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24121 Bergamo, via Pignolo, 123tel. 035 2052 422 fax 035 2052 430 e-mail: [email protected] Università degli Studi di Bergamowww.unibg.it Cod. Fiscale 80004350163 P.IVA 01612800167 POLITICHE DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE IMMIGRAZIONE: RIFUGIATI / RICHIEDENTI ASILO SVILUPPO: PRINCIPIO DI CONDIZIONALITÀ *** Mentre le politiche sull’immigrazione hanno fatto parte integrante della politica di cooperazione della CE sin dalla firma del Trattato di Roma del 1957, per quanto riguarda la dimensione interna alla Comunità, le politiche sull’immigrazione di cittadini di Stati terzi rispetto alla CE e la correlata questione dell’asilo sono divenute vero oggetto di attenzione e dibattito solo a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso. Lo sviluppo di un mercato unico e l’abbandono delle frontiere interne e dei relativi controlli furono visti come condizionati alla creazione di controlli sulle frontiere esterne. Oggi si assiste a tentativi di armonizzare le politiche di immigrazione in riferimento a cittadini non comunitari, così come le politiche di asilo. Preliminarmente ad ogni considerazione, è utile fornire uno schematico quadro riassuntivo delle fonti giuridiche di rilievo nell’ambito del diritto dell’immigrazione, che saranno successivamente riprese ed approfondite nella trattazione. Di importanza fondamentale è senz’altro la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani , adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. I trenta articoli di cui si compone sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona. Per quanto di specifico interesse in questa sede, vi si proclama il diritto alla vita, alla libertà e sicurezza individuali 1 , alla libertà di movimento 2 . Vi si proclama inoltre che nessuno può essere fatto schiavo 3 o sottoposto a torture o a trattamento o punizioni crudeli, disumani o degradanti 4 e che nessuno dovrà essere arbitrariamente arrestato, incarcerato o esiliato 5 . Vi si sancisce altresì che tutti hanno diritto ad avere una cittadinanza 6 , a fruire di adeguate condizioni di vita e a richiedere asilo in caso di persecuzione 7 . 1 In particolare, art. 3: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.” 2 Art. 13: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese.” 3 Art. 4: “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; La schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.” 4 Art. 5: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.” 5 Art. 9: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.” 6 Art. 15: “1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, nè del diritto di mutare cittadinanza.”

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POLITICHE DI COOPERAZIONE INTERNAZIONALE

IMMIGRAZIONE: RIFUGIATI / RICHIEDENTI ASILO

SVILUPPO: PRINCIPIO DI CONDIZIONALITÀ

***

Mentre le politiche sull’immigrazione hanno fatto parte integrante della politica di cooperazione della CE sin

dalla firma del Trattato di Roma del 1957, per quanto riguarda la dimensione interna alla Comunità, le

politiche sull’immigrazione di cittadini di Stati terzi rispetto alla CE e la correlata questione dell’asilo sono

divenute vero oggetto di attenzione e dibattito solo a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso.

Lo sviluppo di un mercato unico e l’abbandono delle frontiere interne e dei relativi controlli furono visti

come condizionati alla creazione di controlli sulle frontiere esterne.

Oggi si assiste a tentativi di armonizzare le politiche di immigrazione in riferimento a cittadini non

comunitari, così come le politiche di asilo.

Preliminarmente ad ogni considerazione, è utile fornire uno schematico quadro riassuntivo delle fonti

giuridiche di rilievo nell’ambito del diritto dell’immigrazione, che saranno successivamente riprese ed

approfondite nella trattazione.

Di importanza fondamentale è senz’altro la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, adottata

dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

I trenta articoli di cui si compone sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali

di ogni persona.

Per quanto di specifico interesse in questa sede, vi si proclama il diritto alla vita, alla libertà e sicurezza

individuali1, alla libertà di movimento2. Vi si proclama inoltre che nessuno può essere fatto schiavo3 o

sottoposto a torture o a trattamento o punizioni crudeli, disumani o degradanti4 e che nessuno dovrà essere

arbitrariamente arrestato, incarcerato o esiliato5.

Vi si sancisce altresì che tutti hanno diritto ad avere una cittadinanza6, a fruire di adeguate condizioni di vita

e a richiedere asilo in caso di persecuzione7.

1 In particolare, art. 3: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.” 2 Art. 13: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato. 2. Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese.” 3 Art. 4: “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; La schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma.” 4 Art. 5: “Nessun individuo potrà essere sottoposto a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti.” 5 Art. 9: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato.” 6 Art. 15: “1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, nè del diritto di mutare cittadinanza.”

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Il respiro di portata universale caratterizza anche due ulteriori strumenti, i Patti internazionali sui diritti

dell’uomo adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 (Patto internazionale

sui diritti economici, sociali e culturali e Patto internazionale sui diritti civili e politici e relativo Protocollo

facoltativo), i quali, insieme alla summenzionata DUDU, formano il cd. Codice Internazionale dei Diritti

Umani.

Restringendo l’analisi ad un’ottica più continentale, vanno menzionati gli Accordi di Schengen del 1985, con

cui i Paesi aderenti hanno creato un’area di sostanziale libera circolazione interna. Tale trattato (di cui fanno

parte 25 Paesi UE e 3 Paesi extra UE, Islanda, Norvegia e Svizzera), è stato integrato nel cd. Primo Pilastro

del Trattato sull’UE tramite il Trattato di Amsterdam del 1997.

A livello nazionale, basti qui citare l’art. 10 della Costituzione8 nonché, quale normativa ordinaria, il cd.

Testo Unico sull’immigrazione (D. Lgs. 286/98) ed il relativo regolamento attuativo (D.P.R. 394/99),

caratterizzati dall’ampia liberta interpretativa lasciata ai vari enti territorialmente competenti (Ministero

dell’Interno, Prefettura, Questura, prescindendo volutamente dagli aspetti lavoristici), con tutte le

conseguenze del caso.

Per sua stessa natura, il settore del diritto che si occupa di immigrazione e di asilo è collocato in una zona

ove vi è conflitto tra particolarismo ed individualismo.

In ultima istanza, coloro che prendono parte a questo dibattito hanno una scelta tra due paradigmi

fondamentali:

- l’uno che dà rilievo alla realizzazione globale dei diritti umani;

- l’altro che predilige gli interessi di una certa popolazione.

Partendo dal presupposto che le risorse per la realizzazione dei diritti civili, politici, economici, sociali e

culturali sono scarse, si dovrebbe optare per un livello limitato di protezione degli stessi a favore di un

gruppo esteso di soggetti ovvero per un livello di protezione più esteso a favore di un gruppo di soggetti più

limitato?

La visione e l’obiettivo di una buona qualità di vita è meglio raggiunto se un’avanguardia d’elite apre la

strada o la giustizia impone che il progresso avvenga in eguale misura per tutti?

7 Art. 14: “1. Ogni individuo ha diritto ad una cittadinanza. 2. Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua cittadinanza, nè del diritto di mutare cittadinanza.” 8“L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge. Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.”

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E come vanno distribuite le riserve statali per la protezione?

Nell’ambito della protezione statale, una differenza significativa è quella tra cittadini e non-cittadini; ciò è

evidente a livello di diritto costituzionale così come a livello di diritto internazionale umanitario: entrambi

accordano una protezione più di favore ai cittadini dello Stato.

Un’altra distinzione di rilievo è quella tra coloro che sono all’interno ovvero all’esterno della giurisdizione

statale: il diritto internazionale umanitario si applica, quale forma “base” di protezione, a tutti coloro che si

trovano nella giurisdizione degli Stati contraenti.

Quale corollario della supremazia dello Stato, si evidenzia come gli Stati abbiano il diritto di controllare la

composizione della popolazione residente. Ciò significa delimitare il gruppo al quale si estende la

protezione.

Diritto di controllare le frontiere inteso in senso letterale o metaforico: frontiere fisiche così come barriere

amministrative che distinguono cittadini da non-cittadini, partecipanti da non-partecipanti, beneficiari da

non-beneficiari, tollerati da non-tollerati.

Ciò è utile per giustificare la formazione di gruppi di persone separati dal resto della popolazione (demos).

Tutte le decisioni dipendono e sono collegate a chi siano, o meno, coloro che appartengono al demos.

Ci si deve chiedere come si formi il vincolo tra individuo e società, che poi configura il demos.

Alcune società basano il proprio approccio sulla discendenza e l’appartenenza di genere, altre sulla presenza

e sull’integrazione.

Demos, pertanto, è una formula in forza alla quale una determinata società specifica quale sia il giusto

bilanciamento tra inclusione ed esclusione.

Se identificare il demos è già difficile a livello di Stato-nazione, le difficoltà non possono che risultare

amplificate operando su di un livello sovranazionale.

Di certo il progetto di Unione Europea può essere descritto come simultaneamente finalizzato ad estendere e

limitare la protezione.

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Vista dalla prospettiva degli Stati membri, l’Unione condivide la protezione con la popolazione degli altri

Stati membri. Vista dall’esterno, l’Unione appare come una fusione di sovranità finalizzata a promuovere la

protezione dei propri popoli a spese di coloro che ne stanno fuori.

In assenza di qualsivoglia nozione comune di “identità nazionale” declinata in base ad un concetto

tradizionale di demos, l’integrazione e la condivisione di risorse si può basare solo sulla universalità di certi

valori.

Se il libero commercio è un bene comune, lo è per tutti e non solo per i popoli degli Stati membri.

Ad oggi non esiste una identità europea capace di competere con le qualità fondamentali delle sue

controparti nazionali ed in assenza di un demos delimitato, la ragione che giustifica l’esclusione si basa

solamente su argomenti funzionali quali: l’U. E. è da costruire nell’ottica di giustificare un primo passo verso

la realizzazione globale di libertà, sicurezza e giustizia.

Affinchè possa avere successo, questo passaggio va fatto all’interno di un ambiente sicuro e controllato,

limitando qualsiasi interferenza esterna.

Ma questa mossa verso un’unione sempre più integrata produce paradossi orwelliani: l’integrazione la si

ottiene per via di esclusione, la libertà la si ottiene per via di controlli.

Il paradigma liberale dietro il venir meno delle frontiere trova il proprio complemento nel paradigma del

“controllo” con la costruzione di nuove frontiere.

Paradossi che divengono particolarmente evidenti nell’ambito della regolamentazione della libertà di

movimento in ambito U.E.

L’abolizione delle frontiere interne avviene a spese della creazione di frontiere esterne ancor più importanti:

un trade-off che tende a minare l’ideale di base della libertà di movimento, la cui giustificazione si basa

precisamente sul concetto di universalità.

La sola obiezione e difesa sarebbe quella di dimostrare che la soluzione “elitaria” è un primo passo verso

un’implementazione universale dei diritti umani.

Ma, ad oggi, l’U.E. non dichiara questo obiettivo, anzi.

Mentre la realizzazione della libera circolazione per i cittadini comunitari è oggetto di numerosi sforzi

sovranazionali ed intergovernativi, la questione dell’immigrazione è taciuta e lasciata, in definitiva, ad ogni

singolo Stato membro; solo a questo livello (nazionale) è oggi definibile il concetto di demos, non a livello

europeo.

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Prevale, quindi, il particolarismo, che si traduce in politiche di esclusione, mentre poco o nulla si fa a livello

di coordinamento delle politiche di inclusione.

A far data dall’Atto Unico europeo del 1986 e dal trattato di Schengen del 1985, la questione della

protezione dei rifugiati si è presentata alquanto problematica nel contesto della libertà di movimento tra Stati

membri.

La protezione dei rifugiati non è un problema di controllo migratorio.

I rifugiati hanno perso la protezione da parte della loro comunità di provenienza, il che li rende

concettualmente differenti dai migranti.

Pertanto, il controllo sugli emigrati e la protezione dei rifugiati sono due sistemi diversi, che perseguono

obiettivi differenti.

Lo scopo del controllo di migrazione è quello di amministrare il flusso, la presenza ed il deflusso dei non-

cittadini sul territorio statale (preservazione del particolarismo della comunità).

Qualsiasi riflessione sullo scopo della protezione dei rifugiati deve partire dal considerare gli strumenti che

rappresentano le fondamenta del sistema del diritto internazionale umanitario.

Nel 1948 l’assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la DUDU (dichiarazione universale dei diritti

umani), dichiarando, all’art. 14, che “Ogni individuo ha diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle

persecuzioni. Questo diritto non potrà essere invocato qualora l'individuo sia realmente ricercato per reati

non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.”

Il sopra riportato art. 14 va letto alla luce dell’art. 28 (“Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e

internazionale nel quale i diritti e la libertà enunciati in questa Dichiarazione possano essere pienamente

realizzati.”), il quale attribuisce agli Stati il compito di ottimizzare l’ordine internazionale per sviluppare al

meglio e rendere efficaci nel loro esercizio i diritti umani.

In virtù dell’art. 28, la DUDU è il punto di partenza per la sviluppo di un regime globale dei diritti umani.

Mentre i Covenants (Protocolli aggiunti nel 1966 sui diritti economici sociali culturali – diritti civili e

politici) furono predisposti al fine di salvaguardare i diritti umani nell’ambito delle giurisdizioni nazionali,

la Convenzione di Ginevra sui Rifugiati (28/07/1951), la Convenzione relativa allo stato di persone senza

cittadinanza (28/09/1954) e l’Accordo relativo ai Rifugiati per vie di mare – Seamen (23/11/1957) furono

concepite come mezzi sussidiari per la protezione dei diritti umani.

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La loro filosofia di base era quella di salvaguardare i diritti umani, allorché il Paese di origine avesse fallito

nella protezione degli individui appartenenti alla propria giurisdizione.

Perciò, la protezione dei rifugiati si occupa della salvaguardia universale di un certo livello dei diritti umani.

Ne consegue che non è un sottosistema del controllo migratorio, poiché i due sistemi perseguono scopi

diversi.

Tuttavia il loro campo di applicazione si sovrappone, e condividono alcune norme.

Assistiamo, perciò, ad un conflitto tra le prerogative dello Stato di escludere e l’imperativo del diritto

internazionale umanitario di includere.

Quale prevale?

In mancanza di qualsiasi certezza, gli interessi e le prerogative opposti vanno bilanciati.

Art. 6 Trattato Unione Europea: “L'Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti

dell'uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.

L'Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia

dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle

tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario.

L'Unione rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri.

L'Unione si dota dei mezzi necessari per conseguire i suoi obiettivi e per portare a compimento le sue

politiche.”

Art. 2 Trattato Unione Europea: “L'Unione si prefigge i seguenti obiettivi:

- promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione e

pervenire a uno sviluppo equilibrato e sostenibile, in particolare mediante la creazione di uno spazio

senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di

un'unione economica e monetaria che comporti a termine una moneta unica, in conformità dalle

disposizioni del presente trattato,

- affermare la sua identità sulla scena internazionale, in particolare mediante l'attuazione di

una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione progressiva di una politica di

difesa comune, che potrebbe condurre ad una difesa comune, a norma delle disposizioni dell'articolo

17,

- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante

l'istituzione di una cittadinanza dell'Unione,

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- conservare e sviluppare l'Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia

assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i

controlli alle frontiere esterne, l'asilo, l'immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta

contro quest'ultima,

- mantenere integralmente l'acquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare in quale

misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal presente

trattato allo scopo di garantire l'efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie.

Gli obiettivi dell'Unione saranno perseguiti conformemente alle disposizioni del presente trattato, alle

condizioni e secondo il ritmo ivi fissati, nel rispetto del principio di sussidiarietà definito all'articolo 5 del

trattato che istituisce la Comunità europea.”

Dalla lettura combinata dei due precedenti articoli discende che gli obiettivi perseguiti nell’ambito

dell’Unione Europea devono ritenersi subordinati al rispetto dei diritti umani.

I diritti umani, quali delineati nei principi generali, devono pertanto guidare l’adozione delle misure, in base

al Titolo VI del Trattato, per ciò che concerne visti, asilo, immigrazione ed altre politiche relative alla libertà

di movimento delle persone, così come delle altre misure che qualificano l’U.E. quale area di libertà,

sicurezza e giustizia e le misure correlate da adottarsi in base al Titolo V del Trattato, inerente le politiche

comunitarie estere e di sicurezza.

L'art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo difatti definisce il diritto di asilo come un diritto

umano fondamentale e più segnatamente lo qualifica come il "diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo

dalle persecuzioni, non invocabile, però, da chi sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni

contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite. Sulla scorta di tale definizione si comprende come il diritto

dì asilo è destinato ai ed. "rifugiati", la cui definizione è stata identificata convenzionalmente.

Quello di "rifugiato", infatti, è uno status riconosciuto, secondo il diritto internazionale (art. 1 della

Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951), a chiunque si trovi al di fuori del proprio

paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o persecuzioni. Il riconoscimento

di tale status giuridico è attuato dai governi che hanno firmato specifici accordi con le Nazioni Unite, o da

HUNHCR secondo la definizione contenuta nello statuto dell'Alto Commissariato.

Nell'ambito di tale definizione, convenzionalmente accettata da parte di tutti i paesi che hanno sottoscritto e

recepito nei propri ordinamenti, si inserisce in un rapporto di genusatspecies con l'asilo politico.

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Questo rappresenta un caso particolare di diritto di asilo e più segnatamente trattasi di quel diritto di asilo,

cioè, di chi è perseguitato per le proprie opinioni politiche, e che è perciò viene qualificato come rifugiato

politico.

La Convenzionedelle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati, ha costituito un punto di svolta

nell'elaborazione dei principi che definiscono e il concetto di rifugiato e soprattutto ne determinano le

condizioni per il trattamento.

Essa ha fornito i concetti fondamentali del regime di protezione dei rifugiati del quale è, ancor oggi, la pietra

miliare.

Sebbene la sua adozione, il 28 luglio del 1951, era mirata a fornire un adeguato strumento di fonte

internazionale per affrontare i problemi dell'immediato dopoguerra in Europa, mirata ad assicurare ad evitare

i traumi provocati dalle persecuzioni e dalle distruzioni degli anni della guerra non si sarebbero mai più

ripetuti, successivamente, a causa del moltiplicarsi dei movimenti di popolazioni, si è reso necessario un

ampliamento del raggio di azione della stessa con il Protocollo del 1967, ciò anche in considerazione del

fatto che l'evoluzione geopolitica mondiale (venti bellici, politici ed economici) hanno determinato un

incremento dei flussi migratori di intere popolazioni.

Tale quadro ha portato necessariamente gli operatori del diritto internazionale a dover coniugare e

disciplinare in dettaglio ed a diversi livelli (ONU, CE e singoli stati) le problematiche connesse al diritto

dell'immigrazione e dei rifugiati/asilo.

Nello specifico la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, con i suoi trenta articoli, di cui si compone,

sanciscono i diritti individuali, civili, politici, economici, sociali, culturali di ogni persona.

Più in dettaglio il DUDU proclama alcuni principi fondamentali e cioè il diritto alla vita, alla libertà e

sicurezza individuali, alla libertà di movimento.

Diretta conseguenza è il problema della schiavitù, della sottoposizione a torture o a trattamenti e/o punizioni

crudeli, disumani o degradanti e che nessuno dovrà essere arbitrariamente arrestato, incarcerato o esiliato.

Viene per altro sancito il diritto di tutti ad avere una cittadinanza, a fruire di adeguate condizioni di vita e a

richiedere asilo in caso di persecuzione.

Il medesimo respiro caratterizza anche altri due documenti, i Patti internazionali sui diritti dell'uomo adottati

dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 16 dicembre 1966 (Patto internazionale sui diritti economici,

sociali e culturali e Patto internazionale sui diritti civili e politici e relativo Protocollo facoltativo), i quali,

insieme alla summenzionata DUDU, formano il ed. Codice Internazionale dei Diritti Umani.

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(Reintroduzione della prospettiva universalistica)

Nell’ambito delle politiche di protezione dei rifugiati, si possono identificare due macroaree di

regolamentazione.

La prima riguarda la gestione dei movimenti: tutte le misure che riguardano la partenza, l’itinerario, l’arrivo

ed il soggiorno di coloro che richiedono asilo.

Si tratta di misure finalizzate a disciplinare e dirigere la presenza fisica dei richiedenti asilo e la connessa

responsabilità amministrativa.

La seconda si pone come fine quello di raggiungere il necessario livello di protezione, attraverso tutte le

misure che abbiano effetto sulla situazione dei diritti umani dei richiedenti asilo.

Le due aree sono interconnesse. Inevitabilmente lo standard di protezione atteso in certi Stati può essere un

fattore da prendere in considerazione dai richiedenti asilo nella scelta del Paese di destinazione; d’altro

canto, i flussi possono essere influenzati dagli standard di protezione attesi.

Gli Stati possono voler gestire i flussi dei richiedenti asilo soprattutto con lo scopo di voler evitare di

diventare Stati di destinazione.

Un altro motivo può essere quello di voler effettuare una distribuzione dei richiedenti asilo in accordo a

determinati schemi: quando lo schema si prefigge di distribuire equamente la responsabilità relativa alla

protezione dei richiedenti asilo, si parla di “burden-sharing”.

All’interno di un gruppo di Stati, quali la U.E., può esservi il duplice scopo di “burden-sharing” e di

“deflection”.

Può esservi un interesse a spostare parte del flusso di potenziali o reali richiedenti asilo nella regione U.E.

nel suo complesso, ma nella U.E. questo può voler significare spostare l’onere da uno Stato ad un altro e,

perciò, per non minacciare la solidarietà, le misure di “deflection” vanno accuratamente studiate.

Vi è anche un interesse, almeno per gli Stati più coinvolti dal fenomeno, nel condividere la responsabilità nei

confronti di coloro che pianificano l’arrivo, pur in presenza di misure che mirino a spostare i flussi.

Bisogna, perciò, tenere in considerazione due aspetti:

- la relazione tra gli Stati membri ed il richiedente asilo;

- la relazione tra gli stessi Stati membri.

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La Commissione iniziò nel 1992 ad attivarsi e proporre direttive relative a immigrazione, asilo, stato dei

rifugiati e politiche sui visti.

Il risultato del processo verso un’armonizzazione più strutturata fu la revisione del Trattato e l’adozione del

Titolo IV del Trattato Maastricht, relativo alla cooperazione nell’ambito della giustizia e degli Affari Interni

(cd. secondo pilastro).

Si veda, in particolare, il contenuto dell’art. 29 comma 1 del Trattato: “Fatte salve le competenze della

Comunità europea, l'obiettivo che l'Unione si prefigge è fornire ai cittadini un livello elevato di sicurezza in

uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sviluppando tra gli Stati membri un'azione in comune nel settore

della cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e prevenendo e reprimendo il razzismo e la

xenofobia.”

Il processo di armonizzazione delle politiche sui rifugiati e di quelle sull’asilo politico fu sin dall’inizio

percepito essere strettamente connesso allo sviluppo del mercato unico, anche se è oggetto di dibattito il

ritenere che ciò possa/debba avvenire e dipendere dallo smantellamento delle frontiere interne e non è così

evidente che il funzionamento del mercato unico richieda l’abbandono totale del controllo su coloro che

attraversano i confini interni dell’Unione.

Forme sommarie di controllo non sembrano impedire scambi economici tra i mercati, attraverso le frontiere.

In ogni caso, una forma di controllo comune alle frontiere esterne non significa di per sé l’adozione di criteri

restrittivi all’accesso, né, tantomeno, un’implementazione in ottica repressiva degli stessi.

È difficile evitare di chiedersi se gli Stati U.E. si siano avvantaggiati dall’integrazione economica facendone

un pretesto istituzionale per limitare l’accesso ai rifugiati in cerca di protezione.

Quella che è stata costruita sulla scorta di una “necessità tecnica” si è dimostrata essere, piuttosto, una scelta

politica, ed è dubbio e discutibile che il bisogno di una maggiore integrazione economica debba avere quale

risultato misure accresciute di controllo alle frontiere esterne.

E se si suppone che non vi sia un collegamento strutturale e necessario tra integrazione economica europea

ed il rafforzamento dei controlli ai confini esterni, sembrerebbe che le politiche di controllo siano in

principio aperte a modifiche, in accordo alle priorità politiche che permettono che gli standard dei diritti

umani influenzino la strategia di controllo.

Tre tipi di approccio adottati nell’ambito dei processi di armonizzazione delle politiche comunitarie.

1. le politiche di immigrazione e le inerenti strategie di controllo furono tenute separate dalle

questioni relative alla protezione dei rifugiati (immigrazione da Paesi terzi vista essenzialmente

quale fenomeno economico – diritto di asilo considerato in primo luogo quale diritto umano; ciò ha

comportato la rimozione dalla legislazione degli Stati membri di norme che potessero permettere, o

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meno, in modo discrezionale, l’ammissione del richiedente asilo; pieno rispetto dei principi della

Convenzione sui rifugiati del 1951);

2. pur riconoscendo l’interrelazione tra asilo e politiche migratorie, non si tiene però conto

delle conseguenze politiche che ne derivano, creando confusione nell’applicazione concreta delle

singole misure;

3. l’approccio più recente: le politiche sul controllo migratorio e le politiche sull’asilo si stanno

gradualmente fondendo. Definito quale principio di base che parte dal presupposto della prospettiva

dell’arrivo di “irregolari”, sembra vi sia un processo nel quale la strategia di controllo sia costretta ad

assorbire le esigenze di protezione dei rifugiati.

L’IMMIGRAZIONE NELL’UNIONE EUROPEA

Restringendo l’analisi ad un'ottica più continentale, si osserva come le problematiche inerenti il

l'immigrazione dei cittadini di stati terzi e, quindi, le correlata questione dei rifugiati / asilo, hanno fatto parte

della politica di cooperazione della CE sin dalla firma del Trattato di Roma nel 1957, sono divenute sempre

più un cardine del dibattito politico in particolare negli ultimi decenni dove il processo di integrazione degli

stati aderenti si è consolidato, con l’adesione anche di stati dell'est Europa, ma soprattutto per il sempre

maggiore flusso di immigrati proveniente dai paesi africani e del medio oriente. Tra le fonti normative

principali vanno menzionati:

Convenzione di applicazione dell'Accordo di Schengen 14 giugno 1985 (ratificato con Legge 30 settembre

1993 n. 388, pubblicata sulla G.U. dell'Unione Europea n. 232 del 2 ottobre 1993).

Convenzione di Dublino firmata il 15 luglio 1990 (ratificata con legge 23 dicembre 1992 n. 523 sulla

determinazione dello Stato competente per l'esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati

membri delle Comunità Europee, pubblicata sulla G.U dell'Unione Europea n. 3 del 5 gennaio 1993).

Con l'Accordo di Schengen del 1985 i Paesi aderenti hanno di fatto creato un'area di sostanziale libera

circolazione interna. Tale trattato (di cui fanno parte 25 Paesi UE e 3 Paesi extra UE, Islanda, Norvegia e

Svizzera), è stato integrato nel ed. Primo Pilastro del Trattato sull'UE tramite il Trattato di Amsterdam del

1997.

Il filo conduttore del quadro normativo che si occupa a tutti i livelli dell'immigrazione e dell'asilo vive

l'eterno conflitto tra particolarismo ed individualismo, dovendo scegliere tra due modi di interpretare la

questione ossia:

• la realizzazione globale dei diritti umani;

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• la tutela degli interessi di una specifica popolazione.

Tale dicotomia nasce essenzialmente da elementi di carattere economiche ciò in ragione del fatto che le

risorse a disposizione per far in modo che l'implementazione dei diritti civili, politici ed economici sono

scarse e, quindi, devono essere distribuite cercando di coprire il numero maggiore di soggetti ovvero un

gruppo ristretto?

Di qui una ulteriore domanda appare necessaria e cioè in base a quale criterio deve muoversi tale

distribuzione di risorse e quindi di tutela?».

Un criterio utilizzato per poter dare una risposta a tale domanda e la differenza tra cittadini e non-cittadini;

ciò è evidente a livello di diritto costituzionale così come a livello di diritto internazionale umanitario:

entrambi accordano una protezione più di favore ai cittadini dello Stato.

Un'altra distinzione di rilievo è quella tra coloro che sono all'interno ovvero all'esterno della giurisdizione

statale: il diritto internazionale umanitario si applica, quale forma "base" di protezione, a tutti coloro che si

trovano nella giurisdizione degli Stati contraenti.

Quale corollario della supremazia dello Stato, si evidenzia come gli Stati abbiano il diritto di controllare la

composizione della popolazione residente. Ciò significa delimitare il gruppo al quale si estende la

protezione.

Il diritto di controllare le frontiere inteso in senso letterale come frontiere fìsiche e barriere amministrative è

lo strumento che ci consente di operare quella distinzione tra cittadini da non cittadini, partecipanti da non-

partecipanti, beneficiari da non-beneficiari, tollerati da non-tollerati.

La individuazione dei confini e delle relative barriere consente di definire e formazione gruppi di persone

separati dal resto della popolazione (demos).

Va da se che, una volta individuato il demos tutte le decisioni conseguenti sono strettamente connesse

all'appartenenza al demos.

Una volta definito il demos come il gruppo di persone occorre individuare quali sono i criteri oggettivi e

soggettivi che consentono di individuare il vincolo tra individuo e società, che poi configura il demos.

L'approccio generale e quello fondato sul principio di discendenza e l'appartenenza di genere, in altri casi

vige quello della presenza e sull'integrazione.

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Demos, pertanto, è una formula in forza alla quale una determinata società specifica quale sia il giusto

bilanciamento tra inclusione ed esclusione.

Appare evidente che se identificare il demos, ossia quel rapporto di collegamento di un soggetto ad un

determinato Stato che determina quindi l'essere definito cittadino o non cittadino, presenti delle serie

difficoltà a livello di Stato-nazione, si può immaginare il livello di complessità e le difficoltà nel momento in

cui tale principio debba operare a livello sovranazionale.

E' quanto si è verificato nell'ambito della Unione Europea che ha rappresentato in sincrono una estensione

della protezione, ponendosi dalla visuale degli stati membri, ma allo stesso tempo una limitazione a spese di

coloro che ne stanno fuori.

Va evidenziato come, con riferimento alla UE, in assenza di qualsivoglia concetto di nazione o identità

nazionale, l'avvio di tale processo nell'ambito comunitario appariva quanto mai difficile, dovendo prendere

piede essenzialmente da esigenze di carattere economico.

Infatti lo sviluppo di un mercato unico, con la progressiva eliminazione di quello che era il sistema di

frontiere e barriere interne al mercato unico, con il potenziamento delle frontiere esterne, ha fatto si che si

potesse avviare quel porcesso di armonizzazione delle normative e politiche nazionali sull'immigrazione, con

specifico riguardo ai cittadini extra UE ed alle richieste di asilo.

IL FENOMENO DELL’IMMIGRAZIONE IN ITALIA

Con riferimento allo stato italiano, negli ultimi venti anni, la legislazione italiana ha cercato più volte di

regolamentare il fenomeno dell'immigrazione e di affrontare le problematiche ad esso connesse. Sono state

così approvate diverse leggi in materia, ma solo recentemente questo corpo di norme è stato armonizzato

attraverso un testo che riordina tutta la normativa precedente, il Testo unico delle disposizioni concernenti la

disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, poi modificato dalla legge n. 189 del

30 luglio 2002, meglio nota come legge Bossi-Fini.

Il complesso normativo scaturito dal Testo Unico si muove nel rispetto della disciplina comunitaria e intende

dare riconoscimento ad uno dei principi fondamentali dell'Unione Europea, il diritto alla libertà di

circolazione delle persone. A tale riguardo, i principali riferimenti sono il Trattato di Amsterdam, firmato

nell'ottobre del 1997 ed entrato in vigore il 1 maggio 1999, e l'Acquis di Schengen, applicato in Italia a

partire dal 1997. Il decreto legislativo n. 286 del 25 luglio 1998, Testo unico delle disposizioni concernenti la

disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero è il principale testo di riferimento in

materia d'immigrazione. Tale decreto regola la condizione degli stranieri in Italia e riunisce tutte le

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disposizioni di legge che dagli anni settanta in poi regolamentavano il fenomeno migratorio nel nostro Paese

(L. 40/98, Rd 773/31 Testo unico delle leggi di Pubblica Sicurezza, L. 943/86 e L. 335/95).

Il Testo Unico sull'Immigrazione, corrisponde ad un corpo di norme unico, coerente e organico, finalizzato

ad assicurare un approccio integrato alla risoluzione dei problemi dell'immigrazione. Con esso, si è inteso

dare risposta all'esigenza, emersa più volte, di armonizzare le molteplici norme prodotte in materia e di

riorganizzare l'intera disciplina.

Le disposizioni del Testo Unico regolano i principali aspetti della politica migratoria in Italia. Ad esse, si

aggiungono le integrazioni e le modifiche previste dalla successiva legge n. 189 del luglio 2002, meglio nota

come legge Bossi-Fini.

Vengono inoltre dettate le disposizioni in materia di ingresso, affermando che possono entrare in Italia tutti i

cittadini non comunitari in possesso di un visto d'ingresso e di documenti di viaggio validi, ad eccezione di

coloro che sono stati dichiarati pericolosi per l'ordine pubblico e la sicurezza dello Stato. La legge Bossi-Fini

ha in seguito vietato l'accesso anche a coloro che sono stati condannati per i reati previsti dagli artt. 380 e

381 del Codice di Procedura Penale o per reati inerenti il favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.

Ulteriori aspetti disciplinati dal Testo Unico sono in materia di permesso di soggiorno che possono richiedere

il permesso di soggiorno tutti i cittadini stranieri che sono entrati regolarmente in Italia, prevedendo per

coloro che risiedono da oltre un certo numero dì anni anche il rilascio della carta di soggiorno. La successiva

legge Bossi-Fini ha stabilito che il cittadino straniero che richiede o rinnova il permesso di soggiorno venga

sottoposto a rilievi fotodattiloscopici.

Ulteriore vincolo viene rappresentato dalle quote fissate di lavoratori extracomunitari ammessi ogni anno dal

decreto flussi. La legge Bossi-Fini ha previsto che tale decreto venga emanato entro il 30 novembre dell'anno

precedente a quello di riferimento del decreto stesso. La stessa legge ha anche istituito un nuovo ufficio

presso la Prefettura - Ufficio Territoriale del Governo, che prende il nome di Sportello Unico per

l'Immigrazione. Tale Sportello è responsabile per l'intero procedimento relativo all'assunzione di lavoratori

subordinati stranieri a tempo determinato ed indeterminato, assunti secondo i criteri stabiliti nella nuova

figura del contratto di soggiorno per lavoro subordinato.

Il Testo Unico, inoltre, in materia di diritti dei cittadini stranieri tutela e riconosce al cittadino straniero una

sèrie di diritti in parità con i cittadini italiani, come il diritto all'unità familiare, il diritto a ricevere assistenza

sanitaria e sociale e il diritto a ricevere un'istruzione. Il Testo Unico dispone inoltre alcune misure che

intendono favorire l'integrazione sociale, quali l'istituzione di un Fondo nazionale per le politiche migratorie,

con cui finanziare i programmi regionali o locali che sostengono l'inserimento sociale degli immigrati, e

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l'istituzione di una Commissione per le politiche di integrazione, che redige ogni anno un rapporto sullo stato

di attuazione delle politiche a favore dell'integrazione sociale.

Il complesso normativo scaturito dal Testo Unico si muove nel rispetto della disciplina comunitaria e intende

dare riconoscimento ad uno dei principi fondamentali dell'Unione Europea, il diritto alla libertà di

circolazione delle persone. A tale riguardo, i principali riferimenti sono il Trattato di Amsterdam, firmato

nell'ottobre del 1997 ed entrato in vigore il 1 maggio 1999, e l'Acquis di Schengen, applicato in Italia a

partire dal 1997.

***

LA NORMATIVA VIGENTE IN TEMA DI IMMIGRAZIONE E DIRITTO D’ASILO: I PROFILI

DELLE CONVEZIONI COMUNITARIE

ACCORDI DI SCHENGEN

Con gli accordi di Schengen si fa riferimento a un trattato che coinvolge sia alcuni Stati membri dell'Unione

europea sia stati terzi. Gli accordi, inizialmente nati al di fuori della normativa UE, ne divennero parte con il

Trattato di Amsterdam, e vennero integrati nel Trattato sull'Unione europea (meglio noto come Trattato di

Maastricht). Gli stati membri che non fanno parte delT'area Schengen" (nome con cui i paesi membri del

trattato in questione indicano l'insieme dei territori su cui il trattato stesso è applicato) sono il Regno Unito e

l'Irlanda, in base a una

clausola di opt-out. Gli stati terzi che partecipano a Schengen sono Islanda, Norvegia e Svizzera: un totale di

28 stati europei aderisce quindi allo Spazio Schengen. Fra questi, tre (Cipro, Romania e Bulgaria) non hanno

ancora attuato nella pratica tutti gli accorgimenti tecnici necessari per aderire all'area Schengen, e pertanto, in

via provvisoria, mantengono tuttora i controlli alla frontiera. Si può definire Schengen come una

cooperazione rafforzata all'interno dell'Unione europea. L'accordo fu firmato a Schengen il 14 giugno 1985

fra il Belgio, la Francia, la Germania, il Lussemburgo e i Paesi Bassi con il quale si intendeva eliminare

progressivamente i controlli alle frontiere comuni e introdurre un regime di libera circolazione per i cittadini

degli Stati firmatari, degli altri Stati membri della Comunità o di paesi terzi. La convenzione di Schengen

completa l'accordo e definisce le condizioni di applicazione e le garanzie inerenti all'attuazione della libera

circolazione, firmata il 19 giugno 1990 dagli stessi cinque Stati membri e successivamente entrata in vigore

solo nel 1995. Sia l'accordo e sia la convenzione di Schengen con tutte le regole adottate sulla base dei due

testi e gli accordi connessi formano "l'acquis di Schengen". Dal 1999, l'acquis di Schengen è integrato nel

quadro istituzionale e giuridico dell'Unione europea in virtù di un protocollo allegato al trattato di

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Amsterdam. Gli accordi di Schengen sono stati estesi nel tempo agli altri Stati membri: l'Italia ha firmato gli

accordi nel 1990, la Spagna e il Portogallo nel 1991, la Grecia nel 1992, l'Austria nel 1995 e la Finlandia, la

Svezia e la Danimarca (attraverso un adattamento dello statuto particolare) nel 1996. L'Irlanda e il Regno

Unito partecipano, dal canto loro, solo parzialmente all'acquis di Schengen, in quanto sono stati mantenuti i

controlli alle loro frontiere. Per quanto riguarda l'eliminazione dei controlli alle frontiere degli Stati dell'Ue

che hanno aderito all'acquis di Schengen devono attendere la decisione del Consiglio dell'Unione europea.

Anche due paesi terzi, l'Islanda e la Norvegia, fanno parte dello spazio di Schengen dal 1996. La loro

partecipazione al processo decisionale è tuttavia limitata. La Svizzera ha peraltro avviato un

Gli obiettivi che si intendono raggiungere sono:

"-Abolizione dei controlli sistematici delle persone alle frontiere interne dello spazio Schengen

Rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne dello spazio Schengen.

Collaborazione delle forze di polizia e possibilità per esse di intervenire in alcuni casi anche oltre i propri

confini (per esempio durante gli inseguimenti di malavitosi).

.Coordinamento degli stati nella lotta alla criminalità organizzata di rilevanza internazionale (per esempio

mafia, traffico d'armi, droga, immigrazione clandestina).

Integrazione delle banche dati delle forze di polizia (il Sistema di informazione Schengen, detto anche SIS).

Gli accordi vennero firmati il 14 giugno 1985 a Schengen, cittadina del Lussemburgo, inizialmente da solo

cinque Stati membri della allora CEE, vista l'impossibilità di raggiungere un accordo sulla libera circolazione

delle persone in sede CEE: Belgio, Francia, Lussemburgo, Germania e Paesi Bassi. Dopo il primo accordo

tra i cinque paesi fondatori, è stata elaborata una convenzione, firmata il 19 giugno 1990 ed entrata in vigore

nel 1995. Successivamente vi aderirono altri stati dell'Unione europea: l'Italia (il 27 novembre 1990), il

Portogallo e la Spagna (entrambi il 25 giugno 1992), la Grecia (il 6 novembre 1992), l'Austria (il 28 aprile

1995). Dal 19 dicembre 1996 i contenuti degli accordi vengono applicati anche a due Stati (Norvegia e

Islanda) non facente parte dell'Unione europea, in quanto questi facevano parte dell'Unione nordica che

prevedeva norme simili per i paesi scandinavi, tre dei quali facevano ormai parte dell'Unione europea. Con

l'approvazione del referendum del 5 giugno 2005, anche la Svizzera, che non fa parte dell'Unione europea,

entra a far parte dell'area Schengen (il 12 dicembre 2008).

nuovi paesi membri UE dal 2004 e dal 2007 sono obbligati ad entrare nello spazio Schengen, ma per due di

essi l'accordo non è ancora entrato in vigore: gli altri paesi UE hanno ottenuto un periodo transitorio prima di

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avviare la libera circolazione delle persone, inoltre i nuovi paesi membri devono dotarsi di tutte le

infrastrutture adeguate ad implementare il sistema di informazione Schengen.

Regno Unito e la Repubblica d'Irlanda non hanno aderito al Trattato di Schengen per svariati motivi:

-hanno leggi di immigrazione (in particolare il Regno Unito) differenti e molto più permissive rispetto al

resto d'Europa;

-gli organismi di controllo passaporti non sono forze di polizia (sono personale civile con poteri limitati), le

frontiere esterne Schengen devono essere gestite da polizia o polizia militare;

Quattro microstati (Andorra, San Marino, Principato di Monaco e il Vaticano) non hanno firmato il trattato,

ma aderiscono indirettamente all'accordo in quanto non hanno barriere doganali con Francia (Monaco e

Andorra, per la parte confinante), Spagna (Andorra, per la parte confinante) e Italia (San Marino e Vaticano,

limitatamente all'uscita dallo Stato Pontificio: l'ingresso è controllato). Però il Vaticano ha espresso il

desiderio di firmare il trattato ed entrare così nell'accordo ufficialmente. Con l'entrata in vigore del trattato in

Svizzera, anche il Liechtenstein si trova nella stessa situazione.

IL TRATTATO DI MAASTRICHT

Con l'adozione del Trattato sull'Unione europea firmato a Maastricht nel 1992 si realizza un importante

cambiamento.

Il Trattato di Maastricht attribuisce una competenza in materia di immigrazione mediante il Titolo VI (artt.

K.1 - K.9 TUE), deputato alla "cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni" (c.d. Terzo

pilastro).

Il Terzo pilastro è dedicato alla realizzazione, nell'ambito degli obiettivi dell'Unione, della libera circolazione

delle persone. Tale scopo viene perseguito attraverso la cooperazione tra Stati membri nei settori di

"interesse comune" richiamati nella norma K.1 come a titolo esemplificativo:

• la politica di asilo;

• le norme che disciplinano l'attraversamento delle frontiere esterne degli Stati membri da parte delle

persone e l'espletamento dei relativi controlli;

• la politica d'immigrazione e la politica da seguire nei confronti dei cittadini dei paesi terzi:

Si evidenzia che la cooperazione tra Stati membri nei settori di "interesse comune" doveva avvenire, inoltre,

nel rispetto "della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali

(4 novembre 1950) e della Convenzione relativa allo status dei rifugiati (28 luglio 1951)" (art. K.2).

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Le novità introdotte dal Trattato di Maastricht riguardano, da un lato, una partecipazione (in qualche misura)

delle istituzioni comunitarie che in ambito Schengen non era prevista, dall'altro aver inserito, in modo

dettagliato, nell'art. K.1 i diversi settori (punto 3, lettera a, c ) che rilievo per una politica di immigrazione

europea .

IL TRATTATO DI AMSTERDAM E LA "COMUNITARIZZAZIONE" DELLA MATERIA

Con l'adozione del Trattato di Amsterdam 10, firmato il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il 1* maggio

1999, il quadro europeo in materia di immigrazione, muta sensibilmente. Il nuovo Trattato ha

"comunitarizzato" 11 la materia di "visti, asilo, immigrazione e altre politiche connesse con la libera

circolazione delle persone" e ha provveduto all'incorporazione dell'acquis di Schengen (nuovo titolo IV TCE;

artt. 61- 69). Con la "comunitarizzazione" 12 gli Stati membri hanno deciso di trasferire, progressivamente

(c.d. periodo transitorio, ovvero cinque anni dall'entrata in vigore del Trattato), dal terzo al primo pilastro

diverse materie:

a) controllo delle frontiere;

b) il rilascio dei visti;

c) la circolazione dei cittadini di Paesi terzi all'interno del territorio comunitario (art. 62);

d) le misure in materia di asilo {competenza ad esaminare le domande di asilo, norme minime

sull'accoglienza dei richiedenti asilo, sull'attribuzione della qualifica di rifugiato, sulla concessione o revoca

dello status di rifugiato);

e) le misure applicabili a rifugiati e sfollati (protezione temporanea, equilibrio degli sforzi fra gli Stati che

ricevono i rifugiati e sfollati) (art. 63, n. 1 e n. 2);

f) le misure in materia di politica di immigrazione (condizioni di ingresso e soggiorno, rilascio di visti a

lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quello per ricongiungimento familiare);

g) l'immigrazione e il soggiorno irregolare compreso il rimpatrio degli irregolari (art. 63, n. 3);

h) le misure relative al soggiorno dei cittadini dei Paesi terzi in Stati membri diversi da quello in cui

risiedono legalmente (art. 63, n. 4)"

Detto questo, occorre precisare che il nuovo Titolo IV, ha previsto che in un arco di tempo di cinque anni

dall'entrata in vigore del Trattato, il Consiglio dei Ministri dell'Unione adotti una serie di "misure" relative

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alle materie "comunitarizzate". Tuttavia, l'art. 63, ultimo comma, ha stabilito tre 'settori' per i quali il

suddetto limite non si applica:

• "promozione di un equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che ricevono i rifugiati e gli sfollati e

subiscono le conseguenze dell'accoglienza degli stessi";

• "condizioni di ingresso e soggiorno e norme sulle procedure per il rilascio da parte degli Stati membri di

visti a lungo termine e di permessi di soggiorno, compresi quelli rilasciati a scopo di ricongiungimento

familiare";

• "misure che definiscono con quali diritti e a quali condizioni i cittadini di paesi terzi che soggiornano

legalmente in uno Stato membro possono soggiornare in altri Stati membri".

IL TRATTATO DI NIZZA

Il percorso degli Stati per una politica comune europea in materia di immigrazione, avviata ad Amsterdam,

consolidata dal vertice di Tampere ÉZ, prosegue con il Trattato di Nizza, firmato il 26 febbraio 2001 ed

entrato in vigore il 1° febbraio 2003. Il Trattato modifica in minima parte il quadro normativo stabilito ad

Amsterdam. In particolare, la preoccupazione di assumere decisioni all'unanimità in un Unione allargata ha

spinto gli Stati membri a prendere una decisione secondo cui, già dal 1° maggio 2004, alcuni settori

sarebbero soggetti alla maggioranza qualificata (dichiarazione comune relativa all'art. 67 TCE).

L'ultima tappa percorsa dagli Stati membri lungo il difficile cammino verso la realizzazione di una delle più

significative manifestazioni dell'integrazione europea, riguarda il "Progetto di trattato che istituisce una

Costituzione per l'Europa" il cui testo, in minima parte modificato, è stato approvato il 18 giugno 2004. La

"versione consolidata provvisoria del Trattato che istituisce una Costituzione per l'Europa" Zp, considera la

materia immigrazione come uno degli elementi dello "spazio di libertà, sicurezza e giustizia", previsto nella

parte III ("Le politiche e il funzionamento dell'Unione"). In particolare, la politica di immigrazione viene

contemplata fra le politiche (e azioni) interne, unitamente alle politiche che riguardano i controlli alle

frontiere e all'asilo (titolo III, sezione II del capo IV) Concentrando la nostra attenzione all'esame delle

disposizioni che riguardano la "politica comune dell'immigrazione" (art. 111-168, par. 1) 39, rileviamo un

maggior interesse, rispetto la normativa vigente, verso alcune "priorità" definite dal Consiglio europeo

straordinario di Tampere (15-16 ottobre 1999), come ad esempio, la prevenzione e il contrasto

dell'immigrazione clandestina e una gestione più efficace dei flussi migratori^.

LA COSTITUZIONE EUROPEA

La Costituzione indica, 'la legge' e la 'legge quadro', quali strumenti giuridici per disciplinare sia le

condizioni di ingresso e soggiorno, i visti e i titoli di soggiorno di lunga durata, compresi quelli a scopo di

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ricongiungimento familiare (art. 111-168, par. 2, lett. a); sia i diritti dei cittadini di paesi terzi che

soggiornano legalmente in uno Stato membro e le condizioni di circolare, soggiornare, negli altri Stati

membri (art. 111-168, par. 2, lett. b); nonché, l'immigrazione e il soggiorno irregolare, allontanamento e

rimpatrio (art. 111-168, par. 2, lett. c); infine, la lotta contro la tratta di esseri umani (art. 111-168, par. 2, lett.

d) e gli accordi di riammissione (art. III- 168, par. 3). La Costituzione, concludendo, prevede misure volte "a

incentivare e sostenere l'azione degli Stati membri al fine di favorire l'integrazione dei cittadini di paesi terzi

regolarmente soggiornanti nel loro territorio" con esclusione, però, "di qualsiasi armonizzazione delle

disposizioni legislative e regolamentari degli Stati me mbri" (art. 111-168, par. 4) e il diritto degli Stati di

"determinare il volume di ingresso nel loro territorio dei cittadini di paesi terzi" che "immigrano 32 " per

trovare lavoro subordinato o autonomo (art. 111-168, par. 5).

LA CONVENZIONE DI GINEVRA DEL 1951 E GLI ACCORDI INTERNAZIONALI

Il rifugiato è colui "che temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità,

appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova fuori del Paese di cui

è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese;

oppure che, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori del Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di

tali avvenimenti, non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra" [Articolo 1A della Convenzione di

Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati].

Il 28 luglio del 1951, una conferenza speciale dell'ONU approvò, a Ginevra, la Convenzione relativa allo

Status dei Rifugiati. La Convenzione detta in chiare lettere chi può essere considerato un rifugiato e le forme

di protezione legale, altra assistenza e diritti sociali che il rifugiato dovrebbe ricevere dagli Stati aderenti al

documento. Al contempo, la Convenzione definisce anche gli obblighi del rifugiato nei confronti dei governi

ospitanti e alcune categorie di persone, ad esempio i criminali di guerra, che non possono accedere allo status

di rifugiati.

Alcuni mesi prima dell'approvazione della Convenzione, il 1° gennaio 1951, aveva cominciato ad operare

l'appena costituito Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Nei decenni che seguirono la

Convenzione è rimasta il pilastro normativo sul quale si è basata l'opera intrapresa dall'agenzia per assistere e

proteggere circa 50 milioni di rifugiati.

Questo primo strumento era inizialmente limitato a proteggere i rifugiati perlopiù europei provocati dalla

seconda guerra mondiale, ma un Protocollo del 1967 ne ha esteso il raggio d'azione sulla spinta delle

dimensioni globali assunte dal problema dell'esodo forzato. Il documento originario ha anche ispirato la

stesura di strumenti regionali quali la Convenzione africana sui rifugiati del 1969 e la Dichiarazione di

Cartagena del 1984 nell'ambito dell'America Latina.

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Complessivamente, sono 146 gli Stati che hanno aderito ad uno o ambedue gli strumenti normativi

dell'ONU. Ma con il mutare delle tendenze globali della migrazione e con l'aumento drammatico dei flussi di

popolazione verificatisi negli ultimi anni sono emersi alcuni dubbi sull'attualità ed efficacia della

Convenzione del 1951, in particolar modo in Europa, per ironia della sorte il luogo di nascita della stessa

Convenzione.

L'UNHCR attualmente assiste milioni di persone e la Convenzione, che si è dimostrata eccezionalmente

flessibile di fronte ad un mondo in rapida evoluzione, continua ad essere l'architrave dell'attività di

protezione dei rifugiati.

Il diritto di asilo è un diritto umano fondamentale definito all'art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti

dell'uomo come diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni, non invocabile, però, da

chi sia realmente ricercato per reati non politici o per azioni contrarie ai fini e ai principi delle Nazioni Unite.

Hanno dunque diritto di asilo i "rifugiati". Quello di "rifugiato" è uno status riconosciuto, secondo il diritto

internazionale (art. 1 della Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati del 1951 ), a chiunque si

trovi al di fuori del proprio paese e non possa ritornarvi a causa del fondato timore di subire violenze o

persecuzioni. Il riconoscimento di tale status giuridico è attuato dai governi che hanno firmato specifici

accordi con le Nazioni Unite, o dall'UNHCR secondo la definizione contenuta nello statuto dell'Alto

Commissariato. In questo senso, l'asilo politico è un caso particolare di diritto di asilo, è il diritto di asilo,

cioè, di chi è perseguitato per le proprie opinioni politiche, e che è perciò un rifugiato politico. Nota: solo in

italiano, accanto a "rifugiato", è ormai consuetudinario l'uso improprio del termine "profugo" per definire

chi, costretto a lasciare il proprio Paese a causa di guerre, persecuzioni, violazioni di diritti umani e catastrofi

nazionali, non possiede tuttavia il riconoscimento dello status di rifugiato. In altre lingue, infatti, "profugo" è

tradotto con parole quali refugee, réfugié.[senza fonte] Storia [modifica]

Il diritto d'asilo è un'antica nozione giuridica secondo la quale una persona perseguitata nel proprio paese per

via delle proprie opinioni politiche o credenze religiose, poteva ricevere protezione da parte di un'altra

autorità sovrana, come un altro Stato o una Chiesa. Questo diritto ha radici antiche nella tradizione

occidentale —anche se era già riconosciuto dagli antichi egizi, greci (per i quali era anche una consuetudine

di ospitalità), ebrei— : Cartesio ricevette asilo in Olanda, Voltaire in Inghilterra, Hobbes in Francia (assieme

a molti nobili inglesi durante la Guerra Civile Inglese), etc.

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DIRITTO DI ASILO E DIRITTI DEI RIFUGIATI NEL DIRITTO INTERNAZIONALE

CONVENZIONE ONU RELATIVA ALLO STATUS DEI RIFUGIATI (GINEVRA, 1951 )

La Convenzione di Ginevra del 1951 e il Protocollo del 1967 sono alla base del diritto internazionale del

rifugiato. Secondo la Convenzione, un rifugiato è un individuo che ha fondato motivo di temere la

persecuzione a motivo della sua discendenza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo

sociale, opinione politica; si trova al di fuori del suo paese d'origine; e non può o non vuole avvalersi della

protezione di quel paese, o ritornarvi, per timore di essere perseguitato.

CONVENZIONE OUA SUI RIFUGIATI (ADDIS ABEBA, 1969)

È la "Convenzione che disciplina determinati aspetti del problema dei rifugiati in Africa" adottata nel 1969

dall'Organizzazione dell'Unità Africana (OUA) che, riconoscendo la Convenzione ONU del 1951 come "lo

strumento fondamentale e universale relativo allo status dei rifugiati" e facendone propria la definizione di

rifugiato, amplia la definizione stessa e racchiude altre disposizioni non esplicitamente contenute nella

Convenzione di Ginevra riguardanti: il divieto di respingimento alla frontiera, l'asilo,

l'ubicazione degli insediamenti di rifugiati, il divieto per i rifugiati di svolgere attività sovversive, il rimpatrio

volontario.

DICHIARAZIONE DI CARTAGENA {CARTAGENA, 1984)

La dichiarazione di Cartagena (Colombia, su rifugiati fu elaborata da rappresentanti di governo e intellettuali

messicani e panamensi, in occasione di una crisi internazionale in America Latina, sulla traccia della

Convenzione delle Nazioni Unite del 1951 e di cui estende la definizione di rifugiato a coloro i quali

fuggono dal loro paese perché la loro vita, la loro sicurezza o la loro libertà è minacciata da violenze

generalizzate, un'aggressione straniera, un conflitto interno, massicce violazioni dei diritti umani o altre gravi

turbative dell'ordine pubblico. Non giuridicamente vincolante, la Dichiarazione di Cartagena è stata in più

occasioni sostenuta dall'Assemblea Generale dell'Organizzazione degli Stati Americani. La maggior parte dei

paesi centro e sud-americani, aderenti alla Convenzione ONU del 1951 e/o al Protocollo aggiuntivo, hanno

applicato tale definizione di rifugiato più estensiva, alcuni paesi addirittura recependola nelle legislazioni

nazionali.

NORMATIVA EUROPEA E ITALIANA IN MATERIA DI IMMIGRAZIONE

Cittadini degli stati terzi, integrazione comunitaria e ordinamento italiano.

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A partire dagli anni Ottanta, le politiche in materia di immigrazione sono divenute sempre più convergenti in

tutti gli stati dell'Europa occidentale. La recente convergenza presenta due tendenze principali. Da un lato,

limitazioni restrittive a nuovi arrivi, secondo caratteristiche comuni: programmazione dei flussi, regole e

procedure per l'ingresso, incoraggiamento al rientro volontario nei paesi di origine, ecc. Dall'altro, un

orientamento più liberale rispetto alle leggi per la naturalizzazione degli immigrati di lunga permanenza o di

seconda generazione; sulla concessione di status di residenza semi-permanenti; sulla concessione dei diritti

di partecipazione politica e sociale, compreso il diritto di voto nelle consultazioni amministrative.

Dall'integrazione comunitaria sono stati esclusi sin dal principio i cittadini degli stati terzi. La preferenza

accordata ai primordi ai lavoratori comunitari, era giustificata dalla circostanza che solo un quarto dei

lavoratori migranti presenti, all'epoca, nel territorio della Comunità proveniva da stati terzi. Questa

situazione si è, poi, gradualmente modificata nel senso di una partecipazione sempre più rilevante degli

stranieri extra-comunitari allo sviluppo economico e sociale dell'Europa. Per questa ragione, il problema di

una regolamentazione comune dell'immigrazione è divenuta una priorità dell'Unione.

Oggi, il secondo Trattato sull'Unione Europea, firmato ad Amsterdam il 2 ottobre 1997 ed entrato in vigore il

1° maggio 1999, contiene importanti novità nelle materie dell'immigrazione e dell'asilo (titolo IV, artt. 61-69,

Trattato CE "Visti, asilo, immigrazione ed altre politiche connesse con la libera circolazione delle persone"

che riguarda: l'attraversamento delle frontiere esterne ed interne dell'Unione; l'asilo, l'immigrazione, la

politica nei confronti dei cittadini degli stati terzi; la cooperazione giudiziaria in materia civile). Queste

materie entrano a far parte del "primo pilastro" dell'Unione Europea, determinando il passaggio dal metodo

intergovernativo all'applicazione del diritto comunitario "sovranazionale". Ne consegue un rafforzamento del

ruolo del Parlamento europeo e della Corte europea di giustizia. È tuttavia previsto un periodo transitorio di

cinque anni prima della integrale applicazione delle procedure comunitarie. Non appena vi sarà il necessario

consenso, si stabilirà uno "spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia", senza controlli delle persone alle

frontiere interne, indipendentemente dalla loro nazionalità.

In sostanza, il Trattato di Amsterdam stabilisce una comunitarizzazione graduale della politica migratoria e

un termine, cinque anni, affinché gli stati membri arrivino ad avere una politica comune in materia di

immigrazione. Nel corso di questo periodo transitorio di cinque anni, ci si attende che il Consiglio Europeo

adotti misure in materia di condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini dei paesi terzi, fissando requisiti e

condizioni in base ai quali cittadini dei paesi terzi, legalmente residenti in uno stato membro, possano

eventualmente spostare la residenza in un altro stato membro.

Al testo del Trattato di Amsterdam è allegato un Protocollo sull'integrazione deli'acquis di Schengen

nell'ambito dell'Unione Europea. Un gran numero di procedure normative e amministrative per

l'attraversamento delle frontiere sono presenti negli Accordi di Schengen. Infatti, uno status speciale hanno

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assunto i cittadini delle 14 parti contraenti della Convenzione di Schengen (oltre all'Italia), degli altri due

paesi membri dell'Unione Europea non firmatari della Convenzione (Irlanda e Regno Unito) e il

Liechtenstein (paese che non è membro né di Schengen né dell'Unione Europea).

Nel quadro degli accordi di Schengen, gli stati membri hanno firmato il 15 giugno 1990 la Convenzione di

Dublino (entrata in vigore il 1° settembre 1997), che permette di determinare la competenza per l'esame delle

domande d'asilo presentate in uno degli stati membri dell'Unione. La Convenzione (ratificata dall'Italia con

legge n. 523 del 23 dicembre 1992) stabilisce le regole per la determinazione dello stato competente

all'esame della domanda di asilo presentata in un paese dell'Unione Europea.

Il Piano d'azione del 3 dicembre 1998 offre un quadro di sviluppo dell'azione e per un controllo

giurisdizionale e democratico della Corte di giustizia e del Parlamento europeo. Per definire priorità comuni

nonché i provvedimenti da adottare a breve e lungo termine (cinque anni), sono stati considerati: i principi di

sussidiarietà e di solidarietà, l'efficacia operativa, i limiti stabiliti dai trattati (ad esempio gli stati membri

resta la competenza per quanto attiene alla loro sicurezza interna). Il Consiglio europeo straordinario di

Tampere del 15/16 ottobre 1999 ha accolto con favore la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e

giustizia. Il documento di Tampere ha, tuttavia, carattere meramente orientativo e non prescrittivo, salvo nei

casi in cui le conclusioni contengono un mandato formale alla Commissione e fissano scadenze precise.

LEGISLAZIONE SUL DIRITTO DI ASILO IN EUROPA

il Regolamento "Dublino (CE n. 343/2003 che ha sostituito fra gli stati membri dell'Unione Europea la

preesistente Convenzione di Dublino del 15 giugno 1990, garantisce ad ogni richiedente lo status di rifugiato

che la sua domanda sarà esaminata da uno Stato membro dell'Unione Europea, in modo da evitare che egli

sia successivamente mandato da uno Stato membro all'altro senza che nessuno accetti di esaminare la sua

richiesta d'asilo (il problema dei cosiddetti "rifugiati in orbita"). Il Regolamento mira, al contempo, ad

evitare che i richiedenti asilo godano di una libertà troppo ampia nella individuazione del Paese europeo al

quale rivolgere la propria domanda di asilo (c.d. "asylum shopping").

I parametri per stabilire la competenza di uno Stato hanno carattere oggettivo e sottintendono il principio che

lo Stato membro responsabile dell'esame dell'istanza, indipendentemente da dove la stessa sia stata

presentata, è quello in cui è avvenuto l'ingresso, regolare o meno, del richiedente asilo. Il Regolamento

contempla tuttavia anche alcune specifiche regole di competenza volte a salvaguardare l'unità familiare dei

richiedenti asilo. In particolare, se un familiare del richiedente asilo ha a sua volta già presentato in uno Stato

membro una domanda di asilo in merito alla quale non è stata ancora presa una decisione, oppure risiede in

detto Stato membro come rifugiato già riconosciuto, lo Stato membro in questione è competente anche per

l'esame della domanda d'asilo di tale familiare, sempre che l'interessato lo desideri. Inoltre, se il richiedente

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asilo è un minore non accompagnato, l'esame della sua domanda di asilo compete allo Stato membro nel

quale si trova legalmente un suo familiare, purché ciò sia nel migliore interesse del minore e, in mancanza di

un familiare, è competente lo Stato membro in cui il minore ha presentato la domanda d'asilo. Inoltre, è

previsto che qualsiasi Stato membro, anche quando non è competente in applicazione dei criteri vincolanti

definiti dal regolamento, può comunque accettare di esaminare una domanda d'asilo per ragioni umanitarie,

fondate in parte su motivi familiari o culturali, a condizione che le persone interessate vi acconsentano.

Infine, ciascuno Stato membro ha comunque il diritto sovrano di esaminare una domanda d'asilo che gli sia

stata rivolta da un cittadino di un paese terzo, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti

nel regolamento.

IL DIRITTO D’ASILO IN ITALIA

Diritto di asilo è garantito dall'art. 10 comma 3 della Costituzione: Lo straniero, al quale sia impedito nel suo

paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel

territorio delta Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Tale disposizione costituzionale, secondo un recente orientamento della Corte di Cassazione inaugurato con

la sentenza n. 25028/2005 della sezione prima civile ma non immune da critiche in dottrina, non

costituirebbe da sé sola una base giuridica idonea a disciplinare in modo stabile ed autonomo il diritto di

soggiorno di un richiedente asilo nello Stato, ma offrirebbe, piuttosto, una tutela provvisoria ai richiedenti

asilo, che si risolverebbe nel loro diritto di entrare nel territorio dello Stato di ottenere il permesso di

soggiornarvi esclusivamente al fine di proporre domanda di riconoscimento del proprio status di rifugiato nei

modi e nelle forme previste dalla vigente legislazione ordinaria, e per la sola durata del relativo

procedimento. Al termine di tale procedimento, il diritto costituzionale di asilo verrebbe così in ogni caso ad

estinguersi, o per intervenuta risoluzione, o, nella ipotesi di positiva conclusione del procedimento stesso,

perché assorbito da una forma di protezione più ampia e più completa.

Il Respingimento – accordo Italia Libia

Non di minore importanza assume la posizione assunta dall’Italia in merito al respingimento, che si avrà

modo di affrontare anche in seguito, di clandestini alle frontiere.

Detto comportamento ha ricevuto la secca censura da parte dell’ONU in quanto contrario al principio

assoluto e inderogabile della convenzione di Ginevra del ’51 relativo al non respingimento e al

pieno accesso dei clandestini alle procedure di asilo che non possono essere negate.

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Al riguardo la posizione dell’Italia e del ministro Maroni è stata molto chiara in quanto è stato

affermato che, nella procedura in esame, i clandestini non arrivano sul territorio nazionale ma

vengono respinti alla frontiera.

Il respingimento in mare attuato dalle autorità italiane sarebbe contrario sia alla nostra Costituzione

sia alla Convenzione del 1951 sui rifugiati non appena i migranti sono imbarcati su una nave

italiana, qualora non si provveda a verificare se tra i clandestini vi siano persone aventi diritto a

chiedere asilo. Ma sul punto le opinioni divergono. Non tutti gli esperti considerano la nave italiana

in acque internazionali equiparabile a territorio italiano ai fini dell’applicazione dell’art. 10, 3°

comma Cost., che concede il diritto di asilo. Inoltre non tutti gli internazionalisti considerano

applicabile la Convenzione del 1951, che obbliga a non respingere il richiedente asilo ad un paese

dove corra il pericolo di essere sottoposto a trattamento inumano o degradante, ai respingimenti in

alto mare. È invece sicuramente applicabile la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, essendo

la nave da guerra italiana organo dello stato, con la conseguenza che il respingimento del migrante

verso un paese, dove possa correre il pericolo di essere sottoposto a trattamento inumano, è vietato.

L’applicazione di tale principio, secondo parte della dottrina internazionale, hanno destato e desta

preoccupazioni per la sorte riservata alle persone coinvolte, con particolare riguardo alla tutela dei

diritti fondamentali delle persone. Tale prassi solleva, inoltre, perplessità in relazione al rispetto

degli obblighi internazionali in materia di asilo: tra i migranti a bordo delle barche intercettate

potrebbero esservi infatti profughi in cerca di protezione internazionale (c.d. asilanti), e il

respingimento potrebbe avvenire senza la previa verifica della loro condizione individuale. In

particolare, la preoccupazione è che possa trattarsi di persone che chiedano o intendano chiedere

l’asilo, “qualificandosi” così ai sensi della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei

rifugiati, nonché delle direttive comunitarie.

L’idea di associare i paesi di origine e di destinazione dei migranti all’obiettivo di contenimento dei

flussi irregolari caratterizza la politica italiana da oltre un decennio e ha dato vita ad una nutrita

serie di accordi, in materia di cooperazione di polizia e di riammissione. Il Trattato tra Italia e Libia

di “amicizia, partenariato e cooperazione” firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 non solo intende

porre fine alla disputa risalente all’epoca coloniale, ma vuole anche rafforzare la collaborazione tra i

due paesi nella lotta all’immigrazione clandestina per via marittima È infatti previsto un

pattugliamento marittimo congiunto con motovedette messe a disposizione dall’Italia. Le Parti si

impegnano ad effettuare operazioni di controllo, di ricerca e salvataggio nei luoghi di partenza e di

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transito delle imbarcazioni dedite al trasporto di immigrati clandestini, nelle acque territoriali

libiche e in quelle internazionali.

Di fatto tale comportamento, per altro applicato in precedenza anche dallo stato di Malta violerebbe

l’art 33 della Convenzione di Ginevra che fa divieto agli Stati di espellere o respingere i rifugiati e i

richiedenti asilo verso luoghi in cui la vita o la libertà ne sarebbero minacciati per motivi di razza,

religione, nazionalità, appartenenza a un particolare gruppo sociale o per la loro opinione politica.

Tale principio, detto di non-refoulement, viene riaffermato in diversi strumenti, in particolare

nell’ambito del diritto internazionale umanitario.

DIRITTO D'ASILO PER TERRORISTI

Lo straordinario sviluppo del terrorismo politico a partire dalla seconda metà del secolo scorso ha creato la

categoria dei terroristi fuggitivi, in cerca di "Santuari", luoghi dove potersi riprendere da ferite, cambiare

identità, cercare alleanze.

Nel primo dopoguerra i paesi più aperti nel concedere il "Diritto d'Asilo" ai terroristi politici furono i paesi

del blocco orientale. La Francia dall'inizio del nuovo terrorismo, anni '70, divenne il paese più ospitale. Vi

sono tuttavia anche altri paesi che concedono facilmente il "Diritto d'Asilo" ai terroristi politici.

***

LA DISCIPLINA A TUTELA DEI RIFUGIATI

Protezione dei rifugiati quale strumento sussidiario di protezione dei diritti umani. Chi ne è beneficiario?

Perché?

Servono parametri definiti: ad esempio, nella Convenzione sui Rifugiati del 1951 si richiede che la persona

che voglia beneficiarne debba adempiere ad una determinata procedura.

La Convenzione sui Rifugiati del 1951 e i protocolli del 1967 (31/01/1967) sono parte dell’acquis in materia

di Giustizia ed Affari Interni, sono pertanto inscindibili dagli obiettivi dell’U.E. e, di conseguenza, gli Stati

che vogliono entrare nella U.E. devono recepirli.

Lo stesso vale per la ECHR o CEDU (Convenzione Europea per la protezione dei diritti umani e delle libertà

fondamentali del 1951).

Il fatto che questi tre strumenti siano così importanti non significa che gli Stati membri siano sulla via della

creazione di un sistema comune di categorie relative alla protezione.

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Un’armonizzazione che abbia successo richiede che sia vincolante e completa, senza lasciare alcune

categorie non armonizzate.

Uno dei tentativi più positivi di uniformare è stato quello della “Joint Position” del 19669 sull’applicazione

armonizzata della definizione del termine “rifugiato”, così come previsto dall’art. 1 della Convenzione di

Ginevra del 195110.

Ma si tratta di un provvedimento non vincolante.

L’impegno alla protezione dei rifugiati non è esclusivamente una questione avente ad oggetto la protezione

dei rifugiati che arrivino nel’area di giurisdizione degli Stati europei e richiedano asilo nei territori U.E.

Sebbene l’asilo territoriale tradizionalmente rappresenti il nucleo della protezione e l’attuale regime per i

rifugiati si basi sull’idea dell’accesso libero per richiedere asilo a favore di coloro che sono fuggiti dal loro

Paese di origine, è evidente che la protezione vada oltre.

Dalla metà degli anni ’80, una serie di meccanismi messi in opera dagli Stati U.E. ha sortito l’effetto di

bloccare l’accesso alle procedure di asilo in U.E., mentre di norma queste politiche si giustificano per il fatto

di combattere l’immigrazione illegale e l’abuso del diritto di asilo, hanno però significativamente mutato

l’equilibrio tra controlli sull’immigrazione e protezione dei rifugiati, a danno di questi ultimi.

Vi sono politiche che fondano la legittimità della richiesta di asilo sull’analisi del merito dell’istanza di asilo,

ma vi sono politiche che sono caratterizzate dall’assenza di qualsiasi esame della domanda, e cioè operano

come barriere per coloro che chiedono asilo ed agiscono al fine di prevenire i richiedenti dall’ottenere lo

stato di rifugiati ed evitare che le esigenze di protezione siano esaminate (cd. “non arrivalpolicies”).

9Protocollo Relativo allo Status dei Rifugiati - Risoluzione 2198 (XXI) dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite Reso esecutivo in Italia con Legge n.95 del 14.2.1970 (G.U. n.79 del 28.3.1970) 10

Art. 1: Definizione del termine di "rifugiato"

“A. Ai fini della presente Convenzione, il termine di "rifugiato" è applicabile: 1) a chiunque sia stato considerato come rifugiato in applicazione degli accordi del 12 maggio 1926 e del 30 giugno 1928, oppure in applicazione delle convenzioni del 28 ottobre 1933 e del 10 febbraio 1938 e del protocollo del 14 settembre 1939, o infine in applicazione della Costituzione dell’Organizzazione internazionale per i rifugiati; le decisioni prese circa il riconoscimento della qualità dì rifugiato dell’Organizzazione internazionale per i rifugiati durante lo svolgimento del suo mandato non impediscono il riconoscimento di tale qualità a persone che adempiono le condizioni previste nel paragrafo 2 del presente articolo; 2) a chiunque, per causa di avvenimenti anteriori al 1° gennaio 1951 e nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi. Se una persona possiede più cittadinanze, l’espressione "Stato di cui possiede la cittadinanza" riguarda ogni Stato di cui questa persona possiede la cittadinanza. Non sono considerate private della protezione dello Stato di cui possiedono la cittadinanza le persone che, senza motivi validi fondati su un timore giustificato, rifiutano la protezione di uno Stato di cui posseggono la cittadinanza. …”

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Il meccanismo legale attorno al quale sono state strutturate le politiche di “non-admission” e “non-arrival” è

il requisito che i cittadini di certi Stati debbano essere in possesso di un visto per entrare nella U.E.

I singoli Stati della U.E. hanno così “spostato” lontano il controllo dalle proprie frontiere, assolvendo,

apparentemente, se stessi da responsabilità che sarebbero altrimenti loro.

Sulla base di politiche armonizzate, i requisiti sui visti sono Stati adottati per quasi ogni Paese i cui cittadini

possano Statisticamente avere un fondato motivo per chiedere asilo.

Ad esempio, in Italia sono state classificate diverse tipologie di visto, ciascuna delle quali necessita della

ricorrenza di specifici presupposti (visto per ricongiungimento familiare, visto per lavoro subordinato, visto

per studio ecc.).

Con riferimento all’ipotesi più ricorrente, quella del visto per lavoro, è prevista l’emanazione del Documento

Programmatico Triennale (come disposto dal sopraccitato T.U. sull’immigrazione), che dovrebbe dettare le

linee politiche, ma che non è più stato emanato dal 2007, nonchè del cd. “Decreto Flussi”, il quale dovrebbe

stabilire il numero di visti da rilasciare in ciascun anno (non emesso nel 2009, per ora ancora non emesso

nemmeno per il 2010).

La caoticità di tale disciplina normativa, la sua incapacità di regolamentare la situazione di fatto e la sua

lontananza dai principi di diritto umanitario e dalle sue caratterizzazioni che si stanno esaminando

testimoniano la necessità di un intervento radicale in questo settore.

Sebbene gli Stati membri della U.E. possono avere individuato ed adottato autonomamente politiche di

questo tipo, l’armonizzazione comunitaria delle politiche sui visti richiede che gli Stati membri siano

obbligati ad aderire a tali misure finalizzate a prevenire l’arrivo dei richiedenti asilo.

Inoltre, sono Stati armonizzati i mezzi di controllo, in modo tale da rinforzare le tendenze

all’esternalizzazione.

La U.E. deve pertanto considerarsi un attore importante nello sviluppo delle politiche di “non arrival”.

Esempi di external control

* La combinazione di requisiti di visto e sanzioni ai trasportatori per trasporto di passeggeri privi di un

passaporto valido e visto coinvolge i vettori nell’ambito dei controlli sull’immigrazione; un meccanismo,

questo, che riduce i costi di controllo e le procedure di asilo e può ben sollevare gli Stati da responsabilità per

azioni condotte invece da privati.

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Peraltro, la mancanza di previsioni che si apllichino a coloro che non sono in possesso di documenti e di

visto, perché in fuga e bisognosi di protezione, rende questa disciplina e l’efficacia delle sanzioni al vettore

incompatibile con le norme di base ed i principi del diritto internazionale umanitario.

Tuttavia il sistema, considerato efficiente, è sempre più utilizzato.

** Un’altra versione di “external control” è la prassi di alcuni Stati europei di inviare “immigrationofficers”

presso le proprie rappresentanze diplomatiche nei Paesi da cui si intende ridurre il flusso verso le proprie

frontiere.

Gli “immigrationofficers” europei svolgono personalmente controlli dei documenti di viaggio negli aeroporti

stranieri , cooperando con le autorità di polizia di frontiera del Paese di partenza o di quello di transito.

In assenza di norme che si occupino di diritti umani e della protezione dei rifugiati non si può escludere che

queste attività di controllo abbiano effetto su persone che hanno effettivamente bisogno di protezione,

bloccando l’accesso a procedure di asilo.

Ciò può portare a violazioni dei diritti umani: nei limiti in cui tali violazioni siano il risultato di attività di

pre-screeming di passeggeri all’aeroporto, condotte od assistite da ufficiali degli Stati europei,

potenzialmente destinatari dei flussi, il coinvolgimento degli Stati U.E. sembra sufficientemente attivo da

configurare una loro responsabilità in base al diritto internazionale.

Quale ultimo passo verso l’esternalizzazione dei controlli sull’immigrazione, la U.E. si è mossa verso una

forma di cooperazione diretta con Stati terzi al fine di ottenere che le loro autorità assumano il controllo e le

unzioni che altrimenti dovrebbero essere esercitate all’arrivo nell’Unione.

Burden – sharing

Nel diritto interno non vi è una norma che prescriva di condividere il costo relativo ad un’accoglienza non

equilibrata di persone bisognose di protezione.

“Burden-sharing” va interpretato quale requisito funzionale per l’osservanza della norma che proibisce il

“REFOULEMENT”, la conservazione di capacità di protezione e di accesso al territorio di Stati potenziali

ospiti.

Ma non è un prerequisito legale per il rispetto della norma di non-refoulement.

Negli anni sono Stati considerati diversi criteri, da criteri ridistributivi basati su % della popolazione totale

dell’Unione, % del territorio dell’Unione e % del PIL

o al contributo del singolo Stato nel prevenire una crisi

o nel fornire militari.

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� Financial burden-sharing

Oltre a norme finalizzate al “non-arrival” sono state previste norme per ri-allocare presso Paesi terzi sicuri.

Il punto di partenza dei criteri di ri-allocazione è la Convenzione di Dublino (15/06/1990). La facilitazione

all’ingresso e la mancanza nel “rimuovere” portano con sé responsabilità.

I criteri di Dublino disincentivano Paesi con popolazioni che già esistono sui territori di alcuni Stati europei,

quali network che attraggono ulteriori arrivi diretti.

CRITERI DI AMMISSIONE

Questioni : - attribuzione di responsabilità tra Stati U.E.

- concetto ed identificazione di “safethirdcountries”

Accoglienza e soggiorno durante l’esame della richiesta di asilo

Sono caratterizzati da discrezionalità e buona volontà dello Stato.

Comunque i principi generali del diritto umanitario devono applicarsi.

Problema peculiare è quello della detenzione dei richiedenti asilo; la detenzione va regolamentata in accordo

con l’art. 5 ECHR11 e gli artt. 9 – 10 dei Patti Internazionali sui diritti Civili e Politici12.

11Art. 5 - Diritto alla libertà ed alla sicurezza. “1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge: a. se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; b. se è in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o per garantire l'esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; c. se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso; d. se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa per sorvegliare la sua educazione o della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all'autorità competente; e. se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; f. se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione. 2. Ogni persona arrestata deve essere informata, al più presto e in una lingua a lei comprensibile, dei motivi dell'arresto e di ogni accusa elevata a suo carico. 3. Ogni persona arrestata o detenuta, conformemente alle condizioni previste dal paragrafo 1 (c) del presente articolo, deve essere tradotta al più presto dinanzi ad un giudice o ad un altro magistrato autorizzato dalla legge ad esercitare funzioni giudiziarie e ha diritto di essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante la procedura. La scarcerazione può essere subordinata ad una garanzia che assicuri la comparizione della persona all'udienza. 4. Ogni persona privata della libertà mediante arresto o detenzione ha il diritto di presentare un ricorso ad un tribunale, affinché decida entro breve termine sulla legittimità della sua detenzione e ne ordini la scarcerazione se la detenzione è illegittima. 5. Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione ad une delle disposizioni di questo articolo ha diritto ad una riparazione.” 12 Art. 9: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona. Nessuno può essere arbitrariamente arrestato o detenuto. Nessuno può esser privato della propria libertà, se non per i motivi e secondo la procedura previsti dalla legge. 2. Chiunque sia arrestato deve essere informato, al momento del suo arresto, dei motivi dell'arresto medesimo, e deve al più presto aver notizia di qualsiasi accusa mossa contro di lui. 3. Chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un'accusa di carattere penale deve essere tradotto al più presto dinanzi a un giudice o ad altra autorità competente per legge ad esercitare funzioni giudiziarie, e ha diritto ad essere giudicato entro un termine ragionevole, o rilasciato. La detenzione delle persone in attesa di giudizio non deve costituire la regola, ma il loro rilascio può essere subordinato a garanzia che assicurino la comparizione dell'accusato sia ai fini del giudizio, in ogni altra fase del processo, sia eventualmente, ai fini della esecuzione della sentenza. 4. Chiunque sia privato della

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Rimpatrio

Tipicamente, vi sono due esiti della procedura di asilo: positivo e negativo.

Se negativo l’individuo richiedente viene respinto; si tratta di persone che, dopo debito esame della loro

richiesta di asilo, con procedure corrette, si trovano non essere qualificate per lo stato di rifugiato, né avere

bisogno di protezione internazionale e che non sono perciò autorizzate a stare nel Paese in questione (MOU

UM High Commissiones for Refugees / Int. Organization for Migration ; MOU 1997).

Di norma, lo Stato in questione chiede al soggetto “rifiutato” di lasciare il proprio territorio; idealmente,

l’individuo obbedisce all’ordine volontariamente, il Paese di origine lo accoglie e lo status quo ante è

ripristinato.

Le politiche di rimpatrio si fondano su 4 considerazioni:

1. assicurarsi che il rifugiato si adegui volontariamente all’ordine di abbandonare il Paese

ospite.

Si va da semplici misure finalizzate ad informare sulla situazione nel Paese di origine ad incentivi

finanziari.

2. mettere in atto misure che rispondano al mancato rispetto dell’obbligo di rimpatrio.

Es: misure di identificazione (impronte digitali), localizzazione, documentazione (doc. viaggio) fino

a ordini di espulsione.

3. cooperazione con il Paese di provenienza, al fine di evitare ritardi.

4. assicurarsi la cooperazione di Stati terzi nelle operazioni di rimpatrio.

Tutte queste quattro politiche sono state oggetto nella U.E. di una serie di operazioni intergovernative, dando

luogo a norme vincolanti (quali la Convenzione di Dublino del 1990) e non.

propria libertà per arresto o detenzione ha diritto a ricorrere ad un tribunale, affinché questo possa decidere senza indugio sulla legalità della sua detenzione e, nel caso questa risulti illegale, possa ordinare il suo rilascio. 5. Chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha pieno diritto a un indennizzo.” Art. 10: “1. Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana. 2. a) Gli imputati, salvo circostanze eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti a un trattamento diverso, consono alla loro condizione di persone non condannate; b) gli imputati minorenni devono esser separati dagli adulti e il loro caso deve esser giudicato il più rapidamente possibile. 3.11 regime penitenziario deve comportare un trattamento dei detenuti che abbia per fine essenziale il loro ravvedimento e la loro riabilitazione sociale. I rei minorenni devono essere separati dagli adulti e deve esser loro accordato un trattamento adatto alla loro età e al loro stato giuridico.”

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Per quanto riguarda le misure (2) è norma base che la persona ritenuta definitivamente impossibilitata ad

ottenere permesso di asilo e che non abbia ulteriori facoltà di ricorso debba essere espulsa, a meno che vi

siano ragioni urgenti, di norma di natura umanitaria, che permettano di rimanere ove tale persona sia o possa

essere detenuta; la detenzione prima dell’espulsione deve essere utilizzata per ottenere i necessari documenti

di viaggio per l’espulsione.

Agli Stati membri viene raccomandato di fare uso di documenti di viaggio di sola andata.

4 aree ove alcune lacune vanno riempite:

1. Rimpatri volontari

Il ritorno volontario è estremamente più dignitoso di un rimpatrio forzato.

In dubiomitius : in caso di dubbio va applicata la misura meno invasiva (preferenza del rimpatrio volontario

su quello forzato).

2. Detenzione

Le decisioni sulla detenzione devono conformarsi con l’art. 5 (1) ECHR13.

Tale previsione postula che la misura detentiva sia basata sul diritto, decisa in base ad una corretta procedura

e limitata allo scopo.

Un “respinto” può essere detenuto quando ciò serva in previsione della deportazione.

La detenzione per scopi che non siano quelli di cui all’art. 5 (1) ECHR è illegale.

Ad esempio, sarebbe illegale continuare la detenzione allorché il rimpatrio fosse impossibile.

Inoltre:

a) è illegale detenere un “respinto” che ragionevolmente non possa rendersi irreperibile.

13“1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, salvo che nei casi seguenti e nei modi prescritti dalla legge: a. se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente; b. se è in regolare stato di arresto o di detenzione per violazione di un provvedimento emesso, conformemente alla legge, da un tribunale o per garantire l'esecuzione di un obbligo prescritto dalla legge; c. se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente, quando vi sono ragioni plausibili per sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati per ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di fuggire dopo averlo commesso; d. se si tratta della detenzione regolare di un minore decisa per sorvegliare la sua educazione o della sua detenzione regolare al fine di tradurlo dinanzi all'autorità competente; e. se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo; f. se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione.”

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Il detenere, come prassi, tutti coloro ai quali sia stato rifiutato asilo è contrario all’art. 5 (1).

b) è illegale detenere un “respinto” quando le procedure di rimpatrio siano boccate; ad esempio poiché vi

sono ostacoli legali al rimpatrio (art. 3 ECHR14), intesa non quale impossibilità assoluta di rimpatrio ma

come probabilità entro un tempo ragionevole.

Inoltre, la detenzione per punire il “rifiutato” per mancanza di cooperazione è illegale.

Lo stesso vale per i casi in cui la detenzione abbia il fine di dissuadere altri aliens dal chiedere asilo.

3. Condizioni di detenzione

Le condizioni di vita in detenzione sono fondamentali. I centri devono essere progettati specificatamente per

lo scopo, le condizioni devono corrispondere agli standard internazionali, quali quelli di cui all’art. 3 ECHR

e di cui agli artt. 10 (1) e (2)15 dei Patti internazionali sui diritti civili e politici.

4. Uso della forza in detenzione

Ad ogni stadio delle procedure di espulsione l’”alien” non deve mai essere soggetto a torture, trattamenti

disumani o degradanti o punizioni.

Art. 3 ECHR: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”

Va sempre identificato il livello di proporzionalità tra la sofferenza inflitta e gli scopi legittimi perseguiti.

L’uso della forza va interpretato ai sensi dell’art. 3 ECHR e non sempre è illegittimo.

***

IL PRINCIPIO DI CONDIZIONALITÀ ALL’INTERNO DEI TRATTATI EUROPEI NEL QUADRO

DELLA COOPERAZIONE ALLO SVILUPPO

1. Introduzione: La nascita della politica estera europea

La politica estera europea è stata sin dal suo nascere caratterizzata dalla profonda contraddizione esistente tra

il procedimento evolutivo che conduce gli Stati aderenti verso la costruzione di un destino comune16,

14Articolo 3- Divieto della tortura.Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti. 15 “1. Qualsiasi individuo privato della propria libertà deve essere trattato con umanità e col rispetto della dignità inerente alla persona umana. 2. a) Gli imputati, salvo circostanze eccezionali, devono essere separati dai condannati e sottoposti a un trattamento diverso, consono alla loro condizione di persone non condannate; b) gli imputati minorenni devono esser separati dagli adulti e il loro caso deve esser giudicato il più rapidamente possibile.” 16 CIG 81/04, DQGP, 16 giugno 2004, Preamble, pag. 5

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attraverso il costante dibattito istituzionale interno, e la necessità di creare una politica estera comunitaria

capace di tradurre i principi dettati dai trattati istitutivi dell’Unione mediante la creazione di una Politica

Estera e di Sicurezza Comune (PESC). 17

Il quadro politico internazionale degli anni 90, i profondi cambiamenti degli assetti geopolitici dell’area

Europea, dal crollo del Muro di Berlino del 1989, fino alle crisi dei Balcani, hanno acuito la consapevolezza

per gli Stati aderenti della crescente necessità di radicare il ruolo da essi assunto nella Comunità

Internazionale. La dimensione statale dell’azione politica verso l’estero risultava infatti, non più in grado di

affrontare in maniera paritaria le sfide internazionali. Si sono gettate così le basi per l’istituzionalizzazione

di un nuovo interlocutore geopolitico capace di tradurre i principi condivisi dagli Stati aderenti all’interno

della Comunità Internazionale.

In ciò sta la ricchezza e la portata innovatrice del Trattato di Maastricht18 che ha formalizzare i principi

giuridici per un cammino di crescita e maturazione istituzionale attraverso il quale si è giunti all’attuale

dibattito sulla costituzione europea. Dallo stesso trattato è quindi necessario prendere le mosse per

identificare ed analizzare il ruolo che assume, all’interno della dimensione europea, la cooperazione allo

sviluppo quale strumento di promozione del modello europeo e le forme in cui esso può manifestarsi.

2. Verso la creazione di una politica estera comune: la sovranità statale ed il ruolo della cooperazione allo

sviluppo attraverso le previsioni del Trattato di Maastricht

Procedendo quindi alla disamina delle posizioni innovatrici che trovano spazio all’interno del Trattato di

Maastricht, e quindi del Trattato Istitutivo della Comunità Europea, è bene porre l’accento su due articoli in

particolare, cui va attribuito il merito chiarificatore e definitorio di costituire l’asse giuridico attraverso cui

l’azione di cooperazione europea in materia di politica estera trova un fondamento ed un riconoscimento

giuridico nell’ottica della cooperazione internazionale per lo sviluppo.

1- Il titolo V del Trattato di Maastricht, ed in particolare l’art.. 11, come modificato dal Trattato di

Amsterdam, ha il pregio di sancire definitivamente da un lato, il ruolo che deve assumere, nella politica di

cooperazione europea che fonda l’esistenza dell’Unione, l’azione di politica estera comune (PESC), e,

dall’altro, indicare gli obiettivi e le modalità di esercizio cui essa deve tendere.

ART. 11 (ex. Art. J.1)19

17 Art. 11, Titolo I, Disposizioni Comuni, Trattato sull’Unione Europea,GUCE, C 340/97 del 10 novembre 1997, 18Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, in GUCE, C 340/97 del 10 novembre 1997 19 Art. 11, Titolo I, Disposizioni Comuni, Trattato sull’Unione Europea,GUCE, C 340/97 del 10 novembre 1997,

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L'Unione e i suoi Stati membri stabiliscono ed attuano una politica estera e di sicurezza comune disciplinata

dalle disposizioni del presente titolo ed estesa a tutti i settori della politica estera e di sicurezza. Gli obiettivi

della politica estera e di sicurezza comune sono i seguenti: 1) difesa dei valori comuni, degli interessi

fondamentali e dell'indipendenza dell'Unione; 2) rafforzamento della sicurezza dell'Unione e dei suoi Stati

membri in tutte le sue forme; 3) mantenimento della pace e rafforzamento della sicurezza internazionale,

conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite, nonché ai principi dell'Atto finale di Helsinki e

agli obiettivi della Carta di Parigi; 4) promozione della cooperazione internazionale; 5) sviluppo e

consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, nonché rispetto dei diritti dell'uomo e delle libertà

fondamentali.

In particolare, due sono gli spunti sui quali è bene riflettere al fine di inquadrare correttamente il fondamento

e la portata giuridico/politica delle previsioni contenute nell’articolo:

1- politica comune / politica unitaria: il profondo dualismo connaturato all’esistenza

dell’Unione Europea che si concretizza in una continua mediazione, anche giuridica, tra una politica

accentratrice che presuppone il trasferimento di poteri in capo ad un nuovo soggetto

“costituzionale”, e l’atteggiamento politico prudenziale di preservare l’azione sovrana degli Stati

aderenti trova un pratico riscontro nella stessa definizione della politica estera cui l’articolo tende a

costituire il fondamento. L’aggettivo “comune” porta infatti a considerare che la politica estera

dell’Unione non possa risolversi in un’azione unitaria in grado di rappresentare le aspettative e le

esigenze degli Stati aderenti. Invero, ad un atteggiamento diffuso tra le autorità statali di non

acconsentire benevolmente ad una limitazione della propria sovranità, si contrappone la necessità di

istituzionalizzare il ruolo dell’Unione Europea verso la traduzione dei principi che costituiscono il

fondamento della cooperazione interstatale; ne consegue che l’azione di politica estera non possa che

tendere a rappresentare e riunire le singole posizioni statali rispetto alle questioni di comune

interesse20.

2- Il Ruolo dei diritti umani: una volta definita l’essenza comunitaria, e non unitaria della

politica estera dell’Unione, è necessario puntualizzare quali siano gli obiettivi cui essa debba tendere

secondo il legislatore europeo. Si assiste in merito ad una duplice affermazione: a) da un lato infatti

l’articolo prevede che la politica estera comune debba mirare a “difendere” (§1) “rafforzare” (§.2),

“mantenere” (§3) i principi su cui l’Unione stessa deve risultare fondata. Interpretata unicamente in

tale prospettiva però l’azione politica estera assumerebbe un significato particolarmente riduttivo ed

20 A. Lang in Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione Europea, Cedam, Padova,2001pagg. 31 e ss.

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immobilizzante, posto che preservare i valori comuni, costituisce logicamente l’antefatto che porta

soggetti distinti a costituire una comunità. b) Dall’altro, viene contestualmente previsto che la

politica estera trovi il proprio dinamismo nel “promuovere” (§4) e “sviluppare” (§5) la cooperazione

internazionale, la democrazia nonché il rispetto dei diritti umani i quali, per la prima volta, trovano

nei trattati istitutivi dell’Unione un vero e proprio riconoscimento giuridico.

2- Le previsioni che ineriscono la creazione di una politica estera comune, trovano ulteriore conforto nelle

previsioni dell’art. 177 del Trattato che Istituisce la Comunità Europea. Per la prima volta, invero, viene

inserita tra le competenze dell’Unione, dietro proposta di Paesi Bassi, Germania e Danimarca, all’interno del

titolo XX (ex titolo XVII), la dimensione della cooperazione allo sviluppo quale attività integrativa alle

azioni di cooperazione internazionale poste in essere dai singoli Stati, ma che assume un ruolo nettamente

distinto dalla politica estera comune prevista dall’art. 11, non potendo essere considerata come una semplice

appendice di essa, in quanto portatrice di obiettivi e peculiarità proprie.

ART. 177 (ex 130 U)21

1. la politica della Comunità del settore della cooperazione allo sviluppo che integra quelle

svolte dagli Stati membri, favorisce:

– lo sviluppo economico e sociale sostenibile dei Paesi in via di sviluppo, in particolare di quelli più

svantaggiati;

- l’inserimento armonioso e progressivo dei Paesi in via di sviluppo nell’economia mondiale;

- la lotta alla povertà nei Paesi in via di sviluppo;

2. la politica della Comunità in questo settore contribuisce all’obiettivo generale di sviluppo e

consolidamento della democrazia e dello stato di diritto, nonché al rispetto dei diritti dell’uomo e delle

libertà fondamentali.

3. La Comunità e gli Stati membri rispettano gli impegni e tengono conto degli obiettivi riconosciuti nel

quadro delle Nazioni Unite e delle altre organizzazioni internazionali competenti.

La scelta di differenziazione operata dal legislatore europeo trova infatti ragione d’essere nella

considerazione che, l’eventuale inserimento all’interno dell’art. 11 della menzione alla cooperazione allo

sviluppo, avrebbe inevitabilmente comportato un regresso “formale” dei valori e degli obiettivi che essa

persegue. Difatti, al tempo della stesura del trattato, gli innumerevoli strumenti di azione posti in essere dagli

Stati europei attraverso soprattutto gli accordi commerciali e di cooperazione economica avevano raggiunto

21 Art. 177,Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, (C 325 del 24 dicembre 2002)

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un livello di diffusione e di complessità per cui, l’eventuale parificazione della cooperazione allo sviluppo

alle ulteriori finalità previste dall’art. 11, si sarebbe tradotta in puro esercizio di stile mancate di un

fondamento reale.

3. Il principio di condizionalità politica quale strumento di promozione

Chiarito il quadro entro cui la dimensione della cooperazione allo sviluppo trova uno spazio autonomo

all’interno del Trattato di Maastricht e del Trattato che istituisce la Comunità Europea, l’esame dell’art. 117

suggerisce all’interprete ulteriori e particolari indicazioni:

a) L’art. 177 definisce, infatti, il ruolo preminente che assumono i Paesi in Via di Sviluppo quali destinatari

privilegiati dell’azione di cooperazione internazionale svolta dalla Comunità a cui gli Stati aderenti devono

ispirarsi (cfr. p.3) e a cui devono riferirsi per costruire un’azione integrata di sostegno;

b) All’interno dell’articolo viene posto inoltre l’accento sulle caratteristiche dell’azione di cooperazione che

la Comunità di prefigge di porre in essere; accanto quindi ad un obiettivo di lungo periodo, quale il

progressivo ed armonioso inserimento nell’economia mondiale dei Paesi in via di Sviluppo, volto a definire

il ruolo dell’azione di sostegno svolto dalla Comunità che non può trasformarsi in un’assistenza permanente,

viene altresì indicato che la politica di cooperazione non può limitarsi ad un’azione esterna di sviluppo ma

deve prendere le mosse direttamente dall’interno dei Paesi destinatari, non potendosi interpretare

semplicisticamente tale obiettivo quale ripetizione del primo principio22;

c) La portata innovatrice delle previsioni dell’articolo attiene però principalmente al riconoscimento del

ruolo che assume la tutela dei diritti umani all’interno dell’azione generale di consolidamento e sviluppo

dello stato di diritto. In ciò trova finalmente formale riconoscimento il principio di condizionalità quale

strumento di promozione della tutela dei diritti umani e quale discriminante per l’erogazione di strumenti

finanziari di assistenza.

Si assiste così per la prima volta ad una chiara definizione degli strumenti di attuazione della politica di

cooperazione allo sviluppo che non può più essere ridotta a semplice strumento di finanziamento agli Stati in

un’ottica assistenziale ma deve essere concepita quale autonomo istituto, in cui l’azione finanziatrice risulti

il mezzo ma non lo scopo.

22 A. Lucchini, in Commentario breve ai Trattati della Comunità e dell’Unione Europea, Cedam, Padova, 2001, pagg. 672 e ss.

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Ulteriore testimonianza del profondo radicamento dell’azione di cooperazione descritta nei Trattati, è data

dal Regolamento (CE) n. 975/1999 del Consiglio, del 29 aprile 1999, che in seguito ha fissato le modalità di

attuazione delle azioni di cooperazione allo sviluppo che contribuiscono all'obiettivo generale di promozione

e consolidamento della democrazia e dello stato di diritto nonché a quello del rispetto dei diritti dell'uomo e

delle libertà fondamentali23dove tra l’altro viene disposto, all’art. 1, che “Le azioni previste dal presente

regolamento sono realizzate nel territorio dei Paesi in via di sviluppo o sono connesse con situazioni che si

verificano nei Paesi in via di sviluppo” e, successivamente, all’art. 10, che venga destinato a tali azioni un

monte di finanziamenti per il periodo 1999-2004 pari a 260 milioni di Euro.

4. Il principio di condizionalità e le sue implicazioni nella politica di cooperazione allo sviluppo

Esaminate le disposizioni che, all’interno del quadro giuridico offerto dal trattato di Maastricht e dal trattato

che istituisce la Comunità Europea, descrivono il ruolo e la politica dell’Unione, è bene soffermarsi

brevemente sulle implicazioni che sottendono all’applicazione del principio di condizionalità nella

dimensione della cooperazione allo sviluppo.

Il principio di condizionalità politica, che si può riassumere come la facoltà dell’Unione Europea di

“subordinare lo sviluppo delle relazioni [esterne N.d.A.] al rispetto di condizioni politiche ed economiche per

costituire le basi per una coerente politica volta allo sviluppo di relazioni bilaterali nel campo degli scambi

commerciali, dell’assistenza finanziaria e della cooperazione economica”24 presuppone infatti un’attenta

riflessione sul valore che l’azione politica assume nel quadro di un’effettiva cooperazione tra gli Stati.

Senza voler entrare nel merito dei presupposti filosofico-giuridici che sottendono all’identificazione delle

condizioni ritenute imprescindibili per l’instaurazione di una corretta relazione di cooperazione con Paesi

extra UE, è necessario tuttavia delineare alcune riflessioni che tale principio risulta in grado di suscitare.

Se, infatti, in un’ottica prettamente giuridica, la condizione possa essere definita come “l’elemento

accidentale […] posto dalla volontà delle parti al fine di subordinare l’inizio o la cessazione [di un’azione

N.d.A.] al verificarsi od al non verificarsi di un avvenimento futuro ed incerto”25, il valore della stessa

laddove sia connaturata ad una valutazione politica cambia radicalmente.

23 REG. (CE) n. 9751999 in GUCE n. L 120 del 08/05/1999 pag. 0001 – 0007 24 Conclusioni del Consiglio sul principio di Condizionalità al fine di sviluppare le relazioni dell’Unione europea con taluni Paesi dell’EuropaSudorientale, Bollettino UE 4-1997, 2.2.1 25 F. Del Giudice, Nuovo dizionario giuridico, Edizioni Simone, 1998, Napoli, pag. 288

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In effetti, in una prospettiva di politica internazionale, seppur il Trattato preveda degli obiettivi specifici cui

l’azione esterna dell’Unione deve tendere, il valore e la chiarezza giuridica del concetto di condizione

rischiano di risultare subordinati all’opportunità politica, strategica ed economica cui la politica estera

diviene spesso interprete.

In egual maniera, posto che le disposizioni racchiuse all’interno del disposto dell’art. 177, in quanto norme

giuridiche, devono presentare una ratio legis, ovvero il fine ultimo, lo scopo26 che il legislatore europeo

intende perseguire attraverso l’emanazione delle stesse, è tuttavia da sottolineare come lo strumento della

cooperazione allo sviluppo, realizzata attraverso il principio della condizionalità corre il rischio di divenire il

mezzo privilegiato attraverso cui viene esercitata la supremazia da parte di un soggetto economicamente

forte.

Di conseguenza, la valenza del principio di condizionalità risolve la propria essenza e forza concettuale nella

discriminante tra promozione ed ingerenza, ed in particolare, nel fissare le condizioni, ovvero i requisiti e gli

obiettivi a mezzo dei quali la cooperazione economica trovi una reale attuazione e divenga cooperazione allo

sviluppo.

Differentemente, lo sviluppo economico, la lotta alla povertà, il consolidamento della democrazia, ed il

rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali27 rischiano di rivelarsi delle pure affermazioni di

principio cui non segue una reale concretizzazione.

Tali obiettivi, nonché lo stesso concetto di condizionalità, presentano infatti un’anomalia di fondo che si

concretizza nel dualismo esistente tra le contrapposte esigenze di fissare, da un lato, condizioni in grado di

soddisfare tangibili richieste di perseguibilità da parte dei destinatari dell’azione politica che risultino alla

portata della cooperazione allo sviluppo e, dall’altro, di preservare i valori e le peculiarità offerte dalle

culture dei Paesi destinatari dell’azione politica europea per non vedere ridotta la stessa ad una semplicistica

affermazione di forza, ad un’imposizione di modelli, che dettino principi avulsi da un sostrato socio-

culturale in grado di recepirli ed a sua volta di svilupparli.

L’art. 177 descrive quindi un processo dinamico che deve necessariamente scaturire da un dialogo tra

l’Unione Europea ed i Paesi in Via di Sviluppo attraverso il quale siano identificabili concreti percorsi di

crescita e di sviluppo.

26 Ibidem, pag. 1001 27 Supratesto art. 177

24121 Bergamo, via Pignolo, 123tel. 035 2052 422 fax 035 2052 430 e-mail: [email protected] Università degli Studi di Bergamowww.unibg.it Cod. Fiscale 80004350163 P.IVA 01612800167

Pertanto, seppur appaia inoppugnabile il forte legame che deve sussistere tra l’azione di cooperazione

internazionale promossa dall’Unione, in particolare nel merito della cooperazione allo sviluppo, da un lato,

ed il rispetto e la promozione dei diritti umani, e della democrazia dall’altro28, diviene requisito irrinunciabile

che l’individuazione dei criteri attraverso cui tale azione politica trovi attuazione, tengano in debita

considerazione il contesto socio-politico entro cui tali condizioni debbano produrre un reale effetto.

Altrimenti, la portata innovatrice conseguente alla definizione dei principi sottesi all’azione di cooperazione

allo sviluppo promossa dal Trattato di Maastricht, rischia di ridursi ad una semplice normativa di principio.

5. Il principio di condizionalità all’interno del dialogo Europa – Africa

In tali termini va inquadrata la cooperazione tra l’Unione Europea ed i Paesi ACP che risale alla stessa

creazione della Comunità Economica e rappresenta una aspetto fondamentale dell’azione politica di sviluppo

dell’Unione e delle sue relazioni esterne. A partire dal 1975 con l’adozione delle Convenzioni di Lomè, fino

alla recente Convenzione di Cotonou, del 23 giugno del 2000, le relazioni tra i Paesi ACP e l’Unione

Europea sono divenute man mano più strette, profonde e complesse e risultano tutt’oggi articolate attorno a

due poli principali: la cooperazione economica e commerciale e la cooperazione allo sviluppo.

Nei recenti colloqui tenutisi a Roma, nel novembre 200329 e nelle successive riunioni, è chiaramente emerso

come il dialogo costante e continuo tra le organizzazioni regionali africane (ECOWAS, NEPAD, IGAD,

SADC) sia il mezzo attraverso cui la ristabilizzazione del continente possa costituire il presupposto

essenziale per lo sviluppo economico dell’area.30

In tale prospettiva, si potrà quindi verificare in che termini la definizione dei requisiti e delle condizioni cui

l’Unione Europea subordinerà l’azione nell’area, potranno attualizzare e concretizzare positivi riscontri in

termini di cooperazione economica e di sviluppo che non può comunque prescindere dal costante dialogo

intraistituzionale31 quale strumento di comprensione delle reciproche esigenze nell’intento di una concreta

traduzione dei principi definiti nel Trattato di Maastricht. 32

28Cfr. Risoluzione del Parlamento Europeo sui diritti umani nel mondo nel 2003 e la politica dell’Unione Europea in materia di diritti umani, Azioni all’esterno dell’Unione Europea, Aspetti generali, in Bollettino EU 4-2004, Diritti dell’uomo, (5/11), 1.2.5 29 EU – Africa Dialogue – Ministerial Troika Meeting, Rome, 10 november 2003, Final Communique, 14571/03 (Presse 323) 30 UE Presidency Conclusions, Brussels, 12 December 2003, p.77 31 Ibidem, 75 32 Supra, art. 11 Trattato di Maastricht e Art. 177 Versione Consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, BOE 325 del 24 dicembre 2002)