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documenti, possiamo constatare che l’attività ceramistica fu pro- prio prerogativa d’alcune fami- glie albisolesi, prevalentemente a conduzione familiare, coadiu- vate da alcuni giovani esterni. Se in un primo momento si ri- scontra la presenza dei Valenti- no, tra il XVIII ed il XIX secolo subentrarono i Saettone, i Can- tello, i Barile ed i Pelizzi. Per ricordare le famiglie di cera- misti più diffuse a Cassine, si co- nosce che nel 1714 Giò Batta Sa- ettone possedeva una fabbrica ove assunse due giovani di Al- bisola, Francesco Siri e Bernar- do Galvano, per far apprende- re l’arte della ceramica al tornio. A Mombaruzzo la famiglia Can- tello fu la più numerosa, perdu- rando più a lungo nel tempo e la cui attività si sviluppò dal 1740 al 1940 circa: ultimi esponenti a conservare questa tradizione ce- ramistica. L’affinità ed il confronto con gli scarti ceramici rinvenuti a Mom- baruzzo e Cassine, la cui data- zione in quest’ultimo caso è sta- ta accertata al 1788 a causa delle scritte su alcuni supporti di cot- tura, riconduce genericamente la produzione ritrovata a Mom- baruzzo alla seconda metà del 1700. Alcune discordanze do- vute a tecniche produttive pro- babilmente più arcaiche (pre- senza di grossi pani cuneiformi e assenza di caselle), potrebbe- ro fare anticipare lievemente la datazione rispetto alla cerami- ca emersa a Cassine, anche se, per la casualità dei rinvenimenti non è possibile fornire dati esau- stivi. Periodico dell’Associazione Culturale e del Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit di Savona Numero 22 • Maggio 2011 • Anno IX • Copia omaggio Sergio Ravera Direttore Responsabile segue a pagina 2 L’insediamento nel basso Piemonte di ceramisti di Albisola Superiore, a seguito di disaccordi con artigiani di Albissola Marina, ebbe origine dalla mancanza di norme specifiche nei rapporti commerciali a livello territoriale. L’esigenza di stoviglie a basso costo, tra ‘600 e ‘700, favorì una distribuzione capillare di “fabbriche” di questi prodotti, permettendo una notevole riduzione dei prezzi del trasporto con esenzioni o riduzioni dei dazi. Nel 2008, l’Associazione “R. Aiolfi” ha iniziato ad interessarsi della tela seicentesca, conservata nella Chiesa della Certosa di Loreto a Savona, su diretto impulso del Dr. Bruno Bar- bero, considerata la sua particolare iconografia: San Michele Arcangelo è raffigurato con la palma in mano, segno del martirio, anziché la spada e/o la bilancia. Partendo dagli studi del Dr. Barbero, col supporto della competente Soprintendenza e del Dr. Massimo Bartoletti di Genova, siamo arrivati ad individuare nel Museo de Bellas Artes de Cordoba (Spagna) una tela molto simile a quella savonese. Da allora, sono nati i nostri rapporti con la Direttrice Dr.ssa Fuensanta Garcia de la Torre e con il Conser- vatore Dr. José Maria Palencia Ce- rezo. Vista l’importanza storica e la qualità dell’opera di Savona, nel frattempo restaurata dall’Associa- zione “Aiolfi”, è stato deciso di cono- scere l’opera a Cordova e di iniziare un “gemellaggio” culturale tra noi e le due città di Savona e Cordova: infatti, la ricerca continua da parte sia della Dr.ssa Silvia Bottaro, sia del Dr. Palencia Cerezo che, a luglio 2010, è venuto a Savona per studiare l’opera conservata nella nostra città. I rapporti, poi, con la Spagna si ar- ricchiscono ulteriormente, in questo numero, con la conoscenza della Prof.ssa Mónica Vàzquez Astorga dell’Università di Saragoza, cono- sciuta da Silvia Bottaro nell’occasio- ne della sua ricerca sulla diffusione dell’arte spagnola contemporanea in Italia, ricerca alla quale ha collabo- rato in piccola parte. Partendo da queste premesse, la Prof. ssa Vàzquez Astorga ha proposto un suo contributo per il giornale “Pig- menti” (pagina 8), dedicando il suo apporto alla storia dell’architettura del periodo franchista che potrebbe avere rapporti stilistici con lo stesso periodo storico italiano (1900-1936). In tale ottica, continua l’incontro tra la cultura spagnola e quella italiana in generale, ed in particolare con quella del territorio savonese. E’ avviata, infatti, la ricerca dedicata agli influssi della cultura spagno- la nell’arte durante il secolo XVII, considerato il dominio spagnolo sull’area del Ponente ligure (Finale Ligure-Loano; Millesimo, ecc.). Non si esclude la possibilità di ul- teriori rafforzamenti nello scambio culturale e, forse, con una nuova gita in Spagna nel 2012 toccando Saragoza ed ancora Cordova per la quale l’Associazione “Aiolfi” ha sottoscritto l’indicazione all’Europa per nominarla “Città della Cultura” europea nel 2016. Silvia Bottaro “Amorosi sensi” tra l’Aiolfi e la Spagna Ceramisti d’Albisola Superiore emigrano nell’Alto Monferrato Produzioni tra i comuni di Cassine e Mombaruzzo dal XVII al XX secolo; un nuovo mercato per il Piemonte meridionale L’ impulso per la produzio- ne ceramica nel Piemonte meridionale dal XVII secolo in avanti, si deve ad una crisi dei ceramisti liguri ed al loro conse- guente trasferimento graduale nell’entroterra a nord dell’Ap- pennino. L’insediamento trove- rebbe la motivazione nell’abban- dono d’alcune fabbriche di Albi- sola Superiore, in seguito a di- saccordi con i ceramisti di Albis- sola Marina. Tale crisi ebbe ori- gine dalla mancanza di norme specifiche per i rapporti com- merciali col territorio in esame, relazioni già in atto precedente- mente a tale periodo. L’esigen- za di stoviglie a basso costo, tra ‘600 e ‘700, favorì una distribu- zione capillare di “fabbriche” di questi prodotti, permetten- do una notevole riduzione dei prezzi del trasporto con esen- zioni o riduzioni dei dazi. L’abbandono delle attività pro- duttive ad Albisola Superiore è documentato, ad esempio, con il trasferimento del vasaio Pao- lo Capello quando nel 1640 im- piantò un laboratorio a Valenza Po assumendo il giovane Loren- zo Bozano. Nel 1671, Gerolamo Siri, un altro albisolese, ricercò in patria un giovane per avviar- lo all’arte del “figulo” nella sua fabbrica di Tortona, individuan- dolo in Pietro Gio Siri. Questa situazione favorì l’in- staurarsi, da parte di ceramisti liguri, di un vero e proprio pro- getto imprenditoriale anche in Alto Monferrato, come a Mom- baruzzo e a Cassine, in funzio- ne del gusto e delle esigenze lo- cali, abbandonando produzioni tradizionali quali la maiolica, la graffita policroma e la ceramica à traches noires. Furono così in- trodotti nuovi tipi, quali la ce- ramica dipinta ad ingobbio sot- to vetrina, impropriamente det- ta slip-ware, già in uso nella Sviz- zera tedesca, in Germania e Au- stria, trovando un nuovo fioren- te mercato nelle aree d’espansio- ne del Piemonte meridionale. L’ attestazione di una produ- zione ceramica a Cassine e Mombaruzzo, legata anche alla presenza contemporanea degli stessi ceramisti, come i Saettone, è stata rilevata in via documen- taria e da alcune analogie degli scarti di produzione rinvenuti, in varie situazioni, nei due cen- tri. Le fabbriche furono favorite dalla presenza d’ottima argilla e dalla facilità d’approvvigiona- mento del legname, per la con- duzione delle fornaci, essendo- vi nella zona una vasta area bo- schiva detta “La Communa” o “Boschi delle Sorti”. Le prime notizie risalgono al 1678 quando compare un cer- to “mastro da Vasselli” chiama- to Antonio Valentino operante a Mombaruzzo. Analizzando altri Vasellame prodotto da Giuseppe Cantello (1930 – 1940 circa) e, in basso, Supporti di cottura (XVIII Sec.).

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Pigmenti, il giornale dell'Associazione culturale Renzo Aiolfi di Savona

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documenti, possiamo constatare che l’attività ceramistica fu pro-prio prerogativa d’alcune fami-glie albisolesi, prevalentemente a conduzione familiare, coadiu-vate da alcuni giovani esterni. Se in un primo momento si ri-scontra la presenza dei Valenti-no, tra il XVIII ed il XIX secolo subentrarono i Saettone, i Can-tello, i Barile ed i Pelizzi. Per ricordare le famiglie di cera-misti più diffuse a Cassine, si co-nosce che nel 1714 Giò Batta Sa-ettone possedeva una fabbrica ove assunse due giovani di Al-bisola, Francesco Siri e Bernar-do Galvano, per far apprende-re l’arte della ceramica al tornio. A Mombaruzzo la famiglia Can-tello fu la più numerosa, perdu-rando più a lungo nel tempo e la cui attività si sviluppò dal 1740 al 1940 circa: ultimi esponenti a conservare questa tradizione ce-ramistica. L’affinità ed il confronto con gli scarti ceramici rinvenuti a Mom-baruzzo e Cassine, la cui data-zione in quest’ultimo caso è sta-ta accertata al 1788 a causa delle scritte su alcuni supporti di cot-tura, riconduce genericamente la produzione ritrovata a Mom-baruzzo alla seconda metà del 1700. Alcune discordanze do-vute a tecniche produttive pro-babilmente più arcaiche (pre-senza di grossi pani cuneiformi e assenza di caselle), potrebbe-ro fare anticipare lievemente la datazione rispetto alla cerami-ca emersa a Cassine, anche se, per la casualità dei rinvenimenti non è possibile fornire dati esau-stivi.

Periodico dell’Associazione Culturale e del Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit di SavonaNumero 22 • Maggio 2011 • Anno IX • Copia omaggio

Sergio RaveraDirettore Responsabile

segue a pagina 2

L’insediamento nel basso Piemonte di ceramisti di Albisola Superiore, a seguito di disaccordi con artigiani di Albissola Marina, ebbe origine dalla mancanza di norme specifiche nei rapporti commerciali a livello territoriale. L’esigenza di stoviglie a basso costo, tra ‘600 e ‘700, favorì una distribuzione capillare di “fabbriche” di questi prodotti, permettendo una notevole riduzione dei prezzi del trasporto con esenzioni o riduzioni dei dazi.

Nel 2008, l’Associazione “R. Aiolfi” ha iniziato ad interessarsi della tela seicentesca, conservata nella Chiesa della Certosa di Loreto a Savona, su diretto impulso del Dr. Bruno Bar-bero, considerata la sua particolare iconografia: San Michele Arcangelo è raffigurato con la palma in mano, segno del martirio, anziché la spada e/o la bilancia. Partendo dagli studi del Dr. Barbero, col supporto della competente Soprintendenza e del Dr. Massimo Bartoletti di Genova, siamo arrivati ad individuare nel Museo de Bellas Artes de Cordoba (Spagna) una tela molto simile a quella savonese. Da allora, sono nati i nostri rapporti con la Direttrice Dr.ssa Fuensanta Garcia de la Torre e con il Conser-vatore Dr. José Maria Palencia Ce-rezo. Vista l’importanza storica e la qualità dell’opera di Savona, nel frattempo restaurata dall’Associa-zione “Aiolfi”, è stato deciso di cono-scere l’opera a Cordova e di iniziare un “gemellaggio” culturale tra noi e le due città di Savona e Cordova: infatti, la ricerca continua da parte sia della Dr.ssa Silvia Bottaro, sia del Dr. Palencia Cerezo che, a luglio 2010, è venuto a Savona per studiare l’opera conservata nella nostra città. I rapporti, poi, con la Spagna si ar-ricchiscono ulteriormente, in questo numero, con la conoscenza della Prof.ssa Mónica Vàzquez Astorga dell’Università di Saragoza, cono-sciuta da Silvia Bottaro nell’occasio-ne della sua ricerca sulla diffusione dell’arte spagnola contemporanea in Italia, ricerca alla quale ha collabo-rato in piccola parte. Partendo da queste premesse, la Prof.ssa Vàzquez Astorga ha proposto un suo contributo per il giornale “Pig-menti” (pagina 8), dedicando il suo apporto alla storia dell’architettura del periodo franchista che potrebbe avere rapporti stilistici con lo stesso periodo storico italiano (1900-1936). In tale ottica, continua l’incontro tra la cultura spagnola e quella italiana in generale, ed in particolare con quella del territorio savonese. E’ avviata, infatti, la ricerca dedicata agli influssi della cultura spagno-la nell’arte durante il secolo XVII, considerato il dominio spagnolo sull’area del Ponente ligure (Finale Ligure-Loano; Millesimo, ecc.).Non si esclude la possibilità di ul-teriori rafforzamenti nello scambio culturale e, forse, con una nuova gita in Spagna nel 2012 toccando Saragoza ed ancora Cordova per la quale l’Associazione “Aiolfi” ha sottoscritto l’indicazione all’Europa per nominarla “Città della Cultura” europea nel 2016.

Silvia Bottaro

“Amorosisensi”

tra l’Aiolfie la Spagna

Ceramisti d’Albisola Superioreemigrano nell’Alto MonferratoProduzioni tra i comuni di Cassine e Mombaruzzo dal XVIIal XX secolo; un nuovo mercato per il Piemonte meridionale

L’impulso per la produzio-ne ceramica nel Piemonte

meridionale dal XVII secolo in avanti, si deve ad una crisi dei ceramisti liguri ed al loro conse-guente trasferimento graduale nell’entroterra a nord dell’Ap-pennino. L’insediamento trove-rebbe la motivazione nell’abban-dono d’alcune fabbriche di Albi-sola Superiore, in seguito a di-saccordi con i ceramisti di Albis-sola Marina. Tale crisi ebbe ori-gine dalla mancanza di norme specifiche per i rapporti com-merciali col territorio in esame, relazioni già in atto precedente-

mente a tale periodo. L’esigen-za di stoviglie a basso costo, tra ‘600 e ‘700, favorì una distribu-zione capillare di “fabbriche” di questi prodotti, permetten-do una notevole riduzione dei prezzi del trasporto con esen-zioni o riduzioni dei dazi. L’abbandono delle attività pro-duttive ad Albisola Superiore è documentato, ad esempio, con il trasferimento del vasaio Pao-lo Capello quando nel 1640 im-piantò un laboratorio a Valenza Po assumendo il giovane Loren-zo Bozano. Nel 1671, Gerolamo Siri, un altro albisolese, ricercò

in patria un giovane per avviar-lo all’arte del “figulo” nella sua fabbrica di Tortona, individuan-dolo in Pietro Gio Siri. Questa situazione favorì l’in-staurarsi, da parte di ceramisti liguri, di un vero e proprio pro-getto imprenditoriale anche in Alto Monferrato, come a Mom-baruzzo e a Cassine, in funzio-ne del gusto e delle esigenze lo-cali, abbandonando produzioni tradizionali quali la maiolica, la graffita policroma e la ceramica à traches noires. Furono così in-trodotti nuovi tipi, quali la ce-ramica dipinta ad ingobbio sot-to vetrina, impropriamente det-ta slip-ware, già in uso nella Sviz-zera tedesca, in Germania e Au-stria, trovando un nuovo fioren-te mercato nelle aree d’espansio-ne del Piemonte meridionale.

L’attestazione di una produ-zione ceramica a Cassine e

Mombaruzzo, legata anche alla presenza contemporanea degli stessi ceramisti, come i Saettone, è stata rilevata in via documen-taria e da alcune analogie degli scarti di produzione rinvenuti, in varie situazioni, nei due cen-tri. Le fabbriche furono favorite dalla presenza d’ottima argilla e dalla facilità d’approvvigiona-mento del legname, per la con-duzione delle fornaci, essendo-vi nella zona una vasta area bo-schiva detta “La Communa” o “Boschi delle Sorti”. Le prime notizie risalgono al 1678 quando compare un cer-to “mastro da Vasselli” chiama-to Antonio Valentino operante a Mombaruzzo. Analizzando altri

Vasellame prodotto

da Giuseppe Cantello

(1930 – 1940 circa)

e, in basso, Supporti di

cottura (XVIII Sec.).

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dalla prima pagina

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PigmentiPeriodico dell’Associazione Culturale edel Paesaggio “Renzo Aiolfi” no profit

Anno IX – Numero 22

Direttore responsabileSergio Ravera

Coordinamento editorialeSilvia Bottaro

Direzione e redazione17100 Savona, Via Paolo Boselli, 6/3

RegistrazioneTribunale di Savona 12/03

Stampa: Coop Tipograf di Savona

Collaboratori di questo numeroEmanuela E. Abbadessa, Sergio Arditi,

Milena Armellino, Ass. Culturale G. Bove & Maranzana,

Raffaella Beccaro, Silvia Bottaro, Michele Costantini, Fondazione Mario

Novaro, Costanza Girardengo, Giuseppe Milazzo, Sonia Pedalino, Roberto Pizzorno, Grazia Robaldo,

Laura Sicco, Romano Strizioli, Monica Vàzquez Astorga.

Del contenuto e delle opinioniespressi negli articoli sono responsabili

i singoli autori

Stampato e distribuitogratuitamente in 2.000 copie

Ufficio dell’Associazione Aiolfi17100 Savona, Via Paolo Boselli, 6/3

e-mail: [email protected]://aiolfiassociazione.blogspot.com

Apertura: mercoledì ore 10-12giovedì ore 16-18

Le classi ceramiche rinvenu-te sono così classificabili: a) Pri-va di rivestimento; b) Ingobbia-ta monocroma; c) Invetriata mo-nocroma; d) Ingobbiata macula-ta; e) Slip ware; f) Graffita mo-nocroma.Le categorie più rappresentate sono formate da quelle prive di rivestimento, seguono le ingob-biate monocrome e le invetriate. La ceramica ad ingobbio macu-lato a Mombaruzzo è in percen-tuale assai limitata, rappresenta-ta da pochi frammenti ricondu-cibili a due ampi cavetti emisfe-rici con piede a disco e orlo ar-rotondato. Il rivestimento occu-pa esclusivamente la parete in-terna, con larghe colature di co-lore verde ramaccia, su ingob-bio avorio paglierino, eseguito al tornio lento con distribuzione non uniforme. Questo tipo è as-sente a Cassine, ove in alternati-va compare la più raffinata mar-morata con striature a vari colo-ri, eseguita al tornio veloce, an-cora esclusivamente con rivesti-mento sulla parete interna. Nei due paesi monferrini è pre-sente la ceramica con motivi in-gobbiati sotto vetrina, detti a slip-ware, di cui è significativo un piatto con tesa ampiamen-te ricomposta, decorato a pal-mette poste tra registri circolari concentrici. Appartengono, tut-tavia, a questa classe frammen-ti d’orcioli, con decorazione di-pinta a linee ondulate tra col-lo e corpo. Pochi casi sono rap-presentati da ceramica graffita su ingobbiata monocroma, con decorazioni floreali a Cassine, mentre a Mombaruzzo sono in-cisi sottilmente, su un fondo di bacino, uccelli stilizzati e rami con rare foglie ovali.

I difetti, avvenuti durante le va-rie fasi della cottura, si riscon-

trano ad iniziare dalla prima fase con scarti di biscotti ingobbia-ti privi di vetrina, dovuti a fes-surazioni. Ulteriori difetti per le ingobbiate monocrome si rileva-no a causa della vetrina parzial-mente fusa, bruciata e deteriora-ta sui bordi, sia per la scarsa ade-sione dell’ingobbio, sia per il di-stacco dovuto al contatto con i supporti di cottura, oppure per accumuli di polveri e frammenti di detriti conglobati nella vetri-na stessa. Difetti ricorrenti sono pure dovuti a impronte circolari con stacchi di vetrina causate dai peducci dei supporti triangolari. Alcuni esempi sono costituiti da frammenti di cavetti con le pare-ti invetriate incollate tra loro, per il contatto delle forme, avvenuto senza un’adeguata separazione. Lo scarso controllo della tempe-

ratura, in alcune zone del forno, ha prodotto deformazioni do-vute all’eccessivo grado di ca-lore. A Cassine si sono ritrova-ti contenitori cilindrici, denomi-nati caselle o casette, a volte do-tati di fori d’aerazione, per ri-porre i pezzi più delicati e a pa-reti sottili. La maggior parte dei frammenti privi di rivestimento sono costitu-iti da pentole ovoidi con colletto a bordo rialzato e fondo piatto.

Le forme ricostruibili rappre-sentano una parte limitata

dei rinvenimenti per la grande frantumazione dei materiali di scarico; quelle più diffuse sono costituite da vasellame da men-sa: ciotole, cavetti, piatti e boc-cali. I tegami sono a corpo linea-re o panciuto, con anse a canno-ne anche con impronte decorati-ve all’attaccatura.I piatti hanno tesa confluen-te e bordo arrotondato, il piede è a disco. Tra i cavetti compaio-no forme troncoconiche e pare-ti tendenti al verticale. Altre for-me aperte sono rappresentate da piatti con orlo arrotondato e cavetti con piede a disco, rivesti-ti da vetrina, a volte lionata, con colorazione dal giallo al bruno.Sono presenti coperchi a disco piatto, sulle due superfici, con pomelli al centro; uno scartato in prima cottura, presenta su-periormente una vetrina con un ampio difetto d’assorbimento. Altri coperchi sono rappresen-tatati da un tipo invetriato, con orlo dritto rivolto al basso e sul-la piatta superficie superiore do-tato d’ansa a nastro orizzontale.Si trovano boccali invetriati sia all’interno, sia all’esterno; nel secondo caso lasciando a vol-te la base parzialmente scoper-ta. Le colorazioni variano tra il giallo e il bruno, solo raramen-te presentano una vetrina verde all’esterno.Compaiono limitati frammen-ti di grandi bacini troncoconi-ci, interamente invetriati all’in-terno con vetrina su un ingob-bio avorio e dotati di anse a pre-sa orizzontale.

Le colorazioni delle ingob-biate monocrome variano

tra il giallo e il bruno, solo alcu-ni frammenti, forse appartenen-ti allo stesso boccale per analoga

assieme agli scarti di ceramica. Si sono rinvenuti quattro tipi di supporti così classificabili:1 - Distanziatori triangolari. Co-

stituiti da treppiedi triango-lari realizzati a stampo, co-munemente detti a zampa di gallo. Questi distanziato-ri, con peduncoli ai vertici, sono distinti in tre tipi carat-terizzati a volte da scritte in rilievo alla barbotina, oppu-re con una semplice protu-beranza a semiglobo al cen-tro, altri ancora sono a su-perficie piana. Le scritte in rilievo presentano sempre un motivo ricorrente con let-tere disposte a croce, la cui sigla sarebbe da leggersi: E - B – M – M, legate al centro attraverso una croce stam-pata in rilievo con al cen-tro un globetto. Questi tipi di distanziatori erano uti-lizzati per separare le forme aperte in fase di cottura, di cui restano alcune impronte sui cavetti invetriati.

2 - Distanziatori a disco. Distan-ziatori probabilmente usa-ti per la cottura dei boccali. Compaiono sulla superficie ripetute colature sovrappo-ste di vetrina con andamen-to semicircolare, anche di di-verso colore per il loro riuso. Tutti sono allo stato fram-mentario, seppure alcuni parzialmente ricomponibili.

3 - Pani a fuso o cuneo. A Mom-baruzzo forse usati per fer-mare la prima forma alla base della pira di cottura, probabilmente in alternati-va dei pani rettangolari ri-trovati a Cassine. Anche su questi supporti compaiono colature di vetrina.

4 - Colombini. Sono a forma di cordoni cilindrici raggru-mati, di cui si sono recu-perati pochi esemplari, ve-nivano utilizzati allo stato plastico per conferire stabi-lità ai pezzi prima della fase di cottura.

La produzione di Cassine pare si sia esaurita già all’inizio

del XIX secolo, mentre a Mom-baruzzo gli ultimi vasai perdu-rarono sino alla prima metà del secolo scorso. Si annovera il va-saio Giuseppe Pieve, di cui i fa-miliari conservano un recipien-

incisione a onda sulla spalla, pre-sentano colorazione verde sme-raldo. Nell’insieme le forme ceramiche costituite da boccali, bacini, piat-ti, cavetti, presentano un mag-gior grado di rifinitura rispet-to alle olle e ai tegami, in gene-re mancanti di rivestimento, con-dizione imputabile al tipo d’uti-lizzazione che ne ha condiziona-to la qualità estetica.Le forme delle anse dei tegami sono sovente a cannone su corpo panciuto, oppure con due anse a

te cilindrico con ansa a nastro, utilizzato come misura di capa-cità, denominato scupè ed alcuni scaldini detti cuco, utilizzati dal-le sarte e ricamatrici. E’ ancora viva a Mombaruzzo la memoria dell’attività del vasaio Giuseppe Cantello, che operò sino attorno al 1949 in via Basalone, presso la chiesa di San Marziano, ove sono ancora visibili i resti di un forno a due bocche ed una macina per colori. Del Cantello si conserva-no pentole (pignatte), scaldalet-ti (s-ciunfette), bacini per lavare (basle), salvadanai, teglie ed al-tro ancora.L’esaurimento di queste produ-zioni si devono allo smercio re-golato solamente dalle specifiche esigenze locali, passando di casa in casa per le ordinazioni: meto-do facilmente controllabile e di pronta consegna, ma di limitata portata. Si può comprendere, dai tipi prodotti ancora nel ‘900, pur nell’aggiornamento d’alcune va-rietà delle forme, che non s’im-postarono rilevanti variazio-ni tecnologiche, né s’instauraro-no innovazioni per affrontare le nuove sfide del mercato. Questa produzione, che conti-nuò solamente a Mombaruzzo e prettamente legata ad un’econo-mia rurale, con la crisi dell’agri-coltura tradizionale e la trasfor-mazione del mondo contadino, non riversò un adeguato inte-resse verso una riconversione ed espansione produttiva, sino a giungerne al suo completo esaurimento attorno alla Secon-da Guerra Mondiale.

Sergio Arditi

sezione circolare, poste orizzon-talmente ed opposte tra loro, col-locate poco sotto il bordo.Gli impasti sono essenzialmen-te di due tipi: il pentolame e i te-gami sono abbastanza depura-ti con rari inclusi di piccole di-mensioni, la colorazione va dal rosso arancio al bruno; le forme della ceramica da mensa invece hanno un impasto assai depura-to, di color beige chiaro, rivesti-to con un ingobbio avorio o pa-glierino solo all’interno.

I supporti di cottura denota-no che una volta riusati e resi

inutilizzabili sono stati gettati

In alto a sinistra: Boccale invetriato monocromo

(XVIII Sec.)

accanto: Piatto con decorazioni ad

ingobbio sotto vetrina a slip-ware (XVIII Sec.).

In basso: Supporto di cottura

(XVIII Sec.)

Ceramisti d’Albisola Superioreemigrano nell’Alto Monferrato

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A lato: Linda Campanella;

sotto: la squadra femminile syncro della Rari Nantes di Savona

Dal Coro di Valleggia al Teatro dell’Opera di Tokyo; una delle più belle ed eclettiche voci del panorama lirico italiano “...voce estesissima e incredibilmente sicura nel registro acuto e sovracuto, musicalmente impeccabile, espressiva e scenicamente deliziosa…”

Al soprano Linda Campanellaassegnato il Premio Aiolfi 2011

Il Premio Renzo Aiolfi, quest’anno viene assegnato al soprano savo-nese, Linda Campanella, giudica-ta una delle più belle ed eclettiche voci del panorama lirico italiano “..voce estesissima e incredibil-mente sicura nel registro acuto e sovracuto, musicalmente impec-cabile, espressiva e scenicamente deliziosa….”. (A. Merli). Con le sue doti canore ha saputo portare nel mondo il bel canto dando pre-stigio alla nostra città.

*Gentilmente, Linda Campanella ha rilasciato per noi un’intervista, attraverso la quale conoscere me-glio questa illustre concittadina .Come è iniziata la sua passione per il canto e quali studi ha svol-to?Sono diplomata sia in pianoforte, sia in canto; per il pianoforte ho studiato sotto la guida del Mae-stro Walter Ferrato presso il Con-servatorio di Genova, mentre per il canto sotto la guida del mezzo-soprano Franca Mattiucci al Con-servatorio di Alessandria. Fin da bambina, ho avuto la passione per il canto e facevo parte del coro di Valleggia. Inizialmente non cono-scevo la lirica. L’anno prima del diploma serviva un maestro di palcoscenico, ovvero colui che fa i segnali dietro le quinte, e grazie a questa esperienza conobbi il mon-do del bel canto. E’ così che mi appassionai e mi iscrissi ad una scuola. Il mio primo lavoro fu in-segnare musica all’istituto S.M.G. Rossello di Savona; devo ringra-ziare l’apertura mentale delle suore che mi hanno sempre con-cesso i permessi per partecipare ai concerti per i quali ero chiamata. In seguito dovetti fare una scelta e decisi di lasciare l’insegnamento per il canto, diventato sempre più parte integrante della mia vita. Inoltre, mio marito, Matteo Peiro-ne, è un basso e fu con mio padre il mio primo fan. Entrambi ci sia-mo catapultati prima per hobby nel mondo della lirica, diventata in seguito una scelta di vita per entrambi; e tuttora ci sosteniamo a vicenda.La prima opera lirica nella quale ha cantato?Nel 1996 a Savona, al teatro Chia-brera, interpretai Zerlina nel Don Giovanni di Mozart.Ha viaggiato molto per il mondo. Come è il pubblico all’estero? E’ diverso da quello italiano?Sì, è diverso; il pubblico italiano è più esigente. Del resto, l’opera li-rica nasce in Italia e quindi il pub-blico è più competente. All’estero, le persone hanno una grande pas-sione e ti fanno sentire tutto il loro affetto ed entusiasmo. In Giappo-ne ricordo file lunghissime di per-sone che mi aspettavano per l’au-tografo con in mano tutta la mia discografia. Ho cantato in Cina, Sud America, Tunisia, Spagna, Svizzera e in molte altre parti del mondo; sempre ho trovato questo entusiasmo, interesse e passione. Cantare all’estero è per me più ri-lassante; dipende, comunque, an-che dal teatro che ti ospita.Quale teatro all’estero le è rima-sto più nel cuore e perchè? E in Italia?Sicuramente il Teatro dell’Opera di Tokyo, il Bunka Kaikan, pro-prio per la passione di questa gente che traspira ovunque. Ce ne

sono altri; per esempio in Spagna ho lavorato benissimo. Dato che il mio debutto fu a Savona, per quanto riguarda i teatri in Italia, il mio cuore è legato al Chiabrera. Torno spesso a cantare a Savona e ho un buon rapporto sia con il direttore Bosi, sia con l’opera Giocosa, sia con la Sinfonica. Il pubblico mi segue, mi vuole bene e percepisce l'affetto per la mia città. Ovviamente amo anche al-tri teatri italiani come il Regio di Torino, la Filarmonica di Verona, il Donizetti di Bergamo, dove la-voro e mi trovo benissimo per la stima reciproca e amicizia. Per me è molto importante il rapporto umano con la direzione, gli arti-sti, il coro. Così si creano amicizie, ci si sente sostenuti e stimati. Il cantante d’opera è nel contempo interprete e cantante, deve posse-dere doti recitative oltre a quelle vocali; si mette sempre in discus-sione. Pertanto, importantissimo è l’ambiente e i rapporti che si in-staurano dietro le quinte.Quali personaggi preferisce tra quelli interpretati?Ho interpretato spesso ruoli bril-

lanti del repertorio buffo. Amo molto il personaggio di Adina nell’Elisir d’Amore. Per mia sen-sibilità e maturità vocale attua-le, mi trovo in sintonia con ruoli drammatici, nell’ambito della mia vocalità. Tra questi mi piacciono personaggi come Lucia di Lam-mermoor, o La Sonnambula di Bellini, o la Figlia del Reggimento di Donizetti che non è solo un ruo-lo buffo, ma ha in sé pagine pate-tiche, oppure Gilda nel Rigoletto o Giulietta di Charles Gounod che è stata per me un’esperienza molto gratificante. Mi lascio mol-to trasportare dai personaggi che interpreto e mi immedesimo in loro.Le altre sue passioni?Mi piace leggere specialmente gialli o romanzi secondo il pe-riodo, e adoro le attività manuali come ricamare, lavorare all’unci-netto, e a maglia; un tempo dipin-gevo, ma la mia vita errabonda per il mondo non mi permette di coltivare molto queste passioni. Mi piacerebbe molto iscrivermi ad un corso di pittura su cerami-ca, ma come ho già detto i miei

impegni non mi lasciano molto tempo libero.Quante ore al giorno prova?Di solito provo due o tre ore al giorno, poi possono essere di più o di meno. Sono, comunque, già ab-bastanza; le corde vocali bisogna preservarle e utilizzare al meglio la tecnica. Occorre stare attenti e riguardarsi senza però esagerare, non deve diventare una mania. Sono precisa nelle mie cose, cerco sempre di dare il meglio e arri-vare il più preparata possibile ad ogni spettacolo.L’Associazione culturale Renzo Aiolfi le conferirà il Premio Aiol-fi per il 2011 quale savonese che

più si è distinta per meriti cultu-rali. Le sue impressioni?Sono molto onorata e conten-ta che la scelta sia “caduta su di me”. Ho avuto il privilegio di co-noscere Renzo Aiolfi, era un gran-de appassionato di musica ed era molto preparato in materia. Una sera venne a cena a casa nostra e ricordo che ci raccontò aneddoti su tutti i personaggi e gli attori che aveva incontrato nella sua lunga esperienza di uomo di tea-tro. Mi fece anche i complimenti dopo che mi aveva sentito cantare al Chiabrera. Lo ricordo con gran-de piacere e affetto”.

Sonia Pedalino

Anni Venti, a Millesimola prima piscina olimpicaEsattamente novant’anni fa, Millesi-mo si trovò al centro dell’attenzione preolimpica nazionale in vista della preparazione dei nuotatori italiani alle Olimpiadi di Anversa del 1920. Per fortuna, lungimiranza e preveggenza dei suoi amministratori, Millesimo era in quel momento l’unica città in Italia ad avere sul proprio territorio una pi-scina olimpica. Solo alcuni anni prima, infatti, il Co-mitato Olimpico mondiale, con il presi-dente conte Pierre de Coubertin, aveva stabilito, per la prima volta, che la lun-ghezza della piscina olimpica doveva essere di 50 metri e la pista di atletica di 400. Le altre novità delle olimpiadi di Anversa del 1920 furono la parteci-pazione delle donne per la prima volta, la bandiera a 5 cerchi disegnata proprio da de Coubertin e il giuramento degli atleti in occasione della cerimonia di apertura dei giochi. Così scriveva la Gazzetta dello Sport, nel 1920, nel descrivere Millesimo e la sua piscina di 50 metri: ”Millesimo, cantuccio arcaicamente suggestivo dell’Alta Val Bormida, un po’ selvag-gio, ma incantevolmente quieto e tran-quillo, è la sede delle prove di selezione olimpiche, l’11 e il 12 Luglio. Nel cam-po sportivo, con intuizione futuristica,

è stata eretta una piscina di mt. 50 per mt. 20, con acqua abbastanza profonda da ospitare le prove dei tuffi. Si tratta della più grande manifestazione nata-toria svoltasi in Italia da dieci anni a questa parte. A tutto questo sciame di grandi giovinezze gioconde ed ardite è stata concessa larga ospitalità, alla buona ma sincera e spontanea”. Un vero inno alla intelligenza e alla ospita-lità della gente di Millesimo. Per la cronaca, l’unico risultato impor-tante ottenuto dalla squadra italiana di nuoto di Anversa fu un 5° posto nella finale della staffetta 4x200 stile libero con gli atleti Antonio Quarantotto, Mario Massa, Agostino Frassinetti e Gilio Bisagno. Le Olimpiadi di Anver-sa, però, sono ancora oggi ricordate per le 5 medaglie d’oro conquistate nella scherma dal grande Nedo Nadi. Negli Anni 50 la piscina olimpica di Millesimo fu demolita per far posto alle Officine meccaniche “Fresia”, leader nel mondo nella produzione dei mezzi spazzaneve e trattori aeroportuali.

Michele Costantini

La terza edizione 2011 del Pre-mio “Renato Alluto”, voluto dal-la Famiglia Alluto e consegnato nell’ambito delle iniziative orga-nizzate dall’Associazione “Renzo Aiolfi”, ha inteso premiare l’impe-gno e la riuscita di ottimo livello di un gruppo di giovani atlete. Si tratta della squadra della Rari Nantes Savona, allenata da Patri-zia Giallombardo. Composta da Marina Agnello, Linda Cerruti, Federica e Costanza Ferro, Cecilia Magri, Camilla Luti, Domiziana Cavanna, Giorgia Terragni, Eli-sabetta Marciante, Arianna Pa-scucci e Virginia Piccone Casa, ha conquistato il titolo Assoluti a squadra ai campionati italiani di nuoto sincronizzato 2010 svoltisi a Loano.

A cura di Roberto PizzornoDanzano nell’acqua sempre sorridenti, sembra quasi non faccia-no alcuna fatica; invece, le syncronette della Rari Nantes Savona praticano una delle discipline più faticose ed impegnative: il nuoto sincronizzato. Una fatica che ha temprato le giovani biancorosse ca-paci, in 25 anni, di vincere 7 scudetti, di cui gli ultimi quattro con-secutivi. La sezione Syncro della Rari Nantes Savona, nata nel 1986 sotto l’esperta guida di Patrizia Giallombardo, tecnico federale attual-mente responsabile delle squadre nazionali italiane, ha raggiunto i vertici nel giro di pochi anni lavorando duramente nel vivaio locale che ha dato e sta continuando a dare ottimi risultati. Matilde Berio Berruti è la dirigente storica responsabile del Settore Syncro della Rari ed è lei ha svelarci il segreto di questa squadra: “Come in tutte le famiglie, perché anche la Rari lo è, il segreto sono il rispetto e l’amore alla base di una perfetta armonia. Le allenatrici sono una sorta di mamma per le ragazze in acqua e come tali le trattano con affetto, ma anche con il giusto rigore che ha portato nel tempo risultati eccellenti ed altri che ancora verranno”. Ma per iniziare syncro cosa bisogna fare ? “Cominciando da piccole si è av-vantaggiate – spiega Matilde Berruti – perché basta saper nuotare e soprattutto avere voglia di divertirsi in acqua prendendo i primi approcci al nuoto syncronizzato come un gioco”. Per raggiungere i risultati, però, ci vuole molta fatica e tanti allenamenti: “A seconda dell’età e delle varie categorie – precisa la dirigente biancorossa – a partire da 3 volte la settimana per le più piccole fino alla categoria assoluta che effettua allenamenti giornalieri di 4 / 5 ore per 6 giorni la settimana e in periodo di gare anche la domenica”. Nulla, quindi, viene lasciato al caso nel settore syncro della Rari Nantes Savona ormai considerata una vera e propria scuola a li-vello nazionale: “Da tempo, siamo ad alti livelli – conclude Matilde Berruti –; la forza è il gruppo, unito alla passione. Non ci si ferma ad annate con ragazze di valore ma si comincia a far crescere le bam-bine più piccole per portarle a indiscussi livelli, garantendo il fisio-logico ricambio senza buchi generazionali”. Così si costruisce una squadra da scudetto.

Laura Sicco

Vinti nell’arco di venticinque anni dalle giovani biancorosse ben sette scudetti, di cui gli ultimi quattro consecutivi

La terza edizione del premio Alluto alle “syncronette” della Rari Nantes

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Ho lavorato, durante la mia per-manenza all’Ufficio Pubblica Istruzione e Cultura del Comu-ne di Savona, assieme a Renzo dal 1970 al 1982/1983 sicchè ho avuto modo di apprezzarlo al-lorquando, seduto a fianco, era intento a dettarmi le sue relazio-ni, i capitoli di alcuni suoi libri, per cui, quella calligrafia ho im-parato a comprenderla. Di sti-marlo anche in burrascose gior-nate di lavoro: in effetti, era una persona dal carattere non facile, si arrabbiava facilmente e sbot-tava con dure parole dialettali… anche se, poi, le sue arrabbiature duravano come un temporale in estate! Amava Savona profondamente, lui allievo delle Scuole degli Sco-lopi, la storia della sua città, che ha curato attraverso ricerche, saggi, annotazioni, pubblicazio-ni di libri (una sua fatica peraltro di grande rilievo - che l’editore Marco Sabatelli, uomo di cultu-ra di cui Savona sente molto la recente mancanza, ne sollecitava la ristampa – fu il saggio dedica-to al ‘Transilvania’, senza con ciò dimenticare un lavoro improbo, ancora oggi unico nel suo genere, la “Savona nel Risorgimento”). Ed ancora: aneddoti, mostre (la ceramica popolare, i cimeli ed i documenti del Risorgimento sa-vonese) e studi critici su artisti dimenticati a torto come Farfa e Carlo Leone Gallo. Nel libro “I Teatri di Renzo” ho ripercorso più volte il suo ar-chivio, trovando una documen-tazione importante che ricorda la necessità, dapprima, di far riaprire in tempi brevi il teatro savonese a seguito degli ultimi eventi bellici; quindi, di ricostru-ire la storia del teatro a Savona. Nasce, così, in una sorta di len-te d’ingrandimento lo sviluppo della cultura a Savona dal 1853 – data di inaugurazione del civi-co “Chiabrera”- al 1963 data di riapertura dopo decenni di la-vori per ridare alla città “ il cen-tro d’incontro”, nel nome della cultura musicale e non solo, che Savona fece suo già molti secoli prima.Questo esame di carte, atti, te-legrammi, relazioni annuali di Renzo Aiolfi, assessore alla Cul-tura, prima, poi direttore artisti-co, ancorché di ritagli di decine e decine di giornali, riviste, let-tere ufficiali, note spese, bigliet-ti augurali di cantanti ed attori, fotografie (centinaia e centina-ia) mette in luce aspetti salienti della sua multiforme attività: la sua passione vera per la cultu-ra declinata in tutte le più varie accezioni (dal folclore alla mu-sica da camera, dal jazz al mu-sical, dalla drammaturgia più classica al cabaret, dalla danza classica a quella legata alle cul-ture sud americane, ……), il suo alto senso delle Istituzioni e la sua persistente volontà nel voler rendere pubblico a Savona il ser-vizio culturale: sia quello legato al teatro, sia quello attinente alla civica Pinacoteca e Museo di cui era, anche, contemporaneamen-te direttore. Il grande cuore di Renzo batteva all’unisono con la sua capacità di ascoltare i bisogni dei Savonesi – giovani ed anziani, colti o meno colti – cercando, sempre, nuove sperimentazioni con proposte diversificate (ancora oggi resta-no nella memoria collettiva dei più avanti anagraficamente con l’età le suggestive stagioni estive sul Priamar dedicate ai Balletti folcloristici internazionali); ma-nifestazioni che potessero essere fruite da tutti (tra le carte ho tro-vato un manifesto scritto a mano da Renzo nel 1948 che annuncia-va anche una mostra di cimeli te-

di Savona decise così di dividere le due cariche direttive con due concorsi pubblici diversi, di cui vinsi quello per la Pinacoteca e Museo savonese) lo ebbi vici-no per diversi anni. Il Nostro in effetti ebbe molte difficoltà a tagliare quella sorta di cordone ombelicale che lo legava total-mente alle sue “creature”, sicchè spesso saliva le ripide rampe di scale di Palazzo Pozzobonelli per darmi preziosi consigli oltre che notizie sulla raccolta muse-ale (sul lascito della vedova del Capitano Bove e sul Cerruti, mi fece comprendere la grandezza scientifica a livello mondiale del reperto fossile dell’Antracothe-rium trovato a Cadibona, tanto che mi battei per farlo restaura-re, reperto purtroppo trasferito a Sassello…), sui restauri fatti e da farsi, sull’importanza della col-lezione di Eso Peluzzi e della ce-ramica. Anche se mi rimane un rammarico: quello di non essere in seguito riuscita ad instaurare con chi solcava il palcoscenico del Teatro “Chiabrera” il lega-me, la sintonia - che solo Renzo era capace di suscitare e di in-traprendere - con cantanti lirici ed attori presenti a Savona dal 1983/’84 per oltre dieci anni (du-rata della mia permanenza come direttore presso la civica pina-coteca e museo) che mai hanno varcato la soglia di Palazzo Poz-zobonelli.Resta l’auspicio che, in un prossi-mo futuro, si possa almeno trova-re modo e luogo di poter studiare e dare un ordine all’archivio di Aiolfi; archivio prezioso, che ci racconta moltissimo sia dell’Uo-mo, sia del Personaggio pubblico, di scrivere un secondo libro dal titolo “I Musei di Renzo”: Savo-na dal 1948 in poi gli deve mol-tissimo e le Istituzioni culturali cittadine di oggi gli sono debitri-ci per lo meno nello spirito per il suo impegno nella riapertura del Teatro e per aver salvato dai bom-bardamenti le opere d’arte più significative della raccolta civica. Aiolfi, per quanto riguarda la ci-vica Biblioteca “Barrili”, è stato un assiduo frequentatore, lettore, ricercatore così come per l’Archi-vio di Stato cittadino e di moltis-simi altri archivi privati. Desidero chiudere ricordandolo come uno storico vero (è stato Aldo Capasso, a definirlo storico nell’introduzione all’enciclope-dico libro-catalogo “Savona nel Risorgimento”), un pioniere del-la cultura nella sua amatissima Savona, un istrionico e vulcani-co scrittore ed innovatore. Forse, meriterebbe di essere ricordato per sempre intitolandogli la sede della civica Pinacoteca savonese (mentre mi chiedo: e il Museo che fine ha fatto?).

Silvia Bottaro

I teatri di Renzo AiolfiIl ricordo dell’illustre concittadino in un pomeriggio di dicembre 2010,

in quello che è stato per decenni il “suo” teatro. La memoria, nel X anniversario della scomparsa, di un personaggio indimenticato, di uno storico vero, di un pioniere della cultura nella sua amatissima Savona,

di un istrionico e vulcanico scrittore ed innovatoreIl Teatro civico “Gabriello Chiabrera” di Savona ha ospitato, il 17 dicembre 2010, in una gelida serata invernale, l’evento dedicato alla persona, alla figura istituzionale, al direttore del civico “Massimo”: Renzo Aiolfi. L’occasione è scaturita dalla presentazione, cui ha partecipato l’assessore alla Cultura del Comune di Savona, Ferdinando Molteni, del libro scritto da Silvia Bottaro e da Emanuela Ersilia Abbadessa dall’efficace titolo “I Teatri di Renzo”, Bonnano editore. Una pubblicazione, fortemente voluta dall’Associazione Culturale “R. Aiolfi” di Savona, per ricordare l’uomo, il politico, il direttore artistico: la personalità savonese legata al rilancio della Cultura a partire dal dopoguerra fino all’inizio degli anni Ottanta del Novecento. Un ringraziamento sentito a Concetta Massarelli Aiolfi, che ha concesso a Silvia Bottaro di visionare la parte dell’articolato archivio privato di Renzo, laddove s’incentra nelle complesse azioni legate alla rinascita del teatro cittadino dopo gli eventi bellici della seconda guerra mondiale. Centinaia di carte, ormai ingiallite, fitte di appunti vergati a mano da Renzo Aiolfi con la sua calligrafia a volte davvero ostica per un lettore non avezzo ad averla incontrata precedentemente.

atrali con locandine, fotografie). La sua formazione di maestro di scuola elementare, la sua bona-ria ironia, il suo canto dal tono baritonale, la sua forte voce da indimenticato dicitore delle po-esie futuriste di Farfa (Renzo co-nosceva a memoria, anche, le tre cantiche dantesche), la sua crea-tività di attore e di ceramista con autentica vena popolare, lo por-tavano ad essere in sintonia con i giovani, dedicando non poche fatiche al mondo della Scuola. Spesso mi ha raccontato come i grandi attori (dal teatro Chia-brera sotto la sua direzione sono passati i più importanti nomi, dal tenore Giuseppe Di Stefano al soprano Renata Scotto, da Re-nato Rascel a Domenico Modu-gno, da Vittorio Gasman a Dino Buazzelli, per citarne alcuni) e

cantanti lirici erano da lui sot-toposti ad una inevitabile visita alla civica Pinacoteca: il mezzo e il fine per promuovere la straor-dinaria collezione savonese della grande pittura del Quattro-Cin-quecento, ponendo in tal guisa a diretto contatto il suo lavoro di direttore artistico del teatro con quello di direttore della raccolta pubblica d’arte antica più im-portante in Liguria, dopo quelle conservate a Genova. In verità, molto interessante questo paral-lelismo, come altrettanto degno di nota il suo impegno nel far co-noscere la qualità culturale della raccolta d’arte civica. Debbo dire che allorquando di-venni direttore della civica Pi-nacoteca e Museo (Aiolfi era ormai in stato di quiescenza per motivi anagrafici ed il Comune

L’Assessore alla Cultura, Ferdinando Molteni, conversa con le autrici del libro: Silvia Bottaro e Emanuela E. Abbadessa.

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5Al Chiabrera, tra ricordi emozioni e testimonianze

Sopra: La presidente dell'Associazione Aiolfi,Silvia Bottaro, con la Signora Concetta Massarelli Aiolfi;

a fianco una foto di gruppo;

sotto: il Maestro Aurelio Canonici vincitore del Premio Pino Cirone.

Venerdì 17 dicembre 2010, sfi-dando freddo e superstizione, al teatro civico Gabriello Chiabre-ra di Savona si è svolta la pre-sentazione del libro “I Teatri di Renzo Aiolfi”; presenti alla se-rata le autrici, Silvia Bottaro ed Emanuela Ersilia Abbadessa.Ha condotto l’incontro, presen-tatore d’eccezione, l’assessore alla Cultura del Comune di Sa-vona, Ferdinando Molteni, che ha intervistato le due autrici, ponendo una serie di domande da cui sono emersi fondamenti ed autenticità della loro interes-

sante ricerca.Silvia Bottaro ha spiegato che la sua è stata una ricerca docu-mentaristica d’archivio, sfrut-tando ampiamente l’archivio privato di Renzo Aiolfi, messo a disposizione da Concetta Mas-sarelli Aiolfi, per i periodi dal 1952-1963, gli anni cruciali per la riapertura del teatro, “Il Mas-simo” come veniva chiamato da Aiolfi. Grazie alla volontà e alla determinazione di Aiolfi il teatro fu riaperto il 19 maggio 1963, e queste vicissitudini sto-riche sono magistralmente de-

scritte nel libro.Della parte musicologica si è occupata Emanuela Abbadessa che, durante la serata, ha rac-contato gustosi aneddoti sugli attori e sulle rappresentazioni operistiche che avvenivano al Chiabrera. Al termine della presentazione del libro, è stato attribuito il premio “Pino Cirone”, alla sua prima edizione, al direttore d’orchestra e compositore, Au-relio Canonici, con la seguente motivazione: “Al Maestro Aure-lio Canonici, genovese di nascita,

cittadino del mondo, che trasferisce nella sua arte e nella musica il va-lore dell’importanza della cultura e l’educazione al bello, in una ar-monia sola, sottolineandone così il grande valore educativo”.Al Maestro Canonici è stato con-segnato ‘Il Libro di Vetro’ dalla stessa autrice, Maria Scarfì Ci-rone. Di questo libro ne esisto-no solo venti esemplari, ed uno di questi era già stato regalato a Papa Giovanni Paolo II.Il libro ha pagine colorate in-serite tra due lastre di vetro, in cui sono riportati brani lirici sulle stagioni dell’uomo, come ha spiegato l’autrice. Ogni colo-re rappresenta un’età; il celeste l’infanzia, il verde la giovinez-za, il rosso la maturità, il giallo l’ultimo percorso “stellare”. La fragilità del vetro si rapporta alla fragilità dell’uomo.La serata è stata ulteriormente allietata dagli interventi mu-sicali del tenore Mattia Pelosi accompagnato al pianoforte da Anita Frumento.Nel foyer del teatro era presente un Ufficio Postale temporaneo, per apporre l’annullo postale speciale sulla cartolina che ri-porta la copertina del libro, con lo splendido ritratto di Aiolfi, creato dall’artista Nani Tede-schi.Una serata di grande successo; un pubblico entusiasta non ha lesinato applausi a dimostra-zione dell’affetto nei confronti delle autrici, del maestro Cano-nici, soprattutto di Renzo Aiolfi, figura che raccoglie in sé la sto-ria di Savona dal dopoguerra al 2000. Conosciutissimo, di grande spessore culturale, amante della musica e dell’arte in tutte le sue sfacettature: questo libro è un doveroso omaggio.

Sonia Pedalino

Sopra: il tenore Mattia Pelosi e

al pianoforte Anita Frumento;

A fianco: la scrittrice e musicologa

Emanuela Ersilia Abbadessa.

Renzo Aiolfi consegna al tempo

un’importante pagina di storia

civica e culturale, spesso non

tralasciando strali contro quel

provincialismo dannoso alla città

Cultura, il senso di una vita

Non è azzardato affermare che Renzo Aiolfi abbia incarnato nella maniera più efficace la fi-gura dell’intellettuale capace di dedicare tutta la sua vita e il suo essere alla promozione della cultura. Poliedrico negli interes-si, istrionico e fantasioso, Aiolfi ha dato alla città di Savona un contributo indimenticabile non solo grazie al suo impegno come direttore del Teatro Chiabrera e della Civica Pinacoteca, ma an-che come appassionato ricerca-tore e attento storico delle tradi-zioni e della cultura locali.E’ anche per questo che il volu-me “I teatri di Renzo Aiolfi” rende omaggio allo storico, pubblican-do (in una versione editata da chi scrive) una serie di gustosi articoli e saggetti che in parte Aiolfi stesso riutilizzò nei libret-ti di sala delle stagioni del Teatro dell’Opera Giocosa e dell’Asso-ciazione Rossini.Si tratta di divertenti rievoca-zioni – tutte corredate da una notevole ricerca delle fonti – dei primi allestimenti savonesi di importanti opere di repertorio come ad esempio Lucia di Lam-mermoor, Cavalleria rusticana, Pa-gliacci e altre ancora.Focoso anche nella scrittura, Aiolfi mette insieme un nutrito elenco di recensioni tratte dalla stampa quotidiana e periodica dell’epoca ma, nello stesso tem-po, affidandosi al proprio perso-nale e ricchissimo archivio e alle ricerche presso gli archivi storici cittadini, rievoca i fasti del teatro che fu anche attraverso i raccon-ti delle beghe delle primedonne, dei fischi e delle acclamazioni troppo irruente, delle deliziose “serate d’onore”, un tempo date fisse nei teatri europei per rende-

re omaggio a questo o quell’in-terprete e oggi sparite insieme ad altre consuetudini d’antan. Rac-conta del Sacco e del Reposi, del Wanda e del Chiabrera, fresco di inaugurazione e splendente dei suoi stucchi e nei velluti.Accanto a queste pagine, che non mancheranno di divertire i let-tori ed appassionare gli addetti ai lavori per la freschezza con la quale riportano in luce i fasti del teatro savonese che fu, s’è scel-to di inserire nel volume anche lo storico testo di Renzo Aiolfi sulla storia del Chiabrera che, a tutt’oggi, è il più completo testo sul teatro di Savona. Vergato con perizia da storico e con l’amore

di chi a quell’edificio dedicò la propria esistenza, lo scritto resta ancor oggi il migliore ed ineludi-bile punto di partenza per qual-siasi ulteriore ricerca sul teatro savonese.A tratti scivolando volutamente in un lieve provincialismo (per esempio nell’usare aggettivi ro-boanti per cantanti dei quali, in vero, il tempo ha fatto giustizia e forse non a torto), altre volte lan-ciando strali proprio contro quel medesimo provincialismo dan-noso per la città, Aiolfi consegna al tempo un’importante pagina di storia civica e culturale.

Emanuela E. Abbadessa

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Il palazzo Assereto-Sormano, uno dei più antichi e begli edi-fici patrizi di Savona, si trova in via Pia al numero 1. Questo edificio, da quanto risulta dal Registro della Caratata di Savo-na (una sorta di documento ca-tastale che fu redatto nel 1530 al momento dell’occupazione genovese della nostra città), nacque dalla fusione e dalla ristrutturazione di tre case, av-venuta tra il XVII ed il XVIII secolo. Il palazzo è composto da un piano terra dotato di un am-mezzato, da due piani confi-gurati come piani nobili e da un piano ammezzato superio-re, corrispondente al cornicio-ne, costituito da alcuni grandi mensoloni a livello del fronte principale fornito di cinque assi di finestre. Nel sottotetto, in epoca successiva all’edifica-zione, fu inserito un piano ul-teriore. Lo schema d’impianto del palazzo è quello tipico de-gli edifici nobili della Liguria seicentesca, con un atrio aper-to sul fondo su una chiostrina loggiata: da essa, lateralmen-te all’asse longitudinale, ha inizio lo scalone di accesso ai piani superiori, sviluppato su tre rampe ad ogni interpiano, con sbocco negli atrii superiori anch’essi dotati di un loggia-to. Gli ambienti interni, fino al secondo piano, sono carat-terizzati da una copertura a canniccio in finta volta a padi-glione lunettato, con strutture orizzontali in legno. Il palazzo subì un importante intervento di restauro all’inizio degli anni Venti del Novecento, essendo stato acquistato nel 1920 dal Consorzio Sbarchi e imbarchi del porto di Savona con il proposito di farne la propria sede. Il Con-sorzio Sbarchi era stato costitui-to il 1° luglio 1917 ed era sorto dalla fusione delle Cooperati-ve Portuali savonesi (la Fede-razione Tiraggio, la Cooperativa Facchini, la Cooperativa Sbarchi ed Imbarchi, la Cooperativa Rica-richi da Deposito, la Cooperativa Verricellanti) e dell’organizza-zione che riuniva i lavoratori della Società Anonima Funivie Savona - San Giuseppe. Scopo principale del Consorzio Sbarchi – che al momento della sua co-stituzione era diretto da Ade-

Un luogo di arte e cultura nel cuore del centro storico cittadino

Nato dalla fusione e dalla ristrutturazione di tre case, avvenuta tra il XVII ed il XVIII secolo, il palazzo fu acquistato nel 1920 dal Con-sorzio Sbarchi di Savona che ne commissionò importanti ed accurati restauri, affidando l’incarico di realizzare i lavori a Giuseppe Ferro

Assereto-Sormano, gioiello dell’architettura savonese

le assemblee, al primo piano del palazzo, fu de-corata con tondi ed ova-li, puttini e medaglioni ispirati alla destinazione del locale. Il mobilio, in legno di castagno mas-siccio, costituito dallo stallo presidenziale a tre posti, seggioloni e pan-che con schienali e brac-cioli mensolati, fu ese-guito dall’allora Coopera-tiva Falegnami di Savona, con intagli realizzati da Luigi Rebagliati su dise-gni di Giuseppe Ferro. Lo stallo presidenziale fu inviato alla fine del 1922 all’esposizione di Gand, dove fu premiato con la medaglia d’oro. Il salone destinato al pubblico, al secondo piano, ampio e luminoso, fu decorato in stile raffaellesco, con un grande quadro centrale simboleggiante il Trionfo del Lavoro. Altri simboli ed allegorie furono di-pinti nelle quattro nic-chie, nei due tempietti e nelle dieci lunette; in queste ultime, in partico-lare, con una serie di bel-lissimi affreschi, fu illu-strata tutta la vasta atti-vità del porto di Savona, con alcune tipiche scene di vita quotidiana e con immagini rappresentan-ti il lavoro dei portuali, raffigurati nudi in modo da esaltarne la forza ed il vigore. Nell’ambiente furono inoltre sistemati quattro lampadari ben modellati realizzati dal fabbro pisano Lelio Tita e sei ottime riproduzioni di gruppi scultorei in sti-le classico, realizzati da

nago Chiavacci e che il 1° set-tembre 1918 fu trasformato in Società Anonima Consorzio Sbar-chi fra le Cooperative del porto di Savona – era quello di «assu-mere imprese ed appalti di scarico e ricarico di merci su e da piroscafi e l’esecuzione di qualunque opera-zione commerciale che si svolgesse nell’ambito portuario e ferrovia-rio». Testimonianza importan-te di quella ristrutturazione dell’edificio (da cui traiamo le notizie per la realizzazione di questo testo) ci è fornita da un articolo che fu pubblicato sulla pagina della cronaca di Savo-na del quotidiano Il Lavoro il 1° giugno 1938 e che fu redat-to proprio dall’autore di quei lavori: Giuseppe Ferro. Nato il 27 maggio 1876 a Savona – dove si spense il 26 febbraio 1948 – il pittore e giornalista

Giuseppe Ferro fu per mol-ti anni, nella nostra città, uno degli esponenti più in vista del Partito Socialista Italiano. Arti-sta poliedrico, realizzò diverse opere, tra cui, in particolare, le decorazioni ad affresco, tutte in stile raffaellesco (da lui par-ticolarmente prediletto) com-piute nel 1910 nei locali della Fratellanza Ginnastica Savonese in via Quarda Superiore; da ri-cordare, ancora, i lavori da lui eseguiti nel 1925 nell’androne, nella sala d’accesso, nell’anti-camera e nelle stanze dell’uf-ficio di presidenza e segreteria dell’edificio della Camera di Commercio di Savona, allo-ra esistente sulla calata Pietro Sbarbaro (che fu inaugurato nel 1926 e andò distrutto nei bombardamenti del 1943), e le bellissime decorazioni da lui

realizzate tra il 1928 ed il 1936 nel monumentale salone d’in-gresso, nella scalinata e nella loggia di Villa Cambiaso, in via Torino n. 10.Nel 1920, dunque, il Consorzio Sbarchi acquistò palazzo Asse-reto-Sormano e ne commissio-nò un accurato restauro, affi-dando l’incarico di realizzare i lavori al pittore Giuseppe Ferro, essendo egli, all’epoca, membro del Consiglio di Am-ministrazione del medesimo Consorzio. Nel corso dell’ese-cuzione dell’opera, Giuseppe Ferro ebbe come principale collaboratore il professor G. Borio e il fratello di questi, Camillo. Giuseppe Ferro ese-guì quasi interamente le deco-razioni pittoriche, interne ed esterne dell’edificio, e curò in modo particolare il trattamen-to a graffito monocromo della facciata. I lavori cominciarono nel 1920, con il rifacimento del tetto, e furono ultimati nell’au-tunno del 1922 da un gruppo di artigiani riuniti sotto il nome di Studio Eclettica. Nel corso dei lavori fu attuato un genera-le rifacimento dei pavimenti e delle decorazioni delle pareti e dei soffitti del palazzo e furono realizzati bellissimi affreschi e pitture a tempera. Furono inol-tre collocate bellissime vetrate policrome e serramenti e furo-no sistemate molte lampade ed altri elementi di arredo deco-rativo in ferro battuto; fu poi ricostruita la scala e vennero sistemati tutti i locali. Partico-lare cura fu riservata al magni-fico portale che fu riparato e sopra il quale furono posti due leoni alati reggenti uno scudo avente scolpito al suo interno il simbolo della falce e martello; si aggiunsero quindi quattro poggioli, si rifece il cornicione che era pericolante, si corres-sero le aperture esterne degli ammezzati, si inquadrarono le finestre con braghettoni e cappelli a rilievo e, infine, si decorarono i campi a graffiti. Sui due pilastrini del poggiolo centrale furono sistemati due ippogrifi portabandiera: queste ultime opere, così come i leoni e lo stemma, furono eseguiti dall’apprezzato scultore Dario Rebagliati. Nelle lunette delle finestre al primo piano furono

realizzate delle decorazioni ad affresco raffiguranti gli stemmi di Trieste, La Spezia, Livorno e Genova, città che erano con-federate con il Consorzio Sbar-chi; al centro di essi fu altresì posto lo stemma della città di Savona. Nei pannelli, infine, furono inserite alcune figure allegoriche e furono scritti i seguenti motti dettati da Fran-cesco Campolonghi, Segretario del Consorzio Sbarchi: “Ex nigro fulgor” e “Redimersi e redimere”. Nello scalone furono sistema-te la bifora, a piano terra, e le trifore ai piani superiori, chiu-dendole con vetrate a fuoco, in piombo, decorate a grottesche policromate, che furono rea-lizzate dal romano prof. Mon-ti della Ditta Albano, Macario & c. di Torino, la più grande e prestigiosa ditta del settore che abbia mai operato nel capoluo-go piemontese, attiva dal 1899; furono altresì rinnovate le ba-laustrate e i sedili. Il fabbro to-rinese E. Guaita realizzò alcuni magnifici lampadari mentre i corrimano in ferro furono la-vorati dalla Cooperativa Metal-lurgica di Savona diretta dalla Ditta di proprietà di Giuseppe Mazzanti e dell’ex Sindaco di Savona Mario Accomasso, che era stato Primo Cittadino tra il novembre del 1920 e l’agosto del 1921. Le volte e le pareti del palazzo furono decorate secondo il carattere presente sulla facciata, lasciando in so-speso il portico per sistemarlo come era in origine. Sui diversi pianerottoli, in cartelle a rilie-vo al centro del fregio, fu posta la seguente iscrizione, che fu anch’essa dettata da Francesco Campolonghi: “Memor est: hoc est monumentum fidei, laboris, fraternitatis portus opifici redem-pti”. La volta del salone per

Sopra il titolo: Tre delle dieci lunette presenti nel salone del palazzo destinato al pub-blico; al secondo piano, le raffigu-razioni di scene di vita quotidiana nel porto di Savona, esaltanti in particolare il lavoro dei portuali cit-tadini, realizzate ad affresco dal pit-tore Giuseppe Ferro tra il 1920 ed il 1922.

A lato del titolo:(sopra) un particolare del soffitto del vestibolo introducente al salone del secondo piano del palazzo con gli affreschi realizzati da Giuseppe Ferro. Nel cartiglio sopra la porta si distinguono le lettere C e S, iniziali del Consorzio Sbarchi e Imbarchi del Porto di Savona; (sotto) altro particolare del soffitto del vestibolo introducente al salone del secondo piano del palazzo.

Fondo pagina: Un’immagine odierna del sovra-portale d’ingresso del palazzo, con i due leoni alati che reggono uno scudo avente scolpito al suo interno il simbolo dell’Associazione Nazio-nale Mutilati e Invalidi di Guerra, rappresentante tre spade ed una co-rona di spine; anche quest’opera, ad eccezione dello scudo, fu realizzata dallo scultore Dario Rebagliati.

A pagina sette: Una delle bellissime vetrate a fuoco, in piombo, decorate a grottesche po-licromate, realizzate dal prof. Monti della Ditta Albano, Macario & c. di Torino.

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Con Camillo Sbarbaro, il paesaggio della Riviera si innalza, proponendosi come modello di coscienza individuale. Con l’amarezza, la razionalità e la fe-licità minima che discende dal Leopardi, Sbarba-ro modula un messaggio (uno dei pochi possibi-li) sull’esistenza del mondo, “per sapere che il mon-do c’è”, lungo un percorso ristretto fra l’incomben-te gelo del settentrione montuoso e la sempre più lontana promessa del tepore mediterraneo (que-sto è la Liguria).La sua voce, che anela all’aridità, nello stesso tem-po comunica ed affabula. Ci introduce in un mon-do ove non esiste “altra felicità che di parole”. Va subito detto che tutta l’opera sbarbariana, nei suoi due tempi fondamentali, quello della città di Genova e quello di Spotorno, è fortemente cala-ta nel paesaggio ligure, se ne alimenta, giunge a modellare le proposizioni liriche prendendo come modello il territorio. Prima, quindi, viene il pae-saggio, che diventa paradigma e calco per il di-scorso poetico.Durante gli anni (mentre personalmente siamo giunti ancora in tempo a scrivere su “La settima-na ligure” un trafiletto che parlava della morte di Sbarbaro avvenuta dopo il ricovero da Spotorno al San Paolo di Savona), per noi Sbarbaro è stato via via una sfida, un amore, una sconfitta. Inizialmente una sfida per riuscire a confrontar-ci con la sua poetica, con la sua letteratura (que-sta volta sì) “come vita”, una tensione alla matu-rità per poi misurarci con la sua opera (quasi) alla pari.Quindi, il periodo dell’amore, preceduto alla vam-pata dell’innamoramento, inteso come visione condivisa della sorte esistenziale, dell’intesa to-tale, del piacere della mente in cose segretamen-te comuni.Infine, la sconfitta, quale impossibilità a seguire l’invito a scendere su porzioni sempre più ridotte di realtà, sino all’ascesi, all’identificazione. Il poe-ta spotornese giungerà a scrivere: ”Possiede – per cui non si possiede”.Abbiamo faticato a seguire il suo percorso che dal-la prima fase delle raccolte po-etiche (quando Sbarbaro canta l’estraniazione dell’io alla vita e compone il primo racconto liri-co sull’involuzione e la massifi-cazione dell’uomo contempora-neo, quella che la critica ha defi-nito “L’eclisse del cittadino”) lo porta ad abbandonare il verso e a rivalutare la prosa (così come ha fatto Calvino).La sua prosa si alimenta di sus-sulti, è quasi ansante. E’ una pro-sa a scaglie asciutte, come una pi-gna essenzializzata dalla pioggia e dalla calura (che crepita nell’ar-sura ferragostana) o come la gen-tile corazza della perfezione del pesce.Sbarbaro può, con maggiore li-bertà, collegando sentimento e occasione esterna, tracciare una mappa dei suoi luoghi, che sono scritti sulla pagina dell’entroterra, con un discorso che sembra prece-dere la poetica calviniana dell’Ubagu (“…dal fondo dell’opaco io scrivo, ricostruendo la mappa di un apri-co che è solo un inverificabile assioma per i calcoli della memoria”). E’ una ricerca nutrita di silenzio, piom-bata, che sa di non potersi concedere la “maglia rotta nella rete”.In sostanza, quindi, si tratta di un discorso con lo sguardo rivolto all’entroterra, salvo sporadiche e festose apparizioni del mare. Un paesaggio inter-no che Sbarbaro percorre incessantemente, secon-do quella che Camon definisce felicemente una “poesia in marcia”, una poesia mobile, che ali-menta il nostro desiderio e (solo in parte) la neces-sità pratica di mobilità sul territorio.In attesa che qualcuno possa inventariare quei luoghi sbarbariani, ecco un breve volo con cui cer-chiamo di percorrere le proposizioni territoriali di un discorso di estrema coerenza.Iniziamo dall’estremo ponente: “C’è nel fungaio di case di Ventimiglia vecchia un’antica chiesetta. Una notte che vagando sbucai su una piazza essa mi apparì, staccata su un cielo più celeste che di giorno dove una grande luna faceva di madreperla un gregge di nuvo-lette ammonticchiate e leggere”. (Da “Camillo Sbar-baro, L’opera in versi e in prosa”, Garzanti, 1985, a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, pagi-na 151).

Ed ora l’amata Noli: “Mi cade in cuore Noli. Sdegno-sa della terra, guarda il mare come un gabbiano ferito. La montagna arcigna non ha primavera il biancore di un melo. . Anche il mare è una fredda lavagna infinita, percorsa da brividi di vento”. (Pagina 151).Ascoltiamo ora un esempio della prosa sbarbaria-na: “Era in casa ed aspettavamo lei. – Per dove sei en-trata? Rispose con un risetto .Si volgeva di là affaccendata. Sua madre le vide la fac-cia. Scostò la sorellina con una specie di fretta.Il lume splendeva in sala. – Che faceva essa di là?Rispondeva vengo.Toccava qua e là. Restava assorta.L’aspetto delle cose famigliari, immutato era una tortu-ra” (Pag. 155).Il confronto col paesaggio: “Mi specchio ancora in questo paesaggio; questa aridità mi sostenta. Nell’ulivo incassato nel muro mi riconosco, nello sterpo che vive nella rena ardente” (Pag. 285). Ed ancora: “ La mia è ora vita del greto. Oh una goccia che cada nella feroce secchezza! (286).“Gli è che l’albero vive d’un vita tanto più piena e ar-moniosa della nostra, che dargli un nome è limitarlo; mentre gli incospicui e negletti licheni, a salutarli a vi-sta per nome , pare di aiutarli ad esistere. (365)Il denaro, “sterco del diavolo”: “Il danaro ha azio-ne cumulativa: se non si smaltisce volta in volta intos-sica. (423).“Il contatto con la terra mi ringiovanisce. In vista lag-giù, le arme, i monti di pietra rosea di Finale. (450).“Scendendovi nel torrido mezzodì odo per la prima vol-ta le pigne al sole scrosciare”. (451).Il sole e i drammi umani: “Marzo ’45. Orrore a Spo-torno (era sceso da Voze con la madre per misurare i pri-mi pantaloni lunghi; felice nel vestito nuovo, da uomo, si pavoneggiava coi compagni; fermati dai bravi della San Marco, lui ebbe la sventatezza di scappare. Ora è uno straccio per terra in un punto mi indicano ma dove non potrò andare). Sole sfolgorante. (453).Ancora sull’essere e sull’avere: “Possiede – per cui non si possiede. (458).De natura: “Molti la natura li disturba ; i più non la vedono. In lei io mi verso. E’ la sola costanza, la sola fe-

deltà che conosco nell’incertezza di tutto. (461)“Il mio vagito di poeta deve ancora trovarsi in qualche caso a Savona , dove finì in occasione di un traslo-co; una poesia inserita a titolo an-tologico in un’annata della ‘lllustra-zione popolare’, dove di sua mano la trascrisse mio padre , il quale, men-tre negava l’ipotesi essere io l’auto-re, tradiva così la sua speranza che lo fossi. (472).Il lichene come la poesia, un se-gnale dell’esistenza del mondo: “Anche oggi un lichene nuovo: il mondo non è finito di fare”. (484).“Con tre tetti a terrazzo tre case che resistono all’invito della rena, quel che ieri di Varigotti restava: calato il sole, una spiaggia ed un mare in rosa. (486).Ancora sulla parola e l’esistenza

del mondo: “Una cosa è quando è detta; è la parola che dà la durata e la consistenza al mondo”. (492).“In due casi il mio amore per i licheni soffre eclissi: quando sono innamorato e quando scrivo. Vide giusto allora chi senza conoscermi lo diagnosticò una forma di disperazione.(493).“Vagheggiato, Verezzi resterà il superstite vestigio delle origini, il simbolo della mia terra, l’immagine di cenere da portare di là. (507).“Ancorato ai licheni mi ha forse l’apprendere che non so cosa siano, ma quel che più in essi mi commuove è la prepotenza della vita. (511).“Fessura più che via. Grezzi o scialbati i muri che solo in estate il sole raggiunge ; col fiocco del cappero che pende a ciuffi dall’alto, un po’ di allegria vi mette una volta l’anno, stellandoli di azzurro, una vistosa cannu-la così scarsa di gambo che a stento sporge dalla com-messura”. (514).“Poesia, altro vizio solitario”. (537). La lezione di Sbarbaro, e quindi la sua “mappa”, fornisce esiti rigorosi e contenuti dell’inestinguibi-le prepotenza della vita che ci attornia e ci accom-pagna, malgrado la progressiva desertificazione.Sbarbaro, è stato detto, è un poeta per i poeti. I suoi succhi asciutti possono affrontare inverni, traccia-re epifanie di primavere. Ma rimangano spesso in-dicazioni di percorsi aspri, se non impossibili.

Romano Strizioli

le assemblee, al primo piano del palazzo, fu de-corata con tondi ed ova-li, puttini e medaglioni ispirati alla destinazione del locale. Il mobilio, in legno di castagno mas-siccio, costituito dallo stallo presidenziale a tre posti, seggioloni e pan-che con schienali e brac-cioli mensolati, fu ese-guito dall’allora Coopera-tiva Falegnami di Savona, con intagli realizzati da Luigi Rebagliati su dise-gni di Giuseppe Ferro. Lo stallo presidenziale fu inviato alla fine del 1922 all’esposizione di Gand, dove fu premiato con la medaglia d’oro. Il salone destinato al pubblico, al secondo piano, ampio e luminoso, fu decorato in stile raffaellesco, con un grande quadro centrale simboleggiante il Trionfo del Lavoro. Altri simboli ed allegorie furono di-pinti nelle quattro nic-chie, nei due tempietti e nelle dieci lunette; in queste ultime, in partico-lare, con una serie di bel-lissimi affreschi, fu illu-strata tutta la vasta atti-vità del porto di Savona, con alcune tipiche scene di vita quotidiana e con immagini rappresentan-ti il lavoro dei portuali, raffigurati nudi in modo da esaltarne la forza ed il vigore. Nell’ambiente furono inoltre sistemati quattro lampadari ben modellati realizzati dal fabbro pisano Lelio Tita e sei ottime riproduzioni di gruppi scultorei in sti-le classico, realizzati da

Dario Rebagliati, che furono posti sopra altrettante mensole collocate sulle pareti del salo-ne, dove erano stati creati degli appositi medaglioni a stucco; la decorazione del locale fu com-pletata da un altro ippogrifo portabandiera e da alcuni mo-bili in legno di rovere massic-cio di Slavonia, eseguiti dalla Cooperativa Falegnami di Savo-na su disegno del prof. Garas-sino; Giuseppe Ferro disegnò invece il progetto del leggio e dei due albi sistemativi sopra, in cuoio sbalzato con custodia in legno di pepe e guarnizioni metalliche, contenenti la storia del palazzo e dei suoi restauri, documentata da disegni e foto-grafie, nonché la storia del Con-sorzio Sbarchi. Tanto il leggio che gli albi furono premiati con una medaglia d’oro all’Esposi-zione Interregionale di Savona del settembre del 1922; uno dei due albi fu donato a Benito Mussolini il 2 febbraio del 1924, in occasione di una visita uffi-ciale compiuta a Roma da parte di una delegazione dei lavora-tori fascisti del porto di Savona composta da Augusto Cecchi, Segretario del Sindacato di Sa-vona, e dagli operai Giuseppe Ferro, Presidente del Consorzio Sbarchi (e omonimo del politi-co e pittore savonese che aveva realizzato gli affreschi nel pa-lazzo Assereto-Sormano), Gia-como Rossi, Severo Spotorno, Giacomo Parodi e Luigi Erco-lano. Nell’occasione, Mussolini si congratulò per la «dignitosa e bella sede del Consorzio Sbarchi» e per l’opera proficua fino ad allora da esso compiuta.Il 6 agosto 1922, al termine del-la drammatica settimana che aveva visto l’occupazione, da parte dei fascisti, del palazzo del Municipio in piazza Cha-

brol, della sede della Came-ra del Lavoro in piazza della Maddalena e degli altri centri nevralgici della città, i fascisti invasero anche palazzo Asse-reto-Sormano, in via Pia, dove aveva la sua sede il Consorzio Sbarchi: qui le Camicie Nere compirono terribili devasta-zioni e saccheggi, distruggen-do, tra l’altro, anche lo stemma con la falce e martello posto sopra il portale dell’edificio; quest’ultimo, pochi mesi dopo, fu sostituito da un altro scudo recante il simbolo del fascio lit-torio; ciò avvenne quando, per breve tempo, l’edificio divenne sede della Federazione Fascista della Provincia di Savona. Il 18 settembre 1927, poi, in occasio-ne della visita a Savona di Re Vittorio Emanuele III, giunto in città per l’inaugurazione del Monumento ai Caduti di Piaz-za Mameli, il sovrano si recò in visita a palazzo Assereto-Sor-mano, dove poté osservare gli affreschi eseguiti da Giuseppe Ferro e lodò i restauri compiuti all’interno dell’edificio. Nel secondo dopoguerra, infi-ne, palazzo Assereto-Sormano divenne di proprietà dell’Asso-ciazione Nazionale Mutilati e In-validi di Guerra; in quel periodo la costruzione subì ulteriori frazionamenti e furono realiz-zati alcuni interventi di ade-guamento interno degli alloggi situati ai piani posti sottotetto. Nell’occasione, fu eliminato il precedente simbolo del fascio littorio presente nello scudo sopra il portale, che venne so-stituito dal simbolo dell’As-sociazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, rappresen-tante tre spade ed una corona di spine.

Giuseppe Milazzo

Camillo Sbarbaro, un’animavagante nel paesaggio ligure

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Accanto: Post Office Building (Plaza de Ci-beles, 1904-1919), Madrid, Archi-tetti Antonio Palacios e Joaquin Otamendi; El Rincon de Goya de Zaragoza oggi;

nel testo: Gatepac lobby locali a Barcellona, AC Magazine, vol. 2, 1931;

a pagina 9 in alto: Pavòn-cinema teatro (gli ambascia-tori di strada,9) Madrid, costruito dall’architetto Teodoro Anasagasti e AlGaN tra il 1923-1925.

La traduzione del testo è della Prof.a Stefania Fabri

Ai primi venticinque anni del secolo scorso, dominati dagli stili generali,

seguì la cosiddetta Generazione del 1925, scuola di rinnovamento architettonico, oltre che culturale ed artistico, ponte tra il vecchio

tradizionalismo e l’avanguardia degli anni Trenta, specificatamente del

razionalismo ortodosso e dogmatico delle opere del Gruppo di artisti

e tecnici spagnoli per il progresso dell’architettura contemporanea

Il panorama architettonicospagnolo tra il 1900 e il 1936Il panorama architettonico spa-gnolo a dibattito: tradizione e rinnovamento architettonico.I primi venticinque anni del XX secolo furono dominati da-gli “stili nazionali”, che anno-verarono esponenti del livello di Leonardo Rucabado, Aníbal González e Antonio Palacios. L’ossessione di quegli anni fu quella di definire una tradizio-ne propria, una cultura archi-tettonica specifica, mentre si constatava un dominio delle forme tradizionali degli sti-li storici o degli stili regionali che avrebbe potuto essere un modo di reagire nazionali-sta, di tassativa affermazione dinanzi ai disastri politici e militari della Spagna del ’98. Il panorama architettonico si disputò sulla discussione di quella che avrebbe potuto es-sere l’”architettura nazionale” ispirata a principi di casticismo o tradizionalismo, nazionalismo o regionalismo. Tale regionalismo architettonico prese impulso in Spagna con Vi-cente Lampérez y Romea e Luis María Cabello y Lapiedra, fau-tori di diversi tipi di architettu-ra basati sulle tradizioni di ogni regione. I massimi rappresen-tanti della corrente regionalista del primo terzo del XX secolo furono gli architetti Leonardo Rucabado e Aníbal González, che capeggiavano quella che si dovrebbe denominare scuola montagnesa e sivigliana rispet-tivamente.E’ opportuno rilevare, in questo contesto, il già citato Antonio Palacios, un architetto difficile da classificare all’interno di pa-rametri convenzionali. Di for-mazione eclettica, la sua opera si colloca fra la tradizione e la modernità. Fra le sue numerose opere si annoverano l’Edificio de Correos y Telégrafos (Il Palazzo delle Poste e Telegrafi ) (piazza Cibeles, 1904-1919), costruito a Madrid insieme all’architetto Jo-aquín Otamendi, al quale è im-possibile assegnare una tenden-za determinata, benché evidenzi in alcuni estremi un aspetto ne-oplateresco concorde al momen-to, sorgono, d’altro canto, diver-sità di forme che lasciano intra-vedere correnti europee come il Modernismo.La dialettica decadenza-rigene-razione costituì l’asse intorno al quale ruotarono la maggior par-te dei temi di discussione archi-tettonico di quegli anni. La data del 1925 presuppose un punto di inflessione a partire dal quale cominciano a manifestarsi nuo-ve idee.

Il rinnovamento culturale e ar-chitettonico degli anni venti. La generazione del 1925Come si è detto sopra, intorno alla seconda metà degli anni Venti cominciarono a prendere corpo nuove idee e si impose una nuova sensibilità non sol-tanto nell’ambito architettonico, ma anche nel panorama cultura-le e artistico.La critica architettonica stabi-lisce solitamente come data di inizio del movimento di rin-novamento quella del 1927. In quell’anno furono costruite la Estación de gasolina de la compañía de petróleos Porto Pi (Pompa di benzina della compagnia petro-lifera Porto Pi) (dall’architetto Casto Fernández Shaw, nella via Alberto Aguilera di Madrid) e la Casa del Marqués de Villora (dall’architetto Rafael Bergamín, in via Serrano 130 a Madrid), la cui concezione architettonica si fonda sull’economia e la sobrietà costruttiva. Inoltre, in quell’an-no fu iniziato il Rincón de Goya (Angolo di Goya) (edificio oggi considerevolmente modificato, dell’architetto Fernando García Mercadal, innalzato nel parco di Buenavista a Saragozza, attual-mente parco Primo de Rivera), che fu inaugurato nell’aprile 1928. Queste tre opere si presen-tano come le prime realizzazioni con un’intenzione rinnovatrice affine al Movimento Moderno europeo. A questo proposito, va detto che ci sono autori che du-bitano del carattere razionalista di questi edifici e altri che anti-cipano di un paio d’anni questa data. Di fatto, il Teatro-cinema Pa-vón (via Embajadores,9), costru-ito a Madrid dall’architetto Teo-doro de Anasagasti y Algán fra il 1923 e il 1925, si può conside-rare come un edificio già vinco-lato con il razionalismo, benché non in modo in equivoco.L’impostazione architettonica del Rincón di Goya (monumen-to commemorativo del pittore Francisco Goya in occasione del primo centenario della sua mor-te) costruito dall’architetto Gar-cía Mercadal a Saragozza è una testimonianza della sua ammi-razione per i principi razionali-sti e specialmente per l’architet-tura di Le Corbusier.Pertanto, l’inizio del movimen-to progressista nacque dalle mani di un gruppo di architetti che studiarono presso la Escue-la de Arquitectura de Madrid (Scuola di Architettura di Ma-drid), fra il 1918 e il 1923, la co-siddetta “Generación de 1925”1 battezzata così da Carlos Flores. I più significativi furono Car-

los Arniches, Agustín Aguirre, Rafael Bergamín, Luis Blanco, Martín Domínguez, Casto Fer-nández-Shaw, Fernando García Mercadal, Luis Lacasa, Manuel Sánchez e Miguel de los San-tos Nicolás. Tale generazione prevalentemente madrilegna, assimilò le nuove correnti archi-tettoniche in modo intuitivo e

formale2, senza giungere, in ge-nerale, all’autentico fondo della questione. Per tale motivo, ben-ché propriamente non si possa classificare come avanguardia in senso stretto, bensì come mo-vimento di rinnovamento, è un fatto che in questo momento ini-zia un processo di cambiamento e si generalizza l’idea che la rot-

tura con il passato fosse inevita-bile e necessaria.La generazione del 1925 fu un ponte tra il tradizionalismo dell’inizio del secolo e l’avan-guardia degli anni Trenta, in modo specifico il GATEPAC. Nell’ottobre del 1930 fu fonda-to il GATEPACC (Gruppo di Artisti e Tecnici Spagnoli per il Progresso dell’Architettura Contemporanea)3 a Saragozza, con Fernando García Mercadal come nesso fra i gruppi. Il ruolo che ebbe García Mercadal negli anni Venti fu proseguito nel de-cennio successivo dall’architetto José Luis Sert, il quale, nel 1929, organizzò, insieme ad altri ar-chitetti catalani, un’associazio-ne chiamata GATPAC (Gruppo di Artisti e Tecnici Catalani per il Progresso dell’Architettura Contemporanea). Fu allora che il progressismo dubbio mante-nuto dalla generazione del 25, battezzato da Oriol Bohigas “ra-zionalisti al margine”, lasciò il posto al “razionalismo ortodos-so e dogmatico” delle opere del GATEPAC.4

segue a pagina 9

Esploratore del nostro Risorgimento, si ricor-da, in particolare, il vittorioso viaggio sulla nave ‘Vega’ che trovò il Passaggio di Nord-Est nel 1878-79 e il progetto, tutto italiano, per l’esplorazione dell’Antartide nel 1880

La casa museoGiacomo Bove

Il Museo dedicato a Giacomo Bove, si trova nella Casa Nata-le dell’esploratore, ora Munici-pio di Maranzana, piccolo pae-se vitivinicolo del Monferrato Astigiano. La sua realizzazione è stata possibile grazie ad un pro-getto del 2003-2004 facente capo al P.I.A. provincia di Asti “Colline in luce”, cofinanziato dall’Unione Europea e fina-lizzato alla valorizzazione del territorio regionale e provin-ciale. Le colline, candidate ad en-trare nel Patrimonio Unesco, oltre alla bellezza del paesag-gio coltivato esclusivamente a

vite (vogliamo ricordarlo poi-ché G. Bove studiò grazie al buon vino prodotto dalla sua famiglia), possiedono un gran-de patrimonio culturale che vogliamo far conoscere. Ma-ranzana diede i natali a Giaco-mo Bove (1852-1887), illustre esploratore del Risorgimento Italiano. La sua fama brillò lo-calmente ed in tutto il mondo negli anni tra il 1870 ed il 1890 per le importanti esplorazioni geografiche e scientifiche che progettò e portò a termine. Ri-cordiamo, in modo particolare, il vittorioso viaggio sulla nave “VEGA” che trovò il Passag-gio di Nord-Est nel 1878-79,

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EpilogoLa guerra civile ebbe importan-ti conseguenze sul panorama architettonico, cosicché molti architetti spagnoli si allontana-rono dal Paese, altri morirono in guerra, e quelli che rimasero realizzarono un’attività che in poche occasioni risultava co-erente con la loro produzione precedente. Queste circostanze, alle quali bisogna aggiungere la nascita di un clima patriot-tico che ebbe presto riflesso sull’architettura, resero difficile l’eventualità che l’architettura potesse continuare in condizioni analoghe a quelle che esisteva-no quando fu interrotta. In tale contesto, va ricordato che nel 1940 il Governo impose sanzio-ni di sospensione dell’esercizio professionale praticamente agli architetti esiliati e a quelli che risiedevano in Spagna. Questa depurazione professionale, av-viata dalla Direzione Generale dell’Architettura, comportò in generale l’inabilitazione profes-sionale (temporanea o perpe-tua) allo svolgimento di cariche pubbliche, direttive e di fiducia,

NOTE1 Flores, C.: Arquitectura española contem-

poránea, (Architettura spagnola contem-poranea) Madrid, Aguilar, 1989, pp. 93-94

2 Lo sviluppo dell’attività di questa Gene-razione si può tracciare in modo relati-vamente indipendente da quello di altri centri della cultura architettonica spagno-la, perché in questi anni tale attività non coincise. Di fatto, in Catalogna si consta-ta una lenta penetrazione delle avanguar-die.

3 Il GATEPAC costituiva la sezione spagno-la del CIRPAC (Comitato Internazionale per la Risoluzione dei Problemi dell’Ar-chitettura Contemporanea).

4 BOHIGAS, O.: Arquitectura española de la Segunda República (Architettura spagno-la della Seconda Repubblica), Barcellona, Tusquets, 1970, p.55

e un indennizzo. Dopo la guer-ra, la preoccupazione principale fu la ricostruzione di numerosi paesi e città, opera della quale si fece carico la Direzione Genera-le delle Regioni Devastate, alcu-ne di esse particolarmente signi-ficative come quella di Belchite, Bunete o Oviedo, nelle quali l’attività ricostruttiva acquisì un significato simbolico.

Monica Vazquez AstorgaUniversità di Zaragoza

(Spagna)

(impresa dichiarata dall’Une-sco “Memory of the world”) ed il progetto, tutto italiano, per l’esplorazione dell’Antartide nel 1880.La pronipote, Franca Bove, proprietaria di documenti ed oggetti del valoroso zio, ci ha generosamente concesso di esporli al pubblico nel Museo. L’Associazione Culturale Gia-como Bove & Maranzana che lo gestisce ed ha come scopo la divulgazione della conoscen-za del personaggio e delle sue importanti ricerche ed esplora-zioni in ambito nazionale e nel mondo, ha dato al suo lavoro ed al Museo, visitato da privati

e scolaresche, questo carattere: conservativo – didattico – di-vulgativo.Conservativo poiché è impor-tantissimo conservare i reperti originali. Essi documentano la storia. Nel museo si trovano documenti autentici originali ed altri che sono copia degli originali. Quelli in copia sono stati inseriti per colmare le la-cune e dare una visione com-pleta della vita e delle imprese del personaggio. E’ stato costituito un Comita-to Scientifico del Museo con lo scopo di censire tutte le opere, i documenti, i reperti e le rac-colte antropologiche, natura-

listiche e scientifiche inerenti a Bove in Italia ed all’estero e di catalogazione al fine di svi-luppare ed incrementare la do-cumentazione del museo favo-rendo anche donazioni. Già è stata catalogata una raccolta di oggetti di Bove donata al Mu-seo Antropologico di Savona.In bacheche di legno e cristal-lo, sono esposti documenti e fotografie riguardanti la fami-glia, la vita, le varie campagne esplorative, oggetti personali e cimeli portati dai suoi viaggi.Sopra le bacheche, alcuni pan-nelli illustrano i percorsi delle varie spedizioni e la sua vita. Il Museo è sempre visitabile su prenotazione telefonando ai numeri 349 5267294 / 339 1564414; oppure durante la ricorrenza del “G. Bove Day” che si svolge tutti gli anni in primavera (vedi sito web www.giacomobove.it.) Duran-te la manifestazione si onora la tomba dell’Esploratore e da illustri relatori vengono appro-fonditi i vari aspetti scientifi-ci, commerciali e politici delle spedizioni ai Poli, in Oriente, Sud America e Africa.

Associazione Culturale“Giacomo Bove & Maranzana”

L’istituzione ha svolto un lavoro importante nell’approfondimento delle varie espressioni

con cui la nostra regione ha contribuito al panorama italiano del Novecento

Fondazione Mario Novaro,trent’anni di vita e attività

In tempi in cui la cultura soprav-vive a fatica, la Fondazione Mario Novaro www.fondazionenovaro.it, riconosciuta dal Ministero per i Beni Culturali e da Regione Liguria, si avvia a festeggiare i trent’anni di vita e di attività, con la soddisfazione di aver svolto -e di continuare a svolgere- un lavo-ro importante per quanti sono in-teressati ad approfondire le varie espressioni con cui la nostra re-gione ha contribuito al panorama italiano novecentesco.Costituito nel 1983, l’Ente, che si proponeva inizialmente di preser-vare l’opera dell’impren ditore/intellettuale onegliese Mario No-varo (1868-1944), ha via via allar-gato i propri interessi, svolgendo attività di ricerca, conservazione e divulgazione della cultura ligu-re del “secolo breve”, nei settori della scrittura e dell’imma gine, attraverso l’edizione di testi e di apparati critici, l’organizza-zione di convegni, seminari, mostre.La biblioteca e gli archivi (la sede, aperta al pubblico dal lu-nedì al venerdì, si trova a Ge-nova, in Corso Aurelio Saffi 9) si arricchiscono costantemen-te con donazioni in differenti comparti: letteratura, filosofia, comunicazione d’azienda, gra-fica, cinema, teatro, narrativa disegnata. Raccolgono attual-mente circa trentamila volumi, oltre un migliaio di periodici e una quarantina di ‘fondi’ per-sonali. I volumi sono catalogati in SBN (Servizio Bibliotecario Nazionale) e disponibili per il prestito interbibliotecario.

Dal 1990 viene editato il quadri-mestrale monografico I Quaderni de “La Riviera Ligure” e nel 1991 è stato istituito il “Premio Mario Novaro per la cultura ligure” (tra i premiati, Lele Luzzati, Lucia-no Berio, Renzo Piano, France-sco Biamonti, Vittorio Gassman, Enzo Maiolino, Giuliano Montal-do, Edoardo Sanguineti, Eugenio Carmi, Ligustro).La Fondazione trae le sue radi-ci culturali dall’eredità di Mario Novaro e della sua rivista, “La Riviera Ligure”. Nato nel 1895 come mezzo di diffusione dei prodotti della Ditta Sasso, il pe-riodico subisce un radicale muta-mento quattro anni più tardi, sot-to la direzione di Mario Novaro. Egli lo trasforma in una innova-tiva proposta, di notevole risalto per i contenuti letterari e pure per l’aspetto grafico-illustrativo, al quale contribuiscono, tra gli al-tri, Giorgio Kienerk, Cesare Fer-ro, Plinio Nomellini, Edoardo De Albertis, Felice Carena, Adolfo Magrini.La rivista (la cui pubblicazione cesserà definitivamente nel 1919) ospita firme affermate: da epi-goni del classicismo a poeti che guardano a Pascoli e D’Annun-zio. Senza aderire a particolari correnti, Novaro accoglie anche giovani disponibili a nuove espe-rienze di scrittura. Ai nomi di Pascoli, Deledda, Pirandello, si aggiungono in seguito altri colla-boratori come Campana, Emilio Cecchi (che esordisce sulla rivista come poeta), Alvaro, Saba, Rebo-ra, Sbarbaro, Ungaretti, Palazze-schi, Moretti, Papini. Autori tutti destinati a lasciare un segno pro-fondo nella cultura italiana del Novecento.Oggi introvabile in raccolta com-pleta nelle biblioteche italiane, la rivista è disponibile in versione digitale, grazie ad un finanzia-mento concesso dal Ministero per i Beni Culturali.

Sopra: Edoardo De Albertis, Canzone d’Autunno, disegno originale per “La Riviera Ligure”, n. 35, 1902

Sopra: Plinio Nomellini, Manifesto pubblicitario per l’Olio Sasso (1901); sotto: Flavio Costantini, Mario Novaro, originale per il manifesto del Convegno tenuto a Imperia nel 1987

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10 A poco più di trent’anni diventa famoso con un gruppo di opere di straordinario successo, tra cui Colombo Giovinetto, con medaglie d’oro e primi premi a valenza nazionale ed internazionale. L’artista rimarrà

fino ai primi del Novecento una figura di grandissimo rilievo.

Lo scultore Monteverdee la gipsoteca di Bistagno

“Mi riveggo ancora in mezzo a quei campi, ove con la terra ba-gnata dei fossi facevo alcune figu-rine e le davo a mio padre affin-ché le facesse seccare. Allora non potevo avere certo idea di ciò che fosse arte. Mi ricordo poi i castighi che mi prodigava il mio maestro di scuola, perché invece di fare il compito riempivo i quaderni di pupazzi. Erano inutili quei casti-ghi. Continuavo a imbrattare non solo i quaderni e i libri, ma ancora i muri…” ; è ciò che scrive Giulio Monteverde nelle sue memorie autobiografiche.Giulio Monteverde nasce a Bista-gno in data 8 ottobre 1837 da un tessitore e bracciante agricolo, Vit-torio, e da Teresa Rondanino di Acqui Terme. Di famiglia povera, viene avviato al mestiere di inta-gliatore ed ebanista, prima ad Ac-qui e poi presso la bottega Merletti di Casale Monferrato, la stessa per cui lavorò il padre di Leonardo Bi-stolfi. Si trasferisce a Genova nel 1857, impiegandosi presso ditte che producono mobili, ma si af-ferma presto tra i migliori artigia-ni cittadini che lavorano su legno e già nel 1860 figura nell’équipe che, sotto la guida di Santo Varni, restaurava gli stalli della Catte-drale di S.Lorenzo. Una precoce vocazione artistica ed una esem-plare forza di volontà gli consen-

tirono, a prezzo di tenaci sacrifici personali, di passare al mestiere di scultore frequentando i corsi serali dell’Accademia Ligustica di Genova, fino a vincere nel 1865 un pensionato artistico per perfe-zionarsi a Roma, dove rimarrà per tutta la vita.Emerge all’attenzione fra il 1870 e il 1875 con un gruppo di ope-re di straordinario successo: Co-lombo Giovinetto, medaglia d’oro all’Esposizione Nazionale di Belle Arti di Parma del 1870; Il Genio di Franklin, medaglia d’oro all’Espo-sizione Nazionale di Milano del 1872; Jenner che inocula il vaccino al figlio, primo premio all’Esposizio-ne Universale di Vienna del 1873. La capacità di coniugare fedeltà al linguaggio accademico con sog-getti insoliti e iconografie ardite sul piano tecnico ne fanno, negli anni subito dopo la presa di Roma, una sorta di leader della scultura italiana, destinato ad ereditare il ruolo lasciato libero dall’esaurirsi della parabola creativa di Dupré e dalla decisione di Vela di fissare la propria residenza in Svizzera. Nel 1878 Monteverde è com-missario italiano all’Esposizione Universale di Parigi; ma a par-tire all’incirca da questa nomina il suo prestigio va declinando di fronte all’affermarsi in ambito in-ternazionale delle nuove correnti veriste e impressioniste. L’artista rimane comunque, fino ai pri-mi del Novecento, una figura

di grandissimo rilievo sul piano istituzionale, grazie all’appoggio personale di Umberto e Marghe-rita di Savoia e alla capacità, fino all’ultimo, di scatti innovativi: L’Angelo Oneto, del 1882, è tra le prime opere ad annunciare nella scultura italiana, il clima del sim-bolismo e decadentismo europeo; il Monumento a Vittorio Emanuele II per Bologna viene considerato già dai contemporanei tra le più felici statue equestri dell’Ottocento; ed anche opere tarde, come Idealità e materialismo (l’opera in gesso è conservata presso la Gipsoteca Monteverde di Bistagno, il mar-mo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma) o il Monumento a Saracco di Acqui Terme testimo-niano di una mai sopita volontà di ricerca. Nel 1878, sull’Illustrazione italia-na, G. Giacosa scrive: “Appena un’opera del Monteverde esce dalla sua officina, e molte volte, quando ancora non subì la me-tamorfosi dalla creta al marmo od al bronzo, tutte le maniere di stampe ne divulgano le forme, co-sicché sovente essa è giudicata e resa famosa prima che compita”. Varie fonti, tra cui un articolo di Italo Falbo del 1911 ci descrivono Monteverde come un “bellissimo vecchio dalla testa leonardesca” attento, a differenza di altri colle-ghi che ricorrevano con maggior frequenza a lavoranti, a mantene-re sempre un rapporto diretto con

la materia, “avvolto in un mantel-lo di colore incerto per le macchie di creta” che gli serve anche per difendersi dal freddo. Per anni, Monteverde mantiene il proprio studio sulla via Flaminia appena fuori Porta del Popolo, zona in cui si era venuta concentrando la mag-gior parte dei laboratori romani di scultura. Raggiunta la celebrità, fu tra i primi artisti italiani ad imi-tare il tenore di vita aristocratico di moda a Parigi per gli artisti di successo, facendosi costruire nel 1875 una palazzina di rappre-sentanza in uno dei più eleganti quartieri di nuova urbanizzazio-ne, in piazza Indipendenza. Il pia-noterra, interamente destinato a studio, accentuava la distinzione, tradizionale fin da metà Ottocento anche per gli atelier dei pittori, tra spazi con carattere di laboratorio dove si affaccendavano sbozzatori e lavoranti, e spazi di prestigio de-dicati alla meditazione personale del maestro ed ai rapporti con i clienti. Subito all’ingresso della palazzina si trovava un ambiente di particolare qualità, utilizzato come sala mostre e rivestito da pannelli dipinti in stile neoarcaico da uno dei principali decoratori della Roma umbertina, Anniba-le Brugnoli (Perugia 1843-1915), autore, fra l’altro, della volta del teatro dell’Opera di Roma; della Sala reale della stazione Termini (1885); degli affreschi della Sala dello Zodiaco al Quirinale (1888).

L’ambiente è tuttora conservato: dietro gli arredi del bar Florian’s, che oggi vi ha sede, si intravedo-no, molto deteriorati, i resti delle tempere di Brugnoli.Ai piani superiori dell’edificio ri-siedeva la famiglia, composta dal-la moglie, che, di origini modeste, poco sembra aver partecipato alla vita sociale del marito, e da cinque figli: Giulia, Giuseppe (effigiato da piccolo nella scultura Primi gio-chi e, dopo la morte a sedici anni, nella replica dell’Angelo Oneto al Cimitero del Verano a Roma), Er-minia, Luisa, Aurelio, Corinna.La Gipsoteca di Bistagno ha origi-ne dal dono di alcune opere effet-tuato dal Comune di Genova nel 1937, in occasione del Centenario dello scultore ed in vista della re-alizzazione di un “Museo monte-verdiano” di cui fu interrotta la realizzazione anche a causa delle vicende belliche. A questo primo gruppo, che comprendeva il calco in cemento del Colombo giovinetto; ventuno fotografie d’epoca delle opere più importanti dello scul-tore; i modelli originali in gesso dell’Autoritratto, del Busto femmi-nile e del busto dello statista Marco Minghetti, si aggiunsero poi ulte-riori gessi, donati in comodato da Genova a Bistagno nel 1965 e nel 1988.Il termine “Gipsoteca” (dal Greco antico “Gypsum”, gesso) entra in uso a fine Ottocento per definire le raccolte di modelli, in prevalen-

za affidati a questo materiale, che ogni artista teneva nel suo studio per ricavarne varianti e riprodu-zioni; per documentare ai clienti la propria attività; per trarre ispi-razione in vista di opere nuove. Si tratta quindi di testimonianze fondamentali per lo studio dei processi creativi. Per alcuni scul-tori, i gessi restituiscono modella-to ed intenzioni meglio delle ver-sioni in marmo o bronzo, affidate a intermediari; né è raro il caso che conservino le uniche testimo-nianze sopravvissute di progetti mai trascritti in materiali nobili.Pochissime sono le gipsoteche di scultori dell’Ottocento giunte fino a noi. Spesse volte, gli eredi fini-vano col disperderle o distrug-gerle, non esistendo per i gessi un mercato economico apprez-zabile. Nel caso di Monteverde i figli provvidero a donare nel 1919 al Comune di Genova una sele-zione di circa novanta fra i pezzi più importanti che l’artista teneva in vita nei propri studi di Roma e Castelgandolfo. Ma anche que-sto nucleo, non essendovi spazio per esporlo, subì smembramenti tra vari magazzini ed uffici. Solo trenta dei pezzi che lo compone-vano si trova fisicamente tuttora presso la Galleria d’Arte Moder-na di Genova Nervi (esposto o in deposito).

Raffaella BeccaroDirettrice Gipsoteca Giulio Monteverde

In alto: panorama di Bistagno; sopra, a sinistra, Angelo del Giudizio e, a destra, Colombo giovinetto; accanto al titolo, sede della gipsoteca Giulio Monteverde a Bistagno.

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Costante Girardengo, personaggio epico,vinceva su strada e pista, primo per potenza

Si distingueva per la grande determinazione, per una volontà ferrea, per un raro spirito di sacrificio

ed una straordinaria sopportazione della fatica

Al centro: Girardengo precede Giacchero nell’attraversamento di Savona, in piazza del Popolo; in 5^ colonna: Girardengo in gruppo a Savona, in via Paleocapa durante una Milano-Sanremo.

Costante Girardengo è stato bat-tezzato da Emilio Colombo, pa-triarca del ciclismo italiano, “il Campionissimo”, non solo per le sue mille e cento vittorie su stra-da e su pista, ma soprattutto per la qualità degli avversari e delle sue imprese. Una carriera, durata quarantatre anni, (era nato a Novi Ligure nel 1893 e morì in Alessan-dria nel 1978), nonostante l’interru-zione del primo conflitto mondiale, oltremodo lunga, impegnativa, ma densa di grandi soddisfazioni. Per meglio comprenderla, è necessario ricordarne i successi più significa-tivi: i nove campionati italiani, le sei Milano Sanremo, (avrebbero potuto essere almeno otto senza la ingiusta squalifica patita nel 1915, per aver percorso 115 metri in meno, a causa di una errata se-gnalazione del percorso ad Impe-ria Porto Maurizio, nonostante il distacco al traguardo dal secondo fosse di oltre sette minuti e che dire della caduta del 1922, a duecento metri dallo striscione di via Roma durante la volata con Brunero, ad opera di un esagitato spettatore). A queste si aggiungano le sei vitto-rie a cronometro a coppie, le cinque vittorie alla XX settembre, le cin-que vittorie al Giro dell’Emilia, le cinque alla Milano Torino, i quat-tro Giri del Veneto ed i due Giri d’ Italia. Di grande impatto per l’epo-ca, ma significativo ancor oggi, il successo alla “Gran Fondo”, gara fortemente voluta per celebrare la fine della guerra del 15/18 ed il ricongiungimento con i territori ir-redenti, che si correva su tre tappe, con partenza da Roma ed arrivo a Trieste. Girardengo vinse le tappe di Trento e di Trieste, facendo gar-rire il tricolore (era anche la maglia con la quale correva), in ogni dove nelle città appena riconquistate al territorio nazionale. In questo sommario elenco non si può tralasciare il Gran Premio Wolber del 1924, trecentosessanta-due chilometri in terra di Francia, con partenza alle 2,30 di notte, su un percorso misto fatto di pavé, di sterrato, che comprendeva pia-nura e montagna e con arrivo nel celebrato velodromo di Parigi. La volata finale è stata un compendio di scorrettezze da parte dei fratel-li Pélissier che cercarono con ogni mezzo di far cadere il Gira che riu-scì nell’ epica impresa di restare in sella e di tagliare il traguardo per primo con mezza ruota di vantag-gio. Questa gara, antesignana del Campionato del Mondo che nacque due anni dopo, consacrò definitiva-mente il “Gira” a livello internazio-nale, determinando, una volta per tutte, la supremazia del ciclismo italiano su quello di oltralpe.Girardengo era invincibile, un mito, un personaggio epico; Mon-tanelli l’aveva chiamato “Il Corsaro Nero”. Vinceva su pista e su strada, primo per astuzia e per potenza che si manifestava con una grande de-terminazione, con una volontà fer-rea, con un raro spirito di sacrificio ed una straordinaria sopportazione della fatica.Passando le consegne di Campio-ne d’Italia ad Alfredo Binda disse: “Lascio la maglia tricolore in buo-ne mani. Binda è un ragazzo serio. E anche per correre in bicicletta la serietà e la volontà sono le qualità

migliori”. Finita la sua carriera agonistica si dedicò a scoprire nuovi campioni. Diresse in qualità di direttore tec-nico della nazionale Gino Bartali in occasione del vittorioso Tour de France del 1938 e, dopo la secon-da guerra mondiale, costituì una squadra professionistica di tutto ri-spetto mettendo sotto contratto, tra gli altri, Van Steenbergen, Poblet e Ockers. Con l’avanzare degli anni si dedicò all’azienda affidata ai due figli ed alle gare di tiro al piattello, sport nel quale era solito eccellere.Costante: deriva da costans che si-gnifica in latino tenace.Aveva occhi a mandorla, sorriso enigmatico, contegno riservato, sommesso nel discorrere e con una curiosa camminata di soppiat-to. Non solo per la sua minuscola statura, ma soprattutto per la sua straordinaria furbizia era chiamato “l’omino di Novi”. Novi Ligure, la sua amata città, un amore che ma-nifestò per tutta la sua esistenza, sentimento ricambiato dai nove-si con ammirazione ed affetto per aver fatto conoscere ed apprezzare questo caratteristico borgo, a pre-sidio degli Appennini liguri e pie-montesi, ricco di filari e di pregevo-li vigneti in tutta Italia e non solo. A lui ha intitolato opere pubbliche, a lui e a Fausto Coppi ha dedicato il Museo dei Campionissimi a ricor-do delle loro gesta.Novi ha dimostrato di non voler dimenticare questo suo figlio assu-mendosi, come ebbe a scrivere ne-gli anni 90 l’ allora Sindaco Lovelli,

“l’obbligo morale di preservarne la leggenda, di tutelarne la figura di uomo, di atleta, di illustre figlio di questa terra, non avara di talenti ri-conosciuti, non solo nello sport. Gi-rardengo fu raro campione di no-vesità, iniziatore della storia, dell’ epopea del ciclismo italiano”. Per Orio Vergani fu il “tenore del pedale”, Gianluca Favetto lo definì “Costante il participio presente del ciclismo italiano”, Alfredo Martini disse “Girardengo era il ciclismo”, per Bruno Raschi era “Ulisse in bi-cicletta”. Candido Cannavò amava ricordare “il suo nobile modo di pedalare”. Ma anche Ruggero Ra-dice, Emilio Colombo, Dino Buzza-ti, Mario Soldati, Indro Montanelli,

Mario Fossati, Armando Ghiglio-ne, Giovanni Mosca, Rino Negri per arrivare ai contemporanei Naz-zareno Fermi, Marco Pastonesi e Claudio Gregori, tutti hanno avuto parole di stima, di riconoscenza, di ricordo e di affettuosa ammirazio-ne per Costante Girardengo.Per me, che sono la prima nipote, particolarmente attaccata al ricordo di quest’uomo, per me, fu soprat-tutto il Nonno, sempre presente nei momenti importanti e significativi della mia vita. Un nonno che mi ha inculcato, con la sua presenza ed il suo carisma, i suoi principi morali, che mi ha portato, in modo natura-le, ad amarlo profondamente per le sue qualità umane, per l’ affetto

che ha saputo distribuire, in modo equanime a tutti i componenti del-la famiglia, per la generosità che in tutta la sua lunga esistenza ha di-mostrato al prossimo.Ho avuto la fortuna di essergli stata spesso accanto: l’ho accompagnato in viaggi di lavoro ed in manifesta-zioni celebrative, durante le quali ha sempre dimostrato un forte at-taccamento alla patria ed ai valori nazionali. In quelle occasioni ho conosciuto personaggi leggenda-ri dello sport, dello spettacolo, ma anche le massime cariche dello Sta-to che sempre hanno avuto parole di elogio per il campione e per l’ uomo.Oggi, oltre al dolce ricordo che può evocare un nonno, in me c’è anche l’ orgoglio per quel Nonno, conosciu-to ed apprezzato in tutto il mondo per aver onorato lo Sport fatto di Volontà, Sacrificio e di Grandi Ge-sta sportive.

Costanza Girardengo

Pezzi forti della collezione, le bici identiche a quelle dei due campionissimi: la Legnano con cui Ginettaccio Bartali dominò l’Izoard e vinse il Tour de

France del 1938 e la Bianchi con cui Fausto Coppi s’impose nel 1952

Cosseria, storia e culturadel ciclismo in un museo

Il 27 febbraio 2011 ha compiuto un anno il Museo della biciclet-ta di Cosseria. Oltre cento anni di ciclismo sono racchiusi e rac-contati nell’ex scuola elementa-re. L’edificio che ospita il museo è stato infatti ricavato da una radicale ristrutturazione dell’ex scuola elementare che ha intera-mente trasformato l’edificio non solo dal punto di vista struttura-le e funzionale, ma anche sotto l’aspetto estetico, ricorrendo an-che a materiali come il vetro e il legno a vista.Il museo, fortemente voluto dall’Amministrazione comu-nale e realizzato grazie al con-tributo della Regione Liguria, raccoglie il “tesoro” di Luciano Berruti, geniale collezionista e “velocipedista”(dice proprio così il suo biglietto da visita). Berruti ha prima fatto il murato-re e poi, dopo anni di scuole se-rali, l’odontotecnico. Ma non ha mai dimenticato l’amore di gio-ventù, il ciclismo dei tempi eroi-ci: quasi vent’anni fa si è messo a raccogliere cimeli e a restaurare bici d’epoca con cura certosina e attenzione filologica portata all’estremo; ha creato una colle-zione senza pari e si è messo alla testa del movimento dei ciclisti d’epoca che ha nell’Eroica il suo punto di riferimento. “Ogni bici, ogni pezzo ha la sua storia. Una camera d’aria ripara-ta dieci e più volte -racconta Ber-ruti - spiega meglio d’ogni altra cosa i tempi del ciclismo eroi-co”. E la camera d’aria rattoppa-ta è davvero legata sotto la sella di cuoio. I pezzi forti della sua

collezione sono le bici identiche a quelle dei due campionissimi: la Legnano con cui Ginettaccio Bartali dominò l’Izoard e vin-se il Tour de France del 1938 e la Bianchi con cui Fausto Coppi s’impose nel 1952. Ogni bici, una storia: quella di Bottecchia ucciso (forse) per la sua opposizione al regime fa-scista, quella con il nascondi-

glio per i chiodi da seminare per strada per ostacolare, diciamo così, gli avversari. Accanto alle bici, le pesanti maglie di lana che si usavano allora, con i nomi di mitici costruttori come Bian-chi e Legnano. C’è anche quella tricolore (allora si correva per squadre nazionali) del gallara-tese Mario Ricci, incorniciata insieme alla pagina di giornale

che lo vede terzo in classifica al tour del 1949.Ogni cimelio descrive la picco-la storia dello sport che molto spesso si intreccia con la Storia con la S maiuscola. Ma non basta. Addentrandosi nel museo della bicicletta di Cos-seria si può ammirare la maglia rosa di Fausto Coppi, la maglia di campione d’Italia di Learco Guerra, la bicicletta del recor-dman Francesco Moser, e i tan-tissimi modelli da corsa tra cui evidenziamo i marchi più cono-sciuti: Bartali 1950, Frejus 1934, Legnano 1938, Maino 1932, Peu-geot 1924, Bianchi 1924, Ganna 1925, Gerbi 1921, Atala 1907/10, BSA 1907, Durkopp 1904, Um-berto Dei 1941, Benotto 1949, Wilier Triestina 1949, Clement 1890 e tanti altri di grande suc-cesso. Pertanto invitiamo i molti ap-passionati, sportivi e collezio-nisti a visitare questo stupendo museo che racconta attraverso i tanti modelli esposti la storia e la cultura del nostro ciclismo epico.

Milena Armellino

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Lo “Scarabattolo”a cura di Roberto Debenedetti

Le mostre dei nostri artisti

Libri in vetrinadi Grazia Robaldo

Addiid’

inverno- Nani Tedeschi: “Pinocchio”, dise-

gni, Galleria “Il Salotto”, Como, 21/11/10 - 15/1/11

- Patrone Vittorio: “Mostra per-sonale”, 3-31/1/11. “La Galleria non solo classico”, Savona, Gal-leria Scarzeria.

- Luisa Bonello: “Icone”, 10-30/1/11, Centro Artigianale Re-stauri, Albissola Marina.

- Antonietta Cavallero: Esposizione

personale, inaugurazione 5/3/11, Galleria Wikiarte, Bologna

- Paola Failla: Esposizione personale, 5-11/3/11, Salon Couleur et For-me de Mesnil-Le-Roi (Francia).

- Franca D’Arienzo: “Carvasin, un salvavita contro l’infarto”, mostra personale, Centro Civico Corni-gliano in Villa “Spinola Narisa-no”, Comune di Genova, 24/3-8/4/11.

In questa rubrica, tra saggi stori-ci, restauri, immagini di quadri e di paesaggi, ambiti dentro i quali si muove “Pigmenti”, rivolgiamo anche un pensiero doloroso a chi ci ha lasciati dopo anni di fre-quentazioni, di conoscenza. E’ il caso del giornalista Nanni De Marco col quale ho condivi-

so tanti incontri, discorsi dedi-cati a Savona, al suo parlarmi di Renzo Aiolfi col quale ha scritto alcuni libri sulle “Bombe a Savo-na” e altri riferimenti al vulcanico Renzo, come lo definiva Nanni. Dallo sport, suo grande amore e passione, alla storia di Savona, alla guerra, al religioso studio e ricordo vivo della Resistenza, al Santuario degli Sportivi alla Ma-

donna del Monte, idea e realizza-zione a cui teneva moltissimo.Nella giornata della Festa Inter-nazionale della Donna è scom-parso l’amico sincero Giuseppe “Checco” Robatto, socio fonda-tore dell’Associazione Aiolfi, vice presidente della stessa. Uomo di cultura, innamorato di Savona che voleva distinguere sempre migliore nel suo aspetto esterio-re ed intrinseco, nel valorizzar-ne storia e risorse. Discendeva dal pittore Gio. Stefano Robatto (Savona, 1652-1773). Ricordo le conferenze dedicate all’illustre antenato che, assieme, abbiamo realizzato nell’Oratorio del Cri-sto Risorto affrescato appunto dal Robatto, al fine di farlo conoscere meglio, e l’interesse per la grande tela dello stesso pittore conserva-ta nella Quadreria del Seminario Vescovile di Savona, peraltro bi-sognosa ed in attesa di un restau-ro urgente. Checco si interessava di musica e letteratura (molto attivo nel Casino di Lettura di Savona), di cucina (Accademico della cucina), di sport, legato pro-fondamente alle tradizioni savo-nesi dalla Processione del Vener-dì Santo alla Festa patronale del 18 marzo, allievo degli Scolopi di Savona, cui era rimasto molto

legato, amante del Bello della na-tura tanto da essere il Presidente del Garden Club di Savona: per-sonalità poliedrica, quindi, molto attiva nel tessuto civile e cultura-le di Savona. Credeva moltissi-mo nell’Associazione “Aiolfi” di Savona, nei suoi traguardi , tra cui i prossimi dedicati all’aper-tura della Collezione d’arte sa-cra moderna “Santa Rossello”, la prima nella nostra provincia, alle molte iniziative rivolte ai 150 anni dell’Unità d’Italia. Prezioso collaboratore per la parte legale che riguarda la vita dell’Associa-zione, partecipava sempre con entusiasmo alle diverse proposte ed avrebbe voluto prendere par-te anche alle gite, troppo spesso però i numerosi impegni con al-tre associazioni gli imponevano delle scelte. Gran signore, ironi-co, bonario, sempre aperto ai gio-vani, alle nuove iniziative purchè rivolte alla migliore conoscenza di Savona, la sua Città che da oggi è orfana di una personalità ricca e disponibile ma che ha la-sciato, senza dubbio, un sereno e fondante insegnamento che ci induce a proseguire nella nostra strada, nel nostro impegno di vo-lontari al fine di ricordare sempre, e non potrebbe essere altrimenti, l’amico Giuseppe Checco Robat-to che credeva, come noi, nella cultura quale terreno d’incontro, di crescita comune, di doveroso impegno civile. Aveva molti pun-ti in comune con Renzo Aiolfi e lo voglio ricordare lieto di parte-cipare alla serata del 17 dicembre 2010, al Teatro Chiabrera, quando abbiamo presentato il libro “I Te-atri di Renzo”: era seduto in se-conda fila nella platea ed ascolta-va i nostri discorsi, i miei ricordi legati a Aiolfi e Lui, certamente, ne avrebbe potuto aggiungere altri mille, raccontati con la sua capacità affabulante, mai pedan-te, signorile. Con un semplice ma intenso “grazie Checco”, conclu-do questo piccolo affresco a lui dedicato.

Giovanni Gallotti, Giuseppe Milazzo, “Album di Villapiana”, Coop Tipograf, Savona, novem-bre 2010.L’album è una finestra sul quar-tiere e sulla sua storia, persone e luoghi che nel tempo si sono tra-sformati con il mutare della so-cietà e dell’economia cittadina. Una passeggiata attraverso i de-cenni in un quartiere popolare e popoloso, vivo e bello. Per il let-tore maturo sarà uno stimolo a ritrovare nelle fotografie i propri ricordi; per i giovani a scoprire il quartiere dalle sue fondamenta.

“Albenga di sguardi”, a cura di Patrizia Valdiserra, F.lli Stalla, Albenga (SV), febbraio 2008.L’Associazione Vecchia Alben-ga celebra il suo trentesimo an-niversario con un bellissimo vo-lume omaggio alla città. Prota-gonisti torri e campanili, anti-che strade, vecchie pietre, bar-che: tanti volti di una medesima realtà. Alle immagini s’intreccia-no le parole di Valdiserra, vivi-de per il sentimento che le ispi-ra, in un ritratto inedito di Al-benga, fuori dagli itinerari turi-stici e luoghi comuni, alla ricer-ca di angoli remoti perché anche gli abitanti li riscoprano.

Franco Rebagliati, Franco Dell’Amico, “Savona Letimbro, Savona Marittima 1878-1939”, vo-lume I, L. Editrice, Cairo Monte-notte (SV), ottobre 2010.Gli autori, in una documenta-ta ed attenta ricerca ricca di no-tizie e aneddoti, hanno raccon-tato le vicissitudini che coinvol-sero Savona ed il suo porto dalla proclamazione dell’Unità d’Ita-lia all’anno precedente il secon-do conflitto mondiale. Qui, si analizzano le difficoltà politiche ed economiche che dovettero af-frontare gli uomini alla guida della città in quegli anni. Emer-gono le figure di Pietro Paleo-capa e di Paolo Boselli nonché il ruolo del Conte Camillo Benso di Cavour nelle vicende ferro-viarie e nello sviluppo moderno del porto. La ferrovia, nell’800, nuovo e rivoluzionario mezzo di trasporto per i commerci, ha negli anni traformato il territo-rio spostandone, nel 900, l’eco-nomia dall’agricoltura ad un’in-dustria siderurgica e chimica.

Nanni De Marco, Mario Va-ricelli, Eugenio de Vincenzo, “100 – Storia centenaria della Ve-loce Fbc (1910-2010), Coop Tipo-graf, Savona, luglio 2010.Da un grande appassionato di sport, recentemente scomparso, la celebrazione del primo cen-tenario della società Veloce, in

cui sono passate e si sono for-mate molte generazioni di spor-tivi, una palestra di vita che ha dato – e dà – ancora oggi un grande contributo alla forma-zione dei giovani. Scorrono nel-le pagine classifiche, risultati, gioie e delusioni; tante fotogra-fie della squadra, dei campioni così diversi nel trascorrere degli anni: un commovente affettuoso ‘amarcord’.

Domenico Mancuso, “Cammi-no”, poesie, Marco Sabatelli Edi-tore, Savona, luglio 2010.La poesia, una passione fin da-gli anni giovanili che da ‘gioco’ diventa dura necessità per scio-gliere il grumo di dolore dopo la tragica scomparsa dell’amata moglie. Al primo libro del 2004, ne segue un secondo, ed ecco la terza raccolta in cui l’autore ri-percorre il cammino della vita, richiama alla memoria ricordi di amori, affetti, affronta esperien-ze dolorose senza mai arrender-si con un linguaggio immediato che arriva al cuore.

Albino Marcolli, “Ritratti”, Rogi, Milano, 2008.Il pittore ‘vede’ le persone: a volte le isola dal contesto, talo-ra le ambienta nella quotidiani-tà della sua vita, altre trasmet-te in esse ciò che pensa sempre con una costante: il punto foca-le è lo sguardo perché sono loro che osservano gli spettatori qua-si ad inquietarli. In quarta di co-pertina, nuovo titolo: “Luoghi del respiro”. Di fronte alle ope-re di Marcolli, lo spettatore dap-prima guarda, poi riflette, infine s’immedesima tanto da ‘respira-re’ il paesaggio che gli si presen-ta dinanzi e che piano piano as-sume una dimensione univer-sale. Il motivo conduttore è l’in-tenso colore blu del cielo come uno stupore, una sospensione … un respiro.

Beppe Venturino, “Utopie savo-nesi”, L. Editrice, Cairo Monte-notte (SV), agosto 2010.Tanti savonesi, pur vivendo e la-vorando fuori Savona, vi ritorna-no spesso e talvolta, con un po’ di rammarico, constatano che la città non ha attuato quei cam-biamenti che altrove sono real-tà. Sulla spinta delle loro consi-derazioni è nato il libro per for-nire un contributo a coloro che sono chiamati a decidere il futu-ro di Savona e trasmettere ai cit-tadini la certezza che si può ve-derne la trasformazione da in-dustriale a moderno centro del terziario legato al turismo. Set-te utopie rese in fotografie ela-borate al computer, da cui emer-ge una Savona bella con un pas-sato storico importante, benché ancora sottovalutata.

Mario Traversi, “Mestè de ‘Na votta”, poesie, Grafica DGS, Va-razze (SV), febbraio 2010.Tanti mestieri non esistono più as-sieme ad un mondo ormai lonta-no, quando il vivere era diverso. Per conoscere usi e costumi del-le passate generazioni, un omag-gio ad artigiani ormai scomparsi, insieme a tanti piccoli negozi tra-volti dalla grande distribuzione. Un viaggio sentimentale a ritro-so nei paesi e nei quartieri per ri-trovare ‘ u careghe”, ‘l’ommu du giassu’, ‘u paeguà’, …..

Giuseppe Milazzo, Antonio Martino, Pino Cava, “Andrea Aglietto”, Savona, ISREC, 2010.Il libro è dedicato al sindaco del-la Liberazione e della Ricostru-zione di Savona, un ammini-stratore a cui tutti, compagni, amici, avversari politici riconob-bero doti di rigore e di servizio nell’interesse pubblico. Vicino ed attento ai problemi della gen-te, arrivò all’incarico di primo cittadino, dopo molte battaglie, sofferenze, persecuzioni, espe-rienze lavorative diverse: da operaio a sindacalista, ad am-ministratore pubblico; un perso-

naggio dell’antifascismo e della resistenza che le nuove genera-zioni debbono conoscere.

Jeanne Perego, "Joseph e Chico", Liamar Editions, Monaco, di-cembre 2008.Questa storia parla del Santo Pa-dre e del suo amore per gli ani-mali, in particolare i gatti. E’ un gatto, infatti, che racconta la vita di Papa Benedetto XVI in un li-bro per bambini che piace anche agli adulti, scritto in lingua mo-negasca, parlata fin dal XIII se-colo all’inizio della dinastia dei Grimaldi e tanto amata dalla popolazione e dal Principe Ra-nieri III che la volle introdur-re come materia scolastica alle scuole primarie su suggerimen-to del suo ministro della Cultu-ra, Monsieur Novella, nostro be-nemerito socio onorario. Le illu-strazioni, che accompagnano il racconto, sono di Donata Dal-molin Casagrande.

Sonia Pedalino, “Totò e la ma-schera”, MEF, Firenze, Athe-neum, 2007.Tanti articoli sono stati scritti su Totò, tante parole, tante critiche. Un tempo i suoi film erano giu-dicati con molta sufficienza, ‘fil-metti’ senza una vera e propria sceneggiatura, girati in fretta; ri-visti oggi, non solo sono stati ri-valutati ma addirittura esaltati. Il lavoro di Pedalino vuole far co-noscere il grande attore in quan-to ‘maschera’, un tipo non un personaggio. Se molteplici sono stati i ruoli da lui interpretati, ba-sta una mossa con la testa, un ge-sto, una smorfia perché imme-diatamente questa maschera la si riconosca, tanto più attraverso le infinite battute giocate sul dop-piosenso, sul suono delle paro-le in una scoppiettante comicità. Un bel lavoro, godibile nella let-tura e divertente, che lascia però trapelare la precisione e un note-vole impegno di ricerca.