Portare La Macchina in Stato Di Veglia
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Portare la macchina in stato di veglia
L’essere umano è costituito di una macchina biologica – un apparato
psicofisico – e un’anima, ossia il suo vero Sé. La macchina biologica si
trova nell’uomo comune in uno stato di più o meno profondo
addormentamento, il che le impedisce di venire utilizzata efficacemente
dall’anima per i suoi scopi evolutivi.
L’anima di per sé non è né sveglia né addormentata, è semplicemente
Presenza allo stato puro, ma non riesce a comunicare né a governare
l’apparato psicofisico finché questo resta addormentato. L’anima si è, per
così dire, identificata con la macchina biologica addormentata e ne subisce
la volontà. La macchina è infatti dotata di una grande forza di volontà, tanto
da permettersi di trascinare lo stesso Sé nei suoi loschi affari.
Le macchine biologiche terrestri, per esempio, provano un sinistro piacere
nello scegliere e poi acquistare una grossa automobile nuova, nel guardare
la partita di calcio con gli amici, nel ballare ritmi latino-americani e,
soprattutto, nel viaggiare verso le principali mete turistiche. È infatti
d’obbligo per un apparato psicofisico che si rispetti essere stato almeno una
volta a Barcellona, Parigi, Londra, Miami, New York ed Egitto, pubblicare su
facebook le immancabili foto, e parlarne poi a lungo, la sera, dopo una
giornata lavorativa da servi del sistema, con gli amici che ci sono già stati
oppure con quelli che desiderano andarci a breve (“perché non puoi perderti
New York”).
Se osserviamo da vicino il comportamento d’un apparato psicofisico
addormentato potremmo inorridire nel sorprenderci a considerare davvero
importante quale tipo di automobile guidiamo oppure quanto sbaveranno gli
uomini se indossiamo quella gonna così corta. Che questo avvenga
consciamente o inconsciamente... non fa alcuna differenza.
Nell’addormentamento consideriamo come “nostro carattere” o “nostro stile
di vita” ogni genere di turba psichica della macchina, la quale può anche
prodursi in grandi discorsi filosofici ma poi di norma possiede un senso
morale che si trova una tacca sotto quello di un cacciatore di delfini
peruviano, e che le consente di mettere in atto comportamenti come tenersi
il resto in eccesso che la cassiera ci ha dato per errore oppure fare sesso
con l’amante nel pomeriggio e poi andare a cena con la moglie e i figli.
Vista così, un’anima in balia d’una macchina biologica può risultare
estremamente divertente, almeno quanto un bambino lasciato chiuso dentro
un’automobile parcheggiata in cima a una discesa, cui si è appena rotto il
freno a mano.
Ma esiste una via d’uscita per questa poco invidiabile situazione?
Sicuramente. Ma questa via non passa per una modificazione diretta
dell’apparato psicofisico stesso, in quanto i tentativi portati in tal senso non
forniscono risultati permanenti in termini di sviluppo dell’anima. In altre
parole, gli sforzi messi in atto per interrompere certi comportamenti della
macchina sono pericolosi per la macchina stessa e a lungo andare inutili.
Tutto ciò che possiamo fare è sforzarci di portare la macchina in stato di
veglia, anziché tentare di modificare gli aspetti della macchina che non ci
piacciono. Questo particolare stato di intensa Presenza, se applicato
costantemente, guarisce in maniera naturale le distorsioni energetiche
presenti nell’apparato psicofisico, senza per questo doversi soffermare sul
significato mentale e storico della singola emozione negativa. Non si tratta
di “modificare le credenze inconsce” (ammesso che qualcuno ci riesca
davvero) né di andare a vedere in che modo il tono di voce della mia
maestra elementare ha influenzato la mia sessualità di oggi. Si tratta di
svegliare la macchina affinché l’anima possa servirsene.
Tutto ciò che percepiamo come “aspetti negativi della macchina” è sempre,
in ultima analisi, il risultato dello stato di sonno dell’apparato psicofisico. Se
interrompiamo lo stato di sonno, interromperemo anche, come effetto
collaterale di tale interruzione, le manifestazioni negative dell’apparato
psicofisico, senza aver necessariamente lavorato su ogni singola
manifestazione.
Il sonno della macchina è la sorgente di energia di ogni nostra
manifestazione negativa. Svegliare l’apparato psicofisico è molto più
radicale che riprogrammare le reazioni inconsce dello stesso, sebbene,
come spiegherò a breve, i tentativi di risveglio della macchina sono
intimamente collegati con le nostre distorsioni inconsce. Il punto è che finora
pochi in Italia sono riusciti a operare questo risveglio della macchina. Uno è
morto di recente e gli altri si guardano bene dal far vedere la loro faccia in
giro.
La dimensione animica in verità non è da un’altra parte, si trova sempre
sotto gli occhi della macchina biologica, anche in questo istante, mentre
leggete, ma non potete percepirla perché, per l’appunto, la macchina che
utilizzate è addormentata.
Fortunatamente l’apparato psicofisico tende a portarsi in stato di veglia in
maniera spontanea. Ma sfortunatamente tutte le volte che giunge vicino al
risveglio noi mettiamo in atto ogni comportamento possibile per farlo
ricadere nel sonno.
Quando, a causa di un evento esterno, la macchina innalza il suo livello
vibratorio e si porta alle soglie del risveglio, noi la ricacciamo indietro. Un
eccessivo innalzamento della frequenza vibratoria viene infatti percepito
come un dolore più o meno intenso sul piano emotivo. Lo stato di veglia è
scomodo, procura fastidio, fa male. E noi non siamo stati educati a
percepire il nostro dolore emotivo come un tentativo della macchina di
uscire dal sonno. La verità è che non siamo abbastanza coraggiosi dal
sopportare l’intenso dolore causato dal risveglio di un apparato psicofisico
che è abituato a stare nel sonno.
Ogni volta che – stimolato da un evento della vita – l’apparato psicofisico si
avvicina al risveglio, noi avvertiamo questo innalzamento vibratorio come
rabbia, frustrazione, paura o un’intensa gelosia. Questo sentire è solo un
riflesso del fatto che quella frequenza vibratoria è troppo elevata per il
nostro sistema nervoso; in altre parole, non siamo fisicamente pronti per il
risveglio. Come conseguenza mettiamo in atto comportamenti che
diminuiscono il dolore, ossia cerchiamo di far ridiscendere il livello vibratorio
modificando con le parole o con i fatti l’evento esterno oppure rimuovendolo
dal nostro ricordo nel più breve tempo possibile.
Non è vero infatti che “il tempo guarisce ogni ferita”, bensì che il tempo
rimuove la ferita e la conserva nell’inconscio, ma questa prima o dopo
creerà un’altra situazione con il fine di richiamare l’attenzione su di essa.
Cambieranno i personaggi capaci di far riemergere le ferite inconsce, gli
uomini che incontriamo non avranno più esattamente il volto di nostro padre
e le donne non avranno il volto di nostra madre; potranno essere il
capufficio, un amante o il partner, ma la loro energia richiamerà in qualche
modo le figure parentali. Noi crederemo di essere attratti da quella persona
quando invece rispondiamo a un’esigenza della macchina biologica ferita.
Ma tutto può essere cambiato.
Quando l’anima esercita la sua Presenza e la forza della sua Attenzione – a
lungo e in maniera costante – può utilizzare la macchina per produrre
emozioni superiori, ma per farlo deve approfittare proprio di quei momenti in
cui la vita stessa la conduce a un passo dal risveglio per mezzo di situazioni
dolorose. Buon Lavoro.
Riconoscere la prossimità allo stato di veglia
Una delle difficoltà più importanti che mi trovo a fronteggiare quando cerco
di spiegare ad altri quello che in passato è successo a me, riguarda
l'insegnare a riconoscere la prossimità allo stato di veglia. Le persone infatti
si avvicinano sovente – più sovente di quanto crediamo – allo stato di
veglia, ma non lo riconoscono e lo rifuggono in quanto troppo doloroso.
Un autentico ingresso nello stato di veglia, infatti, provoca un dolore che
solitamente parte dal plesso solare e si diffonde sia fisicamente che
emotivamente lungo l'intera macchina biologica. Dal momento che
culturalmente associamo alle esperienze spirituali solo sensazioni di
beatitudine ed estasi, tentiamo di scacciare proprio quelle esperienze
spirituali “di picco” – elevate dosi di sofferenza emotiva o fisica – che ci
aprirebbero le porte del risveglio.
Tali esperienze sono lì con lo scopo di svegliarci, ma noi non siamo
sufficientemente coraggiosi da “cavalcare la tigre” o “spalancare la bocca
del leone” (come fa la donna dell'arcano numero 11, La Forza).
Correva l'anno 1993. Era da poco uscito al cinema Bagliori nel buio, e
questo è già un fatto degno di nota. Quel giorno mi trovavo in uno stato di
rabbia a causa di qualcosa che era accaduto poche ore prima. Nel corso
d'un servizio notturno durante il periodo della mia vita che ho trascorso nel
reparto dei carabinieri paracadutisti del Tuscania si era verificato un fatto
increscioso: un mio collega aveva accusato me d'un errore di fronte ai
superiori e io non potevo dimostrare di aver ragione. Inoltre sapevo che il
collega era pure in buona fede, ossia che non si era realmente accorto di
essere stato lui a sbagliare e non io, perché dal suo punto di vista lui aveva
semplicemente seguito le procedure corrette d'ingaggio. Insomma, tutti
avevano fatto le cose bene, ma nonostante questo alla fine c'era stato un
incidente e qualcuno si era fatto male nel corso d'un conflitto a fuoco
(eravamo di servizio in Sicilia nell'ambito dell'operazione denominata Vespri
Siciliani).
Stavo ribollendo di rabbia. Una rabbia che aumentava per il fatto che tutta la
situazione sapeva di assurdo e che in realtà non avevo nessuno con cui
prendermela veramente per ciò che mi stava accadendo. Era un rabbia
simile a quando ci accade qualcosa a cui non possiamo più rimediare.
Oramai è successo e possiamo solo starci male, perché anche se ce la
prendiamo con qualcuno... non cambia nulla. Come quando ti muore un
parente durante un intervento e cerchi di far tacere il tuo dolore incolpando il
chiururgo.
La cosa che mi bruciava di più era che io, pur essendomi comportato bene,
avevo fatto la figura dello stupido.
Non potendo lasciare quel luogo dove ero circondato da colleghi, feci una
cosa che poi avrei fatto ancora molte volte nella mia vita: mi isolai
rinchiudendomi nel bagno.
E qui accadde per la prima volta.
La mia macchina biologica entrò in uno stato di veglia.
All'epoca non sapevo nulla di “lavoro su di sé”, per cui a un certo punto,
mentre ero seduto sulla tazza del cesso a bestemmiare, in maniera del tutto
spontanea smisi di pensare agli “attori” del teatrino che stavo vivendo, smisi
soprattutto di pensare a come avrei voluto sfogare su di loro la mia rabbia, e
la mia attenzione si posò sul mio plesso solare particolarmente infuocato.
Tutto accadde da sé. Si verificò un istante di silenzio assoluto. E poi fu
come scivolare nella tana del Bianconiglio. Ebbi la sensazione che alcune
aree della mia testa prendessero fuoco, come se un liquido caldo si
muovesse attraverso canali che prima non ne erano mai stati irrorati. Un
formicolio prese origine da dietro la nuca e si diffuse in tutto il mio corpo fino
a raggiungere la punta delle dita.
L'angusto gabinetto in cui mi trovavo rimase lo stesso... ma non era più lo
stesso. Chiunque tenti di descrivere questo genere di mutamento della
percezione di solito fallisce miseramente. Forse il modo più corretto per
affrontare la questione è affermare che finalmente vedevo quel gabinetto
per quello che era, come se mi fosse caduto un velo. Il lavandino, lo
specchio, l'asciugamani... era tutto più “vivo” rispetto a prima e io stesso mi
sentivo più “vivo” rispetto a prima.
La mia mente taceva e io non ero più arrabbiato. Il fuoco che fino a poco
prima aggrediva il mio plesso solare tanto da causarmi nausea, si era
sciolto e distribuito lungo i nervi di tutto il mio corpo.
Ero salito su un altro piano di energia. Vibravo a un'altra velocità.
Nonostante non capissi niente di quello che mi stava accadendo, mi
rendevo conto di stare meglio di prima ed ero contento. In effetti il problema
con il mio collega e il relativo incidente avevano perso ogni connotazione
negativa. Questa consapevolezza, ossia il fatto che la sofferenza legata alla
situazione non fosse oggettiva ma dipendesse unicamente dal mio stato di
coscienza, mi rese gioioso. Sentivo che davanti a certe situazioni della vita
non era obbligatorio soffrire!
Mi venne da piangere e lo feci.
La mia macchina biologica rimase sveglia per pochi minuti, poi tutto tornò
come prima... o quasi; restai in uno stato leggermente alterato (come se
avessi fumato) per il resto della giornata e parte della notte. Non ne parlai a
nessuno e con il tempo – incredibilmente – dimenticai l'episodio e tornai alle
mie rabbie quotidiane. Non avevo ancora un contesto intellettuale a cui
ancorare ciò che mi era accaduto, per cui l'esperienza in breve tempo si
volatilizzò. Sarebbe ritornata alla mia memoria molti anni dopo, quando
avrei deciso d'intraprendere un percorso di crescita interiore.
Quanto più dolore proviamo tanto più siamo vicini a un'esperienza di
risveglio dell'apparato psicofisico. La sofferenza della macchina biologica
indica la prossimità allo stato di veglia. A questo punto una chiave
importante è l'Attenzione: restare concentrati sul dolore e non disperdere
l'energia. Si tratta di mettere in pratica un principio alchemico: cuocere a
fuoco lento la materia. Se la macchina si surriscalda significa che non si
trova più nella zona di comfort e tende a entrare nello stato di veglia. Se
resistiamo alle alte temperature è probabile che riusciamo a svegliarla...
almeno per un po'.
Il surriscaldamento della macchina, che noi percepiamo come sofferenza
emotiva, non va vissuto in maniera negativa, ma come segnale certo d'un
fenomeno eminentemente spirituale. A questo punto è importante non
reagire con la fuga o con la vendetta nei riguardi delle persone che ci
circondano, perché questo diminuisce il regime della fiamma e allontana dal
Regno dei Cieli. Ma, ovviamente, non dobbiamo esagerare, perché ogni
alchimista possiede un diverso livello di tolleranza al fuoco e il rischio è
quello di “bruciare” l'apparato psicofisico rendendolo inservibile.
Per evitare di disperdere l'energia abbassando il regime della fiamma è
indispensabile smettere di considerare gli eventi esterni come causa delle
nostre sofferenze. Questo è il passo più difficile e allo stesso tempo
fondamentale. La proiezione del nostro stato emotivo sulle persone intorno
a noi costituisce infatti una trappola terribile. Arrabbiarsi con qualcuno che si
trova all'esterno di noi equivale a far “sfiatare” una condotta per ridurne la
pressione all'interno. E in effetti talvolta può risultare indispensabile ridurre
la pressione all'interno della maccchina biologica per evitare che esploda.
Le nostre cariche emotive irrisolte creano letteralmente il nostro futuro... o
meglio, l'illusione del futuro, perché in verità a un certo punto ci sarà
evidente che lo scorrere stesso del tempo è solo un'illusione originata dalla
ripetizione seriale di episodi tutti analoghi. La trasmutazione della carica
emotiva sarebbe infatti di per sé un'operazione istantanea, slegata dal
tempo e dal concetto di “percorso”. Ma se l'apparato psicofisico non è
capace di reggere elevati livelli di fuoco in una sola volta, allora la vita
“frantuma” il processo di trasmutazione in episodi differenti la cui
successione dà origine alla sensazione del tempo che scorre in avanti.
Io non ho paura
Questa iscrizione si trova all’ingresso del cimitero di Sarno (Salerno):
“Chiesi a Dio di essere forte per eseguire progetti grandiosi ed egli mi rese
debole per conservarmi nell’umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute per realizzare grandi imprese ed
egli mi ha dato il dolore per apprezzarla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto e mi ha lasciato povero per
non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me ed egli mi
ha dato l’umiliazione perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita e mi ha lasciato solo la vita perché
io potessi essere contento di tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo, ma mi hai dato tutto
quello di cui avevo bisogno e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato mio Signore, perché fra tutti gli uomini nessuno possiede più di
quello che ho io.”
La preghiera è stata scritta da Kirk Kilgour (1947-2002) e da lui recitata in
piazza San Pietro a Roma davanti a papa Giovanni Paolo II. Kirk Kilgour è
un atleta americano campione di pallavolo, giocatore di serie A in Italia, che
nel 1976 a causa di un incidente in allenamento resta paralizzato ai quattro
arti in maniera irreversibile. Tra le varie attività a cui si dedicherà nella sua
nuova vita spicca quella di “motivatore”, insegnava cioè sia ad altri
tetraplegici che ai cosiddetti normali come affrontare l’esistenza! Lui... che
non poteva più muovere né braccia né gambe.
Potrei commentare questa vita eccezionale, invece vado avanti e raddoppio
con un’altra vita eccezionale. Io non ho paura è il titolo del libro che
racconta la storia di Francesca Pedrazzini, 38 anni, insegnante di diritto, tre
figli di 10, 7 e 3 anni. A loro e al marito dirà, prima di morire di cancro
(nodulo al seno e poi metastasi a fegato e ossa): “Il tempo è prezioso. Io
non ho paura. Sono contenta”.
Quando Francesca ha capito di essere alla fine ha detto al marito di non
preoccuparsi “perché io sono in pace, sono certa di Gesù e curiosa di
vedere quello che mi aspetta”. Ha baciato i suoi bambini accarezzandoli:
“Vado in un posto bellissimo, da Gesù. E quando sarò lì, dovete fare una
festa”.
Senza paura, contenta, curiosa... certa!
Cosa ha permesso a Francesca Pedrazzini di morire così? Se si può
trattare la morte – che è la paura alla base di tutte le paure – in questo
modo, allora si può affrontare qualsiasi circostanza della vita con lo stesso
coraggio eroico.
Il punto è che ho sentito dire fin troppe volte: “Io non ho paura di morire, ma
ho paura di perdere i miei cari... ho paura di diventare povero e non poter
mantenere la mia famiglia... ho paura di restare su una sedia a rotelle...
(che è poi ciò che è successo a Kirk Kilgour)”. Ogni piccola paura è però la
paura che muoia una parte di noi, della nostra identità. La paura è sempre
paura di morire, ma non concerne l’estinzione del nostro corpo fisico, bensì i
nostri attaccamenti mentre siamo ancora in vita: i parenti, la salute fisica,
l’abbandono del partner.
Una delle prerogative delle antiche scuole esoteriche consisteva
nell’insegnare a morire. Non si trattava di sterili “meditazioni sulla morte” in
stile new age, ma di far emergere volutamente aspetti del proprio carattere
nel corso della vita di comunità, per poi far morire – o “passare a miglior
vita”, ossia trasmutare – quegli stessi aspetti, causa di sofferenza e
malessere.
Per mezzo dell’autosservazione quotidiana e della Presenza applicata in
maniera costante ai momenti in cui emergono le emozioni negative, a un
certo punto diviene possibile individuare quella che possiamo definire come
“caratteristica principale” o “debolezza principale” o “reazione cronica” della
personalità, ossia il modo consueto utilizzato dalla personalità per difendersi
dallo stato di veglia. Questo meccanismo reattivo si manifesta nel
comportamento, nelle posture abituali (quando mangiamo, quando
parliamo, ...), nelle espressioni facciali, nei modi in cui ci innamoriamo, nelle
fattezze fisiche di coloro di cui ci innamoriamo, ecc.
Se chiedessimo all’uomo medio che si aggira compiaciuto tra la folla
dell’Ikea qual è lo scopo della sua esistenza, qualunque risposta egli dia
(viaggiare, mettere su famiglia, fare sesso con tanti partner, cantare a x-
factor, ecc.) la risposta autentica che è sottesa a tutte le altre è una sola:
“L’intero scopo della mia esistenza è trovare modi sempre nuovi per
mantenere lo stato di addormentamento della mia macchina biologica”.
Un individuo può dirsi “sul sentiero” non quando muta questo suo
agghiacciante scopo – il che avviene, in maniera reale e non solo
intellettuale, molto più avanti – ma quando questo suo scopo mirante al
sonno diviene consapevole. Allora, in un contesto di lavoro su di sé, ogni
volta che emerge la sua “reazione cronica” (rabbia, nel 90% dei casi,
oppure una qualunque paura legata a qualche trauma dell’infanzia) egli
potrà dirsi: “Ci siamo! Se è entrata in gioco la mia reazione cronica significa
che sono prossimo allo stato di veglia. Non devo disperdere energia, ma
restare in uno stato di massima Presenza, se voglio scorgere il portale
quando mi si presenta... e attraversarlo”.
Per cui, la prossima volta che vi troverete faccia a faccia con la vostra
emozione negativa ricorrente, ripensate a questo articolo e ditevi: “Io non ho
paura!”.
Salvatore Brizzi
http://www.salvatorebrizzi.com