PINK FLOYD STORY

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EURO 7,00 LUCINDA WILLIAMS TWEEDY LEONARD COHEN JACK BRUCE DIRETTO DA MAX STÈFANI IL MEGLIO DELLA STAMPA ROCK INTERNAZIONALE PINK FLOYD STORY N. 19 / ANNO 2/3 DIC 2014 GEN 2015 20

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EURO 7,00

LUCINDA WILLIAMS TWEEDY LEONARD COHEN JACK BRUCE

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PINK FLOYDSTORY

N.19/ ANNO 2/3 D I C 2 0 1 4G E N 2 0 1 520

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ROLLING STONESL.A. FORUM - LIVE IN 75____________DVD / DVD + 2 CD / DVD + 3LP“L.A. Forum - Live In 1975”è il secondo titolo della serie FROM THE VAULT direttamente dagli archivi dei Rolling Stones; questa volta il tour di riferimento è quello del 75, denominato “Tour Of The Americas ’75”, il primo con il nuovo chitarrista Ronnie Wood.Dopo un paio di concerti di “riscaldamento” in Louisiana il tour salpò alla volta di 44 date dal 3 giugno all’8 agosto 1975. Cinque furono le notti al FORUM di Los Angeles dal 9 al 13 luglio, questa è quella del 12 luglio, con tanto di audio restaurato e nuovamente mixato da Bob Clearmountain. Un documento imperdibile!

ERIC CLAPTONPLANES, TRAINS AND ERIC ____________DVD / BLU-RAYLa fedele testimonianza del tour di Eric Clapton con la sua band in estremo oriente nel 2014 con performance complete estratte dal tour oltre a interviste con lo stesso Clapton e i membri della band , durante prove, soundcheck, viaggi in treno e in aereo; mostrandoci sotto ogni punto di vista che significa andare “On the road” con Eric Clap-ton.

DEEP PURPLEWITH ORCHESTRA LIVE IN VERONA____________DVD / BLU-RAYConcerto ripreso nella a dir poco spettacolare cor-nice della storica Arena di Verona. Questo concer-to dell’estate del 2011 vede i Deep Purple esibirsi nei loro classici più famosi con il supporto di una intera orchestra . Disponibile anche in alta definizione (Blu-ray) per la gioia dello sterminato seguito dei DEEP PURPLE.

DOORSFEAST OF FRIENDS ____________DVD / BLU-RAYFeast Of Friends è stato filmato nel 1968, come primo ed unico film prodotto dai Doors sui Doors. Ci offre una visione cinematografica che vede la band on the road nel corso del tour dell’estate di quell’anno. Sebbene non del tutto completato il film fornisce un approccio in pieno stile cinema veritè tipico de-gli anni 60 con spezzoni di concerti e riprese dirette del gruppo nel loro habitat naturale.

GENESISSUM OF THE PARTS____________DVD / BLU-RAYI Genesis si raccontano in un documentario che ripercorre la loro incredibile carriera. ‘Sum of the Parts’, contiene i contributi dei membri del passato e del presente: Tony Banks, Phil Collins, Peter Gabriel, Steve Hackett, Mike Rutherford e Anthony Phillips. Prodotto da Eagle Rock Film Productions e diretto da John Edginton il docu-film racconta quella che è una straordinaria avventura musicale, capace di esplorare il gruppo dall’interno e di mettere in rilievo alti e bassi della loro intera avventura. ‘Sum of the Parts’ contiene anche il documentario ‘Together and Apart’ prodotto e trasmesso solo dalla BBC.

ROLLING STONES FROM THE VAULT/ HAMPTON COLISEUM LIVE IN 1981____________DVD / SD BLU-RAY / DVD + 2 CD / DVD + 3LP“From The Vault” è la nuova serie di concerti dal vivo estratti dall’archivio dei Rolling Stones che vengono per la prima volta pubblicati ufficialmen-te. “Hampton Coliseum - Live In 1981” è il primo titolo di questa fantastica serie, che inizia dal quel magico tour americano del 1981 per la release dell’album “Tattoo You”, in grado di fruttare ben 50 milioni di dollari in biglietti venduti. Saltiamo con Mick Jagger sulle note di “Tumbling Dice,” “Miss You,” “Brown Sugar,” “Jumping Jack Flash,” “(I Can’t Get No) Satisfaction” e molte altre.

MONTY PYTHONLIVE (MOSTLY) ONE DOWN FIVE TO GO ____________DVD / BLU-RAY / DE LUXELa reunion sul palco dei Monty Python per la pri-ma volta dopo 30 anni è stato uno degli eventi del 2014. Ripreso dal vivo la sera finale del 20 luglio dopo ben 10 performance alla O2 Arena di Londra di fronte ad un pubblico di oltre 200.000 persone. Tra i bonus troviamo i dietro le quinte dell’annuncio della reunion del novembre 2013, della produzione e del backstage alla 02 Arena delle serate del luglio 2014. Il tutto disponibile in alta definizione DVD, Blu-Ray e in versione De Luxe con audio esclusivi dello show in 2 CD e un libretto fotografico di 64 pagine.

GENESISTHREE SIDES LIVE____________DVD / BLU-RAY“Three Sides Live” è un documento filmato che ri-sale al Novembre del 1981 durante il tour di “Aba-cab” in Nord America, originariamente pubblicato in VHS per l’uscita sul mercato dell’omonimo album dal vivo. Fu reso disponibile come DVD solo nel box limitato di “The Movie Box 1981-2007”. Prodotto in origine in 16mm, il filmato è stato interamente restaurato ed è finalmente disponibile come standard DVD e Blu-ray per la prima volta in assoluto.

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OVERTUREdi Max Stèfani

beri inutilmente tagliati?) e alle nostre casse. Anche perché dei 7 euro che costa la rivista ce ne arrivano a malapena poco più di 3.È un suicidio.E non è neanche possibile ridurre la tiratura perchè se si diminuisce porta con sé anche il calo delle vendite. Nessun giornale regge 60mila edicole. Inoltre, ciò ci consente anche di tornare alla stampa in ‘pia-na’ dei primi numeri, che offriva una risultato migliore.‘OUTSIDER’ è un giornale di qualità nei testi. Nelle fo-tografie. Nell’impaginazione. E tutto questo merita anche una qualità di stampa e di carta che ne faccia risaltare le doti.Resta comunque inteso che anche qualora non si raggiun-ga un numero di abbonati tale per garantire la sopravvi-venza, verrà stampato nelle copie necessarie per tutto il 2015, onde non lasciare nessuno a piedi.

So che per molti sarà un boccone amaro da digerire, perchè anni e anni d’inefficienza della Posta ci hanno insegnato a non fidarci, perché siamo abituati fin da quando comin-ciamo a leggere a rivolgerci all’edicola sotto casa, perché comunque non crediamo nel prossimo.Siano l’editore, la Posta, il postino, i vicini di casa, che si-curamente ci rubano la posta, il politico, il collega di la-voro etc.Ma il mercato è cambiato e dobbiamo bene o male avvici-narci ai paesi più avanti di noi, dove le edicole non esistono e i giornali vengono spediti solo per posta. Valga per l’In-ghilterra o gli Stati Uniti.Troppo dispendioso il percorso che porta questo giornale sotto casa vostra. Alla fine per vendere le attuali 4000 copie (comunque più dei vari ‘Mucchio’, ‘Blow Up’, ‘Rumo-re’) bisogna stamparne 15.000. E fa male buttare al macero 11mila copie! È uno spreco dannoso alla natura (quanti al-

Torniamo al nostro progetto iniziale, che era quello di fare un giornale di alta qualità solo per abbonamento. La discesa negli inferi delle edicole non era prevista né tantomeno voluta.Di conseguenza questo numero di dicembre/gennaio esce normalmente nelle edicole italia-ne, ed è doppio, per dare a tutti voi che ci leggete il tempo per abbonarsi, per trovare 60 euro, 5 euro al mese, 16 centesimi al giorno, che possano allungare la vita di questo giornale fino

a che non saremo tutti vecchi e appagati di rock.Da febbraio saremo solo in abbonamento.

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vivo che riporta il rock ve-nato di country al massimo del suo splendore, con una sequenza di canzoni che rac-chiudono l’intero percorso della cantautrice americana, dimostrando che quando l’i-spirazione si miscela a cuore, esperienza, sentimento e tec-nica la mente vola.Lucinda che ha inizio 2014 già ci aveva deliziato con la ristampa dell’omonimo e seminale album del 1988, che non solo annunciò l’ar-rivo di una voce di grande significato per le arti e la letteratura americana, ma segnò anche la nascita di un nuovo genere: l’alt country. L’incipit dell’articolo dice ‘Troppo country per essere rock - Troppo rock per essere country’. Può darsi, ma per fortuna il mercato italiano non è per lei fondamenta-le. Ne può fare volentieri a meno. Non noi però. Si prosegue con Tweddy,

perché il suo nuovo disco con il nipote è l’ennesima chicca dell’ex leader dei Wilco. A aprire la ‘wild song’ del mese, ovvero Hallelujah, fate voi se nell’originale di Leonard Cohen o nella più famosa delle cover, quella di Jeff Buckley. A chiudere un breve excursus sulle migliori uscite disco-grafiche di questo 2014. O scaricate o preparate il portafo-glio…E poi la solita messe di recensioni di dischi nuovi (ricor-datevi che noi aspettiamo sempre uno-due mesi rispetto ai nostri colleghi) come Neil Young, Brian Setzer, Damien Rice, Mark Lanegan, Lucero, Jerry Lee Lewis etc, ristam-pe, vedi David Wiffen, Lowell George, George Harrison, Paul McCartney, Ry Cooder, Big Star, Steve Ray Vaughan etc., chicche della parte finale “Mixed Up”, cioè Marshall Tucker Band, Quicksilver, Dave e Phil Alvin nel loro tour italiano da noi sponsorizzato, Bad Company, Sonnie Ler-che etc.Anche per questo mese è tutto. Ci vediamo fine gennaio, ma state collegati sul nostro sito www.outsiderock.com o su facebook.

Buon Natale e capo d’anno.Con affetto i vostri Jake e Elwood, Max Stèfani e Giancar-lo Trombetti.

Detto questo, passiamo alla musica.Pare proprio che il disco dei Pink Floyd abbia riportato in Italia la gente nei negozi di dischi. Contenti per una boccata di ossigeno necessa-ria. Solo per questo l’evento andrebbe comunque festeg-giato. Si parla anche di un loro passaggio a San Remo…Ma, come dice Michele Bor-soi in facebook, c’è sempre un leggero velo di tristezza: “È proprio uno strano mon-do questo in cui per settima-ne sono stati riempiti media e social network di commen-ti e notizie inerenti alla sua pubblicazione come se si fos-se trattato del miracolo della liquefazione del sangue di San Gennaro (sostanzial-mente una bufala), mentre la pubblicazione dell’inte-grale dei Basement Tapes, che stanno al rock e alla mu-sica popolare del ‘900 come gli affreschi della cappella degli Scrovegni stanno alla pittura del ‘300 e del primo ri-nascimento, non se li sia filati praticamente nessuno”. Noi prendiamo l’occasione al volo per dedicare ai 5 uomini inglesi (la copertina a Gilmour non ha particolari signifi-cati, è solo un buon scatto) lo spazio necessario per rinver-dire una bella e lunga storia.Poi a voi giudicare la qualità del disco che ha diviso come pochi.Potrei suggerirvi di non trascendere visto che non esistono verità assolute nella musica? ...ognuno sente e si emoziona per chi ama. Comunque, per giudicare la qualità della critica rock loca-le... per la metà i Pink Floyd muoiono con Barrett. Per l’altra metà si fermano a Ummagumma, un disco che tutti gli au-tori definiscono, con un delicato giro di parole, una cacata.Io e Trombetti ci siamo rotti la testa a cercare e tradurre il meglio, onde fornire uno spaccato del ‘mondo Pink Floyd’ il più completo possibile.

Lucinda Williams meritava lo spazio che volentieri gli concediamo. E a dirla tutta anche la copertina, anche se purtroppo per lei, il tempo passa e non è più la fresca cowgirl di fine anni ottanta. È un po’ stagionata ma con lei succede come con il vino di qualità.Down Where The Spirit The Bone è un doppio album dal

Sgomitando tra due life-style a Linate

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se la rivista mantenesse l’attuale impostazione editoria-le e le stessa grafica sarei anche disposto a pagarla uno o due euro in più, ma se passerete al solo abbonamento pur-troppo sarò costretto a lasciarvi, con mio grande dispiacere.God save our music.Domenico (Torino) Lo so, vecchio problema con il quale come editore mi scon-tro da 30 anni. Allargare la cassetta?

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SOMMARIO N.19/20 DIC 2014/GEN 2015

POSTA [email protected]

PINK FLOYDL’OCCASIONE DELL’USCITA DI THE END-

LESS RIVER, AL DI LÀ DI COME LO GIUDICHIATE, CI DÀ L’OPPORTUNITÀ DI TORNARE PER LA SECON-DA VOLTA NELLA STORIA DI QUESTO GIORNALE SULLA BAND INGLESE. E CI SIAMO ALLARGATI COME AL SOLITO.

JEFF TWEEDYLUI È QUELLO DEGLI UNCLE TUPELO E SO-PRATTUTTO DEI WILCO. INSOMMA UN NOME TUTELARE DI QUELL’A-REA DI ROCK AMERICA-NO VICINO ALLE SUE RADICI. IL SUO NUOVO DISCO CON IL NIPOTE È ANCORA UNA VOLTA INTRIGANTE.

OSCAR 2014L’ANNO SCORSO ABBIA-MO EVITATO QUESTA INU-TILE SEQUENZA DI TITOLI MA VISTO CHE CI AVETE BACCHETTATO ECCO UN 40 DISCHI PER CUI È VAL-SA LA PENA SPENDERE I NOSTRI PREZIOSI EURI. E IN FIN DEI CONTI CI SIAMO ANCHE DIVERTITI A BUTTARLA GIÙ.

EDITORIALESOMMARIO + POSTARECENSIONIQUESTO MESE TOCCA A LISA LE BLANC, WEEZER, NEIL YOUNG, DANIEL LANOIS, DAMIEN RICE, MARK LANE-GAN LUCERO, SHOVELS AND ROPE… INSOMMA NIENTE MALE.

RISTAMPE INEVITABILE SCRIVERE DELL’ENNESIME REISSUE DEI LED ZEPPELIN. POI DAVID WIFFEN, JONI MITCHELL, RY COODER, HARRISONE MCCARTNERY, LOWELL GEROGE, OASIS…

MIXED UPFLEETWOOD MAC, PHIL E DAVE ALVIN, UNPAIO DI ADDITT COME JACK BRUCE E ROAS, QUICKSIL-VER, MARSHALL TUCKEER, CLAPTON, ROLLING STONES, BAD COMPANY, HOUSE OF CARDS…

WHO WE ARECHI SONO I DUE TIMONIERI DI OUTSIDER MAX STEFANI (JAKE “JOLIET” BLUES) E GIANCARLO TROMBETTI (ELWOOD BLUES)? COSA È PREVISTO PER FEB-BRAIO? FORSE TELEVISION, ZZ TOP O GENE CLARK. MAGARI MELLENCAMP. O CI FACCIAMO DEL MALE CON JACKSON BROWNE? BASTA ASPETTARE PER SAPERLO.

LUCINDA WILLIAMS L’IDEA ERA VERAMENTE DI MET-TERLA IN COPERTINA MA L’OCCHIO ESPERTO DELL’UOMO DEL MONTE HA DETTO DI NO. CIÒ NON TOGLIE CHE LA SIGNORA AMERICANA È UNA DELLE NOSTRE FAVORITE DA QUASI 25 ANNI. E QUINDI LUNGA INTERVISTA E BELLISSI-ME FOTO D’ANNATA.

Ciao Max ti ho già scritto quasi un anno fa per i compli-menti e per il piacere di ritrovarti ancora sul campo, pron-to per nuove sfide. Spiace sentire che potrebbe esserci la possibilità di avere la rivista solo per abbonamento. Per-sonalmente una rivista così bella non vorrei mai vederla distrutta per infilarla nella buca delle lettere stretta e picco-la. Già mi è spiaciuto vedere il cambio di carta che c’è stato e vederla trattare male mi farebbe stare peggio. Pensa che

8 WILD SONGQUESTA È LA NOSTRA ‘WILD SONG’ DEL MESE. HALLELU-

JAH DI LEONARD COHEN MA ANCHE DI JEFF BUCKLEY. QUALE PREFERITE?

6 OUTSIDER TITOLO ARTICOLO6 OUTSIDER SOMMARIO/POSTA

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Ciao Max. Eccomi qui a Linate, tornando a Bari dopo un viaggio lampo a Londra per vedere i Blackberry Smoke in concerto. 2 ore di attesa per la coincidenza, entro in edicola senza grande speranze: ma oddio, ho visto bene??? Che cos’e’ questa rivista? Jerry Garcia in copertina? The Band? Grateful Dead? 70s British pub-rock? Ducis in fundo una recensione dello stesso Blackber-ry Smoke??? Ma allora c’è speranza, esiste gente qui in Italia che apprezza la grande musica del passato e del presente, che non sente l’obbligo di seguire ciò che fa tendenza!Incredibile, grande grande grande, un prodotto eccezionale, per me supera anche i miei co-nazionali Mojo e Uncut che, per ci-tare te stesso, hanno fatto “discesa negli inferi delle edicole” e ora risultano scialbe e ripetitive. Grazie di cuore e un salutone anglo-italiano! Many thanks!Martin Baxter

Caro Max, Ho letto con interesse sull’ultimo numero di Out-sider l’articolo sulle Jam Bands, ma devo farTi un appunto: mi sarei aspettato uno specchietto che indicasse i migliori album dal vivo di Grateful Dead, Govt Mule, Widespead Panic e Phish da avere (o i concerti top da scaricare dal sito bt.etree.org); nel “mare magnum” di centinaia di uscite occorre infatti una gui-da all’acquisto per orientare il navigante smarrito!D’altra parte lo avevi già fatto per i Grateful Dead nel numero 393 di Mucchio Selvaggio dell’aprile 2000.Complimenti per trasmissione (ops, la rivista) e mi auguro di continuare a trovarla in edicola.Baccio da Pisa

Ciao Max. Ho cercato Outsider di novembre a Roma nelle edi-cole centralissime di Piazza S. Silvestro, Piazza Colonna, Via Veneto, Largo Argentina ma niente. E non è esaurito, non lo conoscono proprio. Stessa cosa per San Lorenzo o Corso Trieste. Solo oggi, venerdì 21 novembre, l’ho trovato, in un’edicola di piazza Bologna, dove l’avevo cercato anche nei giorni scorsi. Che si può fare?Riccardo TessariA Roma siamo con quasi 1000 copie su 140 rivendite circa, comprese quelle dell’Aeroporto. La copertura delle edicole ser-vite è buona, ma tieni presente che su Roma ci sono circa 850 (?!?) edicole. Capisci xche andiamo solo x abbonamento?

Ciao, sarà che comincio ad invecchiare anche io, sarà che in un mondo sempre più virtuale ed effimero si cerca di aggrappar-si alle poche cose materiali che ancora vengono prodotte con qualità... sarà invece che la passione per il rock non muore mai e alla fine ad una rivista come la vostra mi ci sono abbonato.Grazie per l’ottimo lavoro e continuate così.Bokal

Ciao Max, una cosa soltanto: grazie. Ho scoperto da poco (un mese appena) la rivista, e sono impazzito. È bellissima, fichissi-ma, oh sì, che goduria, ancora. straordinaria.Io mi occupo di tutt’altro settore (sport), troppo spesso di bassa qualità su giornali e riviste. Credo che la musica possa essere trattata, proprio come lo sport, in maniera banale, superficiale, scadente. Oppure no. Bello vedere che in giro ci sono prodotti meravigliosi come quello che fate voi.Complimenti.Giorgio Burreddu

Grazie Max, ti seguo da tanti anni e sto adorando “Outsider”... Sono un rocker bassofilo, ex venditore di dischi ventennale (categoria estinta), a lutto per Jack Bruce ma felice di aver letto di Berry Oakley e co. su Outsider. E complimenti sempre per la coerenza.Luca De PasqualeTroppo buono Luca...grazie.. Tra un po’ anche i giornalisti/edi-tori musicali saranno una categoria estinta.

Max! Spiacente per il ritardo. Mi ero distratto un po’.. e confes-so di aver perso il filo da i tempi del “Mucchio”.Ho scoperto Outsider al mattino presto, in edicola, lo scorso numero (gli occhi, nonostante il torpore mattutino pre-caffè, si sono autosbarrati su quella copertina..“Allman Brothers Band”). La Foto, il nome, la veste essenziale ed imponente allo stesso tempo del magazine.. Classe di altri tempi.., non vi potevano essere dubbi. Ho aperto delicatamente la rivista.. Ed eccomi qui.Senza ulteriori preamboli. Mi abbono!. Cartaceo. Ovviamente. Giusto per quella sublime sniffata mensile di rivista appena stampata.Mi abbono. Non intendo assolutamente saltare i Grateful Dead!Max, sarà pura nostalgia.., ma “Outsider” è eccezionale (nella veste e nella sostanza). Come una bella e intelligente signora ancora piacente…Grazie e ciao.Ah, dimenticavo. Avrei una domanda imbarazzante da porti. Ma sino a che età può andar bene il Rock? Qual’è il limite per evitare eventuali controindicazioni?Michele PatanèLimiti?

Salve, sono Maurizio. Ormai cinquantenne ma cresciuto con tutti i primi numeri del ‘Mucchio Selvaggio’ e estimatore di Max e di Giancarlo Trombetti, che conobbi più di trent’anni fa nella sede di Radio Viareggio mi sembra si chiamasse e lui tra-smetteva musica rock in piena notte.... e io sempre a seguirlo.Ho trovato x caso in edicola Outsider e me ne sono innamora-to subito, mi fa riprovare quei bei momenti di buona musica passati e le foto delle copertine del Mucchio poi.... e ler ricordo tutte... belle sensazioni. Ora voglio tutti i 16 numeri che ho perso.Grazie Max per essere tornato... e un caro saluto a Giancarlo di cui possiedo a distanza di oltre 30 anni ancora le musicassette di concerti registrati da lui del grande Frank Zappa...Vi seguirò sempreGrazieMaurizio Lenzetti

Max is back. Finalmente ho trovato la rivista “Outsider” (nu-mero 17….. ma ho già provveduto tramite l’edicolante a richie-dere tutti i numeri pubblicati) esposta tra le altre, nella edicola di fiducia della città in cui vivo (Isernia, per dovere di crona-ca). Ho ritrovato Max tra le sue pagine. Sono diventato adulto (musicalmente) leggendo il “Mucchio” e ascoltando la nostra musica. Oltre i doverosi complimenti, tutti quelli che desideri, ti chiedo caro Max di fare in modo che per ogni mese trascorso la ritrovi lì, la mia nuova rivista, nella edicola della mia città.Ennio Notardonato

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8 OUTSIDER HALLELUJAH

Photo: Claude Gassian

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I’ve heard there was a secret chordThat David played, and it pleased the Lord

But you don’t really care for music, do you?It goes like this

The fourth, the fifthThe minor fall, the major lift

The baffled king composing Hallelujah

Hallelujah, HallelujahHallelujah, Hallelujah…

È una canzone scritta (con molti riferimenti ai testi biblici e all’An-

tico Testamento) e interpretata da Leonard Cohen nel 1984 sull’al-

bum Various Positions. Nel corso degli anni ne sono state fatte molte

reinterpretazioni, ad opera sia dello stesso Cohen, che ne modifi-

cava ripetutamente il testo (quella pubblicata nell’album Cohen

Live del 1994 manca per esempio della maggior parte dei rimandi

al testo sacro), sia di molti altri artisti. Se la prima cover fu del 1991,

incisa da John Cale (nel 2001 inclusa nella colonna sonora del film

d’animazione ‘Shrek’), la reinterpretazione di maggior successo, che

supera in notorietà anche l’originale, rimane ancora oggi quella di

Jeff Buckley, pubblicata nel 1994, nel suo unico album Grace.

LEONARD COHEN

HALLELUJAH

W I L D S O N G S

di Kim Ruehl

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Il brano fu poi registrato con il produt-tore John Lissauer, ma ci furono molte resistenze da parte della Sony a pub-blicare il disco in quanto riteneva che il materiale non fosse abbastanza buo-no. Cohen molti anni dopo aggiunse così di considerare la popolarità otte-nuta da Hallelujah attraverso i suoi molti interpreti, come una sorta di piccola rivincita nei confronti dell’ini-ziale diffidenza dimostrata dalla casa discografica.

Peccato comunque che per i più esista solo il testo cantato da Buckley, che non rende a pieno la complessità della storia raccontata da Cohen (nella qua-le il narratore racconta in terza perso-na la vicenda di Sansone e Dalila, cer-cando di cogliere dalla stessa il senso delle proprie vicende personali).Come prima cosa è interessante notare come il pezzo ci racconti dell’esperien-za di comporre canzoni. Un ‘Re confuso’ compone un ‘halle-lujah’ seguendo una progressione da un accordo di quarta ad uno di quinta facendolo cadere su uno di minore per poi risalire con un accordo maggiore. Questo è l’accompagnamento, ma il cantato si muove un passo alla volta su una scala maggiore. Ci parla di una

Ma senza ottenere granchè.Originariamente Cohen aveva scritto circa ottanta versi per Hallelujah e l’ha eseguita in diverse versioni. Dylan ha detto che, nel backstage di un concerto, Leonard Cohen gli ave-va confidato di aver impiegato circa due anni per completare la canzone e l’autore stesso confermò poi l’episodio, aggiungendo però di aver mentito, per-ché si vergognava di rivelare che in re-altà aveva impiegato un tempo ancora più lungo di quanto dichiarato.Cohen descrisse le difficoltà nella composizione citando un episodio in particolare:

Prendetevi una pausa, lettori, ed alza-te gli occhi al cielo, perché anche una canzone di questo livello ha dovuto sopportare interpretazioni assurde, al limite del ridicolo. Cantata in maniera fantastica da artisti del calibro di K.D. Lang (nel 2006) o Jeff Buckley (nel 1994) prima di lei, è stata eseguita in contesti tipo ‘American Idol’ o in talent-show per adolescenti tipo X-Factor che ce la propinano nella versione di Buc-kley senza dare l’impressione di averne colto minimamente il senso più profon-do. Anzi, a volte ridicolizzandola.Questa, pur splendida, è quella mag-giormente conosciuta, e molti ‘alterna-tivi’ di oggi, quelli fighi che non hanno idea di cosa possa significare informar-si, scoprire, ricercare, approfondire, sono convinti che Hallelujah sia stata scritta proprio da… Jeff Buckley. E non possiamo biasimarli del tutto, visto che ha fatto parte anche di innu-merevoli colonne sonore cinemato-grafiche e di telefilm ed è stata inoltre oggetto di un documentario del 2008 andato in onda su BBC Radio 2.Quasi in contemporanea proprio nello stesso anno la canzone fu riportata sot-to i riflettori dall’interpretazione della cantante inglese Alexandra Burke, che ebbe la malaugurata idea di pub-blicarla come singo-lo di debutto, subito dopo aver ottenuto la vittoria della quinta edizione del talent show inglese ‘X-Fac-tor’. Buckley ha preso dun-que questa canzone da un artista – Leonard Cohen che la incise nel 1984 per l’album Various Positions – che la eseguiva a mo’ di mantra rendendo-la quasi una forma di meditazione, e l’ha resa un drammatico inno all’amore mentre nel frattempo Cohen ha cominciato a pro-vato timidamente a chiedere di grazia di evitare di proporre al-tre versioni della sua canzone.

“Avevo riempito due bloc-chi degli appunti e ricordo che ero al Royalton Hotel a NYC seduto in mutande

sul tappeto, mentre sbatte-vo la testa sul pavimento dicendomi ‘Non riesco a finire questa canzone’”.

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Jeff Buckley (Getty Images)

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e tenute vive dalle pedaliere per tuf-farsi in una passeggiata che nota dopo nota riporta alla cima della tastiera

della chitarra. Ma quando le dita stanno raggiungendo la sommità, come volessero sbirciare dalla cima del mon-te, il pensiero di spiccare un balzo viene cancellato dalla necessità di fare retromarcia e l’artista rimugina sulla di-sapprovazione del suo stesso comportamento.Dopo il verso citato, Buckley si affida alla sua chitarra accelerando e sfruttando i crescendo per dare spazio al ruggito della sua voce, e continua a svelare i segreti dell’amore: “Non è un grido disperato quello che tu odi di

notte – Non c’è nessuno che abbia ri-cevuto alcuna rivelazione – È solo un hallelujah singhiozzato a sproposito”.Il modo di cantare lascia trasparire un interprete poco convinto delle parole recitate. I versi stessi, peraltro, sono poco convincenti quando vorrebbero far credere che l’amore è una gigan-tesca e drammatica esplosione – un evento, più che un lungo e difficoltoso cammino -.Ma qui dobbiamo fermarci un attimo per cogliere per bene il significato. ‘Hallelujah’ è una parola adopera-ta in contesti di carattere religioso. È composta da due parole ebraiche

e significa ‘pregare dio’. Può essere un comando (i.e.: ‘devi pregare dio’) ma può essere anche un’esclamazio-ne di gioia. In quel verso in cui Cohen parla di un ‘hal-lelujah’ distaccato al punto da essere stentato, vuol fare intendere, credo, che sia vivo il bisogno di dare valore alla fugacità della sensazione lus-suriosa che si prova aman-do, piuttosto che disperarsi per i dolori di cuore che la condizione dell’amore può riservare. Un tale senso di gratitudine non è facilmente raggiungibile, e così il poeta è

costretto a ripetere all’infinito la paro-la, come fosse un mantra cui alla fine si è portati a credere.

e dolente (“Tutto ciò che ho imparato dall’amore è come difendersi da chi ha già impugnato le proprie armi

per ferirti”) sembra manchi il respiro quando la chitarra si affranca dal lus-sureggiante giardino di note continue

scontata frase musicale cantandola in maniera prevedibile in modo da poter raccontare una storia di amore altret-tanto prevedibile – bastano i primi tre versi a farci capire che c’è una donna che lo prenderà, lo lascerà e gli spezze-rà il cuore – dando vita ad una dram-matica elegia.Come era più che ovvio, si tratta di una puttana; non c’è dubbio che sia così, soprattutto dal momento che non si lascia nemmeno far intravedere.Ma non è questo il punto, anche se il concetto è stato espresso dall’autore in una forma poetica accattivante quan-to convincente. La versione di Buc-kley consente a chiunque abbia anche minime capacità vocali di eseguire il pezzo indulgendo maggiormente alla cifra emotiva. C’è dramma, sesso, lotta di potere fra due amanti. Si tratta di una storia fantastica, dove il tema del sesso assu-me un ruolo fondamentale al punto che Buckley omette di proposito le due strofe della versione originale che si rife-riscono invece al tema della redenzione. Lo stesso Buckley dichiarerà in un’intervista che “chiunque ascolti chia-ramente Hallelujah scoprirà che è una canzone che parla di sesso, di amore, della vita sulla terra. L’alleluia non è un omaggio a una persona ado-rata, a un idolo o a Dio, ma è l’alleluia dell’orgasmo. È un’o-de alla vita e all’amore”.Ma a parte la modifica nel testo è il modo in cui Buckley affronta l’ese-cuzione della melodia che in genere attrae altri cantanti e li spinge ad ese-guirne una propria versione. La sua registrazione comincia con un lungo respiro, si direbbe più propria-mente un sospiro. L’attenzione è tut-ta concentrata sul narratore. Nessun sentimento si sviluppa nei confronti della donna della quale si parla. È uno sfogo bello e buono – la reazione ad un torto subito da chi enfatizza altresì la propria condizione di amante non corrisposto. E l’emozione è così pro-rompente, il cuore così infranto, che era indispensabile un sospiro, una pausa prima di cominciare a racconta-re. Prima di arrivare al verso più amaro

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nemmeno questo nome – Ed anche se fosse così, a te poi, cosa importa? – C’è un’esplosione di luce in ogni parola – E non conta cosa tu abbia sentito – Il sacro o il profano Allelujah”.Questo verso sposta la questione di amore dall’allegoria all’accusa. (la versione di Buckley è tutta allegoria). In altre parole, ciò che distingue que-sta da ogni altra canzone pop è che Cohen ha creato un’allegoria per poi analizzarla dal di fuori e condividere con tutti una lezione imparata a pro-prie spese. Ciò che spesso rende una forma d’arte tradizionale convincen-te, è la sua capacità di catturare l’atti-mo fuggente. Molte canzoni pop sono come istantanee. Puoi interpretarle come vuoi e lo stesso fatto che spesso si tratta di affermazioni incomplete mette in discussione la nostra prete-sa di essere infallibili, e ci permette di meditare insieme sul senso delle cose. Se l’artista seguisse i propri pensieri e li completasse con logiche quanto personali deduzioni, finirebbe per al-lontanare quel pubblico che potrebbe non avere avuto insegnamenti simili da simili esperienze. Ma Cohen ha su-perato questo impasse, sviluppando in ottanta versi una storia che raccon-ta per filo e per segno dall’inizio sino alla conclusione. Ci sfida a seguirlo lungo il suo percorso. Ed è per questo che Hallelujah ci prende più di altre canzoni, perché inconsciamente noi, come tutti i cantanti che continuano a riproporla, abbiamo accettato la sfi-da, forse consapevolmente o forse no.Facendoci dare una mano dalla solita Wikipedia in lingua inglese (alla qua-le rimandiamo) moltissimi sono gli artisti che hanno interpretato Halle-lujah nel corso degli anni, oltre quelli già citati. Già nel 2010 si contavano circa 200 cover del brano registrate e pubblicate ufficialmente. Numerosi altri artisti hanno invece eseguito il brano dal vivo, senza mai pubblicar-ne una versione. L’elevato numero di cover, spesso realizzate per trasmissio-ni televisive o per le colonne sonore di film, spinse alcuni critici e fan a richiedere una sorta di moratoria per fermarne l’uso, che Cohen commentò nel 2009 dichiarando di considerare eccessivo il numero degli interpreti del brano. Nel gennaio 2012 Cohen

finito – enfatizzando il finale ‘yah’ (‘dio’) come fosse il punto alla fine di una frase. Cohen continua a cantare anche fuori dal ritmo sottostante - mo-strando attraverso la voce la sua inca-pacità di marciare a ritmo con la grazia della preghiera. Non cerca di convin-cersi che si trattava di un amore su cui continuare a contare come sembra fare Buckley. Quella di Cohen è una canzone di sfida; quella di Buckley una non troppo velata ammissione di impotenza. Questa sottile differenza è quello che rende per me assurda la dif-fusione che ha avuto l’interpretazione di Buckley, considerando che aveva-mo già quella di Cohen.“Dici che ho pronunciato il nome di dio invano – Ma se non lo conosco

I versi selezionati da Buckley per la sua versione della canzone mostrano il protagonista, un re, e la sua amata, dipinta come una bugiarda tentatrice che ha solo in mente di usarlo. L’amo-re è un attimo fuggevole, certo non qualcosa di duraturo, che l’amato lo desideri oppure no. Se si pensa all’a-more come ad un sentimento passeg-gero, è più semplice drammatizzare, più facile rimpiangere, più immediato desiderare ancora. L’aspetto fuggevole di tale visione si dipana meglio attra-verso il cantato, più ancora dell’aspet-to interpretativo che vorrebbe inqua-drare l’amore come parte di un tutto. La drammatica apatia di Buckley si scontra contro la realtà di Cohen.Non è determinante il fatto che Buc-kley abbia tralasciato alcuni dei più profondi versi di Cohen, è nell’inten-zione che l’esecuzione di Buckley di-verge da quella di Cohen. Gli ‘hallelujah’ di Buckley si incastra-no sia melodicamente che ritmica-mente. Sono espressione di chi raccon-ta, mentre nella versione di Cohen ri-mangono staccati dal dolore di chi sof-fre – e calamitano ogni attenzione su se stessi. Nella registrazione di Cohen, sono cantati da un coro che snocciola le sillabe secondo il ritmo intrinseco della parola, su tre note – verso l’alto prima, per poi ricadere verso il basso come le onde e la loro risacca, all’in-

Ciò che distingue questa da ogni altra canzone

pop è che Cohen ha crea-to un’allegoria per poi analizzarla dal di fuori e condividere con tutti

una lezione imparata a proprie spese.

12 OUTSIDER HALLELUJAH

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Mac da parte di Santana, Mr. Tam-bourine Man sempre di Dylan da par-te dei Byrds?Oppure Respect di Otis Redding da parte di Aretha Franklin, Stand By Me di di Ben E. King interpretata da John Lennon, With A Little Help From My Friends dei Beatles can-tata da Joe Cocker, Knocking on Heavens Door dei Guns n’ Roses sempre di Dylan, Nothing Compares 2 U classico di Prince cantato da Si-nead O’Connor, I Heard It Through The Grapevine di Marvin Gaye con la voce di Fogerty, Twist And Shout degli Isley Brothers fatta dai Beatles, Gloria dei Them fatta da Patti Smith, Downtown Train di Waits cantata da Rod Stewart, Me and Bobby McGee di Kris Kristofferson cantata da Janis Joplin, Woodstock di Joni Mitchell ripresa da CSN&Y, I Fought the Law di Bobby Fuller di Strummer e soci. Sto divagando. Lo so.

vo Taratata della TV francese), Sheryl Crow, addirittura i nostri Elio e le storie Tese (il 12 settembre 2001 apri-rono il loro concerto al Palavobis di Milano con una cover di questa can-zone come omaggio alle vittime degli attentati dell’1 settembre 2011 avve-nuti il giorno precedente). Nel 2007, dieci anni dopo la scompar-sa di Buckley, la cover fu pubblicata come singolo, ottenendo nel corso degli anni seguenti un buon successo commerciale, fino a raggiungere il di-sco di platino in Australia, Stati Uniti e d’oro in Svezia e Nuova Zelanda. In un sondaggio di ‘Rolling Stone’ americano, la versione di Halle-lujah realizzata da Buckley è stata in-dicata dai lettori come le terza miglior cover di tutti i tempi. Accidenti, non ricordo quali fossero le prime due. Forse due tra All Along The Watchto-wer di Dylan nella cover di Hendrix, Black Magic Woman dei Fleetwood

confermò di aver avuto in alcune occasioni l’istinto di esporsi perso-nalmente per fermare la continua pubblicazione di cover del brano, ag-giungendo però di aver poi cambiato idea e di essere felice che il suo brano venisse cantato da altri. Nel 1988 un anno dopo l’uscita della versione originale del brano, Bob Dy-lan ne fornì un’interpretazione dal vivo durante un concerto al Montreal Forum. Un’altra interessante versio-ne del brano è quella realizzata dal canadese Rufus Wainwright. Il 12 febbraio 2010 viene cantata da K.D. Lang alla cerimonia di apertura dei XXI Giochi Olimpici invernali di Vancouver. Tra gli artisti più noti a livello interna-zionale che abbiano pubblicato una versione di Hallelujah vogliamo ci-tare Bono, Bon Jovi, Damien Rice, Annie Lennox (nel 2007 cantò il brano durante il programma televisi-

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14 OUTSIDER PINK FLOYD

1967 (Getty)196196967 (7 (7 (GetGetty)y)ty1967 (Getty)

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PINK FLOYDSTORIE E SEGRETI

IL FIUME INFINITO

di Giancarlo Trombetti

Pink Floyd: ha un senso parlarne oggi? 38 anni sono tra-

scorsi da The Piper at the Gates of Dawn e 31 dal vendutissi-

mo The Dark side of The Moon.

Tenendo conto a) delle aspettative di The Endless River, il

nuovo album dei Pink Floyd targati David Gilmour, Rick

Wright e Nick Mason b) a naso in sù sotto la gigantografia

della copertina appesa in via Turati, all’incrocio con via

Moscova, a Milano c) della loro ombra che ancora si stende

su molto del rock degli ultimi anni, specie ‘post’, diremmo

proprio di sì.

Non sono ovviamente brani nuovi, nascono dalle sessio-

ni di registrazione del 1993 per l’album The Division Bell,

quindi suonati da David Gilmour, Nick Mason e da Rick

Wright (scomparso nel settembre del 2008).

Un album essenzialmente strumentale diviso in “quattro

parti” con una canzone, Louder Than Words, il cui nuovo

testo è stato scritto da Polly Samson.

Era dunque opportuno nella filosofia di questo giornale,

che consiste comunque nel rivangare il passato della no-

stra musica cercando di mettere a fuoco cose all’epoca im-

possibili, raccontarvi da diligenti cronisti storie dei vecchi

Pink Floyd. Attraverso articoli/interviste/recensioni dell’e-

poca (non ultime quelle terribili di ‘Ciao 2001’).

Non è la prima volta che torniamo su di loro, il numero 2/3

di ‘Outsider’ è lì ad aspettarvi. Buona lettura.

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ti dell’uno, due, tre, quattro e giù con lo stesso accordo per due minuti, non ci sarebbe niente di strano: le sole in-troduzioni strumentali dei Floyd du-rano, in genere, più di un intero disco amato da costoro. Il guaio è che molti altri hanno cercato, diciamo negli ul-timi 45/50 anni, di togliervi dalla vista e dalle orecchie l’enorme portata crea-tiva della musica cui i quattro, poi tre, poi due Pink Floyd hanno dato vita. Il gioco ridicolo del massacro “a prescin-dere”, la macchina perfettamente olia-ta della denigrazione è ripartita con la batteria perfettamente carica al primo giro di chiave: al solo annuncio della pubblicazione di The Endless River l’ultimo, in tutti i sensi, album dei Pink Floyd. Nessuno ne aveva udito una sola nota che il web e i giornaletti già lo descrive-vano come un inutile appendice. Roba che lo Shining di Dan Torrance a con-fronto è uno scherzo. “È la pubblicazio-ne di scarti di venti anni fa!”, si è subito detto. Nessuno vi ha spiegato, però, che la maggioranza degli artisti sovra pro-duce e recupera in seguito materiale di anni prima, nessuno vi ha specificato che l’intera carriera dei Floyd stessi è basata sulla composizione e sul recu-

Eppure la storia racconterebbe altre vicende. Se solo si andasse ad appro-fondire la valanga provocata dalla slavina dei Pink Floyd, si potrebbe an-che arrivare a capire che l’importanza della portata della loro musica sia an-data ben oltre qualsiasi disquisizione critica. Senza i Floyd non sarebbe nato il Krautrock; d’accordo, liberissimi di vederla come una liberazione, ma sug-geriremmo di approfondire l’argomen-to prima di gettarlo dalla finestra. Senza i Floyd sparirebbe la vena cen-trale della ‘psichedelia’ dal novanta per cento dei gruppi di fine sessanta in poi; di qua e di là dall’oceano. Senza l’evoluzione della loro musica, infine, oltre a cambiare l’approccio di molti musicisti dediti alle sole colonne so-nore cinematografiche, lo stesso mo-vimento ‘progressivo’ avrebbe seguito un’altra strada. In ultima analisi, mol-te tematiche introspettive e contenuti strettamente personali, delicati, non avrebbero raggiunto il grande pub-blico, portandolo a riflettere. Eppure parlare di Pink Floyd è ritenuto super-fluo, arcaico, inutile. La loro musica ridondante, barocca, auto gratificante, eccessivamente piena di orpelli. Vero? Mah, se ad affermarlo fossero gli aman-

Esistono leggi non scritte nel mondo musicale. Difficile abituarsi, ancora più duro accettarle. Ma stanno lì, sotto gli occhi di tutti, molto più facilmente dentro le orecchie e fuori dei cervelli non pensanti. Forse la cosa più diffici-le nell’ambiente musicale è convivere con i giudizi degli Esperti; per un ap-passionato imparare a fidarsi e lasciarsi guidare dalle parole e dai consigli di un critico è come scegliere di mettersi nel-le mani di un medico o di lasciar gui-dare l’amico ubriaco di cui non ti fidi. In ogni caso una prova stressante e che necessita di coraggio, oltre che di tem-po, di molte, ripetute letture di molti, troppi giornali contenenti i giudizi che tanti decideranno, a scatola chiusa, di far propri. Entriamo a gamba tesa sull’argomento: parliamo dei Pink Floyd. Dovendo seguire la critica, già dopo il primo album, l’unico con Bar-rett a pieno regime, inizia o iniziereb-be la parabola discendente del gruppo. Scartate a priori produzioni minori come le colonne sonore senza neppure domandarsi perché queste venissero elette da musicisti ancora da formarsi e insediarsi nel mondo del rock, al mas-simo si arriva ad accettare Ummagum-ma. Dopo di esso, il diluvio.

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No, dimenticatevi di quello che vi han-no detto e cercate di andare oltre tutto quello che non vi hanno raccontato. Smettete di fidarvi di chi vi ha spiegato che un concerto dei Pink Floyd fosse solo una grande esibizione circense, quando in verità era un eccezionale spettacolo di musica da vedere meravi-glioso, con pochi confronti. Scordatevi i fiumi di fesserie che vi hanno fatto leg-gere quelli che dei Floyd non hanno mai avuto un disco in casa dopo The Piper at the Gates of Dawn e che non li hanno mai visti suonare dal vivo. Fi-datevi delle vostre orecchie. Abbassate le tapparelle, lasciatevi trasportare su universi oscuri, andate oltre le parole e superate il muro della fantasia. Grup-pi come i Pink Floyd ne nascono uno ogni cento anni. A voi la fortuna di avervi assistito.

viene ancor oggi giudicato con suffi-cienza per la sola presenza di un paio di ritmi orecchiabili, come se la buona musica dovesse essere per forza inaf-ferrabile, era sostanzialmente dedica-to al tema della follia, della perdita di coscienza, ancor prima che un intero disco, Wish You Were Here divenisse l’esaltazione finale, assoluta, del tema della scomparsa, dalla copertina, alle foto interne, ai testi, ai titoli delle can-zoni. I Pink Floyd non erano mai riu-sciti a superare il dolore della perdita di Barrett, così come oggi, a otto anni dal-la perdita definitiva di Rick Wright, si ritrovano a piangere e a dedicare al tastierista l’ultima pietra del loro, vero e reale, muro separatore: la morte. Endless River è l’ultima possibilità di ascoltare Wright insieme ai due re-stanti Floyd, David Gilmour e Nick Mason, di sentirli ancora insieme come un gruppo, seppur a vent’an-ni da quei suoni e con la certezza che non potremo mai più vederli esibirsi dal vivo per presentarceli. Una storia lunga cinquanta anni, una vita, che si chiude definitivamente a meno di im-prevedibili strette di mano con l’ego in perenne espansione di Roger Waters, il Giuda pronto a rinnegare qualsiasi ex-compagno; salvo poi piangerne la mancanza.

pero successivo di idee e linee musicali sviluppate anni dopo, nessuno vi ha specificato che, di fatto, Endless River era già pronto vent’anni fa, dovendo essere nelle intenzioni iniziali The Di-vision Bell un disco doppio composto di soli strumentali la seconda parte; proprio come Endless River. Nessuno vi ha detto infine che a selezionare e ri-vedere con senso logico gli strumentali che compongono il disco fosse stato chiamato Phil Manzanera, non un produttore ma un musicista intelligen-te e lucidissimo, pignolo e pianificato-re. Uno che si sarebbe rifiutato di tirar fuori una mera collezione di banalità strumentali se avesse dovuto piazzarci il proprio nome in calce. Nessuno vi ha mai fatto notare che l’intera storia del gruppo (e non giusto un paio di episodi) sia stata condizionata e guida-ta, nel bene e nel male dalla presenza – e dalla assenza – proprio di quel Syd Barrett che, cottosi il cervello, aveva obbligato i restanti compagni a metter-lo da parte con la morte nel cuore. Ed in un mondo musicale in cui chiunque passa sul cadavere del migliore degli amici, vedere e sentire cantare il dolore della perdita di un amico per tutta una vita è raro. Unico. Rispettabile. Il più grande successo commerciale dei Floyd, quel Dark Side of the Moon che

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IL FIUME INFINITOTUTTE LE CANZONI DEI PINK FLOYD

È uscito a metà novembre il nuovo “imponente” lavoro dei Lunatics, cinque ap-passionati di diverse parti d’Italia ed esperienza varia (dai quindici ai trent’anni di

collezionismo) che sembrano aver dedicato la loro vita ai Pink Floyd.Questa è la seconda saga, a due anni dal precedente best seller “Pink Floyd Sto-rie e Segreti”. La nuova opera affronta con una profonda indagine storiografica l’intera produzione musicale del gruppo (comprensiva di inediti e progetti mai ufficialmente registrati) lungo quasi cinquant’anni di storia. Traccia dopo traccia, album dopo album, anno dopo anno: un mirabile resoconto di oltre trecento pa-gine che dalle formazioni giovanili fino al nuovo disco,dispiega l’intera vicenda compositiva del gruppo, analizzando genesi, contenuti e retroscena di ogni canzo-

ne dal ‘65 al 2014.Il libro si candida per diventare un’opera fondamentale della pubblicistica legata ai Pink Floyd. Altro libro consigliato, che forse potete trovare in qualche banca-rella dell’usato, sarebbe “La storia dietro ogni canzone dei Pink Floyd” di Cliff

Jones, pubblicato dalla Tarab fiorentina nel 1997.

PINK FLOYD LINE UP1964 – 1965

Syd Barrett / Bob Klose / Nick Mason / Roger Waters / Richard Wright

1665 – 1967Syd Barrett / Nick Mason / Roger

Waters / Richard Wright

1967 – 1968Syd Barrett / David Gilmour / Roger

Waters / Richard Wright

1968 – 1979 David Gilmour / Roger Waters /

Richard Wright /Nick Mason

1979 – 1985 David Gilmour / Roger Waters /

Nick Mason

1987 – 1990David Gilmour / Nick Mason

1990 – 1995David Gilmour / Richard Wright /

Nick Mason

2005David Gilmour / Roger Waters /

Richard Wright /Nick Mason

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18 OUTSIDER PINK FLOYD

4 marzo 1967 (Cyrus Andrews/Getty Images)

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giata lisergicamente amplificata giù per Penny Lane fino a un campo dove abbondavano le fragole insieme ad altre sostanze. I Floyd, finanziati dal direttore dell’UFO club, un club molto frequentato dal gruppo, incidevano un singolo nella speran-za di adescare una casa discografica. La EMI abboccò e spin-se il singolo dentro la tempesta di quel mercato con la sua etichetta Columbia. Arnold Layne è un breve racconto acido di un furto notturno di biancheria intima. Il basso pulsante, l’organo indemoniato e le percussioni con l’eco costruisco-no tensione e intensità emotiva finché i cori autoritari non ammoniscono “Arnold Layne non farlo più”. Il conflitto tra la ricerca del desiderio e il suo impedimento da parte di un ipocrita senso di autorità è cosa che echeggerà più in là nello sviluppo concettuale del gruppo.Arnold Layne riuscì a spingere il suo ritmo nei primi venti singoli inglesi. Ma il grande colpo lo fece il successivo, See Emily Play. La prima produzione, ovviamente non sotto l’e-gida della EMI, era stata gestita da Joe Boyd, che avrebbe lavorato in seguito con artisti meno bizzarri come i Fairport Convention; il primo singolo sponsorizzato dalla casa disco-grafica venne seguito da Norman Smith. Essenzialmente un ingegnere, Smith mostrò di essere un produttore com-prensivo con i Floyd. Incorniciò il ritratto del ritiro di una ra-gazza dalla realtà all’interno della sua immaginazione sfrut-tando la quantità di effetti sonori inconsueti per cui i Pink Floyd stavano diventando noti: i tocchi stravaganti di chitar-ra di Barrett, le tastiere eccentriche di Wright e la ragnatela del basso di Waters, con la propulsione della batteria di Nick Mason. Fu l’inizio brillante di una lunga relazione tra Smith e il gruppo; alla metà dell’estate il singolo (n.6) stava gomi-to a gomito nei primi dieci con cose tipo A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum. Nel frattempo i Floyd avevano già iniziato a incidere il loro primo album agli studi di Abbey Road della EMI. Sistemati nello studio a fianco c’era un altro gruppo con cui Smith aveva lavorato nel suo periodo psiche-delico: i Beatles stavano registrando Sgt. Pepper. Va da sé che per quanto fosse psichedelico per i Beatles, Sgt. Pepper è più accessibile del Piper at The Gates of Dawn dei Pink Floyd – ma in quel periodo molto della psichedelia dei Beatles era

Il pubblico, specialmente in America, pensa ai Pink Floyd come se fossero due gruppi differenti. Il primo – ammesso che i ragazzi ne siano davvero a conoscenza – viene aggregato alla fine dell’invasione di rock inglese, come gli Zombies, o con l’inizio dell’era psichedelica, come se fossero stati un cosa tipo i Thirteenth Floor Elevator o una cosa simile. Il se-condo è classificato tra i sostenitori convinti del rock progres-sivo come gli Yes o le perversioni successive come gli Styx. Adesso se ne profila un ipotetico terzo: un gruppo con una classe a se stante.Come si sia riusciti ad andare oltre – o almeno come il pri-mo gruppo divenne il secondo – può essere individuato al meglio seguendo l’evoluzione dei Pink Floyd su vinile. Era-no stati in circolazione per un paio di anni come Sigma 6 e Megadeath prima di emergere ma non come i pop-rocker psichedelici del loro primo disco; il loro nome non era l’ap-pellativo di qualche ipotetico uomo nero venusiano ma piut-tosto la combinazione dei due nomi di due semi-sconosciuti bluesmen americani, Pink Anderson e Floyd Council. Al tempo in cui cambiarono nome suonavano brani blues vec-chio stile sull’onda di quello che facevano Alexis Korner e John Mayall con i Bluesbreakers e pezzi jazz (sull’onda della Graham bond Organisation), anche se facevano già ‘strani’ trattamenti agli originali. Il Capo Istigatore era il chitarrista Roger “Syd” Barrett entra-to a far parte del gruppo nel periodo in cui cambiava nome. Il bassista, George Waters preferiva usare il suo secondo nome, Roger, ma chi aveva mai sentito parlare di un gruppo con due Roger? Poi Barrett iniziò a usare il soprannome Syd Barrett iniziò anche a comporre. E i risultati furono vendibili ma an-che disegnati dalla sua strana immaginazione e dall’approc-cio strumentale fuori dal comune del gruppo. Si interessaro-no anche nei giochi di luce, dato che Barrett, un ex- studente di scuola artistica, aveva deciso di evolvere la sua nozione di “suono dipinto”. Quando si iniziò a parlare di loro, i Pink Floyd erano psichedelici come suggeriva il loro nome.Inghilterra, inizi del 1967: Hendrix rotolava nelle classifiche dentro una Purple Haze; Carl Wayne dei Move cantava I Can Hear The Grass Grow; i Beatles si facevano una passeg-

ANALISI FLOYDIANAUN DONO DI DIO

di Jim Green // Trouser Press // maggio 1980

I Pink Floyd sono particolarmente strani. E non parliamo del gruppo ma anche del modo in cui sono

stati guardati dal mondo del rock. Qualsiasi siano le motivazioni, la differenza tra il gruppo che ha

registrato See Emily Play e quello che ha dilapidato una fortuna elaborando The Wall non è semplice-

mente il risultato del trascorrere di tredici anni.

19OUTSIDER

Page 20: PINK FLOYD STORY

ro trasmesse nellla Top Gear della BBC ma mai pubblicate. Al contrario lo venne la It Would Be So Nice di Wright con la sua benevola celebrazione della vita. Anche questo brano non andò da nessuna parte, facendo immaginare che nessu-no volesse sentir parlare dei Pink Floyd senza Barrett. Ma il gruppo raddoppiò gli sforzi e più in là nel corso dell’anno pre-pararò A Saucerful of Secrets.Un disco salutato come un capolavoro da alcuni, e maltratta-to da altri che ci videro solo un insieme di musica sbiadita e noiosa. Data la natura di transizione del disco, molto del con-tenuto risultava decisamente valido allo scopo, che era deci-samente ambizioso per i tempi. Gilmour ricopriva un ruolo del tutto creativo nei nuovi Floyd e Waters prendeva il toro per le corna, emergendo come il creativo del gruppo. Quel che lui ed i Pink Floyd avevano scelto di fare era la musica riservata, evocativa di Interstellar Overdrive. Navicelle spa-ziali veloci si muovevano lentamente comparate alla vastità dell’universo; e anche se Mason picchiava con rispettabile

blanda, o al massimo guardata da dietro a una tendina grazie al produttore George Martin. I Pink Floyd ed in particolare Syd Barrett non potevano essere inquadrati così efficacemen-te e Norman Smith non ci provò nemmeno. Piper trabocca di una miscela inconvenzionale di racconti di fantasia e luoghi comuni (The Gnome, Bike), un elegante misticismo (Chapter 24), una oscura atmosfera (Lucifer Sam), tutte arrangiate ed eseguite in modo evocativo; l’idea del suono dipinto non era una semplice scusa per uno spettacolo di luci.Degne di nota particolare sono Astronomy Domine e Inter-stellar Overdrive, due brani lunghi e essenzialmente stru-mentali. Con questi brani di quasi dieci minuti i Pink Floyd crearono un precedente che avrebbe permesso a molti gruppi sbagliati di stiracchiare improvvisazioni registrate a lunghez-ze faticose. Ma i Floyd non erano pesantemente solisti, una cosa tipo “guarda come sono fichi i miei solo”; un creativo unicamente folle come Barrett avrebbe potuto difficilmente considerare la sua musica in questi termini banali. Queste al-tro non erano che più ampie sol-lecitazioni di suoni come Pow R Toc H e Take Up Thy Stethosco-pe and Walk, che contenevano comunque sezioni strumentali. Piper ebbe un grande successo nelle classifiche degli album in Inghilterra (n.6) come Emily l’a-veva avuto nei singoli, un note-vole riconoscimento dato che né Emily o Arnold apparivano sul 33. I Floyd erano adesso stelle riconosciute. Ma quasi due mesi dopo che Piper era stato pubbli-cato, il terzo singolo dei Floyd, Apples and Oranges/Paint Box, divenne il loro primo fallimento totale. Entrambe le facciate era-no complicate, più graziose dei consueti Floyd e con una punta di influenza dei Beatles, ma con nessuna delle due, adatta a esse-re un singolo.Arrivato alle calcagna di un rapido successo il fallimento del singolo scoraggiò Waters, Wright e Mason ma fu una vera frustrazione per Barrett. La sua spiacevole dissoluzione come uomo nell’inverno del 1967/68 condusse all’aggiunta del chi-tarrista David Gilmour e, poco dopo, anche all’estromissione di Barrett. Anche se i tre non lo ab-bandonarono completamente, assistendolo nelle sue avventu-re da solista.Le due Scream Your Last Scre-am e Vegetable Man di Barrett – del tutto appropriate – venne-

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ne, e anche ripiazzati nella sequenza: Interstellar Overdrive messa sul lato due dell’album e See Emily Play inserita come brano iniziale. Emily era un singolo minore ma i Floyd resta-

vano un qualcosa di oscu-ro, anche nel relativamen-te piccolo, se pur crescente, mercato underground. The Piper si fermò al n.131 delle charts USA, quando qualsiasi disco inglese arri-vava nei primi 50 posti.Al tempo del terzo album, More, i Pink Floyd erano stati spostati dalla Colum-bia in Inghilterra alla nuo-va e progressiva Harvest.More era un infelice ri-sultato dell’entusiasmo di Waters di vedere i Floyd diplomati dalla loro fama multimediale al mondo delle colonne sonore. Sec-cati di non esser riusciti a mettersi d’accordo con Stanley Kubrick per la colonna sonora di 2001, Waters si gettò sulla pos-sibilità di farla per More. Forse quella delusione, unita alle limitazioni di lavorare per un film me-diocre, spiegano i risultati fiacchi. Cymbaline è som-messamente deliziosa; The Nile Song una convincen-te proiezione di libidine e furia e Ibiza Bar presagisce il loro successivo stile rock. Ma la maggior parte del disco è privo di indirizzo e trascurabile e incapace di stare in piedi da solo. I Floyd ebbero anche un coinvolgimento abortito con lo Zabriskie Point di Antonioni, finendo con il concedere tre brani per la colonna sonora inclusa una rivisitazione di Euge-ne lì chiamato Come in Number 51 Your Time Is Up.Con la pubblicazione del disco successivo, Umma-gumma, la Capitol mise

in piedi una etichetta Harvest negli Stati Uniti e dato che i sessanta diventavano i settanta, l’America organizzò un ade-guato lancio dei Pink Floyd che portò la band al n. 74 delle

ritmica, la musica si muoveva lentamente intorno a lui. Le tastiere di Wright erano in primo piano nelle immagini pa-noramiche del suono cosmico.Si trattava di una mossa che si allontanava dall’in-fluenza di Barrett nono-stante ci fossero un paio di saluti: Corporal Clegg, scritta da Waters in modo sarcastico e barrettiano, e la Jugband Blues dello stesso Barrett che chiudeva l’album con ironia genti-le, quasi di buon umore. La sua influenza nel Pink Floyd svaniva ma la sua ispirazione e lo spettro del suo declino, no. Il pubblico dei Pink Floyd era scivo-lato da un mercato com-merciale di massa a quello che stava diventando un luogo progressivo e sot-terraneo. Point Me At The Sky , pubblicata nel tardo 1968, sottolineava il mu-tamento. Era il brano più commerciale del gruppo da See Emily Play e scava-va in più di una passeggera somiglianza a Lucy In The Sky With Diamonds – an-che se pur più dura e rumo-rosa – ma non sfondava tra gli acquirenti dei 45 giri. La seconda facciata, Careful With That Axe Eugene, de-cisamente più in linea con Saucerful, divenne uno dei brani favoriti dal vivo. Questo fu il loro ultimo singolo in Inghilterra fino a Money nel 1973.In America, la Capitol records, pur convinta di spingere qualsiasi gruppo venisse dall’Inghilterra, non aveva idea di cosa fare con i Pink Floyd. decisero di piazzarli nella loro sus-sidiaria alternativa, a bassa priorità di promozione, la Tower, che era il cimitero per gruppi come Choco-late Watchband, Stan-dells, i Them post-Van Morrison e varie colonne sonore cinematografiche. Piper venne significativamente stravolto: pezzi vennero rimossi, inclusa la brillante Astronomy Domi-

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rock, classica e musica sperimentale, con melodia e dissonan-ze e che include alcuni passaggi raffinati e vagamente intesi per essere – qualche volta in modo ruffiano – uno sguardo al ciclo della vita animale, o qualcosa di simile. E quel “qual-cosa di simile” è il problema, dato che Atom Heart Mother è concettualmente impenetrabile o semplicemente confuso. Nonostante la mancanza di entusiasmo della critica, suscitò interesse nei circuiti di musica classica, che casualmente con-dussero i Pink Floyd ad apparire al Festival di Musica Classica di Montreux. I fans dei Floyd ritennero che fosse un bene; se non avessero avuto il tempo per eseguire Atom Heart Mo-ther, avrebbero potuto attaccarsi alla delicata ballata If di Wa-ters, alla tronfia ma godibile Summer of ‘68 di Wright o l’ec-cellente e bizzarra Fat Old Sun di Gilmour, per non ricordare quella sorta di audio-verità di Alan’s Psychedelic Breakfast. Insieme ad Ummagumma, Atom Heart Mother rappresen-ta la scala di creatività del gruppo al punto massimo del suo

charts. Il disco doppio era metà dal vivo e metà di studio. La parte dal vivo mostrava il suono sofisticato del palco e docu-mentava l’evoluzione di Eugene in un lavoro di coerenza e potenza solo accennato nell’originale. Il disco conteneva an-che una interpretazione fedele e emozionante di Astronomy Domine mentre Set The Controls For The Heart Of The Sun e Saucerful Of Secrets suonavano agili ma relativamente poco spettacolari, eccezion fatta per quelli che desideravano testare le proprietà del loro impianto hi-fi, che in quegli anni stava esplodendo sul mercato di massa, ponendo finalmente fine a impianti di ascolto che di stereo avevano ben poco.Il disco di studio dava a ogni Floyd un quarto di disco. Un capolavoro di autoindulgenza, seppur interessante a tratti; la Narrow Way di Gilmour sarebbe stata eccellente se di soli quattro minuti invece di dodici. Ummagumma comunque ottenne in Inghilterra risultati insperati da tutti, vista la diffi-coltà del progetto, arrivando al n. 5.Il giovane pubblico rock alla moda ameri-cano non aveva ancora sentito nulla come i Pink Floyd, nonostante le esperienze di band come i Grateful Dead, e la propensione tec-nologica del gruppo impressionava molti; anche i rumori elettronici di Waters riusci-vano a esaltare molti stonati entusiasti dello stereo. Negli anni successivi Ummagumma sarebbe diventato più di una istituzione nelle camerate dei college in tutto il Paese come le pipe per l’hashish e gli Zap Comix di Robert Crumb.L’autunno del 1970 fu ravvivato dall’uscita di Atom Heart Mother, anticipato quell’e-state al Festival di Bath. L’album risultò una pietra miliare per molti motivi. Preceden-temente, all’inizio dell’anno, Waters aveva aiutato il suo eccentrico amico Ron Geesin a comporre e suonare la colonna sonora per The Body; The Womb Bit, Bridge Passage for Three Plastic Teeth e altre sono racco-mandate per quelli che non ne hanno avu-to abbastanza dei rumori animali di Waters su Ummagumma. Geesin restituì la cortesia componendo, insieme ai Floyd, la lunga sui-te che dà il titolo al disco; questa era la prima volta che un estraneo riceveva credito su un album del gruppo, e l’ultima fino a The Wall. Il disco segnava anche un cambio nelle rela-zioni tra Norman Smith ed il gruppo. Smith aveva prodotto il solo disco di studio di Um-magumma; i Floyd si erano gestiti la parte live da soli. Su Atom Heart Mother, Smith re-cedeva a produttore esecutivo. I Pink Floyd si sentivano ora sufficientemente sicuri in studio da non aver bisogno dell’aiuto di un estraneo.Comunque non si accontentarono di farla facile. Atom Heart Mother è un complicato quadro di un gruppo, dei cori, fiati e dei ca-ratteristici trucchi di studio. Una miscela di

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Secondo quanto riportato dalla stampa al tempo, nella band circolavano brutti risentimenti. Questo potrebbe spiegare perché il progetto successivo fosse un’altra colonna sonora per un film intitolato La Vallee, che i Pink Floyd intitolarono Obscured By Clouds. Atipico, per i Floyd, nella sua conven-

zionalità l’album ha i suoi momen-ti positivi: The Gold It’s In The... , Wots...uh The Deal, Childhood’s End e Free Four. Il suo successo (n.6 in UK e 46 in USA parlando di ven-dite) sta principalmente nei testi, quasi tutti di Waters, che non sono pastorali o cosmici ma quasi perso-nali, a prescindere dalla trama del film.Il lavoro pacato ma articolato di

Gilmour alla chitar-ra è un altro punto di forza. Obscured By Clouds è di solito tra-scurato come ester-no alla personalità dei Floyd, ma i suoi temi più personali, le strutture meno intri-cate delle canzoni e la gamma limitata di tempo e ritmi fanno tutti parte del con-tinuo sviluppo del gruppo. Dopo quasi otto mesi di studio, i Pink Floyd riemer-gevano all’inizio del 1973 con Dark Side Of The Moon. Un ragguardevole passo in avanti, ma se os-servato attentamen-te rivelava la sua di-scendenza dai lavori precedenti, incluso Obscured By Clouds.Waters sembrava vo-ler esprimere alcune verità familiari di fresca scoperta. I dis-sidi interni e le pres-sioni dello status di star in qualche modo in calo potrebbero aver condotto ad un medesimo genere di

stress sul genere di quello occorso a Syd Barrett; in Breathe Waters avverte circa il prendere il gioco della vita troppo seriamente. Brain Damage se non interamente riguardante Barrett era definitivamente incentrato su quel tipo di sogget-to : “And if the cloud bursts, thunder in your ear / You shout

equilibrio; gradualmente, da qui, Waters avrebbe ampliato la sua influenza, incominciando dal successivo Meddle.Fu anche il loro primo n.1 in UK e anche in America scalò le vendite fino al n.55.C’è un anno di buco tra Atom Heart Mother e Meddle, ri-empito con la pubbli-cazione di Relics, con sottotitolo A Bizarre Collectionof Antiques & Curios. La EMI olan-dese aveva già pubbli-cato un best of, più tar-di ripubblicato nella serie Masters of Rock, che includeva Apples and Oranges, It Would Be So Nice e la bellis-sima seconda faccia-ta del singolo di See Emily Play: Candy and a Currant Bun, un’irri-verente parodia del R & B tosto che traspari-va nei primi periodi del gruppo. Da parte sua, Relics conteneva la versione originale di studio di Eugene ed un tosto, blueseggian-te ed inedito Biding My Time. Point Me At The Sky apparve solo su un promo radiofonico sta-tunitense ed un altro brano chiamato Em-bryo apparve su un promozionale inglese della Harvest, adesso introvabile.Meddle tramutò la già mancanza di entusia-smo della critica in un esplicito disprezzo. E non è difficile com-prendere il perché; dopo Atom Heart Mother – che, seppur incostante, era almeno avventuroso – l’ultima proposta dei Floyd sembrava blanda e risciacquata. In realtà soffre in pa-ragone nei confronti di molti album dei Floyd, ma nel mezzo di noiose ballate, miscugli di jazz, ritagli e privi di indirizzo country blues, Fearless accumula un’emozione curiosa, con-tagiosa mostrando una forza risoluta e con l’intermezzo di una folla che canta You’ll Never Walk Alone. La lunga Echoes che riempie tutta la seconda facciata, sviluppa un’eloquenza pia-cevole, gentile, specialmente dopo ripetuti ascolti. Queste due composizioni divennero tra le favorite dei Floydiofili.

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di quante i Pink Floyd ne avessero mai proposte, Wish You Were Here era proba-bilmente il disco più potente dalla nascita del gruppo.E all’epoca fu anche il più venduto, n.1 sia in USA che UK.Nel 1977 spruzzarono il loro veleno un po’ più in là. Animals abbracciava l’inte-ra razza umana, dopo tutto composta da differenti generi animali. Tre lunghi brani comprendevano Dogs, Pigs (Three Diffe-rent Ones) e Sheep e ti portavano all’inter-no di condizioni umane tipo la schiavitù e il degrado, criminalità di ogni genere, con reati commessi con o senza una cravatta e nei riguardi del fisico o dello spirito, e al massacro dell’apatia e della passività. Diretto e corrosivo l’efficacia di Animals

è invalidata solo dalla sua mancanza di concisione e dalle conclusioni dubbie, ammesso che ve ne siano.Dopo Animals, dall’organiz-zazione dei Floyd filtrarono notizie per cui sarebbe passa-to un po’ di tempo prima che il gruppo avesse nuovamen-te prodotto un disco. Waters avrebbe potuto essere soddi-sfatto di lavorare esclusiva-mente sui progetti dei Pink Floyd, dato che concettual-mente il gruppo era divenuto sostanzialmente il suo bam-bino; ma Gilmour e Wright avevano necessità creative dal soddisfare e scelsero di pubblicare album solisti nel 1978. Mason si accontentò di produrre il secondo disco

dei Damned in quel periodo. Gilmour, che aveva ricoperto il ruolo del filantropo aiu-tando Kate Bush agli inizi, mise insieme un disco di brani in stile Pink Floyd per mo-strare il peso che il gruppo aveva su di lui... o lui nel gruppo. Si trattava spesso di godibile rock and roll ma ogni tanto arrancava come musica minore dei Floyd, come qualcosa in meno da dire. Il Wet Dream di Wright soffri-va di una melanconica noia terminale va-gamente percettibile; il chitarrista Snowy White o il sax di Mel Collins troppo spesso mettevano in ombra la tastiere di Wright in parti strumentali anonime.Perciò i fans dei Floyd iniziarono a guardare con grande anticipo e interesse all’annun-ciato The Wall. E quel che ottennero era il gruppo al massimo dell’ambizione, che

and no one seems to hear / And if the band you’re in starts play-ing different tunes / I’ll see you on the dark side of the moon.”. (E se la nuvola esplode, ed hai il tuono nelle orecchie/Urli e nes-suno sembra sentirti / E se il tuo gruppo inizia a suonare musi-che differenti / Ci vedremo sul lato oscuro della luna ). Il disco termina con l’oscura af-fermazione di Waters, “tutto sotto il sole è in sintonia, ma il sole è eclissato dalla luna”.Potente, logico, magistrale, po-tete immaginarvelo – la critica si emozionò di nuovo per i Pink Floyd, gettando ovunque così tanti superlativi quanti dollari (e sterline) da influenzare il pubbli-co di acquirenti. Dark Side fu il primo album a raggiungere il primo posto in America; ed è il disco che - in-sieme a Thriller di Michael Jackson (NDT) - è rimasto più lungamente nelle classifiche americane, oltre che sull’altro lato dell’Oceano dove raggiunse il n. 2 delle classifiche UK. Ca-valcando il successo, i Pink Floyd erano in gra-do di passare molto tempo, oltre due anni, a la-vorare sui due dischi successivi. Si permisero anche di cambiare etichetta negli Stati Uniti, passando alla Columbia, dato che l’originale aveva contestato eccessivamente il soggetto guida di Wish You Were Here. Divenuto una merce da vendere, Waters – adesso scrittore ufficiale dei testi, mentre la musica restava un prodotto dell’intero gruppo – disquisiva di questi problemi su Welcome To The Machine e Have a Cigar. Il secondo in particolare contiene delle immagini caricaturali graf-fianti : “Il gruppo è fantastico, lo penso davvero. E, in ogni caso, chi è Pink?... Siamo così felici che possiamo a malapena contare.”.Il brano che dà il titolo al di-sco potrebbe essere Waters che parla a Barrett, all’ascoltatore, a entrambi o a nessuno dei due; esprime difatti anche il costo pe-sante di perseguire le ambizioni di una vita. La canzone è piazza-ta in mezzo alla prima e la ulti-me cinque parti di Shine On You Crazy Diamond, un’ode a Bar-rett, vittima di cotanta guerra. Imperfetto, altamente idiosin-crasico, rigonfio di più emozioni

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nazionalistico, The Wall è ampiamente emozionante, se non sempre godibile; mostrando più intelligenza tematica e con-cettuale della maggioranza dei ‘concept album’. Fu il terzo disco a arrivare n.1 in USA e al n.3 in UK. Qualcuno potrebbe dire che i Pink Floyd abbiano raggiunto tutti, specialmente alla luce della teatralità dal vivo dell’ope-ra, di quanto avevano potuto fare in teoria nel corso della loro storia, confermando generalmente una elevata qualità del prodotto. Dove andranno d’ora in poi? Waters saprà mantenere la guida al timone della creatività del gruppo oppure qualcuno degli altri non si mostrerà in linea con le sue intenzioni future? La risposta dovrebbe arrivare in due o tre anni, quando uscirà il prossimo album dei Pink Floyd.

NDR- The Final Cut arriverà 4 anni dopo, nel 1983 arrivan-do ancora una volta n. 1 in UK. Nel 1985 Waters abbandona il gruppo. A Momentary Lapse of Reason esce nel 1987, The Division Bell nel 1994 arrivando al n. 1 sia in USA che in UK. Nei tour susseguenti questi due ultimi dischi, Waters sarà sostituito da Guy Pratt e Tim Renwick alle chitarre, con Jon Carin alle tastiere. Nel 1995 la formazione cessa la propria at-tività, sciogliendosi definitivamente nel 2006. Esattamente 20 anni dopo The Division Bell arriva il compendio di questo: The Endless River.

tracciava la vita da rock star sulle quattro facciate del vinile. Il protagonista è asfissiato dalla madre, picchiato da un ma-estro sadico – che se ne va a casa per essere picchiato a sua volta dalla moglie – e violentato dalla fabbrica delle rockstar e dalle groupies affamate di fama, per questo erige un muro di follia per nascondersi da tutti. Sebbene disgustato, viene comunque corrotto da tutto ciò ed alla fine si confronta con la concretizzazione di tutte queste influenze in un qualche tribunale immaginario della propria coscienza. Il risultato è equivoco: il muro finisce con l’essere abbattuto, ma cosa signi-fica in realtà? I concetti terminano con un commento di un artista amico che desidera aiutare il nostro anti-eroe: “Dopo tutto, non è facile sbattere il tuo cuore contro il muro di qual-che pazzo bastardo”.Bob Ezrin co-producendo il disco insieme a Waters e Gilmour otteneva emozioni più ampie, drammatiche. Lo stimolo è re-lativamente vivace e gli arrangiamenti abbastanza vari da mantenere l’attenzione per la maggior parte del tempo, ma Waters, che aveva composto tutto il disco eccetto quattro bra-ni, si era ridotto a uno stile troppo leggero da un punto di vista melodico. Pur contando su una vasta quantità di materiale da assimilare, solo due pezzi emergono nettamente: la rocciosa Run Like Hell e Another Brick In The Wall. Fortunatamen-te Waters suddivide Brick in quattro parti inserite all’inter-no dell’album. A parte qualche anti-autoritario sciovinismo

SYD BARRETT 20 GIUGNO 1968 // ULTIMO CONCERTO CON I PINK FLOYD – ‘MELODY MAKER’

La stella luminosa che fu Syd Barrett ha suonato il suo ultimo concerto con i Pink Floyd lo scorso 20 gennaio 1968. Barrett era il principale compositore, cantante, chitarrista e punto focale per i pionieri della psichedelia dalla loro formazione fino al 1967,

quando molte motivazioni hanno portato alla sua uscita dal gruppo. I Pink Floyd erano in costante ascesa nel corso dell’anno dorato del 1967. Il gruppo ha pubblicato un paio di singoli divenuti dei classici, Arnold Layne e See Emily Play, così come il loro incredibile album di debutto, The Piper At The Gates Of Dawn, ma il comportamento incostante e imprevedibile tenuto da Barrett è cresciuto al punto da rendere sempre più difficile per il resto del gruppo mantenerlo in riga. L’amico e collega, il chitarrista David Gilmour è stato fatto entrare nel gruppo nel tardo 1967 per sopportare Barrett alla chitarra. Gilmour è divenuto l’esecutore per la maggior parte delle linee di chitarra dal vivo dato che Bar-rett tendeva a iniziare le canzoni nella tonalità sbagliata e spesso si fermava nel mezzo dell’esecuzione. La formazione a cinque è durata poco dato che il gruppo era stanco di avere a che fare con Barrett in assoluto. Il 20 gennaio 1968, mentre si recavano alla Southampton University per un concerto, il gruppo ha deciso di non avvertire Barrett di presentarsi al concerto. Secondo David Gilmour, in una intervista del 1995 con Guitar World, “Uno di noi in auto disse...dovremmo passare a prendere Syd? ….ed un

altro rispose.. .chi se ne frega”. In ogni caso dimenticarono di avvertire Syd che il suo aiuto al gruppo che aveva creato non era più necessario. “Inizialmente fu davvero imbarazzante - disse Rick Wright nella biografia di Barrett ‘A Very Irregular Head’ – mi toccava dire cose tipo “Syd vado

a comprare le sigarette” e poi partivo per suonare un concerto; ovviamente lui poi capì cosa stava succedendo”. Wright condivideva un appartamento con Barrett al tempo. In principio gli venne proposto di restare a casa a fare il medesimo ruolo che Brian Wilson aveva con i Beach Boys e concentrarsi sullo scrivere canzoni e registrare, ma questa idea non andò molto lontano e non è chiaro quanto fu imbarazzante e difficile tagliare gli ultimi legami. “C’erano momenti piacevoli – disse Gilmour nella medesima biografia – con due o tre di noi che ballavamo con Syd nei camerini prima di salire sul palco”. Ma non fu fino al 6 di aprile del 1968 che venne annunciato ufficialmente che Syd aveva lasciato il gruppo. Un amico di Barrett, il poeta Spike Hawkins, ricorda di Syd che gli raccontava delle prime registrazioni dei Floyd e di come lui volesse “andare molto più profonda-mente avanti a esplorare utilizzando musica e testi come chiavi per aprire porte”. Hawkins disse a Barrett che difatti lui aveva

aperto porte per il gruppo e Barrett rispose : “Si, ma con chiavi da due soldi”.

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DAVID GILMOURdi Jerome Soligny // Les Inrockptibles // 2000

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Photo: Claude Gassian

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Parliamo un po’ di suono: da Atom Heart Mother nel 1970, i Pink Floyd sono noti per una cura par-ticolare delle proprie registrazio-ni e della riproduzione sonora dal vivo. Quando interpretaste quell’album nella sua integralità al festival di Bath, utilizzaste un impianto sonoro che diffondeva la musica in rilievo a 360°.In realtà il gruppo utilizzava questo sistema quadrifonico prima che mi unissi a loro, ma venne rubato. All’i-nizio degli anni settanta, gli ingegneri della EMI avevano costruito un nuovo modello di cui ci saremmo serviti. In associazione con la WEM, cercammo di ricavare un suono ad alta fedeltà sul palco, che in seguito riuscimmo d ad-domesticare su disco, a partire però da Meddle.

Ho nominato l’album che ospi-ta Echoes, un vero e proprio mo-numento, un ode alla chitarra fluttante. Dall’ondata dei gruppi progressive alle attuali musiche elettroniche, passando per grup-pi come Radiohead o Beta Band, è chiara l’influenza dei Pink Floyd su diverse generazioni di musi-cisti oggi si rivela capitale. Ne sei cosciente?Fa bene all’ego (risate). L’impressione di aver potuto contribuire in un modo o nell’altro alla musica di oggi è assai piacevole. Ma è vero? Non lo neanche io ma ne sono comunque fiero. Soprat-tutto nel momento in cui ascolto qual-cosa sapendo con assoluta certezza che non sarebbe esistito senza di noi. Hai usato la parola ‘fluttuante’ per la mia chitarra? Diciamo che Peter Green è stato molto importante per la mia for-mazione chitarristica. Forse quella pa-rola è più adatta a lui che a me.

Prima di passare a Dark Side Of The Moon, occorre menzionare Obscured By Clouds, un’altra co-lonna sonora uscita nel 1972. Da

manager di allora, avevano intu-ito potesse essere il seguito di See Emily Play. Tuttavia, la leggenda afferma che tu e Syd siete presenti entrambi in alcuni pezzi.Quel disco è stato iniziato prima che io fossi chiamato e Juggabd Blues era già stata registrata in un altro studio. È Syd che suona in Remember A Day e siamo presenti effettivamente tutti e due in Set the Controls For The Heart Of The Sun. Io ho poi suonato in tutto il resto.

Nel 1969 i Pink Floyd hanno pub-blicato More, la colonna sonora del film di Barber Schroeder su una comunità hippie di Ibiza, e Umma-gumma, doppio album decisamen-te sperimentale contenente dei pezzi live.Dal vivo i Pink Floyd sono sempre stati molto sperimentali e non avevano in definitiva niente a che fare con le can-zoni pop compatte che scriveva Syd. In-terstellar Oderdrive, sul, primo album, mostra chiaramente che il gruppo era pronto a battere altri territori.

A più di 30 anni dalla sua compar-sa Ummagumma resta una bestia sacra?In effetti la sua popolarità mi ha sem-pre stupito. Non l’amo tantissimo e secondo me moltissime cose non sono messe a fuoco. Diciamo che sono butta-te lì. All’epoca eravamo un po’ smarriti, da lì venne l’idea di delirare ognuno nel proprio angolo e di includere alcu-ne parti live. Però la copertina è splen-dida e il titolo anche (risate), È ciò che dà a quel disco quella profondità di cui manca terribilmente.

Tuttavia, forse inconsapevolmen-te, avevate gettato le basi del suo-no a venire?Forse. A Saurceful Of Secrets, sull’al-bum omonimo, qualche passaggio di Ummagumma e Echoes su Meddle lasciano intravedere il seguito e Dark Side of The Moon.

Ti sei unito ai Pink Floyd dopo The Piper At The Gates Of Dawn, il pri-mo album. Forse sarà una doman-da scontata, ma quale era il suo rapporto con Syd Barrett?Conosco Syd dall’età di 13-14 anni, fre-quentavamo la stessa scuola, la Cam-bridgeshire High School a Hills Road, siamo diventati presto amici: abbiamo imparato a suonare la chitarra insieme, ci siamo insegnati delle cose a vicenda. Siamo andati in vacanza insieme in giro per l’Europa, Francia/Spagna, suo-nando dove capitava canzoni dei Beat-les. Quando il gruppo ha iniziato a sfon-dare in Inghilterra, io vivevo in Francia e suonicchiavo da quelle parti con i Jo-kers e non sono rientrato in Inghilterra che nel settembre del 1967. Alcuni sin-goli e l’album erano già usciti.

Quindi, tu andavi a sentirli suona-re dopo che sei tornato come a ve-dere dei vecchi amici?Sì, per il fatto che frequentavamo gli stessi club con il mio primo complesso, i Jokers Wild. E conoscevo naturalmente anche gli altri.

Il modo in cui sei stato chiamato a unirti ai Pink Floyd non è mai sta-to molto chiaro: eri, almeno all’i-nizio, considerato come un quinto membro o era già evidente che do-vevi rimpiazzare Syd?Quello che mi dissero subito era che Syd non era più in grado di esibirsi dal vivo. La sua malattia gli impediva di re-stare naturalmente sul palco e l’idea era che io restassi lì per assicurare le parti di chitarra nel caso lui non si fosse presen-tato. Abbiamo dovuto fare 4-5 concerti in cinque, ma è diventato chiaro molto in fretta che le cose non avrebbe funzio-nato a lungo in quel modo e siamo stati costretti a lasciare Syd indietro.

Il tuo unico contributo ufficiale a A Saurceful Of Secrets è il pezzo Jugband blues, un brano che Pe-ter Jenner e Andrew King, i vostri

È in occasione dell’uscita dell’album della tournee di The Wall, progetto megalomane di Waters che portò alla sua uscita dal gruppo, che David Gilmour riceve la stampa mondiale (un giornale per paese, scelto da lui medesi-mo) nel suo studio galleggiante (una meraviglia in legno costruita nel 1911 in cui risiedette, tra gli altri, Charlie Chaplin). Le dita che hanno creato Echoes si sciolgono su un manico di chitarra spagnola, poi lo strumento viene posato su un letto di cuscini color sangue. Viene servito del tè, si schiacciano in contemporanea play e record.

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ve ne abbia portato tantissimo, di-ventando anche una delle canzoni più celebri del vostro repertorio?Assolutamente. Tutto quello di cui ci prendevamo gioco è diventato la no-stra vita.

Il tema dell’alienazione, della pa-ranoia…Non siamo che esseri umani, dopotut-to…. Disprezziamo il denaro quando non l’abbiamo.

Nel momento in cui i Pink Floyd divennero sempre più popolari, tu non hai comunque abbandonato Syd, collaborando ai suoi album solisti. Si può considerare Wish You Were Here come un omaggio al vecchio leader del gruppo o no?(pensieroso). Shine On You Crazy Dia-mond è dedicata a lui, non è un segreto per nessuno….

Non era una situazione strana in-volarsi verso la gloria e il denaro sapendolo in lontananza, dietro di voi ad errare tra i suoi fantasmi, alle prese con la schizo-frenia, infelice o feli-ce forse…Felice? Syd? No, non credo proprio. Non è mai stata una situazio-ne facile, soprattutto per me, visto i trascorsi. Ma erano già passati 5 anni dalla sua uscita dal gruppo e ciò che era diventata la band non aveva più niente a che fare con quello che era all’inizio. Ma non sono mai stato geloso di Syd o di quello che ha appor-tato al gruppo agli inizi per la semplice ragione che era mio amico, che gli volevo davvero bene e che ero cosciente dal suo talento e del pastic-cio in cui si trovava… Adoravo le sue canzoni, il suo modo di affrontar-le, era un essere umano meraviglioso. Fragile.

che avessimo iniziato realmente a pa-droneggiare la composizione e gli studi all’epoca. Alla fine fummo in grado di controllare un progetto dall’inizio ala fine. Forse sei anni per arrivarci sono stati troppi ma va bene uguale. Non bisogna neanche dimenticare che ave-vamo suonato le canzoni di Dark Side of The Moon già parecchie volte al mo-mento di registrarle, la macchine era ben oliata, avevamo corretto tagliato, aggiunto, limato e sapevamo che la gente avrebbe reagito favorevolmen-te. E, soprattutto, avevamo Alam Par-sons nel ruolo di ingegnere del suono, un gran vantaggio. Gli ingegneri della EMI che avevano lavorato preceden-temente con noi non erano altrettanto bravi. Con Alan la corrente si è trasmes-sa molto in fretta, improvvisamente si era creata una squadra.

Non trovi ironico il fatto che Mo-ney, uno sberleffo al denaro scritto da Roger ma cantato da te, alla fine

dove proveniva quella frenesia di progetti cinematografici?In realtà, quelle sono musiche per Bar-ber, proprio come quelle di Zabrinskie Point per Antonioni…

Che lui trovò troppo tristi?Assolutamente (risate). Comunque, non sapendo se la band sarebbe dura-ta nel tempo, ritenevamo che la mu-sica da film potesse essere qualcosa di alternativo nel caso le cose fossero andate male. A nessuno di noi andava di tornare a fare l’impiegato o a lavora-re in banca. Vedevamo tutto quando come una maniera civile di continua-re a guadagnarci da vivere suonando, nel caso in cui il gruppo cappottasse. Vero che Atom Heart Mother era arri-vato al numero 1 delle charts di casa nostra, ma fu solo nel 1973 con The Dark Side of The Moon che capimmo che ormai avevamo svoltato. E poi era rapido, piacevole, immediato. Non c’era tempo per esitare: c’era una data limite, si compone, si registra e via. Fatto. Era come andare a scuola. Esperienza.

Fare una doman-da pertinente su un disco importante come Dark Side of The Moon è davvero un’impresa…(un accenno di sorriso agli angoli della bocca) Tuttavia sarà meglio provarci…

D’accordo, ci pro-vo: non hai avuto l’impressione che improvvisamente, i pezzi del puzzle Pink Floyd si mettessero a posto? Come se ave-ste, infine, trovato un equilibrio perfet-to tra i brani lunghi, alambiccati, e le can-zoni pop immediate, il tutto con un suono he chiunque sarebbe stato in grado di com-prendere?Effettivamente penso

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1978 Gilmour e figlio (Chris Walter)

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apportato granchè a livello di scrittura, che Rick aveva una vita così piena di problemi all’epoca che non proponeva niente neppure lui e, in fin dei conti, effettivamente, abbiamo lavorato per Roger al meglio delle nostre possibilità. So che molti pensano che The Wall rap-presenti l’inizio della fine, ma io non la vedo in quel modo. Abbiamo litiga-to ma non più di quanto lo facessimo prima, o di qualsiasi altra band. Molto sinceramente, penso che lavorassimo benissimo insieme.

Per The Wall siete ricorsi al produt-tore Bon Ezrin, all’epoca conosciu-to per aver collaborato con alice Cooper e Lou Reed.Da qualche album Roger e io eravamo i produttori ma sapevamo che il proget-to sarebbe stato impegnativo: si tratta-va come minimo di un doppio album, particolarmente difficile da pianificare in tutti i suoi aspetti. Avevamo giudica-to che un aiuto esterno poteva esserci molto di aiuto. Occorreva qualcuno che potesse aiutare Roger nella sua narra-zione, cosa che io non averi mai potuto fare. Bob Ezrin ci era stato consigliato dalla moglie di Roger ed è stato geniale, estremamente talentuoso ed efficace. Ci ha cementati, mi ha incitato a proporre

10 BEST SONGS

ASTRONOMY DOMINE

HAVE A CIGAR

BRAIN DAMAGE

ECHOES

MONEY

ANOTHER BRICK IN THE WALL (PART II)

SHINE ON YOU CRAZY DIAMOND

TIME

COMFORTABLY NUMB

WISH YOU WERE HERE

accordi e componevano alcune delle loro cose migliori.Comunque il punk è la ragione per cui Animals è più secco, quasi aggressivo. Volevamo dimostrare che c’eravamo ancora.

Nel 1979 sotto l’impulso di Roger Waters, avete affrontato il vostro progetto più ambizioso, The Wall. Avete portato questo doppio al-bum in tour con un folle spettacolo e Alan Parker ha tratto un film dal-la storia. Si è sempre detto che a te The Wall non sia mai piaciuto…Ho affettivamente detto questo una volta. Lo sai, si dice tutto e il contrario di tutto, a seconda dall’umore: la verità era che ero depresso ascoltando i demo di Roger. Certe parti erano troppo lun-ghe, altre un po’ inutili e ho percepito subito che il progetto avrebbe necessi-tato di parecchio lavoro. Soprattutto, ci si trovava di fronte a una storia con un contenuto narrativo particolarmente forte e bisognava metterlo in musica.In quanto musicista, io procedo più spesso al contrario. Per me la musica è alla base di tutto e le parole si devono adattare, non il contrario. A forza di vo-lersi attenere troppo al testo, alcuni pas-saggi musicali di The Wall sono meno riusciti di altri.

Non è un segreto per nessuno che Roger incominciò allora vampiriz-zare la band, a considerare i Pink Floyd la sua backing band.Bisogna riconoscere che all’epoca era più o meno il leader, quello che ci mo-tivava. Quello che proponeva, quasi sempre, lo facevamo. Non mettevamo in discussione questo. Come musicista, anche se raramente ero d’accordo con lui, cercavo di contribuire facendo del mio meglio, perché è quella magia che mi affascina. I nostri scontri derivava-no soprattutto dal fatto che lui dava a mio parere troppa importanza ai testi o meglio non privilegiava abbastanza la musica. Questo accadeva da anni. Ma, proponendo il progetto, sembrava ave-re un’idea chiara del risultato finale, e li abbiamo fatto il suo gioco. I Pink Floyd hanno sempre funzionato secondo un metodo meritocratico: chi arriva con le idee più interessanti dirige le operazio-ni. Occorre sapere che Nick non ha mai

Era un grande onore comporre una canzone per lui.

Non vi siete mai sentiti un po’ a secco dopo Dark Side?A dire il vero, il successo ci ha letteral-mente rubato le ambizioni. Avevamo raggiunto tutti i nostri obiettivi, fama, denaro, gloria, donne, potere e ci siamo ritrovati smarriti…

Troppo di tutto e tutti insieme?Sì, eravamo in cima al mondo…. A che scopo continuare? Avevamo tutto. E poi, iniziavamo a comunicare molto male tra di noi. È stato un periodo dav-vero difficile ed è un miracolo che ne sia usciti fuori.

Qualche parola su Animals. All’e-poca si scrisse che si trattava es-senzialmente di scarti di Wish You Were Here e che la cosa migliore del disco fosse la tua chitarra.È lusinghiero ma non sono d’accordo. È però vero che alcune canzoni come Dogs o Sheep risalivano a registrazio-ni precedenti. Ma se avevamo lasciato da parte quei brani all’epoca era per-chè sapevamo che avrebbero meritato che gli s idesse più tempo e spazio. In effetti, Roger continuava sviluppare il tema dell’assenza già evocato in Shine On You Crazy Diamond. Mi sono ribel-lato a quell’idea, ma lui ha insistito e, in fin dei conti, penso che abbia avuto ragione.

Animals uscì nel 1977, in piena ondata punk. Quando tutti vi con-sideravano dei dinosauri da sep-pellire. Tempi duri anche per i Pink Floyd?Siamo stati pesantemente criticati. Ci rimproveravano di avere un suono pomposo, le prestazioni sceniche. Tutti volevano tornare all’immediatezza del rock, tre accordi e via. Ma non era tut-to vero. Il punk dimostrò di aver con se molte frecce nell’arco ma era un fe-nomeno costruito dall’industria disco-grafica. Insomma erano sempre i soliti a spartirsi la torta. E non dimentichia-mo che a fine anni settanta non c’era-no solo i Sex Pistols e i Clash ma anche Springsteen, Dire Straits, Tom Waits, Little Feat, Warren Zevon, Tom Petty tutti musicisti che andavano oltre i tre

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nuante. Le cose sono andate a posto quando siamo partiti per terminare l’album a Los Angeles: a causa dei fusi orari, gli avvocati non potevano più assillarci. Alla fine, l’affare non è mai finito in tribunale ma nel corso del tour che ha seguito l’uscita del disco ha mi-nacciato più volte di fermarci, cosa che non ha ovviamente mai fatto.

In fin dei conti, l’avete aggiustata amichevolmente e avete discusso insieme di Is There Anybody out There?,il disco del tour di The Wall pubblciato 20 anni dopo.Discutere è una parola grossa. Diciamo che i nostri manager e i nostri avvocati si sono messi d’accordo. Ma non ci par-liamo più dalla notte dei tempi.

Almeno non vi ha impedito di pub-blicare quell’album.Il rischio non c’era, lui era il primo a vo-lere che uscisse.

The Delicate Sound Of Thunder, il live del tour che ha seguito l’uscita di A Momentary Lapse Of Reason, er al’album da comodino dei co-smonauti russi nella stazione Mir.È vero, mi ricordo. Personalmente, pre-ferisco The Pulse, quello che abbiamo pubblicato dopo The Division Bell, il nostro disco in studio più recente.

Parlando di viaggio e trala-sciando il caso Barrett, credi che le deroghe abbiano gio-cato un ruolo predominante nel processo creativo dei Pink Floyd, come lo è stato per band americane come i Grateful Dead?Francamente non posso negare la loro importanza, d’altro canto le-gata essenzialmente all’epoca, ma credo che la loro funzione fosse ancora più decisiva per i nostri fan. Le droghe non hanno influenza-to direttamente il nostro modo di comporre, ma, poiché tentavamo di sedurre il pubblico che, lui sì, na-scondeva le sue preferenze per cer-te sostanze, credo di poter dire che hanno giocato sicuramente un qualche ruolo. Siamo sempre stati assai più professionali di quanto la gente potesse pensare.

mondo, a voi stessi, e a Roger, che i Pink Floyd possono esistere senza di lui.Del tutto onestamente, ho sempre con-servato la fede nele mie attitudini mu-sicali. Dopo il periodo Barrett, il suono dei Pink Floyd era la mia chitarra, le ta-stiere di Rick, la mia voce per gran parte del tempo e parecchie idee di Roger. Ma in effetti lui non ha mai scritto tutta la musica e il suono che conosce la gen-te è alla fin fine soprattutto quello che Rick e io abbiamo composto. E poi, non vedevo perché noi non avremmo po-tuto continuare. In verità, il mio vero cruccio era soprattutto a livello dei testi, ma all’epoca avevo già registrato due album solistici e mi sono detto che con Bob Ezrin a spalleggiarmi, le cose pote-vano funzionare.

Suppongo che tu abbia sempre tentato di separare la musica dal business, ma non era disturbante proseguire l’avventura sapendo che Roger avrebbe fatto di tutto per impedirvi di utilizzare il nome Pink Floyd?Sì, sicuramente, era parecchio difficile, soprattutto nel momento in cui lavora-vamo. Nei 5 o 6 mesi delle registrazioni sul battello, gli avvocati chiamavano dieci volte al giorno e bisognava che ci parlassimo. Sapevamo che Roger non avrebbe vinto la causa ma era este-

delle musiche, cosa che io non volevo fare visto che si trattava di un progetto di Roger. Ha aperto a Nick delle pro-spettive straordinarie, indicandogli un altro modo di usare il suo strumento e ci ha insegnato delle tecniche di registra-zione particolarmente innovative: una volta incise le basi, le passava sula pista di un altro registratore che veniva uti-lizzato per registrare il seguito, preser-vando così le ritmiche per il missaggio finale. Poi sincronizzava di nuovo l’in-sieme sotto il nostro sguardo stupefatto. Ci ha aiutati a salire un gradino in più nella nostra eterna ricerca della qualità del suono.

La ripercussioni di The Wall, tour e film, sono straordinarie e dram-matiche: il disco contribuisce ad amplificare la popolarità dei Pink Floyd ma la situazione tra Roger e il resto del gruppo si deteriora. Re-gistrate The Final Cut, concepito in origine per essere l’ennesima mu-sica per un film, senza Rick. Oggi quel disco è considerato il primo vero album solista di Roger Waters, che firma la totalità delle canzo-ni. Nel 1986, persuaso che voi non avreste proseguito senza di lui, la-scia il gruppo per incompatibilità d’umore e di carattere. L’anno se-guente pubblicate A Momentary Lapse Of Reason e dimostrate al

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Nick Mason, con suo figlio, 12 ottobre 1972 (Michael Putland/Getty Images)

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THE 12 PINK FLOYD

STUDIO ALBUMS

di Robert Sandall // MOJO, Maggio 1994

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abbiamo mai suonato See Emily Play dal vivo.David Gilmour: Ricordo Nick e Roger che dipingevano A Saucerful Of Secrets come un diagramma architettonico, in forme dinamiche piuttosto che in qualsiasi altra forma mu-sicale con picchi e solchi. Questo è quel che era. Era musi-ca per il gusto della bellezza o dell’emozione, sena nessuna particolare motivazione dietro. Non c’era una linea logica. E questo nonostante negli anni successivi continuammo a ricevere lettere da gente che ci spiegava cosa credeva signifi-casse. Brani composti come se fossero anche colonne sonore.

UMMAGUMMA

Disco doppio del 1969 di transizione, Ummagumma era metà dal vivo metà brani individuali. La copertina disegna-ta dalla Hypgnosis era più forte della maggior parte della musica che è in gran parte improvvisata in modo irrilevante tornando alla vita solo nello spettrale, luminoso classico Ca-reful With That Axe Eugene, il primo di molti pezzi dei Pink Floyd in merito alla pazzia.Nick Mason: Non era assolutamente l’album di un gruppo. La parte dal vivo suona incredibilmente vecchia riascolta-ta oggi, nonostante che i Pink Floyd che suonavano al Mo-thers di Birmingham fosse considerato un piccolo evento al tempo. Eravamo alla ricerca di nuovi modi di costruire un album, anche se penso che questo disco dimostri che la som-ma di noi quattro sia sempre migliore delle singole parti. La EMI aveva una mentalità molto ristretta in quei giorni. Era ancora gestita da tizi in impermeabili bianchi. Mi impediro-no di rivedere i miei nastri con un ingegnere di studio che mi disse che non ero membro di alcun sindacato e di levarmi dai coglioni che non avevano tempo da perdere.David Gilmour: Non avevo mai scritto nulla in preceden-za. Entrai in studio e iniziai a esitare, mettendo insieme un pezzo qua ed uno là senza molto senso. Telefonai a Roger a un certo punto per chiedergli di scrivermi qualche testo che proprio non mi veniva niente di meno che avesse un senso. Mi rispose semplicemente: no.

ATOM HEART MOTHER

Con le orecchie piene di idee sperimentali e d’avanguardia, i Floyd si unirono con il compositore elettronico Ron Geesin per creare il brano che riempie tutta la prima facciata. Il tito-lo del disco fu preso a caso dai titoli di testa di un quotidiano. Da questo momento in poi il gruppo si produsse da solo.Nick Mason: È un disco inciso con una qualità tutto som-mato media ma da una idea molto interessante, lavorare con Ron Geesin, un orchestra e il coro di Roger Aldiss. Roger ed io eravamo molto amici di Ron. Credo di averlo incontrato tramite Robert Wyatt. Quel che Ron ci insegnò in particolare furono le tecniche di incisione e i trucchi fatti con poco. Im-parammo come evitare gli uomini-in-impermeabile-bianco e farci le cose a casa, come il montaggio. Ron ci spiegò come usare due registratori per creare un eco continuo. Fu tutto molto importante per le cose che facemmo in seguito. Oggi

THE PIPER AT THE GATES OF DAWN

Insieme a Sgt Pepper, il disco d’esordio dei Floyd rappresen-tava il contributo durevole all’’Estate dell’Amore’. All’inizio del 1967 i Pink Floyd entravano negli studi di Abbey Road della EMI con una catasta di stravaganti canzoni su gnomi, spaventapasseri e biciclette, pezzi psichedelici che rassomi-gliavano solo vagamente alle prolungate jam spaziali per le quali erano famosi. Norman Smith, ingegnere per i Beatles, ne era il produttore.Nick Mason: Ci venne dato Norman Smith alla EMI, senza discutere. Così Joe Boyd, il nostro produttore originale, ven-ne messo da parte. Norman era maggiormente interessato a farci suonare come un gruppo rock classico. Era una cosa un po’ alla George Martin, un’influenza utile da sperimentare. Passammo tre mesi per registrarlo, che era davvero molto tempo per quei tempi. In genere i gruppi terminavano le incisioni in una settimana, con l’aiuto di musicisti di studio buttati dentro per coprire le parti più difficili da eseguire. Ma dato che i Beatles se la prendevano comoda nell’incidere Sgt Pepper nello studio a fianco, la EMI pensò che questo fosse il modo in cui adesso si facessero i dischi. Ci portarono un giorno a incontrarli, mentre stavano incidendo Lovely Rita. Per noi ragazzini fu un po’ come visitare la Famiglia Reale.Peter Jenner (vecchio manager): Norman era il perfetto uomo di relazioni. Comprese che Syd poteva scrivere grande canzoni pop. Se avessimo provato a fare quel che facevamo dal vivo, non avrebbe venduto un cacchio e saremmo morti come band ancora prima di nascere. L’unico pezzo che era tipo quello suonato dal vivo era Interstellar Overdrive. La suonarono due volte, una versione incisa direttamente so-pra l’altra. Praticamente sovraincisero l’intero pezzo. Per-ché? Beh, suona fottutamente strana, no? Con quel suono ampio e tutta quella batteria battente...

A SAUCERFUL OF SECRETS

La prima formazione dei Pink Floyd stava già sbandando all’inizio del 1968 quando iniziarono a lavorare sul secondo album. Nel corso delle registrazioni Syd Barrett fu messo da parte a favore di un nuovo ragazzo, Dave Gilmour. Presagen-do la fine, i manager Peter Jenner e Andrew King abbando-narono la nave.Peter Jenner: Era stressante aspettare Syd con le canzoni per il secondo disco. Tutti guardavano a lui ma lui non era in grado di farlo. Jugband Blues è davvero una canzone tri-ste, il ritratto di una crisi di nervi. L’ultima canzone che Syd scrisse per i Floyd, Vegetable Man, era stata fatta per quelle incisioni anche se non vide mai la luce. La compose girando attorno a casa mia; è la descrizione di quello che indossa-va?!? È molto inquietante. Roger la tolse dall’album perché era troppo cupa. Come un lampo psicologico.Rick Wright: Scrissi il pezzo che dava titolo al disco e ricor-do che Norman mi diceva: “Non puoi farla, è troppo lunga. Dovete scrivere pezzi da tre minuti”. Eravamo belli cazzuti a quel punto e gli risposi: “Se non vuoi produrla, vattene”. Un bell’atteggiamento, credo. Lo stesso motivo per cui non

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vendute in tutto il mondo (44 milioni nel 2013 . ndt).Nick Mason: Dark Side iniziò come una sequenza chiama-ta Eclipse. La gran parte venne sviluppata nel corso delle prove per i concerti e la suonammo per intero al Rainbow di Londra aprendoci i concerti in America nel 1972. Il concetto crebbe intorno alle discussioni del gruppo circa le pressioni della vita reale, come il viaggiare o il denaro, ma poi Roger la ampliò in una meditazione sui motivi della follia. Il legame tra tutti i suoni e le voci era ben fatto, credo, e usammo per la prima volta verso la fine uno dei primi sintetizzatori, il DCS3. Le registrazioni furono prolisse ma non tese, non angoscio-se dopo tutto. Lavoravamo davvero bene come gruppo, ma non fu solo la musica che ne fece un successo. EMI/Capitol aveva scartato un po’ di gruppi in America, così misero tut-to il denaro recuperato su d noi per promuoverci veramente per la prima volta. E questo cambiò tutto.David Gilmour: La grande differenza per me con questo album fu il fatto che lo suonammo dal vivo prima di inci-derlo. Non puoi più farlo oggi, ovviamente, ti coprirebbero di bootleg su You Tube. Però quando entrammo in studio, tutti avevamo già confidenza con il materiale. Suonare era facile. Una cosa naturale. E questo era una bella accoppiata. La musica, il concetto, la copertina, tutto venne facilmente. Per me fu la prima volta che abbiamo cantato grandi testi; gli altri erano soddisfacenti o sbrigativi e anche semplicemen-te brutti. Su Dark Side Roger decise che non avrebbe voluto nessun altro a scrivere testi.

WISH YOU WERE HERE

L’umore chiaramente elegiaco di questo album è in striden-te contrasto con quello più spassionatamente meditabon-do del suo predecessore. Nel 1975 a Roger mancava Syd; il mondo della musica stava catturandolo e lo infastidiva – e la citazione “And by the way, which one’s Pink?” che com-pare su Welcome To The Machine era una vera citazione da una frase di un esecutivo dell’etichetta americana. Il disco vede anche Gilmour che dà il suo più importante contribu-to da sempre, con molti eccellenti assolo ed alcune delle più toccanti parti cantate che i Floyd abbiamo mai messo su un disco.David Gilmour: Dopo Dark Side eravamo davvero in dif-ficoltà. Io volevo che il disco successivo fosse più musicale perché sentivo che molte delle canzoni precedenti erano state principalmente dei veicoli per le parole. Stavamo lavo-rando nel 1974 in questa orribile piccola sala prove in Kings Cross senza finestre, mettendo insieme quello che divennero i due dischi successivi. C’erano tre brani lunghi, incluso Shi-ne On You Crazy Diamond, che volevo registrare e Roger dis-se “No, prendiamo Shine On e dividiamolo in due parti, poi mettiamoci dentro altro materiale che sia in sintonia con lo stesso tema”. Aveva ragione lui, mi sbagliavo io.Roger Waters: Tutto il disco proveniva da quella frase di chitarra di quattro note di Dave in Shine On. La sentimmo e pensammo subito che era davvero un gran bell’accordo. La linfa iniziò a scorrere e ci condusse a quello che penso sia il nostro disco migliore, il più colorato, il più denso di emozioni.

lo ascolto con imbarazzo perché la traccia di base venne mes-sa insieme da Roger e me, dall’inizio alla fine, in una sola volta. Di conseguenza il tempo va su e giù, non è continuo. Insomma è un casino. Era un pezzo di venti minuti e ci tro-vammo un po’ spiazzati nel corso del brano.D’altra parte Alan’s Psychedelic Breakfast fu un’altra gran-de idea – rumori di caminetto scoppiettante, bollitori in ebol-lizione, che non funzionavano per niente sul disco ma che erano un divertimento dal vivo. Non ho mai sentito Roger dire che fosse una sua idea, cosa che mi fa pensare che l’ab-biamo avuta tutti insieme.David Gilmour: In quel tempo sentivamo che Atom He-art Mother, come Ummagumma, fosse un passo avanti in qualche modo. Oggi credo che si trattasse di un vagare im-pacciato al buio. Per fortuna che al tempo quasi nessuno se ne accorse.

MEDDLE

Questo è l’album che accelerò e affermò il marchio dello stile più maturo dei Pink Floyd: un tessuto denso e colorato di suoni attuali (in particolare il coro calcistico in Fearless), composizioni elettroniche originali e rock strumentale più convenzionale. Venne inciso agli Abbey Road e all’Air Lon-don nel 1971.David Gilmour: Facemmo tonnellate di demo che poi met-temmo insieme e per la prima volta funzionò. Questo album fu un evidente anticipazione per Dark Side Of The Moon, il momento in cui per la prima volta mettemmo a fuoco l’ob-biettivo.Nick Mason: Passammo molto tempo prima di iniziare il disco. Lavorammo a lungo anche con un progetto che pas-sava attraverso il Sound Of Household Objects, un disco fatto senza strumenti musicali ma con oggetti comuni, ma che non terminammo mai. L’idea era sempre di creare un brano continuo di musica che passasse attraverso varie emozioni e questo fu il disco che fissò il concetto. Rick fu la persona che se ne uscì con quella nota all’inizio.Rick Wright: Stavo suonando il piano in studio ma fu Ro-ger che mi disse: “Sarebbe possibile prendere quella nota da un microfono e poi farla passare attraverso il Leslie?”. Tutto partì da qui. È questo il modo in cui ha inizio il miglior brano dei Pink Floyd, credo.

DARK SIDE OF THE MOON

Il futuro inizia da qui. Inciso agli Abbey Road su di un nuo-vo mixer a sedici tracce, montato in sequenza senza singo-le tracce utilizzando un concetto “tematico” per connettere i brani, Dark Side fu l’album che proiettò i Pink Floyd da gruppo di culto per pochi adetti a pietre miliari della cultu-ra rock. Un rimissaggio quadrifonico fatto da Alan Parsons, autorizzato dalla EMI e presentato al London Planetarium, causò scompiglio, con il gruppo che si rifiutò di presenziare. A parte questo, il disco fu un enorme successo e lo è ancora oggi, in termini commerciali, con le sue 28 milioni di copie

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David Gilmour: Penso ancora oggi che parte della musi-ca di The Wall sia incredibilmente pacchiana, ma il disco è brillante da un punto di vista concettuale. In quel periodo pensavo che fosse l’elenco di Roger di tutte le cose che pos-sono far diventare una persona normale un essere umano isolato. Mi resi conto che era una delle persone più fortunate al mondo che riusciva a fare un catalogo di rabbia e violenze contro gente che non gli aveva mai fatto nulla. Roger pren-deva sempre più spazio nei crediti dei nostri brani. Nel li-bretto per questo album ad esempio, per Comfortably Numb c’è scritto “Musica di Gilmour e Waters”, ma non è vero. Lui scrisse i testi, io la musica. Iniziai a trovare centinaia di ca-rognate come questa. Non dovrei sputtanarlo, ma ci si sente ingiustamente presi per il culo. Senza contare le royalties che passano di mano.Nick Mason: Le registrazioni furono molto tese, principal-mente perché Roger iniziava a dar di matto. Questo fu il di-sco in cui litigò malamente con Rick. Rick aveva uno stile naturale, un approccio stilistico specifico al modo di suonare il piano, ma non si adattava con facilità ai brani e non sa-peva comporli su ordinazione. Che poi è il problema che si pone quando gli altri si preoccupano di chi ha fatto cosa e chi dovrebbe ottenerne il merito. Ci fu anche una voce se-condo cui Roger e Dave mi avrebbero estromesso per con-tinuare come duo. C’erano dei momenti in The Wall in cui Roger e David stavano veramente spingendo per portare avanti il disco. Rick era privo di entusiasmo ed io non ero in grado di essere di aiuto a nessuno.David Gilmour: Di solito Nick lavorava duro e suonava bene su The Wall. Riuscì persino a trovare il modo di studia-re per saper leggere la musica per le partiture di batteria. Ma c’era un brano chiamato Mother che davvero non riusciva a suonare. Così affittai Jeff Porcaro per suonarlo. E Roger si attaccò a questa idea, nel modo in cui faceva sempre con le mie idee, e iniziò a pensare... ”forse non sono più necessario?”.Rick Wright: Roger portò tutto il disco su un demo; ognu-no di noi pensò che fosse potenzialmente buono ma musi-calmente molto debole. Davvero molto debole. Bob Ezrin, Dave ed io stesso ci lavorammo a lungo per renderlo più interessante. Ma Roger stava attraversando un periodo di egomania in quel tempo e diceva che io non stessi metten-doci sufficiente interesse nonostante facesse di tutto per ren-dermi impossibile fare qualcosa. La crisi arrivò quando ce ne andammo tutti in vacanza verso la fine delle registrazioni. Una settimana prima delle vacanze ricevetti una telefonata da Roger dall’America che diceva di prendere un aereo e an-dare immediatamente lì. E ci fu questa riunione in cui Roger mi disse che voleva che me ne andassi. Dapprima rifiutai. Così Roger si alzò in piedi e disse che se non me ne fossi an-dato dopo la fine del disco se ne sarebbe andato lui in quel momento portando via i nastri con sé. Non ci sarebbe stato alcun disco e nessun denaro per pagare i debiti enormi che avevamo contratto. Dovetti accettare per forza. Avevo due bambini da mantenere. Ero terrorizzato. Oggi credo che com-misi un errore. Era un bluff. Ma davvero non avevo più vo-glia di lavorare con quell’uomo.David Gilmour: Avevamo uno studio nel sud della Francia dove abitava Rick. Noi altri avevamo affittato delle case a

Rick Wright: Stavamo incidendo Shine On, i testi su Syd erano stati scritti, ed io entrai nello studio di Abbey Road; Roger era seduto al mixer e vidi questo tipo grosso pelato che sedeva sul divano dietro a lui. Quasi cento chili. Non sape-vo chi fosse. In quei giorni era quasi normale che qualche estraneo si aggirasse dentro alle nostre stanze. Poi Roger mi disse: “Non sai chi è questo ragazzo? È Syd”. Fu uno shock per-ché non lo vedevo da sei anni. Continuava a stare in piedi e pulirsi i denti, poi metteva via lo spazzolino e si risedeva. A un certo punto si è alzato e ha detto: “Bene, quando devo inserire la mia parte di chitarra?“. E ovviamente non aveva una chitarra con se. Così gli dicemmo che le parti di chitarra erano già state tutte fatte.Nick Mason: Questo fu un disco molto più difficile da fare. Roger stava acquistando più spazio e noi stavamo diventan-do più vecchi. Avevamo figli. C’erano più difficoltà tra di noi, gente che arrivava in studio in ritardo, una cosa che un po’ tutti odiavamo. C’era più pressione su di me per ottenere un suono di batteria più accurato e meno elaborato. Ma credo che sia un album che scorra veramente bene. È come un ere-de di Meddle nel senso dell’uso dei temi ripetuti e del ritmo.

ANIMALS

Il concetto del disco proviene da Waters, ma due dei quat-tro animali presenti come canzoni erano già stati sentiti al-trove sotto nomi differenti: Sheep era una rielaborazione di Raving and Drooling. Dogs era una trasformazione di You Gotta Be Crazy. Waters e Gilmour iniziavano ad azzuffarsi per il controllo, dividendosi i crediti della produzione ed ini-ziando un lungo litigio in merito alle royalties del disco che non terminò prima di dieci anni.Nick Mason: Fu il ritorno al concetto di gruppo, una ses-sione allegra come la ricordo io. Lo realizzammo nel nostro nuovo studio che avevamo appena messo in piedi. In quel periodo Roger era un fiume in piena con le idee, ma al tem-po stesso impediva a David di creare ed era una frustrazione volontaria, la sua.Roger Waters: Non mi piacque molto scrivere per Animals ma sfortunatamente non avevo altro da proporre. Credo di aver suonato bene me ricordo di non essermi sentito parti-colarmente felice o creativo, in parte per colpa dei proble-mi con il mio matrimonio. Questo fu l’inizio del mio blocco come compositore di testi. David Gilmour: Su Animals io ero la prima forza musicale trainante. Roger era il solo motivatore e compositore dei testi.

THE WALL

La perdita di due milioni di sterline in investimenti spinse il gruppo a un esilio nel sud della Francia per via delle tasse nel 1978; lì registrarono un doppio album con un solo con-cetto portante che si rivelò essere il progetto più strettamente legato a Roger fino ad allora. Mentre si trovavano in Fran-cia, l’amicizia all’interno della seconda formazione dei Pink Floyd iniziò infine a dissolversi.

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DELICATE SOUND OF THUNDER

È solo il secondo live di tutta la loro carriera ed è quello che contiene otto musicisti in aggiunta ai tre Pink Floyd origi-nali; questo documento del più lungo tour dei Floyd venne registrato in vari stadi europei nell’agosto del 1988.David Gilmour: All’inizio del ‘Momentary Lapse of Reason tour’ Gary Wallis suonava tutte le parti di batteria perché Nick non poteva e presi Jon Carin per suonare le tastiere per-ché lui poteva fare Rick Wright meglio di Rick stesso. Ma li incoraggiai entrambi a riprendere e verso la fine dei primi tre mesi di tour Nick e Rick suonavano alla grande. La loro fiducia in se stessi era stata restaurata. Quel tour li ha riporta-ti indietro ad essere musicisti a tempo pieno. O, potrei anche dire che... fui io a farlo...

THE DIVISION BELL

L’ultimo album, quello del ritorno agli inizi, che necessitò di un anno per essere registrato fuori e dentro il barcone di Gilmour, un tentativo scrupoloso di ricostituire il gruppo come qualcosa di più di un marchio che ruotava intorno a un unico soggetto che utilizzava un repertorio famoso. Se da un lato non si addentrava in alcun nuovo terreno musicale, il suono è qui più coeso e con testi più delicati di ogni cosa i Floyd avessero inciso dai giorni gloriosi nel 1970. Il tono è più quieto e il suono della chitarra vede Gilmour in un at-teggiamento più lirico piuttosto che acuto. Wright, ora un compagno minore invece di un impiegato a pagamento, si sente più chiaramente qui di quanto lo sia stato negli ulti-mi quindici anni. La ricerca di Gilmour per un paroliere era terminata essendo molti brani scritti insieme alla sua nuova compagna, la giornalista Polly Samson. Bob Ezrin, ancora, era alla produzione.Nick Mason: C’è molto del feeling di Meddle qui che in qualunque altro disco. Questo album è partito come quello prodotto da un gruppo, con noi tre che passavamo due setti-mane insieme solo facendo improvvisazioni. Abbiamo mes-so giù 40 abbozzi di brani in due settimane, poi le cose hanno continuato ad andare avanti da sole. Alcune di quelle idee iniziali potrebbero senz’altro finire su un disco satellite.Rick Wright: Ho scritto brani per quel disco. Ci canto pure. Credo che sia un album molto migliore del precedente. Ha molto più sentimento di quelli che erano i vecchi Floyd. Ri-tengo che saremmo potuti andare oltre. Solo Nick ha suona-to la batteria e il mio organo hammond è tornato sulla mag-gior parte dei brani.David Gilmour: Su questo disco sia Nick che Rick suonano tutte le loro parti. Ecco perché suona molto di più come un vero disco dei Pink Floyd per me di qualsiasi cosa abbiamo fatto da Wish You Were Here. È incentrato su una sorta di tema circa la mancanza di comunicazione ma non c’è alcun sottinteso, non intendiamo sbattere in testa a nessuno il con-cetto. Siamo usciti con un disco con l’intenzione di mostrare al mondo che... siamo ancora qui, che è questo il motivo per cui eravamo così rumorosi e casinisti. Questo è però un disco molto più riflessivo.

una ventina di chilometri di distanza. Ce ne andavamo tut-ti a casa la sera e dicevamo a Rick... ”fai quello che ti pare, ascoltati i brani, scrivi qualcosa, suona un assolo, metti giù un po’ di cose. Hai tutta la sera, ogni sera, per farlo”. Per tut-to il tempo che restammo lì, che furono diversi mesi, non fece niente. Semplicemente non era più in grado di suonare niente.

THE FINAL CUT

Questa è la cosa più prossima a un disco solista di Roger Wa-ters e che è uscito sotto il nome di Pink Floyd. Il materiale era stato scritto per The Wall ma rifiutato al tempo dal resto del gruppo. Un gruppo adesso di fatto ridotto a duo con Waters e Gilmour e con le sessioni di incisione che non erano altro lunghe litigate tra i due che finirono con Gilmour che decise di far rimuovere il suo nome dai crediti della produzione.David Gilmour: Dissi a Roger: “Se queste canzoni non era-no sufficientemente buone per The Wall, come potrebbero essere buone adesso?”. Passammo il peggior periodo della mia vita. Roger aveva voluto Rick fuori dal gruppo, Nick non ci frequentava più e adesso stava iniziando con me. Una esperienza spiacevole e umiliante.

A MOMENTARY LAPSE OF REASON

Dopo la partenza di Waters nel 1985 ed un periodo teso di discussioni pubbliche circa i diritti sul nome del gruppo, Gilmour iniziò a mettere insieme un nuovo disco dei Pink Floyd nel 1987 utilizzando il produttore di The Wall, Bob Ezrin, e lavorando su canzoni con una squadra di assistenti, Phil Manzanera incluso. Come il suo predecessore, A Mo-mentary Lapse Of Reason si dimostrò di fatto un disco soli-sta eccezion fatta per il nome.David Gilmour: Sia Nick che Rick erano catatonici in ter-mini di abilità esecutiva all’inizio. Nessuno dei due ha suo-nato sul serio sul disco. A mio modo di vedere erano stati distrutti da Roger. Nick ha suonato un po’ di tom-tom su un brano ma per il resto utilizzai altri batteristi. Rick suonava su alcune piccole parti. Ma per la maggior parte suonavo io le tastiere facendo finta che fosse lui. Il disco l’ho fatto es-senzialmente da solo, con qualcun altro e Dio sa come. Non credo che sia il miglior disco mai fatto dai Pink Floyd, ma ho fatto del mio meglio.Nick Mason: Dave era sotto pressione per presentarsi con canzoni plausibili e cercava aiuto ovunque lo trovasse. Era divertente registrare sulla barca (lo studio galleggiante di Gil-mour a Hampton-on-Thames) ma poi se ne andò in America e affittò tutti quei musicisti da studio che potessero risolvergli i problemi velocemente. A quel tempo parve una strada giu-sta da percorrere ma mi suonò decisamente allarmante.Rick Wright: Io non facevo parte del gruppo. In quel mo-mento non mi riconoscevano. Non avevamo suonato insie-me per anni. Fui pagato con un salario come session-man per le registrazioni. Anche se ottenni delle royalties sul di-sco. Non tante quante Dave e nick in ogni caso.

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sono sempre gli stessi: li ascoltiamo in pezzi estremamente tipici del loro re-pertorio, come Speak to me, breathe, On the Run, Honey, As and Then. Da notare l’uso del sax e l’impiego note-volissimo delle voci, anche di alcuni ospiti, fra cui le armonie a bocca chiusa della cantante Clare Torry nella bellis-sima The great gig in the Sky, Numero-si brani sono di presa immediata.

DARK SIDE OF THE MOON di Tony Stewart // NME // 17 Marzo 1973

Sin dall’epoca della rappresentazione di questo lavoro alla Brighton Dome lo scorso anno quando, a causa di dif-ficoltà tecniche l’esecuzione si bloccò a metà strada, la struttura di Dark Side of the Moon si è sviluppata notevolmen-te. Come un aircraft o una navicella spaziale è stata soggetta a numerose modifiche per permetterne la partenza. Il risultato è quello che viene corretta-mente descritto da uno dei brani come “il gran concerto nello spazio”. Musicalmente questo album è simi-le allo stile formulato dapprima con Atom Heart Mother e poi Meddle, seb-bene sia più forte da un punto di vista tematico su uno dei soggetti più comu-ni al mondo: la pazzia. “I’ve been mad for fucking years” (Sono stato un pazzo per molti cazzo di anni), dice una voce mentre la batteria suonata come un battito di cuore dà l’inizio a Speak To Me...bum-bum, bum-bum, bum-bum...Che di per se è già una semplificazione perché una verifica più attenta dei testi di Roger Waters in Breathe o Money rivelino legami con le motivazioni del-la follia o della morte da lavoro eccessi-vo e con la separazione tra razze e classi sociali in Us and Them.Con la possibilità di apparire un po’ un grande fallimento, Dark Side parla della vita e il risultato non è una bella immagine, come suggerito in partico-lare da Eclipse. Probabilmente questa è l’impresa di maggior successo artisti-co dei Floyd. Non solo i testi sono affer-mazioni di opinioni, di solito abbastan-za comprensibili, ma sono valorizzate da nastri intelligenti e effetti sonori. E qua e là ci sono orribili risate di pazzi che ricorrono. La musica da Speak To

archi e cori si aggiunge al quartetto in un contesto maestoso. In questo senso si sono mossi con differenti risultati, i compagni di scuderia Deep Purple.Sul retro l’atmosfera si fa soffusa e vellutata, a tratti intimista. Così in If, firmata dal bassista Roger Waters, in Summer ’68 dell’organista Richard Wright, in Fat Old Sun del chiatarri-sta David Gilmour. Nella conclusiva Alan’s Psychedelic Breakfast c’è anco-ra del classico, e c’è del rumore senza senso.

CIAO 2001 DOCET 2DARK SIDE OF THE MOONDi Enzo Caffarelli

Preceduto da un blootleg, questo al-bum era atteso curiosamente. Si vole-va valutare il gruppo attuale, dopo le esperienza poco convincenti di Meddle e di Obscured by Clouds, si voleva veri-ficare quanto Roger Waters e compa-gni abbiano ancora da dire.Questo disco contiene una decina di titoli legati fra loro a formare un’unica suite. Costanti e palesi, nei titoli, nelle atmosfere musicali, nella particolareg-giata ricerca sonora, nelle dichiarazioni stesse egli interessati, i riferimenti spa-ziali cari al quartetto.Il risultato ancora una volta non di-spiace, anzi a tratti entusiasma. Ma la ricerca della sensazione pure va a scaopito della musica vera e propria:

le emozioni sono soltanto mo-mentanee, passeggere, nulla è radicalmente profondo. L’in-fluenza del bassista Waters, del quale viene pubblicato anche il ‘solo’ The Body, è evidentissima (ricordate la side B di Atom He-art Mother?). Ma anche quella di Syd Barrett non è stata del tutto posta nel dimenticatoio.Un non so che di pacato, di mi-stico tiene le fila della musica pinkfloydiana. Certamente il gruppo ha avuto meriti stra-ordinari anni or sono; ora le imitazioni, le volgarizzazioni e d’altro canto i progressi del pop negli ultimi tempi, tendono a ridimensionarli ed a confon-derli nella massa.Complessivamente i quattro

CIAO 2001 DOCETATOM HEART MOTHERDi Enzo Caffarelli

… indipendentemente dai valori ar-tistici che in esso si possono cogliere, rimane una delle cose più notevoli del gruppo e di questi ultimi tempi nella musica pop. I Pink Floyd sono sempre stati un vero gruppo all’avanguardia: l’autentica musica psichedelica – è stato detto – è quella dei Pink Floyd. Si tratta di un’avanguardia di forme e di contenuti, alle soglie dell’elettronica, alle soglie della mistificazione e del-la non musica se vogliamo, e proprio per questa accetta ad una schiera ab-bastanza elitistica, in grado di recepire un messaggio estremamente cerebra-le e mai epidermico.Con questo disco il gruppo si è comun-que rivolto a un pubblico più vasto, se controlliamo le eccezionali vendi-te sul mercato. La suite divisa in sei movimenti, era già stata eseguita al festival di Bath, ed in un concerto ad Hide Park. Il sound è di fattura clas-sicheggiante; un’orchestra con fiati,

COSA HANNO

SCRITTO

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ma il fatto è che sono molte le sequen-ze di un film, quindi numerose e brevi devono essere le illustrazioni musicali. I Pink Floyd sono appunto il contrario della concisione. È una musica diluita, si estende e si espande all’infinito. Se deve scrivere una canzone di tre mi-nuti, il gruppo diventa un’ordinaria formazione rock, per giunta pessima, non conoscendo l’arte di dire tutto in così poco tempo.

La musica dei Pink Floyd, la vera e la migliore, eccola in questo Dark Side Of The Moon, serie di lunghe canzoni che si intrecciano intimamente. Musical-mente almeno, poiché i testi non han-no tra loro alcuna relazione evidente, nonostante Eclipse, l’ultimo pezzo, sia apparentemente un riassunto delle pa-role e delle idee enunciate preceden-temente. (“All you see/All you touch” proviene da Breathe, “All that you buy, deal...” da Money, etc...). “E tutto ciò che è sotto il sole è in armonia, ma il sole è eclissato dalla luna”, conclude tutto.

Dark Side Of The Moon è ovviamen-te quel pezzo che i Floyd suonavano

nella prima parte dei concerti fatti in Francia qualche mese fa. Molto promettente dal vivo, ci guadagna a essere ascoltato in disco, perché le vere trovate, le sorprese nell’arrangiamento sono così realmente udibili. La rigorosa progressione dell’ampiezza del-le frequenze del VCS3 in On The Run; il delicato piano di Richard Wright (Time); il vigore, i cori femminili in generale (e soprat-tutto l’exploit solitario di Clare Torry in The Great Gig n The Sky). Le percussioni non sono più que-ste troppo pesanti fanfare come quelle di Atom Heart Mother, ma principalmente assoli che arieg-giano il pezzo e gli danno nuovo slancio (Us and Them e Money).

La presa sonora nella sua totalità è fan-tastica e la produzione di questo disco agevolmente la migliore di tutto quel-lo che i Floyd hanno fatto fino ad ora. Un pezzo come Money sembra ano-dino, a parte quando si ascolta la pre-cisione del mixaggio delle voci, delle chitarre wa-wa o ritmiche, dei sax e dei vibrati: tutti questi suoni, di cui nem-

DARK SIDE OF THE MOONdi Jacques Chabiron // Rock and Folk

Nessun esempio ha finora smentito l’assioma secondo cui ogni gruppo ha il diritto di fare un passo falso duran-te la propria carriera. Tornando un po’ sul passato dei Pink Floyd, si constata che il gruppo non ha fatto veri errori,

se non registrando la colonna sonora del film Obscured By Clouds e qual-che traccia di More molto dubbiosa: e questo per essersi troppo allontanati dall’essenza della musica del gruppo. Questo lavoro, effettuato su commis-sione, venne male ai musicisti perché la loro musica sembrava a priori l’ide-ale per rafforzare le immagini del film,

Me si irradia delicatamente dentro la melodia di Breathe con le voci che on-deggiano in una sorprendente magia rilassante seguita dal ritmo incalzante dell’hi-hat di Mason. Poi l’annuncio dell’altoparlante aeroportuale e il ru-more dei passi che passa da una cassa all’altra e comprendi che sei On The Run, In Fuga. Il ruggito di una tempe-sta elettronica prelude, con il ticchettio dell’orologio, a Time. Che segue il tempo di un metronomo con effetti di sintetizzatore che non si sarebbe-ro perduti nel corso di una puntata di Dr. Who. E sebbene qualcuno possa trovare somiglianze con i due dischi precedenti, c’è senza dubbio uno sviluppo di forma e struttura nel modo in cui Time odora di accor-di tosti e nel modo in cui la base è co-struita sulle voci femminili di sotto-fondo. Oppure attraverso un ripresa di Breathe con una graduale, riser-vata trasgressione di quella melodia con le belle linee di piano di Rick Wright che fluttuano finché non si inserisce la chitarra. Qua la struttura diviene più elaborata e non a causa della semplicità della linea di basso, assolutamente ripetitiva, ma perché la magnifica voce di Clare Terry evita di farle perdere attenzione, cosa che sarebbe probabilmente successa.I Floyd, pare, stanno ora allargando i loro scopi, per fornire nuovi punti fo-cali. Nello stesso modo in cui queste signore gonfiano le voci, il sax di Dick Perry crea una guida alternativa alla chitarra o alle tastiere. Ma la porta del-le influenze musicali è decisamente semiaperta per farci entrare in Us And Them e a picchi di cantato che sono più simili ai Moody Blues che ai Floyd. Quel brano è preceduto da una lunga costruzione strumentale, costruita per un ascolto notturno bevendo caffè, con il sax che scivola attorno al piatti-no. Ma scommetto che nel momento in cui avrete mangiato il vostro After-Eight avrete rovesciato gran parte della bevanda. Mentre il gruppo scala lenta-mente verso Brain Damage e Eclipse, ha ancora una volta toccato il culmine ed in modo irritante l’ha tagliato via. “There is no dark side to the moon real-ly, as a matter of fact – ci informa una voce – it’s all dark “. Bum-bum, bum-bum, bum-bum....

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confermata da Dark Side Of The Moon. Quel disco che ha venduto milioni di copie sia in Inghilterra che in America vede il successore ottenere ben 900.000 copie in prenotazione, uno dei casi più eclatanti nella storia della Columbia. Circola voce che i due anni necessari alla registrazione siano stati prolungati dalle paranoie del gruppo. Pubblicare

qualsiasi cosa li avrebbe mes-si in competizione con il loro stesso passato che non erano certi di poter superarePer certi versi siamo in quel-la situazione. Per loro stessa ammissione, i Pink Floyd non hanno mai ottenuto premi per le loro abilità strumenta-li. Al massimo viene ricono-sciuta loro competenza. La loro complessità è un’illusio-ne creata dalla intelligente manipolazione di elementi così semplici, tre accordi di base, che chiunque potrebbe riprodurli nota per nota. Una delle cose che hanno fatto di Dark Side un oggetto così im-pressionante è stato che ha mostrato i loro limiti come musicisti. In passato i Pink Floyd hanno concettualmen-te tenuto lontane le loro man-

canze tecniche e sembrava che ognuno avesse perfettamente calcolato come non oltrepassare mai la linea. Ma la maggior parte della musica su quel di-sco sembrava determinata a dipingere i Floyd come un altro gruppo di rock convenzionale, ignorando la loro auto-analisi allo scopo di poter suonare den-tro un’arena in cui non erano equipag-giati per combattere. Il primo responsa-bile è David Gilmour, da molti indi-cato come il più valido tecnicamente. Pur non essendo così bravo come lo si vuole dipingere, possiede idee suffi-cienti per mantenere la connessione con le fondamenta della massa del loro pubblico. Gilmour oltrepassa i confini in molti punti in Wish You Were Here, indulgendo in lunghi assolo che lo evidenziano come un altro chitarrista competente che pensa con le dita inve-ce che con la testa. Gilmour suona un bel duetto acustico con se stesso come introduzione al brano che dà il titolo al disco che possiede vaghi echi di Lou-

come gli Yes, ad esempio. Ma è appun-to la semplicità della loro musica ad essere la causa del successo raggiunto dai Floyd: perfettamente armonizza-te, seducenti, eleganti, queste melodie plananti hanno un aspetto Grande Musica, che pare nettamente più “se-rio” del rock degli Stones. E affermar-lo non vuole in nessun caso sminuire

i meriti dei Pink Floyd. L’importante è che continuino e progrediscano ma-gnificamente sulla via che si sono loro stessi tracciati, via seguita da decine di gruppi che, non avendo sempre un ba-gaglio tecnico sufficiente, hanno capi-to che potevano comunque esprimere la musica che avevano dentro, e far condividere le proprie emozioni a tutti quelli che vogliono lasciarsi trasporta-re in un mondo etereo.

WISH YOU WERE HERE di Ben Edmonds // Rolling Stone // 6 novembre 1975

Senza i Pink Floyd non avremmo in giro moltitudini di gruppi in stile science fiction: Hawkwind, Can, Amon Duul e tutto il resto dei loro amici. Sono stati i primi a esplorare le vette dei paradisi chimici ma la loro superiorità commerciale ed artistica, se solo fosse mai stata in dubbio, era stata

meno due che si confondano o si somi-glino, si rispondono a ogni tempo della misura, che dona alla canzone un im-peccabile equilibrio ritmico. La stessa considerazione avrebbe potuto essere fatta per Great Gig, in cui Wright suo-na l’organo Hammond e il piano. Tutto ciò perfettamente piazzato e regolato alla frazione di secondo, non impedi-sce però a una certa urgenza di manife-starsi qua e là, principalmente nei cori di Gilmour (più incisivi che mai) (Any Colour You Like). D’altra parte, i ritmi, i colori degli episodi di questa Dark Side Of The Moon variano abbastanza da non rischiare di stancare. Un momen-to di vera follia elettro-acustica sarebbe stato il benvenuto, ma l’opera è in se stessa così ben composta, e riserva così tante sorprese che non se ne sente ve-ramente la necessità. Voci femminili soliste, sassofono, eco alla Terry Riley (Any Colour You Like): immenso è il ventaglio di sonorità utilizzate. Tutte si giustificano, mai traccia di sovracca-rico, di effetti artificiali o di eccessiva lunghezza.

La certezza ricavata da Ummagumma era che ognuno dei musicisti avesse delle idee interessanti, ma la musica dei Floyd non ne beneficiava imme-diatamente (tranne che per quanto riguardava i vecchi pezzi, rigenerati). Atom Heart Mother e Meddle venne-ro dopo, e deluse il fatto che non con-cretizzassero davvero le promesse di Ummagumma. È che non erano che assaggi, tappe verso l’opera lunga, lo-gicamente strutturata che è Dark Side Of The Moon. Lunghe nello spazio sono le misure della musica dei Pink Floyd, lunga nel tempo è stata – e sarà – l’evoluzione di questa musica. I membri di questo gruppo non sono dei tecnici, nemmeno degli strumentisti virtuosi, ma dei compositori istintivi, che lavorano prima di tutto la sonorità che la tecnica della scrittura musicale. Il loro sistema di armonizzazione (so-vrapposizione di accordi o di particelle di accordi), il loro incedere ritmico (si tratta raramente di battere il tempo, più spesso di accompagnare le melodie con una ricerca sonora di percussio-ni – cfr. Time), tutto questo, malgrado le apparenze, è in effetti molto meno complesso di quello che fa un gruppo

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rivoluzionare la propria musica a ogni nuovo componimento? Facevano le loro cose e le facevano bene, e tutti era-no contentissimi ed era bello così. Certo questi arrangiamenti, queste succes-sioni di accordi, alcuni tratti melodici, li avete già sentiti da qualche parte, di sicuro! Ma riflettete bene, non era for-se su un altro Pink Floyd (un Pink Floyd, come si dice un Morgon o un Meursault)? Non era forse in uno di questi gruppi che, dopo averli scopiaz-zati li hanno sfruttati con più o meno felicità e libertà? Si può rimproverare gli insegnanti di aver saputo formare degli emuli brillanti?Dark Side of the Moon era un album iper-prodotto, dall’ispirazione imper-sonale (per non dire “cosmica”, che po-trebbe essere mal interpretato): all’op-posto, Wish You Were Here è di una semplicità sconcertante – niente alte alchimie sonore, niente stratagemmi di studio, se non molto aneddotici o sotto forma di ammiccamento - è an-che un disco dall’ispirazione molto personalizzata, narcisistica perfino. Lo show-businness non è implicato se non attraverso l’esperienza che ne hanno fatto personalmente, che ne hanno fatto loro stessi o il “Madcap Laughter” Syd Barrett (Crazy Dia-mond). I testi sono belli e investiti di una grande emozione, tanto più gran-de che si dissimula sotto un’ironia quasi disillusa. La musica è semplice e evidente, fatta, ad eccezione di Welco-me to the Machine che si distacca da-gli altri pezzi, da una serie di assoli uno più convincente dell’altro, di stili di un’estrema diversità, ma sempre con questa impressione, per chi ascolta, di una meravigliosa facilità, di una chia-rezza evidente, e poi questo apice che è l’assolo di chitarra di David Gillmour su Have a Cigar cantata-gridata-pianta da una Roy Harper in ottima forma. Via, questa l’avremo nei nostri juke box! Con Have a Cigar e Welcome to the Machine, arriva la conferma di quel che già si sapeva, quello che ci avevano già ampiamente dimostrato More, Ummagnumma o Dark Side of the Moon, cioè del fatto che i Pink Floyd possono fare di tutto con la stes-sa felicità. Insomma, non abbiate nes-suna paura, è proprio un Pink Floyd: un investimento senza sorprese.

WISH YOU WERE HEREdi Jean-Marc Bailleux // Rock and Folk

La prima volta che ho sentito Dark Side of the Moon, l’ho trovata piuttosto in-solita, ben fatta, e non priva di interesse, ma niente di più. Poi mi ci sono voluti sei mesi per trovarla splendida, e non sono stato il solo, visto che è più o meno il tempo che c’è voluto a Us & Them per diventare una hit. Allora, sfiducia!La metà di quelli che si regaleranno l’album lo faranno sulla fiducia per-ché, entusiasti o delusi al primo ap-proccio, hanno sempre finito per ado-rare l’uno dopo l’altro tutti i dischi del gruppo, cosa che non è altro che giusta. Una volta in più, avranno ragione. E poi l’altra metà (forse i genitori dei precedenti) ci arriveranno come sono arrivati a Tubular Bells, perché i Pink Floyd piacciono, e piacciono molto

stupidamente perché sono belli e non disturbanti, il sottofondo perfetto delle riunioni in salotto – perdonateli, non sanno quello che si perdono. E tutto questo piccolo mondo supererà il mezzo milione. Senza rischi, senza problemi. Tutte le argomentazioni con-tro i Floyd, contro questo disco, sono distorte dall’origine: qualcuno ha mai rimproverato Bach o Coltrane di non

don Wainwright nell’approccio. È il miglior pezzo sul disco finché il gruppo non fa il suo ingresso privo di personalità, riportando il brano a livel-li di noia. I Pink Floyd avrebbero do-vuto conoscere meglio come muoversi e imitare la tradizionale metodologia di una rock band tradizionale cui loro vorrebbero presentarsi come alternati-va. In questo disco tendono a suonare così direttamente per la maggior parte del disco che gli effetti diventano così accentuati al punto che tutto inizia a suonare ricoperto; questo non rappre-senta un complemento alla loro musi-ca ma un contrasto e gli effetti sembra-no solo trucchi. Il suono complessivo perde la dimensione mozzafiato che aveva fatto di Dark Side un’attrazione per quelli che avevano considerato i Pink Floyd nient’altro che rumori spaziali casuali. Shine On You Crazy Diamonds è credibile inizialmente a causa del soggetto, Syd Barrett, la lontana luce guida degli ori-ginali Floyd. Ma il potenziale dell’idea è irrealizzata; i Floyd danno una lettura così materia-le di tutta quella cavolo di cosa che potrebbero star cantando del cognato di Roger Waters che si compra un biglietto per il parcheggio. Questo atteggiamento svogliato, tra l’altro, spinge a una rivalu-tazione della loro relazione di tutte quelle orchestre spaziali cui loro hanno inconsciamen-te dato vita. E la sola cosa che quei gruppi possedevano nella loro inettitudine cacofonica, è una sincera passione per la loro “arte”. E la passione è una cosa di cui i Pink Floyd sono sprov-visti. Wish You Were Here parla dei meccanismi dell’industria musicale che hanno spinto Syd Barrett alla rottura. Ma il tratta-mento riservato alla faccenda è così so-lenne che viene da domandarsi dove stia il problema. Se l’uso del meccani-smo è abbastanza vivo da trascendere il suo solenne mormorio – anche se il mormorio è in fondo il tuo soggetto – sei automaticamente intrappolato. E della mancanza di offerta di spirito di liberazione è il punto in cui questo al-bum lascia i Pink Floyd.

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carabinieri, che bloccaro-no il concerto quando i Move spararono durante il loro concerto dei fuochi d´artificio, ovviamente lanciando i soliti lacri-mogeni all´interno della struttura.Il settimanale inglese ‘Melody Maker’ lo definì “The pop-flop of ´68�). Su cosa accadde in realtà, ancora se ne sa poco. Non tutti vennero. Di sicu-ro suonarono Donovan, Brian Auger con Julie Dri-scoll, i Move, Nice, Capt. Beefheart, i Giganti, gli As-sociation, Pink Floyd (che suonarono sicuramente It Would Be So Nice e forse 7 minuiti di Interstellar Overdirve), Fairport Con-vention. I Byrds furono

18 aprile 1968, Roma, Piper Club (due set 17/22)19 aprile 1968, Roma, Piper Club (due set 17/22)(esiste 1 bootleg in vinile poi rimasteriz-zato su CD con etichetta Black Panter, il CD si chiama Fountains of Rome)6 maggio 1968, Roma, Palasport e/o Palazzetto e/o Piper (Pop Festival)19 giugno 1971, Brescia, Palazzo Manifest. Artistiche20 giugno 1971, Roma, Palasport4/5/6/7 ottobre 1971, Pompei, Anfiteatro romano (senza pubblico)6 luglio 1988 Torino, Stadio Comunale8 luglio 1988 Braglia (MO), Stadio9 luglio 1988 Braglia (MO), Stadio11 luglio1988 Roma, Stadio Flaminio12 luglio 1988 Roma, Stadio Flaminio16 maggio 1989, Verona, Arena17 maggio 1989, Verona, Arena18 maggio 1989, Verona, Arena20 maggio 1989, Monza, Autodromo22 maggio 1989, Livorno, Stadio23 maggio 1989, Livorno, Stadio25 maggio 1989, Cava de’ Tirreni, Stadio26 maggio 1989, Cava de’ Tirreni, Stadio15 luglio 1989, Venezia, P. San Marco13 settembre 1994, Torino, Stadio15 settembre 1994, Udine, Stadio17 settembre 1994, Modena, Festa dell’Unità20 settembre 1994, Roma, Cinecittà21 settembre 1994, Roma, Cinecittà

* Vale la pena di soffermarsi sul ‘Pop Festival’ di Roma del 5/6/7 mag-gio 1971, con la ventilata presenza di Move, Traffic, Ten Years After, Fairport Convention, Hendrix, Soft Machine, Byrds, Family, Brian Auger… a cui andarono circa 400 spettatori, di cui la metà stranieri in vacanza, e più di 200

PINK FLOYD E L’ITALIANon si può diche che la band abbia amato molto l’Italia. Ma a parte che non dipendeva da loro ma dai promoter, noi eravamo indietro dieci anni rispetto al resto d’Europa. Così nei 3 anni 68-69-70 la band girava allegramente l’’Europa ma senza toccare i nostri lidi. Unica eccezione i due veloci concerti romanidel 1968, i giorni, ma senza pubblico, a Pompei nel 1971 (si raccoman-da la riedizione denominata Director’s Cut, pubblicata in DVD solamente nel 2003) e le due date Brescia/Roma del 1971. Poi l’oscurità completa anche dovuta agli ‘anni di piombo’ che impedirono concerti nel nostro paese fino a fine anni settanta.

Torneranno solo nel 1988. Ecco i 25 concerti italiani.

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nibile il Palazzetto dello Sport di Bologna, Milano uguale con il Vigorelli finchè, a solo 4 giorni dall’arrivo della band, si trovò il Palazzetto degli Industriali a Brescia. La band al-loggiò all’albergo Il Gambero. Nonostante tutto vennero in 5mila. Il giorno dopo partirono per Roma, dove alloggiaro-no all’albergo Massimo D’azeglio. Suonarono il 20 giugno, ma senza lo spettacolo delle luci per colpa di uno sciopero dei dipendenti CONI o per il furto di un Tir (?!?) e tutto il Palasport era illuminato a giorno con le lampade al neon. Dopo il concerto Armando Gallo portò la band a rilassarsi al Titan e pubblicò un lungo articolo su ‘2001’ del 30 giugno, di fatto rendendo famosi i Pink Floyd. Il giorno dopo partirono per Londra dove dovevano suonare al Glastonbury Fayre,

poi annullato. Fecero poi Giappone e Au-stralia per tornare in Italia il 4 ottobre per il progetto Pompei. Si racconta che quando i tecnici si accorsero che la corrente elettrica non era sufficiente, fu creata una prolunga di 3 km e il cavo dovette essere sorvegliato giorno e notte pe evitare atti vandalici o al-lacci abusivi, il che ridusse da 6 a 3 giorni i giorni di registrazione disponibili.

* Il primo 45 pubblicato in Italia fu Se Emily Play/Scarecrow nel settembre 1967. Il primo articolo fu pubblicato da ‘Ciao amici’ il 19 settembre intitolato ’Anche la musica come droga’, seguito il 26 settem-bre da un altro su ‘Big’, a firma Armando Gallo. Il primo 33 a stampa italiana fu More a fine 1969, seguito da Zabriskie Point nel marzo 1970 e a seguire nel cor-so del 1971, in contemporanea del tour e del ‘lancio’ su ‘2001’, tutti gli altri. The Pi-per uscì il 22 aprile 1971 con una coperti-na diversa dal resto del mondo: mostrava una foto dei quattro Floyd con Gilmour, scattata nel 1969 davanti ai Kew Gardens di Londra. Ovviamente il disco è diventato una rarità.

dirottati al Piper (su You Tube gira un video) a causa della scarsa quantità di biglietti venduti, qualcun altro (forse) al Palazzetto dello Sport, vicino alla Stadio Flaminio. Hendrix, che avrebbe dovuto aprire la manifestazione, ar-rivò a Roma venti giorni dopo e molti giustamente consi-derarono quella esibizione al Brancaccio di Via Merulana, come la giusta e spettacolare conclusione di quel leggenda-rio sfigatissimo primo festival rock italiano del maggio 1968.Cattiva promozione, niente manifesti, niente articoli sui quotidiani, che a quei tempi non sapevano neanche cosa fosse quella musica. Apparve un articolo su “Ciao Big” (l’an-tesignano di ‘Ciao 2001’) che sotto una foto di Capt. Beefhe-art così diceva: “Tutti i complessi sfoggiavano abbigliamen-ti pop: i più anti conformisti erano senz’altro quelli di una band francese che suonava mu-sica sperimentale elettronica”.Su You Tube gi-rano molti video compreso uno che unisce Pink Floyd/Genesis al Piper. Digitate anche Pink Floyd/Interstellar Overdrive/Palazzo dello sport…. Il 18 maggio 1968 la BBC mandò in onda un filmato con le ripre-se del Piper di circa un minuto mentre eseguono in play-back It Would Be so Nice, ritrasmesso da RaiDue il 3 giugno 2004, nell’ambi-to del programma ‘Eventi Pop’.Le date italiane del 1971 a Brescia e Roma, furono orga-nizzate da Franco Ma-mone con Francesco Sanavio, in collabora-zione con ‘2001’. Fa-ceva parte di un mini tour europeo. Le pri-me notizie parlarono di due concerti il 19 e 20 giugno a Bologna e Roma anche se si vo-ciferava anche del Pa-laghiaccio di Milano. Il CONI però all’ul-timo non rese dispo-

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GILMOUR E WATERSCORSI E RICORSI

stesso Carin e dal bassista degli Oasis, Andy Bell. Lunedì 15 settembre 2008 viene annunciata la morte di Ri-chard Wright, avvenuta a 65 anni dopo una breve lotta contro il cancro. Lo stesso giorno David Gilmour dice di Wright:“Nessuno può sostituire Richard Wright. È stato il mio partner musicale e amico. Nelle discussioni su chi o cosa fossero i Pink Floyd, il contributo enorme di Rick è stato spesso trascurato. Era gentile, modesto e riservato ma la sua voce profonda e il suo modo di suonare erano vitali, magiche componenti del nostro riconoscibile sound. Non ho mai suonato con nessuno come lui. L’armonia delle nostre voci e la nostra telepatia mu-sicale sono sbocciate nel 1971 in Echoes. A mio giudizio tutti i più grandi momenti dei Pink Floyd sono quelli in cui lui è a pieno regime. Dopo tutto, senza Us and Them e The Great Gig in the Sky, entrambe composte da lui, cosa sarebbe stato The Dark Side of the Moon? Senza il suo tocco pacato l’album Wish You Were Here non avrebbe funzionato molto. Nei nostri anni di mezzo, per vari motivi lui ha perso la sua strada per qualche tempo, ma nei primi anni novanta, con The Divi-sion Bell, la sua vitalità, brillantezza e humor sono ritornati e la reazione del pubblico alle sue apparizioni nel mio tour del 2006 è stata tremendamente incoraggiante, ed è un segno della sua modestia che quelle ‘standing ovation’ siano giunte a lui come una grande sorpresa (sebbene non al resto di noi). Come Rick, non trovo facile esprimere i miei sentimenti con le parole, ma lo amavo e mi mancherà enormemente”.Il 10 luglio 2010 Gilmour e Waters decidono di tornare a suo-nare insieme, a distanza di cinque anni dall’ultima esibizio-ne al ‘Live 8’, in occasione di un concerto di beneficenza per la Hoping Foundation. Gilmour, per ricambiare la partecipa-zione, partecipa alla data del 12 maggio 2011 del tour mon-diale di The Wall a Londra suonando Comfortably Numb insieme a Waters. Al termine del concerto, durante i saluti e nel brano finale Outside the Wall, oltre a Roger Waters e al suo gruppo, erano presenti sul palco anche David Gilmour e Nick Mason. Questa è stata con ogni probabilità l’ultima apparizio-ne in pubblico degli ultimi tre componenti rimasti in vita dei Pink Floyd.

Il 2 luglio 2005, in occasione del ‘Live 8’, la grande manife-stazione musicale organizzata da Geldof per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla povertà e sui problemi dell’Africa, i Pink Floyd tornano ad esibirsi nella loro formazione stori-ca, Roger Waters compreso, eseguendo cinque brani: Speak to me, Breathe, Money, Wish You Were Here, Comfortably Numb. Durante l’esecuzione di Wish You Were Here Waters ricorda Syd Barrett.Durante il tour estivo di Waters dello stesso anno, negli spet-tacoli in Francia, Islanda, Nick Mason si aggrega al gruppo nella seconda parte dei concerti. Sempre Mason, in seguito, si aggiunge a David Gilmour e a Richard Wright nella terza sera-ta conclusiva del Tour on an Island del chitarrista alla Royal Albert Hall il 31 maggio 2006, ricomponendo i Pink Floyd per due canzoni: Wish You Were Here e Comfortably Numb. Si tratta della prima apparizione del trio dopo il Live 8.Il 7 luglio 2006 muore Syd Barrett per un tumore al pancreas. I sui ex colleghi Pink Floyd reagiscono laconici alla notizia di-chiarandosi “tristi e sconvolti”: “Syd era la luce che ci guidava nei primi anni del gruppo e il suo lascito continua a ispirar-ci”. Secondo Gilmour era epilettico, secondo Wright fu l’acido il fattore scatenante della sua follia (”Di certo l’acido ha avu-to qualcosa a che fare con tutto ciò. Il punto è, non sappiamo se è stato l’acido ad accelerare il processo che avveniva nel suo cervello, oppure se ne sia stata la causa. Nessuno lo sa. Io sono sicuro che le droghe un effetto lo hanno avuto”).Waters e i Pink Floyd incrociano nuovamente le proprie strade il 10 maggio 2007, in occasione di un concerto orga-nizzato in memoria di Syd Barrett, morto l’anno precedente. Nonostante l’attesa dei fan, però, i quattro non suonano in-sieme: Waters si esibisce nella prima parte dello show con Jon Carin, eseguendo la sua Flickering Flame, brano che affronta il tema di un amico morto, i tre Floyd suonano subito dopo la vecchia Arnold Layne, senza Waters, accompagnati dallo

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OUTSIDERFUORI DAL MUCCHIO

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“Dove la musica è ancora una

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dice, pensando al peso delle attese quando fu inizialmente in-vitato da Gilmour ad ascoltare le registrazioni del gruppo - Gil-mour, Mason e Wright – che improvvisavano nel corso delle sessioni per The Division Bell e gli furono affidate venti ore di nastri da comporre con una logica musicale.

Mi è stato spiegato che sei stato approcciato per sceglie-re i brani ed hai deciso di ascoltare ogni singolo estratto da The Division Bell, giusto ?Sì, David ha detto solo: “Questo è il materiale, potresti provare ad ascoltarlo e vedere se c’è qualcosa di buono qua dentro?”. Così quando sono andato in studio su Astoria, la barca/stu-

dio galleggiante di Gilmour dove c’e-rano due ingegneri del suono, Andy Jackson e Damon Iddins mi sono sentito dire “Non ti preoccupare, ave-vamo già selezionato una cosa che avevamo chiamato The Big Spliff, cir-ca vent’anni fa, ascoltati questa”....ed io ho detto loro che non volevo ascol-tarla per farmi condizionare e che avrei voluto ascoltare, invece, ogni singolo brano che era stato registrato. Mi rispo-sero: “Stai scherzando, sono venti ore di materiale e lo conosciamo perfetta-mente” così ho detto loro “Bene voi lo conoscete, ma io non l’ho mai ascolta-to!”. Così siamo partiti da lì.”.

Un saggio avrebbe detto : “Datemi The Big Spliff e ve-dremo di farlo funzionare”. Perché quindi ti sei messo ad ascoltarti ogni cosa?È una questione di fonti empiriche. Quando fai una ricerca te ne vai indietro ai documenti originali ecco perché ho deciso di partire dall’inizio della vicenda. Ho pensato che ci sarebbero state cose che mi sarebbero piaciute e che non sarebbero pia-ciute a loro ma non volevo saltarle. Non volevo essere indiriz-zato, volevo ascoltare tutto... così adesso so dove hanno sotter-rato gli scheletri, che è una analogia poco corretta...mi spiace... taglia via questa espressione...ho preso il mio notebook ed ho detto: “Perfetto iniziamo dal principio”, ed ogni volta che ve-niva fuori qualcosa che mi piaceva me la segnavo e pensavo: “Che ci facciamo? Come potremmo utilizzarla?”, la mia testa cercava di lavorare in questo modo, per farla diventare ascol-

“Ho pensato che questo fosse per gli appassionati. Non ab-biamo cercato di attirare nuova gente”. Phil Manzanera ride quando parla dei quasi due anni trascorsi a mettere insieme il nuovo disco dei Pink Floyd, The Endless River. Circa 30 mesi durante i quali non è successo molto tra il due membri rimanenti dei Floyd, David Gilmour e Nick Ma-son. L’album giunge con la forza della stima accumulata dal-la lunga carriera dei Floyd dai giorni lontani con Syd Bar-rett, passando attraverso Dark Side of The Moon, la guida del bassista e compositore Roger Waters verso The Wall, e la presa di controllo del chitarrista Gilmour a trent’anni dall’ab-bandono di Waters. In seguito alla morte del tastierista Rick Wright avvenuta nel 2008, pareva arrivato il tempo per i Pink Floyd, per un nuovo album a vent’anni dalla pubblicazione dell’ultimo disco The Division Bell. Il gruppo propone un addio elegante con The Endless River, un disco principal-mente strumentale che ti conduce in modo sereno verso Sum il brano che apre la “seconda parte”, con uno dei brani più classici e apertamente “alla Pink Floyd”. In un mondo inonda-to di cinguettii, post di Facebook e fughe di notizie, The Endless River, iniziato con il lavoro di Manzanera nel 2012, è rimasto ben occultato fin-ché la moglie di Gilmour e paroliere Polly Samson, ha rotto il silenzio su Twitter lo scorso luglio. Phil Manzanera (vero nome Philip Geoffrey Targett-Adams), a lungo nei Roxy Music, come detto, ed amico di David Gil-mour fin dai tempi delle superiori, anche se David era in ef-fetti compagno del fratello grande di Phil, sorride pensando a quanto tempo ci sia voluto per mettere insieme 53 minuti. Nell’era di streaming libero e di scarico gratuito, un nuovo al-bum dei Pink Floyd pare roba d’altri tempi.The Endless River è concepito come composto da quattro par-ti, ognuna della lunghezza di una facciata di vinile ed è stato lanciato in Londra con uno spettacolo di luci psichedeliche di Peter Wynne-Wilson che fece il medesimo lavoro al famoso Club UFO nei tardi anni sessanta, dove i Pink Floyd suonava-no lunghe maratone di improvvisazioni e suoni sballati. Ma un nuovo album dei Floyd è una grande scommessa, come ci

Phil Manzanera – famoso chitarrista dei Roxy Music, produttore e amico di lunga durata di David Gilmour dei Pink Floyd – ci racconta con sincerità e con ironia dell’esser stato il co-produttore del disco d’addio dei Pink Floyd, The Endless River. Phil ci parla anche del suo originale coinvolgimento su invito di Gilmour, di come ha costruito un arco musicale e narrativo dalla musica disponibile e la

fine di un gruppo icona del rock.

PHIL MANZANERA di Graham Reid

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fatto da Wish You Were Here e dal periodo precedente. Era il modo in cui improvvisavano e cercavano ispirazione usando le proprie tonalità e la loro gamma di suoni facendo jam per creare qualcosa dal nulla. Cercavo di trovare una ragione a tutto questo.... perchè ero assolutamente consapevole dell’e-redità e del contesto delle cose non volendo lasciare nulla di inappropriato, dato per scontato che non ci sarebbe stato Ro-ger e questo non sarebbe nemmeno avvenuto in prospettiva. Questo disco riguarda questi tre che hanno fornito il contesto musicale per le canzoni di Roger ed anche le canzoni di David e Polly quando erano in tour. Le loro sonorità sono state prin-cipalmente portate avanti su questo disco.

Penso ai Pink Floyd come a un gruppo strumentale con parti cantate, ma ci sono enormi passaggi strumentali su tutti i loro album. Ho avuto la possibilità di ascolta-re il disco e mi è sembrato un elegante addio, forse per i fan più vecchi. Tu hai tenuto i ragazzini e gli altri fuori...(Ride) Mettiti le cuffie. Ci piace chiamarla una immersione. Non è per tutti, è un po’ come la musica classica per certi ver-si; devi sederti e ascoltare lunghi estratti musicali. Non puoi ascoltarne solo un minuto. Non è musica classica, non sto dicendo questo, ma è il medesimo modo di percepirla. Una esperienza differente. Specialmente per questa era in cui tutti ascoltano brevi pezzetti su Youtube o Spotify e c’è questo at-teggiamento dove ognuno si fa la propria playlist mettendo

tabile voleva dire renderla più breve, così ho iniziato a pensare quale fosse il modo più semplice possibile per poterci riuscire ... ed ho pensato a quattro facciate dei vecchi dischi in vinile.La musica classica possiede movimenti di circa dodici minuti di lunghezza così ho pensato che avrei potuto avere quattro estratti da tredici minuti, ecco perché siamo partiti dalla pri-ma facciata, mettendo un pezzo qua e un pezzo là, saldandoli insieme nonostante la loro reticenza a cominciare in questo modo. Nella mia testa mi sono costruito una storia di quello che stava avvenendo, dandogli una logica narrativa. Alla fine di sei settimane sono andato da David e gli ho detto che era tutto qua, lunga quattro facciate e gli ho riferito il mio raccon-to, quello che avevo scritto per cui avevo preparato delle im-magini. Lui si era dimostrato preoccupato dal mio racconto ma ci aveva visto delle possibilità, così mi disse di suonarlo a Nick Mason. Lo feci ed anche lui ci vide delle potenzialità. Pensai che fosse una bella cosa.... ma poi non accadde niente per nove mesi. Un tipico atteggiamento rallentato dei Pink Floyd. Ho pensato che David stesse cercando di farlo funzionare, capire se avesse potuto diventare un disco. Aveva molte domande in testa finché non coinvolse Polly Samson, sua moglie, che è più di una collaboratrice, come Kathleen Brennan lo è con Tom Waits; Polly aveva scritto testi per The Division Bell.Lei disse di farlo sentire a Youth dato che David aveva fatto questo disco di musica ambient, Metallic Spheres, con lui e lui era un grande fan dei Pink Floyd. Lui lo ascoltò, gli piac-que e questo finì con l’incoraggiare David. David mi disse che gli piacevano parti del mio lavoro e parti delle idee di Youth così coinvolse Nick e iniziò a lavorare insieme. Nel gennaio di quest’anno – e ricordati che quando avevo iniziato era l’agosto del 2012 – eravamo nel suo studio a Hove, vicino a Brighton e David prese controllo della cosa. Si rese conto che avevo elaborato un metodo di lavoro e di conseguenza avrebbe in-serito estratti di cose che gli piacevano tirando via cose che non amava. Così decise di occuparsene maggiormente, come avrebbe dovuto. La cosa divenne un progetto dei Pink Floyd, Nick venne e aggiunse la batteria e tutto è stato terminato solo alcune settimane fa perché ci sono stati così tanti cambiamenti su dove certi inserti dovevano essere fatti, se avessero dovuto essere più brevi o più lunghi. Ma a un certo punto, è arrivato il termine di scadenza.”.

Hai pensato in termini di quattro facciate dei vecchi dischi; lo hai fatto perché eri consapevole che i fan dei Floyd acquistano ancora dischi ? Loro amano dischi come Dark Side, non molto i cd…Certamente. Sin dall’inizio ho pensato “Cosa vorrebbe ascol-tare un fan dei Pink Floyd?”. Ed io sono un appassionato dei Floyd di tutti i differenti periodi, da quello di Syd al periodo di Roger... mi piacciono tutti i differenti elementi, ma ho pensa-to “Questo andrà in mano ai fan. Non cerchiamo di catturare nuovi appassionati”. Dato che era venuto fuori che questo sa-rebbe stato un modo per dire addio, dire definitivamente addio come un tributo a Rick. Ma sembrava una crociera lenta verso il tramonto piuttosto che uscirsene con i botti finali. Si trattava di un saluto raffreddato, ibrido. Quasi un documentario che voleva catturare quel momento, l’ultimo momento in cui i tre avevano suonato insieme nel modo in cui non avevano più

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Phil Manzanera e David Gilmour (Photo by Tomos Brangwyn/WireImage)

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Ho trovato alcuni brani che suonavano come canzoni senza testi; una è divenuta Louder Than Words ed una era Anisina. Ho sempre detto: “Ti prego scrivile un testo”. Polly stava per farlo per entrambe, ma una volta scritti i testi per Louder Than Words ed il loro concetto, decise che non servivano altri testi. E mettendola alla fine del disco, non è solo un commento al di-sco stesso, ma uno sguardo alla loro esperienza professionale. Da un punto di vista concettuale era meglio avere un solo bra-no con testi. Di conseguenza Anisina aveva bisogno di qual-cosa di aggiuntivo, per questo è stato aggiunto il sax, come una sorta di pianto per Rick, in fondo.

Chi suona il sax?Un mio amico che si chiama Gilad Atzmon che ha suona-to su alcuni miei dischi e con Robert Wyatt. Un sassofoni-sta israeliano, un genio. La gente si ricorderà del suo modo di suonare su un famoso brano di Ian Dury, Hit Me With Your Rhythm Stick.”.

Vorrei chiederti se quando pensavi a questo progetto eri consapevole dell’eredità dei Pink Floyd, e sapevi che questo sarebbe stato il loro ultimo disco...David me lo disse chiaramente...

Ci sarebbe stato il peso dell’attesa ma anche un senso di sollievo per David. Come hai vissuto questa emozione?Ho pensato che ci sarebbe stato questo senso di sollievo. David mi disse: “Questo è il disco di addio e lo faremo in modo sere-

insieme un pezzo qui ed uno là... questo è un modo di ascol-tare più antico: necessita di mettersi a sedere, lasciare tutto da parte e sognare.”

Sembra che ci sia una lunga introduzione nella prima parte, poi i vecchi Floyd escono con la seconda parte e quello è maggiormente l’archetipo dei Pink Floyd che la gente conosce e ama. Roba più familiare. Ci sono diverse possibilità. Puoi ascoltare la seconda facciata al posto della prima; io ho suggerito molte opzioni, ma alla fine David ha scelto quella. Avevo messo su differenti cose in punti diversi, ma lui ha poi scelto di fare sua la sequenza: un disco dei Pink Floyd e non una versione di Manzanera di un disco dei Pink Floyd. Io cercavo in primo luogo di far uscire il suono dell’organo Farfisa di Rick dal primo disco. Si chiama il Duo Compact Farfisa che passa attraverso un Binson Echo e alla fine l’ho trovato. È quello che dà inizio alla seconda facciata... lui non l’aveva utilizzato dai tempi di Dark Side. Poi volevo un po’ di quel suono di corni francesi che utilizzò molto quando registrarono Wish You Were Here. Ne ho trovato un po’ così ho iniziato a spingere per averli; poi ho trovato una jam che mi ricordava molto Echoes o Live At Pompei ed ho pensato “È grande ma non ci deve essere una parte di batteria, qua”...poi ho trovato delle parti dove Nick Mason si stava scaldando, ne ho fatto un loop e l’ho messo sotto come una sorta di forma libera di percussioni... Sostanzialmente mi sono preso alcune diaboliche libertà di mostrare a David cosa poteva essere fat-to. Ho aggiunto un basso ed il resto. Beh, tutta la mia roba è stata sostituita dalla chitarra di David, ma l’idea iniziale era che avresti potuto prendere delle parti ed utilizzarle, come utilizzare la moderna tecnologia ed i software come se fossero degli strumenti. È una cosa che ha una sua sto-ria, cose che facevamo con Eno: utilizzare il mixer ed ogni sorta di meccanismo che fosse stato inventato per ricrea-re una versione avanzata ed un suono interessante. Una cosa che oggi puoi fare molto più facilmente con i softwa-re computerizzati.

Hai nominato Eno, i suoi lavori ed i tuoi, ma David mi sembra ancora il genere di musicista che sa come suonare il suo strumento. Poi c’è un altro livello dove gente come te, da un punto di vista produtti-vo, arriva su un altro piano di lavoro e differente modo di pensare e cerca di modificarne l’approccio.Quello che abbiamo fatto e tentato di fare è stato di dargli delle opportunità dicendogli che avrebbe potuto sfruttarle o scegliere di fare a modo suo. Gli dicevamo “Che ne pensi di questo?”. E se a lui pareva eccessivo, diceva semplice-mente di no. Così capivamo di essere arrivati al limite. Ma questa era la mia funzione. Lui avrebbe potuto prodursi e fare tutto da solo, ma è una cosa noiosa ed è meglio avere altra gente intorno. È differente collaborare con altri. L’in-sieme è sempre migliore di ogni singolo, come loro stessi hanno dimostrato, il risultato è differente.

Vorrei chiederti di un brano in particolare, Anisi-na, l’unico con un sassofono, una ballata diretta che necessiterebbe di testi...

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le sue cose. David ha detto qualcosa qualche giorno fa: “Ave-vo trent’anni quando Roger se n’è andato, adesso ne ho 68”. Ci siamo dimenticati di quanto tempo sia passato. Non sarebbe stato corretto comunque per Roger essere coinvolto dato che quando loro hanno registrato queste jam lui non era presente da tempo.

Ci sono delle belle cose nel disco; On Noodle Street è un brano ambient molto interessante.

Sì, lo è. Spero che piaccia ai fan, dato che è stato fatto apposta per loro. Un tributo a Rick che calza a pennello e che proviene dal luogo migliore.

Un ultimo commento: onestamente non mi piace la co-pertina del disco.(ride) Non sono responsabile per la copertina. Lo sono solo per parte della musica. Posso parlarti di alcune delle coper-tine dei Roxy Music che amo, se desideri...ma è tutto quello che potrei dirti...”

Il solito, diplomatico, Phil Manzanera...

© IFA - Amsterdam, 2104

no, ma se hai intenzione di tirare fuori delle canzoni, sto per fare il mio nuovo disco da solista e lì ne avrai quante ne vuoi, il prossimo anno”.

Il peso dell’attesa...i fans dei Pink Floyd sono vent’anni che attendono...È una grande scommessa e mi hanno detto che è il disco che ha raggiunto il maggior numero di copie vendute in anticipo su Amazon...battendo persino gli One Direction ! E i Coldplay, tutti campioni di vendite. Non ho idea di cosa significhi, ma sicuramente è merito del nome. Ci sono gruppi che sono usciti negli ultimi 40 anni e che sono divenuti un marchio di garan-zia, sia che si tratti dei Blur, Oasis, Pink Floyd, Roxy Music, The Rolling Stones...hanno quel qualcosa in più al di sopra dei singoli membri. È un questione di potenza di immagine : il disco dei Floyd, il fan dei Floyd, un concerto dei Floyd...non stiamo parlando solo di musica.”.

Capisco che sia un argomento delicato, ma il grande assente è Roger Waters. Che tu sappia ha fatto qualche commento sul disco dei Floyd?Per quello che so nient’altro al di fuori dell’aver detto che non è stato coinvolto. Ho letto una cosa dove ha spiegato che ha ab-bandonato il gruppo quasi trent’anni fa e che è contento di fare

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2010 (Rick Madonick/Getty Images)

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LUCINDA WILLIAMSTROPPO COUNTRY PER ESSERE ROCKTROPPO ROCK PERESSERE COUNTRY

SOUTHERN WOMAN

di Madeleine Schwarts // The Believer // 2012

È andata in tour con icone come Bob Dylan e Tom Petty, ha inciso

con leggende come Elvis Costello e Steve Earle, è stata nomina-

ta miglior autrice d’America dalla rivista Time, e ha messo assieme

uno dei più impressionanti corpus di album su questa sponda del

rock&roll. Ma provate a dire a Lucinda Williams che è un’onore

parlare con lei e risponderà con un confuso silenzio, un altezzoso

scherno e poi un semplice, trascinato “Okaaay”.

Il nuovo album inciso dal vivo (da noi presentato lo scorso nume-

ro di Outsider) è una perla da non perdere.

Non è mai venuta ne mai verrà in Italia perchè costa 25mila euro

e quindi da noi un concerto ‘a perdere’, ma se dovesse arrivare vici-

no ai nostri confini… sapete che non potrete perderlo.

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Page 50: PINK FLOYD STORY

I. LE FOGLIE CADONO E CADONO AL SUOLO

Come hai scoperto in che modo usare la tua voce?Quando ho cominciato a suonare la chitarra e cantare, avevo circa dodici anni, andavo per i tredici. I miei mo-delli allora erano i cantanti folk. Ave-vano tutti queste voci ed estensioni davvero acute e piacevoli, come Judy Collins e Joan Baez, e in seguito, chiaramente, Joni Mitchell e Linda Ronstadt. Ho deciso presto che avrei dovuto imparare a scrivere le canzoni molto, molto bene, perché ero con-vinta di non poter competere con loro come cantante. Non credevo che fosse

ghi, tristi viaggi attraverso il Sud—che lei mette in scena con meticolosa pre-cisione. E c’è sempre un taglio deter-minato nella sua pensosa, graffiante voce, che stia cantando con rabbia o con totale disperazione; si avverte l’e-nergia di un torrente che passa attra-verso un minuscolo forellino.Nata in Louisiana nel 1953, è cresciu-ta partecipando ai laboratori di poe-sia e alle letture di suo padre, il poeta Miller Williams. Ha passato qualche decennio girando per il paese, suo-nando nei bar e per strada, e si è co-struita un pubblico prima ancora del suo primo successo commerciale, Car Wheels on a Gravel Road (1998), il suo quinto album.

Che parlare con lei sia – in effetti – un onore è un fatto che non può non es-serle chiaro, ma Williams non dà a vedere di saperlo. Anzi, si butta dritta nella conversazione, speziando le sue risposte con dei “lo sai”, (come se foste vecchi amici e tu lo sapessi davvero), chiudendo le sue risposte con una risa-tina del sud (anche la sua risata è stra-scicata), e di tanto in tanto chiedendoti se puoi aspettare un attimo mentre lei parla con suo marito, il manager Tom Overby (“Tom sta uscendo a pranzo con uno dei suoi amichetti dell’indu-stria discografica... Gli ho chiesto se potesse andarsi a cambiare la camicia, perché ha la stessa camicia che indos-sava ieri”).

Ma Lucinda Williams non appare soltanto amichevole: è anche incredi-bilmente felice. Questa non è soltanto una specie di sorpresa: è una bella sor-presa. Leggete le interviste fattele negli anni passati, e tonnellate di queste fa-ranno riferimento al trarre ispirazione da relazioni orribili e tortuose separa-zioni: le sue canzoni di rottura regolar-mente inappuntabili sono il risultato di regolari nuove ferite emotive. La sua ritrovata felicità, senza dubbio, ha molto a che fare col suo recente ma-trimonio con Overby, anche se lei è pronta a confermare che essere felice non priverà le sue canzoni della sua tradizionale grinta.Le canzoni di Lucinda Williams sono come un catalogo di intime sofferenze, principalmente di tipo romantico—poeti suicidi, amori inappagati, lun-

No Depression del 1988 fu un album seminale, che

non solo annunciò l’arri-vo di una voce di grande significato per le arti e la

letteratura americana, ma anche la nascita di un nuo-

vo genere: l’alt country.

50 OUTSIDER LUCINDA WILLIAMS

1992 (Jack Vartoogian/Getty)

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Ricevevi ancora molti incoraggia-menti?Beh, lo sai, venivo incoraggiata dalla mia famiglia, specialmente da papà, dai suoi amici e gente simile. Ero trop-po giovane per suonare nei bar o ovun-que. Sedevo in giro per casa. Io e i miei amici suonavamo. Mi pare ci fosse una gara per nuovi talenti, a scuola, e noi siamo andati a cantare qualche can-

zone. Avevo una specie di spinta e di ambizione tutte mie, qualcosa che continuava a spingermi avanti.

Verso cosa ti spingeva?Volevo riuscire a gua-dagnarmici da vivere. Il mio grande sogno era quello. Non necessaria-mente essere famosa o altro. Pensavo soltanto: “Non sarebbe fantastico se non dovessi avere un lavoro vero?”. Papà mi ha incoraggiato ad anda-re al college e laurearmi, perché voleva che avessi qualcosa di serio su cui fare affidamento, perché lui pubblicava libri di poesia ma insegnava an-che scrittura creativa. Co-munque sia, sono andata all’Università dell’Arkan-sas e ho cominciato lì, poi ho mollato, ho frequenta-to un altro semestre poi ho mollato.La mia facoltà, quando ho cominciato non era musica ma antropologia culturale. Non so perché. All’epoca non ero inte-ressata a un’educazione musicale formale, imma-

gino. Tra un semestre e l’altro—era il 1971 o il 1972—sono andata a New Orleans, e mi è stato offerto il mio pri-mo show regolare in una piccola ta-verna nel quartiere francese chiamata Andy’s—restavano aperti tutta notte. Penso aprissero alle tre del pomerig-gio e chiudessero alle tre del mattino. In seguito è andato a fuoco. Lo facevo solo per le mance. A quei tempi po-tevi cavartela piuttosto bene anche

leggere la musica. Quindi imparavo i testi lì e le melodie ascoltando i dischi, sedevo col mio libro e imparavo i bra-ni, lo sai, prima di imparare a scrivere e tutto il resto.Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura quando avevo tredici anni o giù di lì. La prima canzone che ricordi di aver scritto si chiamava The Wind Blows. All’epoca non avevo colto il

doppio senso [ndt: “the wind blows” può essere tradotto sia come “il vento soffia” che come “il vento fa pompini”]. Era molto tipo Peter, Paul and Mary, una specie di canzone folk. Era tipo:Il vento soffia e soffia per il paese e la gente in paese lo sente soffiare.Il vento soffia e soffia per il paese e la gente in paese lo sente soffiare...Le foglie cadono e cadono al suolo.Na na na na na na na na na…

quello il mio punto di forza.È stato così sinché non ho scoperto Bobbie Gentry—è stata una delle prime cantanti ad avere una voce bassa, roca, con cui ero davvero in sintonia—e quando ho poi scoperto alcune cantanti blues come Mem-phis Minnie e alcune altre cantan-ti di blues del Delta, con le loro voci graffianti, diverse, che ho cominciato a trovare altri modelli in cui identificarmi. Ricordo che una volta ero al ristorante con Emmylou Harris, e un paio di altre perso-ne, e c’era qualcuno che cantava un’aria d’opera leggera, e io mi sono girata verso e Em-mylou e ho detto: “Oh, senti che estensione! Mi piacerebbe saperlo fare con la mia voce!”. E lei ha detto: “È quel-la la bellezza della tua voce—hai il tuo stile personale. Devi solo imparare a lavorare con i tuoi stessi limiti”.

Com’eri da bambina?Sai, ero una bambina che stava al chiuso. Mi piaceva restare in casa. Ho avuto la mia razio-ne di campane, ruote, alberi da scalare e cose di quel genere, mi pia-cevano le robe dome-stiche come disegnare, leggere e scrivere. Ho cominciato a scrivere brevi racconti e poesie non appena ho impa-rato a leggere e scrive-re. Penso che avessi sei anni. E poi quando ne ho avuti undici, dodici, e durante l’adolescenza, ascol-tavo dischi tutto il tempo, e avevo una chitarra. Ho cominciato a ricevere le-zioni di chitarra a dodici anni. Era di-ventato tutto il mio mondo. Di solito ascoltavo dischi e andavo nei negozi di musica a cercare dei libri di testi, e ne ho ancora una grossa collezione. Cercavo di trovare le canzoni che era-no sugli album, perché non sapevo

51OUTSIDER

Page 52: PINK FLOYD STORY

Una volta che ho imboccato quella strada, la cosa era fatta. Ero molto bra-va a essere al posto giusto nel momen-to giusto—ho seguito il mio istinto.Sono arrivata a L.A. alla fine dell’84. Quello è stato un altro punto critico. Prima di allora non conoscevo niente del mercato musicale. Non avevo un manager, un avvocato, un agente, una band. Suonavo con chiunque fosse di-sponibile, di solito solo io e un chitarri-sta. Quando sono arrivata a L.A., è stato lì che ho fatto la mia prima esperienza con l’industria discografica e le eti-

chette e tutto quel genere di cose. Ho cominciato a suonare in alcuni posti, e allora una band ha co-minciato a formarmisi attorno e qualche agente ha cominciato ad annu-sare l’aria. Ma non sape-vano cosa farsene di me, perché, come ho scoperto in seguito, ricadevo nella spaccatura tra il country e il rock. Non esisteva anco-ra l’Americana, non esi-steva l’alternative count-ry. Tutto quel tipo di roba per il quale ora esiste un grosso mercato e un inte-ro genere.

La gente come te lo fa-ceva sapere?Avevo quello che si chia-mava “un contratto a progetto”, in cui loro ti davano una certa quan-tità di soldi per camparci sei mesi, e tu avresti fatto una demo. In questo caso era per la Sony, o per la CBS Records, comunque si chiamasse, prima che tutte le etichette comin-ciassero a fondersi. Il capo dell’A&R si era interessato a me. Ha detto: “Voglio farti un contratto a pro-getto, e pagheremo per mandarti in studio a inci-dere una demo. Sisteme-remo tutto”. Eccomi lì in cima al mondo, a pensare: ‘Wow, qui non devo fare un lavoro normale per sei

gli ho detto: “Papà, invece di tornare a scuola, voglio restare qui e fare que-sto”. E lui ha detto OK. Questo è pro-babilmente stato uno dei primi grossi punti di svolta, forse il punto di svolta.

II. NON SAPEVANO COSA FARSENE DI ME

Mi domando, non sei mai stata preoc-cupata di non raggiungere il successo? Ti ci è voluto un sacco di tempo per sfondare nell’industria discografica.

solo con le mance. Era piuttosto facile sostentarti come musicista, perché gli affitti erano economici.Comunque, mi era stato chiesto di fare un turno due o tre volte a settimana—mi pare fosse nel pomeriggio—dalle quattro alle sei. Era un posto davve-ro piccolo, proprio su Bourbon Street, quindi ci passava parecchia gente. Se-devi su uno sgabello, avevi un paio di microfoni e mettevi un vaso davanti a te. E ragazzi—ero eccitatissima. Cam-minavo sulla luna! Era questo quello che volevo fare! Ho chiamato papà e

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2014 - Rodney Crowell, Laura Cantrell, Joe Henry, Lucinda Williams, Grant-Lee Phillips (Getty)

2004 - Raul Malo, Norah Jones, John Doe, Lucinda Williams e Steve Earle (Photo by Lee Celano/WireImage)

Page 53: PINK FLOYD STORY

già sapevo, e a quello mi sono attenu-ta. Perché sapevo che questi tizi non capivano un cazzo.

Hai detto in passato che la tua car-riera è stata intralciata da uomini

che ti dicevano cosa fare.Quando dici “uomini che ti dicevano cosa fare”—cioè, è vero, ma quello che devi ricordare è che l’industria musi-cale era ed è ancora prevalentemente dominata dai maschi. Avrebbe potuto

essere una donna a dirmi cosa avrei dovuto fare, e io non avrei, sai… Mi sembra che la gente ne parli un sacco, e io guadagno una specie di credito a essere la donna forte che tiene testa a questi tizi, o comunque sia. Ma davvero non mi piace darmi tutto questo credito. Sono forte, ma penso che all’epoca fosse più cocciu-taggine che altro, e una cer-ta paura—avevo questa ter-ribile paura di essere troppo prodotta. Non volevo suo-nare commerciale. Non vo-levo suonare piaciona.C’è stato un evento che è capitato quando ho fatto quel secondo album con la Folkways, Happy Woman Blues. Ero a Houston assie-me ad alcuni tizi con cui lavoravo lì. Siamo entrati in studio e l’abbiamo registrato in, tipo, tre giorni. Non ave-vamo un batterista—giusto un paio di chitarre e un bas-so. Lavoravamo con questo tizio—il posto si chiamava SugarHill Studios—e io sono tornata in studio l’ul-timo giorno per sentire cosa avessimo in mano. Il tizio che ci faceva la fonica—era una specie di combinazione tra un fonico e un produt-tore—aveva deciso di far venire un batterista mentre noi eravamo tutti via dallo studio, e aveva messo la bat-teria sulle tracce! Senza par-larne con me o con nessun altro! Non ci potevo assolu-tamente credere. Sono en-trata, lui ha acceso tutto e ha detto: “Ascolta”. E io ero tipo: “Stronzo che cos’hai fatto?”. E lui: “Ho pensato che ci volesse un po’ di batteria. Non suona bene?” E io ero

mesi, tutto quello che devo fare è scri-vere canzoni, e, sai, fare una demo’, e avevo un piccolo appartamento, e ho pensato: ‘Ragazzi, adesso ce l’ho fat-ta!’. Perché l’intera premessa era che sarei andata a incidere la demo, e lui l’avrebbe portata ai suoi colleghi, e poi avrebbero deciso se farmi un contratto discografico.È stato in quel periodo che ho scritto buona parte delle canzoni contenute in Lucinda Williams, come Passio-nate Kisses, Crescent City e Changed the Locks. Quelle stesse canzoni erano quelle che erano state sparate in giro e ascoltate da diversi addetti all’A&R di varie etichette, quindi sono andata a fare la demo, e… mi hanno rifiutata. La ragione era, dicevano: “Alla Sony qui a L.A., sono troppo country per es-sere rock, quindi le abbiamo mandate a Nashville”, e a Nashville hanno det-to: “Sono troppo rock per il country”. Eccoti servita.Però avevo questa demo ed era piutto-sto buona; avevano partecipato alcuni ottimi musicisti e tutto il resto. Ho co-minciato a farla circolare il più posibi-le, e ho continuato a suonare in piccoli bar. Ho avuto un incontro con questo tizio della Elektra Records, e lui ha det-to: “Penso che avresti bisogno di rico-minciare da capo e lavorare un po’ di più sulle tue canzoni”. E io ho detto: “Beh, come mai?”. E lui: “Le tue can-zoni non sono abbastanza formali. Nessuna delle tue canzoni ha un brid-ge”. Quello di cui parlava era il modo formalizzato di scrivere una canzone, che è strofa, strofa, ritornello, bridge, strofa, strofa, ritornello, o qualcosa del genere, e ha detto: “Nessuna delle tue canzoni ha un bridge”. Beh, molte del-le mie canzoni non hanno nemmeno il ritornello, per quel che vale!Chiaramente, ero in qualche modo devastata e incazzata. Ma ero incaz-zata abbastanza da non ascoltarlo. Se n’è andato, e io ho subito messo su un album di Neil Young e l’ho ascoltato. L’ho esaminato e ho studiato alcune delle canzoni che ha scritto. Bob Dy-lan, anche. L’ho esaminato e ho detto: “Che si fotta, quel tizio! Guarda que-ste canzoni! Questa canzone di Neil Young ha soltanto due strofe, non c’è nessun bridge”. Sono rientrata e ho semplicemente riconfermato ciò che

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Resti sorpresa quando la gente ti dice che le tue canzoni sono sen-suali o sexy? Leggevo la descrizio-ne di uno dei tuoi concerti. Appe-na hai cominciato a suonare, tutti hanno preso a pomiciare.[Ride] Lo sento dire spesso, già. Quan-do eravamo a New Orleans, e questo era durante il Jazz Fest, abbiamo fatto un concerto alla House of Blues. Non è stato molto dopo l’uragano Katrina, quindi c’era una sorta di strana energia nel pubblico. Ad ogni modo, abbiamo suonato Essence. Abbiamo scoperto in seguito che questa ragazza—non stava pomiciando con qualcuno, stava so-stanzialmente pomiciando con se stes-sa, mettiamola così. Si stava toccando. Qualcuno tra il pubblico ha chiamato gli sbirri, e gli sbirri sono arrivati. Dove-va essere sotto l’effetto di qualche tipo di droga. Doveva essere fatta di ecstasy. Comunque, è stato piuttosto selvaggio.

Da che altri lavori stavi imparan-do, a parte quelli di tuo padre?Amavo la narrativa breve contempora-nea e Flannery O’Connor. Divoravo la sua roba. Ero piuttosto giovane—quin-dici, sedici anni. La sua roba era così descrittiva. Riuscivi a vederla—un’im-magine di ciò di cui parlava. Amavo quel tipo di scrittura, quella scrittura

turale. Probabilmente è perché sono cresciuta tra poeti e romanzieri e mio padre scriveva poesie che parlavano di tutto—da un gatto che dormiva su una finestra a un incidente che aveva visto sull’autostrada. Ho imparato a non censurarmi: quella era una delle cose che ho imparato nel mio apprendi-stato, il mio apprendistato di scrittura creativa con papà. Non ho studiato la scrittura creativa in modo formale, ma ho imparato quanto possibile guar-dandolo, e partecipando ai suoi labora-tori in casa, e ascoltandolo insegnare, e tutto il resto. Lui mi ha insegnato a non censurarmi. Mi ha insegnato l’e-conomia della scrittura e dell’editing. È un magnifico editor.

tipo: “Non è questo il punto!”. Pensava di starmi facendo un grosso favore, ca-pito? Ero completamente attonita. Per non dire che mi sentivo manipolata. Quello è stato il mio primo passo tra le manipolatorie, dispotiche braccia dell’industria musicale e discografica. Penso che la cosa mi abbia messo sulla difensiva. Non sapevo sempre spiega-re cosa volessi fare in studio, ma sape-vo cosa non volessi.

III. “HO INDOSSATO LE MIE SCARPE DI CUOIO ROTTE”

Sei molto brava a scrivere di ses-so—dell’apprezzare il sesso e vo-lerlo.Sì! Sono sempre stata cristallina, in merito. Ne do il merito alla mia edu-cazione. Non mi è mai capitato di non chiedere e non volere qualcosa, o di non essere in grado di ottenere qualcosa, solo perché ero una donna. Sono stata incoraggiata ad avere una carriera—non necessariamente a spo-sarmi, avere dei figli e roba simile. Mi sorprendeva quando la gente comin-ciava ad ascoltare le mie canzoni ed era tipo: “Wow! Questa è davvero una porca”. Come quella canzone, Essence, sai? Per me era una specie di cosa na-

Pensate a tutti gli artisti di ‘Americana’, donne e

uomini, che non esistereb-bero senza di lei. È difficile

immaginare un mondo senza Lucinda Williams.

54 OUTSIDER LUCINDA WILLIAMS

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Una volta, tanto tempo fa, questo gio-vane autore mi stava chiedendo una cosa, ha detto: “Voglio essere un autore di canzoni. Voglio fare quello che fai tu. Ma non so come fare. Dimmi come fai”. E io ho detto: “Devi voler scavare a fondo in te stesso, e andare a guarda-re negli occhi quei demoni e i mostri e le cose e la roba che è successa. Vai laggiù, e basta. Perché lì c’è una monta-gna di materiale”. E lui: “Non penso di poterlo fare”. Non dimenticherò mai quel momento. Mi ha guardata con questo sguardo negli occhi, e ha detto:

emozioni e in quel momento saprò: ‘OK, potrebbe esserci bisogno di qual-che aggiustatina, ma ho raggiunto il cuore della canzone. Ce l’ho. Perché ho raggiunto quel punto—sono andata a fondo e ho raggiunto quel punto. Poi ho solo bisogno di ripulirlo un po’.

Che posto è, quello?Quel punto in cui mi colpisce—perciò so che colpirà anche gli altri—dove in-filo le mani a fondo nella mia psiche e tiro fuori roba. Come quando scrivo del-la morte di mia madre e cose simili, sai?

molto descrittiva, realistica. Ho impa-rato che invece di dire soltanto “Me ne sono appena andata da quest’ultima città” perché non dire il nome della cit-tà? Descrivi la città. Non dire solo “Oggi ho indossato le scarpe”: dì “Ho indossa-to le mie scarpe di cuoio rotte”.

Hai incontrato Flannery O’Connor quand’eri piccola, giusto? Lo ricordo a malapena. Avevo solo quattro anni. Era uno dei mentori di papà. Vivevamo ad Atlanta. Lei stava a Milledgeville, in Georgia. Ha invitato lì mio padre, e lui mi ha portata con sé. Viveva in questa vecchia grande casa. Era disciplinatissima con la sua scrittu-ra. Scriveva dalle otto del mattino fino alle tre del pomeriggio. Tirava le tende, e se le tende erano tirate voleva dire che non aveva ancora finito di scrivere e noi abbiamo dovuto restar seduti nel patio ad aspettare che finisse. Poi la sua domestica è arrivata e ci ha fatti entra-re. Allevava pavoni, che correvano in giro per tutto il cortile. Papà dice che inseguivo i pavoni.

Tu hai una routine del genere?Non sono così disciplinata. Metto assie-me idee e versi. La mia mente è sempre attiva. Sto sempre ad appuntare versi, e robe da flusso-di-coscienza. E conservo tutto in una cartelletta. Ho un sacco di canzoni dell’ultima sessione di stesura, da sessioni precedenti, canzoni che ho scritto e su cui devo tornare per lavo-rarci un po’ di più, e poi pezzi e pezzet-tini di versi e idee. Quando la musa mi coglie, o l’umore, o qualunque cosa sia, prendo la mia chitarra e la scarico. Mi metto a esplorare le cose per vedere che succederà.

IV. LA VITA NON FUNZIONA COSÌ

Come ti accorgi che una canzone è terminata?Aiuta avere qualcuno a cui suonarla, qualcuno di cui ti fidi, che in questo caso è mio marito, Tom. Ma mi sembra di saperlo, di solito. A volte lo so perché piango. Se per me è molto emozionan-te, al punto da immergermici così tan-to… Per me scrivere è molto catartico, il più delle volte. È terapeutico e catar-tico e tutto il resto, verrò travolta dalle

55OUTSIDER

Page 56: PINK FLOYD STORY

non vado in giro con un cattivo ragaz-zo, siccome ora ho trovato una persona, di cosa potrò scrivere? Che questo sia il mio “album felice.” Ed è assolutamente ridicolo! Mostra solo una mancanza di consapevolezza. È così mediocre. Credi-ci o no, ma la gente è arrivata al punto di ipotizzare che potrei non essere più in grado di scrivere canzoni siccome mi sono sposata. Ho provato a spiega-re ancora che ci sono altre cose di cui scrivere, oltre a ragazzo incontra ragaz-za, ragazza incontra ragazzo, ragazzo molla ragazza, ragazza è triste. Che dire della salute mentale di mia madre, e la sua intera vita, e la mia? Mi porto tutta quella roba addosso come un albatros attorno al collo. Un terapista una volta mi ha detto: “Stai portando i suoi pesi; devi lasciarli andare”.La roba è questa. È questo a farmi anda-re avanti. Devo scrivere. Ho scritto un paio di canzoni su mio fratello, che ha sofferto di malattia mentale, che sono convinta sia genetica perché anche mia sorella è così. Un altro terapista mi ha detto che ho il complesso del so-pravvissuto, perché sono la più grande di tre e sono sopravvissuta, e non saprò mai bene perché, se non per il fatto che fossi molto legata a papà, ho legato con lui e da ciò ho tratto molta forza, come dallo scrivere.

Come potresti scri-vere di tutto questo?Ho provato a scrivere una canzone su mia madre, su come è stata cresciuta. Anche lei ha avuto un’infanzia no-tevole. Suo padre era un predicatore Meto-dista fondamentalista che masticava tabacco, e lei è cresciuta in un tipo d’ambiente piut-tosto repressivo. Que-sto voleva dire essere una donna in Louisia-na a quei tempi—negli anni ’40, ’50, ’30. Aveva quattro fratelli. Ha su-bito violenza emoti-va, se non in qualche modo fisica. Già, se l’è vista brutta. Sua ma-dre aveva una malat-

La gente associa la sofferenza al tuo lavoro, al punto che hanno co-minciato a distinguere i tuoi ulti-mi album come gli “album felici”.È una denominazione davvero scorret-ta: l’idea è che tutto d’un tratto, nel giro di una notte, io abbia incontrato Tom e ci siamo sposati e io ora sia felice? La vita non funziona così. La vita va avan-ti e tu ancora—sono felice di aver co-nosciuto Tom, lo amo e, lo sai, ma sono ancora un’artista, e ancora scrivo di va-rie cose. Ancora soffro e provo dolore e tutto il resto. Ci sono un sacco di cose a cui pensare e di cui scrivere, oltre all’a-more non corrisposto. Sembra esserci questo pregiudizio tale per cui, siccome

“Non posso farlo”. E io ho solo detto: “Bene”, sai? Quello è stato un momen-to molto triste. Non me ne dimentiche-rò mai. Sapeva di cosa stessi parlando e sostanzialmente diceva: “Non posso farlo. Ho troppa paura per farlo”. Non mi era mai successo che qualcuno fos-se troppo spaventato per farlo.

Non ti spaventi mai?No, dio! Devo. È la mia forma di so-pravvivenza. Devi solo andare lì den-tro e confrontarti con tutta quella roba, a meno che tu non voglia scrivere di soli splendenti e fiorellini, e amori non corrisposti.

Cosa ne pensi dell’idea che gli arti-sti debbano soffrire prima di poter produrre qualcosa di buono?Penso che cominciamo a soffrire dal momento in cui usciamo dall’utero. Penso che la gente tenda a stereoti-pare. Quando pensano alla sofferen-za, pensano alla violenza—violenza fisica, violenza emotiva, povertà, quel tipo di cose. Ci sono diversi livelli di sofferenza. Non penso che abbia a che fare coi soldi che hai—se sei cresciuto nel ghetto o nei quartieri alti. Per me ha più a che fare con la percezione: la percezione di sé e il modo in cui perce-pisci il mondo.

Non ascolto la roba che esce da Nashville, anche se a volte esce qualcosa di

buono. Non mi piace il modo di produrre le canzo-ni , la roba nel suo insieme.

È tutto troppo furbetto.

56 OUTSIDER LUCINDA WILLIAMS

1987

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V. LE GLASSATE COUNTRY-GIRLS

Credi di essere responsabile per la creazione, all’interno della musi-ca, per una nicchia di Americana?Per mancanza di meglio, credo. C’era altra gente a farlo, oltre a me, ma pen-so che il successo di Car Wheels abbia

molto a che fare con questo, credo. Ri-cordo che vivevo a Nashville mentre costituivano questa ‘Americana Mu-sic Association’, e stavano provando a trovare un nome da darle. Io, assieme a molti altri cantautori che facevano la stessa cosa, ne siamo stati respon-sabili. Cioè, non voglio prendermene il merito fintanto che il mercato fun-ziona. Penso che stessero pensant’do, ‘Dobbiamo trovare una casa per que-sto tipo di musica all’interno dell’in-dustria discografica, così che non si perda tra le pieghe’.

Qual è la tua opinione della sce-na country in generale? Ascolti quello che arriva da Nashville?Non l’ascolto per niente. Non ne sono fan. A volte, scappa fuori qualcosa che penso sia piuttosto buono. Ma non mi piace la produzione, di solito non mi piacciono le canzoni, la roba nel suo insieme. È troppo furba. Non è buon country. Non è country nel senso di quello che penso il country dovrebbe essere, come ai vecchi tempi, come Loretta Lynn e molto dell’Outlaw Country, come Waylon Jennings e Johnny Cash. È più represso e com-mercializzato in un certo modo. Mi-rano a un certo pubblico, immagino. Semplicemente non è qualcosa che abbia voglia di metter su e ascoltare a casa. Non ha gli spigoli abbastanza ruvidi, almeno non la roba che ha successo. Ho sentito roba uscita da Nashville che è figa, ma ha problemi a competere con le glassate, soffici, graziose country-girls da calendario.

Da dove arriva questo problema?Molti di questi artisti non scrivo-no le proprie canzoni. Hanno tutta questa gente che scrive assieme a loro. Hanno tutta questa gente che si sposta a Nashville dal Connecticut e da Long Island, si mettono al tavolo con tre o quattro persone e scrivono canzoni. Non hai quel senso perso-

Volevo scavare anche nella mia infan-zia. Ho molte canzoni che sono già su di me—storie che hanno a che fare con me e i miei uomini, i miei magnifici perdenti, sai? Voglio scrivere di bam-bini. Ho cominciato qualche canzone sui bambini, sulla violenza sui bambi-ni. Voglio scrivere di quello.

tia mentale. L’ha trasmessa a lei. Ed è passata a mia sorella e a mio fratello. Io in qualche modo sono riuscita a so-pravvivere.

Dev’essere difficile, allora, prova-re a scavare nei ricordi di qualcun altro invece che nei propri.

57OUTSIDER

Page 58: PINK FLOYD STORY

Qual è la cosa più carina che qual-cuno abbia detto di una tua can-zone?Il mio compleanno è il 26 gennaio. Ho ricevuto tutti questi messaggi via mail e su Facebook e sulla mia fan page—questi dolci, adorabili mes-saggi e auguri di buon compleanno.

Uno dei miei versi preferiti di una delle tue canzoni parla di te che vedi un tizio che trovi attraente, e non è su una spiaggia o un posto simile—è in un supermercato a comprare pomodori.Ed è quello che non senti nel country moderno. Ora sarebbe su una spiaggia.

nale, di esperienza viscerale, quando ascolti una canzone scritta da tre o quattro persone assieme. È questa la ‘macchina da scrivere’ che ora funzio-na a Nashville. Porta via buona parte dell’anima. Gli artisti a cui guardo—Bruce Springsteen, Neil Young, Elvis Costello—quelli sono artisti che hanno avuto successo, sono di-ventati grandi star e hanno mantenuto la loro integrità, sai? Un individuo che scrive una canzone a parti-re dalle proprie espe-rienze.Penso che nel mon-do della musica rock, o comunque si chia-mi—tutto ciò che sta fuori da Nashvil-le—ci sia molta più libertà di fare quello che vuoi all’inter-no dell’industria. Nashville tende a cadere in questa sin-drome dello stam-pino. Tutti i dischi cercano di avere lo stesso sound. Tutta la gente che arriva a Nashville, che non sa nulla di musica country, arriva in città e dice: “Hey! Scriverò una canzo-ne country! Salterò sul carrozzone. Ci si possono fare i soldi, in questo affare delle canzoni country”. E gli artisti che erano un po’ diversi e un po’ spigolosi—l’indu-stria non li supporta. Hanno la tendenza a non supportare la musica che suona come la roba country più vecchia. Non so perché sia così.

Giusto, e il tuo la-voro non ricade in quella sindrome dello stampino.

58 OUTSIDER LUCINDA WILLIAMS

2013 - Lucinda Williams e Boz Scaggs (Tim Mosenfelder/Getty Images)

2012 – Con Elvis Costello (Photo by L. Cohen/WireImage)

Page 59: PINK FLOYD STORY

“A volte è come scrivere un diario o qualcosa del genere”, dice, parlando del processo di gestazione di una can-zone. “È un flusso di coscienza, quasi. Butto lì qualche pensiero. Di solito co-mincia con un verso che mi viene in mente, o qualcosa di simile. O a volte scrivo qualcosa come un paio di versi, qualche pensiero, come quando mi preparo per andare a letto o magari quando mi sono appena svegliata e sono lì sdraiata a pensare. Mi alzo, afferro una penna, e qualunque cosa sia, la metto subito su carta per non di-menticare l’idea... Non resto seduta ad applicarmi ogni singolo giorno, tutto il giorno. Più o meno succede quando ne ho il tempo”.

L’approccio rilassato alla scrittura e all’incisione è dovuto, in parte, all’aver trovato il perfetto contraltare creativo in suo marito. Overby è un veterano dell’industria discografica, abituato a prestare attenzione ai piccoli dettagli che spesso sfuggono agli stralunati artisti. Sapendo che suo marito si pren-derà cura di quei dettagli, è libera dai suoi fardelli—e libera di focalizzarsi sulla musica.

“Il mio approccio alla scrittura e all’incisione e a tutto è molto organi-co. Tom ha lavorato per molto tempo in una casa discografica occupandosi di marketing, quindi è molto concet-tuale. Perciò siamo una buona squa-dra. Per dirne una, quando mettiamo le canzoni in ordine, la sequenza, io non voglio farlo, ma Tom è davve-ro bravo a metterle tutte assieme. E a volte io faccio: ‘Quell’idea è folle!’ Per esempio è stata una sua idea che io facessi una cover di It’s a Long Way to the Top [degli AC/DC]. Ho fatto: ‘Stai scherzando? Quella canzone nemme-no mi piace!’ Non la conoscevo nean-che, sai? Lui ha detto: ‘Beh, sul disco ci serve solo un’altra canzone rock’. E io facevo: ‘Che importa? Facciamo uscire il disco. Non importa’. Lui si occupa di questo. Guarda al disegno complessi-vo e vede se il disco sia equilibrato, tra tutte le canzoni..

Dopo aver passato così tanti anni ai margini dell’establishment musicale, la Williams si trova ora nella bizzarra

entrambe le cose. Per esempio, l’inci-sione dell’album che l’ha resa famosa, Car Wheels On a Gravel Road (1998), è stata segnata da sessioni scartate, amicizie rovinate e produttori rim-piazzati—tutto, a quanto pare, perché lei voleva fare l’album in modo irra-gionevolmente corretto.

Se allora quel ritratto di Williams era corretto, certamente non lo è ora. Mentre parla del suo approccio

alla scrittura, diventa chiaro che sia molto più intuitiva che meticolosa, lasciando che sia la sua musica a fare strada quando—e se—le fa visita. Forse, grazie all’esperienza di ripetuti successi, ha imparato di potersi fidare del suo istinto; forse doveva solo im-parare a rilassarsi. In ogni caso, Wil-liams sembra un’artista in sintonia coi propri istinti creativi, non in lotta con essi.

Un paio di volte, parlando della mia canzone Sweet Old World, ci sono state un paio di persone che hanno detto di aver pensato al suicidio e di aver cambiato idea—che quella can-zone aveva fatto loro cambiare idea. Piuttosto intenso, eh? Stavo suonan-do Unsuffer Me, e penso che questa donna abbia esclamato dal pubblico: “Grazie, Lucinda! Quella canzone mi ha salvato la vita”.

Non sorprende allora che, incastrata tra le forze in lotta d’amore e morte, Williams abbia deciso di scrivere una canzone sulla morte, qualcosa che sui precedenti album ha esitato a fare. La sfida nello scrivere una canzone che parli di guerra, spiega, sta nell’esplora-re l’argomento senza suonare predica-toria, polemica o politica. Le canzoni di protesta più durature sono quelle che si focalizzano sul reale impatto umano della guerra e non su un mes-saggio apertamente controverso. In quei termini, non sono affatto orienta-te a protestare, ma a ritrarre: se l’artista riesce a veicolare la realtà, l’ascoltato-re non può fare a meno di reagire.

“Quel tipo di canzoni è davvero dif-ficile da fare”, ammette. “Phil Ochs ne era in grado, [e] chiaramente Bob Dylan. Ma c’erano anche quelle più delicate, come quella canzone di Pete Seeger, Where Have all the Flowers Gone. Voglio dire, quella è una can-zone magnifica. E a suo tempo era considerata una canzone di protesta, e faceva: ‘Dove se ne sono andati tutti i fiori/Da così tanto tempo’. Quindi è qualcosa che da molto volevo esplo-rare. Non ci pensavo volendo che fosse una canzone di protesta, ma stavo certamente cercando di affer-mare qualcosa sugli orrori della guer-ra. Ma volevo prenderli e porli sotto un aspetto più personale, familiare, umano”.In passato, Williams è stata descrit-ta dalla stampa come una mania-ca del controllo, una perfezionista ossessivo-compulsiva che si fissava così tanto sui dettagli che le ci voleva buona parte di un decennio per fare un album, per dire di no alle persone che aveva reclutato perché la assistes-sero nella creazione di un album, o

FILTER DISCOGRAPHY

1979 RAMBLIN’

1988 NO DEPRESSION

1998 CAR WHEELS ON A GREVEL

2003 ARTIST’S CHOICE: LW

2005 LIVE FILLMORE

2014 HIGHWAY

20 RECORDS

59OUTSIDER

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chiamare Elvis a suonare la chitarra in qualcuna di queste tracce”. Ho det-to: “Davvero? Okay”. È arrivato e si è seduto in regia. Aveva con se tre o quattro chitarre, e gli abbiamo suona-to le canzoni una per una. Le ha ascol-tate, si è seduto e ha fatto… faville. Ero in regia a guardarlo, ascoltando la

traccia, perché avevamo fat-to tutto tranne quello. Era da perderci la testa! Incredibile.

E anche Matthew Sweet canta in qualche brano?Già, è venuto a fare qualche armonizzazione. Quelle in realtà sono solo delle specie di sovra-incisioni. Non vo-levamo aggiungere troppo. Per buona parte, tutto è stato, per quanto abbiamo potuto, registrato, col mio gruppo ri-stretto: Rami Jaffee a tutta la roba di tastiera, Val Mc-Callum alla chitarra, Butch [Norton] e Dave [Sutton], la mia abituale sezione ritmi-ca. Greg Leisz [steel guitar] qualche volta è venuto. Era tutto, in realtà. Quei ragazzi, più Matthew e Elvis.

Negli anni hai scritto molte canzoni a propo-sito di amici che si sono autodistrutti o sono mor-ti, e su questo disco (Bles-sed – ndr) ce ne sono due: Copenhagen, sulla morte del tuo manager, Frank Callari, e Seeing Black, sul suicidio di Vic Che-snutt.Sono venute fuori molto in fretta, davvero. Una specie di esplosione emotiva men-tre scrivevo durante la fase di stesura. Magari avevo già qualche verso per Copen-hagen, ma per come me la ricordo, l’ho scritta piuttosto

in fretta, e con Seeing Black è stato lo stesso. Ho saputo del suicidio di Vic Chestnutt mentre scrivevo. E anche un altro mio amico si è tolto la vita, circa sei mesi prima o giù di lì. Non parla davvero di Vic. Il suo suicidio ha ispirato la canzone.

grossa per qualcuno che una vol-ta ha chiamato se stesso “Manine di Cemento.”Lo so. Non voglio farlo sembrare un disco malriuscito, ma quella è stata un’idea di Tom. [Ride.] Elvis era in città a finire il suo album con T-Bone Bur-nett. L’abbiamo acciuffato. Una sera

aveva qualche ora libera, e Tom gli ha mandato una mail chiedendogli se potesse suonare un po’ la chitarra. Ha risposto a Tom chiedendogli: “Sei sicuro di averla spedita alla persona giusta?” Anch’io ero sorpresa quando Tom ha detto: “Hey, sai che c’è? Voglio

posizione di fare da modello agli aspi-ranti artisti. La sua carriera è l’esempio di come si facciano le cose nel modo giusto—ironico, considerato che ha successo malgrado l’industria musi-cale piuttosto che grazie a essa. Chie-stole che ne pensasse dell’essere un tale modello, non ha segreti da rive-lare oltre al focalizzarsi sulla musica: all’inferno fama e fortuna.

“Ho cominciato tantissimo tempo fa come cantautrice solista, con solo la mia voce e le mie canzoni, e la mia forza era quella. In fondo al cuore ho sempre saputo che ‘Beh, se perdo questo contratto discografico, il mio mondo non cadrà a pez-zi e qualcos’altro succederà. Continuerò ad andare avan-ti’. Parte è solo il fattore pa-zienza—sai, tenere duro. E nell’epoca in cui sono cre-sciuta si trattava di uscire e suonare davanti alla gente. È così che ci si costruisce un seguito, e una volta che hai quello zoccolo duro, ce l’hai fatta. Poi serve solo che l’industria ti acchiappi, ed è tutto. Penso che a me sia successo più o meno così”.

Quando le si chiede cosa ne pensi dell’essere nella stessa cerchia di cantautori che lei stessa ha ammirato per così tanti anni—cantautori come Dylan e Petty e Young e Springsteen— deve sfor-zarsi per rispondere. “In ef-fetti mi manda fuori di testa pensare che forse sono nel-la stessa cerchia”, sussurra, come se un semplice ricono-scimento della portata del suo talento fosse una blasfe-mia. Poi, dopo un silenzio ancora più imbarazzato, scoppia in quella fantastica risatina del sud.

Una delle ospitate più interessan-ti del disco vede Elvis Costello alla chitarra solista, ma non alla voce, su parecchie canzoni. È roba

60 OUTSIDER LUCINDA WILLIAMS

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- Un suggestivo viaggio lungo 40 anni vissuti attraverso gli occhi e le esperienze di musica e di vita di un gruppo di giovanissimi “PROG-ROCKERS” italiani. - I loro ruggenti inizi in una stagione meravigliosa, i primi concerti, Rimini 1973, il loro percorso lontano dalle grandi e luminose ribalte, ma sempre orgogliosi protagonisti, quasi in controluce, di un affascinantissimo e multiforme movimento musicale. Uno speciale su “Gerbrand” opera Rock. - I primi riconoscimenti internazionali, le amicizie coltivate con famosissimi colleghi dell’universo Prog, concerti, partecipazioni illustri, anniversari, cene e dopo-cene, indiscrezioni e bisbocce. - Tournè, viaggi, sale di registrazione, partecipazioni e tributi e una galleria di strumenti dell’epoca.

- Un book con più di 200 pagine e foto inedite, immagini patinate di nostalgia seventies, manifesti e riviste d’annata, un lungo racconto “romanzato” con ospiti famosi, dediche e testimonianze, i primi Fans Club. Testo in lingua italiana con traduzioni in multilingue presto disponibili in apposita sessione sul sito www.capgroup.it - Nr. 2 audio CD con il recupero di outtakes, bonus tracks, altenativ mix, special e limited edition, “other languages” compreso un prezioso “best of” del loro percorso quarantennale risuonato oggi con strumenti vintage. - Nr. 1 CD con una collezione audio dei migliori momenti live estratti dai più bei Festival cui hanno partecipato in Europa e negli USA. E, inoltre, la sacralità del suono di alcuni splendidi teatri e diverse re-interpretazioni live di famosissime covers. - E quale “Special gift” del 40° Anniversario nr. 1 CD con la riedizione integrale rimasterizzata “Special Anniversary Edition” del loro album “seminale” ….NEI GORGHI DEL TEMPO irreperibile da oltre 20 anni con, in aggiunta, quale Bonus Track, uno splendido brano dall’opera rock “Gerbrand” del 1973.

Produzione: Associazione Culturale

’70: DO NOT FORGET THEM Via Roma 104

20013 Magenta (Mi) Italy mail: [email protected]

In distribuzione: BTF Srl [email protected]

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Page 62: PINK FLOYD STORY

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62 OUTSIDER JEFF TWEEDY

Page 63: PINK FLOYD STORY

JEFF TWEEDY

TRYING TO BREAKYOUR HEART

NO DEPRESSION

di Dean Budnick // Relix

Uncle Tupelo e Wilco sono state due delle realtà oggetti-

vamente più importanti dell’ultimo trentennio musica-

le a stelle e strisce: la prima in grado di dare vita a un’in-

tera scena (la cosidetta ‘No Depression’); l’altra capace di

mantenere una precisa identità in cui tradizione e in-

novazione diventano la stessa cosa abbracciando l’am-

pissimo spettro di rock americano che va dalla Band

di Robbie Robertson ai Sonic Youth di Thurston Moore

passando per i Replacements e i Buffalo Tom: quello che

una volta chiamavano alt-country è solo il punto di par-

tenza, l’arrivo è l’infinito. Elemento comune a tutto ciò,

Jeff Tweddy, che nonostante cambi di rotta, rotture pro-

lungate, incontri/scontri, collaborazioni più disparate,

ha attraversato tutto questo senza lasciarci le penne,

pur morendo, parafrasando uno dei suoi testi più celebri

e pregnanti. Provando, sempre e comunque, a spezzarti

il cuore. In occasione dell’uscita di Sukierae, il nuovo al-

bum realizzato in collaborazione con suo figlio Spencer,

parla dei suoi metodi compositivi, nonché del potere

consolatorio della musica.

63OUTSIDER

Page 64: PINK FLOYD STORY

cle Tupelo, poi si passa a Pigeons e New Moon, delicate canzoni dalle atmosfe-re evocative costruite intorno a crudi arrangiamenti di chitarra e voce, un paio di canzoni piuttosto lunghe che presentano un andamento circolare, quali Diamond Light Pt.1e Slow Love ed una sequenza di canzoni scritte con anima e cuore, fino all’ultima, I’ll Ne-ver Know nella quale Tweedy raccon-ta del tempo trascorso con la madre a vedere i film di Judy Garland. In altri momenti l’album sembra pescare dalla discografia di Tweedy, strizzando l’occhio alle varie sfaccettature degli album degli Wilco come High As Hello che ricalca la stessa andatura svoglia-ta di Handshake Drugs da A Ghost Is Born, oppure Summerteeth che viene richiamato dall’energico pop da viag-gio di Low Key, mentre lo scheletro di

bum, questo è stato ciò che ha detto: “Quando ho deciso di realizzare questo disco, avevo pensato di farlo da solo, ma l’idea non era quella di registrarlo chitarra e voce. La mia intenzione era quella di comporre tutte le canzoni, suonare tutti gli strumenti ed anche cantare. Ma il fatto è che Spencer è sta-to con me sin dall’inizio del processo creativo ed ha senz’altro contribuito allo sviluppo artistico del disco. Il pro-dotto finito è un disco da solista suona-to da un duo”.Ciò che è venuto fuori da queste regi-strazioni è un doppio album cucinato a fuoco lento che spesso riserva piace-voli sorprese. Si viaggia attraverso stili differenti: per cominciare la chitarra straziata dal rosario di note di Please Don’t Let Me Be So Understood, che ricorda le prime registrazioni degli Un-

“Avevo pensato di chiamare solo per-sone che desiderassero cambiare il loro cognome in Tweedy per promuo-vere l’album in questo senso”, racconta Jeff Tweedy, fondatore e leader degli Wilco nonché degli Uncle Tupelo, spiegando come lui e suo figlio Spen-cer abbiano individuato chi chiamare per contribuire al loro esordio di coppia al quale poter dare così, come titolo, il nome di famiglia. Ma, come era logico che fosse, le cose non hanno seguito questa impostazione così rigida – Jess Wolfe ed Holly Laessig del quintetto indie di Brooklyn Lucius e Scott Mc-Caughey, uno dei componenti dei Mi-nus 5, hanno mantenuto i loro cogno-mi – anche se l’album (che abbiamo recensito lo scorso mese su Outsider – ndr) è di fatto il risultato di una stretta collaborazione padre-figlio.L’idea di lavorare insieme era partita da alcune tracce di batteria realizzate da Spencer per il secondo album pro-dotto dal padre per Mavis Staples, One True Vine, uscito nel 2013. Con gli altri componenti degli Wilco impegna-ti in progetti personali dopo l’uscita dell’ultimo disco del gruppo nel 2011, The Whole Love, Tweedy aveva cerca-to di prendere una boccata d’aria fresca impegnandosi nella realizzazione di un disco senza la sua band, convinto del fatto che lavorare senza le tipiche pressioni che caratterizzano il lavoro di un gruppo avrebbe dato dei risultati più che positivi. Suonare insieme è sempre stato un otti-mo modo per trascorrere il tempo per i due Tweedy, un passatempo che prima o poi avrebbe dato vita ad un disco. Così come nell’album della Staples, Spencer aveva già suonato con il padre su Bal-lad Of The Opening Band, un singolo realizzato per aiutare Slim Dunlap dei Replacements (colpito da un infarto nel Febbraio 2012 N.d.T.), ed aveva re-alizzato anche un altro singolo, a nome Raccoonists nel quale padre e figlio avevano suonato con il più piccolo dei figli di Tweedy, Sammy. Dopo aver abbozzato delle demo con il semplice aiuto del suo I-phone, Twee-dy aveva arruolato Spencer, batterista provetto, già attivo con il suo gruppo, i Blisters, ma anche con gli Wilco dal vivo, per dare forma a quelle canzoni. E quando fu annunciata l’uscita dell’al-

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non si può ancora definire vinta, Twee-dy racconta che c’è ottimismo da parte dei medici su un pieno recupero di Sue. Il dolore, così come la capacità di recu-perare sono temi portanti nel disco, ad esempio in Diamond Light Pt.1; il ver-so: “Sei spaventato? Impaurito? Hai il terrore di rimanere solo?” crea un pa-thos profondo, forse troppo profondo a causa dei riferimenti autobiografici. Ciò non vuol dire che Sukierae, titolo ispirato dal nome Sue, sia un album irrimediabilmente cupo e disperato, tutt’altro: siamo di fronte ad un lavo-ro cesellato con l’amore e la speranza, dove peraltro si giunge a patti con la fine dell’esistenza. Ce lo ricordano le parole finali di Nobody Dies Anymore che recitano: “È strano, difficile da dire,

ma amo il modo in cui finiscono tutte le canzoni”.Dopo un’estate trascorsa in tour con in scaletta le canzoni dell’album, accompagnato da Spencer e da una band composta da Jim Elkington alla chitarra, Darin Gray al basso e Liam Cunningham alle tastiere, e dopo alcune date con gli Wilco effettuate prima di dedicarsi alla composizione delle canzoni per il nuovo album, ab-biamo telefonato a Tweedy a Chicago per parlare di Sukierae a partire dalla sua genesi.“Credo ci siano stati diversi motivi, molte coincidenze che mi hanno por-tato a ritenere che fosse il momento giusto per realizzare un album da soli-sta. Uno dei motivi è il seguente: ave-vamo trascorso un sacco di tempo in tour con gli Wilco negli ultimi anni,

Ma c’è un altro motivo per il quale padre e figlio si sono messi insieme al lavoro per realizzare un nuovo album. Nel corso delle registrazioni, alla mo-glie di Tweedy, Sue, co-proprietaria di uno dei locali più importanti per la mu-sica alternativa a Chicago, il Lounge Ax, una vera e propria istituzione, era stato diagnosticato il linfoma non-Hodgkin. La stessa Sue che nel 2004 si era presa cura di Jeff quando questi sof-friva di una patologica dipendenza da farmaci che si innestava su una grave forma di depressione e Tweedy si era dovuto sottoporre ad un doppio percor-so riabilitativo; ora i ruoli si sono inver-titi ed è Jeff ad accompagnare la moglie alle sedute di chemioterapia. Se è vero che la battaglia contro questa malattia

un brano originariamente pensato per Being There si rianima in I’ll Sing It. Lo stile di Tweedy si manifesta inequivo-cabilmente nella produzione di chitar-re molto presenti e dissonanze sonore che attraversano il disco e sembrano segnalare, a chi non lo avesse già colto, che si tratta di un prodotto del Loft, lo studio degli Wilco a Chicago. La colla-borazione padre-figlio tuttavia dà vita ad un nuovo scenario, uno stile diver-so ma ben definito che si manifesta soprattutto nelle canzoni più lunghe, ed in special modo in Slow Love, dove l’incedere robusto della batteria jazzeg-giante di Spencer sorregge un brano sa-turo di riverbero, onirico quanto basta e nel quale l’elettronica si insinua qua e là con alcune note di piano.

No Depression degli Uncle Tupelo fu pubblicato nel

1990 e riprendeva il nome da una storica canzone della Carter Family. Poi

diventerà prima una fan-zine, poi un vero e proprio

movimento. Adesso un importante sito on line.

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Io e mia moglie siamo davvero fortu-nati, dal momento che i nostri figli, benché adolescenti, hanno ancora enorme piacere a trascorrere con noi il loro tempo [ride] ed a comunicare con noi. Se mi chiedi come sia suonare con Spencer, posso dirti che è una cosa piuttosto naturale. Abbiamo sempre suonato insieme, in cantina, in altre occasioni, dovunque. Il disco è la nor-male continuazione di un rapporto pa-dre-figlio che sono musicisti e trovano normale e spontaneo suonare insieme.

Per molti aspetti questo nuovo album mi ricorda Being There, in special modo per le sue caratteri-stiche sonorità. Avevi già in mente un album così vario e multiforme?Non ci penso mai in fase compositiva. Tuttavia è quello che è successo anche in tanti dischi degli Wilco, nei quali ab-biamo sperimentato molto ed abbiamo suonato diversi stili musicali. Potrebbe essere ciò che succede quando si hanno gusti diversi all’interno di una band, o potrebbe dipendere dal fatto che forse non ho io stesso un gusto ben definito

canzoni sarebbero state più belle con un accompagnamento, degli interven-ti strumentali insomma che potessero conferire ai brani maggiore corposità. Ho cominciato a produrre qualcosa in questo senso e a Mavis sono piaciu-ti i miei demo, così come è piaciuto il modo di suonare di Spencer. Ho capito che si poteva continuare su questo per-corso, accettando la sfida con me stes-so e cominciando a suonare per il solo piacere di farlo, prendendomi il mio tempo, e senza badare eccessivamente alle spese, dal momento che il processo creativo era ben avviato ed io ci stavo provando gusto. Diciamo che è andata così anche per il mio disco. Anzi, non ci siamo mai fermati dopo il disco di Ma-vis, abbiamo semplicemente continua-to a lavorare nello stesso modo.

Hai parlato delle affinità musicali fra te e tuo figlio Spencer e della vostra capacità di lavorare insie-me, quasi foste una sola persona. Cosa ci puoi dire di più su questo aspetto della vostra collaborazio-ne?

ed avevamo terminato con Spencer le registrazioni di Mavis, trascorreva-mo davvero dei bei momenti insieme assemblando canzoni e pensando al prossimo disco degli Wilco. Una cosa peraltro molto complicata dato che ognuno dei componenti degli Wilco era impegnato in progetti collaterali. Ma al posto di scoraggiarmi ho sem-plicemente pensato che è giusto ogni tanto prendere una boccata d’aria, ed allora ho preso in mano la situazione ed ho pensato che fare un disco senza gruppo sarebbe stata un’esperienza molto positiva.

Che sensazioni hai provato quan-do hai cominciato a registrare?Beh, come ho detto, credo di aver fat-to un primo assaggio con la produzio-ne del disco di Mavis, assemblando le varie tracce di accompagnamento. Di-ciamo che questo è stato il mio primo disco da solista – sulle prime io e Mavis avevamo pensato di realizzare un disco molto scarno, chitarra e voce, ma presto ho cominciato a vederla in modo diffe-rente. Ho cominciato a pensare che le

COMPILATION IN ARRIVO

I Wilco avevano già annunciato l’intenzione di cele-brare il loro 20° anniversario con un paio di compila-tion: un best e un cofanetto di rarità. Entrambi sono usciti il 17 novembre via Nonesuch. What’s Your 20? Essential Tracks 1994-2014 è una doppia compilation che comprende brani di tutti gli album in studio di Wilco, più un paio del loro proget-to su Woody Guthrie, che celebra ‘Mermaid Avenue’, con Billy Bragg, mentre Alpha Mike Foxtrot: trare Tracks 1994-2014 è un box di 4-CD/4-LP comprende brani live (tra i quali I Must Be High, Casino Queen, Forget The Flowers, Sunken Treasure, I Got You (At The End Of The Century, Outta Mind/Outta Site), tagli demo (Childlike And Evergreen, She’s A Jar…) e registrazioni rare (James Alley Blues con Roger McGuinn dal vivo, The T.B. Is Whipping Me con Syd Straw…) spalmati su tutta la lunga carriera della band con interventi di Feist, Fleet Foxes e Andrew Bird. Entrambe le uscite sono state prodotte da Cheryl Pawelski, che su Alpha Mike Foxtrot ha detto questo: “Come un sacco di fan, avevo raccolto queste tracce sbandate nel corso degli ultimi due decenni mentre seguivo ogni mossa di Wilco. Comprende cose apparse apparse sulle colonne sonore, album tributo e B-sides, e ci sono probabilmente un paio di sorprese per anche il colle-zionista più attento. Questa serie presenta una storia alternativa della band, diciamo con una vista laterale, e in ultima analisi, si tratta di un ascolto super”.Insieme con le nuove uscite, Wilco terrà quello che viene chiamato il ‘Wilco Winterlude’, suoneranno sei notti nella loro città natale, Chicago, al Riviera Theatre, dal 5 al 12 dicembre. Ogni sera sarà caratterizzato da una scaletta diversa concentrandosi su canzoni da diverse epoche della carriera della band.

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Diciamo che è dovuto alla mia prover-biale insoddisfazione, o alla noia [ride]! Un modo per darmi una scossa, met-tere in discussione il mio ego, esplo-rare alcuni luoghi reconditi della mia mente nei quali credo meno di quanto non creda al mio subconscio. Cerco di raggiungere qualcosa da poter apprez-zare di me che non sia espressione del mio tipico me, del me che credo di co-noscere.

Hai usato altri tipi di tecniche?Certo, ci sono diversi tipi di approccio, si può provare con degli esercizi di scrittura, o giochi surrealistici attraver-so i quali si può dar vita a poesie o testi per canzoni. Ma finisco sempre per ri-condurre il tutto al suo primo substra-to di coerenza, altrimenti non sarei in grado di ricordare i testi delle canzoni una volta trascorso tanto tempo dal-la composizione. Si possono prendere ad esempio tutti i verbi adoperati da Emily Dickinson nelle sue poesie, per combinarli con i sostantivi presi da The Battle Hymn Of The Republic. Se fissi delle regole a tavolino e le segui pedissequamente, le cose finiscono per prendere forma ed assumere un pro-prio significato. Le cose acquistano ma-gicamente senso, che noi lo vogliamo o no, e mi sento a mio agio maggiormen-te ricercando tale significato, piuttosto

pressionismo verbale, al limite del comprensibile, come nel caso di Diamond Light, due stili che è pos-sibile ritrovare in Suckierae. È una valutazione condivisibile?Sicuro. Mi piace scrivere in entram-bi gli stili, ma non credo che in effetti tutto possa essere ricondotto a due soli stili diversi – ce ne sono senz’altro più di due, ma alla fine sembra possibile distinguerne soltanto due, non è così. Veniamo a Diamond Light, posso ca-pire che ascoltandola possa sembrare sghemba dal punto di vista del conte-nuto, criptica, ma il processo creativo dietro questo pezzo è il seguente: le parole le ho prese in prestito dai Salmi, mentre leggevo la Bibbia. Traducevo ciò che leggevo in lingue differenti, quindi traducevo di nuovo nella mia lingua, provando a dare a questo pun-to un senso compiuto al tutto senza essere risucchiato nelle paludi dell’ov-vio. Ho ottenuto così un risultato me-ticcio. Non so, potrebbe essere il mio sistema per accelerare i processi di evo-luzione del linguaggio o qualcosa del genere: come suoneranno queste paro-le fra qualche migliaio di anni? Come saranno percepite, che significato sarà ad esse attribuito dalle persone?

Come sei arrivato a questo approc-cio?

[ride]! Mi piace semplicemente ascol-tare la musica ed ho tonnellate di di-schi. Non sono mai stato quel tipo di musicista che si chiude nel suo piccolo mondo sonoro e persegue un preciso obiettivo estetico. Mi piacciono gli arti-sti che riescono a farlo. Per quanto mi riguarda me lo chiedo in continuazio-ne – non proprio in continuazione, ma senz’altro più di qualche volta – eppure non credo di poter fare in modo diffe-rente, questo è lo stile che mi soddisfa, continuare a produrre il White Album o, per meglio dire, la mia versione del White Album.

C’è un suono in particolare di cui volevo chiederti, alla fine di Dia-mond Light Pt.1: quasi nascosto, sembra ottenuto letteralmente colpendo il basso, e in breve pren-de il sopravvento e nasconde tutto il resto. Mi ha ricordato Less Than You Think da A Ghost Is Born nel quale alcuni loops volevano tra-smettere l’idea di una persistente emicrania. C’è qualcosa di simile anche qui?C’è molta sperimentazione nel disco e tanto di quello che si prova in studio non lo trovi più nel prodotto finito. Nel caso di cui tu parli, si tratta di un espe-rimento che ha prodotto un risultato così coinvolgente e piacevole che sa-rebbe stato un peccato non farlo finire sul disco. Mi piace da morire. Quello che senti è il suono rallentato di una drum-machine che ho usato come ‘traccia-clic’ sulla quale far suonare Spencer. Una specie di sfida per vede-re cosa sarebbe riuscito a tirare fuori mio figlio da una base così stramba [ride]! Abbiamo poi costruito un brano sulle variazioni che Spencer riusciva ad effettuare suonandoci su, questo è tutto.

In un’intervista rilasciata al ‘Time’ parlavi di Country Disap-peared e dicevi: “Ci sono imma-gini in questo brano che vorrei trasmettervi senza dare troppe spiegazioni, né specifiche opinio-ni […] questo è quello che è per me – una serie di immagini.” Sembra che le parole delle tue canzoni si siano spesso divise fra testi diretti e narrativi e momenti di puro im-

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Parliamo ora di una canzone che presenta un testo chiaro e com-prensibile come Sky Blue Sky. Co-nosco una persona che ha trovato un grande conforto in questo bra-no, e mi chiedo se tu provi sensa-zioni diverse quando componi se-guendo percorsi differenti.Se il mio Io scompare mentre realizzo qualcosa, sento di aver raggiunto l’o-biettivo, ed in questo senso, entrambi gli approcci mi danno la stessa bella sensazione. Come ho detto, il mio te-sto più incomprensibile, o quello che può sembrare un esercizio fine a se stesso, tutte le parole scritte finiscono per avere per me i significati più di-sparati. Sento un legame emozionale molto profondo che si sviluppa anche attraverso la melodia per quanto mi riguarda – parole e musica diventano un tutt’uno – tuttavia idealmente mi piacerebbe che si potesse provare un senso di consolazione sia di fronte a testi chiari e limpidi che davanti a pa-role un po’ più criptiche e significati più

esistenza - al netto di tutto lo stress che deriva dall’obbligo di seguire la corren-te e farsi intrappolare dai gusti del pub-blico – e questo è quello che ho fatto nel corso della mia esistenza.

che provando a realizzare personal-mente qualcosa di profondo.

Fantastico, come suggeriscono gli psico-geografi che dicono di trac-ciare un percorso sulla mappa di una città nota, per poi sovrapporlo alla mappa di una città che si desi-dera visitare e sperimentano que-sto singolare sistema di approccio turistico.È una corretta analogia, dal momento che stai usando la casualità, una certa dose di casualità per guardare con oc-chi diversi ciò che ti si para di fronte. È un modo per guardare meglio le cose, per descriverle meglio e per ascoltare meglio. Sarebbe davvero scoraggiante dover scrivere qualcosa che risulti per-fetto sia dal punto di vista dell’ascolto che da quello della comprensione . C’è così tanta pressione dall’esterno, ma io ho sempre pensato di legare la mia creatività all’idea di gioco, così che mi sono fatto l’idea che si può senz’altro mantenere il controllo della propria

Il fatto è che Wilco è nato come un progetto di muta-zione naturale degli Uncle

Tupelo. La line-up era la stes-sa, fatta eccezione di Farrar. Fu una cosa naturale. Sono convinto che tutti i gruppi prima o poi si trovino a do-

ver affrontare un passaggio così. Quando si percepisce una punta di stanchezza

bisogna farlo.

2010 Jeff Tweedy, Pat Sansone, Beck and Elton John (Larry Busacca/Getty Images for NARAS)

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me accettare l’idea di suonare per una sala riempita da tanti Jeff Tweedy.

È chiaro che quest’album è nato in un periodo molto doloroso dal punto di vista della tua esperien-za privata. C’è una relazione fra la musica e queste sensazioni? È stato positivo comporre, il processo crea-tivo ti ha dato qualche sollievo?È stato senz’altro positivo, ma non solo per me, per tutta la nostra famiglia. È stato un periodo difficile, e l’ansia non si è ancora del tutto sopita, sebbene le premesse per una guarigione completa ci siano e questo aspetto ci sta aiutando molto ad essere fiduciosi per il futuro. Avevamo terminato il disco proprio in coincidenza con l’inizio di questo periodo così triste e per me e Spencer è stato importante mantenersi occupati, contribuiva a ripristinare il senso del-la normalità che si stava smarrendo. È decisamente normale nella nostra fa-miglia che io lavori ad un nuovo disco e questo impegna tutti i componenti, non solo me o Spencer, anche mia mo-glie ed il nostro figlio più piccolo, così tutti hanno partecipato ed hanno po-tuto assistere al processo compositivo traendo un grande conforto dall’ascol-to di brani che crescevano e prendeva-no forma a poco a poco. È stato un ot-timo toccasana per allontanare paure, tristezza e quel terribile senso di ansia, ma spero che dal disco non traspaia tutto questo; preferisco che trasmetta un’emozione molto più profonda, ov-vero di quanto sia salvifico accettare di buon grado ciò che è trascendente, che cioè non dipende dalle nostre azio-ni. È un disco che vuole regalare una speranza, deve regalare una speranza e ci siamo concentrati proprio su que-sto aspetto che si è rivelato poi essere esattamente quello di cui proprio noi avevamo bisogno. Per questo motivo abbiamo usato il nome di mia moglie per il titolo; lei è presente in ogni sin-gola traccia e non c’è stato un solo mo-mento nel quale non abbiamo pensato a lei mentre realizzavamo il disco.

Ed in effetti il disco trasmette que-sta sensazione di attesa tranquilla e fiduciosa; inoltre mi hanno mol-to colpito Wait For Love e Slow Love in cui sembra possibile tro-

nascosti. Peraltro io stesso ho molto da dire e capire, dal momento che mi sono spesso commosso per brani strumen-tali, ad esempio, e questo forse perché, al di là di quanto possa essere efficace il messaggio, credo che il fatto stesso di essere di fronte al prodotto intellet-tuale, artistico di qualcuno sia di per sé una cosa emozionante. Non è il quadro in sé, ma lo stesso fatto che quel quadro ci sia, che qualcuno abbia pensato di realizzarlo, è questo che mi emoziona.

Si potrebbe dire che c’è un legame fra questo album ed i dischi degli Wilco – nella canzone Low Key quando dici “Quando sembra che non me ne importi più niente, è solo che sto assumendo l’atteggia-mento del duro”, ho ripensato a Please Be Patient With Me, nella quale dici “Non importa se non mi interessa, comunque è importante che io ci sia”. Mi chiedo se questa sia un’affermazione conseguente ad un rifiuto, o il sintomo di una in-capacità di comunicare emozioni…Diciamo che potrebbe essere così, ma si potrebbe trattare anche di qualcosa di molto più immediato.

C’è una grande probabilità che io abbia caricato troppo di significa-to delle frasi molto spontanee…[ride] Sì e no! È anche la mia predispo-sizione quella di lavorare molto con la testa - ed è questo uno dei motivi per cui compongo versi di quel tipo. Sia l’interpretazione letterale che l’ap-proccio più mentale sono validi. Come scrittore mi capita di indulgere ad un approccio che vada oltre il significato delle parole, ed ho capito che mi piace molto studiare questa predisposizione d’animo, più che il contenuto in sé. In Low Key c’è una sola interpretazione possibile – che mi ha dato molto da pensare peraltro – che stigmatizza il fatto che spesso mi è capitato di suo-nare davanti a platee che sembrava-no dimesse, troppo compassate, una cosa che mi frustrava da morire, fino a quando ho realizzato che si trattava di caratteri molto affini al mio. C’è una buona probabilità che la peggiore pla-tea che mi possa capitare sia composta da persone più vicine al mio sentire che da altri, ma è davvero difficile per

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non c’è proprio la predisposizione ad accontentarsi, anzi c’è il deside-rio di mettere da parte ciò che si è fatto e mettere sempre nuova car-ne al fuoco. Provo sempre un brivido positivo quando cerco di andare dal punto A al punto B, perché non so mai quale sarà la strada che sceglierò. La cosa ideale sarebbe perdersi nella giungla e cerca-re la via d’uscita. Quando suoni tutte le tue canzoni in giro con il tuo grup-po per prolungati periodi di tempo e poi ti ritrovi in sala di registrazione, si può avvertire un certo distacco, viene a mancare quella scintilla e questo a vol-te può spaventare perché puoi pensare di essere alla frutta, di non avere più nulla da dire. Un altro ottimo motivo per fare una lunga e rigenerante pausa.

Questo lavoro da solista ha cam-biato un po’ il tuo modo di vedere gli Wilco?Assolutamente no. Anzi mi ha ispi-rato, ha fatto ciò che doveva fare, mi ha dato le stesse sensazioni che credo provino gli altri quando lavorano ai loro progetti personali. Inoltre mi sen-to più energico, più produttivo ed an-sioso di esplorare nuovi territori con il mio gruppo. È questa la mia prossima meta.

© IFA - Amsterdam, 2014Traduzione di Davide Lancieri

nel sentire comune.Non scherziamo, gli ospedali sono pie-ni di malati con patologie mentali che non avviano alcun processo creativo, così come c’è tanta gente felice in grado di produrre cose meravigliose quan-to dolorose. Molti sono gli esempi in cui artisti perfettamente equilibrati in termini di carattere abbiano prodotto pezzi di un certo impatto emotivo ed in generale non c’è alcun dato che pos-sa provare scientificamente che ci sia una qualche relazione fra arte e soffe-renza. Anche se ogni volta che spunta un qualche artista che abbia sofferto di malattie della mente o che abbia avuto periodi di grave dipendenza da droghe, lo stesso viene preso come prova in-confutabile di un’affermazione che, lo ripeto ancora una volta, ritengo assolu-tamente fuorviante.

Mi sembra che questo sia il perio-do più lungo trascorso fra un disco degli Wilco ed il successivo. Che succede?Penso che sia un bene. Da sempre i componenti degli Wilco hanno proget-ti paralleli, e man mano che cresciamo di età come di numero, anche i progetti si moltiplicano. Tutte le volte che in-contro Nels [Cline, chitarrista degli Wil-co] mi racconta dei suoi ultimi cinque dischi. Ma davvero non so rispondere alla tua domanda, è come se stessimo prendendo sotto gamba il lavoro de-gli Wilco, si davano forse troppe cose per scontate e c’era un eccessivo senso di appagamento. Sento però che la tavoloz-za è stata finalmente pulita ed è possibi-le aggiungere tutto quello che solo ora mi sembra possibi-le aggiungere, con tutto il bagaglio di nuove esperienze acquisite, cosa che sarebbe stata impos-sibile fare se avessi-mo continuato a fare sempre le stesse cose.

È uno dei punti di forza degli Wilco:

vare un senso di pace, così come Nobody Dies Anymore in cui si raggiunge anche l’obiettivo della stabilità.Ti ringrazio. Diciamo che hai colto nel segno, evidenziando il lato positivo di questa orribile esperienza… Per fortu-na abbiamo una famiglia molto uni-ta, ed abbiamo raschiato il fondo del barile per trovare una forza che non mi aspettavo saremmo riusciti a tirar fuori! Ciò che alla fine conta è quanto ci è successo quest’anno – certo ogni fa-miglia ha la sua dose di sofferenze con cui si deve confrontare, non so come si possa fare ad uscire indenni dalla vita che viviamo, ma ho capito anche che i rischi aumentano a dismisura nel mo-mento in cui ciascuno di noi comincia a circondarsi di affetti, magari forma una famiglia. Ho realizzato questo a se-guito della nostra esperienza. Mi sono occupato per la prima volta di mia moglie, dal momento che in passato è stata piuttosto lei ad assistermi ed inco-raggiarmi. Aver constatato di essere in grado di dare anch’io qualcosa è stato per me sorprendente, anche perché anche lei sa ora cosa io sia in grado di dare. Non c’è nulla di semplice, non si prova un singolo stato d’animo, la vita è una continua girandola di emozioni e sollecitazioni.

Hai parlato prima del tuo bisogno di produrre qualcosa nei momenti di maggiore sconforto, ed è bello sentire che in effetti sei riuscito persino a tirar fuori qualcosa di po-sitivo.È vero, mi hanno chiesto in molti ed ho parlato parecchio della estrema sen-sibilità degli artisti e del loro destino segnato da una profonda sofferenza. Ma mi infastidisce questa lettura, anzi credo esattamente l’opposto, ovvero che gli artisti riescano a sopportare maggiormente le sofferenze in virtù della loro capacità di estraniarsi, meta-bolizzare e tirar fuori qualcosa di bello, o di artisticamente valido: è quello che mi succede e davvero non condivido quanto dicono i più, ovvero che gli arti-sti soffrano più degli altri, o che si debba soffrire per avviare un processo creati-vo. Tutto ciò per me non ha senso.

Eppure è un concetto ben radicato

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Musicalmente gira tutto intorno alla sensazione; con una maggiore semplicità sarebbe un cliché, ma la sua esecuzione è perfetta e diventa un vero ritorno a Guthrie: “It seems we’re all looking for/a life worth livin’” (“Sembra che stiamo tutti cer-cando una vita che valga la pena di essere vissuta”).

Potrebbe essere un segno di giovi-nezza cocciuta il fatto che le due co-ver country tradizionali dell’album spiccano alla grande in No Depres-sion, ma è più probabile che ci mostri la band come (per ora) dei performer più che come dei compositori; John

Hardy e No Depression funzionano quasi come compensa-zione per una band che, come dichiarò il batterista Heidorn, sentiva solo di contribuire a una lunga linea storica di scarse registrazioni country. Invece di prendersi la loro corona come re del country alternativo, il loro continuo impegno nei con-fronti delle loro radici è ciò che colpisce maggiormente: No Depression viene reinventata a partire dal suo sound gospel anni ‘40 e ribaltata con uno slancio affascinante, anche se la chitarra acustica rimane la stessa per entrambi i gruppi. John Hardy prende il sopravvento su Lead Belly e fa un lavoro si-mile di mantenimento del suono ma a un ritmo impercettibile – qui i Tupelo alla fine lo perdono e diventano in tutti i sensi una band più potente.

Mentre la sua reputazione è controversa – e per la maggior parte ad opera della stessa band – quello a cui No Depression in termini non esitanti dà inizio è la struttura degli Uncle Tu-pelo come dovrebbe essere. Dolci ballate inseguono ritmate canzoni cow-punk adatte ai 13 anni, e quello che ne esce è un disco di conflitto musicale – i Tupelo potrebbero anche stare rendendo il loro omaggio alle icone del country, ma c’è anche uno sgradevole dito medio che attraversa l’album troppo ve-locemente per delle scuse. Quello che ne risulta è una band troppo grande per i suoi stessi stivali, ma troppo sincera perché questo possa essere un problema. La ristampa per la collana “Legacy Recordings”, comprende due cd. Il primo contiene l’album originale rimasterizzato da Vic Anesini con nuove note di copertina rispetto all’originale. Il secondo contiene 17 canzoni della band originale risalenti agli anni 1987-1988-1989, mai apparse su cd. Mi risulta che nel-la prima edizione la Sony abbia incluso nel packaging anche un vinile in 7 pollici con la cover di I Wanna Be Your Dog de-gli Stooges e Commotion dei Creedence.

Per darvi un’idea di quanto sia im-portante questo disco, tenete conto di questo: non soltanto è l’album che prende il nome dalla canzone dei Carter Family – un classico country da cui gli Uncle Tupelo hanno tratto ispirazione – ma di con-seguenza è anch’esso eponimo delle successive band di questo genere che si sono unite nel prendere ispira-zione dall’album e dalla sua eredità. Troppo importante per il suo stesso bene? Con discussioni che sembrano correre avanti e indietro come è suc-cesso esattamente per il genere poco sorprendentemente intitolato ‘no depression’ e con la band che aveva la tragedia scritta su tutta se stessa dopo bizzarre ricadute, è dif-ficile non sentirsi come se lo spettacolo di Farrar e Tweedy avesse avuto crudelmente quello che si meritava per aver ap-parentemente dato ai moderni fan del country il loro album tipo “non ci avevo mai pensato!”.

A questo punto nel tempo, due terzi Son Volt e un terzo Wil-co, sembra fissato nella storia che il 1990 segni l’anno che rap-presenta i Tupelo in un fronte assolutamente unito. Siccome Farrar dà la colpa, qualunque cosa accada, ai problemi comu-nicazione, raramente per il loro debutto hanno l’espressione giusta per affrontare il gioco. I Tupelo potrebbero essere visti come una band dal duplice ego non ancora rivelato total-mente, e le canzoni si adattano facilmente alla storia: Farrar e Tweedy cambiano le parti principali del testo di quasi tutte le altre canzoni e in modo così prosaico, come se non bastas-se – bisogna arrivare fino a oltre Graveyard Shift, That Year e Before I Break per trovare quella catena per frenare tempora-neamente. Sarebbe semplicemente sbagliato dipingere Farrar come un maniaco del controllo, modo in cui viene descritto spesso, come quando Tweedy usa l’album come se fosse il suo personale forum per due canzoni, mentre Farrar lo fa una vol-ta sola. Le canzoni di Tweedy sono di un rock dolce/amaro, Train che è la sorella più evoluta della più coraggiosa Flatness e che schiaccia l’etica country della band con il suo sound sem-plicemente fantastico – chitarre, batteria e il resto. Farrar è il suo corrispettivo in ogni aspetto con la semi-profetica So Cal-led Friend che sfreccia ad alta velocità. Il lavoro di squadra del gruppo a mala pena si distingue da quei tentativi individuali di successo, ma la collaborazione civile fa miracoli: Life Worth Livin è una delle più grandi pugnalate della band al cuore lan-cinato dal dolore, e quella non è per nulla un’impresa facile quando sai scrivere una canzone bella quanto Still Be Around.

UNCLE TUPELONO DEPRESSION – REISSUE 2014

di Robin Smith

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L’ulcera, magicamente, scompare quando ascolto i Wilco. Perché rin-saldano il mio ego, le mie certezze; e quando il buon vecchio (?!?) Jeff Tweedy ti chiede “Do You Still Love Rock And Roll?” la consapevolezza che stai dicendo la verità nel rispon-derti mentalmente in maniera più che affermativa, si accompagna alla voglia di urlare a tutti “basta che sia tu a farlo, perdio!!!”.

I Wilco, magicamente, riescono ad essere la migliore band in circolazio-ne per chi ami l’American Music (così non dobbiamo perder tempo a definire generi, tra alternative folk-ster, post-rockers, new guinness, one

re ed osservare, senza battere ciglio, gli stadi (o i palazzetti o quel che volete voi) riempirsi di discepoli adoranti ar-tisti che hanno scritto al massimo una mezza manciata di pezzi buoni - se proprio va bene un disco (qualità co-munque sufficiente a surclassare il re-sto della truppa, dato che nel paese dei ciechi l’orbo è re). Certo, per uno che da sempre ha come sogno ricorrente quello di salvare l’umanità – riguardo il salvarla da cosa il mio inconscio non ha ancora dato risposte precise, ma sarà sicuramente qualcosa di futile e stupido (cit) – è ben difficile rassegnar-si. Al tempo stesso, pare che combatte-re contro i mulini a vento porti spesso all’ulcera.

Ogni tanto, lo ammetto, anche io mi faccio venire dei dubbi. Da solo, a not-te fonda, magari dopo una serata stor-ta, ecco, può capitarmi di pensare che forse se il 99% di quello che sento de-finire “epocale”, “imperdibile”, “capo-lavoro” mi risulta eccitante meno del ricordo di nonna che, arrancando, si avvicinava ad pentola con l’evidente intento di lessare delle patate… que-sto sia da attribuire unicamente a mie manchevolezze. Forse è l’età, ho ascol-tato troppa musica, via: un tempo ci dicevano ammiccando che riguardo al rock non dovevamo fidarci mai di chi avesse più di trent’anni, e adesso che abbiamo ampiamente scollinato forse dovremmo semplicemente tace-

WILCODO YOU STILL LOVE ROCK AND ROLL?

FIRENZE // OBIHALL – 11.10.201

di Alessandro ‘ Pumba’ Nutini

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irrimediabilmente blockbusters. Beh, verso la fine del concerto dopo aver ascoltato un repertorio che nel pano-rama attuale ha pochi eguali (Jesus Etc., Hummingbird, Art Of Almost, Misunderstood, Ashes Of American Flags, Always In Love, Heavy Metal Drummer, I’m The Man Who Loves You e I’m A Wheel sono semplice-mente tra le più belle canzoni rock scritte negli ultimi tre lustri), ho pen-

sato che se domani accen-dessi la radio e per due ore sentissi la stessa qualità di songwriting che ho senti-to nelle due ore di stasera, probabilmente penserei immediatamente di esse-re stato teletrasportato da qualche altra parte (e in qualche altro tempo). Do-mani invece mi sveglierò, la radio passerà tumipor-tisùpoimilascicadere, leg-gerò di Jovanotti a New York, poi arriveranno an-che i Coldplay ed io avrò i miei soliti scatti d’ira.

Scrivere canzoni, capacità sempre più rara. Capacità nella quale i Wilco, me-ravigliosi interpreti del più bell’American Sound attualmente in circolazio-ne, sono maestri. The ‘best band in town’, per me. Prosit.

innestato quando la gente ha inizia-to a dire “senti che suono fantaaaaa-astico ha questa batteria/chitarra/quelchevuoitu!!!” piuttosto che “senti come suona bene questo batterista/chitarrista/quelchevuoitu-ista!” e, pri-ma ancora (i bei tempi andati), “senti che meraviglia di canzone”. Ormai scrivere canzoni è un optional, e nes-suno ci fa più caso. Tanto che banali scopiazzature, se ben fatte, diventano

shot mentre stappo un’altra song con percentuali blues, country-billy con venature low-fi, e anche un po’ sticaz-zi). Nei Wilco puoi trovare l’eco di 60 anni di musica popolare americana, dal cantautorato folk ai Pixies, dalla dilatazione psichedelica alla violenza punknoise al pop ma mai, mai sem-brano diventare qualcos’altro con non loro stessi. Sanno essere delicati come il velluto e immediatamente dopo violentarti i timpani, e sempre con la stessa classe, anzi di più: con una facilità disarmante. Sono mera-vigliosi musicisti, uno dei migliori interplay che a mio avviso si possa-no ricordare in una rockband. Questo interconnessione permette loro non solo una monolitica compattezza, ma la possibilità di mantenerla pur avventurandosi in avventure dina-miche impossibili alla quasi totalità dei gruppi rock contemporanei (per i quali la dinamica generalmente è data solo dal suonare/non suonare il proprio strumento durante l’esecuzio-ne di un brano).

Certo che per avventurarsi in certi territori bisogna saper scarpinare con destrezza. La grande bravura dei sin-goli musicisti che, baciati dalla sorte, si tramuta in una grande band che suona come un sol uomo potrebbe ugualmente tradursi in un risulta-to pressochè disastroso (la storia del rock è piena di esempi di famigerati “supergruppi”, generalmente roba da dio-ci-scampi); mentre i Wilco invece non scarpinano nemmeno: volano. Perché, a differenza della quasi tota-lità di ciò che ci circonda da un po’ di anni – con qualche nobile eccezione, naturalmente – associano alle cita-te qualità una fantastica capacità di songwriting. Senza la quale, nel rock, è un po’ come voler fare i pici senza l’aglione (orrore!).

Se devo trovare una tendenza nel rock contemporaneo, diciamo alme-no negli ultimi due decenni (ma in realtà ciò che penso è che non siamo davvero usciti vivi dagli anni ’80), è l’involuzione del songwriting a fa-vore della ricerca di groove & sound. Non so come si sia arrivati a questo, ma sospetto che il virus si sia auto

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to Brothers. Il doloroso Summerteeth del 1999 era espo-nenzialmente più sofisticato di qualsiasi cosa precedente, sebbene le sue allusioni all’eroina, ombre di abusi domesti-ci e impulsi a omicidi notturni stavano malamente a pro-prio agio con gli arrangiamenti pop attraenti e contagiosi. Certamente Summerteeth era strano e maestoso, oscuro in qualche modo, una deviazione dal genere country alterna-tivo che Jeff Tweedy aveva contribuito a inventare. Ma da

Yankee Hotel Foxtrot Tweedy è retroattivamente divenuto mol-to più di un messaggero di cose che sarebbero venute in seguito. Sotto pressione dal Chicago Sun-Times per aver abbandonato il country alternativo, Tweedy ha sdegnosamente lasciato in eredità il vecchio suono dei Wilco a Ryan Adams. E non puoi sempre ritornare a casa.Quindi Yankee Hotel Foxtrot giu-stifica le controversie, i ritardi e lo scalpore? Tutti, penso, sanno già che la risposta è sì; tutto quel-lo che posso offrire è aggiungere “anch’io” e ripeterlo. E dopo sei mesi passati con una copia bo-

otleg, la musica è sempre valida. Complessa e pericolosa-mente orecchiabile, sofisticata e provocatoria nei testi, ru-morosa e in qualche modo anche serena, il nuovo album dei maturi Wilco è semplicemente un capolavoro; è ugualmen-te meraviglioso ascoltato in cuffia, in auto, alle feste. E come sa chiunque abbia visto la diversità del pubblico che affolla i concerti dei Wilco, troverà appassionati tra gli hippies, i con-formisti, gli scolaretti mangiatori di acido e i burocrati delle etichette minori. Nessuno è troppo adatto a questo disco: e lui è migliore di noi tutti. E riguardo a tutte quelle chiac-chiere sulle influenze terminali di moda – Jim O’Rourke, il rock tedesco, e il Conet Project – Yankee Hotel Foxtrot rievo-ca una classica radio rock nel fine settimana del 4 di luglio. E tutto questo va oltre i confronti alternati con Byrds/Beat-les/Stones che vivacizzano qualsiasi recensione mai scritta su Wilco; Yankee Hotel Foxtrot rievoca gli Steely Dan, gli Eagles, Wings, Derek & The Dominos e Traffic. Lo scon-nesso e delicato piano che guida I Am Trying To Break Your Heart è morbidamente corretto con rumore, fischi e percus-sioni alla rinfusa. Come se fosse il nipotino di A Day In The Life. La pacata Kamera è oscuramente strimpellata con chi-tarre acustiche e elettriche; le cinguettanti parti elettroniche in sottofondo non mitigano il confronto con le intelligenti precise influenze jazz-blues rock dello splendido debutto dei

Dicono che il Mito sia la parte nascosta di ogni storia. Il 23 di aprile, Yankee Hotel Foxtrot vedrà la luce, dopo aver tra-scorso lo scorso anno avvolto dal suo stesso mito caotico: una gestazione ermetica in studio con l’imperscrutabile guida del mago di Chicago Jim O’Rourke; litigi intestini; conflitto, e risoluzione del medesimo, con il gigante dei media ame-ricani AOL Time Warner; una pubblicazione sinistramente prevista per l’11 settembre ma misteriosamente rimandata; le indecifrabili profezie delle ra-dio a onde corte e, casualmente, il benvenuto finale dell’eroe ai primi entusiasmanti giorni di primavera. Tutto qua: il miracolo della nascita, l’eroe improbabile, il...mmm... mentore benevolo, la minaccia primordiale, il bene che vince il male. Joseph Campbell se la farebbe addosso se non fosse morto.La narrazione miracolosa della nascita del quarto album dei Wil-co, Yankee Hotel Foxtrot, è già roba passata: bandito dalla Repri-se della Warner dal giudizio mo-struosamente miope dei dirigenti dell’etichetta che hanno giudica-to il disco uno da “fine carriera”, i Wilco hanno passato il disco tramite lo streaming dal sito Yankee Hotel a qualche milione di persone prima di firmare con la stramba sotto-etichetta progressiva Nonesuch della Warner. La via che conduce alla luce la Time Warner è lunga e dura, temo. Ma le circostanze uniche della lunga gestazio-ne di Yankee Hotel Foxtrot paiono fatte per le chiacchiere inutili di un qualsiasi dj prima di lanciare Heavy Metal Drummer. Il ritardo prolungato e lo streaming hanno collaborato per garantire che chiunque al mondo avesse già sentito Yan-kee Hotel Foxtrot in parte se non interamente, prima della pubblicazione. L’ampia circolazione digitale, la controversia aziendale, e il ronzio come di uno sciame di vespe hanno fatto di tutte le recensioni una sorta di ripensamento nel migliore dei casi. Ma il mito è sempre un ripensamento e in questi giorni, il motivo su cui mi piace di più soffermarmi è senza dubbio quello dell’Eroe Improbabile. Chi avebbe mai previsto un disco di questa portata dai Wilco? Per quanto io ami il gruppo, la verità è che sono stati insieme per cinque anni prima di produrre qualsiasi cosa che potesse competere con March 16-20 1992 o Anodyne degli Uncle Tupelo. AM è quasi da dimenticare, mentre l’esteso Being There, anche se talvolta ispirato, viaggia su sentieri strabattuti da Tom Petty con Damn The Torpedoes se non dai Flying Burri-

YANKEE HOTEL FOXTROTdi Brent S. Sirota // 2002

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che pensavo che fosse: un ottimista ed un romantico.La sua dichiarazione di voler onorare “le ceneri delle ban-diere americane” è meno cinica di, forse, la nostalgia dei convinti liberali per un onesto patriottismo. “Tutte le mie bugie sono sempre desideri” canta, “So che potrei morire se tornassi indietro nuovo”. La dichiarazione finale su Yankee Hotel Foxtrot è di una passione profonda : “ Ho avuto riserve riguardo molte cose ma non su di te”. C’è un mondo più vero da scoprire.Su Summerteeth Tweedy ululava di “presentatori che par-lano in codice” e pensavo di quel ritornello da I Can’t Stand It dove avevo sentito per la prima volta le parole yankee-hotel-foxtrot pronunciate dalla donna inglese incorporea sulla sublime raccapricciante raccolta di trasmissioni di ra-dio a onde corte, Il Conet Project, appunto, che è campiona-to sporadicamente lungo tutto il disco. E in un mondo più profondo e ponderato, forse potremmo tracciare quella linea per svelare lo stupore segreto del nuovo disco dei Wilco. Ma io non credo che ci siano segreti; e non credo che ci siano co-dici. Dietro la grande storia di Yankee Hotel Foxtrot ci sono tutte le retoriche e i simboli e le coincidenze di una piccola mitologia; ma sopratutto c’è un disco rock fantastico. E per-ché dirvelo? Lo sapevate già.

Dire Straits. L’inno alla psichedelia country di War On War avrebbe potuto essere figlia di una jam di una bollente Ber-tha a un concerto dei Grateful Dead del 1973. Il violino e l’atmosfera fumosa country di Jesus, etc richiama alla mente i mitici settanta con il suo contenuto d’amore e l’odore delle sigarette. L’acuto e balbuziente assolo di chitarra che apre I’m The Man Who Loves You potrebbe essere stato preso dall’interno di un brano elettrico di Neil Young all’epoca di Everybody Knows This Is Nowhere. Per tutta la sua aura, profonda e stratificata, Yankee Hotel tende a venir fuori sincera come le radio FM dei bei giorni andati. I Wilco godono del benefi-cio del dono di O’Rourke per aver tirato dritto alle viscere di ogni stile, senza il peso di un marchio di fabbrica. E Tweedy sembra esser divenuto un buon paroliere. Trasalisco ancora quando lo sento cantare “ So che non parli molto ma sei un ottimo conversatore”, su Being There. La meditabonda in-trospezione di Summerteeth costruita su una manciata di testi eleganti, la scheletrica bellezza di She’s A Jar dove “lei mi ha scongiurato di non perderla” ritorna come il doloroso “lei mi ha scongiurato di non picchiarla” trasformando una malinconica canzone d’amore in qualcosa di delicatamente brutale. Ma su Yankee Hotel Foxtrot Tweedy diventa quel

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I 4 CAVALIERI DELL’APOCALISSEDi Max Stefani

LA STORIA DI JEFF BECK, ERIC CLAPTON,PETER GREEN, JIMMY PAGE

IN USCITA A MAGGIO 2015La storia dei quattro grandi chitarristi inglesi

nel periodo 1960-1972

240 pagine, formato 30x22 cm, 182 foto, 25 euro.Pre-ordinazione scrivendo a:

[email protected]

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a cura di Max Stèfani

Per un giornale come ‘Outsider’ che fa dell’approfondimento del passato la sua merce più rara, mettersi a costruire un elenco delle cose migliori uscite quest’anno, sembra una forzatura.

Ciò non toglie che 40 nuovi dischi targati 2014 (in effetti ci ho messo anche qualche cosina uscita a cavallo 2013/2014) per cui vale la pena spendere quei quattro soldini in più che girano a dicembre ci sono. Sempre di gusti personali si sta parlando, quindi prima di comprare un cd

andate su Spotify.

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2014 BEST

Lucinda Williams, Jackson Browne, Dianna Cohen (Paul Redmond/WireImage)

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OLD MAN

JOHN MELLENCAMP – Plain SpokenJACKSON BROWNE - Standing in the BeachLEONARD COHEN - Popular ProblemsPRINCE - Art Official Age/ PlectrumelectrumRICHARD THOMPSON - Acoustic ClassicsCHUCK E WEISS - Red Beans And WeissWILKO JOHNSON/ROGER DALTREY - Going Back HomeDAVID CROSBY - Croz

Il disco folk-rock dell’anno è per me quello di John Mellen-camp, PLain Spoken. Un disco che scorre con brio, intriso di folk e blues rurale, country urbano e le solite immancabili in-fluenze dylaniane e Guthriane. Jackson Browne arriva a sorpresa con un lavoro che dà la birra ai tanti, troppi, babbioni del disco a tutti i costi con mezzi semplici ed idee musicali non avanguardistiche né sperimen-tali (e perché poi cercare e volere le novità a forza? A noi piace l’artista così come l’abbiamo sempre conosciuto ed ammirato), con una manciata di dieci tra canzoni e ballate nel suo stile senza orpelli e trucchetti vari, e va dritto al cuore facendo la felicità di vecchi e nuovi seguaci. Popular Problems è il secondo album in due anni di Leonard Cohen. Come in Old Ideas (2012), i brani sembrano degli spo-gli inni, trattenuti da un mistero soggiacente—sembra che stia raccontando tutto, ma senza scoprire mai le carte. Quella piatta voce da corno antinebbia degli anni ‘70 è diventata inquietan-temente senza fondo, le spoglie di una voce ora sparita. Art Official Age è il più solidamente melodico dei due, Plec-trumelectrum è il più divertente, con Prince che scatena le sue note (e impolverate) abilità alla chitarra. Due buone aggiunte al catalogo, le migliori di Prince dal 2004. Non va sottovalutata la gioia nel risentire suonare con tanta energia un musicista che, più o meno un anno fa, aveva di-chiarato di avere un male incurabile e di voler concludere la propria vita in giro per il mondo a suonare. Wilko e Daltrey si conoscono da una vita, entrambi grandi fan di Johnny Kidd & The Pirates, fonte d’ispirazione tanto per gli Who che per i Doctor Feelgood. L’album rappresenta un omaggio ad un mu-sicista che, in vita, non ha mai potuto godere del successo che meritava e il cui nome, nel nostro paese, in molti nemmeno conoscono. Going Back Home è un album fresco, vitale e con un energia “old school” che commuove. Acoustic Classics di Richard Thompson è un’ora di perfor-mance live libera dai rumori della folla, con una intimità che cattura gli ascoltatori, dando l’impressione che l’artista si esibi-sca solo per loro. Da un artista eccezionale e influente cosa si può chiedere di più? Non avremmo scommesso un euro sul “ritorno” di Crosby. E invece... il vecchio leone ha realizzato una delle sue opere migliori. Quella di Knopfler non è l’unica presenza di prestigio del disco – c’è un ineccepibile Wynton Marsalis in Holding On To Nothing – ma va dato atto a Crosby di non aver puntato sugli ospiti di lusso o sui vecchi amici per andare sul sicuro e per creare attesa intorno al suo progetto. Ha sempre dalla sua una voce inconfondibile e incredibilmente integra, un modo di suonare la chitarra ritmica tanto semplice quanto efficace e

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TOM PETTY - Hypnotic EyePETER BUCK - I Am Back to Blow Your Mind Once AgainBRIAN SETZER - Rockabilly Riot! All OriginalDANIEL LANOIS - Flesh and Machine

Un grande disco dal vivo per Lucinda Williams. Il country resta un punto di riferimento anche per DWtS-MtB, anche se il disco va molto più in là. C’è molta improv-visazione alla chitarra, inclusi gli assoli elettrici di Burning Bridges e Foolishness che si rifanno al rock anni ‘70. John Hiatt è un cantautore americano che su Outsider co-noscete tutti e che ha fatto centro attorno al 1987 con Bring the Family (stringendo un forte legame Ry Cooder, Nick Lowe e Jim Keltner: assieme, il dimenticato supergruppo Little Village) e andò avanti così per circa un decennio, con classici cult come Slow Turning. Hiatt invecchia con gra-zia; non è uno di quelli che da un momento all’altro po-trebbero finire in un qualche scandalo sessuale, ed è giusto. Ha visto di peggio, ma si tiene bene.Terms of My Surrender lo conferma: puro blues. Qui non c’è lo Hiatt pulito. Qui c’è ruvidezza scarna. Una scelta appropriata all’età. Hiatt ha 61 anni, e il blues è uno stru-mento espressivo più che adatto x lui. Canta in un registro scuro, e lo fa bene. Un disco che gronda autenticità – dis-se Keith Richards che il blues non te lo insegnano i frati: e Hiatt ha una vita vera. Non è saltato di botto sul carroz-zone del blues – ha da sempre un gusto southern: a inizio carriera apriva a John Lee Hooker, è stato spesso in tour con Robert Cray, e Buddy Guy ha inciso una sua canzone. Il 22° album di Hiatt è una meravigliosa, e speriamo che non molli mai il colpo. Un suono glorioso che ogni volta ripete

implacabile le pagine più belle della musica degli ultimi 50, 60 anni, partendo dalle basi solide del blues per poi gettarsi in un viaggio mozzafiato nei decenni del rock’n’roll. C’è chi lamenta che Tom Petty non scriva più le canzoni stra-ordinarie che scrisse nei 70, 80 e 90 affidandosi per comodità a schemi di routine, i classici giri del blues e del rock’n’roll basi-co, e può essere vero, ma non tiene conto di cosa siano diventa-ti lui e compagni. Ovvero la più straordinaria rock’n’roll band esistente. Hypnotic Eye riparte là dove lo straordinario Mojo era terminato.

Ma com’è I Am Back to Blow Your Mind Once Again di Peter Buck? Selvatico, arruffato: il secondo album solista dell’ex-R.E.M. porta avanti il ‘primitismo’ del disco precedente, fon-dendo garage, psichedelia lo-fi, puro pop e caldi momenti da stadio perfetti per una scaletta dei R.E.M. I fratelli Phil e Dave Alvin riuniti per un tributo a Big Bill Broonzy. Il risultato è spettacolare. Broonzy fu uno degli au-tori più prolifici del suo tempo: più di 300 titoli editi, dal delta blues, il blues elettrico di Chicago fino a vere canzoni di prote-sta come Just A Dream, pezzo audace per l’epoca - Bill anda-va alla Casa Bianca, e parlava col Presidente. Qua gli Alvin gli danno vita e benzina.Rockabilly Riot! All Original di Brian Setzer non cambierà certo l mondo o chissà che, ma è puro rock and roll ragazzi!Daniel Lanois mi avrebbe fatto godere come un’anguilla se l’album fosse durato qualcosa più dei 36 minuti che raggiunge.

un tocco magico nelle armonie vocali. Anche se oggi il blues può non riscuotere tanto successo tra i giovani ascoltatori come un tempo, sicuramente sì però tra voi lettori di Outsider, Red Beans and Weiss di Chuck E. Weiss cattura alla perfezione i ritmi e i gemiti di questo genere, impo-nendo all’ascoltatore di fermarsi ad assaporare le sue melodie piene di passione. Il disco è un viaggio sulle parole tra bettole honky-tonk logorate dal tempo, le ferrovie della Seconda Guer-ra Mondiale, i territori nascosti di un gatto randagio e tanti al-tri vibranti panorami. L’album è la quintessenza del poetico e appassionato blues di Chuck, abbracciando il vero spirito del genere: una sinergia tra parole e musica. Sentite Shushie, che pare s’ispiri a un gatto randagio salvato da Weiss. Si fonda sul burroso sax di CC Worall Rubin e sulla trance indotta dal basso di Will McGregor. È il particolarissimo stile poetico beatnik-blues di Weiss, al suo meglio. Gli ascoltatori schioccheranno le dita e batteranno il piede al suo torrido beat. Senza dubbio il suo miglior album sino a oggi, un pazzesco blues-rock R&B.

MEZZA ETÀ

LUCINDA WILLIAMS - Down Where The Spirit Meets The BoneDAVE & PHIL ALVIN – Common GroundJOHN HIATT - Terms of My Surrender

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CONFERME

SONDRE LERCHE – PleaseTWEDDY – SukieraeNENEH CHERRY - Blank ProjectJASON ISBELL – SoutheasternCHRIS ROBINSON BROTHERHOOD - Phosphorescent HarvestBARZIN - To Live Alone In That Long SummerRICH ROBINSON - The Ceaseless SightJACK WHITE - LazarettoRAY LAMONTAGNE - SupernovaBECK – Morning CaseDAMIEN RICE – My Favourite Faded Fantasy

Please di Sondre Lerche è un sorprendente capolavoro pop. In Sukierae Tweedy e suo nipote, portano avanti il power-pop degli ultimi lavori degli Wilco, ma le canzoni si distin-guono per un più austero uso di chitarra e batteria. Un album più simile a Sky Blue Sky, sia nell’aggressiva disinvoltura che nelle ripetizioni che a volte si cagliano fino al tedio. Curioso e interessante. Blank Project, primo album solista in diciotto anni di Ne-neh Cherry, suona sia come l’apice attuale del suo lavoro sia come un album volutamente smorzato. Blank Project è ma-turo, perché in decenni di musica Neneh ha imparato a usare voce e testi per dire esattamente ciò che vuole come vuole. Nessun declino, nessuna irrilevanza. Blank Project è il suo album migliore, e dimostra che è un’artista sempre in crescita. Jason Isbell è stato membro chiave dei Drive-By Truckers. Adesso brilla ancora di più, perchè ha scritto svariate canzoni (Outfit e Decoration Day in particolare) così straordinarie che un giorno andrebbero iscritte nel corso di studi di un master in composizione. Il tutto condito da piccoli accenni ai maestri Townes Van Zandt, Prine e Willie Nelson. Con la pubblicazione del loro terzo album in meno di due anni, la Chris Robinson Brotherhood ha fatto in modo di conquistarsi un posto nella storia del rock&roll — nello speci-fico uscendo dall’ombra dei Black Crowes. Brano dopo brano, la band crea strati su strati di musica e voci di una bellezza cosmica, costruendo intanto un’esperienza che non sembra mai affrettata o eccessiva. L’album vive di una sorta di impre-vedibile coerenza; appena credi di averne afferrato il sound, la band cambia marcia, mantenendo però un senso di familiari-tà. Phosphorescent Harvest ricorda, a volte, le classiche band rock jam. Tuttavia la band porta l’album in una direzione completamente nuova, diretta verso un futuro che si sta co-struendo da sola, come se fosse l’unica a sapere come arrivarci. È tornato Barzin, il poeta canadese originario dell’Iran con un disco a tratti impossibile da ascoltare, per quell’urgenza carica di dolore nel descrivere la sofferenza come raramente si era ascoltato nella storia della canzone d’autore. Inevitabili le citazioni di Cohen e Dylan. Il terzo lavoro solista di Rich Robinson vede il chitarrista immerso in un solco familiare e assieme nuovo. Comporre per i Black Crowes e per se stesso negli ultimi 25 anni ha forgiato il suo stile musicale: ma, con The Ceaseless Sight, Robinson si è assicurato un posto suo nella storia del rock&roll. Un al-

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NUOVI NOMI

STEPH CAMERON - Sad-Eyed Lonesome LadyANGEL OLSEN - Burn Your Fire For No WitnessNICOLE ATKINS - Slow Phaser LAURA CANTRELL - No Way There from HereTORRES - HoneryLAURA MARLING - Once I Was an EagleHURRAY FOR THE RIFF RAFF - Small Town HeroesBLACKBERRY SMOKE - Leave A Scar: Live In North Caro-linaAVI BUFFALO - At Best CickoidALPACA SPORTS - Sealed With A KissWILLIE WATSON - Folk Singer Vol. 1THE MEN - Tomorrow’s Hits SAM AMIDON - Bright Sunny South/Lily-OTHE WAR ON DRUGS - Lost In The Dream

7 dischi di seguito di donne. Tutti che per un verso o per l’al-tro ho amato senza nessuna remora. Sad-Eyed Lonesome Lady è l’album di debutto della cantautrice canadese Steph Cameron. Un album acustico molto essenziale dove a volte, mi sembra una versione canadese di Tom Waits o di Johnny Cash. Un disco piacevolissimo. Per molti versi, dà la sensazio-ne di un gruppo di musicisti da disco folk, ma si avvia in pun-ta di piedi nel territorio country, con quell’armonica nei punti giusti, e alcuni dei brani hanno anche una spavalda andatura blues. La voce di Angela Olsen è incantevole; suona come il risul-tato di un incantesimo che ha richiesto il sangue di Leonard Cohen, la laringe di Buffy Sainte-Marie, il mood di Feist e un vecchio microfono degli anni ‘30. Anima le sue canzoni una strana elettricità anarchica, sempre sul punto di esplodere. L’energia esplosiva della band al completo le dà forza, accen-dendo un’intensità da sempre presente nelle sue canzoni e spingendo le fiamme più in alto. Sono passati quattro anni da quando abbiamo scoperto Ni-cole Atkins, grazie a una cover di Where Did You Sleep Last Night stupenda, vetrina perfetta per una bellissima voce pie-na di passione e aggressività, impregnata di blues/rock. Ora scrive con libertà, senza legarsi a un genere, aggiungendo nuovi suoni che creano migliori dinamiche. Sono lontani i giorni in cui ”prometteva bene”, ora lavora a modo suo, libera dalle ansie che di solito sono lo strascico dei cantanti che an-cora devono dare prova di sé. Laura Cantrell fa country americano. No Way There from Here unisce una perfetta voce americana, una brillante qua-lità d’incisione e un affettuoso melange di country e indie pop. Il risultato è il più solido album country dopo il capola-voro dell’anno scorso, Same Trailer, Different Park di Kacey Musgraves. Il disco continua a passare dall’una all’altra fac-cia, è un caleidoscopio di forme country. Interessante. Torres, voce di Mackenzie Scott ventiduenne di Nashville, veicola una disperazione urgente e cruda, con cui si entra in sintonia a un livello quasi primordiale. Un suono famelico, tra l’abbaiare di un cane e il gemito. Gela il sangue. È al suo primo disco. L’ha registrato quasi tutto al primo take, quasi con la sola chitarra elettrica. I testi trattano argomenti spi-

bum così ricco d’influenze da poter uscire presto di strada e perdere subito l’attenzione dell’ascoltatore. Robinson però fa in modo che non accada, creando un suono coerente, variega-to di punti toccanti, tutti orientati a costruire la stessa cosa: il progresso. La band può scivolare con successo da una canzo-ne meravigliosamente melodiosa come In Comes the Night direttamente dentro alla giocosa e funky Inside; questo tipo di fluidità è costante, dall’inizio alla fine. La sequenza dell’al-bum crea un vero viaggio dinamico per chiunque abbia vo-glia di ascoltarlo.

Il periodo degli White Stripes ha reso Jack White un’icona rock. Il suo debutto solista nel 2012 con Blunderbuss, dimo-stra l’abilità di White nel ricreare quel sound anni ‘50 e ‘60 che tanto ammira, in un modo che è assieme ortodosso e con-temporaneo. Suona come un artista classic rock, forse l’ultimo della sua specie. Sembra arrivare davvero dall’epoca d’oro del classic rock; si trova bene nel presente, ma è molto più capace nei trucchi della vecchia scuola di quanto non lo siano i suoi contemporanei. È per questo che Lazaretto, il secondo lavo-ro solista, è così solido e rock. Un pezzo come Just One Drink sembra un catalogo di standard blues, ma è l’esecuzione a essere magistrale. White sa bene che standard non vuol dire banale. Il blues ha avuto il suo ruolo in Blunderbuss, ma è di certo la spina dorsale di Lazaretto. Questo è un eccezionale album rock fatto da un tizio che è davvero la rockstar che mira a essere. Ray LaMontagne fa parte di quell’onda di talentuosi artisti roots-rock che, in quest’atmosfera commerciale in cui i fans cercano tregua dalle percussioni digitali, le voci in auto-tune e freddi sintetizzatori. Il suo mito è Stephen Stills. Fa classic rock — con quel groove delicato e appassionato che parte dal-le strimpellate acustiche e arriva a una voce che imita un Van Morrison sottile e arioso. Perché un artista del nuovo millen-nio non dovrebbe rifarsi a un’epoca d’oro della musica popo-lare e coglierne gli aspetti migliori? Perché non tornare a voci dolci e belle come quella di Stills o di Morrison? Perché Bob Dylan non dovrebbe galleggiare su una diafana nube di suo-no, immerso in una produzione degna del nuovo millennio? Perché il roots-rock-folk deve sempre suonare così radical-mente vecchio? LaMontagne si fa strada in molti stili, quasi tutti ottimi. Il risultato vi cullerà fino a domattina. Con Morning Case Beck arriva a rimescolare le carte in ta-vola. È il primo album di brani originali di Beck in sei anni e che si tratta di un’opera meditata ed elaborata a lungo. Il pa-ragone con Sea Change è inevitabile, ma Morning Phase ci sembra perfino superiore: è come se i ricordi della sua infan-zia avessero finalmente trovato un solido approdo e si fossero trasformati in realtà. Con Beck siamo sempre di fronte a una creatività fuori dal comune.Damien Rice …. Sono passati 8 anni dal suo formidabile de-butto O e My Favourite è ancora un grande album. Una parte della critica ha criticato i testi (soprattutto Pitchfork) ma Rice non è cambiato come cantautore, certamente come persona. Nel 2006, era un ‘32-year-old romantico’ con un forte spirito nei confronti del mondo esterno. Nel 2014, è un recluso di 40 anni, che torna davanti al mondo con un rinnovato scopo: trovare un modo per andare avanti. Non capirlo è da scemi.

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nosi – bisogni femminili, abiezione, soggiogamento, domi-nazione – che gestisce abilmente, come giocasse con pietre roventi. Il suo tocco sicuro su questi temi scottanti la mette al pari di una PJ Harvey o EMA. Come loro, se serve, dipin-ge a grosse pennellate. La sua abilità nel cogliere e tenere un’atmosfera suggestiva ricorda anche Songs:Ohia o la Cat Power degli inizi. Il disco è una valanga di emozioni, legate a un’immediatezza che toglie il fiato. Laura Marling ha 23 anni; prima la sua età era importante: nessun coetaneo stava facendo album così. Con Once I Was an Eagle si può dire che è perché nessuno ha fatto album così, mai. È però il primo album a sembrare davvero sudato e rifinito. È aperto, ambizioso, lontano dai cliché ultimamente accumu-lati dal folk. È scuro, rabbioso, persino… sexy. Quello che gli Hurray for the Riff Raff hanno messo as-sieme con Small Town Heroes è una raccolta di canzoni che parlano da e per il cuore degli Ultimi d’America, chiamando-li a una missione e a una lotta. La loro cantante ha trovato una casa (dopo un’infanzia nel Bronx, attraversando gli Stati Uniti, saltando sui treni merci, adattandosi a ogni nuova cit-tà, assorbendo l’intero spettro storico del panorama musicale americano) e una ragion d’essere alla propria voce – una voce degna e meritoria di una popolazione ben più ampia di quella del titolo del disco. Se qualcuno ha pensato che Alynda Lee Segarra avesse scelto la stanzialità, giudicando da Ramblin’ Gal (dall’ultimo album di brani originali Look Out Mama) si sbaglia. La strada compare ancora molto in questo nuovo disco della band, ma le sue radici sono ben piantate a New Orleans, casa adottiva di Segarra.

Amate la musica invecchiata e blended come un buon Bou-rbon? Forse lo charme del Sud non era così puro dai tardi 70�, l’epoca d’oro di Blackfoot, Marshall Tucker Band, Charlie Da-niels Band e Lynyrd Skynyrd. Buttateci un po’ di classici Aero-smith, Stones, AC/DC, del vero country tipo Waylon Jennings e Billy Joe Shaver e agitate. Con un ingrediente segreto, fatale per noi amanti del rock sudista: un pizzico di bluegrass! La-sciate invecchiare per 14 anni in botti di rovere e otterrete una bevanda di nome Blackberry Smoke! Avi Buffalo con At Best Cickoid fa parte dell’onda del nuo-vo folk americano e britannico. Ben quattro anni dall’album d’esordio. La sua voce sottile e giocata sulle tonalità più alte può ricordare le prime cose di Neil Young, ma il paragone non vale per la scrittura, visto e considerato che quella del cantau-tore canadese è più semplice e lineare. Anche nel più grigio dei giorni, il sole brilla al di sopra delle nuvole: e un salutare pizzico di romanticismo a scivolarti attorno all’anima è un metodo garantito per farsi elevare alla luce! Anche se Andreas Jonsson è un figlio della nostra epoca di social network e di test online della personalità (che però one-stamente non so se gli piacciano), tuttavia chiunque conosca la sua produzione come fulcro centrale degli svedesi Alpa-ca Sports saprà già, senza l’aiuto di alcun test, che qui c’è un uomo dal carattere ingenuo, il cui cuore batte con gli alti e bassi di un amore da perdere la testa. Woody Guthrie e Leadbelly sono due tra i nomi più famosi del folk, cui si deve buona parte del repertorio americano. Il loro

Steph Cameron

Angel Olsen

Torres

SteStephph CamCameroeronSteph Cameron

Laura Marling

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suono non era pulito come quello dei folker contemporanei, ma più vicino a quello country di Hank Williams. Malgrado le molte imitazioni, pochi hanno colto il sound e il sentimento di entrambi in modo credibile. Uno di questi è Willie Watson, ex membro dell’Old Crow Medicine Show. Questo suo nuovo album solista, Folk Singer Vol. 1, raccoglie nove brani tradizio-nali e un originale che del folk coglie il sound e anche lo spiri-to. Sarà cuore, sarà anima, sarà quello che volete ma è innega-bile che Watson abbia il dono di rendere vera qualunque cosa canti. Non ha una bella voce, i suoi adattamenti non sono ela-borati o fantasiosi: ma hanno una purezza che dà loro potenza.Con Folk Singer Vol. 1, Watson non ha solo dato nuova vita ai classici folk: chiarisce il loro valore culturale. È una storia appassionata e intelligente degli U.S.A., un richiamo alle ra-dici della musica popolare. Versioni così non le avete sentite spesso. Watson fa da anello tra la musica presente e la passa-ta. Porta rispetto per le origini delle canzoni, ma non teme di marchiarle a modo suo. Un nuovo campione del folk, il mi-gliore in circolazione.I Men non hanno mai avuto paura di fare cose grosse, ma quegli enormi riff di chitarra non hanno mai avuto un sound così pulito. Tomorrow’s Hits è prodotto con esperienza; ogni nota arriva con un bagliore al neon. L’ascolto di Pearly Gates è simile a un giro a velocità folli sulle montagne russe ac-corgendosi che la struttura potrebbe cedere da un momento all’altro; eccitante e in qualche caso terrificante. Geniale ricreatore, ambiziosissimo rianimatore, meraviglio-so folklorista, archivista stantìo — chiamatelo come vi pare. L’approccio di Sam Amidon alla musica — decostruire e rimontare antiquati canti sacri, ballate profane e pezzi folk, e l’occasionale pezzo da classifica — consegna al cantautore trentunenne più della sua dose di etichette, anche quando il prodotto finale le rifiuta tutte. Questo fa di Amidon un mem-bro attivo di quello che il leggendario cantante e polistru-mentista american Pete Seeger chiamava “il processo folk”, il passaggio della musica folk da una generazione all’altra. Un altro protagonista del moderno revival folk, l’inglese Cecil Sharp, ne ha elencato i tre principi: continuità, variazione, se-lezione. Tre parole che dicono tutto sia di Bright Sunny South che di Lily-O, il suo ultimo progetto con Bill Frisell.Lungo queste dieci canzoni contenute in Lost In The Dream, un’immagine viene lentamente a fuoco, fino a una chiarezza rara per i The War On Drugs. Si sente l’ambiente del New Jersey e la sua ricca eredità musicale riverberare nella traccia principale, Red Eyes. Springsteen ha gettato le fondamenta e i The War On Drugs, con in più ossessioni dylanesche, vi co-struiscono sopra un monumento. Una colonna sonora perfet-ta per guidare lungo la costa di Atlantic City.

Ps – Tutti i dischi citati sono stati recensiti durante il 2014 su queste pagine. Ad esse vi rimando per approfondimenti. Su alcuni abbiamo anche intervistato i protagonisti. La lista non pretende assolutamente di essere quella definitiva, ci mancherebbe. Dando un’occhiata in ‘rete’ ho visto che le scelte sono spesso diametralmente opposte le une alle altre. Il che mi fa pensare che siano tutte inutili. Compreso que-sta. Comunque se vi posso aver dato qualche ‘dritta’ ne sarei contento.

82 OUTSIDER 2014 BEST

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RISTAMPE

Beh, si cade nel caos totale. Ormai sono il 70% del mercato e la scelta è quanto mai variegata. In que-sto caso contano molto i gusti personali. In tutto l’anno ne abbiamo recensiti un centinaio, per noi quasi tutti indispensabili. Per quanto mi riguar-da, ho comprato, e ne ho gioito molto, i seguenti: quelli degli Allman Brothers (tutti e due , sia il Fil-lmore 71 che il Beacon Theatre 1992), Rory Galla-gher, David Wiffen, Lowell George, i vari Rolling Stones ‘Value’, le Basement Tapes di Dylan, Me-lanie, Beth Orton Central Reservation, John Mel-lencamp Live at Town Hall, le Midnight Ramble Sessions di Levon Helm, il CSNY 1974, il box di Mike Bloomfield, X con Under The Big Black Sun, Zappa, Soul Mining dei The The, Tim Hardin Bird On A Wire, il Made in Japan dei Deep Purple, Lou Adler, il Miles Davis At Fillmore Bootleg Series 3, Ronnie Lane, No Depression di Lucinda Williams, Blasters, Christy Moore, Billy Bragg, Uncle Tupelo, Lee Hazelwood, Beatles US albums… Buona fortuna. E attenti al portafoglio.

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WILD THING

È ordinabile all’indirizzo [email protected] al prezzo di 19 euro, comprese le spese di spedizione, in copie autografate e personalizzate.

Wild Thing” è un librone di 330 pagine, a colori, illustrato con 708 foto, cartonato, dal peso di 1.600 grammi, formato gigante 30x24 cm.

“Wild Thing” è la mia biografia ma soprattutto la storia della rivista “IL

MUCCHIO SELVAGGIO” dal momento in cui l’ho fondata nel 1977 fino a inizio

2012, quando mi sono messo nelle condizioni di farmi dimettere.

Con tutti i retroscena, gli interventi di tanti collaboratori, il perchè di certe

scelte, la storia di molte firme storiche, chicche, curiosità, foto

originali, copertine storiche (Berlusconi, il Papa…).

Senza peli sulla lingua come da sempre nel mio stile. Pane al pane

e vino al vino.

Ma è anche molto di più. E’ la storia di chi ha scritto, fatto vedere

o sentire musica rock in Italia dal 1960 ad oggi. Con gli interventi

dei diretti protagonisti.

Stampa (da “Ciao 2001” a “Muzak” fino a “Popster/Rockstar”,

“Rumore”, “Blow Up”, “Rocksound” etc), radio (“Count Down”,

“Bandiera Gialla”, “Per voi Giovani”, “Stereonotte”….), siti web

(“Rockol” “Rock It”…), grandi storici concerti

(Led Zeppelin, Clash, Patti Smith, Bob Marley…), locali, negozi…

Compreso una lista dei migliori dischi dal 1960 ad oggi, e dei

migliori film dal 1977.

Max Stèfani

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N. 1 GIUGNO 2013

JOE STRUMMER – STEPHEN STILLS – GRAM PARSONS – WAYNE COYNE – JOHN GRANT - TROGGS – VAN MORRISON/JOHN MAYALL/ERIC BURDON – JOHN MARTYN – UMBERTO PALAZZO PIÙ LAURA MVULA - KNIFE – STEVE FORBERT – GENE CLARK – DON NIX – BEATLES…

N. 2/3 LUGLIO/AGOSTO 2013

PINK FLOYD – QUEENS OF THE STONE AGE – DAVE GROHL - BEN HARPER – PRIMAL SCRE-AM – ROLLING STONE – BOB DYLAN - PHOENIX PIÙ WHO – ALLMAN BROTHERS – DO-NOVAN – HENDRIX –BLACK SABBATH…

N.

PSBA

N. 4 SETTEMBRE 2013

FRANK ZAPPA – BLONDIE – NATIONAL – SHUGGIE OTIS – ROD STEWART – ALBERT KING/FREDDIE

KING/B.B.KING - GANG PIÙ SMASHING PUMPKINS - SE-

BADOH – DIAFRAMMA – IAN MATTHEWS –DELANEY

AND BONNIE…

N. 5 OTTOBRE 2013

DIAFRAMMA/FIUMANI – NIRVANA – BOARDS OF

CANADA – PETER GABRIEL – STEVE MILLER BAND - PIÙ J.J. CALE – ELVIS

COSTELLO – MAVIN STA-PLES – ROBERT PALMER

– FAIRPORT CONVENTION – TOM RUSH…

N. 9 FEBBRAIO 2014

MIKE BLOOMFIELD - JERRY JEFF WALKER – BEATLES

- JEFF BUCKLEY – TIM BUCKLEY – JUANA MOLINA - AEROSMITH - PIÙ LAURA

MARLING - KANYE WEST – BECK - BILLY BRAGG

- UNCLE TUPELO - DEEP PURPLE - NEIL YOUNG –

NICK CAVE…

N. 6 NOVEMBRE 2013

DAVID BOWIE – DR.FEELGOOD – EDI-TORS – CARAVAN/CANTERBURY/SOFT MACHINE – JOHNNY CASH – BOB DYLAN PIÙ GEORGE THOROGOOD – DEVO – HUMBLE PIE – SLY – KING CRULE - STRYPES…

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DDT

N. 7 DICEMBRE 2013

ELLIOTT SMITH – CHUCK BERRY – RAY DAVIES/KINKS – VAN MORRISON/MOON-DANCE –COMMANDER CODY – NINE INCH NAILS – TEHO TEARDO/BLIXA BARGELD PIÙ JONATHAN WILSON – PAUL MCCARTNEY – BLACK JOE LEWIS – NINA SIMONE – HENDRIX - LOS LOBOS…

N. 7

ELLBER– VADA– NTEAPIÙPAJO– H

N. 8 GENNAIO 2014

PETER GREEN - SMALL FA-CES - ARETHA FRANKLIN

- JERRY WEXLER - FLEET-WOOD MAC - CREAM

PIU’ WATERBOYS - WHO - KING CRIMSON -

MICHAEL NESMITH - SPRINGSTEEN -

JUANA MOLINA - EXCITEMENTS....

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Page 85: PINK FLOYD STORY

N. 10 MARZO 2014

RY COODER – BO DIDDLEY – QUICKSILVER M. S. - BLACK JOE LEWIS – KING KRULE – CHARLES BRADLEY – REFUSED - GUY CLARK – TOWNES VAN ZANT PIÙ DAVID CROSBY – BARZIN – BLASTERS – PRINCE – PETE SEEGER – ALLMAN BROTHERS…

N. 14/15 LUGLIO/AGOSTO 2014

ERIC CLAPTON - JONI MITCHELL - TOM DOWD 2 – THE WAR ON DRUGS – SPRINGSTEEN - NEAL CASAL PIÙ SWANS – JOE HENRY - JACK WHITE – RAY LAMONTAGNE – REM - CSN&Y - ELP - LULU – EAGLES - LINDA RONSTADT – CONOR OBERST…

N. 16 SETTEMBRE 2014

ALLMAN BROTHERS – RONETTES – PHIL SPEC-TOR - TOP DISCHI LIVE - BILL GRAHAM - WILLIE WATSON PIÙ NRBQ – JOHN HIATT – TORI AMOS – TOM PETTY - BETH ORTON – MOGWAI – HANK WIL-LIAMS – NEIL YOUNG – BOBBY WOMACK – WARREN ZEVON…

N. 11 APRILE 2014

HENDRIX - DYLAN - TRAFFIC - COLOSSEUM - BECK – STRAN-GLERS PIÙ WILKO JOHNSON – ROGER DALTREY – PETER BUCK - HURRAY FOR THE RIFF RAFF – NENEH CHERRY - MARL LANEGAN - LITTLE FEAT - JOHN MAYALL - BOB CASALE – JOHNNY RIVERS – ROGER MCGUINN…

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N. 12 MAGGIO 2014

DEEP PURPLE - JOHNNY WINTER - T-BONE

BURNETT - JONATHAN WILSON - TOM DOWD 1 - ELTON JOHN PIÙ THE

WAR ON DRUGS - GARY CLARK JR. - MILES DAVIS

- RONNIE LANE - BILLY BRAGG - BOB MOULD -

ELBOW…

N. 17 OTTOBRE 2014

THE BAND – GRATEFUL DEAD – PHISH – JACK

WHITE - PHIL AND DAVE ALVIN – GRAHAM PAR-

KER – PUB ROCK PIÙ BLACKBERRY SMOKE

– ROBYN HITCHCOCK – ROY ORBISON - DYLAN - MELANIE - CLAPTON -

SPRINGSTEEN - LAMON-TAGNE - ALICE COOPER

- BEN VAUGHN…

N. 13 GIUGNO 2014

LED ZEPPELIN – YARDBIRDS – T BONE WALKER – HUR-

RAY FOR THE RIFF RAFF – ROXY MUSIC PIÙ ELS -

CHRIS ROBINSON - CHUCK E. WEISS – WILLIE WATSON

- LINDA RONSTADT – NILS LOFGREN – FRANK ZAPPA

- THE X – THE THE – CLASH - JESSE WINCHSTER …

N. 18 NOVEMBRE 2014

RORY GALLAGHER – RIVAL SONS – TEDESCHI/TRUCKS

– ANIMALS – JOHN LEEE HOOKER STEVE WYNN/DREAM SYNDICATE PIÙ

JACKSON BROWNE - JOHN MELLENCAMP – TOM PETTY - SUZANNE VEGA - RUFUS

WAINWRIGHT – DEVO – GARY CLARK JR – GRAM PARSONS…

GLI ARRETRATI COSTANO 10 EURO CADAUNO, MA PER ACQUISTI SUPERIORI ALLE 10 COPIE, VENGONO SOLO 5 EURO L’UNO. LE SPESE POSTALI SONO SEMPRE INCLUSE.

Page 86: PINK FLOYD STORY

86 OUTSIDER NOVITÀ

e il folk punk, c’è soddisfazione anche per i fan dell’indie. L’ul-timo brano, Race Track, ha una morbida chitarra che non sto-nerebbe in nessun attuale disco ‘vintage indie’. E chiaramen-te la band porta per un attimo il pezzo a un livello diverso, partendo da un basso sussurro per andare verso qualcosa di più solido.Questo breve album trae ispirazione da un road-trip in Ame-rica fatto da LeBlanc nel 2013, passando per Nashville, Mem-phis, New Orleans, Las Vegas, Austin e San Francisco. Consi-derato il passo e l’urgenza dell’EP, si capisce che è nato in stra-da. È qualcosa che viene voglia di mettere nell’autoradio—meglio ancora in cassetta: non si capisce perché, ma è subito chiaro che il sound ci guadagnerebbe—e mettersi a guidare, senza nessuna meta in particolare. Se Jack Kerouac fosse an-cora vivo, forse batterebbe ancora i tasti della sua macchina da scrivere, ascoltandoselo.Sostanzialmente il tempo passato ad ascoltare questo EP è ben speso. Questo EP entra nel territorio del “Oh mio dio, devi assolutamente, totalmente ascoltarlo”. Ascoltatelo, e la gio-vane età di LeBlanc vi sbigottirà. Sembra così saggia, matura, sicura. Certo, LeBlanc sarà anche già famosa in Quebec. Ora è l’occasione per il Canada Anglofono e per il resto del mon-do di godersi un’artista che presto sarà sulle bocche di tutti. Senza dubbio, è in lizza come Scoperta dell’Anno nel mondo anglofono. Questa è roba assolutamente essenziale, e sarete felici non solo di averla ascoltata, ma proprio di averne fatta l’esperienza. È, certamente, qualcosa di valido.

In Quebec, Lisa LeBlanc, 24enne di New Brunswick, è piut-tosto conosciuta, ed è considerata un nuovo talento. Il suo omonimo album del 2012, in francese, nella provincia ha raggiunto il Disco di Platino, facendole guadagnare il ‘Prix Felix’ come miglior nuova artista al Adisq Awards. È stata Ar-tista dell’Anno e Scoperta dell’Anno ai Gamiq Awards, è un suo brano è stato Canzone dell’Anno. Ha vinto premi anche in Francia e in Belgio, dov’è stata in tour (oltre che in Svizze-ra e nel natio Canada), ed è stata nominata ai Juno Award (il Grammy canadese) per l’Album Francofono dell’Anno.Ora sta tentando il successo nazionale e internazionale con un EP in inglese, Highways, Heartaches and Time Well Wa-sted. E gente, è splendido! Se la gioca con Sad-Eyed Lonesome Lady di Steph Cameron per il premio ‘Canadiana’, malgrado questo non sia un vero LP. Ma non per questo è da scartare. Ha talento vero, non importa in che lingua canti (Del resto il suo inglese è impeccabile.)L’EP include cinque brani originali e la tradizionale folk Ka-tie Cruel, resa famosa da Karen Dalton. Ma non la si direbbe una cover, da quanto LeBlanc la fa sua. Un banjo selvaggio, una cassa palpitante, e l’aspra voce di LeBlanc in prima linea. Il suo stile è stato pubblicizzato come “folk-trash”, e non è sba-gliato, ma il suo stile prende anche dal bluegrass e dal punk, specialmente per quanto riguarda velocità e potenza. Tutti i brani sono stupefacenti, ma la titletrack è degna di nota per il suo fischio sovrapposto a una chitarra acustica strimpellata dolcemente, come in un pezzo western dei vecchi tempi. Gold Diggin’ Hoedown è un agile pezzo bluegrass, almeno all’inizio, prima che la chitarra elettrica esploda e Le-Blanc e la band accelerino a tavoletta. E quando nella canzone urla “Whoo!”, si capisce che non urla a vanvera. Si sta proprio divertendo.Altrove si cavalca il confine tra dolcezza e durezza. La prima, You Look Like Trouble (But I Guess I Do Too), at-tacca dolce e pacata: LeBlanc narra dei suoi sentimenti per un amante, poi di colpo il volume si alza e lei prende a correre come un cane da caccia. “Ma per qualche stra-na ragione, beh, vorrei che tu fossi più che un’altra can-zone da cantare”, ripete, legando il privato (una relazio-ne) al pubblico (la sua musica). La ripetizione in questo EP ha un grosso peso. Su The Waiting List canta, “Beh, ti darà la sua camicia, ma non il suo cuore”, ripetendolo come un mantra. La ricorrenza delle parole dà al brano urgenza e peso. Ma oltre all’incontro tra il country-rock

LISA LEBLANCHIGHWAYS, HEARTACHES AND TIME WELL WASTED EPdi Zachary Houle

VOTO DELLA REDAZIONE:

NOVITÀ

7,5

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tempi. Va bene che Cuomo ormai non sa più scrivere testi che non siano auto-referenziali: ma Everything non sembra un deliberato e stucchevole riciclo. Anzi: è pieno di ferite, dolore e di alcuni dei riff più cazzuti dai tempi di Maladroit. Everything Will Be Alright in the End sono gli Weezer che provano qual-cosa a se stessi: se vogliono possono ancora essere gli Weezer.Dall’imbarazzata strimpellata che apre Ain’t Got Nobody, è chiaro che Cuomo ha raggiunto quel fascino goffo che aveva reso immortale The Blue Album, con motivi compatti, concen-trati, canticchiabili, mentre i testi vanno, alla bisogna, dall’a-pologetico all’umoristico. È un bel contrasto con gli istrionismi di chitarra ‘à la Cheap Trick’ che avevano aiutato la band a farsi un nome.Anche quando si ributta sul classico tema di ragazza&problema, da Lonely Girl a Cleopatra fino al duetto con Bethany Co-sentino dei Best Coast su Go Away, sembra sempre al sicu-ro: motivi solidi ma non fantastici, testi semi-prevedibili, e un generale senso di divertimento che non pare forzato come su Raditude o Hurley. Mentre Da Vinci è sicuramente il momen-to più buffo del disco, il resto di Everything mostra un Cuomo a disagio come non era da anni. Non si concentra più sui suoi desideri o sul successo altrui, ma sui propri fallimenti morali e ambizioni private.Il trittico in chiusura, The Futurescape Trilogy, è talmente sconnesso da non suonare compatto come Cuomo avrebbe voluto. Ma quando il terzo movimento (Return to Ithaka) co-mincia a disegnare ornati arabeschi hair-metal, sembra subito il fratello piccolo di Explode dei Van Halen, facendovi chiu-dere l’album con un gran sorriso in faccia. Era da un sacco che gli Weezer non erano così genuinamente divertenti.

Insomma, il disco non è perfetto, ma non ne ha nemmeno bisogno. Dopo l’or-rendo Raditude, quasi nessuno pensava che gli Weezer sarebbero mai più stati presi sul serio, ma Cuomo doveva prova-re a sé e ai fan di essere ancora in grado di scrivere belle canzoni, mettendosi alla prova invece di prendersela noiosamen-te comoda come faceva da tempo. Forse è il loro miglior album in anni, ma c’è di più: pur con le sue pecche, è sicuramente il loro miglior disco in dieci anni.Pensateci, se vi domandate quando, di preciso, sia iniziata la loro rinascita.

Strano a dirsi, ma ora Rivers Cuomo ora sa che gli Weezer fanno cagare.Non è sempre stato così. Qualcuno dirà sempre che i loro capo-lavori sono The Blue Album e Pinkerton, così come The Green Album (2001) e il suo aspro sequel, Maladroit (2002), mentre l’abilità Cuomo nello scrivere grandi riff pop-metal l’ha reso co-autore dell’unico brano dei (dimenticati) Cold giunto in classifica.Pensateci, se vi domandate quando, di preciso, sia iniziata la loro fine.Everything Will Be Alright in the End esiste solo perché Ri-vers Cuomo sa che da dieci anni gli Weezer sono passati dal successo di vendite e critica all’essere lo zimbello dell’indu-stria musicale. Beverly Hills aveva il suono di Cuomo che svendeva la propria anima, i suoi testi mostravano solo una vacua fame-di-fama, e da lì in avanti è andata sempre peggio. Lo conferma Raditude, del 2009: il peggior album mainstream del decennio.Con mosse ottuse come passare a un’etichetta hardrock come la Epitaph (e subito pubblicare un disco in collaborazione con artisti da Top40) o quella nauseante serie di clip su internet, gli Weezer, tentando di fare musica la più easy possibile, hanno in realtà ridotto la loro ‘fanbase’ ai soli fedelissimi. Ma anche questi sono stati messi a dura prova da quest’incessante getto di materiale incongruo: solo le demo di Cuomo e le rarità san-no richiamare alla mente i bei vecchi tempi.Che sorpresa, allora, quando l’esplosivo testo di Back to the Shack, primo singolo di Everything Will Be Alright in the End‘, ha toccato le orecchie di chi già aveva buttato via tutti i loro ultimi album: Cuomo stava oggettivamente chiedendo scusa ai fans!Testi così fanno di Everything Will Be Alright in the End uno dei più incredibili atti di auto-flagellazione musicale della storia. Tornati al produtto-re di Blue/Green, Ric Ocasek, la band sta deliberatamente facen-do musica che suona come quella dei sum-menzionati bei-vecchi-

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WEEZEREVERYTHING WILL BE ALRIGHT IN THE ENDdi Evan Sawdey

VOTO DELLA REDAZIONE:

NOVITÀ

7,5

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88 OUTSIDER NOVITÀ

con la rock band dà al pezzo uno scioglimento della tensione che quasi la neutralizza. Il protagonista deve “trovare carbu-rante”, catturando il moderno dilemma di qualcuno che ama le auto classiche ma non sopporta il pensiero di bruciare altra benzina. L’auto stessa arriva fino al brano successivo, Glim-mer, ma con la canzone c’entra poco. Qui abbiamo a che fare con l’assenza dell’amata. “Quando guido la mia macchina, viaggiando senza te/Riesco ancora a vederti seduta accanto a me”. Come solitaria ballad al pianoforte, tiene bene. Col ci-nematografico preambolo del pieno d’orchestra, a volte sem-bra fin troppo stramba.E penso sia questo a impedire a Storytone di suonare since-ro. Young canta di cose che per lui hanno importanza, come l’amore e la natura. Gioca con gli arrangiamenti, ad esempio con le partiture per resofonica, armonica o corno. Offre imma-gini della medesima canzone in dimensioni diverse. Capisco a cosa stia mirando, ma qualcosa semplicemente non suona. I grossi ottoni di Hello Chicago fanno solo scena, mentre la versione col solo piano suona schiettamente solitaria. Gli un-tuosi, torbidi corni di Like You Used to Do sono in diretto con-trasto con la versione basata su armonica e chitarra acustica.È avventato pensare che Neil Young abbia faticato su un al-bum in crisi d’identità come questo. Sono passati 46 anni dal suo primo disco solista. Se mira a confonderci, penso che se ne sia più che guadagnato il diritto. Per molti artisti anziani,

è quella la chiave della vitalità. Ma ciò non vuol dire che Storyto-ne sia uno dei migliori risultati di Young. A volte suona come una battuta mortalmente seria. Altre, niente più che una ben prodotta considerazione che un giorno gli è passata per la mente. Lo stile di Young con parole e melodie è fuori questione. Brani come Pla-stic Flowers stanno in piedi da soli. Quindi, se vi piace l’asciut-tezza, trarrete il massimo possibi-le dalle canzoni nella loro forma essenziale. A volte un po’ di ap-parenza aiuta, come con Who’s Gonna Stand Up?. Ma il servizio completo andrà bene solo a chi ama strafare.

Se vi dicessi che Storytone di Neil Young è un album dai testi diretti e pungenti, probabilmente rispondereste qualco-sa del tipo: “Sì. E le mucche fanno ‘muu’, i cani ‘bau’ e i gatti ‘miao’. Qualcosa che non so?”. Domanda ragionevole. Ma se vi dicessi che buona parte del disco è registrata con un’orche-stra? E che altre tracce hanno la sua voce sorretta da una big band swing? E che nella versione deluxe di Storytone, potete ascoltare tutte le canzoni re-incise con la voce di Young da un solo strumento alla volta, come un piano, una resofonica o un ukulele? Storytone è una specie di paradosso.L’ultimo pugno di canzoni di Neil Young è una serie di riflessioni personali su alcune cose che lui considera verità universali. Pertanto il suono può essere sia massiccio che sussurrato. E nella versione deluxe, alcune canzoni sono di entrambi i tipi. Sulle prime, non si sa se ascoltare il messaggio o l’arrangiamento. Posso dire che questo dilemma si risolve passando del tempo con l’album. In che altro modo incidere grandi passaggi orchestrali sotto a versi come “smetti ora di trivellare”?Gran parte di Storytone può essere visto come un riflesso della recente vita personale di Young. Ma qui lo dico e qui lo nego, perché non mi piace frugare tra i panni sporchi di un artista finché non li espone in pubblico. Ci dice di essere “diverso da chiunque”, su I’m Glad I Found You, una ballad per un’amata che attende alla fine della vita. Ma nella secon-da traccia si fa portabandiera per Madre Terra. Who’s Gonna Stand Up? È piena di slogan ecologisti, che non sorprendono nessuno visto che ha già scritto un intero album parlando di un’auto elet-trica. “Chi si alzerà e difenderà la Terra?/Chi dirà che lei ne ha abbastanza?”, dice il ritornello passando in maggiore. La strofa, in minore, come al solito non è af-fatto vaga – aggredendo le trivel-lazioni e incoraggiando la gente a “contrastare il petrolio”.Il brano seguente mette Young al posto di guida–di un’auto, chiaro. I Want to Drive My Car è un aperto road blues che ribolle, nella versione solista. La versione

NEIL YOUNGSTORYTONEdi John Garratt

VOTO DELLA REDAZIONE:

NOVITÀ

6,5

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so. Lanois ha usato queste voci—che a volte suonano uma-ne, a volte animali, tutte create da Lanois—nel tentativo di “creare questo pianto natale contemporaneo” come dice lui. Space Love procede in un modo che è quasi impressionante per la sua sottigliezza, sembrano all’inizio un solitario grido nel vuoto prima di fondersi in qualcosa di più solido, conser-vando comunque il proprio lamento.Per quanto concerne l’evocazione, First Love, tenera e so-gnante, guida il gruppo. L’inclusione di un Suzuki Omni-chord richiama i lavori di Brian Eno, mentore di Lanois. Iceland è assieme domestica e aliena, mentre astutamente scala le bizzarrie che a volte il paese del titolo può suggerire.Flesh and the Machine ha una componente cinematografi-ca. Lanois ha unito le forze con Robert Milazzo della Modern School of Film per creare dei video per i brani. Il progetto racchiude cineasti di grido—come Atom Egoyan de ‘Il Dolce Domani’ o Mary Harron di ‘American Psycho’—e sconosciuti, tutti all’opera per dare al lavoro di Lanois forme e colori di-stinti. Lanois, chiaramente, non ha problemi a creare imma-gini coi soli suoni, ma il progetto è un valido sforzo nel so-stenere il video musicale, quasi dimenticato da che MTV ha abbandonato la forma, la commercialità e la rumorosita dei grandi video pop.La vera componente visiva di Flesh and Machine sarà rap-presentata dai concerti di Lanois per promuovere l’album.

Ogni sera, assieme al bassista Jim Wilson e al batterista Brian Bla-de, campionerà, mixerà e processe-rà in tempo reale sul palco, facendo di ogni serata del tour un’unica, irripetibile performance. Il piano suona stuzzicante, forse ancora più progressive dei processi utilizzati per Flesh and Machine. In un cer-to senso, questo metodo si rivolge al presente e al futuro ancora più di qualunque cosa sullo stesso album, per via dell’effimericità del panora-ma culturale pop contemporaneo. Le performance live di Flesh and Machine appartengono alla notte, ma le sensazioni stuzzicate dall’a-scolto dell’album rimarranno ben più a lungo.

Nella cartella stampa per il sesto e ultimo lavoro solista di Daniel Lanois, Flesh and Machine, il noto produttore e vir-tuoso dell’ambient ammette di non avere familiarità con pro-getti attuali tanto stimati come Burial e Four Tet, artisti che hanno flirtato un po’ col genere. A volte tali specifiche man-canze possono portare ad affascinanti risultati. Nel caso del-la musica futurista, l’inconsapevolezza di quali suoni stiano esplorando gli artisti dell’ambient e dei generi circostanti può mettere la musica di un artista poco illuminato a rischio di di-ventare immediatamente datata. È una fortuna che in questo caso si parli di qualcuno esperto come Lanois, che con Flesh and the Machine ha alzato la posta dichiarando di star cer-cando “qualcosa di mai sentito prima”. Anche se Lanois non ci riesce del tutto, la sua visione viene chiarita con altri mezzi.Flesh and Machine è la candidatura di Lanois “L’Album da Auricolari dell’Anno”. Penso di aver già dato questo titolo a You’re Dead! di Flying Lotus, ma Flesh and Machine è co-munque una pubblicazione affascinante. Questa è ambient con la capacità di eccitare, coinvolgere ed evocare. La prima di queste qualità si trova ai cancelli di partenza, con The End, la seconda traccia dell’album. Anche se la cacofonia qui sol-levata è simile a quella stuzzicata da The National Anthem dei Radiohead, i modi in cui la fa arrivare sono piuttosto di-versi. I soli strumenti usati nel brano sono chitarra elettrica e batteria, che Lanois ha campionato pezzo per pezzo, proces-sato e poi rimesso nella traccia. The End non sembra nulla di ambient, sensazione che ritor-na con Opera. Dopo un minuto di delicate pulsazioni, le per-cussioni attaccano in un modo balbettante che minaccia di im-porre all’ascoltatore un attacco d’ansia. Fortunatamente, delle voci pacatamente campionate ammorbidiscono la batteria ab-bastanza da evitare che il vostro cuore vada in overdrive.Sioux Lookout e Space Love si classificano come due delle tracce più stimolanti del disco: la prima utilizza i suoi campioni di voce in modo da ottenere un effetto particolarmente maesto-

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DANIEL LANOISFLESH AND MACHINEdi Maria Schurr

VOTO DELLA REDAZIONE:

NOVITÀ

7,5

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ho fatto aprire gli occhi”, canta e, dopo una pensosa pausa: “Non è vero?”I Don’t Want to Change You combina gli elementi fonda-mentali di Rice: drammatici archi e una chitarra acustica disadorna; delicati tocchi di elettronica, tastiera, batteria e il caldo battito di un basso; voce straziante e appassionata; i testi bruciano della passione di un amante confuso. “Dovun-que andrai, potrò sempre seguirti”, stride, come se letteral-mente sanguinasse dall’interno. Il brano è probabilmente una canzone d’amore per la sua ex partner musicale e di vita, Lisa Hannigan, che una volta ha detto di amare ancora. “Se vuoi solo stare sola, posso aspettarti senza aspettare”, conti-nua. “E se vuoi che lasci perdere, sono più che disposto. Per-ché non voglio cambiarti... Non voglio farti cambiare idea”.Eppure, si ha l’impressione che Rice l’idea gliela farebbe cambiare più che volentieri.Altri punti forti tra le otto lunghe tracce dell’album—solo una dura meno di otto minuti, e due superano invece gli otto—sono Colour Me In (sulla voglia di essere coinvolto) e The Box (sul sentirsi legati). Sono entrambe tipiche canzoni di Rice, iniziano dolcemente con la sola chitarra prima di evolvere in un crescendo di archi e lamenti vocali. L’esotica e sensuale It Takes a Lot to Know a Man incorpora tocchi quasi mediorientali, mentre Trusty and True, col suo mix di sem-plice ballata britannica e gioiosi cori africaneggianti, dà un

senso di liberazione spirituale. Per quanto riguarda la prima e l’ultima—Rice in que-ste tracce esplora un intero arcobaleno di tradizioni musicali e culturali, tra melodie sinuose, tentazioni classicheggianti, schiet-to rock e strutture spaziali, psichedeliche.Ed Sheeran può avere preso il posto di Rice, in assenza del cantante, offrendo un simile senso di dramma e pathos a un pub-blico più vasto e più giovane, ma non l’ha mai rimpiazzato. Dopo tutto, è dura imma-ginarsi Rice che si butta nell’arena (per così dire) di rap e grosse basi loopate. Il suo lavoro dipende tutto dalle nuances e dalle dinamiche, da profondità e apertu-ra. Dopo quasi un decennio d’attesa, My Favourite Faded Fantasy offre tutto questo con un elenco di brucianti tracce di ango-scia a lungo sopita e finalmente liberata.

Negli otto anni passati da che Damien Rice ha pubblicato il suo secondo album, 9, la produzione domestica di delicato cantautorato indie ‘da Starbuck’ è emerso e poi esploso nel mainstream teen-pop con l’arrivo di un accolito di Rice, Ed Sheeran. Si riesce quasi a vederlo, Rice, che nasconde la te-sta tra le ali con cipiglio accigliato, cupamente torcendosi le mani, pensando: “Ti prego, ti prego, liberami da questo bloc-co dello scrittore”.Rice è stato graziato. E profondità e ampiezza del suo terzo LP studio dimostra che per quanto seducenti siano le canzoni delle sue legioni di seguaci, il suo caratteristico mix di chi-tarre acustiche e archi, loop, sovraincisioni e crude, dolorose confessioni è inimitabile. Se 9 (2006) era una leggera delusio-ne dopo il suo sublime debutto nel 2003 con O, questo nuovo, maturo album rimette saldamente il cantante e chitarrista sul ring.Aperto e chiuso da due brani nebulosi e pieni d’atmosfera—la titletrack e Long Long Way—e arricchito da canzoni più sobrie piene di crepitante pizzicato e archi, My Favourite Faded Fantasy è sorretto al centro dal doppio colpo di The Greatest Bastard e I Don’t Want to Change You. La prima, su una chitarra sfiorata con dolcezza, è puro Rice, mettendo in dubbio una serie di affermazioni che sono a un tempo au-togratificanti e autodenigratorie, con quella saggezza che ar-riva solo con l’età: “Ti ho fatto ridere, ti ho fatto piangere, ti

DAMIEN RICEMY FAVOURITE FADED FANTASYdi Mark Segal Kemp

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7,5

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martellante… ma in fondo questa descrizione va bene per molti brani del disco. La varietà qui non conta—qui si par-la di puro e folle rock&roll. Dovrebbe richiamare alla mente Gene and Eddie, Jerry Lee Lewis, Little Richard—e sa-pete cosa? Ci riesce. (Se non sapete di chi stia parlando, questo disco non fa per voi. No, contrordine—ne avete bisogno.) Sarà anche calcolato, ma trasuda gioia ed energia. È vivo.Tra i brani più significativi troviamo la (leggermente) lenta What’s Her Name, la furibonda titletrack (col suo stupendo assolo di basso), la fighissima Lemme Slide e la più tranquilla Girl With the Blues in Her Eyes. Ma siamo onesti: sono tut-ti significativi, specialmente se siete dell’umore giusto. Un disco consapevolmente fuori moda, ma dal suono onesto e vero. Non è “psychobilly” (che termine sciocco), ma Rockabil-ly Riot è veloce e duro come un qualsiasi album degli Stray Cats. Eppure sembra anche più saldo, più sicuro di sé. Non c’è bisogno di trascendere nel “punk”—il selvatico rock di Setzer è abbastanza trasgressivo di per sé.Qualche scivolata? Direi I Should’a Had a V-8, che spinge la sua scherzosa atmosfera bandistica e il ridicolo gioco di pa-role del titolo fino al limite dello stucchevole, e Blue Lights, Big City, che sbuffa con un groove e un gioco armonico à la Elvis/Orbison, ma abbassa l’energia dell’insieme. Il brano finale, Cock-a-Doodle-Don’t, è ridicola quanto V-8, ma è trop-po irresistibile da ignorare. Ma anche queste tre (le ultime tre dell’album) sono piene di gioia e forza e una piacevole assen-

za d’ego. Potrà sbigottirvi, ma saltarle sarebbe come saltare Chantilly Lace.Mi rendo conto di non aver citato nessun te-sto, ma questo perché il punto qui non sono i testi. Sono buoni, attenzione—brillanti e divertenti e ammiccantemente sconci—ma sulla lunga distanza contano a malapena. Quello che conta è che questa dozzina di trac-ce porterà vita e gioia alla vostra collezione musicale. Se vi faranno venire voglia di farvi il risvolto ai jeans e arrotolarvi un pacchetto di paglie nella manica della maglietta, tanto meglio. Badate bene, Rockabilly Riot! All Ori-ginal non cambierà il mondo o chissà che. Ma vi farà sorridere, ballare, e vi farà anche lanciare nell’occasionale “Vai, bello, vai!” Chiamatela sciocchezzuola, se volete: ma se-condo me è puro rock&roll, gente.

Se avete scartato gli Stray Cats come una sciocchezza nostal-gica, negli anni ‘80, probabilmente farete lo stesso con l’ulti-mo di Setzer, Rockabilly Riot! All Original. Stessa roba: musica da car-club a palla che parla di ragazze, motori, spasso. Roba che non passano alla radio, ora: ma nemmeno nell’82. Ma a differenza degli altri progetti revival di 30 anni fa (Billy Joel, Huey Lewis, etc), la band di Setzer non è mai parsa condi-scendente o leziosa. Ok, era un imbarazzante retrò, e ok: i com-ponenti si conciavano come delle comparse di ‘Grease’. Ma sono comparsi come una forza originale con cui fare i conti, come ‘ una tribute band degli Sha-na-na. Sembravano dire: ‘C’è il punk, il metal, la new wave, ma non scordatevi da dove vengono’. Del resto, se la scena punk londinese li ha accolti, perché noi non dovremmo?Ma i Cats non erano punk. Spiccavano, perché sapevano suo-nare. E lo sanno ancora fare, con amore, per questo Rockabilly Riot! All Original ha tanto successo. Se vi piace il rockabilly fatto con stile, energia e competenza, eccovi serviti.Ma li dovremmo prendere sul serio? Cioè: i titoli sembrano la scaletta di Grease 2: Let’s Shake, Vinyl Records, Stiletto Cool, Rockabilly Blues. Cristo santo! Non suona… fasullo? Beh, for-se: e allora?! Date a Setzer del fasullo, se dovete: ma non pen-siate nemmeno per un attimo che non abbia la musica nel sangue.Lo aiuta molto l’aver rinunciato a tutti gli ornamenti della Brian Setzer Orchestra. Stavolta è tornato al talentuoso trio composto da Mark Winchester al basso (contrabbasso, ovvio), Noah Levy alla bat-teria (in piedi, natu-ralmente), e Kevin McKendree al piano (acustico: che crede-vate?). Ma è la semi-acustica di Setzer a guidare le danze: e con quella è mostruo-so come sempre.Si comincia con Let’s Shake, tre furiosi ac-cordi che aprono la scena a una deliziosa chitarra e a un piano

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BRIAN SETZERROCKABILLY RIOT! ALL ORIGINALdi Matt Casarino

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7,5

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l’arrangiamento funziona in modo eccellente, con un taglio rock che porta la tradizione in nuove direzioni, mentre la musica di Amidon le dà una nuova focalizzazione.Down the Line porta avanti l’idea del patchwork, con pas-saggi di chitarra e batteria stratificati a creare finestre nella canzone, nella canzone e nel processo di registrazione. Si fanno avanti lampi di musica e di storia, mentre la voce di Amidon sfuma e riappare nel mix. Il risultato finale è strano, bizzarro e del tutto seducente.Blue Mountains è morbida e splendida mentre ti assorbe, prima di aprirsi ed evolversi tra la voce e il violino. Una sto-ria d’amore, espansione territoriale, viaggio e adattamento a una nuova vita, tutto racchiuso da una descrizione localiz-zata. Una classica storia tradizionale, cui viene data un’am-bientazione molto moderna.Alcuni momenti sono più spensierati, per esempio Pat Do This, Pat Do That, guidata dal banjo, che sboccia grazie all’aggiunta di chitarra e batteria. È un innegabile piacere ascoltare la traccia mentre cresce e accoglie altri elementi –- mentre diventa più di quanto non fosse all’inizio, nel modo in cui fa lo stesso album. La titletrack spicca –- una ripresa nuova e decisamente diversa di una storia conosciuta nella versione inglese come ‘the Cruel Brother’. La delicetazza e difficoltà della storia – una storia di gelosia e assassinio – è resa come se fosse un sogno, divenendo un oggetto di bellez-

za e meraviglia, forte e audace.Groundhog Variations è forse il passaggio più bizzarro dell’album –- completa d’ombreggiatu-re dal sentore improvvisativo quasi jazz, ma il cantante e la band la portano con grazia. Ami-don vuole ovviamente fare quello che gli viene meglio, può farlo, e sa sempre cosa stia facendo. Won’t Turn Back e Your Lone Journey sono en-trambe gloriose, tenere ed evocative, dei tributi parimenti forti e smaccati. Devotion è portata con aplomb, dando ulteriore prova del fatto che Amidon possa mettere mano a diversi tipi di canzone e di ambiente. È in grado di entrare nelle canzoni, e le sue canzoni entrano dentro di te, con amore, tenerezza ed emozione.Amidon vive a Londra, è il marito di Beth Or-ton e Lily-O è bello quanto il precedente Bright Sunny South del 2013.Che dio ce lo conservi.

Cantante, chitarrista, violinista, suonatore di banjo, la storia di famiglia di Sam Amidon è fatta di musica, canzoni, ballo e narrazione, tutti temi che si ritrovano nel suo sesto album, Lily-O. È stato originariamente concepito come un progetto d’improvvisazione con il chitarrista jazz Bill Frisell. Duran-te il suo sviluppo, il disco è diventato un patchwork di can-zoni contemporanee e tradizionali, eseguite con passione e dedizione.Con testi e idee raccolti da una gran varietà di fonti, Amidon si è messo in combutta con la chitarra di Frisell (si sono co-nosciuti quando Amidon era un teenager, nei tardi anni ‘90), assieme al basso di Shahzad Ismaily e alla batteria e l’elet-tronica di Chris Varalaro. La produzione del disco ha avu-to luogo a Reykjavik, con Valgeir Sigurðsson al timone. Quest’avventura vede Amidon e la band incidere comple-tamente dal vivo, in un efficace tentativo di suonare in un ambiente intimo, ‘reale’, senza né artifizi né sovrincisioni. La voce di Amidon sta al cuore delle composizioni, a volte poderosa, a volte vacillante, ma sempre adatta e composta.Walkin’ Boss è un inizio aperto e brillante –- fatto di banjo stridente e percussioni che rotolano in giro per adattarsi al tema e all’idea del brano. La voce di Amidon attacca piut-tosto cruda mentre lui si fa strada attorno alle parole – la descrizione di una vita industriale. La squillante chitarra elettrica riflette già l’atmosfera live dell’incisione, mentre

SAM AMIDONLILY-Odi Gideon Thomas

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7,5

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sta il paradigma: qui è sorretto da un harmonium e da una ripetitiva chitarra acustica. Sembra il risveglio da un sogno allucinogeno, le vellutate intonazioni scoppiano d’immagini escatologiche: “Ho visto sanguinare i piedi dei pellegini/Ho visto città affogare/Ho visto eserciti morire”. Induce paura e anche accettazione, diventando ancora più inquietante.Floor of the Ocean è egualmente ipnotica ed energizzante, di certo la più orecchiabile. Un ritmo contagioso, gelato e bol-lente assieme, richiama i Joy Division col suo solido mid-tempo e un robusto basso a spaziare sopra le tastiere. La voce è più acuta del solito e quasi irriconoscibile, ricca d’armonie femminee. Non il miglior brano del disco, ma un’ottima scel-ta come singolo: riassume l’intero album, con i soliti temi di colpa&redenzione, la voce alle stelle e la fusione di vari stili.I sette brani rimasti vanno ognuno per la sua strada. Ma non sembra una scomposta retrospettiva sulla carriera di Lane-gan: scorrono invece assieme con naturalezza. Killing Season fa pensare ai Portishead e agli Sneaker Pimps con la sua aria noir, in contrasto col severo blues di I Am the Wolf, co-struita su sincopate chitarre classiche che richiamano Leo-nard Cohen. La voce di Lanegan sembra un soffio di vento sul deserto, come faceva nei suoi primi album. Più divertente è Seventh Day, una specie di seguito spiritual di Metham-

phetamine Blues. Ma dove quella era paranoica, questa è composta. Stessa pulsazione, ma più riservata, e danna-tamente seducente. Poi c’è Torn Red Heart, sfrontata ballata country che La-negan canta ancora sul registro acuto. Riporta sia a Nashville che ai Velvet Underground.Chiude Death Trip to Tulsa, che sbuffa come un treno a vapore. Piena di auda-ce fatalismo e secchi suoni industrial, è una riflessione sulla desolazione. A metà emerge un synth cristallino, mo-strando di nuovo il gusto di Lanegan per il melange. E se non è il miglior pezzo del disco, ci va vicino, finendo Phantom Radio con positività.È la quintessenza di Mark Lanegan: un buon punto di partenza per i novi-zi e una fonte di gioia per i più storici fan.

Pochi artisti sanno passare dal rock all’elettronica al country-folk con classe. Ancora meno sono quelli in grado di infon-dere in tutti questi generi lo spirito del vecchio blues. Forse solo Mark Lanegan sa farlo, entrando in ogni genere come se fosse sempre casa propria. Una carriera imprevedibile, la sua, e sempre più prolifica mentre si avvicina il suo 50° comple-anno. E con Phantom Radio ha raggiunto un momento spar-tiacque.Dopo una carriera solista di scuro folk-blues (da The Winding Sheet del 1990 fino a Field Songs del 2001), Lanegan nel 2004 si è reinventato con Bubblegum. Sperimentale eppure molto blues, riprendeva alcuni aspri elementi rock. Un’estetica che tornava nelle pesanti influenze electro del suo seguito, Blues Funeral (2012). Phantom Radio va ancora più a fondo, com-pletando la trilogia.E di questo trittico è la parte più solida, mostrando in modo coerente i vari aspetti di Lanegan. Sembra più sicuro che mai, ha tenuto ciò che funzionava in quei dischi e ha scartato il resto. Per quanto validi, Bubblegum era transitorio e Blues Funeral un po’ laborioso e ridondante, mentre Phantom Ra-dio è perfetto. Mantiene il trip-hop e le tendenze krautrock del precedente, aggiungendo il garage rock di Bubblegum e i toni pacati dei suoi primi cinque lavori solisti.Fondamentale qui è l’inimitabile voce. Anni di vita sana gli stanno facendo bene: la sua voce è flessibile e morbida, ripulita delle vecchie, roche qualità. Questa ritrovata dimensione fa della sua voce un veicolo ancora più efficace per i suoi testi. Non è certo il primo a speziarli con riferimenti biblici o a usa-re concetti come il leviatano, Gabriele, Satana, il peccato, l’espiazione e simili come muse, ma questi elementi non sembrano mai banali. Nessun altro ha tanta profetica gravità in gola.Il disco parte stuzzicante con Harvest Home, una melodica chitarra poten-ziata da robuste percussioni digitali. Mentre procede, subentra uno scintil-lante, adamantino synth. Lanegan, intanto, suona cavernoso e omnicom-prensivo, in pace con tutti i suoi pecca-ti. Subito dopo, Judgement Time spo-

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MARK LANEGAN BANDPHANTOM RADIOdi Cole Waterman

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di Nick Mason per Time, ricca di rototom.Solo che quella era l’introduzione... beh: a Time. Mentre Sum apre a Skins, un assolo di batteria di 2’30’’. Una band che ti costringe a un lungo assolo di batteria ad ap-pena 15 dall’inizio rischia di sembrare un po’ approssimativa e povera d’idee. L’ultima volta che i Pink Floyd hanno fatto una cosa del genere è stato nel ‘69 con Ummagumma, album però appunto molto incerto e disprezzato dalla band.Di tanto in tanto The Endless River ha qualche guizzo, o giù di lì. Ma malgrado l’accuratissimo dettaglio sonoro, e lo sforzo compiuto da Manzanera e Gilmour, perché tutto scorra a do-vere, capita che The Endless River tradisca la propria genesi in modo un po’ troppo ovvio.Ciò detto, è pieno di ottima musica e, appropriatamente, molta è ispirata allo stile di Wright. Ebb and Flow, che mo-stra la slide guitar di Gilmour mentre soffia languida attor-no a una paradisiaca struttura di piano, è particolarmente goduriosa. In Autumn ‘68 è commovente lo scambio tra le tastiere di Wright, di 45 anni fa, e la chitarra contemporanea di Gilmour. Incarna il senso ultimo dell’album: malgrado l’a-marezza e l’incomunicabilità, tra i componenti esiste un pro-fondo legame sonoro che non sarà infranto nemmeno dalla morte. In certi momenti The Endless River sembra una se-rie di prologhi musicali messi assieme, delle continue intro. Ascolti Anisina e pensi: carina, davvero, ma farla diventare davvero una canzone vi costava troppo? Di contro, quando fanno centro lo fanno in grande: Louder Than Words è mae-stosa, commovente e generosa, un altro paio di pezzi così non avrebbero guastato.Ma ne avrebbero fatto un album più significativo, ed è proprio

per questo che non ci sono. A volte si parla di “glossa fi-nale alla carriera”, con falsa cortesia, ma sembra che The Endless River sia stato con-cepito esplicitamente come glossa: non il nuovo album di una band esistente, ma un’eco del passato – un vero abbraccio di gruppo. Chi non è stato invitato, potrebbe non essere d’accordo: ma in questi termini, l’album raggiunge il suo scopo.

Si dice che i Pink Floyd siano finiti nove anni fa, sul palco del ‘Live 8’ ad Hyde Park, con un rigido abbraccio di grup-po cui almeno uno di loro ha dovuto essere costretto. Molto pinkfloydiano: a parole un atto di riconciliazione finale dopo anni di rancore, nei fatti gelido come sempre.Eppure eccoci, dieci anni dopo, davanti a The Endless River, un “nuovo” album che, da una parte, non è nuovo affatto – si basa su scarti di 20 anni fa del 2° album post-Roger Waters, The Division Bell. Dall’altra, suona più ‘Pink Floyd’ – almeno, quelli dei 50 milioni di copie vendute di The Dark Side of the Moon – di qualsiasi altro album degli ultimi 35 anni. Ma per-ché? E perché ora? Se c’è una ragione, di certo non ha a che fare coi soldi: i Pink Floyd sono tra i pochi a non avere questo cruccio. Ufficial-mente è un omaggio postumo a Richard Wright, il tastieri-sta morto di cancro nel 2008. Si può pensare a un ultimo sber-leffo a Waters: non includerlo dimostrerebbe che il fascino della band sta nel sound – la chitarra di Gilmour, le tastiere di Wright – e non negli apocalittici testi dell’ex-leader.Sia come sia, The Endless River è un modo per godersi assoli molto, molto gilmoureschi, dagli strazianti bending agli scarti tra melanconia ed euforia, e riconoscere accenni a tutto il pas-sato della band. Compare un accenno dell’assolo di Another Brick in the Wall (Part 2); e una vecchia registrazione all’orga-no di Wright alla Royal Albert Hall s’intitola qui Autumn ’68, richiamando Summer ’68 di Atom Heart Mother. L’elegiaca, splendida coppia d’apertura, Things Left Unsaid e It’s What We Do, ricorda l’altro splendido peana per un compagno scomparso, Wish You Were Here, del 1975. Data la complessa storia di Wright con la band – licenziato mentre incidevano The Wall, ma richiamato come turnista stipendiato per il tour, escluso dalla creazione di The Final Cut, poi ripreso con paga settimanale per A Momentary Lapse of Reason – avrebbero potuto intitolarlo ‘Sign on You Crazy Diamond’: continua a fir-mare... I dolci accordi di piano e il sax di Anisina sono della stoffa di Us and Them, mentre le rullate e la tensione crescente di Sum ripor-tano alla geniale introduzione

PINK FLOYD THE ENDLESS RIVERdi Alexis Petridis

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C. Stubblefield al basso, mentre Jim Spake e Scott Thom-pson formano una delle migliori sezioni di fiati al mondo. Live from Atlanta è un’antologia del tipico rock&roll Ame-ricana dei Lucero, infuso di soul, macchiato di country, inca-tenato al punk. Prende canzoni da tutti e nove i loro album in studio, anche l’inno spacca-tasti Rick’s Boogie, dall’album solista di Rick Steff. È uno dei migliori album live che abbia mai sentito, una perfetta presentazione della band per chi non li conosce, e un fondamentale per i giradischi degli sta-gionati fedelissimi dei Lucero.Per chi non li conosce, di solito comincia così: senti una loro canzone, ti stuzzica, cerchi l’album, non riesci a smettere di ascoltare il suddetto album, ti metti a comprare tutta la pro-duzione dei Lucero che riesci a trovare, inclusi due docu-mentari indipendenti su DVD. E la tua sete non è placata. Li vedi dal vivo e ti contagiano definitivamente. Il resto è sto-ria. Sei diventato un Fedelissimo, e la tua vita si regola ora attorno al momento in cui la band sarà in un raggio di 200km da casa tua. Chiedetelo a qualunque Fedelissimo, e di certo ve lo confermerà. Il segreto del loro successo non sono solo grandi canzoni e grandi live, ma l’accessibilità della band ai fan. Hai quasi sempre modo di incontrare Ben e i ragazzi per ringraziarli e dir loro quando la loro musica conti per te, un modesto e genuino gruppo di galantuomini che è anche in

grado di devastarsi in scena.Se non siete fan, fatevi un favore e comperate una copia di Live from Atlanta. Questo è il disco che con-quisterà tutti e, prevedo, catapul-terà i fan in un nuovo mondo. Il solo packaging vale i soldi spesi, con parecchie immagini dei foto-grafi Nicole Kibert e Adam Smith, e ho avuto il piacere di intervistare e scrivere un articolo su quest’ulti-mo qualche mese fa. I Lucero han-no appena annunciato il “By The Seat Of Our Pants Tour”, durante il quale apriranno i loro show con un set acustico a band completa a New York, Boston, Los Angeles e San Francisco – una tre-giorni in tutte e quattro le città, quest’autun-no. Lunga vita al rock&roll.

Dopo 16 anni in tour, facendosi strada negli USA e in Europa, il settimino di Memphis (ottetto, a volte, con Todd Beene dei Glossary alla pedal steel guitar) i Lucero hanno finalmente pubblicato un album live. Cattura il delirio da cui ogni vero fan viene travolto grazie all’esperienza dal vivo. Live from Atlanta è stato inciso durante una ruvida tre-giorni al Termi-nal West di Atlanta, nella seconda metà di novembre 2013, raduno che mi ha fatto malissimo perdermi. Ciò che ne è uscito è un doppio CD/quadruplo vinile che si dimostra un buon esempio di quello che è vedere questa band dal vivo.Non ricordo nemmeno quante volte io abbia avuto il piacere di vedere un loro live. Li ho visti in svariati stati e location nei miei 11 anni di furiosa dedizione, e ogni show è grandio-so per diversi motivi. Ho visto live sciatti, concentrati, ubria-chi, col frontman Ben Nichols disteso sul palco prima dei bis, il concerto più punk e anche il concerto più country che abbiano saputo mettere assieme. È questa la bellezza dei Lu-cero, specialmente dal vivo: non saprai mai cosa ti capiterà, un po’ come con i concerti dei loro numi tutelari, i Replace-ments, negli anni ‘80. Una cosa però è certa: canterai in coro e ti divertirai un sacco.I Lucero (“stella splendente” in spagnolo) sono Ben Nichols a voce e chitarra, Brian Venable alla chitarra solista, Rick Steff alle tastiere e alla fisa, Roy Berry alla batteria, John

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LUCEROLIVE FROM ATLANTAdi Sad Songs Keep The Devil Away

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po “Americana” degli ultimi tempi. Perché ogni love story si fonda sulla reciprocità: e malgrado entrambi avrebbero po-tuto cavarsela da soli, è solo rinforzandosi l’un l’altro e pun-tellando le rispettive debolezze che hanno creato la potenza che gli Shovels & Rope sono diventati. Sono i June Carter e Johnny Cash della nostra generazione, e sarà la Storia a di-mostrarlo.Forse è perché arrivano dalla Carolina che l’immagine dell’acqua appare così tanto in Swimmin’ Time. C’è qual-cosa di immortale e immediato nell’immagine delle maree della modernità. Siamo poveri e ricchi, liberi ma incatenati da passioni, eccessi ed ego. Aggiungete i detriti galleggianti dell’industria discografica e Swimmin’ Time diventa subito un eccitante mare da navigare. Ancor di più se si pensa che la loro musica è tutto meno che facile per il gusto moderno. Delta blues, pizzicato, rockabilly, narrazioni sanguinose: tut-to in acustico. Gli Shovels & Rope stanno di nuovo rendendo fondamentale un sound che ha già visto tramontare i suoi tempi d’oro. In fondo è meglio abbracciare le comodità mo-derne con intelligenza. Difatti Swimmin’ Time combina que-sti canti della Nuova Depressione alle moderne tecniche di produzione.Rispettando la filosofia DIY, Swimmin’ Time è stato inciso e masterizzato in casa (letteralmente), e postprodotto da Trent. Swimmin’ Time si allontana dai precedenti lavori nell’ab-bondanza di stratificazioni strumentali. Il duo non ha mai suonato così gustoso, specie nelle piccanti Evil e Ohio, o nel

doo-wop anni ‘50 di Coping Me-chanism.Unendo passato e presente, han-no raggiunto il futuro. Swim-min’ Time mostra il meglio della musica vecchia e nuova, il passato idealizzato e il disgusto-so, violento, insensato presente. Testi da farti scappar l’anima dal petto incontrano armonie che convertiranno nuovi ascoltatori per pura emozione. Sono troppo poetico? Ci potete scommettere. Non c’è molto apprezzamento da parte di pubblico e critica che non sia pagato, oggi. Io glielo dico gratis.

È un momento d’oro per il duo Americana degli Shovels & Rope. In cinque anni, marito&moglie Michael Trent e Cary Ann Hearst hanno guadagnato la fama nazionale con un paio di tamburi scassati e due vecchie chitarre. La loro è una vera storia di ascesa e riscatto, completa di colpo di fulmine, anni di dolorosa separazione, una gloriosa riunione e il trion-fo finale del bene sul male: e forse presto ne sapremo anche qualcosa di più.Prima degli Shovels & Rope, Trent è stato una specie di tro-vatore country. Southern Gothic nel suo senso moderno, l’LP solista di Trent tratteggia la disperazione e l’affamata ambizio-ne di qualcuno che arriva dal niente. Trent ha composto delle solide murder ballads in minore fedeli al codice d’onore degli Appalachi. Restando in questo solco avrebbe potuto far qual-cosa di sé, ma una notte d’estate, negli abissi al neon di un bruciabudella di Savannah, è inciampato sui passi di Cary Ann Hearst.La prima produzione di Hearst è marcata da un attacco alla scrittura tutto stregoneria&cocaina à la Stevie Nicks. Che sia la sua magnetica presenza scenica o la voce, sa gettare un incantesimo sul pubblico. È quel tipo di donna che potrebbe battere un tipaccio in una gara di bevute per poi riportarlo a casa e metterlo a nanna. Dolce, altezzosa e potente, non sor-prende che Trent se ne sia innamorato.I due artisti hanno però portato avanti le loro carriere soliste trovando poco successo, finché la necessità non li ha riporta-ti assieme. Il loro primo prodotto, Shovels & Rope (2008), era più una collaborazione che il lavoro di una band, ma la critica l’ha adorato.S’è capito che facessero sul serio con la seconda uscita, O’ Be Joyful (2012). Non era una specie di “Shovels & Rope 2”. O’ Be Joyful manteneva proprio le promesse del titolo—una mania al-legra e spensierata per contrastare la depressione del primo album. La criti-ca, ancorché entusiasta, contava poco: il gruppo ora partecipava a festival nazionali, faceva tour da headliner e appariva nei principali programmi TV.Eccoci ora al terzo movimento. L’ul-timo album, Swimmin’ Time, per la Dualtone, è l’apice di ciò che fa degli Shovels & Rope il più eccitante grup-

SHOVELS & ROPESWIMMIN’ TIMEdi Raymond E. Lee

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OLDIES BUT GOLDIES

ra che è presente in tutti i giri della sezione hard rock del can-tato e la chitarra che cesella la chiusura. Per Misty Mountain e Four Sticks vale quanto detto per Rock And Roll. When The Levee Breaks ha il missaggio alternativo e, pur essendo una minuzia, è interessante. Potente, con gli equilibri diversi.

HOUSES OF THE HOLY Companion Audio Disc1. ‘The Song Remains the Same’ (guitar overdub reference mix)2. ‘The Rain Song’ (mix minus piano)3. ‘Over The Hills and Far Away’ (guitar mix backing track)4. ‘The Crunge’ (rough mix; keys up)5. ‘Dancing Days’ (rough mix with vocal)6. ‘No Quarter’ (rough mix with JPJ keyboard overdubs; no

vocal)7. ‘The Ocean’ (working mix)

Forse è The Song Remains The Same l’unica cosa di un certo interesse di queste due nuove uscite, la versione è quella senza la voce e con la chi-tarra solista che conduce le danze in tutte le parti del pezzo. Forse sarebbe stata il caso di presentarla come The Campaign o The Overture, i nomi che aveva il pezzo in origine nella sua versione strumentale. The Rain Song, The Crunge, Dancing Days e The Ocean spostano di pochissimo gli accenti mentre Over The Hills nel finale sfuma mentre il riff acustico iniziale torna (malamente) nel mix. No Quarter è un rough mix senza voce e assolo di chitarra, quello che colpisce è la batteria di Bonham che qui sembra ancor più efficace.Insomma riassumendo. Nulla di davvero interessante dunque nei ‘companion dis’c, e per l’ennesima volta mi chiedo dove siano finiti quegli 11 inediti esistenti del perio-do 1971/75. Mi chiedo anche a che pro mettere in piedi un trambusto del genere per una semplice nuova rimasterizzazione (pur molto buo-na) di dischi storici vista la pochezza del materiale bonus. Il fatto è che se Jimmy Page delude dei fan come il

sottoscritto e, posso assicurare, tanti altri nomi pesantissimi, la cosa (dal suo punto di vista) è preoccupante. Il problema è che Page sembra circondato solo da “yes men”: discografi-ci, ingegneri del suono, giornalisti, amici, fan … nessuno rie-sce a dirgli le cose come stanno, sono tutti terrorizzati al solo pensiero di fare con lui anche una piccola considerazione che sia aderente alla realtà, perché basta quello per essere tagliati fuori. Capisco che avere entrature con tipi come Jimmy Page

LED ZEPPELIN

IV/ HOUSE OF THE HOLY

Secondo capitolo delle ‘deluxe edition’ dei Led Zeppelin su cui ci eravamo soffermati sul numero di giugno e… seconda delusione. Led Zeppelin IV, è il disco definitivo della band di Page, e Houses Of The Holy, album forse sottovalutato rap-presenta i LZ nel momento più positivo della loro storia: il mood è ottimo, il rapporto tra i musicisti è ancora buonissi-mo, il gruppo è all’apice delle capa-cità espressive e tecniche, il successo – già grandissimo – di lì a breve si trasformerà in una isteria collettiva (soprattutto negli USA) catapultan-doli in una dimensione tutta loro.Purtroppo Page dunque spreca un’altra occasione buona, dando alle (ri)stampe due album bellissi-mi accompagnati da materiale extra davvero… risibile.Vediamoli uno x uno.

LZ IV Companion Audio Disc1. ‘Black Dog’ (basic track with gui-tar overdubs)2. ‘Rock and Roll’ (alternate mix)3. ‘The Battle of Everymore’ (man-dolin/guitar mix from Headley Grange)4. ‘Stairway to Heaven’ (Sunset Sound mix)5. ‘Misty Mountain Hop’ (alternate mix)6. ‘Four Sticks’ (alternate mix)7. ‘Going to California’ (mandolin/guitar mix)8. ‘When the Levee Breaks’ (alterna-te UK mix)

Sembra quasi che questo materiale alternativo (o parte di esso) sia sta-to fatto oggi e che non siano quindi registrazioni originali dell’epoca, come se Page volesse giustificare la nuova rimasterizzazione del catalogo includendo un po’ di cose in più, ma senza svela-re ciò che in realtà avvenne in studio in quegli anni.Black Dog ha qualche vocalizzo in più alla fine e non ha l’as-solo, sfido chiunque a trovare le differenze tra questa Rock And Roll e quella originale; The Battle of Everymore è il sem-plice mix di chitarra e mandolino, Stairway to Heaven ha qualche sfumatura diversa nel finale: il secondo riff di chitar-

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va a fare un ultimo sforzo, frugando nei propri ricordi come a volte fa (sperando di trovare chissà cosa) in quei cestoni dei centri commerciali pieni di cd a 99 centesimi. David Wiffen... ma si! All’improvviso gli ricompare davanti una mappa del Canada disegnata un tempo dal buon Valerio Marini per il ‘Mucchio’ di allora, piena di indicazioni e di nomi (compre-so quello di David Wiffen) all’epoca quasi tutti sconosciuti al nostro recensore: il quale a questo punto si alza dalla poltrona e punta dritto verso la sua privatissima stanza, quella che cu-stodisce i dischi, i cd, i libri e i mensili raccolti nell’arco di una vita, e destinati a chissà quale ingloriosa fine. Eccolo lì, trovato: è il ‘Mucchio Selvaggio’ n.18, in copertina c’è un elegante Roger McGuinn in dolcevita bianco, e fra gli ar-ticoli elencati a fianco c’è proprio quel CANADA Special che stava cercando. Arriva a pagina 8, e alla vista della mappa la sua memoria letteralmente si scoperchia, e tutto (o quasi) ri-torna a galla. Quell’articolo, all’epoca, lo aveva letto e riletto almeno dieci volte, affamato com’era di facce, suoni e nomi

nuovi, qualunque fos-se la loro provenienza geografica: David Es-sig, Willie P. Ben-nett, Valdy, Myles & Lenny... e poi lui, eccolo lì, David Wif-fen, con quella faccia uguale sputata a quel-la di un attore ameri-cano, uno che recita-va la parte del capo-famiglia alieno in un vecchio telefilm... ma si, come si chiamava... Niente, un altro dei fuggitivi. L’anno era il 1979, e il

recensore, seguendo le dritte del ‘Mucchio’, si era già inoltrato da tempo in territorio canadese (in quello meno battuto, s’in-tende: dalle parti di Neil Young o di Joni Mitchell c’erano già stati tutti), scoprendo i nomi di Bruce Cockburn, Murray McLauchlan, Gordon Lightfoot, Kate e Anna McGarri-gle, ma in questo articolo ci si spingeva oltre, si esploravano sentieri più impervi e nascosti, e fra i tanti artisti e dischi se-gnalati, quello che più lo colpì, chissà perché, fu Blackie And The Rodeo King di Willie P.Bennett, che in qualche compli-cato modo riuscì a procurarsi. Stupendo. Ricorda ancora, sulla prima facciata, una bellissima cover di Stardust di Hoagy Carmichael, e gli vien voglia di riascoltarla. Ma sotto la B (è tutto in ordine alfabetico, se no col cavolo) il disco non c’è... e dunque? Forse sotto la P? Macchè. Poi si ricor-da: l’ha regalato a un amico. Un tipo fidatissimo, un supremo intenditore e collezionista, il quale, con buone probabilità, sta leggendo queste righe proprio adesso. Il recensore ne appro-fitta per salutarlo. E intanto si consola pensando che forse su Spotify... va bè, controllerà più tardi. Ora la sua curiosità (ancora vivacissima, al contrario della

possa essere elettrizzante, ma ogni tanto nella vita occorre avere onestà intellettuale. In una recentissima intervista a PAGE qualcuno gli chiede delle ‘bonus tracks’:Going through the bonus tracks…They’re not “bonus tracks!” The idea of the companion vo-lumes is to get away from the idea of “bonus tracks.” And to have something that is actually in the reflection of, or the shadow of, the original album. You get running orders that are very similar to the original album. So it’s nothing like a “bonus” thing at all. As far as something like “Stairway” goes, the whole perspective of the mix is quite different. It has an audio “3D” quality to it, which is quite different to the main version. There’s a version of “When the Levee Breaks,” which was mixed in London on the companion disc, and the harmonica is totally different from the version that was done at Sunset Sound, on the version that everyone knows. I’m really proud of that mix, because it’s so dense and it’s omi-nous and it’s cool.

Ecco, da qui si capisce che Jimmy Page ha perso la bussola, lui stesso dice che con i companion volumes l’idea era di allontanarsi dal concetto di bonus tracks e di avere qualcosa che fosse il riflesso dell’album originale. Vi sembra una mossa vin-cente? La quasi totalità dei LZ fan con un po’ di ca-rattere è rimasta delusissima da questa campagna di ristampe, la grandissima maggioranza dei ‘ca-sual fan’ è assolutamente indifferente. Quello che vende (ma ancora per quanto) è il brand Led Zep-pelin, e dunque Page è molto fortunato, non fosse così si dovrebbe porre qualche domanda e propor-re qualcosa di sostanzioso quando ripubblica il ca-talogo; ma non si risolverà mai nulla, l’uomo vive nella sua torre d’avorio circondato solo da servitù.Peccato. TIM TIRELLI

DAVID WIFFEN

DAVID WIFFEN

“David Wiffen! Chi era costui?” rumina tra sé, come un no-vello Don Abbondio, il recensore seduto sulla sua poltrona. “David Wiffen! Questo nome mi par bene d’averlo letto o sen-tito...” Si, ma dove? Quando? La sua memoria è ormai ridotta a un colabrodo, dal quale quotidianamente fuoriescono nomi, fatti, titoli di dischi e di film, facce di persone e luoghi visitati, in una sorta di inarrestabile fuga di massa. Un canadese forse? O un inglese... O forse entrambe le cose. Insomma, non se lo ricorda. Ma prima di ripiegare miseramente su Wikipedia inglese, pro-

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in forma di ricordo preciso: Drivin Wheel... ma certo, ecco chi l’ha scritta! Subito gli torna in mente la muscolosa versione dei Byrds su Farther Along, il loro disco d’addio, ma poi an-che quella di Tom Rush, e dello stesso Roger McGuinn (pri-ma del dolcevita bianco), e poi ancora dei Cowboy Junkies, dei Jayhawks, persino di Chris Robinson... La memoria (la sua, perlomeno) funziona così: se si riesce ad afferrarne un’e-stremità, poi tutto il resto le vien dietro, come in una rete da pesca. Ma di tutte le Drivin’ Wheel che ricorda, questa gli sembra proprio la migliore, a conferma del fatto che la versio-ne originale di qualunque canzone rimane il più delle volte insuperabile.Poi arriva la beffarda Mr.Wiffen (Is Incommunicado Today), in cui Wiffen stesso, parlando di sé in terza persona, comuni-ca al mondo la sua volontà di non comunicare, abdicando al proprio ruolo di autore. Geniale. E poi ancora Blues Was The Name Of The Song, un capolavoro di arguzia e concisione, e la malinconica Mention My Name In Passing (peccato per quel synth, che si poteva evitare. Molto meglio la versione per basso, pianoforte e voce aggiunta come bonus track), per giungere a conclusione con More Often Than Not, una sorta di confessione a proposito dell’abuso di alcol nel quale l’auto-re sta lentamente scivolando, che verrà ripresa da Jerry Jeff Walker (pure lui assai incline alla bottiglia) nel suo Bein’ Free. Il disco originale finirebbe qui, ma in questa nuove edizione c’è spazio per due inediti (uno dei quali è la cover di Lover’s Prayer di Randy Newman), e due alternate takes di ottima qualità.E il recensore, a questo punto, sorride, pervaso da quella spe-cie di felicità retroattiva (non sa come altro definirla) che sol-tanto questo genere di scoperte riesce ancora a trasmettergli. Ed ancora più felice lo rende il fatto che David Wiffen, dopo questo disco, ne fece subito un altro (e poi più niente, nessuno sa bene il perché), a detta di tutti anche più bello, e che lui, a quarant’anni di distanza, ancora non l’ha sentito. Mai, nem-meno una volta. Che goduria. P.S.: John Lithgow! Ecco come si chiamava l’attore... Un fug-gitivo in meno. CARLO ZAMPOLINI

JONI MITCHELL

LOVE HAS MANY FACES: A QUARTET, A BALLET, WAITING TO BE DANCED

Il famoso cofanetto di cui si parla oramai da più di dieci anni è finalmente qui. La signora l’ha scelto, disegnato, commen-tato e approvato con i suoi tempi e le sue modalità. Joni Mitchell ha fatto degli ultimi 20 anni uno spazio temporale

memoria) è tutta incentrata su questo disco di David Wiffen, pubblicato nel 1971 per la Fantasy (l’etichetta dei Creedence), ricomparso nel 2001 sul catalogo della disinvolta Akarma, e oggi finalmente ripescato dalla Water Records. E scopre che sì, Wiffen era nato in Inghilterra (suo padre era un ingegne-re al servizio dell’esercito Britannico), ma si era trasferito in Canada già nel 1958, al seguito della famiglia, quando aveva solo sedici anni, e in breve tempo era riuscito ad inserirsi nel circuito folk locale grazie soprattutto alla sua voce così atipi-ca, baritonale e già matura, a metà strada fra quelle di Neil Diamond e Leonard Cohen. Ma scopre anche che David era un ragazzo inquieto, smanioso di scoprire il mondo (o quan-tomeno il Canada), e che presto abbandonò Toronto, dove abitava con la famiglia, per dirigersi verso ovest (in autostop, naturalmente) facendo tappa prima a Calgary, dove gestì un piccolo locale dal festoso nome di Depression Folk Club, e poi a Vancouver, dove prese parte, nel 1965, a quello che dove-va essere un concerto collettivo alla Bunkhouse Coffehouse, e che invece si trasformò in una performance solistica, per il semplice motivo che nessuno dei musicisti invitati, a parte lui, si presentò (forse per colpa delle strade ghiacciate, mi vien da pensare). Ne venne fuori un disco live che subito si trasformò in un og-getto di culto (il recensore, giusto per curiosità, prova a cercar-lo su ebay, e ne trova una copia in vendita a 2850 dollari. Non gli sembra il caso). Partì da lì la carriera di Wiffen, che lo portò prima a militare tra le fila di vari gruppi dalla vita breve (The Pacers, The Children, e i 3’s a Crowd, coi quali registra un al-bum intitolato Cristopher’s Movie Matinee), e poi ad incidere il suo primo album solista, David Wiffen per l’appunto, pro-prio quello che il recensore (perché, come si è detto, fu attratto da un altro nome, perché trovarlo era impossibile, e soprat-tutto perché i soldi erano quelli che erano) non comprò. Ma non è mai troppo tardi per nulla a questo mondo, e proprio ora, nel mese di ottobre dell’anno 2014, con la stessa gioiosa apprensione con cui si stappa un vino d’annata, si accinge ad ascoltarlo per la prima volta. La canzone d’apertura s’intitola One Step, e dura soltanto due minuti e mezzo, ma basta e avanza per provocargli un moto di commozione (il recensore, invecchiando, è diventato un po’ sensibile): l’arpeggio di un’acustica, il suono pastorale di un corno francese, una morbida sezione d’archi, e la voce sua-dente di Wiffen che recita : “Well, it just takes one step to start a journey / No matter how far you may go...” Che meraviglia, mica se l’aspettava un suono così. Pensava a qualcosa di più semplice, di più ruspante, di più “canadese” insomma. Si al-lunga comodamente sulla poltrona e procede. E la strada si fa piacevolmente flessuosa, ondulata, e lo conduce con dolcezza dalla blanda psichedelia di Never Make A Dollar That Way all’arioso country rock di I’ve Got My Ticket (con uno scintil-lante John McFee alla steel guitar), dalle atmosfere da salo-on di What Alot Of Woman, a quelle da piano bar di Since I Fell For You (cover di un celebre brano di Buddy Johnson), dalla potente Drivin’ Wheel, una ballatona southern rock che sembra uscita da un disco della Marshall Tucker Band, a... E all’improvviso i neuroni del recensore si ricompattano

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Chalk Mark In A Rainstorm. Night Ride Home invece inau-gura una trilogia con Turbulent Indigo e Taming Of The Tigerdi un ritorno ad una versione acustica spigolosa e intimista. Dopo il divorzio da Klein che pure l’aiuta nei due bellissimi volumi orchestrali di standard e rivisitazioni del suo reper-torio, la Mitchell si è rinchiusa nel privato prima ritrovando la figlia che aveva abbandonato all’inizio della sua carriera e poi separandosene di nuovo per incompatibilità caratteria-le. A 70 anni è diventata una Greta Garbo della musica che si concede ogni tanto a celebrazioni, mostre di quadri, balletti ispirati dalla sua musica. Anni fa ha anche dichiarato che la musica non ha più l’ispirazione forte che aveva un tempo, ed è stata sostituita dalla pittura. Questo cofanetto, dal titolo pretenzioso e forzato è qui per ri-badire che una carriera cosi minuziosa e perfetta non si può dimenticare dall’assenza fisica della sua protagonista. Le sue canzoni anche senza di lei vivono una vita propria e testimo-niano momenti di straordinario genio e lucidità inarrivabili allora come oggi. Non a caso ‘The Guardian’ in un recente ar-ticolo si è spinto a dichiarare che la Mitchell soprattutto con-siderando l’apice della sua carriera (da Blue del 1971 a Hejiradel 1976) dimostra di essere un caso a parte nei letterati della musica pop e rock (Dylan, Cohen, Lennon, Young….), ipotiz-zando che in quei cinque anni la sua produzione sia superio-re a quelli di tutti gli altri. MARCO CESTONI

RY COODER

SOUNDTRACKS

Nel corso della sua lunga carriera, Ry Cooder ha evitato con successo il culto della personalità. La sua musica si eleva da sola senza interferenze. Troppo spesso i dischi vengono ven-duti sulla base di quel che sta dietro – cosa accade nella vita privata dell’artista, come o perché la musica è stata composta, o semplicemente attraverso una grande sovra-rappresenta-zione del musicista. Come ascoltatore e frenetico consumatore di musica, diven-ta un po’ noioso vedere pompata una storia nei giornali o in tv per essere persuasi a comprare qualcosa sia che ti piaccia quella musica o no. I responsabili delle pubbliche relazioni e i guru del marketing potranno sussultare disapprovando e protestando, mostrando classifiche e analisi a favore del mar-chio, del logo e dei messaggi subliminali. Eppure nessuna percentuale di carisma mi convincerà ad investire tempo e denaro nella musica di una rockstar se la musica fa schifo; le circostanze della sua esistenza e di come il musicista ha sco-perto le virtù del succo vegetale macrobiotico nella sua disin-tossicazione, sono irrilevanti. Il problema è che tutto è già sta-to fatto e scritto più volte, ma la critica è in cerca del modo per interessare il lettore; la spazzatura promozionale qualche vol-

per opporsi, criticare, estraniarsi, distanziarsi. Ovviamente il suo nemico n.1 è l’industria discografica, che lei stessa definì alcuni anni fa “un cesso”. Si è tolta tutti i macigni dal cuore e dalle scarpe commentando su tutto e su tutti con uno spieta-to acume e spavalderia. Ad una signora cosi con un bagaglio come quello contenuto in questo cofanetto cosa gli puoi dire? Di cosa può avere paura? Chi puo contraddirla? Q-tip il rapper che per il bellissimo brano di Janet Jackson Got ‘till It’s Gone che campionava Big Yellow Taxi ha coniato la frase “Joni Mitchell never lies”. E forse la sua integrità è una delle doti che più ha dimostrato di avere in questo mezzo secolo di carriera, una carriera che è andata sempre contro le mode, le tendenze, le direzioni, il “marketing”. La sua è stata una ossessiva ricerca della perfe-zione, che soprattutto negli anni settanta l’ha portata a di-stanziarsi da tutti i generi, fino a crearne uno tutto suo. Joni è Joni. La Joni che ha mescolato le carte con il rock, il pop, il jazz. Che è arrivata perfino a creare una sua accordatura per suonare la chitarra. In questi 53 brani che spaziano da Both Sides Now del 1969, fino ad Hana del 2007 (il suo ultimo album in tutti i sensi) si sottolinea una personalità irrequieta, ribelle, castigatrice ma al tempo stesso innovatrice. Il sound Joni Mitchell è quanto di più complesso la musica pop ci abbia offerto. Basti pensare all’album Hejira qui rappresentato con 3 brani, dove la sua chitarra è accompagnata in un duetto percussivo e armonico dal basso elettrico di Jaco Pastorius. E se l’album Court And Spark è quello piu vicino ad un compromesso commerciale (6 i brani contenuti qui), forse il successivo The Hissing Of Summer Lawns che all’epoca fu stracciato dalla critica è quel-lo che nel tempo ha acquistato status di culto a partire dalla bellissima copertina. Gli anni ottanta e il sodalizio con un nuovo marito, il bassi-sta Larry Klein l’hanno riconciliata con il mercato seppure a modo suo. Tre gli album: Wild Things Run Fast, Dog Eat Dog e

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ni personali di dominio pubblico suggeriscono che non sia particolarmente interessato a diventare una celebrità. Di conseguenza è comprensibile che la carriera di Cooder possa confondere l’appassionato di musica moderna, essen-do il narcisismo e l’ossessione di se stesso il punto di partenza di una industria basato sull’artista individuale o sui ragazzi del gruppo. Quando Cooder pubblica dischi solisti sono rara-mente incentrati su se stesso, ma basati sulla vita e le storie di altra gente. Chavez Ravine tratta della comunità di Los An-geles, My Name is Buddy è la storia di un felino e I, Flathead è incentrato sulla cultura delle corse di automobili. In questo contesto passare una decade a comporre colonne sonore non sorprende del tutto, ma dal punto di vista di un fan potrebbe sembrare sbagliato quando avrebbe potuto cantare di se stes-so. Non è necessario aggiungere che il recente libro di Cooder, Los Angeles Stories, tratta ancora di altri. Il ragazzo è vera-

mente modesto.L’uscita stampa della Rhino per Soundtracks è minimale, attaccata ai fatti; un box retro-spettivo con sette cd di colonne sonore. Tra il 1985 ed il 1986, Co-oder ha attraversato un periodo prolifico in cui ha composto oltre la metà delle colon-ne sonore di questa raccolta – Alamo Bay, Blue City, Crossroads e Paris,Texas. Le mu-siche spaziano molto in termini di stile, an-

che se il gruppo di musicisti che le hanno suonate è rimasto sostanzialmente il medesimo. Difatti, Jim Kelter, il leggen-dario Jim Dickinson, il chitarrista David Lindley ed il compositore Van Dyke Parks possono essere sentiti in ogni colonna sonora della raccolta.Cooder era stato avvicinato dal regista Walter Hill nel 1980 per il suo western The Long Riders e come dimostra questa raccolta fu un buon inizio per un numero considerevole di la-vori insieme. La colonna sonora si dirige profondamente nel folk, utilizzando pezzi della guerra civile come Rally ‘Round The Flag per assicurarsi autenticità con l’utilizzo di strumenti tradizionali come banjo, violini, un sax e tamburelli. I mono-loghi parlati sono interessanti ma enfatizzano che questa era musica creata per un film. Sfortunatamente, comunque, Jack Of Diamonds, che faceva parte del film e non compare sulla pubblicazione originale, è ancora mancante.Music For Alamo seguiva nel 1995, qualcosa di sostanzial-mente differente, e questa volta per il regista Louis Malle. Il film trattava di un veterano del Vietnam che tornava e la musica è appropriata. Theme From Alamo Bay è splendida-mente melodica e tutti i pezzi sono evocativi, malinconici e d’effetto, arricchiti da una strumentazione giapponese come

ta è una cosa necessaria per far iniziare le cose a funzionare. Al tempo stesso, la critica sa che le uscite stampa sono il punto di vista della casa discografica; niente di negativo, quasi sicu-ramente tutto al superlativo, e in questa posizione il recenso-re deve decidere se lui o lei non siano altro che dei dilettanti, parafrasando quel che gli è stato passato o in alternativa ac-cettare solo ciò che sia rilevante con un pizzico di scetticismo, scartando il resto. La situazione si presta alla nevrosi, se il cri-tico apprezzi ma al tempo stesso risenta dell’informazione for-nita dal meccanismo corporativo. Questo è il motivo per cui chi scrive di musica spesso se non diventa un passivo-aggres-sivo è soggetto a umori mutevoli; è un brutto affare, questo, interessante solo per individui conflittuali o tormentati, che sono nell’ambiente per la gloria e non certo per i soldi. Pote-te capire perché Lou Reed non fosse entusiasta della critica musicale; l’unico che abbia mai apprezzato fu Jeremy Reed, un poeta.La pagina di Wikipe-dia di molti artisti ha una sezione di “vita personale”, ma per Ry Cooder non c’è un bel niente. E neppure sa-rete in grado di trova-re una biografia o una autobiografia. Cooder ha avuto la tendenza a restare da qualche parte in seconda o in prima fila nei mo-menti significativi della storia della mu-sica; nei sessanta se ne andava in giro con Taj Mahal, Captain Beefheart, Lowell George e Randy Newman e pare certo che gli fosse anche stato chiesto di en-trare nei Rolling Stones anche se Richard doveva avere ben chiaro che non era certo il tipo adatto a sostenere il loro ritmo. Infatti, meglio Ron Wood,.Dicono comunque che abbia insegnato a Keith Richards ad accordare la chitarra blues a cinque corde; poi gli Stones se ne andarono a conquistare il mondo con una cascata di riff di chitarra.Sebbene lavorasse alla colonna sonora di Performance nel 1970, quel decennio è stato speso principalmente sulla car-riera solista per cui divenne noto come un asso della chitarra slide, la sperimentazione e l’innovazione con la musica ame-ricana diventando quasi un modello per i movimenti alter-nativi country e di Americana. Gli anni ottanta sono passati principalmente a comporre colonne sonore e i novanta su quello che è nota come world music con A Meeting By The River, Talking Timbuktu e Buena Vista Social Club. Gli ulti-mi anni vedono Cooder tornare di nuovo alla carriera solista. Nonostante sia indicato da molti come uno dei cento miglio-ri chitarristi, Cooder sembra avere un approccio alla vita con una notevole mancanza di ego, e la mancanza di informazio-

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musica che amava fare che il Ry Cooder che noi conosciamo ascoltando i suoi dischi solo; era libero di buttare giù il paesag-gio acustico che aveva in testa, lontano dalle pressioni com-merciali dell’industria musicale. Con rispetto allo stile, potete ascoltare tutte queste colonne sonore e alla fine dell’esperien-za non sarete più vicini a sapere nulla sull’uomo stesso eccet-to quello che ama: la musica, la musica, la musica.Infine è forse sorprendente che le sue colonne sonore per Sou-thern Comfort, The Border e Streets of Fire manchino, ma for-se c’è un’altra raccolta che uscirà. Nel frattempo Soundtracks è una meticolosa introduzione per il Cooder cinematografico, essenziale per fans e appassionati di film, ma non aspettatevi alcun pettegolezzo hollywoodiano. Per quello dovete andare altrove. CHARLES PITTER

GEORGE HARRISON

THE APPLE YEARS

Nella gerarchia dei dischi solisti dei Beatles, il livello quali-tativo di George Harrison è di poco al di sopra delle uscite periodiche di Ringo Starr. E se venisse individuato in assolu-to limitandosi al meglio, la discussione che lo riguarda inizie-rebbe con il suo disco del 1970, All Things Must Pass, finendo con Cloud Nine, il disco del 1987 che ha lanciato il suo ultimo vero hit. I sette album che ha inciso nel mezzo tutto questo tempo, tendono a essere eliminati dalla conversazione. Non sono qua per cercare di offrire una revisione della prima parte dei dischi solisti di Harrison che sono stati abbelliti da un punto di vista acustico e impacchettati per un box, The Apple Ye-ars: 1968-1975. I sei dischi presi singolarmente e nell’insieme sono vicende incostanti che mostrano il defunto George al massimo della sua auto-indulgenza e coinvolgimento spiri-tuale. Le sue qualità indulgenti sono fortemente evidenti nei primi due dischi di questa collezione: Wonderwall Music del 1968 ed Electronic Sound dell’anno successivo. Il primo è una colonna sonora che Harrison ha messo insieme per accom-pagnare il film Wonderwall, una cosa ridicola risalente alla Swingin’ London e notabile solo le forme spesso nude dell’at-trice Jane Birkin.Eccetto alcuni momenti di pop psichedelico (il bel brano In The First Place inciso con The Remo Four), il lavoro resi-ste solo come tentativo di portare il suono della musica in-diana di fronte a un pubblico più vasto. Le esibizioni di sitar, shehnai e tabla sono graziose, ma fin troppo brevi per coin-volgerti all’interno del potere ipnotico di quella musica. An-cor più decadente è il suo seguito, un album costituito di due lunghi brani dove Harrison gioca con il suo nuovo giocatto-lino: un sintetizzatore Moog. Una cosa banale. Da quel mo-

il shakuhachi. John Hiatt e Amy Madigan si impegnano in un melodioso duetto country, Too Close; The Last Chance è un pezzo da ballo da bar con il cantante dei Fear, Lee Ving e David Hidalgo e Cesar Rosas dei Los Lobos ospiti sul bel valzer Quatro Vicios.Wim Wenders fu il successivo a sfruttare Cooder per una colonna sonora sul suo importante Paris, Texas sui tentativi di un uomo colpito da amnesia di rivivere relazioni familiari. La musica è spoglia e metallica, meravigliosamente evocati-va della vastità e del vuoto del paesaggio desertico del film. Il tema centrale è basato su Dark Is The Night di Blind Willie Johnson e la maggior parte della musica è una variazione su quel motivo dominante. Harry Dean Stanton aggiunge un delicato cantato spagnolo in Cancion Mixteca e ci sono alcuni dialoghi dal film inclusi in I Knew These People che ha una atmosfera paurosa. Wenders e Cooder sono tornati a lavorare insieme un po’ di tempo dopo per Buena Vista Social Club.Ci spostiamo su Blue City di Walter Hill, con Judd Nelson e Ally Sheedy, un film genericamente considerato una delu-sione. La colonna sonora è adeguata al suo tempo; la musica è impegnativa con molti effetti e sintetizzatori ma il modo di suonare di Cooder emerge comunque. Benmont Tench e Bobby King compaiono e Alejandro Escovedo dei True Believers suona in Marianne che è un valido pezzo pop. Don’t Take Your Guns To Town è una cover di una canzone di Johnny Cash e potrebbe sembrare l’uomo in nero in perso-na. Il film di Hill, Crossroads, è un altro film che non ha avu-to fortuna; i film su cui Cooder ha lavorato (fino a Cocktail) non hanno avuto un grande successo commerciale. Crossro-ads era una odissea blues ispirata da Robert Johnson e la musica mescola rifacimenti e materiale originale. Il modo di suonare di Cooder è puntuale e Sonny Terry aggiunge gran-di parti di armonica. Sfortunatamente nella colonna sonora manca il punto focale del film suonato da Steve Vai e Cooder e che può essere trovato su The Elusive Light and Sound Vo-lume 1 di Steve Vai.Johnny Handsome, un thriller con Mickey Rourke e Ellen Barkin ha avuto problemi al botteghino nonostante i nomi di grandi attori. La colonna sonora è interamente strumenta-le, interessante, con alcuni ritmi più lenti. Clip Joint Rhumba e Cajun Metal sono classici brani di Cooder e il cd contiene la musica più cinematografica della raccolta. Nel 1992 Hill e Cooder si unirono per Trespass, un altro thriller scritto anni prima da Robert Zemeckis e Bob Gale. La musica è jazz spe-rimentale, smussato dalla tromba di Jon Hassell, la chitarra di Cooder e le batteria pulsante di Keltner. Cazzuto e dissonan-te non è il disco che vorreste ascoltare se aveste il mal di testa.Deve essere un lavoro complicato comporre musica per un film. In primo luogo c’è da assicurarsi che la musica non sia più potente delle immagini sullo schermo e che, al tempo stesso, abbia un certo impatto. Questa raccolta mostra il la-voro di Cooder fuori dai grandi effetti, tuttavia, senza poter vedere i film chi potrebbe dire se tutto era funzionato bene nei cinema? Quel che è certo è che di per se questi dischi sono caratteristici e interessanti da ascoltare. Cooder apparente-mente guardava al suo lavoro sui film come più prossimo alla

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del lavoro chitarristico e delle voci di Harrison, la freschezza del suo lavoro di produzione e dove la sezione ritmica suona particolarmente presente, e la sua grande abilità negli arran-giamenti e come il brano principale del disco luccichi da uno swing blues all’esplorazione del sitar e delle tabla. Di tutti i dischi del cofanetto Apple Years, questo è maturo per essere riscoperto. Meno lo sono gli altri due dischi inclusi in questo pacchetto, Dark Horse e Extra Texture. Pur non essendo com-pleti fallimenti artistici, questi dischi vedono Harrison perde-re il suo istinto compositivo. Alcuni motivi potrebbero essere attribuiti ai problemi che attraversava la sua vita personale al tempo in cui ognuno venne inciso. Dark Horse venne regi-strato mentre Harrison fronteggiava una crisi religiosa e il di-vorzio; Extra venne fuori nell’ambito della povera accoglien-za ottenuta dal dischi precedenti e del tour che fece nel Nord America insieme a Ravi Shankar. Entrambi i dischi hanno comunque momenti in cui la vena di Harrison torna a galla. La frivola Is It He su Dark è una gioiosa affermazione delle sue preferenze spirituali che mescola molti interessi musicali insieme a strumenti indiani, il folk inglese e gli attacchi dei fiati R & B. Poche delle ballate su Texture vanno in profondità come la disperata Grey Cloudy Lies e la densa The Answer’s At The End con piano e archi. Harrison riesce persino a veni-re fuori con un canto natalizio, Ding Dong, Ding Dong che è contagioso come la Wonderful Christmas Time di McCart-ney e globalmente aperta come la Happy Xmas(War Is Over) di Lennon.Gli appassionati dei Beatles che avevano già le uscite su cd di questi dischi faranno bene a domandarsi che beneficio po-trebbe venire dall’aprire nuovamente i loro portafogli. Vorrei poter esservi utile. Non ho passato molto tempo ascoltando le rimasterizzazioni precedenti così non potrei dirvi se ci sia o meno alcun miglioramento. E dato che nessuno mi ha fornito il DVD o il libretto per poterne parlare non vi sono di aiuto nemmeno in questo caso. Quel che potrei dire è che le poche tracce aggiuntive non necessariamente arricchiscono i dischi, al di fuori della benefica inclusione sul disco Material World

di Bangla Desh, il singolo del 1971 che precorse i concerti di beneficienza a New York. Se occasionalmente siete ap-passionati dei Fab Four e di tutte le loro uscite prima e dopo, questo brano è essen-ziale da ascoltare per avvici-narvi ad apprezzare la cresci-ta artistica e di essere umano di Harrison. Prendete in un colpo solo tutti questi di-schi o sperate che vengano pubblicati singolarmente. In ogni caso immaginate Harrison che vi attenderà a braccia aperte e con sorriso malizioso sul volto. ROBERT HAM

mento Harrison decise di tornare a uno stile più tradizionale, con quattro album che scavavano all’interno di tematiche che hanno segnato quasi tutti i lavori solisti dei Beatles – il desiderio per l’amore e la pace nel mondo – così come rivelare i suoi sentimenti religiosi profondi ed uno sbilanciato senso dell’umorismo.Tutti questi interessi sono avvolti nell’irregolare, ambizioso All Things Must Pass. Quando venne pubblicato nel 1970, si trattò di una cosa imponente: un disco triplo confezionato in un grande cartonato. Se eri un acquirente di dischi all’epoca non c’era modo di evitare quel genere di cosa. E se ne portavi uno a casa non c’era modo di evitarne anche la musica. Erano canzoni avvolgenti, imbottite dal produttore Phil Spector e da una grande lista di collaboratori che includevano Eric Clapton, membri dei Badfinger, un giovane Phil Collins e il vecchio amico e compagno Ringo Starr. È troppa, trop-pa musica per una sola uscita, incastonata, però con le sue gemme – i singoli What Is Life e My Sweet Lord così come l’estatica Wah-Wah e l’eccellente riflessione sui rimorsi di Isn’t It A Pity. Chi vorrebbe, però, andare dopo oltre passando a un secondo disco e poi a un terzo di jam session prolisse? All Things avrà venduto anche più di sei dischi di platino, ma è anche uno dei dischi usati più facili da trovare in circolazione. Ci sono voluti tre anni a Harrison per pubblicare un altro di-sco solista, dato che passò un po’ di tempo per fare campagne e raccogliere denaro per i rifugiati senza casa della guerra di otto mesi per la liberazione del Bangladesh. Venne fuori da quella situazione attraverso il Living In The Material World del 1973 esprimendo la sua frustrazione per l’ineguaglianza dei redditi, su The Day The World Gets ‘Round, segnalando la sua profonda connessione con il Dio Hindu, Krishna con The Lord Loves The One, combattendo la sua condizione di star e la sua ricchezza con il brano che dà il titolo al disco e attac-cando i suoi precedenti compagni di gruppo e le loro cause sull’eredità dei Beatles, Sue Me Sue You Blues.Living è l’album che beneficia maggiormente degli sforzi di questa rimasterizzazione, aiutando a riportare fuori il vigore

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decisamente leggerina: tre brani di filmati casalinghi e uno spot pubblicitario di annata per il disco. Possiamo vedere ri-prese dei Wings in studio, che gironzolano per New Orleans dove il disco venne inciso e che fanno le prove. Gli appassio-nati di McCartney lo apprezzeranno ma sicuramente pense-ranno che si sarebbe potuto fare di più. Grazie alla rimasteriz-zazione e al miglioramento del suono, Venus And Mars con la parte aggiuntiva di audio valgono comunque la pena.Wings At The Speed Of Sound è invece un disco di successi che ha passato sette settimane in vetta alla classifica di Bill-board nel 1976, l’ultima ristampa della serie Archive Collec-tion di Paul McCartney. Il disco originale di undici brani è sempre stato un po’ traballante in termini di qualità, con solo sei pezzi cantati da McCartney. Le canzoni restanti erano state distribuite tra i vari membri dei Wings, con Denny Laine che ne cantava due. Quel che fa questa edizione di Speed Of Sound così necessaria è la fedeltà sonora sensibilmente mi-gliorata. Gli arrangiamenti infinitamente fantasiosi non sono mai suonati così effervescenti. Il basso di McCartney in par-ticolare scoppietta come mai nel classico Silly Love Songs e continua a pulsare sul rock sentimentale di Laine, Beware My Love. Un secondo disco include sette brani aggiuntivi, uno dei quali, Message To Joe, è un buffo ritaglio che dura

meno di un minuto. I due pezzi forti sono esecuzioni alterna-tive di Beware My Love e Must Do So-mething About It. John Bonham dei Led Zeppelin suo-na la batteria nel primo brano mentre McCartney canta nel secondo; Joe En-glish il batterista si occupa del cantato. Ci sono affascinanti demo di pianoforte per Silly Love Songs

e She’s My Baby. E altri demo per la ballata di chiusura Warm And Beautiful e per il classico da classifica Let ‘em In.Esiste anche una confezione con un libretto di lusso, ma il DVD in quella versione è comunque spiacevolmente corto, circa 22 minuti, con un contenuto di due filmati casalinghi oltre al video promozionale di Silly Love Songs. È un pecca-to che alcuni pezzi inediti di concerti dal tour di Wings Over America, che era a supporto di Speed Of Sound non siano stati svelati. Ed anche se non è così interessante come la pubblica-zione concomitante di Venus And Mars, le parti aggiuntive di audio sono certamente benvenute. Wings At The Speed Of Sound potrà anche essere una delle uscite più deboli di McCartney nei settanta, ma la remaste-rizzazione ne fa una una aggiunta che vale la pena di essere inclusa in ogni collezione. THE OTHER CHAD

MCCARTNEY / WINGS

WINGS AT THE SPEED OF SOUNDVENUS AND MARS

L’album Venus And Mars del 1975 di Paul McCartney è sta-to rimasterizzato e ampliato per includere un secondo disco di materiale aggiuntivo. Come nelle precedenti uscite della ‘Archive Collection’, la confezione di lusso a libretto inclu-de un DVD, oltre a un confezionamento più accurato e altre note interne. Il disco originale, che contiene i singoli Listen To What The Man Said e Venus And Mars/Rock Show, suona molto migliorato rispetto all’originale, vecchio di decenni. Le armonie, in particolare, risuonano di grande chiarezza; pren-dete la Spirits of Ancient Egypt di Denny Laine come pri-mo esempio. Le rocchettare Letting Go e la Medicine Jar del chitarrista Jimmy McCullogh ti danno un pugno finale che non sentivi in precedenza.Il secondo disco contiene quattordici canzoni in più, alcu-ne delle quali erano già state disponibili ma che sono state comunque rimaste-rizzate. Il singolo del 1974, Junior’s Farm, emerge, seguito dalla sua seconda facciata country, Sally G, che per la grande richie-sta venne poi pub-blicato come singolo a se stante diventan-do un hit. I Wings hanno pubblicato lo strumentale jazzato Walking In The Park With Eloise, scritto dal padre di Paul, James McCartney, sot-to lo pseudonimo di The Country Harms. Il suo lato B blue-seggiante, Bridge On The River Suite, è anch’esso presente.Lettin Go venne pubblicato come singolo con un mix diffe-rente che toglieva il riverbero presente sulla versione dell’al-bum e quella revisione fa qui il suo debutto digitale per la pri-ma volta. Un estratto di sette minuti di Rock Show vede Mc-Cartney e i Wings tirare il brano in maniera più rigida della debole versione dell’album. Un demo di piano per Let’s Love, in seguito registrato da Peggy Lee ci permette di ascoltare McCartney cantare quella melodia delicata. Going To New Orleans è un precursore di quello che divenne il lato B, My Carnival, incluso anch’esso. C’è anche una intrigante, versio-ne introspettiva e acustica di un pezzo chiamato 4th Of July.Ovviamente la confezione finale a libretto non era disponibi-le per la recensione ma il DVD di 25 minuti, sì. È una proposta

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gione, forse Lowell George era veramente scoppiato, e questo disco altro non era che la classica raccolta di avanzi e materia-li di risulta rastrellati qua e là, giusto per obblighi di contratto. Persino la copertina mi aveva illuso, con quel rassicurante ritratto (firmato dal solito Neon Park) di un Lowell George fre-sco e sbarbato come non lo si vedeva da tempo, con l’occhio scintillante e un refolo di vento fra i capelli, sullo sfondo di un surreale Déjeuner Sur L’herbe fra Marlene Ditrich, Fidel Castro e un cornutissimo Bob Dylan. Da sola valeva il prezzo del disco. Che a quel punto, senza troppa convinzione, mi de-cisi a sfilare dalla busta e a piazzare sul giradischi.E quando la puntina scese finalmente sui solchi, e risuonaro-no le prime note di What Do You Want The Girl To Do, uno dei tanti capolavori usciti dal cilindro del mago Allen Tous-saint, mi tornò in mente una vecchia frase che mi sentivo ripetere spesso da bambino, quasi sempre accompagnata da una sonora scoppola: scùlta, prima ‘d parlà. Prima di parlare, ascolta. Eh già. Erano bastati quei pochi secondi iniziali per farmi capire che avevo parlato a vanvera, che Lowell George era vivo e vege-to, e che qui c’era da divertirsi, altro che materiale di risulta. Una breve introduzione di piano elettrico, una calibratissi-ma spinta di basso e batteria, ed ecco irrompere una cascata

di fiati e cori femminili, dalla quale emerse, limpida e definita come forse non l’avevo era mai sentita, la splen-dida voce di Lowell George. L’atmo-sfera era quella tipica del white soul anni 70, calda ed avvolgente come una coperta di lana (ma in questo caso si trattava di puro cachemire), e venne subito ripresa dalla succes-siva Honest Man, un incalzante up-tempo sorretto ancora da fiati e controcanti corali, che sembrò virare addirittura dalle parti di Stevie Won-der (in un’intervista per il lancio del disco George lo citò fra i suoi cantan-ti preferiti, assieme a Marvin Gaye e Tony Bennett). Poi fu la volta di Two

Trains, ovvero di quello che temevo fosse un riciclo (altra meritata scoppola), e che invece si rivelò essere una canzone rivista e rimodellata al punto tale da essersi trasformata in una bomba funky degna dei migliori Meters. E a chiudere la facciata una cover di I Can’t Stand The Rain, perfetto esem-pio di quel Memphis soul ormai in procinto di trasformarsi in disco (la scrisse, e la portò al successo, Ann Peebles qualche anno prima), qui utilizzata da George come un vero e proprio palcoscenico dal quale esibire tutte le proprie doti vocali e strumentistiche (spuntò solo qui, per la prima volta, la sua in-confondibile slide). Fine della prima facciata. Non era esattamente quello che mi aspettavo, certo, ma era comunque qualcosa di assolutamente irresistibile. Ecco cosa aveva in mente Lowell George: un album di musica soul-funky che rendesse omaggio alle sue vere radici musicali, quelle che avevano forgiato il maestoso albero dei Little

LOWELL GEORGE

THANKS I’LL EAT IT HERE

Sarò sincero: quando misi le mani per la prima volta su que-sto disco, il tanto atteso (da me, perlomeno) esordio solista del sommo Lowell George (“The Orson Welles of rock”, come lo definì una volta Jackson Browne), mi girarono le palle, e non poco, prima ancora di averlo sfilato dalla busta e piazzato sul giradischi. Il motivo è presto detto: sapevo bene (o meglio, lo supponevo: all’epoca mica esisteva il pollaio globale di twit-ter e facebook) che Lowell George non stava attraversando un periodo dei più proficui sul piano creativo, e questo a causa di una serie di attriti e disaccordi maturati all’interno dei Little Feat, e alla fine sfociati in una sorta di ammutinamento mes-so in atto dai suoi due storici luogotenenti Bill Payne e Paul Barrere, (prova ne furono i due più recenti album della band, The Last Record Album e Time Loves A Hero, in cui ca-pitan George risultava quasi del tutto irreperibile); e sapevo anche (pardòn, lo supponevo) che ciò era strettamente legato al progressi-vo peggioramento delle condizioni di salute dello stesso Lowell George, uomo sfrenato e bulimico, notoria-mente incline ad ogni tipo di eccesso (speedball, whiskey e junk food inge-rito in dosi equine lo avevano portato a pesare la bellezza di 140 chili a poco più di trent’anni d’età); pur sapendo, o sospettando, tutto questo, io ero anco-ra fermamente convinto del fatto che lui, l’esautorato Capitano, in realtà stesse solo facendo melina, e avesse tenuto da parte il materiale migliore proprio per questo suo esordio solista da lungo tempo rimandato (il contrat-to per la sua realizzazione risaliva al 1975); e tutto questo alla faccia dei suddetti ammutinati, e di coloro che lo davano già per finito, scoppiato, incapace di produrre alcunché; ed ero pronto a scommettere che fosse questa, in realtà, la vera ragio-ne della sua recente latitanza, e che tutto si sarebbe chiarito dopo l’uscita di questo disco. E invece no, mi sbagliavo: scorrendo i titoli delle nove canzoni che componevano il tanto sospirato Thanks I’ll Eat It Here, scoprii che soltanto una (Two Trains) portava la firma di Lo-well George, ed oltretutto si trattava di un brano vecchio di sei anni, ripescato da Dixie Chicken. E non bastò la presenza di altri tre brani a doppia firma (Cheek To Cheek con Van Dyke Parks – l’autore preferito da Brian Wilson dei Beach Boys -, Honest Man con Fred Tackett, e 20 Million Things con un certo Jed Levy, che scoprii in seguito essere il suo figliastro) per alleviare la mia delusione. Forse i pessimisti avevano ra-

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pirlo, ma alla fine lo capii. E la conferma me la diedero le pa-role pronunciate anni dopo da Martin Kibbee, uno dei suoi più cari amici e collaboratori: “Lowell, in Thanks I’ll Eat It Here, si sentì per la prima volta padrone del proprio destino artistico.” E se oggi, a trentacinque anni di distanza da quell’iniziale gi-ramento di palle, io dovessi portare un disco, uno solo, sulla classica isola deserta, saprei esattamente quale scegliere. P.S. Quasi dimenticavo: in questa bella deluxe edition, cura-ta dalla Friday Music, c’è anche il duetto finale di Heartha-ches (già presente in precedenti ristampe), cantato in coppia con Valerie Carter, e per i più incalliti la versione mono, pubblicata all’epoca come 45 giri, di What Do You Want The Girl To Do. CARLO ZAMPOLINI

OASIS

(WHAT’S THE STORY) MORNING GLORY?

Difficile da ricordare adesso, ma quando (What’s the Story) Morning Glory? venne pubblicato nell’autunno del 1995, gli Oasis erano degli sfigati. Certo, il loro album di debutto, Defi-nitely Maybe era andato dritto al numero uno in classifica in Inghilterra ed aveva venduto molti milioni di copie in tutto il mondo. Ma nel loro primo test successivo, gli Oasis non pote-vano più vantarsi di essere la più grande rock band del paese. Roll With It, il primo estratto da Morning Glory, venne pub-blicato il 14 agosto 1995 – non casualmente lo stesso giorno di Country House, lo spavaldo nuovo singolo dei rivali Blur, ossia lo yin della scuola d’Arte londinese contro lo yang dei tosti di Manchester. Un anno intero dei tabloid che facevano cecchinaggio tra i due gruppi – che toccò il suo vertice e la fine al tempo stesso quando l’architetto degli Oasis Noel Gal-lagher dichiarò che Damon Albarn dei Blur e Alex James avrebbero dovuto “prendere l’AIDS e morire” - aveva trasfor-mato le classifiche inglesi nell’equivalente di una rissa alla fine della scuola. E in questo caso erano gli Oasis che finirono con il leccarsi le ferite: quella settimana Country House ven-dette cinquantamila copie in più di Roll With It, prendendosi il primo posto in classifica.Si diceva che Roll With It non piaceva a nessuno e sarebbe stato duro inserirla nei primi venti pezzi migliori del gruppo. Certo era un brano che ti prendeva, ma il messaggio come un’alzata di spalle, “you gotta roll with it” (devi saper incassa-re) sembrava atipicamente scettico provenendo da un gruppo che aveva sostenuto in precedenza l’auto-idolatria, l’immor-talità e il trombare medici professionisti benestanti sugli eli-cotteri. Comunque per un gruppo mai sfiorato dall’umiltà, la

Feat, prima che questo ramificasse, come si è detto all’inizio, in altre direzioni, a lui del tutto estranee ed incomprensibili (al giornalista Bill Flanagan, che in un’intervista dell’epo-ca volle strappargli un giudizio su alcuni brani composti da Bill Payne, George rispose senza mezzi termini: “È una cosa imbarazzante, che mi fa andare fuori di testa. La completa antitesi di tutto ciò che i Little Feat hanno sempre suonato”). Insomma, era un modo per ristabilire le giuste coordinate, e ritrovare la rotta. Mi sembrò di aver capito, a quel punto: ma quando girai il disco sul lato B, ecco scattare la trappola: una chitarra spagnola, una vihuela e un guitarrón diedero il via all’inattesa Cheek To Cheek , un brano in puro stile maria-chi, che senza un minimo di preavviso (e senza nemmeno la pausa del cambio di facciata, ora che è finita su cd) catapulta l’ascoltatore da Memphis, dove si trovava un istante prima, direttamente a Guadalajara, città natale di Speedy Gonzales. No, Lowell George non è scoppiato, pensai: è semplicemente pazzo (“There was nothing regular about the guy” conferme-rà la vedova Elizabeth molti anni dopo). Qui c’era lo zampi-no dell’amico Van Dyke Parks, ovviamente, pazzo almeno quanto lui, e da sempre incline a questo tipo di escursioni. E poi? Ecco spuntare la canzone di una certa Rickie Lee Jones (all’epoca quasi nessuno sapeva chi fosse: il suo disco d’esor-dio uscì in contemporanea a questo), una giovane e promet-tente cantautrice che Lowell George aveva visto esibirsi in un piccolo locale di Topanga, non lontano da casa propria, restandone così impressionato da chiederle in prestito una canzone, Easy Money per l’appunto, per il proprio disco (finì anche in quello della Jones): un boogie blues sorretto anco-ra da una robusta sezione fiati, che sembrò riportare l’album, dopo il brusco deragliamento di cui sopra, sui binari della fac-ciata precedente. Ma ovviamente non andò così. La successi-va 20 Million Things segnò un nuovo cambio di direzione, imboccando finalmente quella strada che io avevo sperato di trovare fin dall’inizio, e cioè quella della ballata acustica, e all’improvviso mi ritrovai ad ascoltare la più bella slow bal-lad (insieme a Long Distance Love) che Lowell George avesse mai scritto: tre minuti scarsi di struggente soul blues che scio-glierebbero il sangue nelle vene di un sordo, con quel testo a dir poco toccante, specie se riletto alla luce della successiva morte di George, avvenuta pochi mesi dopo l’uscita del disco. E poi ancora Find A River, firmata dall’amico Fred Tackett, altra ballata lenta ed acustica, e altro capolavoro di misura e di arrangiamento, che accompagna il disco verso l’ultimo, brutale cambio di rotta di Himmler’s Ring, un brano di musi-ca da ballo anni trenta firmato da Jimmy Webb, con fiati dixie, contromelodie di violino, coretti femminili in stile charleston e pernacchio di tromba sul finale. Mai si, mi dissi, al diavolo la coerenza e l’unità stilistica: Lo-well George era finalmente libero. Libero di pescare ovunque nell’infinito calderone della musica americana, che nessuno meglio di lui aveva saputo fondere in un blocco unico, un blocco che ormai si stava frantumando, e che andava rico-struito da capo, partendo proprio da quel “cracked mosaic”, come lui stesso amava definirlo, che stava alla base di ogni sua composizione, anche la più semplice. Ci misi un po’ a ca-

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re Morning Glory? è come, al vertice del successo, gli Oasis sembravano già essere elettrizzati per la loro eventuale cadu-ta. Il tono dell’album è decisamente più oscuro e riflessivo della fuga dalla realtà della classe lavoratrice di Definitely Maybe, sia esso il presentimento della profezia iniziale di Hello, “nulla sarà mai più lo stesso”, dei comunicati a strisce bianche da dopo-party del pezzo che dà il titolo al disco, o della delusione a lume di accendino di Champagne Super-nova dove gli Oasis suonano già nostalgici per l’idealismo del disco di debutto. E mentre Noel tratta ancora di assurde metafore (come potrebbe fare esattamente qualcuno a cam-minare lentamente lungo una sala più veloce di una palla di cannone?) riesce anche a emergere come un complemento più sobrio e personale dell’impertinente fratello Liam.Questa edizione maggiorata a tre dischi di Morning Glory? che supera il disco originale con 28 pezzi in aggiunta, mostra quanto Noel fosse in un periodo fortunato nel 1995. La sag-gezza tradizionale suggerisce che gli Oasis abbiano pubblicato due dischi di perfetto rock and roll prima di un estenuante, prolungato processo di ritorno alla normalità. Che poi non è

del tutto vero, dato che la verità è che gli Oasis hanno prodotto almeno tre dischi di canzoni spettacolari, solo che uno è stato sparso su una serie di lati B di singoli. Quattordici di questi erano stati collezionati nella raccolta del 1998 The Masterplan, altrimenti noto come Hatful of Hollow, metà dei quali è raccolto dal periodo di Morning Glory per ri-apparire qui. E come qualsiasi fan può raccontarvi, questi brani naufraghi simboleggia-no alcuni dei momenti migliori del gruppo: come il bis perennemente eseguito di Acquiesce è una perfetta manifestazione sonora della combat-tuta relazione tra Liam e Noel, con i testi del primo uniti alla musica del

secondo; Rockin Chair, insieme alle ballate cantate da Noel, Talk Tonight e The Masterplan, evidenziano una sottigliezza ed una sensibilità raramente sentite in modo corretto in un disco degli Oasis. E per quelli che preferiscono assaporare la linee melodiche semplici piuttosto che l’aggressività da con-certo a Wembley, il segreto dei demo acustici di Noel inclusi qui offre amabili esempi di semplicità della furbizia del suo modo di comporre. Tale consistenza era senza dubbio la base del successo iniziale degli Oasis ma, con il senno di poi, ne ha anche causato la seguente stagnazione. Come dimostra am-piamente questo cofanetto, Noel Gallagher è un maestro ar-tigiano, abile nel costruire brani-simbolo anche con i mezzi più semplici. Ma non è mai stato un talento. E non importa quanto professasse il suo desiderio di diventare grande come i Beatles, gli Oasis non hanno mai avuto nulla a che fare con il processo creativo dei Quattro, così come della loro onnipo-tenza culturale. E per un po’ gli Oasis ci avevano convinto di poter raggiungere la seconda senza preoccuparsi troppo del

decisione di uscire con il pezzo più debole di Morning Glory fu, in retrospettiva, la mossa più cazzuta degli Oasis: volevano prendere il primo cazzotto nella cosiddetta ‘Battaglia del Pop Inglese’ perché sapevano che sarebbe stata solo una questio-ne di tempo prima di sferrare il colpo da knockout. Morning Glory? sarebbe andato avanti vendendo più del doppio del The Great Escape dei Blur e nei due anni successivi avrebbe fornito la colonna sonora non ufficiale all’imminente cambio della guardia in Inghilterra. E, in modo significativo, ottenne una popolarità tale da mostrare fin troppo vaghi i colleghi e competitori degli Oasis: grazie al successo americano, il disco raggiungeva la quarta posizione nelle classifiche di Billboard, vendendo tre milioni e mezzo solo lì. Allo stesso tempo The Great Escape languiva nei bassifondi intorno alla posizione numero 200. A causa del monociglio comune e di un paio di saluti al fotografi a dito teso, gli Oasis proiettavano un’imma-gine brillante dell’Inghilterra sufficientemente potente da alimentare i capricci di un Paese alla moda tra gli anglofili nord-americani che facevano viaggi nei negozi specializzati per fare incetta di barrette di cioccolata della Dairy Milk ma non lo vedevano così familiare da vendere il proprio cuore. Quel gene-re di cose su cui Austin Powers e le catene di pub in stile inglese sareb-bero state messe in piedi.Arrivato casualmente alla metà degli anni novanta rappresentan-do il picco di quella ondata di pop britannico che si era radicata con il recupero di ricordi di vecchi suo-ni con gli Stone Roses e The La’s cinque anni prima, Morning Glo-ry? è l’apogeo assoluto degli Oasis. Se Definitely Maybe evidenziava il prodotto rozzo del gruppo, la psiche-delia anni sessanta, il glam e punk dei settanta, il ritmo di Manchester, Morning Glory? li scioglieva e rimo-dellava in un suono svettante che era senza ombra di dubbio tutto loro, con quelle onnipresenti ma mai ostentate sezioni di archi che rivestivano in modo classico le canzoni come le medaglie su un trofeo. E il vero trionfo di Morning Glory? non è misurato dai brani che da quel momento sono dive-nuti dei classici del karaoke, perfetti per i balli alle feste di matrimonio inglesi e da cantare sotto la doccia, ma da quelle canzoni eccellenti che non sono mai salite in classifica come Hey Now (forse il miglior brano degli Oasis a non essere mai divenuto un singolo) e Cast No Shadow dedicato all’allora quasi sconosciuto Richard Ashcroft dei Verve un gruppo che avrebbe presto raccolto i frutti dell’incursione ameri-cana degli Oasis. Ironicamente l’appetito per tutto ciò che era inglese fu importante anche per l’incombente successo delle Spice Girls che avrebbero accompagnato un’ondata di pop indirizzato ai ragazzini che avrebbe anche spinto in basso nelle classifiche il rock pieno di chitarre verso la fine di quella decade. E quel che colpisce di più oggi nell’ascolta-

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Sono questi tre dischi che garantiranno ai collezionisti di Vaughan la necessità di comprare il cofanetto nonostante qualsiasi doppione della loro collezione. E parlando di dop-pioni, a causa della quantità di concerti da vivo che fanno parte del box, ci sono considerevoli ripetizioni. Per esempio, Love Struck Baby, il brano iniziale di Texas Flood, compare anche su In The Beginning con Jackie Newhouse al bas-so. Il trio classico, Vaughan, Shannon e Layton, la suona su A Legend In The Making, Live At Montreux, e Carnegie Hall. L’organo di Wynans dona una nuova dimensione al pezzo su Live Alive dove compare anche il fratello Jimmy Vaughan. E parlando di Jimmy, era uno degli ospiti sulla seconda metà di Live At Carnegie Hall insieme a Dr. John alle tastiere e la sezione di fiati Roomful of Blues. Qui, brani come Pride and Joy ottengono un trattamento che non sentirete mai altrove. Quindi cosa c’è che non è stato inserito ? In primo luogo se avete una copia del cofanetto di quattro dischi del 2000, SRV, dovrete tenervelo. Quello contiene una quantità di pezzi non dei Double Trouble incluse apparizioni di Stevie Ray su di-schi di altri, brani acustici ed una versione del 1977 di Thun-derbird quando Vaughan suonava con i Cobras. Lì c’è anche una versione interessante di Pipeline attribuita a Vaughan e i Double Trouble che per qualche motivo non compare nel nuovo box. In aggiunta, dato che venne pubblicato per la Epic e fu il primo postumo nel 1990, non c’è niente da Family Style, la prima e ultima collaborazione tra Stevie Ray e Jim-my Vaughan. È vero: i Double Trouble non c’erano in questo disco. È altrimenti comprensibile che album come In The Session (1999) con Vaughan e Albert King insieme sul palco non sia-no presenti. Queste registrazioni erano su diverse etichette. Di conseguenza l’interesse verso la nuova confezione dipende da quanto amiate SRV. Per un appassionato più occasionale, una sola buona raccolta Best Of sarebbe sufficiente. Se è così, scegliete una che contenga sia pezzi di studio che dal vivo. In entrambi i casi nei loro primi concerti e negli ultimi, con ese-cuzioni più pulite, Double Trouble erano un gruppo dinamico e potente. Se non avete bisogno di dodici dischi. SRV potrebbe essere la scelta giusta.Un fastidio è la confezione stessa. La Legacy ha deciso di non identificare ogni singolo disco con una riproduzione della copertina originale. Per esempio, se volete scegliere In Step e non ricordate come fosse la copertina originale, dovrete andare a cercare nel bel libretto annesso per capire quale disco sia. Ciononostante The Complete Epic Recordings Col-lection non è solo una uscita buona per gli amanti del blues del Texas, ma un modo per i novizi per provare un pezzo si-gnificativo del catalogo di Vaughan. Per me Stevie Ray era il fiore più raffinato della rinascita del Texas blues e nessuno è neppur andato vicino a sostituirlo. Nella Who’s Gonna Fill Those Shoes di Buddy Guy, Guy fa un elenco di grandi del blues che include Son House, Robert Johnson, The Kings, Muddy waters, Howlin’ Wolf, Willie Dixon....e anche Sonny Boy. L’ultimo nome in elenco è Stevie Ray. E c’è un buon motivo per farlo. WESLEY BRITTON

primo: bastava scrivere un ritornello da stadio e il resto sareb-be venuto da solo. (What’s the Story) Morning Glory? spinge gli Oasis in cima alla montagna ma li lascia con le teste piene di neve e visio-ni annebbiate, mentre dei revitalizzati Blur sarebbero emer-si in seguito come il gruppo più in sintonia con lo spirito di avventura dei Beatles. Nei momenti finali di Champagne Supernova Liam lascia il punto focale della canzone - “dove eravate quando stavamo in vetta?” - sospeso nell’aria, come a suggerire che i bei tempi se ne erano già andati. E, come gli Oasis avrebbero imparato, arrivare ancora più in alto non li riporterà indietro. STUART BERMAN

STEVIE RAY VAUGHAN

THE COMPLETE EPIC RECORDINGS COLLECTION

Quando vedi un cofanetto di 12 dischi con le parole “registra-zioni complete” nel titolo, potresti presumere che l’uscita sia completa ed esaustiva. Ma quando hai per le mani The Com-plete Epic Recordings Collection non pensare troppo presto di poter rimpiazzare la tua collezione di Stevie Ray Vau-ghan in un solo colpo. A essere onesti, alla Legacy Records sono stati abbastanza corretti quando hanno indicato che la raccolta fosse quella ufficiale canonica di Stevie Ray Vaughan e dei Double Trou-ble. Ciò significa che hanno assemblato le registrazioni di Vaughan accompagnato dalla sua bollente sezione ritmica di Chris “Whipper” Layton e del bassista Tommy Shan-non. In seguito, il trio venne rinforzato dall’organo di Ree-se Wynans che aggiunse una notevole profondità al suono del gruppo. Le loro uscite includevano gli album di studio Texas Flood (1983), Couldn’t Stand The Weather (1984), Soul To Soul (1985) e In Step (1989). In aggiunta il cofanetto contiene dei concer-ti già pubblicati e registrati a Austin (In The Beginning from 1980), Montreux (1982 e 1985), Carnegie Hall (1984) e Live Ali-ve del 1986 che include estratti da Montreux, Austin e Dallas. Se siete degli appassionati di Vaughan, ci sono molte proba-bilità che possediate già la maggior parte del materiale, se non proprio tutto, incluse le versioni video di alcuni concer-ti, in particolare le leggendarie apparizioni a Montreux. Ma a meno che non abbiate trovato un bootleg di A Legend In The Making – Live At The El Mocambo, registrato a Toronto, in Canada, il 20 luglio 1983 per una radio e disponibile solo su copie promozionali, The Complete Epic Recordings Collec-tion sarà la vostra prima opportunità di sentire quel concerto. In aggiunta ci sono due dischi di registrazioni di archivio che sono sostanzialmente brani di studio scartati di alcune canzo-ni note, improvvisazioni strumentali, tracce gettate.

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EMILIANO RA-B

Non fidatevi mai di chi vi dice che ha iniziato a fare musica per amore dell’Arte o per vocazione, specialmente se è un uomo.Tutti hanno iniziato a suonare perché volevano fare tanto sesso. E in ogni caso, se davvero non fosse così, è un’altra buona ragione per non fidarsi di loro.

E pensare che, per rilanciare la musica in Italia, basterebbe fare una semplice operazione in stile “We Are The World” e far cantare assieme i nostri due eroici Maró, Fabrizio Corona e la fan in sovrappeso di Fedez.Magari con Fedez stesso nei panni di Quincy Jones.Mi chiedo come mai nessuno ci abbia ancora pensato.

Scusate, mi sono distratto 5 minuti, ha fatto qualcosa di bello, nel frattempo, Fedez?

Oh, comunque Fedez è un genio: tra inno cinquestelle, X Fac-tor, polemica col PD e ora la polemica con Gasparri e Salvini, sta ottenendo una visibilità pazzesca.

Se fosse pure in grado di fare musica ascoltabile, adesso sa-rebbe il re del pop.Altro che Michael Jackson.

I complimenti sono come i pompini: ci sono alcune per-sone che, quando te li fan-no, ti fanno sempre sentire i denti.

Il rap, in Italia, è in netto calo.Ancora non si percepisce, ma-gari, guardandola “dal di fuo-ri” (anzi, probabilmente sembra il contrario), ma i segnali già ci sono tutti e sono inequivocabili.Per chi ha visto ridurre alla pagliacciata attuale la musica che era dei Public Enemy, dei RUN DMC, degli Afrika Bambaata (ma anche degli Snoop, degli Eminem o dei The Roots), questa non può rappresentare che un’ottima notizia.

L’Italia è quel paese fantastico dove senti parlare di proble-mi “a sinistra” quando uno di destra litiga in tv con un de-mocristiano.

Nessuno mi toglie dalla testa che, se avesse avuto giusto un paio di kg in meno sulle tette, adesso Selvaggia Lucarelli sta-rebbe nel centro estetico dietro casa mia a dipingere i cuorici-ni sulle unghie delle coatte.

SPIGOLATURE.8

WINWOOD-PETTY // BLACKBERRY SMOKE // PAUL REVERE // DEVIL MAKES THREE // AMERICANA // ALLMAN BROS // X // ELECTRIC FLAG // BAND // DEVO // GARY CLARK JR // GRAM PARSONS // RA-DIOHEAD // DEEP PURPLE // REM // TRUE DETECTIVE

È MORTO IL GRANDE JACK BRUCE.TUTTI I BASSISTI ITALIANI, E NON SOLO, SONO CRESCIUTI NEL SUO MITO.

ABBIAMO SPONSORIZZATO IL TOUR DI PHIL E DAVE ALVIN E PARE CHE IL GIORNALE SIA PIACIUTO.

A FEBBRAIO LA TERZA SERIE DI QUESTO IMPERDIBILE CULT TV. VOGLIAMO UN-DERWOOD AL POSTO DI NAPOLITANO!

LIBRI, MUSICA, CINEMA, FUMETTI, ARTE, CAZZATE, POLEMICHE, ETC. ETC.

Foto Diletta Parlangeli

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Di nuovo in tour con il ritorno di Christine McVie e la spinta del nuovo disco (pessimo) di Stevie Nicks. I Fleetwood Mac tornano a correre.

Venerdì notte Christine McVie cantava Sweet Wonderful You, guidando i Fleetwood Mac nel primo dei due spettacoli di que-sto mese al TD Garden. I testi iniziali di You Make Lovin’ Fun avrebbero potuto descrivere la mutua ammirazione esistente tra appassionati e gruppo, in particolare la McVie, che era assente dal 1998. Le vibrazioni erano buone con un genuino calore umano che scorreva mentre il gruppo ha incantato entrando nei cuori dei 19.600 fans presenti nell’arena completamente esaurita. Con così tanti brani da scegliere, non ce ne sono poi rimasti molti esclusi in questa notte di grande musica. Non c’è bisogno di dire che il momento focale della serata era il ritorno della Mc Vie, il cui cantato aveva guidato molti dei singoli di successo del gruppo degli anni settanta/ottanta.La McVie è rimasta parzialmente in ritiro dal 1998 mentre tutti quanti erano rimasti in attesa sentendo molto la sua assenza; in particolare la sua Sister Of The Moon, Stevie Nicks.Senza dubbio la McVie completa questa collaborazione unica formatasi poco per volta nei primi anni settanta. Una alchimia spe-ciale che aveva portato il gruppo a creare il disco più venduto della decade, Rumours. Durante il concerto la Mc Vie ha mostrato che la sua voce è ancora decisamente potente all’età di 71 anni, come se fosse stata congelata nel momento in cui lasciò il gruppo sedici anni fa.Come una buona bottiglia di vino, questa miscela di inglesi e americani è invecchiata con grazia, dopo aver fissato lo standard per il rock classico nei settanta e dopo aver mostrato lo spettacolo della realtà all’interno dei loro dischi, esposto davanti a tutto il mondo. La loro saga, probabilmente ha ispirato la serie originale di VH1, Behind the Music. I Mac sono stati probabilmente il gruppo più importante a mostrare le loro sofferenze in pubblico dall’era dei Beatles. Ma i loro drammi hanno ispirato alcuni classici senza tempo, molti dei quali eseguiti in concerto, qua a Boston.Se pensiamo alle stelle dei Fleetwood Mac, i nomi di Stevie Nicks e Christine McVie sono in cima alla lista, e pare ironico che il nome del gruppo derivi da quello del batterista originale, Mick Fleetwood e da quello del bassista John McVie. Ma non pensate che mi stia sbagliando, i due formano una delle più grandi sezioni ritmiche nella storia del rock and roll. Difatti hanno brillato in pezzi come Tusk e World Turning, due dei favoriti del pubblico.E poi ci sono la chitarra, il canto e la presenza di Lindsey Buckingham. La sua abilità allo strumento è nota e la sua intensità su pezzi come Big Love e Never Going Back Again, in una versione particolarmente rallentata, ha ammaliato il pubblico. Il concerto ha proposto una quantità di brani da Rumours del 1977, uno dei dischi più venduti di tutti i tempi. Il disco era la croni-storia dei rapporti amorosi intercorsi tra i membri del gruppo, dove sentimenti di amore, di dolore e di inganni avevano favorito la composizione dei testi. I Mac hanno suonato quasi per intero quel disco. La McVie ha rubato la scena dall’inizio alla fine pla-nando dolcemente con pezzi come You Make Lo-vin’ Fun, Little Lies, Over My Head. Songbird, il bis finale che ha aizzato la folla, era particolarmente toccante. L’alchimia è dif-ficile da definire, ma fun-ziona perfettamente. Non si tratta di una formula, e sebbene sia ben prepara-ta, l’interazione sul palco pare assolutamente au-tentica. Scavano davvero in profondità per ricattu-rare quelle emozioni di trionfo e dispiaceri che sembravano così ruvidi molti anni fa. È stato un gran concerto.

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LIVE

FLEETWOOD MACTD GARDEN (BOSTON, MA – 10 OTTOBRE, 2014)

- di Ken Abrams -

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dato vita alla scuola di hard rock-blues inglese che ci ha dato soddisfazioni e gruppi immensi, trovando anche in America interesse e spazio per dar vita a una scuola parallela, partendo – guar-da caso – proprio da quei Mountain, nati attorno alla figura di Felix Pap-palardi , produttore dei tre e desidero-so di ricostruirne le fortune in America a fianco di Leslie West. La sua carriera solista, iniziata nel 1969, con il bel Songs For a Taylor, ci lascia almeno una decina di album di buon livello con brani recuperati e amati da moltissimi colleghi – un brano su tutti, l’evocativo, anomalo Theme For An Imaginary Western – e un elenco di collaboratori eccel-lenti. A caso: Jon Hiseman, Dick Heckstall-Smith, Chris Spedding, John McLaughlin, Jim Keltner, Steve Hunter, Clem Clempson, Billy Cobham, Vernon Reid, Paul Barrere, Dr. John, Gary Moore, Ro-bin Trower, Blues Saraceno, Mick Taylor, Carla Bley... praticamente

trio dove, al contrario, la chitarra era la vera essenza degli Experience. Clapton avrebbe dimostrato chiara-mente in seguito i suoi reali interessi, così come Bruce lo avrebbe surclassato da un punto di vista compositivo e dal desiderio mai sopito di voler continua-re a percorrere in primo luogo la forza del classico trio andando a valorizzare e scovare negli anni una serie intermi-nabile di chitarristi con cui continuare a esplorare. Sicuramente se i tre Cream furono se non gli inventori i divulga-tori dei tre strumenti solisti utilizzati con un fine unico ciò fu dovuto alla creatività e alle composizioni di Bruce. Chiudete gli occhi e pensate ai nomi dei pezzi più efficaci e noti del super-gruppo: I Feel Free, NSU, Sleepy Time, We’re Going Wrong, Sunshine of Your Love, White Room, Politician... tutti brani scritti, anche se spesso non can-tati, da Bruce. E anche se la moda di denigrare i migliori, di trattarli con suf-ficienza è malattia diffusa sopra ogni cosa tra i critici illuminati, uno dei quali è arrivato – in una delle sue dotte enciclope-die sul web – a de-finire i Cream “la band sbagliata al momento giusto”, come se si trattas-se di tre musicisti occasionali, dal peso secondario, i tre restano una delle forze trai-nanti che hanno

JACK BRUCE 14 MAGGIO 1943/25 OTTOBRE 2014

Anche Jack Bruce è volato via. Quan-do nell’Inghilterra di fine anni ses-santa, qualcuno scriveva sui muri “Clapton is God”, dopo aver ascoltato i Cream, non aveva colto l’essenza del gruppo. Clapton era “solo” un bravo chitarrista. Era Bruce a essere Dio.

Quest’anno la Grande Orchestra del Cielo ha deciso con Jack Bruce di rinfol-tire decisamente gli organici. I Cream, pur potendo contare su un Eric Clapton al massimo della sua creatività, erano grandi solo, o comunque principal-mente, per la presenza del bassista e cantante scozzese. Con lui a fianco anche Ginger Baker crebbe come un caposcuola del suo strumento. Nato come bassista di estra-zione jazz, Bruce era divenuto uno dei grandi del blues inglese prima di dar vita ai Cream, alla Crema estratta da quella scuola di blues inglese – la ra-dice da cui tutta l’evoluzione del rock ebbe in un modo o nell’altro origine – in cui aveva a lungo navigato colla-borando con Alexis Korner, Graham Bond e John Mayall. Una bestemmia dire che i Cream fu-rono grandi per la presenza di Bruce? Onestamente pensiamo di no. Clapton, se fosse dipeso da lui, avrebbe portato il trio su lidi più marcatamente e sco-lasticamente blues e ben poco psiche-delici e senza esplorare l’universo del-la lunghe jam; fu dunque la presenza della voce, delle linee soliste del basso di Jack Bruce che aveva scelto un suo-no potente, metallico, a se stante, cer-tamente non secondario ma portante nella struttura dei brani, a fare dei Cream l’unica vera alternativa all’altro

- di Giancarlo “I Feel Free” Trombetti -

DEAD FLOWERS

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te che sono registrazioni ‘non ufficiali’ di oltre quarant’anni fa !Nelle prime 1.000 copie, disponibili come edizione limitata il CD contiene un Bonus disc. Il disco (CD) ufficiale contiene 10 pezzi per oltre 66 minuti: Fresh Air,Warm red wine, Subway, Pride of man, Baby Baby, the Hat ( for-midabile), Edward (capolavoro piani-stico di Nicky Hopkins e le chitarre aci-de come non mai), The Truth, Freeway flyer e Mojo. Se siete fortunati potete ritrovarvi il secondo CD (Bonus Disc) che presenta per l’appunto delle extra tracks con registrazioni riprese dalla prove del gruppo, registrate il 4 Giugno del 1970 alla Opaelua Lodge in Halei-wa, Hawaii. I brani presentati per l’oc-casione sono 7 per oltre 60 minuti an-cora: Cobra, una Guitar Jam, Won’t kill me, Cobra in versione acustica, Good old rock and roll di Jesse Oris Farrow aka Chet Powers alias Dino Valenti, un breve assolo di batteria Drums ed infine Just for Love.Diciamolo chiaro e forte, ci sono tre pezzi che valgono da solo l’acquisto: Fresh Air, limpida pimpante, suaden-te, splendida, The Hat oltre 7 minuti di assoli chitarristici davvero imbat-tibili con tutte le peculiarità di questa meravigliosa band, le chitarre di Gary Duncan e John Cipollina, la voce po-tentissima di Dino Valenti ed il lirismo pianistico di Nicky Hopkins oltre ad una sezione ritmica davvero ragguar-devole come Greg Elmore alla batte-ria e David Freiberg (passato in Italia proprio lo scorso mese con i Jefferson Starship) al basso, Edward (the Mad shirt grinder) con un Nicky Hopkins scatenato al pianoforte che duella con le chitarre dei due californiani. Da non perdere!

Ps – Al funerale di Bruce erano presenti Eric Clapton, Ginger Baker, Pete Brown, Phil Manzanera, Vernon Reid e Gary Brooker. Clapton ha suonato Strawber-ry Fields Forever, Morning Has Bro-ken di Cat Stevens, Theme From an Imaginary Western di Bruce e For Jack, un motivetto buttato giù dopo la sua morte. Le decorazioni della cerimo-nia includevano anche una chitarra basso di Bruce.

che vede il ritorno di Gary Duncan, con Nicky Hopkins al piano, John Cipollina ben saldo alla chitarra solista e sonorità sofisticate con una splendida Fresh Air e riuscite speri-mentazioni come in The Hat. Nel 1971 viene pubblicato What about Me, la svolta fondamentale e definitiva della band ma anche una certa involuzione sonora rispetto ad Happy Trails, inol-tre presto John Cipollina abbandonerà la band per formare i Copperhead e la stagione dei Quicksilver finisce irri-mediabilmente qui.Nel 1970 alle Hawaii mentre registra-no i loro due album (chiamati anche ‘Hawaian albums’) tengono alcuni concerti tra cui il leggendario Crater Festival al Diamond Head di Honolu-lu e questo splendido concerto rimasto per anni abbandonato. Si tratta di Ha-waii 1970 ora edito dalla Gonzo Multi-media (?!?) e registrato per l’esattezza il 13 Giugno 1970 a Red Vest Oahu, Ha-waii all’Honolulu Convention Center. La registrazione è ottima, se considera-

Per i postumi infausti di un trapianto di fegato, perdiamo l’inventore di un modo assolutamente originale e unico di suonare la chitarra basso, l’ispira-tore di soggetti come Stanley Clarke e Jaco Pastorius, per loro stessa am-missione. Speriamo almeno che nel Great Gig In The Sky prossimo gli lascino arran-giare a modo suo qualche classico del blues. Gli Dei si divertiranno.

QUICKSILVER MESSENGER SERVICE

HAWAII 1970

Apro una porta aperta con voi se dico che i Quicksilver Messenger Service sono sicuramente la band acid-rock per eccellenza. Rock-blues acido, po-deroso, trascinante e tagliente, maestri delle jam-session e dei suoni celebrali assai sofisticati.Generalmente sono i più trascurati nella classica triade dei protagonisti del rock psichedelico di San Francisco, a vantaggio dei riva-li, Grateful Dead e Jefferson Airplane. I Quicksilver Messenger Service dal canto loro presentano sonorità e tratti non meno affascinanti dei due gruppi precedenti.Happy Trails è registrato in larga parte al Fillmore East e al Fillmore West, è collocato nella classifica dei primi 200 album migliori di tutti i tempi.Nel 1970 dopo due anni di prigione ritorna Dino Va-lenti che prende per mano la band e diventa il loro cantante solista firmando parecchi brani della for-mazione. Se ne vanno alle Hawaii e nel breve periodo di permanenza sull’isola, in studio registreranno ben due album. Il primo è Just for love edito dalla Capitol records nell’agosto del 1970

gran parte della storia del rock inglese. Nel 1974 Zappa lo volle per un suo lungo strumentale, Apostrophe; quando il disco uscì in Italia, privo di note di copertina interne, nessuno sa-peva dove Bruce avesse piazzato il suo basso. Ma fu sufficiente il primo ascol-to per capirlo: il suo suono era incon-fondibile, unico, irriproducibile. Un marchio, come solo i musicisti immen-si possono lasciare.

– di Aldo Pedron –

CHARTS

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Valencia in Spagna (estate 2012) è praticamente morto, colpi-to dal Mersa virus e soltanto poi resuscitato da una dottores-sa spagnola, tale Dr. Mariella Anaya Sifuentes (Phil Alvin la chiama Marie Marie) che gli praticato una tracheotomia e lo ha salvato per puro miracolo. Phil e Dave Alvin sono allora ritornati assieme, amici e fratelli come non mai, trovandosi finalmente d’accordo nella musica di Big Bill Bronzy.Un disco travolgente anche quando le melodie sono lente, in cui alcuni apici sono rappresentati da All by Myself, presen-tata in apertura in apertura di concerto, un motivo ludico ed aggressivo. A seguire Key to the round, I feel so good, You’ve changed, Stuff they call money, tutte riprese dall’album Common ground poi nominano i Blasters e subito vengono accolti da un boato. Ecco Border Radio, una scatenata Marie Marie e So long baby, goodbye. Phil è ancora un un cantan-te prodigioso e la cover di Please, please, please di James Brown è uno dei punti più alti delle due serate. Ha ricevuto un minuto di applausi che ha quasi ermato il brano successi-vo e costretto Phil atentare un sorriso, mentre alzava le mani in segno di apprezzamento. Dave Alvin dal canto suo fa sem-pre un passo indietro nell’ombra, ogni volta che Phil prende il centro, permettendo a suo fratello maggiore la possibilità di “essere la star dello show” (come el rstoha sempre dovuto essere) ma si ritaglia anche un proprio spazio raccontando al-cuni aneddoti di ciascuna canzone e regalandoci degli assolo di chitarra struggenti con Johnny Ace is Dead e Dry River. Non manca la bellissima Fourth of July (sempre composta

DAVE ALVIN & PHIL ALVIN GALLARATE/VICENZA

Due concerti per un migliaio di fortunati sparsi tra Gallarate e Vicenza. Ecco il resoconto del breve tour dei fratelli Alvin

nel nostro paese. Il primo sponsorizzato da questa rivista.

Dave e Phil Alvin (finalmente di nuovo insieme) sono real-mente i veri blues brothers, i fratelli di sangue della musica blues. Entrambi, ama con voi sfondo una porta aperta, costi-tuivano la spina dorsale dei Blasters, seminale e micidiale formazione rock-blues e rockabilly dal 1979 al 1986 quando Dave Alvin ha lasciato il gruppo (con all’attivo 7 splendidi album). Dave è un grande chitarrista mentre il fratello maggiore, Phil Alvin, chitarra acustica e armonica è dotato di una voce pos-sente, singolare e magica. Insieme sono una vera bomba. Gli artisti preferiti dei due californiani sono artisti di colore, blue-smen e rocker del calibro di T-Bone Walker, Big Joe Turner, Lee Allen (che poi suonerà anche nei Bla-sters) e Big Bill Broonzy. In queste due date italiane hanno presen-tato un repertorio che prendeva spunto dal loro recente album Common ground, conte-nente 12 brani del bluesman Bill Bill Bro-onzy, da sempre uno dei loro eroi. Common ground è un tributo a colui che già negli anni ’30 cominciò a gettare le fondamenta di quello che sarà il blues elettrico e dunque, il rockabilly ed il rock and roll stesso! Com-mon ground ha un altro pregio: ha messo d’accordo i due fratelli terribili che non an-davano per niente d’accordo sino a due anni fa, quando Phil in tournée con i Blasters a

- di Aldo Pedròn -

LIVE

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BOOTLEGERS, ROLL YOUR TAPE... !Ricordate la famosa frase di Springsteen? Dopo dieci giorni, un lasso di tempo incredibilmente lungo per i velocissimi ‘bootleg-gers nostrani’, era possibile godere del concerto della cosiddetta “Halloween Night” tenutosi dai fratelli Dave e Phil Alvin in quel di Gallarate (Varese). Ovviamente acquistabile alla luce del sole nel solito negozio ben fornito di Gallarate ad euro 20,00 circa.

Niente di questi soldi va a finire ai musicisti. Il tutto non fa una piega, ovviamente.

C’era una volta un “agente” Polygram che aveva in carico tutti i negozi ed i centri commerciali a Nord di Milano fino alla sponda piemontese del Lago Maggiore. Un giorno la Polygram lo buttò fuori, non si è mai saputo perchè. Il “Tipo” non si diede per vinto e dopo poco divenne “agente” per la Edel e per la stessa area. Si vede che al “tipo” (da adesso chiamiamolo FB) non bastava lo stipendio e si mise a frequentare qualche Fiera del disco come Vinilmania a Milano ed altre ancora... dove esponeva prodotti Edel a metà del prezzo di vendita che normalmente si potevano vedere nei negozi e nella grande distribuzione. Un bel giorno ebbe problemi anche con la Edel ...Non si diede per vinto e incrementò il lavoro delle Fiere del disco attrezzandosi in casa per produrre in proprio cd e dvd da pro-porre in occasione dei molteplici appuntamenti fieristici. Iniziò a scaricare legalmente cose tipo gli ‘instant live’ dei Black Crowes, Allman Brothers Band, Gov’t Mule, Warren Haynes etc. Lavorava tutto il giorno e spesso anche la notte per fare copie in cd di quei download di qualità ovviamente ottima. Ne faceva pochi alla volta ed i primi risultati erano scadenti. Dopo qualche tempo c’è stato il salto di qualità con l’acquisto di nuove tec-nologia e con la “scansione a tappeto” del web alla ricerca di registrazioni meritevoli. È aumentato il catalogo titoli, è migliorata la grafica delle copertine e i dischetti sono serigrafati. Il momento buono per arrivare anche nei negozi, ed ecco che nella storia entra a far parte Ragù....Il personaggio però è inciampato anche in qualche rogna. Qualche tempo fa è stato “pizzicato” da Siae e GdF proprio a Vinilma-nia ma perchè vendeva il dvd dell’ultimo concerto di Vasco Rossi a S. Siro. Pare che di tutto il resto della mercanzia non fregasse invece nulla ai suddetti Corpi di controllo. Vai a capire. FB si è comunque presa una denuncia (la cosa non è più solo amministra-tiva ma si va sul “penale” ), una bella multa e forse fra un po’ ci sarà il processo, prescrizione permettendo. Intanto il FB va avanti a fare quel che fa e Ragù a curare lo spaccio in negozio, nel sito e nel suo catalogo che va in edicola mascherato da giornale.Il personaggio di cui sopra, non è il solo a darsi da fare. Ci sono almeno un altro paio di tizi che però vendono dvd ed ora anche Blue-ray. Uno è un tedesco, anche lui con un catalogo titoli impressionante ed è ormai noto in tutto l’ambiente. È lui, forse, il progenitore di tutta la stirpe di grandi taroccari.E così si arriva al disco dei fratelli Alvin a Gallarate. Ora un conto è fare dei bootleg ‘mascherati’ ai Rolling Stones o a Springste-en. È un illecito ma ci sta. Tutto sommato sono miliardari. Ma rubare denaro agli Alvin?!? Piaciuta la storiella?

P.S. Ogni riferimento a persone, cose, situazioni, negozi, è puramente casuale e frutto di fantasia letteraria.

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Pankrats, una batterista di Austin che ha suonato con Billy Joe Shaver, Marshall Crenshaw, Bill Kirchen, la Carper Fa-mily e Johnny Bush per citarne soltanto alcuni.Il marito di Lisa Pankrats è il bassista Brad Fordham, noto nell’ambito della musica rock e country, per citare un solo nome, Jerry Jeff Walker. Suonando entrambi nella band con Dave Alvin e Phil Alvin costituiscono una sezione ritmica davvero micidiale. L’altro chitarrista è Chris Miller, origina-rio di Portland, Oregon.Un migliaio di persone per due grandi concerti coinvolgenti, fantastici, davvero eccellenti. Potevano essere di più Peccato. Divertente girare cazzeggiando con Dave per Gallarare con una copia di Outsider in mano. Ma non eravamo i soli, visto che sono state distribuite gratis circa 300 copie del giornale con in copertina i Dead.

da Dave Alvin per il suo album solista See How we are del 1987, scritta per l’amico John Doe degli X, autentica roots-music) ed ennesima gemma del loro brillante repertorio. Guardando il loro linguaggio del corpo era evidente di come Phil non fosse così duttile come il fratello, quasi bloccandosi quando scherzosamente il fratello gli ha messo un braccio intorno alle spalle.Vado a un sacco di concerti e devo dire che non ho assistito a molti concerti emozionanti e memorabili come questo. In una certa misura, la musica è quasi passata in secondo pia-no perchè tutti stavamo attenti all’interazione tra i fratelli. La luce di gioia sul volto di Dave mentre guardava suo fra-tello maggiore cantare, ha resro il concerto ancora più emo-zionante.Con i due fratelli facevano parte della formazione Lisa

BOOTLEG- di Andrea Hawkes -

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ne fino all’ultimo minuto in studio. Poi ho capito, cazzo...è una canzone. Que-sto ti succede quando scambi la sequen-za. Invece di iniziare con pezzi più duri, inizi con un ritmo emozionante”.Quel che sembra, in realtà, è l’effetto di un concerto di Sondre Lerche. Questo approccio più duro, più confusionario potrebbe essere inatteso se avevate ascoltato solo i dischi di Lerche, ma in concerto lui pervade le sue canzoni di una energia frenetica. Pigia sul distor-sore più spesso e fa del vero rock, sosti-tuendo la produzione raffinata dello studio con una energia rozza che dona nuova vita alle canzoni. E questo è il modo in cui suonano molti dei pezzi di Please. Possiedono lo stile compositivo intelligente di Lerche, ma sono suona-te con una energia fuori dagli schemi.Una energia tenuta sotto controllo in Lucky Guy, il nucleo emozionale del disco dove Lerche canta di come siano stati fortunati lui e l’ex-moglie a prova-

le proviene definitivamente da quella esperienza specifica, ma non l’ho vis-suta in stile “Come hai potuto farmi questo ?!”, non è quel genere di disco – dice Lerche che spera invece che le sue canzoni siano universali e aperte all’interpretazione – Non è un disco, spero, che si sofferma troppo su quel genere di emozioni che fanno riferi-mento a quella specifica situazione”.Più che dal lato puramente contenu-tistico, comunque, il disco sembra dif-ferente da tutti gli altri da un punto di vista musicale. La canzoni sono più rit-miche, più energiche. Sono un po’ più spigolose e arrangiate più rozzamente. Lerche attribuisce il risultato al modo in cui si è approcciato alla composi-zione: “ Avevo voglia di lavorare con strutture musicali più semplici. Vole-vo provare a scrivere canzoni di quat-tro accordi trovare il modo di scrivere brani con differenti schemi ritmici di quelli su cui spesso finisci col lavorare quando usi una chitarra, così ho deciso di comporre pezzi con ritmiche completamente differenti”.Una canzone come Crickets, il vibrante secondo pezzo del di-sco, è dominato da una chitarra acustica che martella quattro accordi con un ritmo inusuale. Il pezzo d’apertura e anche il primo singolo, Bad Law, era co-minciata come una traccia stru-mentale in attesa di melodia e testo. “Ho passato un anno a cercare di tirarne fuori una canzone, dato che non sapevo se fosse veramente una canzo-

SONDRE LERCHE

Please (n. 18 di Outsider) è l’album di Lerche più eclettico e di successo sino-ra. Ma ciò che tiene assieme questi 10 brani in un tutto unico sono i testi; an-che se scritti ben prima dell’incisione, parlano tutti di perdita e cuori infran-ti. Lerche sta andando avanti, ma i

fantasmi del passato lo seguono.

Nel corso di tredici anni e sette album di studio, il cantante e compositore nor-vegese Sondre Lerche ha costruito al-cune delle più interessanti canzoni pop dei nostri tempi. Ha esplorato il jazz influenzato dal pop alla Tin Pan Alley con The Duper Sessions, il punk e la new wave su Phantom Punch, il pop abbellito con Two Way Monologue ed una miriade di altri stili ma sempre riuscendo a suonare come null’altro che… Sondre Lerche. Ma sul suo ulti-mo album, Please, Lerche trova nuova energia e produce un disco come non ha mai fatto in precedenza.“Non si tratta di un disco che fa rife-rimento al suono heavy e credo che sostanzialmente il suono provenga dalla liberazione di te stesso dagli im-ponenti riferimenti cui hai dedicato così tanto del tuo tempo – dice Lerche – Ero più interessato a fare delle corag-giose affermazioni con la mia musica e farlo ha un peso. Il mio Mantra era: “il coraggio è d’oro””. La spinta defini-tiva verso la decisione di fare qualcosa di differente con questo disco è stata la sua vita privata. A metà della compo-sizione e delle registrazioni delle can-zoni per il seguito al Sondre Lerche del 2011, ha divorziato. Così, mentre i testi di Please si focalizzano su quella espe-rienza e sulla reazione conseguente, il disco non è probabilmente quello che vi sareste attesi dopo un divorzio. “Da un punto di vista tematico e concettua-

– di Scott Interrante –

INTERVIEW

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EAGLES LA LEGGENDA DEL COUNTRY-ROCK

SERGIO D’ALESIOA 32 anni di distanza dall’uscita del libro “L’epopea Del Country-Rock”, edito nel lontano 1982 dalla Lato Side Edi-tori , torna il libreria uno dei giornalisti da sempre votato a questo genere musicale. Edito da Aereostella sviluppa in 160 pagine una sorta di compendio narrativo di 50 anni di musica californiana (1964-2014) osservato a volo d’aquila at-traverso le cronache evocative, i versi delle canzoni tradotte in italiano e le dichiarazioni degli Eagles. In coda c’è una ric-ca appendice dedicata alla carriera solista e alle esperienze personali di Henley, Frey, Leadon, Meisner, Felder, Walsh e Schmit al di fuori del gruppo. In parallelo si scrive anche dei Byrds, Dylan, Joni Mitchell, Gene Clark, Roger McGuinn, Crosby-Stills-Nash & Young, Fleetwood Mac, America, Lin-da Ronstadt, Buffalo Springfield, Dillark & Clark Expedition, Poco, Loggins & Messina, Flying Burrito Bros, Manassas, Souther-Hillman & Furay, Jim Croce, Jesse Colin Young, Gram Parsons, Nitty Gritty Dirt Band…

SURFPLAYFRANCESCO FIORENTINO E

TOMMASO LAVIZZARILe massime di questo libro sono: Il migliore è quello che si diverte di più oppure il Surf, è un’attrazione destinata a ripetersi nella sto-ria, a proseguire il suo cammino attraverso le onde, attraverso la letteratura, le arti e la vita… Aggiungo io …i l surf (da non confondersi mai e poi mai con il windsurf mi raccomando!) è una ragione di vita, è uno stile di vita, un cre-do… e questo è senz’altro un libro sulla cresta dell’onda! Uno sport dalle radici antiche che ha influenzato intere generazioni, sempre in attesa dell’onda perfetta. Un saggio sulla mu-sica e sulla cultura surf. Nel libro vengono ampiamente ripercorse le tappe dello sport del surf, la grafica, il cinema, l’abbigliamento.

HOTEL CALIFORNIAMAURO RONCONI

Questo libro è un doveroso e prezioso vademecum per spie-gare ed analizzare la cosiddetta musica della West coast, so-prattutto quela degli anni ’60 e ’70. L’autore scrive in modo attento, raccontando fatti, dettagli, aneddoti e storie di ogni singolo disco preso in considerazione. La California resta da sempre la terra promessa e musicalmente parlando è e resta il non plus ultra. Musica californiana significa raffinate me-lodie, alta qualità compositiva, suono scintillante e avvol-gente, continua ricerca di armo-nizzazioni oltre ad una metodica ricercatezza degli arrangiamenti e delle linee melodiche. Il letto-re più attento si accorgerà della mancanza di alcuni mostri sacri squisitamente californiani come Grateful Dead, QMS e Jefferson Airplane, ma l’intento è di sof-fermarsi sugli artisti più squisi-tamente soft-rock o pop. Ecco così gli Eagles, Jackson Browne, America, Joni Mitchell, James Taylor e Carly Simon, Steely Dan, Byrds, Carole King, Flying Burrito Brothers, Monkees, Ma-mas and Papas, Neil Young, Fle-etwood Mac, Kenny Loggins ma anche Burt Bacharach. Un libro ben scritto, ben fatto e piacevole da leggere.

117OUTSIDER

l’altro ma dove ancora riusciamo a fal-lire il più delle volte. Era una sorta di canzone astratta riguardo a tutto que-sto, ma tutto d’un tratto non è più sem-brata così astratta. Quando la cantavo pensavo: “Cazzo, sapevo più di quel che osavo pensare riguardo a quel che stava succedendo””. Tre minuti dopo la canzone termina e sfuma nel silenzio. Salvo poi tornare indietro con un espressivo e squilibra-to assolo di sax di Kjetil Moster.Nonostante sia stato inciso nel corso di

re l’amore quando ne avevano. C’è un sottile sarcasmo cjhe scorre at-traverso la maggior parte dei testi di Please donando al disco molto del suo fascino.Il brano finale del disco, Logging Off, pare riassumere tutto questo, nono-stante sia stato scritto prima che av-venisse il divorzio. “Descrive i diversi modi in cui l’uno si cerca con l’altro, in particolare nei nostri giorni e ai tempi dei social media e di tutti i differenti modi in cui siamo connessi l’uno con

due anni e mezzo, in due diversi paesi, in sei studi, con tre produttori, quattro ingegneri del suono ed una miscela po-liedrica di collaboratori, Please sembra la sua più logica dichiarazione artistica di sempre. Riesce a catturare la reazio-ne emozionale sfumata ed umana alla sua crisi personale regalandogli vita con una musica colorata e energica. Prova che anche dopo dieci anni di carriera puoi ancora essere all’avan-guardia come artista, come persona, e far funzionare il tutto perfettamente.

- di Aldo Pedròn -

BOOKS

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pallidire il capitano Merrill Stubing e piedi rigorosamente scalzi dietro un monitor per i testi francofoni sui quali si rivelerà piuttosto generoso.

Parecchi i bermuda e anche qualche ciabatta Maui style. Una doppietta sotto la torre Eiffel riservata a pochi e tempestivi motivati, quasi tutti di lin-gua madre anglo-fona. Alle 19.36 le luci si spengono, intro fuori scena (Lovely cruis’, off course…) e dalle quinte sgat-taiolano fuori i dieci musicisti che occupano il c o n g e s t i o n a t o palchetto; buon ultimo, il polie-drico songwriter, attore, produtto-re, talent scout, albergatore e persino pilota di idrovolanti. L’i-nizio è un incal-zante omaggio cochraniano con una Summer-time blues che presenta Buffett come il ‘re dei surfisti’ attempa-ti: polsini aran-cio a entrambi gli avambracci, bermuda gialli, t-shirt color Milka, candida stempia-tura da far im-

JIMMY BUFFETT PARIGI, LA CIGALE,

26&27-09-2014

Un sorriso a 360° dipinto sul volto. Pe-renne e quasi da fesso. Due ore in com-pagnia di Jimmy Buffett ti costringo-no a girovagare con l’espressione di uno che ha appena vinto al SuperEna-

lotto senza neppure aver giocato.

Partiamo dal contorno: un concerto del quasi 68enne orgoglio di Pasca-goula, raccoglie talmente tanta sana allegria e sincera autoironia da parte del pubblico da far impallidire qual-siasi altro music show. Continuiamo dal contesto: il teatro ‘La Cigale’ di Pa-rigi (ai piedi del Sacro Cuore e baciato dalla corrente dei turisti più preve-dibili) è un gioiellino di arte barocca tendente al kitsch con i suoi arredi in legno intarsiato e le poltrone in vel-luto rosso con una capienza dai 950 tickets con posti numerati in platea, fino ai 1.400 con accesso free al pseudo pit. E chiudiamo giungendo al secco ‘uno-due’ transalpino al cospetto di James William Buffett, perfettamente assecondato dalla spassosa Coral Ree-fer Band. Il gustoso menù, a scanso di equivoci, è il solito: una travolgente miscela di west coast cantautorale tra ‘brother’ Jackson e Warren Zevon buonanima, country honky tonk, surf, brezza caraibica, calypso, persino reg-gae e uno jazz-swing degno di New Orleans. Un’ondata sonora perfetta-mente assecondata dal look della va-riopinta audience dove i rari camicio-ni alla Fogerty & Young sono strabat-tuti da coloratissime camicie hawaia-ne, collane floreali in stile Honolulu, corone degne di Samoa, noci di cocco, pinne da squalo, cocktail e birra au go go, bandane da pirata, ninnoli da Mar-di Gras, assurdi copricapo con frutta esotica e, ovviamente, pink flamingo e pappagalli di pelouches (divisa uf-ficiosa dei fedelissimi ‘parrotheads’).

- di Daniele Benvenuti -

LIVE

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Doobie Bros. A pirate looks at forty è il solito lentaccio strappamutande da taverna portuale, in attesa della straripante Fins introdotta da finte urla di terrore e suspance acquatica. Jimmy avvia la sua personale L’inno incontrastato, Margaritaville, no-nostante i suoi piccoli riti non ‘spacca’ del tutto. Forse perché davvero troppo attesa, anche se il classicissimo “Sear-ching for my lost shaker of salt – salt – salt” crea una gioiosa e unica intera-zione. Finto saluto, tre giri di lancette e nuovamente sul palco per una Sea cruise (“Whoo-ee, whoo-ee baby, whoo-ee - Won’t you let me take you on a sea cruise?”) profumata di sbron-ze d’amore, in attesa di un epilogo af-fidato a It’s five o’clock somewhere (ballatona c&w) con la divertente Wy don’t we get drunk a ricordare le av-venture di Tony Curtis con le indigene di ‘Operazione sottoveste’.2h10’ e 24 brani la prima sera; 2h06’ la seconda con scaletta parzialmente modificata e ben 29 tacche: in termi-ni di energia e omogeneità meglio lo show inaugurale (più adatto per un’introduzione graduale al culto…), benché quello successivo abbia pre-miato le esigenze di completisti e clienti abituali. Da segnalare nel bis del secondo gior-no Margaritavill in versione quasi tex mex (con richiamo aggiuntivo a Boat drinks) Scarlet begonias e il saluto al vecchio pard Jesse Winche-ster (Another saturday night), trat-to dal repertorio di Sam Cooke.

BOBBY KEYS18 DICEMBRE 1943 / 2 DICEMBRE 2014

Ci ha lasciato un altro compagno di sbronze e di eccessi di Keith Richards. Presenza fondamentale nei Rolling

Stones.

Cirrosi epatica. Era prevedibile visto l’a-more che ha sempre legato Bobby alla bottiglia di Jack Daniels. Anzi, c’è da stupirsi che abbia durato così tanto. Chi segue gli Stones sa che Bobby Keys è stato la sponda americana per arrivare a quei suoni sporchi e caldi che hanno le loro origini nel blues e non c’è di più normale che sia stato un bianco texa-no, cresciuto alla corte di Buddy Holly (nel 1958, appena quindicenne aveva suonato in tour con Boby Vee e Holly) a renderlo possibile. I Muscle Shoals insegnano d’altronde. Si era unito agli Stones da subito, durante il loro primo tour americano, ma aveva debuttato in un loro disco solo cinque anni più tar-di, mettendo il suo sax in Let It Bleed e è poi è da sempre rimasto vicino a loro, segnando con il suo sax canzoni come Brown Sugar, Happy, Can You

Hear Me Knocking e alcuni dei momenti più belli di Exile e di Sticky Fingers. Il suo sax aveva servito anche Dion DiMucci, Eric Clapton, Who, Joe Cocker, George Harrison, John Lennon (è suo il ‘solo’ in Whatever Gets You Thru the Night, unico n.1 di John), Lynyrd Skynyrd, Ringo Starr, Ron Wood, altro compa-gno di bisbocce.Aveva suonato con gli Stones nel 2013 nel loro debutto al Gla-stonbury Festival, il 29 giugno.Riposi in pace, con vicino una bottiglia dell’amato e traditore Jack Daniels.

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Si nota subito che è fresco ed entu-siasta, nonostante i 1.396 concerti sul groppone in 483 diverse località del globo (solo otto dei quali in due siti d’Europa). Changes in latitudes of-fre campo libero ai classiconi e alla conta delle diverse nazionalità in sala, mentre palloni da spiaggia che ricor-dano la Coppertone galleggiano sta-bilmente nell’aria. My head hurts... non tradisce come pedana di lancio, mentre Brown eyed girl è il tradizio-nale richiamo a Van Morrison, alter ego al negativo del padrone di casa. Il suono della marimba esce diretta-mente dalle tastiere per l’inconfondi-bile ‘summer time music’ di Son of a son of a sailor in salsa soul & hula, mentre le ‘sailing songs’ proseguono con Grapefruit - Juicy fruit, swing da onda anomala con il pubblico sem-pre in piedi in regime di educata cor-rettezza. I will play for Gumbo è il solito honky tonk sabbioso ad alto tas-so salino e gonfio di Pina Colada, men-tre la tromba di John Lovell vale una sezione fiati intera. Torna in scaletta l’atipico funky lounge hip hop, Au-tour du rocher, degna introduzione per Last mango in Paris. I siparietti con il tastierista Michael Utley, vete-rano che sta a Jimmy come Paul Shaf-fer a Dave Letterman, condiscono so-norità affini a quelle di una Band emi-grata a Key West insieme a Nicolette Larson (la deliziosa Come monday).Brani brevi e senza troppi virtuosismi strumentali, finché il reggae caraibico di Volcano conduce al set acustico con il dobro di Mac McAnally che, nonostante Little Martha in onore dell’ABB, spezza l’incantesimo. Fin-ché ‘He went to Paris’, pronta per evolversi in un reggae alla papaya, riporta tutti on stage per Cheesebur-ger in paradise, ovvia esplosione del cratere parigino in una quadriglia collettiva. One particolar harbour (quella dall’attacco che ricorda ‘Lola’ dei Kinks…) lancia il primo medley, oculata fusione tra Free & Into the mystic (citazione per Zac Brown com-presa…) che rilancia il broncio di Van ‘The Man’. Ancora una parentesi da chansonnier indeciso tra swing e be bop (Sym-phatique), poi l’attacco di Southern cross targata CS&N con cantato alla

- di Max Stèfani -

DEAD FLOWERS

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come dire a un poliziotto di farsi una ciambella. Eravamo tutti vestiti e nes-suno si era imbarazzato. Siamo finiti tutti nel fottuto ruscello!

Per te, come batterista, cominciare a suonare in una formazione a due batteristi ha richiesto un adatta-mento?No, perché avevo suonato nella ban-da della scuola e c’erano un sacco di batteristi. È questo ciò che non capisco di parecchi batteristi. A scuola suona-no nella banda, e se hanno suonato in un’orchestra sinfonica allora dovrebbe-ro capirne di cassa, di rullante, di cem-bali — le percussioni, perché sostanzial-mente è un set da batteria: è questo che è, un set da batteria. Hanno un qualche problema, e dicono di non poter suona-re con un altro batterista.Per me è come nel baseball — tutti vogliono essere il dannato lanciatore! Non so perché — io non ho mai volu-to fare il lanciatore! Ho sempre voluto

dea di far posare nuda l’intera band per la foto che decorava il lato in-terno della copertina?Quando stavo a Muscle Shoals, sostan-zialmente eravamo Duane e io. Berry [Oakley] arrivava a metà settimana, quando non era davvero troppo occu-pato. Perché era nei Second Coming, che includevano anche Dickey [Betts], e anche sua moglie, Dale [faceva parte della formazione]. Un giorno eravamo in studio e ho chiesto a Duane, ho det-to: “Hey amico, hai detto di voler avere due batteristi — perché vuoi avere due batteristi?”. Lui ha detto: “Perché Ja-mes Brown e Otis Redding hanno due batteristi”. Non gli ho mai più chie-sto niente in proposito! [Ride]Non ho idea di chi sia stato a farsi veni-re in mente quella [foto]. Eravamo fuo-ri, in un posticino dove Otis Redding aveva il suo ranch, e le proprietà di Otis e di Alan Walden, il fratello di Phil Walden, erano confinanti. Scattava-mo quelle foto nella proprietà di Alan. Quel torrentello che scorreva lì, non ho idea di come diavolo ci siamo finiti dentro, ma posso dirti chi ha scattato la foto. Phil Walden era lì, con questo tizio, Stephen Paley, un fotografo di New York.Non ricordo chi altri ci fosse, ma ci stavamo dannatamente di-vertendo, perché qualcuno ha detto “Toglietevi i vestiti ed en-trate tutti nel torrente.. Merda... lo sa il Signore: è esattamente

JAIMOE

È stato un anno ricco di eventi per la Allman Brothers Band, da quando a gennaio 2014 hanno annunciato che i chitarristi Warren Haynes e Derek Trucks lasceranno il gruppo a dicem-bre, anche se c’è un barlume di speran-za che la band possa portare avanti le cose sotto qualche forma.

Le attività di quest’anno, che segna il 45° anniversario del gruppo, si sono di colpo trasformate in qualcosa che è sembrato essere un giro trionfale d’ad-dio. Vedi la partecipazione alla “10° Mountain Jam” annuale, dove gli Al-lman hanno eseguito integralmente il loro album omonimo di debutto del 1969 e il suo seguito del 1970, Idlewild South.Ciò che rende speciale tutto questo è stato il fatto che abbiano eseguito que-sti due album in sequenza solo un pu-gno di volte, nel corso degli anni.“In quarantacinque anni l’abbiamo fatto forse tre o quattro volte. Sono sempre stati quei due album assieme, oppure un altro, come Eat A Peach o Brothers and Sisters”.Gli piace l’idea di fare un album intero. “La gente pensa che sia una figata, e rende facile capire cosa ci sia in scalet-ta! [Ride] Ecco perché mi piace”.Il batterista veterano vede svariate pos-sibilità per il futuro, inclusa l’occasione di spendere più tempo a concentrar-si sulla sua band, la Jaimoe’s Jasssz Band. Si è aperto ad alcune riflessioni su quell’argomento, così come a qual-che ulteriore storia sugli Allman Bro-thers.

Sembra che ciascun album degli Allman Brothers abbia una qual-che storia circa la propria nascita. Per il primo album, di chi è stata l’i-

- Ultimate Classic Rock -

INTERVIEW

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BEFORE THE DELUGE––––

YOU LOVE THE THUNDER––––

HERE COME THOSE TEARS AGAIN

––––DOCTOR MY EYES

––––LATE FOR THE SKY

––––THESE DAYS

––––THE PRETENDER

––––SOMEBODY’S BABY

––––THE LOAD-OUT’/’STAY

––––RUNNING ON EMPTY’

JACKSON BROWNE

10 SONGS

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tanto come un tempo, ma li ascolto, cominciano a sembrare una sinfonia quando semplicemente li metti su e li fai partire. Schiaccia play e dimenticati di tutto — cominciano a suonare come una sinfonia. Puoi sentire delle piccole sfumature che sono state influenzate da questo, quello o quell’altro ancora.La composizione di Dickey Betts funziona in modo molto simile. Credo davvero che da parte di Dickey questo avvenga perché compone per lo più da solo. Sai, compone assieme ad altra gente, ma quando lo fa c’è un eccesso di influenze…. non nella cottura della torta, ma nel metterci la glassa. Quando non c’è qualcuno che metta quel tipo di robe sulle canzoni che stai incidendo o che stai componendo, questo limita il livello cui le puoi portare. Hai soltanto quattro o cinque personalità con cui la-vorare.Hai i doppi shuffle, hai del funk, hai della roba tipo Stormy Monday, quindi forse hai quattro o cinque piccole per-sonalità con cui lavorare. La differenza arriva quando hai qualcuno che faccia gli arrangiamenti: sono loro a mettere tutta la glassa e le altre cose sulla can-zone. Perché Ray Charles, davvero, era come Disney — faceva muovere i personaggi. Ho ascoltato la sua musi-ca per un sacco di tempo, e sostanzial-mente fa muovere i personaggi: questo nei termini di arrangiamento e di quel-lo che usa, usa molto il mambo, un sac-co di roba di sapore ecclesiale e questo succede quando è lui a fare buona par-te del lavoro per le sue composizioni, ed è sostanzialmente la stessa cosa che fa Disney.

Ho letto una tua frase a proposito di questa band che amo, a proposi-to del perché tu abbia fatto questa band al di fuori degli Allman Bro-thers, e hai detto: “Posso fare musi-ca, nessuno può licenziarmi, ho i fiati e un solo batterista”. Quando la metti così, non c’è ragione perché tu non faccia quello che stai facen-do con la tua band.La mia band, sostanzialmente ho pro-vato a costruirla sulle stesse cose che faccio da quarantacinque anni. Voglio dire, c’è un sacco di roba che è nata nell’Allman Brothers Band. Un sac-co di roba, in senso musicale.

giocare in prima base o a centro campo! Billy Cobham un giorno ha sentito Butch [Trucks] e me suonare assieme. Ha detto che stava seduto lì, ascoltan-do, e ha detto: “Amico, quel batterista sta facendo roba interessante.” Ha detto che non ce la faceva più, quindi è sceso a vedere chi fosse il batterista, e ha det-to che erano due batteristi. Ha detto che non poteva crederci. Ha detto che non avrebbe mai potuto suonare con due batteristi.

Negli ultimi anni la scena dei fe-stival è diventata una roba grossa per le band, al punto che potresti costruire gran parte di un tour sul-le partecipazioni a festival come questo. Suoni di fronte a un grosso pubblico e, per via della natura di questo evento, raggiungi costante-mente nuovi fan. Deve essere una bella figata, passare 45 anni così.È quasi come fare l’insegnante. La gen-te me lo chiede: insegni? Non insegno. Se hai un problema, posso aiutarti a ri-solverlo, ma non sono un insegnante. Mia moglie è un’insegnante, ed è an-che dannatamente brava. Una persona come me può arrivare alla gente che ha quantomeno un’idea di quello che sto facendo, e forse qualche musicista, pro-babilmente di un’età che vada dai 15 ai 40 o 50 anni. Ma un insegnante può arrivare a persone che abbiano dagli 8 agli 80 anni, e sanno come farlo.

Come va con la tua band? Hai fatto uscire l’album Renaissance Man nel 2011. Sta filtrando nuova musi-ca, su quel fronte?Abbiamo in progetto un album. Circa quattro o cinque mesi dopo la pubbli-cazione del primo album, ero pronto a farne un altro. Ma ha molto a che fare col materiale, e voglio che nella band componga anche altra gente oltre a Ju-nior Mack.Sembra avere l’abilità di mostrare diver-si [lati di sé] e penso [che lo faccia] molto bene. Non ne so altro, ma ha parecchio a che fare col fatto che davvero non vo-glio che le cose suonino simili. Voglio dire: devono avere un sapore, ma ogni persona ha la propria personalità, e così ogni canzone ha la propria personalità. Vale anche per Stevie Wonder: ascol-to alcuni suoi album, a volte — non

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salgono 3 ragazze arabe. Ognuna si é versata addosso mezza boccetta di pro-fumo. 3 profumi diversi, naturalmente. Sono uscito dall’ascensore barcollando (Stefano Dainese)

La melodia dell’ultimo singolo degli U2 ricorda Crying at the Discoteque degli Alcazar, che era a sua volta una cover di Spacer di Shaila, si può finire più in basso di così? (Jacopo Gobber)

Non c’è niente di male nel fatto che alla gente piacciano le cose leggere e diver-tenti. Il problema è che oramai scatta il rifiuto automatico nei confronti di tutto ciò che abbia un minimo di spessore e serietà. C’è poco da fare: questa genera-zione d’italiani è venuta su così (Umberto Palazzo)

Mollica al TG che parla di Woodstok equivale all’andare a una conferenza il cui tema è lo scambio di coppie tenuta da Formigoni (Marco Meraviglia)

Arrivato alla fine della vita, qualcuno si volterà indietro e tutto quello che vedrà sarà una targa vinta al MEI (Pj Cantù)

Spegni i telegiornali, chiudi i news blogs, diserta le tribune politiche e guardati in loop ‘Utopia’, ‘Black Mirror’, ‘House of Cards’, ‘True Detective’ etc. Quantomeno ci guadagnerai in plot narrativo, editing e fotografia (Giuseppe Righini)

Quindi l’unico primato che abbiamo al momento come paese Italia è quello di essere l’unico paese al mondo dove gli U2 e Morrissey vanno in televisione (Marco Cestoni)

Quindi, se ho ben capito, per omaggia-re Rick Wright, i due hanno tirato fuori dagli scatoloni, gli scarti di The Divi-sion Bell. Che è un po’ come il tirchio che per risparmiare sul funerale della consorte, gli compra una bara di secon-da mano (Marco Meraviglia)

Dopo “La Divina Commedia”, “La Co-stituzione”, adesso Roberto Benigni si cimenta con “I Dieci Comandamenti”. Già pronti “Il Contratto dei metalmec-canici” e “I Pensionamenti Anticipati INPS” (Giancarlo Trombetti)

Al primo giorno di naja mi assegnarono al plotone di un caporale che ascoltava in continuazione Wind of change degli Scorpions. Capii di essere nella merda fino al collo (Gianni Orlando)

Il 99.99 del tempo di ascolto lo dedico alla musica di cui si parla sulle testate internazionali in inglese e trovo sem-pre cose meravigliose. Poi ogni tanto mi capita di ascoltare qualcosa di cui si par-la in Italia e mi sembra di essere capi-tato in un continuum spazio temporale dove tutto è andato nella maniera più sbagliata possibile (Umberto Palazzo)

Gigi D’Alessio in diretta a Capodanno su Canale 5. Ecco, se avessi avuto dubbi sullo stare lontano dall’Italia per il 31 dicembre, adesso ne ho certezza. Lon-dra, Amsterdam, la Norvegia, Stretto di Bering, il Passaggio a Nord-Ovest sono abbastanza lontani? (Giancarlo Trombetti)

Ieri sera ho visto ragazzine e ragazzini in delirio, qualcuna pure con le lacrime agli occhi, per 50 Special di Cremonini. Abbiamo perso (Silvano Martini)

La mia compagna.. che è anche mia moglie mi chiede “Ma non sei curioso di vedere almeno una puntata di X-Fac-tor che non hai mai visto?”.. ed io “Lo so come va a finire.. inizi con X-Factor e poi ti trovi a seguire Amici della De Fi-lippi.. un po’ come iniziare con la cocai-na e poi ritrovarti ad iniettarti l’eroina.. Guardiamoci un film”… (Massimo Bonelli)

Chiudono i teatri x farci i ristoranti della minchia e riaprono i tendoni di merda x farci i concerti ottimo complimenti Milano, grazie, prego (Paolo Vites)

Come cominciare bene la giornata. En-tri nell’ascensore dell’albergo e con te

SHORT TALKS

– perle di saggezza dal mio facebook (M.S.) –

#@&*?

VARIOUSTRUE DETECTIVE SOUNDTRACK

STEPH CAMERON SAD-EYED LONESOME LADY

ANGEL OLSEN BURN YOUR FIRE FOR

NO WITNESS

NICOLE ATKINS SLOW PHASER

LAURA CANTRELL NO WAY THERE FROM HERE

TORRES HONERY

LAURA MARLINGONCE I WAS AN EAGLE

HURRAY FOR THE RIFF RAFF SMALL TOWN HEROES

BAND/DYLANBASEMENT TAPES

DAMIEN RICEMY FAVOURITE FADED FANTASY

COLOSSEUMTIME IS ON OUR SIDE

DAVID CROSBYLIVE AT THE MATRIX

DECEMBER 1970

CUBY + THE BLIZZARDSLIVE

PLANET EARTH ROCK & ROLL ORCHESTRA

PERRO

DAVID BOWIEALADDIN SANE 40TH

ANNIVERSARY ED

NUCLEUSSOLAR PLEXUS 

SOFT MACHINESIXTH

PHISHLIVE IN BROOKLYN

VARIOUSBLUES TRIBUTE TO CCR

JACK BRUCESONGS FOR A TAYLOR

Max Stèfani

Giancarlo Trombetti

I 1O DISCHI PIU ASCOLTATI DI

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Guardando la cronologia amorevole di ‘Live Dead’, mi sento un po’ come un fantasma, che mi aggiro intorno ai margini della loro storia. E ‘come sbat-tere contro un vecchio amico che non avete visto per 30 anni, pensando che hanno un aspetto diverso, ma in qual-che modo lo stesso. È una sensazione strana. Per coloro che sono rimasti in questa particolare strada, ‘Live Dead’ è un bel viaggiare. Bob Minkin fissa i Grateful Dead sulla macchina fotografica in un modo che pochi della sua generazione hanno saputo fare. 35 euro su Amazon hard-cover.

l’unico vero edizione del Garcia Band, ovvero Jerry Garcia-Nicky Hopkins-John Kahn-Ron Tutt.Oltre alle immagini di performance, il libro mette in mostra scatti intimi del backstage, foto di scena per tour, come ad esempio Red Rocks, Winterland, Radio City, Capitol Theatre, Europa ‘81, e molti altri. Gli anni Dead post-Grateful sono rappresentati anche at-traverso le immagini di Furthur, Phil Lesh & Friends, Ratdog, e il rinasci-mento musicale ora accadendo in Ma-rin County, in California, a Terrapin Crossroads, Sweetwater Music Hall, e di Bob Weir TRI Studios.

LIVE DEADTHE GRATEFUL

DEAD PHOTOGRAPHED BY

BOB MINKIN

Siete dei Deadheads? Avrete anelano di aver fatto parte della scena intorno alla Grateful Dead, ma siete nati trop-po tardi nel paese sbagliato, o apprez-zate comunque la grande fotografia? Beh, questo libro è per voi. È assoluta-

mente splendido.

Non c’è da sorprendersi: Bob Minkin è un superbo fotografo. Ha messo la sua impronta sulla musica fotografata. Ve-nendo una generazione dopo la prima ondata di leggendari fotografi di mu-sica dal vivo (Jim Marshall, Wolman, Russell, Tarle, Liebovitz etc) - Minkin aveva tutto sommato poco spazio dove posizionarsi, e lui non ha perso un centimetro. E ‘stato lì vicino a tutto quello che succedeva, dalla fine degli anni settanta. Il libro che raccoglie le sue foto del-la sua materia preferita è un lucido, squisito rettangolo con copertina rigi-da. Si inizia con i ricordi scritti da al-cuni membri della famiglia dei Dead vecchia scuola: il tastierista Tom Con-stanten, Steve Parish, Blair Jackson e il commento di Bob Weir , Mickey Hart, Donna Gotchauux, Wavy Gravy, Roc-cia Scully, Carolyn “Mountain girl” Garcia, Trixie Garcia, ed Perlstein, e altro ancora.. Ma, la cosa bella sono le foto. Una tabella di marcia visiva dei Grateful Dead e dei loro progetti paralleli, a partire dal 1977 fino oggi. C’è anche una foto del 1975, quando Minkin era un adolescente, presa nel loro tour orientale nel tardo autunno del 1975 di quella che io considero

- di Max Stèfani -

BOOKS

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jazzato che irrompe in modo inatteso, pazzo. Questo è mate-riale di prim’ordine per mandare fuori di cervello la vostra famiglia suonandolo a volume alto. A metà strada il pezzo cambia completamente direzione mentre gli strumenti sfu-mano e si eleva un solo di flauto. Gli ultimi dieci minuti sono una improvvisazione difficile da descrivere e che si estende da quella iniziale con un sassofono che esce a tratti e che suona come un mal di gola. Grande pezzo.SOFT MACHINE

THIRD

Recentemente mi sono appassionato molto a questi ragazzi, ascoltando costantemente questo disco diventandone sem-pre più colpito ogni volta che lo ascoltavo. Mi sono abitua-to allo stile di pezzi di venti minuti con diverse sezioni che si mescolano l’una all’altra. Vedo le potenzialità che crea nello sviluppare una storia immaginaria o un “mondo” se volete chiamarlo in quel modo. Third crea distintamente un’atmosfera fantastica. Si spazia dagli strippati collage so-nori a follie jazz. La strumentazione stessa è eccitante; non posso che essere coinvolto dalle grandi tonalità che i Soft Machine sono in grado di tirar fuori dai loro strumenti.I Soft Machine sono stati fondati nel 1966 da studenti universitari che avevano abbandonato gli studi, Robert Wyatt e Kevin Ayers, con una formazione in perenne cambiamento, come un progetto musicale jazz/psichede-lico. Potrebbero essere indicati come uno dei gruppi prin-cipali nella scena rock ‘progressiva’e’ inglese che include gruppi come i Caravan, Gong e Matching Mole. Il loro primo disco pubblicato è del 1968, intitolato Volume One e seguito nel 1969 da Volume Two, continuando, ovvia-mente con Third nel 1970. In seguito hanno continuato a suonare jazz per anni in molti altri album dopo Third. Sug-gerisco altamente di utilizzare le cuffie ascoltando Third perché so per esperienza che è difficile sentire le melodie delicate e le punteggiature mentre le automobili vi schiz-zano sotto casa ogni dieci secondi. Dopo tutto si tratta di occupare il proprio tempo libero, no?Third inizia con Facelift con tonalità molto dolci e basse ed una leggera combustione sonora come di un organo che suona ritmi casuali su note occasionali. I toni ritagliati che seguono danno un grande esempio di cosa ci si possa at-tendere dal resto del disco. Non lasciate che il sogno, inte-so come stato delle cose, vi spenga, an-che se probabilmen-te vi crescerà dentro come è accaduto a me. Nel complesso dà vita a una specia-le tensione in attesa che la canzone trovi il suo sbocco e lo fa dopo sette minuti con un folle flauto

– di Well Respected Man –

A MASTERPIECE

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BOBBY KEYS18 DICEMBRE 1943 / 2 DICEMBRE 2014

Ci ha lasciato un altro compagno di sbronze e di eccessi di Keith Richards. Presenza fondamentale nei Rolling Stones.

Cirrosi epatica. Era prevedibile visto l’amore che ha sem-pre legato Bobby alla bottiglia di Jack Daniels. Anzi, c’è da stupirsi che abbia durato così tanto. Chi segue gli Stones sa che Bobby Keys è stato la sponda americana per arrivare a quei suoni sporchi e caldi che hanno le loro origini nel blues e non c’è di più normale che sia stato un bianco te-xano, cresciuto alla corte di Buddy Holly (nel 1958, appena quindicenne aveva suonato in tour con Boby Vee e Holly) a renderlo possibile. I Muscle Shoals insegnano d’altron-de. Si era unito agli Stones da subito, durante il loro primo tour americano, ma aveva debuttato in un loro disco solo cinque anni più tardi, mettendo il suo sax in Let It Bleed e è poi è da sempre rimasto vicino a loro, segnando con il suo sax canzoni come Brown Sugar, Happy, Can You Hear Me Knocking e alcuni dei momenti più belli di Exile e di Sticky Fingers. Il suo sax aveva servito anche Dion DiMucci, Eric Clapton, Who, Joe Cocker, George Harrison, John Lennon (è suo il ‘solo’ in Whatever Gets You Thru the Night, unico n.1 di John), Lynyrd Skynyrd, Ringo Starr, Ron Wood, altro com-pagno di bisbocce.Aveva suonato con gli Stones nel 2013 nel loro debutto al Glastonbury Festival, il 29 giugno.Riposi in pace, con vicino una bottiglia dell’amato e tradito-re Jack Daniels.

Il brano successivo è Slightly All The Time e continua su quelle fondamenta jazz già posate. Di solito a questo punto dell’album sono confuso e non presto una grande atten-zione, devo ammetterlo. Questo è una parte del disco che suona perfetta come musica di sottofondo. Forse mi sono abituato, ma adoro il passaggio che c’è a otto minuti. In ef-fetti gran parte della canzone è follemente funky ed è la cosa migliore che riempie l’intero album.Il pezzo Moon in June è un capolavoro, e non solo di que-sto disco, ma di tutti i tempi. Sono stupito da quante volte l’ho ascoltato e non mi sono ancora stancato. È l’unico bra-no del disco con il cantato e sicuramente il brano di punta, a mio parere. Robert Wyatt può toccare grandi note ed il modo in cui canta è sorprendente. Inizia con una linea di piano ed è chiaramente un canzone di desiderio e amore, un brano potente grazie a un organo che accompagna la sua voce. I primi tre minuti sono senza dubbio la miglior parte del pezzo. Il basso e la batteria creano una quantità di punti interessanti da impazzire. Moon In June non è priva di ironia, comunque, un attimo prima del primo assolo di organo Robert sembra aver dimenticato la sequenza della canzone e se ne esce con un “Oh! Aspetta un minuto”. Dopo il solo, la canzone prende una vena allegra, con rimbalzi ritmici e testi che parlano di essere di nuovo a casa. Il can-tato vi manderà in trance, credetemi. Al decimo minuto la chitarra fuoriesce con un riff perfetto e distorto e l’organo si lancia in una piacevole improvvisazione. Il tutto passa a una marcia alta e il feedback riempie i vostri altopar-lanti per poi ricadere improvvisamente di nuovo dentro un intermezzo tenuto insieme da un solo accordo ripetu-to all’infinito. A quel punto possiamo sentire qualcosa di veramente strano, un violino che corre su e giù come un nastro rotto creando dei suoni davvero alieni. Altri suoni riempiono lo spazio lasciato libero facendoci entrare in un nirvana di suono sperimentale. Un modo perfetto per ter-minare la canzone.Alla fine del disco troviamo Out Bloody Rageous. Difficile spiegare le emozioni che si provano quando sogni morbidi come suoni ti entrano in testa. A volte ne sono preoccu-pato; mi fa cadere il cuore dentro allo stomaco. Mi piace ascoltare questo brano prima di andare a dormire perchè ti addolcisce l’orecchio, ti rilassa e ti fa pensare più chiara-mente. Difatti non solo l’intera canzone è un’intera grande sequenza da sogno ma al quinto minuto con un ritmo simi-le alle pazzie di Facelift evidenzia una parte molto godibi-le di corno. Una delle parti che preferisco. La pazzia dura sei minuti prima di tornare ai suoni iniziali. Come le altre canzoni su Third la seconda parte è riservata a un tempo di cui è difficile entrare nei dettagli. Third finisce in modo meraviglioso con altri splendidi rumori... Bravi !In conclusione, mi piacciono molto i Soft Machine ed il loro suono. Comprendo che alcuni di voi potranno non trovarlo facile ma incoraggio chiunque almeno a provare ad ascoltare alcune delle prime cose da One e Two. Potran-no non entrarvi intesta subito, ma provateli. E per ciò che riguarda questo disco, non posso che apprezzare la compa-gnia e la felicità che mi dona: Moon In June, il miglior bra-no di tutti i tempi!

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- di Max Stèfani -

DEAD FLOWERS

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donando quel suono ricco e spaziale tipico del disco.Mick Ralphs scrisse Can’t Get Enough che divenne il pezzo che ebbe miglior fortuna e vendette maggiormente dei Bad Company. Il suono e l’energia di questo album è immediata-mente evidente nell’interazione tra Ralphs e Kirke in questo brano di apertura e forse nessun brano che segue cattura me-glio la dinamica dei Bad Company. Rock Steady ha un sapore molto più blues rock e non altrettanto accattivante in modo febbrile quanto il pezzo iniziale, seppur ugualmente orec-chiabile. Qua la voce di Rodgers è più dinamica e la canzone cresce prima di chiudersi un po’ troppo bruscamente. Ralphs porta con se Ready For Love dai Mott The Hoople, dato che ne aveva cantato una versione lui stesso nell’album All The Young Dudes del 1972. Questa è la prima occasione in cui le vibrazioni svicolano in un tema più sobrio con la voce profon-da di Rodgers e il modo con cui il bassista Burrell si illumina prima che il pezzo dissolva in un ritmo lento e nel pianoforte. Don’t Let Me Down è una ballata al piano con cori arricchiti ed un sassofono di un musicista ospite. Prima collaborazio-

ne tra Rodgers e Ralphs, la canzone mostra un ritmo costante, chitarre minima-li ed è costruita per sottoli-neare un messaggio molto semplice: “Non deludermi, dimmi dove posso trovare l’amore...”.La seconda facciata inizia con Bad Company, scrit-ta insieme a Kirke, che completa lo strano trio dove brano, artista e titolo condividono il medesi-mo nome. Forse il brano più oscuro del disco, Bad

BAD COMPANY BAD COMPANY

Originariamente considerato un progetto satellite del ma-nager dei Led Zeppelin, Peter Grant, e della sua etichetta Swan Song/Atlantic (Island in Europa), non ci volle molto tempo ai Bad Company per scavarsi la propria nicchia nel

Phanteon del rock.

Il primo disco, Bad Company, catapultato direttamente al vertice delle classifiche e da allora cinque volte il disco di pla-tino, è divenuto uno dei cinquanta album che hanno venduto di più degli anni settanta. Questi risulta-ti erano dovuti ad un approccio al rock and roll essenziale e ruvido, che colpiva gli appassionati del ge-nere. Sebbene difficilmente lungi-mirante, il suono di Bad Company è distinto, con ognuno dei quattro esecutori che ha la possibilità di rag-giungere individualmente e collet-tivamente l’ascoltatore.Il gruppo era stato fondato nel 1973 quando il chitarrista Mick Ralphs aveva abbandonato i Mott The Hoople unendosi a due ex-membri dei Free, il batterista Simon Kirke e il cantante Paul Rodgers. Quando Grant decise di gestire il gruppo, ag-giunse il bassista dei King Crimson, Boz Burrell, a completamento del quartetto, giacchè il bassista dei Free, Andy Fraser, preferì formare una sua band, gli Sharks, con Chris Spedding alla chitarra solista. La passione di Rodgers per il film Bad Company, (un western con Jeff Brid-ges e Barry Brown del 1972) così come un passo da un libro di etica vittoriana, dette nome al gruppo.Prodotto indipendentemente, Bad Company venne inciso alla Headley Grange, un ospizio vecchio di cent’an-ni, con l’aiuto di uno studio mobile, nel tardo 1973. Quello era il medesimo luogo dove gran parte del terzo e del quarto album dei Led Zeppelin, in-sieme ad alcune canzoni superstiti per Physical Graffiti, erano state incise,

40 ANNI A-GO- di Chris Jones -

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lingua d’Albione, per cui a stretto rigore il pop è la categoria generale in cui rientra anche il rock, e che, ad ancor più stret-to rigore, anche quella che noi chiamiamo musica classica è in realtà musica popolare, perché tale era ai suoi tempi e tale è ancor oggi, potremmo dire, semplificando brutalmente e ponendoci nell’ottica di chi ascolta rock, che è rock quel tipo di arrangiamento musicale con cui si vuol dare una certa pesantezza e consistenza ad un brano, mentre ciò che è pop - perlomeno come lo intendono i fan del rock – è in realtà un arrangiamento che vuol conferire al pezzo leggerezza, disimpegno, facilità d’ascolto.Ho un mio modo di pensare al pop. Avete presente il rumore che fa una bottiglia di spumante quando viene aperta? Me-glio ancora, quel tipo di sensazione che ti dà l’aprirla? Bene, per me, quello è il Pop (doverosamente scritto con la P maiu-scola). Un tocco, piacevolissimo, di leggerezza.

Steve McQueen dei Prefab Sprout è uno dei dischi pop mi-gliori di sempre. Prodotto in modo sopraffino da Thomas Dolby, che cesella e rifinisce il tutto da par suo, è una gioia per le orecchie. Avete presente termini come “classe”, “eleganza”, insomma cose come queste che in anni trucidi come gli attuali devi andare a cercare con il lanternino? Ecco, qui quelle qualità le trovate a profusione. Il nostro problema, cari noi rocker, è che il pop non ci piace perché, nella maggior parte dei casi, il pop, soprattutto come lo si realizza in Italia, è fatto male. Ma quando lo si fa bene…Un disco come questo, credetemi, vi salva la vita. O, per-lomeno, se avete passato una giornata da buttare, ve la ri-solleverà fino alle stelle (e puoi credermi anche tu, fratello metallaro).Ascoltate Appetite, Bonny, When Love Breaks Down, Hal-lelujah (no, non è quella, sublime, di Leonard Cohen, però che pezzo!) e sappiatemi poi dire. Pubblicato negli anni ’80, è uno dei picchi di quella decade. Molto più creativa di quanto generalmente si pensi e certo più di quella che – ahinoi… – ci tocca vivere.

giunta di percussioni a metà brano. Condita da un gran can-tato, la canzone pare fatta per una colonna sonora, anche se questo è un modo bizzarro per definire questo disco. Con il secondo disco Straight Shooter, la band ebbe altri due hit single, Good Lovin’ Gone Bad e Feel Like Makin’ Love.Guidata da Bad Company, la Swan Song Records ebbe quattro album nella classifica Top 200 di Billboard meno di un anno dopo il suo lancio. Questa formazione del gruppo è collegata direttamente alla durata dell’etichetta dato che il disco finale del 1982, Rough Diamonds, fu l’ultimo per quell’etichetta che chiuse nel 1983, per problemi interni ai Led Zeppelin e al cat-tivo stato di salute di Grant.L’etichetta produsse anche i Pretty Things, Dave Edmunds e Maggie Bell. Alla chiusura Page, John Paul Jones e i Bad Company passarono alla Atlantic. Plant fece la sua etichetta Es Paranza.

PREFAB SPROUTSTEVE MCQUEEN

(1985)

Il pop, questo soggetto mal conosciuto.Di solito i fan del rock contrappongono il pop al rock. Pre-messo che pop è l’abbreviazione di popular, “popolare” nella

Company potrebbe essere stata influenzata da Alice Cooper musicalmente, ma ha un cantato molto più convincente. I versi teatrali, guidati dal piano, sono interrotti mirabilmen-te nel momento in cui il pieno dell’arrangiamento entra nel corso del ritornello, condotto dall’immacolata chitarra rock di Ralphs. Se Rodgers ha scritto la canzone, in realtà sono le note di chitarra quello che veramente risplende su The Way I Choose che ha un ritmo da lento valzer di campagna e alcuni strategici stop e ripartenze.Movin’ On arriva quanto più vicino possibile all’energia rock del primo brano, Can’t Get Enough, un brano rock molto orec-chiabile e accessibile. Ancora i testi e i ritmi sono essenziali ma rappresentano un colpo forte, impossibile da ignorare, dato che questa formula riusciva a portare il brano nella Top 20. Seagull è un brano acustico di chiusura dal gusto folk che contiene un arrangiamento molto semplice con la sola ag-

UN DISCO TI SALVA (scusa se è poco)

- di Ruben P. Coppolella -

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‘Pay per view’. Il tutto (ovvero ben 2 ore e mezza di concerto) è stato comple-tamente restaurato e il suono nuova-mente mixato da Bob ClearmountainPer “L.A. Forum – Live In 1975” il tour di riferimento è quello del 75, deno-minato “Tour Of The Americas ’75”, il primo con il nuovo chitarrista Ronnie Wood. Dopo un paio di concerti di “ri-scaldamento” in Louisiana il tour salpò alla volta di 44 date dal 3 giugno all’ 8 agosto 1975. Cinque furono le notti al FORUM di Los Angeles dal 9 al 13 luglio, questa è quella del 12 luglio. Un documento imperdibile! Che sia il DVD, il blu-ray, i 2 CD o il triplo vinile

The Sheriff, Wonderful Tonight, Co-caine, Tears In Heaven, I Shot The She-riff, Crossroads. Ma oltre a tutto questo anche Pretending e Little Queen Of Spades che richiamano alla mente il Clapton vecchia maniera. From The Vault è la nuova serie di con-certi dal vivo estratti dall’archivio dei Rolling Stones, ora pubblicata ufficial-mente per la prima volta.Hampton Coliseum – Live In 1981 è il primo titolo di questa fantastica serie, che inizia dal quel magico tour ame-ricano del 1981 per la release dell’al-bum Tattoo You, in grado di fruttare ben 50 milioni di dollari in biglietti vendu-ti. Furono 50 date con partenza da Philadelphia alla fine di settembre per poi approda-re a Hampton, in Virginia il 18 e il 19 Dicembre. Lo show del 18 Di-cembre, data del compleanno di Keith Richards, fu il primo concerto trasmesso in TV con la formula del

ERIC CLAPTON PLANES, TRAINS and ERIC (DVD/BLUE-RAY)ROLLING STONES FROM THE VAULT - L.A. FORUM (1975) FROM THE VAULT / HAMPTON COLISEUM (1981)

Nel corso della sua leggendaria carrie-ra, Eric Clapton ha prodotto molti al-bum dal vivo - con Cream, Derek and the Dominoes, e i suoi molti documen-ti da concerto come solista - che è facile perdere le tracce di tutti. Questo nuovo prodotto cattura il tour del 2014 in Oriente (tra cui il suo con-certo n. 200 in Giappone). Il basso di Nathan East romba come un tuono, e si sente ogni colpo di piatto o del rullante di Steve. I due veterani sta-biliscono una spessa, funky scanalatu-ra, che serve come base per gli assoli di un Clapton ispirato.Gli standard ci sono tutti: Layla, I Shot

HOUSE OF CARDSProprio quando si parla delle dimissioni di Napolitano, in Rete molti ironi-camente hanno cominciato a diffondere la speranza di vedere al suo posto non Casini o la Bonino, ma… Frank Underwood.Underwood, interpretato da un fenomenale Kevin Spacey (con l’attrice Ro-bin Wright nel ruolo di moglie, che lo aiuta nel suo piano), è il protagonista della serie televisiva ‘House of Cards’, di cui si sono viste in Italia le prime due stagioni sul canale Sky ‘Atlantic’.Una serie dalla fortissima matrice politica. Vero che una grande attenzione viene data ai personaggi e alle loro caratteristiche ma è altrettanto significa-tiva la sotto-trama politica, quella che ha sempre mosso le azioni dei perso-naggi e del protagonista principale.La serie si concentra sull’utilitarismo spietato, la manipolazione, il potere, e sul fare di tutto per raggiungere l’obiettivo.L’ultimo episodio ci ha raccontato l’obiettivo incredibilmente raggiunto dal protagonista e il suo nuovo posto di Presidente degli Stati Uniti. Il protagonista ha sempre fatto della ricerca del potere su tutto e tutti la sua arma principale e questa sua smania non si sarà certo affievolita con la conquista della carica più importante del mondo. Per questo la politica estera giocherà un ruolo fondamentale il prossimo anno. Dovremo aspettare febbraio 2015 per saperlo.Per capire la differenza con gli sceneggiati italiani e la ‘democrazia’ che c’è in USA (e non in Italia) ve l’immaginate possibile in Italia una storia del genere? Anche se ‘fiction’. Il vice presidente che bacia a lingua in bocca la sua guardia del corpo prima di scopare in tre con la moglie?

CULT

– di Andrea Hawkes –

MOVIE/DVD

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WE ARE

MAX STÈFANIEsordisce nel 1971 per la rivista di hi-fi “Suono”, dove cura la parte musica-le ‘Music Box’ fino al 1980. Nel 1976 dirige i primi due numeri di “Popster / Rockstar”. L’anno dopo fonda “Il Mucchio Selvaggio”, giornale che ha editato e diretto fino a febbraio 2011.Come editore ha creato anche “Rumore”, “Chitarre”, la rivista di cinema “Duel/Duellanti”, il sito “Rockol”. Ha scritto per “L’Europeo”, “La Repubblica”, le rivi-ste francesi “Starfix” e “Lesinrockptibles”. Da aprile 2012 a settembre 2013 ha co-diretto con Paolo Corciulo “Suono”, curando la parte musicale.

GIANCARLO TROMBETTIInizia a vent’anni a scribacchiare per giornaletti minori e a divertirsi in radio; ma è dal 1979 in poi che tutto inizia a girare positivamente: “Rockstar”, “Tutti-frutti”, “Mucchio”, “Rockerilla”... riesce a rifilare le sue cose un po’ a tutti. Dirige un paio di riviste Rock: “Metal Shock” e “Flash”. Nel 1988 molla la carta per la televisione e finisce in quel rifugio di peccatori che era Videomusic. Lavora per TMC, poi per La7, Super Channel Europa, D+, apre DeeJay Tv, Sky. Rimbalza tra Milano, Roma e Londra. Nel mezzo riesce a gestire da direttore artistico un elenco spropositato di eventi speciali, tra cui qualche centinaio di concerti che lui stesso sostiene: “avrebbe voluto vedere” in primo luogo.Sopravviveva ritirato in campagna come Cincinnato, finchè Max non ha avuto l’incoscienza di ospitarlo, prima su “Suono” e adesso su “Outsider”.

OUTSIDERIl rock è qualcosa che mi disturba anche come termine.

Mi frastorna. È cacofonico, è impronunciabile. È inascoltabile e non mi diverte. (Emilio Fede)

IL MEGLIO DELLA STAMPA ROCKINTERNAZIONALE

Via San Domenico Savio 1, 73024 Maglie

DIRETTORE: Max Stèfani - [email protected]

REDATTORI: Giancarlo Trombetti – [email protected]

PROGETTO GRAFICO: Giulia Tessari

IMPAGINAZIONE: Giulia Tessari, Linda Robinson

HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:Marco Cestoni, Ruben P. Coppolella, Daniele Benvenuti,

Andrea Hawkes, Aldo Pedròn, Emiliano Ra-B, Tim Tirelli, Carlo Zampolini

FOTOGRAFI: Getty Images, Chris Walter/Photofeatures

TRADUTTORI: Lorenzo Balducci, Tito Borsa, Francesco Bucci,

Francesca Fiorucci, Davide Lancieri, Alessandra Maggi

COMITATO DEI GARANTI: Roberto Gallo, Alessandra Maregatti

STUDIO LEGALE:Mario Caverni, Andrea Di Pietro, Lucia Maggi

MEMORIES: Fulvio Fiore

DIRETTORE MARKETING, PUBBLICITÀ: Tiziana Solidoro - [email protected]

DIFFUSIONE, ABBONAMENTI E ARRETRATI: diff [email protected]

DISTRIBUZIONE: Pieroni Distribuzione srl

Viale Vittorio Veneto 24 - Milano

STAMPA:Arti Grafi che BocciaVia Tevere 44, Roma

REGISTRAZIONE: Reg.trib. Milano N. 140 del 10.05.2013

DIRETTORE RESPONSABILE:Massimo Stèfani

OUTSIDER è una pubblicazione mensile della Revenge srl, via XX settembre 6, 73020 Cutrofi ano (LE)

Sito internet: www.outsiderock.com

SPIRITUAL GUIDANCE: John Belushi e Stefano Ronzani

Foto di copertina: DAVID GILMOUR 1977

(CHRIS WALTER)

© Revenge srl - Tutti i diritti di produzione sono riservati.Chiuso in redazione 27 novembre 2014

SUL NUMERO DI FEBBRAIO DI OUTSIDER

JEFF BECK / ZZ TOPGli ZZ Top sono uno dei nostri gruppi americani preferiti, fin dagli esordi nel 1971. Jeff Beck… beh, inutile dirlo. Comunque Gibbons e Beck si sono incontrati spesso negli ultimi anni facendo scintille sui palchi americani ed europei. Vediamoli un po’ più da vicino.

NEW RECORDSSceglieremo con la dovuta calma su Waterboys, Brian Ferry, Johnny Marr, Jon Hopkins, AC/DC, Stevie Nicks, Foo Fighters, Temple Move-ment, Marcia Ball, Chuck Prophets, Royksopp, Belle and Sebastian, Brant Bjork, Faith No More, Melissa Etheridge, Bob Seger, Govn. Mule, TV On The Radio…

GENE CLARKHarold Eugene “Gene” Clark (1944-1991) fa parte dell’Olimpo dei no-stri eroi. Per i Byrds, per Dillard & Clark, per White Light, No Other, per McGuinn Clark & Hillman etc etc. Una ‘luce bianca’ che non smetterà mai di brillare.

RISTAMPEOrmai c’è solo l’imbarazzo della scelta. Comunque prossimamente Marvin Gaye, Coldplay, David Bowie, Brian Eno, John Prine, Capt. Beefheart, Kiss, Manic Street Preachers, John Martyn, XTC, Gentle Giant, Kinks, Bruce Cockburn, Todd Rundgren, Roxy Music, Seeds, Kinks, Manfred Mann, Dillards, Robert Wyatt…

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Tra il diree il fareci sono loro.Le Dike.E chi le usa.

Le scarpe Dike separano l’uomo dal suolo ma lo ricongiungono alla materia ... non è banale. Una cassa fatta a mano permette

all’uomo di sentire il suono, la vibrazione dell’universo. Una Glider Dike gli fa sentire il suolo, la materia della Terra.

La Terra sotto i piedi.

True stories. Sei storie vere, sei storie Dike. Uomini che le tengono ai piedi e che fanno sul serio. Lavorano. wwww.dikeworkwear.comUommmimini che le tengono ai piedi e che fanno sul se