visto l’esordio di Leonardo da Vinci, capiva come fosse maturo ormai il tempo per porsi il problema delle diverse maniere che avrebbero garantito l’imperituro trionfo della pittura, arte suprema e fonte di sapienza. Ma morì e suo figlio si misurava su quell’argomento senza sapere bene cosa volesse dire. Ma si misurava e sarebbe subito arrivato a delle conclusioni interessanti e innovative. Della pala di San Nicola da Tolentino, distrutta, sono rimasti un disegno meraviglioso nel museo di Lille, alcuni frammenti e una copia tarda. I frammenti sono bellissimi e soprattutto la figura del Dio Padre che incorona il santo è impressionante per qualità e energia rappresentativa. L’immagine del Dio Padre è risentita e possente, sembra

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Particolare di paesaggio costiero con scena mitologica e una grande sfera (all’interno una donna, un cane e un gatto) trainata da due navi, c. 1498-1500. Parigi, Louvre.

Pintoricchio, Partenza di Enea Silvio Piccolomini per il Concilio di Basilea, 1502-1507, affresco. Siena, Cattedrale, Libreria Piccolomini. (a fronte) Partenza di Enea Silvio Piccolomini per il Concilio di Basilea, penna acque-rellata con rilievo in bianco su tracce di punta metallica e quadrettatura a penna, cm 70,5x41,4. Firenze, GDS Uffizi. Modello di Raffaello per l’affresco del Pintoricchio.

sprigionata dall’invettiva di Giovanni Santi in difesa della pittura, sdegnato contro gli ignoranti. L’energia poderosa che percorre l’immagine potrebbe avere rapporti con l’influenza di Luca Signorelli e di Girolamo Genga che nell’aprile del 1499 risultano associati. Genga era urbinate e Signorelli aveva fornito a Urbino, proprio nell’anno della morte di Giovanni Santi nel 1494, l’interessante Gonfalone per la chiesa dello Spirito Santo in Urbino, su mediazione di un giovane artista locale, Filippo Gueroli, di cui nulla di preciso conosciamo. Dipinto sulle due facce, il Gonfalone rappresenta la Crocefissione su un lato e la Discesa dello Spirito Santo sull’altro. Non c’è un rapporto diretto tra i frammenti della pala di Città di Castello del San Nicola da Tolentino e il Gonfalone di Luca Signorelli, ma qualche aspetto dell’impostazione signorelliana si percepisce nella figura del Dio padre, nell’immagine della Vergine e negli angeli sopravvissuti. Non è possibile sapere con assoluta certezza se queste immagini salvate dalla distruzione della pala del San Nicola da Tolentino siano di Raffaello o di Evangelista da Piandimeleto, dato che non conosciamo opere certe di Raffaello antecedenti a quella pala con cui istituire un confronto stilistico e, nel contempo, non conosciamo nessuna opera di Evangelista da Piandimeleto. Occorre lasciar parlare le immagini, accontentandosi della ovvia constatazione che almeno questi frammenti sono stati eseguiti da uno dei due pittori, di cui paradossalmente ignoriamo tutto, ma non c’è dubbio che il Dio Padre è formidabile nella definizione dell’immagine e coerentissimo nella stesura, la Madonna è più morbida, come si addice al personaggio, e gli angeli oscillano tra il segno duro e risentito del Dio Padre e quello più vago e delicato della Vergine. A quella data è credibile che Evangelista da Piandimeleto

fosse un artista di sostenuta qualità e di aggressiva formulazione delle figure e che Raffaello giovanissimo fosse più incerto e meno consequenziale nella stesura di immagini, in ogni caso nate con un certo risentimento e asprezza? L’unica risposta legittima è nella constatazione di una presenza signorelliana a Urbino, presenza attestante la prima linea di sviluppo riscontrabile nei frammenti, e cioè lo stile aspro e roccioso che il Signorelli aveva affermato con forza alla fine del Quattrocento e che si contrapponeva in modo evidente ed esemplare alla “dolcezza” peruginesca. Tutti conoscevano tale carattere del Perugino, ipocrita per certi versi e seducente per altri, e tutti potevano notare come la durezza signorelliana ne fosse un contraltare, sia pure all’interno della stessa impostazione di linguaggio. I frammenti della pala del San Nicola sembrano essere stati fatti per rispondere a tale dialettica. Vi si riscontrano, infatti, l’uno e l’altro carattere senza che, evidentemente, fosse stata scelta una caratteristica predominante. Se i risultati che possono essere ricavati da tale indagine sono esatti, bisogna concludere che un’opera come la pala del San Nicola da Tolentino, nata nella bottega che Raffaello giovanissimo aveva ereditata dall’illustre padre, era chiaro indizio di una bottega privilegiante la forza del segno,

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(in alto) Natività della Vergine, c. 1497, olio su tavola, cm 25x50. Fano, Chiesa di Santa Maria Nuova.La Maddalena, c. 1502, matita nera, penna e inchiostro marrone, con quadratura a sanguigna e contorni traforati, cm 30,4x9,1. Berlino, Kupferstichkabinett, Staatliche Museen. Studio per santa Caterina, c. 1501, gesso nero lumeggiato di biacca, con quadratura a sanguigna e a punta metallica, contorni traforati, cm 29,5x11,5. Parigi, Louvre.Santa Caterina (recto, immagine a sinistra) e specchiatura marmorizzata (verso, immagine a destra), c. 1501, olio su tavola, cm 39x15. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.

(a fronte) Nozze mistiche di santa Caterina, c. 1497, olio su tavola, cm 51,2x37,7. Collezione privata. Pub-blicata negli anni ‘30 e recentemente anche da Carlo Pedretti, reca la firma “RAPHAEL SANT”.(a sinistra) Dettaglio ingrandito con la firma “RAPHAEL SANT” sul bordo della veste di Santa Caterina. Immagine con rotazione antioraria di 90° per renderla più leggibile.

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Il primo Autoritratto di Raffaello finora riconosciuto, c. 1500, gesso nero, cm 30,8x18,3. Londra, British Museum.

(sopra) Stendardo della Trinità, a sinistra: Trinità coi santi Sebastiano e Rocco, a destra: Creazione di Eva, c. 1500, olio su tela, cm 166x94. Città di Castello, Pinacoteca Comunale.

Croce processionale, 1498-1502, tempera e oro su tavola, cm 46,8x33,5 (dimensioni massime). Dipinta su entrambi i lati. Milano, Museo Poldi Pezzoli (con ipotesi di attribuzione a Raffaello).

Giovanni Santi o Raffaello (?), Madonna col Bambino, c. 1493 o 1497 (?), affresco, cm 97x67. Urbino, Casa di Raffaello.

l’icasticità della presentazione, l’energia espressiva che, a Firenze, avevano avuto un culmine esaltante nelle botteghe di Verrocchio e dei Pollaiolo su un ben altro piano di qualità ma con intendimenti analoghi. In altre parole, è lecito supporre che la bottega del giovanissimo Raffaello fosse impostata in modo “moderno”, se per modernità ci si riferisce all’ambiente coevo soprattutto pollaiolesco. Gli ambienti pollaiolesco e verrocchiesco si erano spinti molto avanti nella ricerca dell’“invenzione”, cioè dell’ideazione originale dell’opera d’arte, che portò Antonio Pollaiolo al capolavoro strepitoso della Tomba di Sisto IV per San Pietro in Vaticano e Verrocchio all’altrettanto impressionante monumento funebre di Lorenzo e Piero de’ Medici in San Lorenzo a Firenze. In queste opere i maestri fiorentini insegnavano a esaltare l’idea dell’“invenzione”. Perugino non la poneva in primo piano e la scuola che fioriva intorno a lui tendeva a un maggiore equilibrio e tranquillità del prodotto artistico. Come spesso accade, la linea peruginesca tendeva a prevalere. E sembrerebbe aver prevalso anche per il giovanissimo Raffaello, se si pensa a come la Crocifissione Mond, che dovrebbe essere del 1503, sia integralmente peruginesca, come se il giovanissimo maestro, appena esordiente, avesse immediatamente cambiato idea abbandonando l’impostazione signorellesca e diventando una sorta di “clone” del Perugino, tanto la Crocifissione Mond sembra

ricalcata pedissequamente, e molto bene, sul modello del maestro umbro che tutti amavano.Opportunismo? Scelta consapevole? Per comprenderlo bisogna tornare al senso profondo della lettera scritta al Castiglione tanti anni dopo. Qui c’è una frase che suona ipocrita e tipica del cortigiano e dell’adulatore. Riferendosi ai disegni che il maestro avrebbe fatto per dare corpo all’idea suggeritagli dal Castiglione stesso, dice: “Soddisfaccio a tutti, se tutti non mi sono adulatori; ma non sottisfaccio al mio giudicio, perché temo di non satisfare al vostro”. Che modestia! Nell’involuto e sovente asfissiante linguaggio cinquecentesco, Raffaello sembra trovarsi a suo agio. Da dove aveva tratto tutta questa discrezione, questa così encomiabile autocritica? Non si può rispondere, è ovvio, ma si può supporre che a questo tipo di atteggiamento il giovane Raffaello si fosse abituato ben presto. Tutti sappiamo, da che mondo è mondo, che non si può fare tutti contenti. Ma è probabile che Raffaello avesse cominciato la sua carriera proprio a partire da un’idea simile e che questa idea fosse rimasta radicata in lui per il resto della vita, fino a portarlo al collasso finale della fase estrema. Perché una cosa è certa: nella carriera emblematica e meravigliosa di Raffaello c’è tutto. C’è il trionfo più totale e c’è la caduta più grave. Forse era stata una necessità, quella di piacere a tutti e a tutti i costi. Forse proprio perché aveva ereditato una bottega tanto importante ed era tanto giovane.

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Resurrezione di Cristo, c. 1501, olio su tavola, cm 52x44. San Paolo, Museu de Arte. Perugino, Resurrezione di Cristo, c. 1500, olio su tavola, cm 224x162. Pinacoteca Vaticana. Fu commissionata al Perugino nel 1499. In passato si è ipotizzata la collaborazione di Raffaello.

Forse perché aveva avvertito il senso della responsabilità troppo presto e male. Fatto sta che l’untuosa frase rivolta al Castiglione non è soltanto un obbligo letterario tipico del tempo (e lo era), ma è anche il riflesso di un’impostazione che il giovanissimo dovette fare sua. Occorre seguire passo passo l’evoluzione probabile del giovanissimo maestro dal momento della consegna della pala di San Nicola da Tolentino, commissionata nell’anno 1500 e pronta l’anno dopo, al Matrimonio della Vergine, oggi nella Pinacoteca di Brera, che reca la data 1504. In questi quattro anni, la storiografia ha ritenuto di poter collocare la commissione dell’Incoronazione della Vergine da parte della badessa delle monache clarisse di Monteluce presso Perugia e la Crocifissione Mond, su cui venne letta la data del 1503, ma la questione di tale data va ben chiarita. La Crocifissione Mond, in realtà, fu dipinta per l’altare della famiglia Gavari nella chiesa di San Domenico, a Città di Castello, dove la vide Giorgio Vasari. Dopo essere stata acquistata da un francese, l’opera peregrinò fino a arrivare all’attuale sede della National Gallery di Londra. È firmata ma non datata. La data 1503 sarebbe stata letta in un’iscrizione della cappella dal Margerini Graziani alla fine dell’Ottocento e la maggior parte della storiografia confida su tale dato. Sopravvivono due predelle, in origine sottostanti alla Crocifissione, con

raffigurazioni di miracoli di San Gerolamo. Se l’opera è veramente del 1503, la connessione con il Matrimonio della Vergine di Brera diventa veramente stringente e risolutivo. Prima di tutto perché siamo nello stesso ambito geografico e secondariamente perché il livello stilistico sembra veramente identico e giustificherebbe un’evoluzione lineare e comprensibile del giovane artista. Il Matrimonio della Vergine, infatti, fu commissionato dalla famiglia Albizzini per la cappella di San Giuseppe nella chiesa di San Francesco a Città di Castello, dove rimase fino alla fine del Settecento per approdare poi a Brera. La grande e decisiva affinità con la Crocifissione Mond si riassume in un solo e semplice concetto: il peruginismo a oltranza, per cui sembra che Raffaello sia diventato il seguace più fedele e più scrupoloso di Pietro Vannucchi detto il Perugino. Ma lo era veramente? Nella risposta a questa domanda si cela una chiave di interpretazione decisiva per tutta la carriera futura del maestro. Il paradosso, infatti, consiste nella constatazione, sempre evidenziata dagli storici, per cui non risulta che Raffaello Sanzio sarebbe mai stato veramente allievo del Perugino. Anzi, l’attribuzione a Raffaello giovanissimo, che ha avuto grande fortuna, di un celebre “cartone” conservato agli Uffizi di Firenze e raffigurante La partenza di Enea Silvio Piccolomini per la crociata, preparatorio per uno degli affreschi eseguiti dal Pintoricchio e scolari all’inizio del Cinquecento nella Libreria Piccolomini annessa al Duomo di Siena, costituisce la più forte remora a una piena adesione alla teoria dell’alunnato di Raffaello presso il Perugino. Perché in quegli anni tra il 1501 e il 1503 o si era seguaci del Pintoricchio o del Perugino. Non si conoscono altri casi di una sorta di discepolato misto tra i due massimi pittori umbri del tempo. E non sono sovrapponibili le esperienze del Perugino e del Pintoricchio a quella data. Ma Raffaello non dichiarò nella lettera al Castiglione che voleva piacere a tutti ma soprattutto a se stesso? Qual è dunque il se stesso, quando l’urbinate comincia a metter la testa fuori dalle certezze della bottega paterna e si muove alla conquista di una committenza più importante e moderna rispetto alle esigenze del lavoro artistico a Città di Castello? E qual era, in definitiva, la rilevanza di questa cittadina nell’ambito più generale del lavoro artistico nell’Italia centrale all’aprirsi del nuovo secolo XVI? La risposta è, forse, nell’altra opera cruciale che Raffaello esegue in quel momento, sempre per Città di Castello, il cosiddetto Stendardo, opera determinante su cui la storiografia è rimasta molto incerta nel corso del tempo.

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Studi anatomici, penna, c. 1498-1500, cm 31,4x19. Londra, British Museum. Bacco in piedi (cosiddetto “Idolino”), già attribuito al Perugino, ora a Raffaello, matita nera, biacca leggermente ossidata, tracce di stilo e di penna su carta ingiallita, cm 39x19,7. Firenze, GDS Uffizi.

(in alto) Perugino, Madonna col Bambino, c. 1500, olio su tavola, cm 70,2x50.Washington, National Gallery of Art. (sopra) Studio per una Madonna del libro (Madonna Solly), c. 1502, penna, cm 12,3x12,2. Parigi, Louvre.

(in alto a destra) Particolare della veste della Madonna di pagina 32.(in alto) Madonna con san Giovannino e il Bambino (Madonna Diotallevi), 1503, olio su tavola, cm 69x50. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.(sopra) Studio per la Madonna con la melagrana, c. 1504, gesso grigio, cm 41,1x29,5. Vienna, Albertina.

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Madonna col Bambino, 1502-1503, olio su tavola, cm 55,2x40. Pasadena, Norton Simon Art Foundation.

Madonna Solly, c. 1502, olio su tavola, cm 52x38. Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie.

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(a fronte) San Sebastiano, c. 1502, olio su tavola, cm 43×34. Bergamo, Accademia Carrara.Madonna con il Bambino e i santi Gerolamo e Francesco, c. 1502, olio su tavola, cm 34x29. Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie.