Petali di piombo

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Giovanni Davide Piras, narrativa

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GIOVANNI DAVIDE PIRAS

PETALI DI PIOMBO

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PETALI DI PIOMBO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-463-5 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Novembre 2012 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

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a Ginevra, che venendo al mondo ha reso ordinarie tutte le gioie successive della mia vita;

a Barbara, l’unica; a mia madre, perché c’è;

a mio padre, fin dall’inizio il solo a credere fortemente nella mia passione, e senza il suo sostegno questo libro non esisterebbe;

a chi è vissuto e a chi è morto nelle miniere.

Grazie!

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Petali di piombo è un’opera partorita dalla fantasia dell’autore. Riferimenti a persone o fatti realmente accaduti sono da attribuire alla pura casualità. Tuttavia i luoghi, i costumi, le usanze, le descrizioni, i cenni e gli avvenimenti storici fanno parte della verità di quel periodo. Il campo di concentramento di Pertzogiu, che secondo le notizie si trovava dove sorge l’attuale aeroporto di Fertilia nei pressi di Alghero, compare in molte liste di riferimento sui campi nazisti della seconda guerra mondiale. Sul suo utilizzo però non si hanno informazioni certe e tutto ciò che lo riguarda è stato da sempre un e-nigma irrisolto; c’è chi addirittura dubita fortemente della sua effettiva esi-stenza. L’ingegnere Filippo Minghetti, Alberto Castoldi, Giovanni Antonio Sanna e sua figlia Zely, oltre ad altre figure memorabili del periodo fascista, sono esi-stiti realmente, ma nessuna delle azioni da loro compiute nel romanzo è cor-rispondente a episodi di vita testimoniata( fanno eccezione le notizie docu-mentate che esulano dalla trama del libro). L’autore Giovanni Davide Piras, con sapiente abilità narrativa, ha scelto di conservare i nominativi originali di questi personaggi, impregnando così la storia con una forte caratterizza-zione territoriale che solo un’isola arcaica e misteriosa come la Sardegna può dare. Il resto dei personaggi fa parte della sua creatività. In questo gioco solo in apparenza squilibrato, in cui il reale si mescola e si sovrappone continuamente all’immaginario, si cristallizza il perno attorno al quale ruota l’intera trama: la sofferenza di chi ha vissuto a quel tempo nelle miniere. È questo l’aspetto più tangibile di tutto: il rapporto più alto della disperazione umana al quale si dovrebbe sempre far riferimento per misura-re la felicità di un’esistenza.

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A volte il vincitore è un sognatore che non ha mai mollato

Jim Morrison

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1 Gennaio 1937 L’oscurità aveva trascinato con sé un umido penetrante, di quelli che indo-lenziscono le ossa fino al midollo. Il bosco, muto e tetro, comprimeva i due lati del sentiero. Le cime dei sugheri parevano pendere le une verso le altre, dando vita a un tunnel oscuro di cui non si poteva immaginare la fi-ne. Solo l’impeto di un torrente intaccava il carattere taciturno della notte. Regnava il silenzio solitario dei sordi, acre come il fumo di leccio che si sprigionava dai comignoli di pietra delle case, unica presenza di vita nelle sere invernali di Montevecchio. “Qui c’è al massimo un metro d’acqua!” Quella voce vomitata dalla gola sassosa del monte Linas frantumò la quie-te. In quell’attimo, Emilio imboccava il sentiero, ma non poteva udire l’avvertimento, era ancora distante. Faceva freddo. Aneliti di vapore si sprigionavano dalla sua bocca, innal-zandosi nel buio come segnali di fumo indiani. La tuta da lavoro che in-dossava era di un tessuto sottile che non poteva sconfiggere l’imminente gelata. Tra qualche ora gli sarebbe parso di trovarsi disperso in una ban-chisa. Al risveglio, le campagne sarebbero state di un biancore artico. Solo in apparenza agghindate con abiti natalizi, trafitte in realtà da coltelli di ghiaccio destinati a squarciare l’idea di quel mantello di neve. Talvolta le gelate mattutine erano così consistenti da permettere che la gracilità dei bambini passasse sopra pozzanghere d’acqua senza scalfirne la superficie ghiacciata. Emilio si infilò le mani in tasca prima che il freddo gli strappasse ogni scampolo di sensibilità. Durante i mesi invernali, spaccature profonde gli ricoprivano mani e labbra, sanguinando in continuazione come stigmate; martoriandolo più delle cinghiate che aveva preso in gioventù da suo pa-dre. Quando si denudava, il suo corpo sembrava la statua di Cristo portata in giro nella processione del venerdì santo. Cespugli che venivano mossi, si spostavano con trambusto.

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Emilio fu travolto da un brivido. D’istinto ripiegò il collo tra le spalle per proteggersi da un freddo che neppure il tessuto più rovente sarebbe riusci-to a mitigare: un gelo proveniente dall’anima. Silenzio, forse era stato solo un cinghiale. Emilio reagì all’intirizzimento e si smosse, poco convinto in verità, ma lo fe-ce. I suoi piedi erano gonfi come le mammelle delle vacche al mattino. Non gli dolevano così da quando a otto anni aveva rincorso in mezzo alla spina tedesca la pecora più testarda del gregge che tziu Boreddu gli aveva dato in consegna. L’animale aveva sconfinato i pascoli di Boreddu e si era infilato a ruminare in un campo di cavolfiori. Quel terreno apparteneva a Omero Gal-lus, un poco di buono che prima sparava e poi domandava “chi è ?” Emilio aveva corso veloce a piedi scalzi sulla spina tedesca e bestemmiato a denti stretti. A ogni passo gli era sembrato di calpestare uno dei porco-spini che razziavano i frutti del perastro imbastardito. Quando aveva rag-giunto la pecora era furibondo. L’aveva presa a calci in faccia così tante volte che la bestia aveva terminato i suoi giorni masticando l’erba con le gengive. Non molto distanti da lui, una ventina di uomini formavano una catena uma-na. Tiravano a fatica una grossa corda che si perdeva sul ciglio di un fossato. La spaccatura creatasi nella montagna era profonda più di otto metri. “Oh, is-sa!Oh, issa!” scandiva il gruppo a ogni strattone. Alla corda era appeso il bri-gadiere Podda, che pesava quasi settanta chili. Il piccolo corpo che teneva stretto al suo petto, invece, ne pesava al massimo venti: era la carcassa di un bambino di cinque anni rimasta a mollo in un metro d’acqua per due giorni. Il volto del brigadiere emerse dalla crepa. Sosteneva quelle spoglie minu-scole con un abbraccio straziato. Una catenina d’oro con appeso il croci-fisso cadde dal capo penzolante del piccino, rimbalzò due volte sulle pare-ti della cavità, tintinnando e rilucendo nell’aria. Prima di eclissarsi nell’acqua, i riflessi delle maglie dorate infilzarono gli occhi del mare-sciallo Pietro Troise, che provò quasi dolore nel contrasto tra le sue pupil-le assuefatte alle tenebre e quel lampo-luce che accecava come una salda-trice. Ranieri Scintu e Calistru Puxeddu afferrarono per un braccio il brigadiere e lo tirarono fuori dal buco. L’acqua gli gocciolava dalle maniche, ma il ticchettio insistente che si udiva erano i suoi denti che battevano per il freddo. Adagiò con cura il corpo del bambino a terra, scordandosi che or-mai il cadavere non potesse più lamentarsi per una manovra brusca. Tito Espis, Paulu Vaccargiu e il resto dei componenti della catena umana, per un attimo, sentirono il loro cuore cambiare ritmo e quasi arrestarsi. A-

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vrebbero preferito cavarsi gli occhi piuttosto di vedere come la morte po-teva ridurre una creatura. «Non ci sono dubbi, il cadavere è di Giuseppino Masala» annunciò il bri-gadiere struggendosi. Il maresciallo Pietro Troise scrutava ipnotizzato quella salma di appena cin-que anni, che della vita conservava solo le scorie. Giuseppino Masala era di un pallore surreale, sbiadito dalla morte come un bicchiere di vino nero an-nacquato. Era sparito due giorni prima, dopo essersi allontanato da suo padre Emilio, un minatore di Guspini che riempiva delle damigiane d’acqua nella sorgente di Sa perdera. Un setter all’inseguimento di una lepre era precipitato nello stesso fossato. Elio Siddi, nel tentativo di recuperare il suo cane, aveva fatto la macabra scoperta fra i monti che accerchiavano il villaggio di Monte-vecchio. E la sofferenza, che da sempre a Montevecchio dava meno scampo delle febbri emorragiche, ora era pronta a infettare Emilio. Anni addietro se n’era ammalato anche il maresciallo, eppure non gli era servito per sviluppare gli anticorpi dell’immunità, e soffriva ancora. Un uomo dall’aria aristocratica si avvicinò al corpo, era il dottor Santi. I suoi baffi bianchi e curati, uniti a una bombetta copricapo, lo facevano apparire più inglese che italiano. S’inserì una lente a monocolo nell’orbita dell’occhio destro, quello dotato di una vista più acuta. L’aveva ricevuto in dono da un rigattiere al quale era riuscito a curare una brutta polmonite. Si chinò sul ca-davere per esaminarlo. Il corpo era gonfio a causa del rigor mortis e limaccio-so per la prolungata esposizione all’acqua. Quelle di Giuseppino erano mem-bra che parlavano di un’esistenza breve e senza rimorso, che non avrebbero mai conosciuto le piaghe del tempo e ignorato le emozioni che la vita sa dare; a volte dolci come le fragole, a volte amare come le mandorle selvatiche, ma sempre pronte a differenziare gli uomini dall’oceano e dai monti, che vecchi come il mondo non si sono mai concessi né un pianto e né un sorriso. Il dottore rialzò la testa. «Ha entrambe le gambe spezzate! ». Sul luogo c’erano minatori, pastori, agricoltori e qualche ambulante. All’unisono lo fissarono atterriti. Erano uomini vestiti di stracci, padri di famiglia che vedevano in Giuseppino i loro stessi figli. «Deve essere caduto accidentalmente. Facendo un volo di otto metri era inevitabile che le sue gambe si spezzassero» aggiunse ancora il dottore. Troise scosse il capo e si coprì gli occhi, posandosi una mano sulla fronte. Giuseppino era caduto spaccandosi le ossa. Aveva provato un dolore di-sumano. Era ancora cosciente sul fondo di quel buco maledetto. Forse a-veva urlato, atterrito, senza che nessuno lo sentisse. Forse aveva cercato di risalire aggrappandosi alla roccia con le unghie. Forse era morto di paura,

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con la sensazione di essere stato abbandonato; e pian piano il buio gli a-veva divorato la luce. Nelle mani non c’erano più le unghie, strappate dalle pietre che Giuseppi-no aveva raschiato fino all’ultimo respiro. Quei pensieri scorsero nella mente di tutti, marchiando a fuoco la loro co-scienza. Le lacrime di Troise ruppero gli argini. «Cristo santo, aveva solo cinque anni!». Il dottore fece fuoco sulla frotta d’individui assiepati intorno al corpo, e-splodendo parole come fossero pallottole. «Con le gambe spezzate non è riuscito a tirarsi su e quel metro d’acqua lo ha fatto annegare. Ha cercato di tenere la testa fuori dall’acqua in ogni modo, le unghie stracciate non fanno che confermarlo». Luigi Zedda, un minatore molto legato al padre del bambino, cercò di tap-parsi le orecchie per non sentire. Le parole del dottore catturavano i sen-timenti più angoscianti. Tra gli astanti non c’erano donne, solo uomini. Singhiozzavano in silen-zio, cercando di non intaccare il loro orgoglio maschilista con la debolez-za di un pianto. Avrebbero spaccato tutto per sfogare la loro frustrazione, ma nei discorsi da osteria non doveva esisterne uno incentrato sulle loro gonnelle da femminucce. Quello che avevano visto avrebbe accompagna-to le loro notti per tanto tempo. Negli attimi che precedono il sonno, con la testa appoggiata al cuscino, avrebbero fatto i conti con se stessi e con i tormenti celati dietro la luce del giorno. Il brigadiere ora era avvolto da una coperta di orbace che gli aveva porto Didu Zara, uno dei più scossi, che tremava come se un cane gli avesse contagiato il cimurro. Resa invisibile da euforbie, lentischi, corbezzoli e mirti, la cavità si era riem-pita con l’acqua piovana. «Qui c’è al massimo un metro d’acqua! » aveva detto il brigadiere. Una misura striminzita da immaginare, ma sufficiente ad ammazzare Giuseppino. Il dottore premette l’addome del bambino e dalla bocca schizzò un fiotto d’acqua putrida. «Non credo che ci sia la necessità di un’autopsia. Le cau-se della morte mi sembrano evidenti» annunciò fissando il maresciallo. Troise annuì con il capo senza avvalorare quel gesto con le parole. Allineò lo sguardo con il brigadiere. «Podda, vada a cercare Emilio. Mi spiace, ma qualcuno dovrà pur prestarsi a questo strazio. Comunichi la scomparsa di Giuseppino». Quelle parole infilzarono il brigadiere come le corna acuminate di Achille, un toro che nessuno era mai riuscito a rabbonire. Ci aveva rinunciato

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anche il padrone, Giaccheddu Gessa, dopo averci rimesso prima le palle e poi anche la moglie. Podda sbuffò scrutando il fondo della cavità e si chiese quali parole a-vrebbe usato per raccontare a una madre e a un padre che il loro unico fi-glio non sarebbe mai più tornato a casa. Giuseppino era morto a soli cin-que anni, con poche pecore munte e tante picconate ancora da sferrare nel-le miniere. Per un genitore sarebbe stata una pena atroce vivere sapendo di non essere riuscito a proteggere un figlio. «Se avessi avuto i soldi per farlo stare a casa!» «Se non lo avessi mai portato a prendere l’acqua!» «Se avessi saputo che sarebbe andata così, non lo avrei mai neppure concepi-to! », si sarebbero ripetuti i suoi genitori per tutta la vita, dilaniandosi dal do-lore. Ma invece avrebbero dovuto ringraziare per quei cinque anni d’intenso amore vissuti con Giuseppino, piuttosto che cento anni vissuti serenamente senza averlo mai conosciuto. Purtroppo, quell’unico istante in cui avrebbero compreso di non avere più il loro bambino, poteva congelarsi sotto la ghiac-ciaia della sofferenza e durare fino all’eternità. Il brigadiere s’aggrovigliò ancor di più alla coperta di orbace: il compito che doveva eseguire lo paralizzava più dell’acqua gelida di cui era zuppa la sua uniforme. Una carezza di vento sfiorò Emilio. Se ne meravigliò, avrebbe giurato che il cielo limpido e la temperatura rigida non potessero concepire la compa-gnia della tramontana. Per ora si trattava solo di una brezza. Voci, prossime, indistinguibili. Alcune sagome, schiarite dalla luce giallastra delle lampade, apparvero e scomparvero tra le fronde dei lecci appena turbate dal vento. Emilio spa-lancò gli occhi e deglutì con sacrificio la saliva. Era in giro per i boschi da quasi due giorni e aveva visto solo impronte di volpi e cinghiali. Di suo figlio non c’era neppure l’odore di sterco ovino che ne impregnava i vestiti dopo le visite all’ovile di tziu Boreddu. Quel nugolo di persone non gli piaceva per niente, gli faceva presagire l’irreparabile. Rallen-tò il passo, camminando sgraziato tra gli arbusti; ormai era fuori dal sentiero. Il maresciallo Troise lo vide far capolino da un anfratto ed ebbe uno scatto istantaneo che non gli diede neppure il tempo di pensare. Sussurrando in maniera concitata disse: «Cristo santo, è Emilio. Coprite immediatamente il corpo di Giuseppino. Un padre non può vedere questo scempio». Il brigadiere Podda si divincolò dall’abbraccio caldo dell’orbace e adagiò il drappo sul corpo di Giuseppino.

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Il maresciallo gli abbozzò un sorriso, poi si voltò facendosi incontro allo sfortunato minatore. «Siete fortunato brigadiere, parlerò io con Emilio». Il volto di Emilio fu illuminato da un cono di luce proveniente da quelli che sembravano i fari di un’automobile. Il frastuono del motore con il cambio in folle faceva compagnia. Aveva gli occhi spiritati. La sua faccia rivelava tutto: sapeva già quello che era successo, ma fingeva di non ac-corgersene, sperando di risvegliarsi altrove con un bernoccolo in testa e lo stomaco leggero come i farfalloni gialli e neri che svolazzavano in prima-vera. Il maresciallo abbassò lo sguardo fissando le scarpe acciabattate del minatore. «Questa non è gente povera, ma morta di fame» pensò dopo aver visto spun-tare l’alluce dalla suola di Emilio. «Ciao, Emilio! », lo salutò, poi gli strinse la mano. Era fredda come il mare di Piscinas di quei tempi. Davanti al cofano anteriore dell’automobile, eretti come statue di marmo, gli anelli della catena umana ormai sciolta osservavano rattrappiti la con-versazione. Emilio stentava ad allentare la presa dalla mano del maresciallo, che calda e rigenerante ridava flusso al suo sangue ibernato. «Avete ritrovato Giuseppino?». Troise sospirò, i suoi occhi erano lucidi. «Sì, l’abbiamo trovato» . Il volto di Emilio divenne inespressivo; aveva già notato l’adunata di per-sone e il loro silenzio tombale. «Mio figlio è morto, non è così?». Il maresciallo fu spiazzato da quella domanda così schietta e strabuzzò gli occhi. Posò una mano sulla spalla del minatore e non ci fu necessità di ul-teriori conferme. Emilio si lasciò andare battendo violentemente le rotule sul terreno. Didu Zara girò la faccia provando dolore per lui. Le ginocchia di Emilio erano finite contro uno spuntone di granito, altro che spina tede-sca. Emilio si ficcò un pugno in bocca per contenere il gemito che bramava d’uscire. «Posso vederlo?» chiese con parole miste a versi che sembrava-no i ragli di un asino. Troise fece una smorfia di disappunto. Dal torrente turbinavano vapori che s’infittivano in una banchiglia di nebbia opaca. «No! Se posso darti un consiglio, credimi, è meglio di no. Ti tortureresti vedendolo, ricordati di tuo figlio da vivo. Non lasciare che la sua immagi-ne da morto ti tormenti per sempre distruggendo tutti i bei ricordi. Io so bene che accade questo!».

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La pelle scura del cielo era tempestata da lentiggini dorate che si spec-chiavano nella crepa della morte. Emilio si coprì il volto con entrambe le mani. «Voglio vedere almeno dove è morto, come è morto» sbraitò innal-zando il tono della voce. Troise sospirò. L’uomo che aveva davanti era un manichino che si muo-veva senza controllo. «Vieni, ti accompagno!». Giunsero agli orli del fossato. Emilio neppure lo vide, era concentrato ver-so il fagotto d’orbace che il brigadiere cercava di schermare con la sua fi-gura. Troise prese Emilio per un braccio e cercò di trascinarlo lontano dal corpo di Giuseppino. «Andiamo, Emilio, lascia stare, ti mostro cosa è successo». Ma il destino aveva deciso implacabilmente che i tempi erano ormai ma-turi. Armò la mano del vento, incaricandolo di svelare a Emilio il corpo di suo figlio. Una folata improvvisa si abbatté su Montevecchio, costringen-do anche gli alberi a chinarsi per vedere da vicino la morte. Un lembo del drappo bianco vibrò nell’aria, rigonfiandosi come la vela di un vascello. Un’altra raffica e la stoffa fu spazzata via; andò a incagliarsi tra i rami più alti dei sugheri. Il cadavere di Giuseppino si esibiva con crudezza davanti agli occhi in-creduli di suo padre. Era gonfio. Un paio di pantaloni corti in fustagno e una giacchetta di cotone, ridotti a un ammasso di strofinacci, lasciavano scoperte le manine luride e i piedini scalzi. La gamba sinistra era ripiegata innaturalmente in più parti e la pelle pareva un sacco di iuta ricolmo di polvere d’ossa. Sotto il ginocchio della gamba destra, la carne aveva una profonda lacerazione che sputava fuori schegge di tibia e perone. Una so-stanza viscosa e biancastra, forse muffa, foderava il suo viso, ma non gli occhi: neri e profondi come le gallerie che Emilio aveva picconato per una vita intera, immobili e inespressivi, ammantati dalle pupille: due globi o-scuri simili agli occhi di uno squalo. Un vagito si alzò verso la luna, divenendo una nenia di desolazione. Era il pianto di un padre, la disperazione di Emilio. Volti lacerati con mani tra i capelli assistettero allo spasimo di un uomo di-strutto. Emilio prese in braccio il corpicino morto di suo figlio e lo cullò, ur-lando e bagnandolo con le sue lacrime colpevoli. Una distrazione. Poi un me-tro d’acqua. Era stato un solo misero e insignificante metro d’acqua ad am-mazzarlo. Il giorno seguente, al centro del misero soggiorno di casa Masala, il cada-vere di Giuseppino era disteso all’interno della piccola bara bianca imbot-tita con dei cuscini di velluto rossastro. Era sostenuta da quattro scanni

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impagliati. Una credenza zoppa pendeva verso la porta d’ingresso. Alcune candele erano state sistemate senza logica per la stanza. Intorno a Giusep-pino c’era tanta gente e qualcuno aveva anche sollevato il velo trasparente per toccarlo un’ultima volta. Qualche ora addietro, Emilio e sua moglie Maria lo avevano potuto vede-re da soli. Lo avevano lavato con acqua calda e un piccolo pezzetto di sa-pone. Avevano usato delicatezza, amore, ripetendo un rituale compiuto centinaia di volte quando Giuseppino era un neonato in fasce. La muffa bianca che gli copriva il viso era andata via con una strofinata energica. Dopo di che sembrava il solito Giuseppino, solo un po’ ingrassato dal gonfiore, per questo si era deciso di non chiudere il feretro durante la ve-glia funebre. Lo avevano vestito con pantaloni di cotone, lunghi, per co-prire le sue gambe sfasciate, e una camicia di seta bianca che in vita aveva usato solo per due matrimoni. Le scarpe erano stati costretti a chiederle al fratello di Emilio. Giuseppino ne possedeva solo un paio, vecchie e inuti-lizzabili per vagare nell’aldilà. Per tutto il tempo erano rimasti entrambi di fianco a loro figlio, incapaci di guardarsi in faccia e scorgere negli occhi dell’altro la disperazione più profonda. Forse proprio per questo, Maria, dopo il lungo silenzio di rifles-sione, aveva aperto gli occhi del bambino. Sperava di trovare qualcosa di diverso rispetto al buio che si era preso lo sguardo di suo marito. Ma ave-va visto solo il vuoto in quegli occhi che la fissavano e sembravano ac-corgersi di lei. Era solo una percezione fittizia: Giuseppino non vedeva altro che gli angeli. In un villaggio dove la media era di sei o sette figli per famiglia, i coniugi Masala avevano scelto di far conoscere la fame e la povertà solo a Giu-seppino. Eppure ora avrebbero dato cuore e anima per poter piangere sulle spalle del sangue del loro sangue. La sofferenza per la scomparsa di Giu-seppino sarebbe stata incancellabile, ma la felicità di poter comunque a-mare un altro figlio avrebbe ammantato come una tenue nebbiolina l’oscura pietra del dolore; quella nebbiolina era stata spazzata via per sempre cinque anni prima, quando la decisione di non concepire altri bambini aveva preso le sembianze del vento. Prima d’andar via avevano pianto e finalmente il coraggio di guardarsi negli occhi si era profuso nel loro intimo. A differenza di Emilio, Maria non aveva visto solo disperazione. C’erano anche dolci ricordi da custodi-re a chiave dentro di sé, pronti per essere tirati fuori nella cupezza che a-vrebbe disseminato la sua vecchiaia. Nella vita terrena il supplizio per la morte di un figlio non sarebbe mai potuto svanire, ma i ricordi potevano renderlo meno oppressivo.

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Emilio e Maria avevano baciato Giuseppino. Quell’ultimo contatto con la pelle del loro bambino era stato uno strazio. Maria era svenuta e aveva ri-schiato che la bara le cadesse addosso. Emilio tremava di dolore e rabbia. Stringeva i pugni fino a conficcarsi le unghie nei palmi delle mani. Di chiudere il feretro e confinare per sempre Giuseppino nel buio si sarebbe occupato uno zio, per loro era già stato troppo vederlo così: morto e fred-do, addormentato di un sonno profondo ma apparentemente pronto a ri-svegliarsi. Fecero a meno di pagare una prefica per piangere il defunto, furono suffi-cienti le urla lancinanti di chi gli aveva voluto tutto il bene del mondo.

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2 Quattro anni più tardi, i lamenti della veglia funebre erano l’ululato della sirena, che echeggiava fino all’ottavo livello del pozzo Amsicora. Quel suono s’infiltrava fino ai cantucci più impervi delle miniere di Montevec-chio. Appese alle pareti della galleria, le lampade a carburo sprigionavano ba-gliori filiformi che intersecandosi tessevano una ragnatela di luce. Due ombre bislunghe si proiettavano sul terreno di ciottoli. Emilio Masala scrutava perplesso lo sguardo del suo più fidato compagno: Luigi Zedda, lo stesso tipo allampanato che qualche anno prima si era tappato le orec-chie per non udire le parole cruente del dottor Santi. L’espressione di Lui-gi era scaltra. Scrollò le spalle standosene zitto. Emilio e Luigi figuravano tra i pochi che fossero riusciti a tenersi il nome di battesimo. Babbo Tainei e babbo Isanzu avevano dato loro il nome dei nonni, proseguendo una stirpe che a generazioni alterne si sarebbe estinta solo quan-do il seme non avrebbe dato più figli maschi. A Montevecchio se ti chiamavi Carmine diventavi Gramminu, a meno che non fossi più basso di un metro e cinquanta, e allora saresti stato Grammineddu. Se ti chiamavi Felice diventavi Ciu, se invece di nome facevi Raffaele eri condannato a essere Arraffiebi. Da sempre andava così. Storpiare il nome da Emilio in Emiliu evidentemente non aveva riempito a sufficienza il palato dei paesani, e così Emilio si era tenuto il suo nome. Luigi invece era stato Luizu. Odiava quel nome che lo rendeva più “sardegnolo” di quel che già era. Luizu era durato fino a quando Luigi aveva compreso che i cazzotti funzionassero meglio delle lamentele. Ma a Monte-vecchio c’erano anche cacaredda, conchemallu, pappamusca, nasciustancu e tanti altri, che avevano ereditato il nomignolo di famiglia. Emilio era di Gu-spini e il suo soprannome peideproccu non lo aveva seguito fino a Montevec-chio. Luigi invece era uno de is puligheddas, le mezze seghe, nomignolo af-fibbiato a suo trisnonno, perché si diceva che fosse talmente debole, pigro e svogliato da dover chiamare la moglie per farsi reggere l’uccello quando pi-sciava. Il motivo per cui nessuno chiamava più Luigi con il nomignolo puli-gheddas era lo stesso che aveva fatto scomparire Luizu. A Montevecchio ti sentivi chiamare con il tuo vero nome dopo pochi giorni di vita, in braccio a tuo padre di fronte al funzionario dell’anagrafe.

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La seconda volta che accadeva era la voce di un prete a pronunciarlo, per il battesimo. Due sole volte in tutta la vita, tre per chi si sposava. Dopo di che ti chiamavano con il nome di battesimo per l’ultima volta: tu c’eri, ma non potevi sentirlo, perché la bara del tuo funerale era di legno robusto. Dopo la morte di Giuseppino, Luigi aveva mostrato il suo lato filantropi-co. Era l’ultimo di cinque figli maschi partiti tutti in America già da anni. Non era sposato e l’unica persona a cui potesse prestare attenzioni era sua madre. Gli morivano fra le mani anche i pulcini di colombo. Non era mai stato bravo a badare a niente e forse per questo motivo aveva sentito la necessità d’aiutare qualcun altro. Maria, la moglie di Emilio, era stata me-no forte di quel che s’aspettava d’essere e non era riuscita a lasciarsi alle spalle la perdita del figlio. Si era buscata un esaurimento nervoso. Per starle vicino, Emilio era stato costretto a perdersi numerose giornate di la-voro e aveva rischiato d’essere cacciato via dalle miniere. Lo avrebbero certo fatto se Luigi non lo avesse coperto con le sue frottole. «Ma quanti nonni ha questo Emilio? » aveva chiesto il caposquadra a Luigi, in una di quella assenze. In quel periodo a Emilio era morto il nonno cinque volte, la nonna quattro e almeno una volta ciascuno la sua dozzina di zii e cugi-ni. Aveva anche passato di tutto: dal morbillo al colera. Terminato il cam-pionario di malattie, Luigi era arrivato a dire che Emilio si fosse preso la peronospora. «Ma la peronospora non è una malattia delle viti?» aveva chiesto meravigliato Giaccio Statzu, l’addetto al controllo delle tessere fa-sciste. «Appunto, Emilio ha bevuto un bicchiere di vino ottenuto da mosto con-taminato e si è preso la peronospora» aveva risposto Luigi. Giaccio Statzu non aveva neppure la prima elementare e credeva ancora che la terra fosse piatta. Se qualcuno gli avesse raccontato che sulla cima del monte Linas crescevano le arselle sugli alberi, lui sarebbe corso a rac-coglierle con un coppo legato ai fianchi. Da quella volta bastava offrirgli un bicchiere di vino per farlo fuggire tra i rovi a gambe levate. Quando non se l’aspettavano più, Maria era rimasta incinta ed era nato Franco. A Montevecchio, tutte le volte che nasceva un figlio era un nuovo germoglio di speranza; un pugno di terra umida tra le mani di un contadi-no dopo anni di siccità. Maria aveva trent’anni, dieci meno di Emilio. Il suo sedere era rimasto sodo anche dopo la gravidanza e le tette, ora che allattava, si erano gonfia-te ancora di più. A Montevecchio se un uomo vinceva sua moglie di dieci anni, e arrivava un secondo figlio a distanza di tanto tempo, il minimo che si poteva fare era attribuire a terzi quella gravidanza. Si era detto che quel

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bambino fosse di Luigi, poi dell’arganista, poi del macellaio. Le voci era-no cessate solo quando gli occhi del piccolo Franco avevano preso l’inconfondibile colore verde smeraldo di quelli di Emilio. «Suo figlio è! Eccome se lo è!» era stato il commento delle cornacchie pettegole e vesti-te di nero. Emilio e Maria avevano anche pensato di chiamare il bambino Giuseppi-no, ma sarebbe stato come cercare di rimpiazzarlo. Emilio aveva nascosto a sua moglie il vero motivo per cui non poteva accettare quel nome: ogni volta che avrebbe chiamato il bambino con quel nome, si sarebbe ricorda-to che Giuseppino non c’era più; e non c’era più per colpa sua, che per due damigiane d’acqua se l’era perso di vista. Per la prima volta. Per l’ultima volta. In tutti quei quattro anni, Luigi era stato sempre di fianco alla famiglia Masala senza chiedere niente in cambio, a parte i sanguinacci di maiale con l’uva passa e le mandorle che Maria gli mandava tutti i mesi di novembre. Alle spalle di Emilio e Luigi spiccava un calendario leggermente rammol-lito dall’umidità. Le sue righe sintetizzavano le esistenze dei minatori, scarabocchiato con appunti sulle ore lavorate, quantità di metalli estratti e croci di contrassegno. Queste erano in effetti le loro vite: il piombo e lo zinco delle miniere, la loro estrazione, le croci sul calendario, un giorno in più vissuto e uno in meno da soffrire. L’ultima di quelle croci indicava la data del 10 giugno 1941. Era trascorso un anno esatto da quando a Roma il duce Benito Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, aveva annuncia-to l’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Un anno: perio-do nel quale gli oltre tremiladuecento minatori che popolavano Montevec-chio avevano tentato d’istruire i propri timpani a distinguere la diversa ri-sonanza della sirena. Prima della guerra la sirena aveva annunciato solo le morti bianche, ma ora era tutto diverso. Le esercitazioni d’evacuazione si susseguivano ed era necessario imparare alla svelta a distinguere il suono d’allarme più ostinato, che invitava tutti a rintanarsi nel rifugio di Gennas, scavato nel cuore del monte Orefice. La Sardegna non aveva ancora cono-sciuto fino in fondo gli orrori della guerra, ma era solo una questione di tempo. Emilio e Luigi non ebbero neppure la possibilità d’incrociare una seconda volta i propri sguardi. Un’orda di minatori impauriti sbucò dalle viscere del quinto livello, dissipando definitivamente i dubbi sul reale significato della fastidiosa melodia. Emilio s’infilò in mezzo al gruppo riuscendo a essere tra i primi davanti all’ingresso della gabbia metallica. Luigi ebbe meno fortuna e fu costretto in fondo alla fila.

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La gabbia metallica era il mezzo di trasporto utilizzato per muoversi nei vari livelli della miniera. Sei corde dall’anima d’acciaio s’intrecciavano in un’unica fascia larga. Era l’unico appiglio che impedisse alla gabbia me-tallica di precipitare. Era stata testata in modo approssimativo per il tra-sporto massimo di nove operai. Quell’imprecisione faceva stringere il culo a tutti meno che a Farrucciu Altea, il becchino del cimitero. Nelle profon-dità inesplorate della miniera, anni di cadute avevano creato un piccolo ossario umano capace di semplificare il lavoro in camposanto, e Farrucciu si era potuto dilettare nell’arte che più gli piaceva e più gli riusciva: far nulla dalla mattina alla sera anziché farsi venire l’ernia del disco a scavare fossati o a trasportare morti in spalla. Il livello in cui si trovavano bloccati i minatori era situato a centocin-quanta metri di profondità dall’uscita del pozzo; una distanza ampia, ep-pure meno incolmabile di quella che li separava dalla felicità di una vita tranquilla, senza fame e guerra. I minatori pregavano il Dio dei cieli, ma era Foffu Dessì il loro Dio in terra. Foffo faceva l’arganista ed era l’unico ad avere le capacità di guidare un im-ponente argano meccanico. Una sua manovra errata poteva spazzare via le vite dei passeggeri traghettati in quell’ascensore per l’inferno. L’argano veni-va alimentato da un compressore Sullivan potentissimo e, come tutte le cose all’avanguardia, proveniva dagli Stati Uniti. La sua forma era simile a una lo-comotiva e dipinto di un nero smarrito incuteva timore; ascoltare le sue sbuf-fate portava la mente a un viaggio lontano, fino ai geyser islandesi. Il telegrafo gracchiò. Foffo contemplò quel marchingegno d’antiquariato e alzò lo sguardo in segno di resa. Per comunicare gli era stato promesso un te-lefono, anche se ormai si era rassegnato all’idea di riceverlo per il mese di ot-tembre. Foffo si serviva del codice morse e aveva la possibilità di tenersi in stretto contatto con Gigi Medda, Toti Pinna, Loi Burroi, Chicco Frau e altri, che di mestiere facevano gli ingabbiatori. Toti Pinna, fuori dalla miniera, ave-va otto cani da caccia. Li teneva liberi in un terreno cinto dal filo spinato, per fare la guardia alle galline che razzolavano allo stato brado. I cani erano i re-duci di una cucciolata addestrata con i calci a non toccare i pennuti; quelli che mancavano all’appello, dopo aver assaggiato la carne di pollo,avevano fatto la conoscenza dei fratelli fucile e piombo. Quando i cani abbaiavano più del dovuto, Toti li prendeva a frustate con una pertica e poi li rinchiudeva in una gabbia di lamiera e reticolato. «Se non abbaiate non vi faccio salire nella gabbia» si era abituato a dire scher-nendo i minatori al posto dei suoi cani, e si aspettava davvero che da un momento all’altro abbaiassero. Dal giorno che Boricheddu Satta, dopo a-

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ver abbaiato, gli aveva poi morso un braccio lasciandogli come ricordo il tatuaggio della sua dentiera, Toti non aveva detto più niente. Foffo Dessì per nulla al mondo avrebbe tirato su la gabbia senza aver pri-ma ricevuto l’ordine da uno degli ingabbiatori. I minatori si ritirarono rapidamente su due file come le acque al passaggio di Mosé. Camminando a rilento, sicuro che senza di lui la gabbia non si sarebbe mossa di un centimetro, apparve il caposquadra più esperto della miniera. Anche Toti Pinna si scostò, l’anzianità andava rispettata. Il capo-squadra lo puntò dritto negli occhi. Gli stessi minatori ,che fino a pochi istanti prima si erano quasi presi a pugni per conquistarsi la precedenza sulla gabbia metallica, improvvisamente tacquero e la conversazione del caposquadra riecheggiò come i guaiti dei cani di Toti Pinna nelle notti di luna piena. «Si tratta di un vero allarme bombardamenti oppure è la solita esercitazione? Vorrei saperlo perché ci sono delle cariche esplosive pronte a brillare» chiese in maniera seccata. Toti Pinna tergiversava, non sapeva cosa rispondere. Quella mattina gli era stato comunicato che ci sarebbe stata un’esercitazione, ma gli ordini della di-rezione, la “Montecatini – Montevecchio ”, erano stati chiari: le esercitazioni valevano come i bombardamenti ed era necessario preservare il materiale u-mano. «Mi spiace, Secci, a questa domanda non posso rispondere. Tra trenta se-condi mando su la gabbia. Preparatevi!». A un vecchio marpione come Antonio Secci, caposquadra da oltre trenta-cinque anni, bastarono le poche parole dell’ingabbiatore per comprendere che si trattasse di una esercitazione. Voltò le spalle al pertugio in cui ave-va sede la gabbia per il trasporto e annunciò: «Ragazzi, è la solita eserci-tazione, perciò salite sulla gabbia nove per volta e fatelo tranquillamente, tanto i francesi o gli inglesi non ci infileranno un razzo nel culo neppure oggi». Un brusio si dipanò lungo le gallerie; era una risata rinfrancata dall’esilarante battuta. Anche Toti Pinna rise, eppure c’era così poco da gioire. La vita in miniera non lasciava molto spazio ad altro e la paga non permetteva stravizi. Un operaio generico che avesse stipulato un contratto fisso a ore percepiva la miseria di venti o venticinque lire al giorno, ma almeno aveva la facoltà di poter battere ogni tanto la fiacca. Zemiro Bian-cu, ad esempio, era famoso per riuscire a imboscarsi anche dentro le tane dei topi. Emilio Masala e Luigi Zedda appartenevano invece alla catego-ria dei cottimisti ed erano pagati in base alla quantità di metalli estratti. Per ottenere una paga dignitosa lavoravano come schiavi. Capitava talvol-ta di trovarsi a scavare in venature talmente povere di metalli che per non

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perdere la giornata era necessario trattenersi anche per tredici o quattordici ore all’interno del pozzo. Una volta Emilio era stato dato addirittura per disperso. Le continue esercitazioni gravavano proprio sulle spalle dei cottimisti, che vedevano di giorno in giorno ridursi le quantità di metalli estratti a causa del tempo buttato. Cianu Farris era uno dei pochi felici per quelle interru-zioni. Lui era un manovale con il contratto a ore e passava l’intera giorna-ta a spezzarsi la schiena frantumando blocchi di granito con una mazza appuntita da sette chili. Non era affatto dispiaciuto di sospendere il lavoro per qualche tempo. «Dio glielo paghi! » esclamò sorridendo. Luigi lo accusò.«Tu sì che stai bene. Tanto lavori o non lavori lo stipendio ti arriva lo stesso». Il sorriso fece presto a svanire dalla faccia sporca di Cianu. «Se vuoi da domani facciamo a cambio». «E quale sarebbe il problema? ». Cianu fece una smorfia disgustata. «Voi cottimisti siete tutti uguali. Cre-dete di lavorare più degli altri. Tu se ti dai da fare porti a casa una buona paga, io invece posso anche ammazzarmi che non prendo una lira di più». Luigi rincarò la dose. «Io non ne ho ancora visto uno di voi ad ammazzar-si di lavoro. Mi sembra che abbiate inghiottito tutti un bel palanchino di ferro». Cianu sbuffò stizzito. «Che cazzo stai dicendo? Che cosa c’entra adesso il palanchino? ». Luigi cercò complicità nello sguardo degli altri cottimisti che assistevano al diverbio, e la ottenne. «Il palanchino che avete inghiottito è rigido e vi impedisce di piegare la schiena» spiegò. Ci furono risa soffocate, tutte dei cottimisti. «Pensala come vuoi. Ti auguro di non provare mai a frantumare blocchi sotto il controllo di tziu Saba. Quel vecchiaccio è un pazzo, non ci dà neppure il tempo di alzare la testa. Sembra non voglia saperne di andarsene dalle minie-re». Luigi rise, immaginandosi una schiera di manovali costretti a lavorare guar-dandosi i piedi, con tziu Saba che li controllava stringendo in mano un nerbo per frustare i cavalli. Strizzò l’occhio. «Non scaldarti Cianu, volevo solo punzecchiarti un po’». Cianu sorrise a sua volta, ma si vergognò d’essere ricaduto nell’ennesimo tranello di Luigi. Toti Pinna assicurò la catenella che voleva essere di sicurezza e girò la manovella del telegrafo per quattro volte: era il segnale. L’argano mecca-

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nico si mise in moto. La fascia, stretta dal fonema allarmante che il peso le imponeva, cominciò a spurgare polvere dai suoi pori impercettibili. Emilio faceva parte del primo viaggio. Aveva sempre un minimo di paura: le tratte con la gabbia erano estremamente pericolose. Per infondersi fiducia prese a cantare un trallalleros,canzoni popolari di sfottò in rima. Gli altri mi-natori che viaggiavano con lui trovarono l’idea divertente e tutti assieme into-narono i ritornelli deridendosi a vicenda. Il tempo trascorreva e la tecnologia avanzava, ma giungere illesi a destinazione aveva sempre la fisionomia di un dodici al gioco dei dadi.

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3 Il maresciallo Pietro Troise lasciò in fretta e furia la caserma di Monte-vecchio per recarsi a villaggio Righi, una delle piccole comunità del mon-te Linas che ospitava i minatori e le loro famiglie. Poco prima la gover-nante di casa lo aveva raggiunto e allarmato sulle condizioni di sua figlia Ginevra. Pietro era nato nei dintorni di Caserta. A diciotto anni aveva scelto la vita mi-litare e a ventitré era già maresciallo dei carabinieri. La sua era stata una car-riera fulminea, costruita con tanti sacrifici e, nonostante qualcuno lo potesse pensare, senza nessuna spintarella. Aveva prestato servizio a Napoli con i bat-taglioni mobili, partecipando a molti scontri con le folle dimostranti, che aiz-zate dal fermento politico sapevano essere estremamente selvagge e pericolo-se. Pietro lo aveva testato sulla propria pelle. Aveva fatto del coraggio la sua forza, ma quando l’impero fascista lo aveva spedito alla delicata riconquista di Empoli, era accaduto qualcosa che lo aveva segnato. Era stato accerchiato da centinaia di guardie rosse comuniste e per la prima volta aveva tremato di paura. Da quello scontro era uscito indenne solo il suo fisico; era seguita una fase in cui aveva creduto di poter mollare tutto. Dopo alcuni mesi gli era arri-vata l’ingiunzione di trasferimento in Sardegna. Aveva storto il naso, renden-dosi conto di non essere ancora pronto per la vita tranquilla di paese. Come avrebbe fatto, poi, senza la pizza di suo fratello Ciro e la pastiera napoletana di nonna Rosalia? L’unica cosa che lo rendeva orgoglioso era poter esercitare nella terra in cui era nata la storia della sua divisa. I suoi lontani predecessori erano stati gli uomini dell’armata sarda, scelti come primi carabinieri dell’Italia. Era stato assegnato alla caserma di Terralba, un piccolo paese di cinque-mila anime, anticipando per caso quello che gli sarebbe comunque capita-to più avanti. L’arma dei carabinieri con l’avvento di Mussolini era stata marginata alle zone rurali, mentre cresceva a dismisura la consistenza di milizia e polizia nelle grandi città. Il duce temeva la grande fedeltà dei ca-rabinieri verso il potere monarchico. Pietro Troise rappresentava esatta-

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mente il tipo di persona da cui avrebbe dovuto guardarsi: un uomo tutto d’un pezzo, innamorato della patria e del suo mestiere. Nella tranquillità di quel luogo di provincia aveva conosciuto Barbara. Pietro raccontava che si fossero innamorati ancor prima d’incontrarsi. Il loro era stato un colpo di fulmine, di quelli raccontati nelle fiabe. Si erano sposati dopo appena quattro mesi di conoscenza, defezionando dall’usanza comune che in Sardegna imponeva anni di fidanzamento solo per poter essere accolti senza mormorii in casa dei suoceri. Bernardino A-riu, il padre di Barbara, se l’era legata al dito e aveva perdonato quello sgarro solo quando era nata Ginevra, il dono più prezioso che potesse ri-cevere. Pietro e Barbara erano felici quando passeggiavano con Ginevra in braccio per la piazza del paese gremita di gente. Nelle domeniche d’estate non man-cava mai la gita allo stagno di Marceddì. Bernardino faceva il pescatore. Par-tivano di buon mattino dalla costiscedda con su ciu: una barca senza chiglia adatta per navigare nei fondali bassi della laguna. Su ciu era di un legno di-pinto di verde e azzurro. Sulla fiancata sinistra, sotto una cancellatura di tinta nera, recava il nuovo nome che Bernardino le aveva dato: “Ginevra”, così l’aveva ribattezzata. I gabbiani spiccavano il volo dai paletti di legno a cui erano attraccate le barche, e garrivano davanti ai muggini che saltavano fuori dalle acque torbide. Le spallate possenti di Bernardino spingevano i remi nell’acqua scura dello stagno fino a Capo Frasca, la punta più estrema prima del mare aperto. Le al-ghe di posidonia e il muco di stagno rimanevano incagliati nei remi e poi si perdevano dietro la scia della barca. Bernardino affrontava la stessa traversa-ta almeno due volte alla settimana. Dopo quella lingua di terra, dentro le nas-se si pescavano aragoste più grosse degli astici e, se si era ben attrezzati, si potevano prendere all’amo tonni che tagliavano il pelo dell’acqua come delfi-ni. A Capo Frasca l’acqua era cristallina come il distillato di sambuco e la spiaggia così bianca che, con i suoi soffici cocuzzoli, pareva un impasto di meringa lavorato con zucchero fino e albume d’uovo. C’erano giornate in cui il vento africano si portava dietro la sabbia del deserto. Era così bol-lente che impediva di tenere gli occhi aperti e inaridiva le labbra più dei carciofi. Pietro e Barbara rimanevano tutto il giorno in acqua, passandosi di mano in mano la piccola Ginevra. Bernardino li osservava felice. Aveva un fisico slanciato, con i capelli canuti e un viso ancora affascinante, sembrava un atto-re. Al contrario, sua moglie Stelvia era molto simpatica ma incredibilmente brutta. I suoi lineamenti erano spigolosi come quelli di un uomo e i compor-

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tamenti mascolini la rendevano ancor meno femminile. Se avesse messo dei cosinzos ai piedi e indossato pantaloni di velluto con un maglione d’orbace, le sarebbe bastato nascondere la sua lunga coda di cavallo dentro una barritas per essere scambiata per un balente; si sarebbe potuta spingere a sfidare alla morra i pastori del Gennargentu senza destare il minimo sospetto che fosse una donna. Persino lei, che non andava mai oltre l’acqua alle caviglie, pur di tenere in braccio Ginevra esagerava bagnandosi fino al seno. Non che ci vo-lesse poi molto, visto che i settant’anni avevano raggrinzito le sue tette come i pomodori salati e seccati al sole per fare is pibadruas. Dentro la canottiera scendevano così tanto da coprirle l’ombelico. Un altro po’ e sarebbero finite dentro i mutandoni di tela grezza, rendendo difficile capire se fossero in effet-ti tette oppure bisacce. A Capo Frasca la macchia mediterranea scendeva dal colle roccioso e ar-rivava quasi dentro il mare. I buoi rossi non temevano l’uomo e ogni tanto si vedevano passeggiare tranquilli a ridosso della spiaggia. L’odore robu-sto di cisto e tamerice invitava a chiudere gli occhi e ascoltare i sussurri del mare, che con la sua risacca accarezzava la spiaggia e dava pace a ogni cosa. Dietro la spiaggia c’era una grande salina da cui Bernardino non mancava mai di riempire il sacchetto di sale per tutta la settimana. A vederla, la sa-lina sembrava un lago ghiacciato su cui pattinare liberi. Sotto lo strato di sale grosso nascondeva invece una melma che era peggio delle sabbie mobili. Ogni tanto ci rimaneva secco qualcuno dei buoi rossi; le grandi corna dei loro teschi spuntavano dal fango come un avvertimento. Bernar-dino e Pietro, assistiti dagli uomini della famiglia Coa, erano anche riusci-ti a trarne in salvo uno di quei buoi. La vita era meravigliosa. “Che bello sarebbe stato bloccare le lancette del tempo!”, pensava Pietro tutte le volte che riaffioravano quei ricordi. Poi era arrivata la malattia di Barbara. Inaspettata e sconosciuta aveva brucia-to via tutto: sogni, speranze e vite. Non vita bruciata, ma vite, perché quando Barbara era morta, con lei si era dissolta anche l’anima di Pietro. Non era ser-vito a nulla neppure il viaggio della speranza in una clinica nella quale si sta-va studiando questa malattia ignota. Si erano spinti fino in Ungheria, nella cit-tà di Csejthe. Dopo quasi un anno di false speranze e promesse mai mantenu-te avevano deciso di rientrare a casa. Alla malattia era stato attribuito un no-me strano e quasi impronunciabile: epilessia. I pareri dei medici erano discor-danti sulle conseguenze dell’epilessia e non esisteva la certezza che le crisi portassero alla morte. Barbara aveva rischiato di strozzarsi con la sua stessa lingua in più di un’occasione. Eppure la morte era sopraggiunta nel modo più

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beffardo. Pietro aveva trovato sua moglie nel bagno, riversa a terra in una pozza di sangue. Barbara aveva perduto i sensi durante la crisi ed era franata a terra. Il suo cranio nell’impatto con il suolo si era fratturato in più punti senza lasciarle scampo. E tanti anni aveva impiegato la piccola Ginevra per com-prendere che le parole di suo padre non erano altro che un’utopia: sua madre da quel lungo viaggio non sarebbe mai più tornata. Quando si era ammalata Barbara, le notti insonni erano state le compagne di Pietro, che con la testa china sui libri aveva cercato in ogni modo di trovare una soluzione. Molte volte, la mattina, Barbara lo trovava addor-mentato sulla scrivania con la faccia schiacciata sui libri; libri che si sa-rebbero potuti riscrivere mille volte se solo le lacrime di Pietro avessero contenuto inchiostro. Pietro aveva analizzato tante teorie sull’epilessia, alcune delle quali pazzesche o addirittura vergognose. Casualmente si era imbattuto negli scritti di un pato-logo, un certo Cesare Lombroso. Oltre che millantare di poter risalire all’indole più o meno delinquente di un soggetto analizzandone i tratti caratte-ristici del viso, Lombroso sosteneva la possibilità che ogni crimine fosse il risultato di un attacco epilettico collegato con la follia. Ma Lombroso non co-nosceva Massimino Peddis, un fabbro che faceva paura solo a guardarlo, ma che invece portava ogni sera pane e fave all’asilo degli orfanelli. E soprattutto non conosceva Barbara, che bella come un tramonto d’estate ammirato dalla laguna di Marceddì, anziché schiacciare le mosche le inseguiva per tutta la casa cercando d’indirizzarle verso le finestre aperte. “Era questo il crimine collegato con la sua epilessia?”, si era chiesto Pietro. Se non fosse stato certo che gli avrebbero irritato le natiche, dopo aver cacato si sarebbe strofinato il culo con le pagine di quel libro: uno stronzo ripulito dalle stronzate. Tempo dopo, quando stava cominciando ad accettare la morte di sua mo-glie, si era ammalata anche Ginevra e sembrava soffrire dello stesso male sconosciuto che si era portato via la madre. Gli stessi medici che erano stati impotenti durante la lunga degenza di Barbara avevano cominciato ad abbozzare archetipi di cure, più frutto di esperimenti che di fondate ricer-che. Le origini e le cause dell’epilessia non risultavano chiare e lo erano ancor meno le cure in grado di neutralizzarla. La famiglia Troise non era ricca, tuttavia godeva di una situazione eco-nomica accettabile. Tutto inutile, visto che le avvisaglie della guerra ave-vano spazzato via il valore del denaro. I medicinali erano spariti ancor prima che il conflitto si scatenasse. Pietro non era neppure sicuro che sua figlia avesse effettivo bisogno di quei farmaci, ma tanto valeva provare. Da cinque anni era stato trasferito alla caserma di Montevecchio, un vil-laggio di montagna che rendeva ancora più complicato seguire una cura.

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Il maresciallo frenò bruscamente la moto Guzzi verde militare sulla strada sterrata che sfilava davanti alla sua casa; nell’aria si elevò un fitto polve-rone. Con il piede tirò giù il cavalletto parcheggiando saldamente la moto affinché non cadesse. Ma cosa gli sarebbe poi importato di quella moto. Il cuore gli rimbalzava in gola schiacciandogli quasi l’esofago. Viveva con la paura che ogni istante passato con sua figlia potesse essere l’ultimo. I suoi erano gli stessi timori di tante persone: dei figli che vedevano i propri padri recarsi in miniera, delle madri che piangevano mentre i propri figli partivano per la guerra. La fragilità degli esseri umani era crudele: un giorno ci sei, quello dopo chissà. Pietro avanzò veloce fino alla piccola scala che conduceva al pianerottolo d’ingresso. Mise lo stivale su un gradino e si diede lo slancio. Il balzo gli consentì di superare tutti e quattro gli scalini di granito. Atterrò davanti allo stipite della porta. Era aperta. La camera di Ginevra stava in fondo a un lungo corridoio che partiva proprio dall’ingresso. Pietro vide la luce della camera accesa. Percorse quel tratto con la sensazione di non aver po-sato i piedi in terra ed entrò nella stanza. Affannava pesantemente e quasi fu costretto a piegarsi sulle ginocchia per riprendere fiato. La governante se ne stava a un paio di metri dal letto con una mano davanti alla bocca. I suoi occhi erano sbarrati dal terrore. Ginevra aveva le pupille rivoltate all’indietro e i suoi occhi parevano quel-li del diavolo. Una bava schiumosa le fuoriusciva traboccante dalla bocca. Il suo corpo s’irrigidiva a scatti, poi vibrava percorso da mille scosse elet-triche. Era una condannata a morte durante l’esecuzione sulla sedia. Sul fianco destro del letto, il dottor Santi tentava confusamente di rianimarla. Pietro era immobile sull’uscio, pietrificato dagli occhi di sua figlia Gine-vra, investiti per un istante dei poteri della mitologica Medusa. Gradual-mente, il corpo di Ginevra si rilassò e riprese coscienza. Si orinò addosso; a macchia d’olio, l’ombra umida presente nei suoi vestiti si propagò anche sulle lenzuola. Succedeva al termine di ogni crisi che Ginevra se la faces-se addosso, il rilassamento dei muscoli le impediva il controllo degli sti-moli. «Papà, mi è successo ancora!» esclamò Ginevra, con una voce talmen-te fioca da risultare impercettibile. Infatti, a parte un soffocato lamento, la governante e il dottor Santi non sentirono nulla. Non fu così per Pietro Troise, che quando parlava sua fi-glia si trasformava in un essere capace di percepire anche le più basse fre-quenze. Si precipitò di fianco alla sua bambina e le strinse forte la mano,

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sorridendole. «Ciao, stella! Adesso ci sono qua io, non ti preoccupare di niente». Ginevra cercò a sua volta di dare una stretta alla mano di suo padre. Pietro si voltò di scatto a fissare la governante. «Signora Loi, prepari un bagno caldo per mia figlia, la prego. Ha bisogno di rilassarsi e di riposare». La donna annuì e s’affrettò a raggiungere la cucina. Versò dell’acqua in una tinozza di stagno e con un cerino diede fuoco alla fascina di sarmento secco che riposava nel camino, schiacciata da qualche tronco di leccio. Le braci ardenti ci misero poco ad arrivare. Con l’attizzatoio la governante ne spinse un po’ dal fondo del camino verso di lei e ci mise sopra un treppie-de di ferro annerito. La tinozza ce la sistemò sopra a fatica, perché pesava come i sacchi di patate che arrivavano due volte al mese da Guspini. Quando l’acqua fu alla temperatura ideale, la trasportò fino al bagno con un paiolo d’alluminio molto più leggero della tinozza. La vasca fu riempi-ta per metà. «Il bagno è pronto!» chiamò poco dopo. Pietro prese delicatamente in braccio Ginevra e la condusse fino al lava-cro. Ginevra aveva vent’anni, eppure non nutriva il minimo imbarazzo nel mostrarsi nuda a suo padre. Si lasciò aiutare a spogliarsi e quando entrò nell’acqua calda chiese a Pietro di restare con lei. Le piaceva immensa-mente ascoltare i racconti di suo padre mentre lei stava a mollo nell’acqua calda, a soffiare la schiuma dai bordi della vasca. Adorava le storie su Ca-serta e sui parenti lontani, ma preferiva quando Pietro le raccontava ricor-di di Barbara, la madre che quasi non rammentava più. Nei momenti più tristi di sua figlia, Pietro le mentiva raccontandole che alcuni medici erano quasi riusciti a trovare una cura per la malattia. Era una bugia, e Pietro aveva bisogno di esprimerla come Ginevra di sentirla. Lei sapeva che suo padre mentisse, forse per far forza anche a se stesso, e andava bene così. Trovava bello sentirsi dire che sarebbe guarita: un bel sogno. La notte, solo nel suo letto, Pietro piangeva. Piangeva per sua figlia come aveva pianto per sua moglie. Quanto vigliacco era stato il destino acca-nendosi su di lui una seconda volta. Pietro era di statura media, con carnagione, occhi e capelli scuri, agli anti-podi con sua figlia. Ginevra era bellissima, più bella di sua madre. Tal-mente bella che la sua era una grazia oggettiva che si sottraeva alle regole del resto del mondo, per il quale vigeva il cruccio della soggettività. Era alta e con la pelle chiara, ovattata. Lunghi capelli lucenti di nero e grandi occhi verdi che avrebbero fatto perdere la testa a qualsiasi uomo. Pietro si tormentava chiedendosi perché l’energia generatrice avesse profuso così tanta bellezza a una ragazza che non avrebbe mai potuto preservarla vi-

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vendo a lungo. Era uno spreco: c’erano così tante ragazze orrende su cui far ricadere quella croce. «Già sono brutte come la fame, ci mancherebbe che Dio le avesse con-dannate facendole anche epilettiche» lo rimproverava la signora Loi quando Pietro additava le racchie del villaggio. Dopo due anni che si trovavano a Montevecchio, Ginevra all’improvviso non era più voluta uscire di casa. Per tre anni ammirare la sua bellezza era divenuto un privilegio di poche persone: di suo padre, della governante e del medico Santi. Forse stanca, forse consapevole di non poter combattere da sola o semplicemente rassegnata al corso degli eventi, aveva reagito. Aveva ripreso a frequentare Montevecchio, dapprima solo per fare la spe-sa nel locale della cantina, poi aveva conosciuto Daniele Minghetti. Da-niele era il figlio unico di Filippo Minghetti, il capo della direzione delle miniere, l’uomo più potente di Montevecchio. A breve, Daniele e Ginevra avrebbero fissato le nozze. Pietro non era cer-to che sua figlia amasse Daniele Minghetti, eppure caldeggiava fortemente la loro unione: il patto non scritto che Filippo Minghetti gli aveva propo-sto oltrepassava fortemente i suoi dubbi sulla natura di quell’amore. Era vitale che Ginevra e Daniele si sposassero. I problemi erano complicati da nascondere. Pietro ci provava. Ogni gior-no abbandonava la malattia di sua figlia all’interno delle mura domesti-che. Era stato per proteggere Ginevra che aveva rifiutato la comoda siste-mazione adiacente alla caserma di Montevecchio, optando per quella casa in campagna a due chilometri dal paese. La sua vita privata non riguarda-va le oche del paese, avrebbe badato lui a sua figlia senza suscitare com-passione indesiderata. Cullata dalle parole di suo padre e risucchiata dal dolce tepore dell’acqua, Ginevra si addormentò. Pietro contemplò quel corpo angelico e per un i-stante gli parve di rivedere sua moglie. Solo Dio sapeva quanto gli man-casse.

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4 Una lancia ardea nera sfrecciò bruciando i tornanti e lasciandosi alle spalle la stazione ferroviaria privata delle miniere. Alla sua guida c’era Daniele Min-ghetti, il figlio dell’ingegnere. A ventiquattro anni era a un passo dalla laurea in ingegneria, con in dote una corona d’alloro e la lode. Avrebbe seguito le orme di suo padre, così diceva. L’automobile sfilò davanti alle palazzine di villaggio Righi e si fermò poco più avanti. Alcune donne vestite di nero la contemplarono a bocca aperta. Non era la prima volta che la vedevano, ma rimasero comunque ammaliate. In un luogo dove i mezzi di trasporto più frequenti erano biciclette, motocarroz-zette e carri trainati da buoi, una lancia ardea generava sempre commenti lusinghieri che potevano durare per giorni. Daniele spense il motore e scese, serrando delicatamente lo sportello. Acca-rezzò la capotta e ci soffiò sopra, scacciando la polvere che si era depositata. Teneva in modo maniacale a quella macchina. Si era recato di persona alla fabbrica di Bolzano per acquistarla, nel 1939, sulle soglie della guerra. Poi la fabbrica era stata bombardata e quella di Daniele rappresentava uno dei pochi esemplari sfornati prima della catastrofe. La lancia era un misto di classe e potenza: motore a quattro cilindri e trenta cavalli, due posti a sedere e tre por-te, un vero gioiello. Le donne si accostarono all’auto rimandando per un po’ le loro faccende. Fingevano disinteresse e chiacchieravano a poche decine di metri dalla ca-sa del maresciallo Troise. Erano intenzionate a dare una sbirciatina più dettagliata sia alla vettura che al suo conducente. Daniele Minghetti era alto quasi un metro e ottantacinque. La sua carna-gione abbronzata metteva in mostra i capelli biondo cenere e gli occhi ca-stano chiari, occhi da gatto, quasi giallo paglierini, che brillavano limpidi come due gemme d’ambra dorata. Il suo era un viso comune dai tratti leg-geri, ma quei colori placcati lo rendevano molto singolare e, chissà per-ché, lo facevano piacente agli occhi delle donne. I commenti del gruppetto di curiose fecero presto a convergere su di lui. Daniele si accorse degli sguardi ammiccanti. Fece un sorriso e per poco qualcuna non svenne, an-che tra quelle che portavano già la fede al dito. Daniele era lo scapolo di Montevecchio che ogni ragazza desiderava sposare, il prototipo dell’uomo

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dei sogni: alto, bello, intelligente e ricco. Con Ginevra condivideva due cose in particolare: entrambi erano bellissimi, ed entrambi avevano eredi-tato l’aspetto fisico dalle madri. Il carattere, al contrario, era il frutto e-sclusivo dei geni paterni. Il maresciallo Troise emerse dallo stipite d’ingresso. Indossava la divisa e il cappello piumato che non portava mai. Quel giorno aveva deciso di metterlo. Così, senza un preciso motivo. Si era svegliato e guardandosi al-lo specchio gli era sembrato che mancasse qualcosa. Con il piumoso co-pricapo quella sensazione era svanita e aveva deciso di tenerlo. Vide Da-niele e sorrise. Gli occhi del suo futuro genero luccicavano come pepite d’oro. Vestiva un elegante abito nero con cravatta grigia. Un paio di scar-pe in pelle lucida, opacizzate dal pulviscolo del viale, spuntavano dalla base dello spolverino. Faceva caldo, ma gente della sua levatura doveva mantenere un certo contegno anche nell’abbigliamento. L’aria era impregnata di un forte odore dolciastro. La signora Loi stava prepa-rando su gattou: un dolce fatto con pinoli di Montevecchio mischiati in zuc-chero disciolto e lasciato poi raffreddare. Daniele annusò e arricciò il naso ti-rando fuori la lingua. Odiava su gattou. Gli era capitato d’assaggiarlo. Aveva addentato un pezzo croccante di gattou e la dolcezza esagerata gli aveva fatto chiudere gli occhi con una smorfia. Aveva proseguito a sbocconcellare, giusto per non mostrarsi scortese, ma le mani appiccicaticce e i brandelli di pinoli tra i denti lo avevano disgustato. Purtroppo la signora Loi era convinta che quella lastra schifosa di zucchero e pinoli gli piacesse davvero. A ogni pranzo non mancava mai di prepararlo come dolce e rimaneva a osservare quanto Daniele lo trovasse delizioso. Ma lui aveva imparato presto a nascondere la sua porzione nelle tasche della giacca, avvolta in un fazzoletto. Pietro sorrise. «Buongiorno, Daniele. Entra! Ginevra è in casa ». Il terrore che la signora Loi potesse fargli assaggiare nuovamente su gattou sovrastò in Daniele qualsiasi intenzione di cortesia. «Salve, maresciallo, andrei un po’ di fretta, se potesse chiamare lei Gine-vra mi farebbe un piacere». Sapeva che il maresciallo se la sarebbe presa. Pietro gli lanciò un’occhiataccia.«Come vuoi, ragazzo!». Urlò “ Ginevra” e con noncuranza salutò sollevando semplicemente la mano. Era offeso e si vedeva. Daniele s’accigliò. Durò poco. Dalla porta si affacciò Ginevra, era bellis-sima con un vestito rosso che metteva in risalto la sua pelle chiara. Il colo-re della stoffa contrastava con il verde smeraldo dei suoi occhi. Ginevra sorrise e tenendosi alla balaustra scese la breve scalinata. Nel suo volto e nel suo corpo non c’erano tracce della crisi epilettica.

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Daniele era scioccato. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso e aveva una faccia da ebete. «Mamma mia, ma non dovevamo sposarci tra qualche tempo?». «Non credo che tua madre sarebbe entusiasta di vedermi salire sull’altare con un vestito rosso. Ho come l’impressione che gradirebbe più un classi-co vestito bianco» insinuò Ginevra, pensando a quanto fosse rigida e con-servativa la sua futura suocera. Daniele divenne serio.«Lo credi davvero?». «Perché tu no?». Daniele parve riflettere prima di rispondere, invece non disse nulla. «Stavo solo scherzando!» proseguì Ginevra. «Sì, lo so, ma mamma non è come sembra». Non era vero, la signora Min-ghetti era proprio come sembrava. Ginevra lo sapeva, come anche Danie-le. Salirono nell’automobile troncando il discorso. Erano diretti alla periferia di Montevecchio, dove sorgeva la villetta che li avrebbe ospitati dopo le nozze. Per tutto il tragitto Daniele non proferì parola. La frecciata di Ginevra sul modello nuziale di sua madre lo aveva turbato. Era stata solo una battuta, an-che se si era capito chiaramente che Ginevra non provasse grande simpatia per la sua futura suocera. Quello che lei non sapeva ancora, era che per la si-gnora Minghetti la cosa fosse reciproca. Clotilde aveva addirittura cercato di far interrompere a suo figlio quella relazione. «Lascia perdere, figlio mio. Lo-ro sono gente diversa da noi. Quella lì ti farà ammattire. Non le interessi tu, le interessano solo i nostri soldi. E poi dicono anche che sia malata. Vuoi vivere con una moglie malata? Avere figli malati?». Ginevra Troise bella era bella, eppure per la signora Minghetti non bastava. Lei sognava che Daniele si sposasse con la figlia di qualche politico impor-tante, di qualche generale; insomma, con la figlia di qualcuno che contasse veramente, non con l’erede di un maresciallo di Caserta, un luogo dove era persino difficile trovare qualcuno che parlasse in modo comprensibile l’italiano. I Minghetti venivano da Torino e le idee filofasciste dell’ingegnere facevano il resto. Ma Filippo aveva accettato la scelta di suo figlio e se n’era fatto una ragione. Se Ginevra era ciò che Daniele desiderava, lui l’avrebbe accolta come un padre. Montevecchio rispettava la conformazione dei villaggi minerari. Viale Impero era il canale principale. Le strette viuzze che ne nascevano, schiacciate dall’ombra soffocante delle case, dipartivano come rigagnoli d’acqua. L’auto guidata da Daniele, come una barca solcò la polvere del fiume Impero. A si-nistra c’era la chiesetta di Santa Barbara, adombrata dal sontuoso palazzo del-la direzione. L’ospedale sembrava scrutare silenzioso il paraurti posteriore

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della Lancia. Grandi edifici in mattoni crudi e pietra ospitavano la caserma, la scuola e il dopolavoro. Il cinema era un piccolo stabile che attendeva ancora di conoscere l’intonaco; il colore rossastro dei suoi mattoni, nelle giornate di sole, dava l’impressione che la facciata fosse imbrattata con la particolare ter-ra di Sardara, così rossa da sembrare imbevuta di sangue. La posta, un edifi-cio tozzo, fiancheggiava il caseggiato dei locali mensa. I viali erano sempre ordinati, solo qualche sterpo sfuggiva all’epurazione delle zappe. Montevecchio era un luogo variegato: la pace e solennità del monte Linas che si contrapponeva al convulso viatico per i grandiosi mari della costa verde. Nel mese di marzo i lentischi, le mimose e le ginestre andavano in fiore, tappezzando le strade con una carta da parati dai colori meravigliosi. Il loro profumo selvaggio inzuppava la montagna, che solo a giugno riu-sciva a scrollarselo di dosso per prepararsi a un altro bagno offerto dalla costa verde, all’aroma di rosmarino e cisto. L’uno sull’altro, lungo le strette viuzze c’erano i caseggiati spogli dei minato-ri. Fabbricati con i mattoni crudi sputacchiavano la paglia dalle facciate ed erano così vicini che se si scoreggiava in una casa rispondevano “salute” da un’altra. Quelle abitazioni stridevano con lo sfarzo del palazzo della direzio-ne e della foresteria. In centro sorgevano uno dopo l’altro caseggiati moderni che profumavano di calcina e legno pregiato: erano negozi all’avanguardia per tasche capienti. Montevecchio era questo: un luogo dove si estremizzava il contrasto tra affamati e satolli, tra operai e dirigenti, tra colti e ignoranti. Un luogo dove i minatori usavano la frase “lavorare per vivere”, anche se sarebbe stato più appropriato dire “vivere per lavorare”; una semplice inversione tra due verbi, uno scambio che racchiudeva il senso della loro esistenza. La buo-nanima di Raimondo Spanu, ad esempio, lavorava trenta metri sotto il livello del mare e non sapeva neppure nuotare. Dieci anni addietro si erano guastate le pompe e in pochi minuti la miniera aveva traboccato d’acqua. I fiotti che spruzzavano dall’ingresso del pozzo avevano dato l’effetto di una brocca ab-bandonata sotto la cascatella della sorgente di sa perdera. Si tutti meno che Raimondo, che era morto affogato come un topo di fogna durante un’alluvione. A Montevecchio era necessario essere pronti a fare della propria moglie una vedova e dei propri figli degli orfani. Ma da tutto questo Daniele Minghetti non era stato mai sfiorato. Non si poteva dire che se ne infischiasse, di certo non ci perdeva il sonno la notte. Lui era nato ricco. Conosceva a me-moria i conti e i profitti derivanti dall’estrazione, eppure non sapeva neppure come facessero i minatori a pisciare tutti i giorni in quelle gallerie senza esse-re soffocati dal ristagno acre della loro stessa urina. Daniele in miniera non c’era mai stato, gli interessavano due sole cose: far soldi e sposare Ginevra, il

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suo vezzo. Quando l’aveva vista per la prima volta era rimasto esterrefatto. Si era accorto dal primo istante che solo lei sarebbe potuta divenire sua moglie. Da quel momento aveva boicottato la corte di fanciulle dell’alta borghesia, compresa quella di Verdiana Locci, una porca che gliela sbatteva in faccia dall’alba al tramonto. Verdiana era così avvenente che se la sarebbero fatta anche Lisanziu Cireddu e Gamabedda, due che se fossero nati asini avrebbero di certo preferito il bastone alla carota, anche se non avevano mai confessato esplicitamente le loro tendenze sessuali. A Daniele di Verdiana non importa-va nulla. L’ossessione di prendersi Ginevra infestava la sua mente come la piaga delle cavallette che flagellavano i campi di grano campidanesi, ed era sopravvissuta anche ai fuochi e alla crusca avvelenata con l’arsenico. Dopo la prima conoscenza l’aveva invitata a una festa nella foresteria. Senza preoccuparsi di salvare la faccia era riuscito a convincerla ad appar-tarsi nei sotterranei che ospitavano i locali cucina. Avevano attraversato un lungo corridoio sul quale si affacciavano gli alloggi della servitù ed e-rano giunti a una rampa di scale. Erano scesi verso il seminterrato, dove risiedevano i locali caldaie e le cucine. La scala si attorcigliava attorno a loro due presi per mano, effigiando una scalinata a chiocciola di un castel-lo medievale. Nel seminterrato, porte socchiuse dalle quali lo sbuffo delle caldaie pareva annunciare la carica irruenta del toro Achille; poi la cucina: un ambiente smisurato e stracolmo dei più svariati e impensabili utensili gastronomici. Daniele e Ginevra erano entrati insieme, rischiando di ri-manere incagliati nella cornice della porta. Cuochi e garzoni avevano la-sciato il locale, stremati dall’andirivieni di pietanze e richieste di piatti bizzarri. Nella grande sala si faceva festa e nessuno avrebbe chiesto dell’altro cibo, l’interesse si era spostato verso l’ampio bancone del bar. Due pentole prive di coperchio sedevano sui fornelli spenti. Daniele aveva afferrato Ginevra per poi spingerla sopra un tavolo. Una pesciera le fun-geva quasi da cuscino. Le aveva arrotolato il lungo vestito da sera fin so-pra le ginocchia e con un gesto furtivo era riuscito a sfilarle le mutandine. Ginevra non era stata capace di opporre resistenza, ma la sua espressione non parlava di eccitazione, parlava di paura. Daniele si era sbottonato la cerniera dei suoi pantaloni e aveva estratto il pene. Si era inforcato tra le gambe di Ginevra che aveva serrato spasmodicamente le mani ai lati del tavolo. Quando stava per penetrarla, Ginevra si era contorta come un’anguilla. Un tagliere, un bollitore e una casseruola si erano rovesciati a terra producendo un gran fracasso. Daniele aveva indietreggiato e d’istinto si era rivestito. «Scusami, ma non mi sento ancora pronta» aveva detto lei coprendosi il viso con le mani.

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Daniele aveva risposto forzatamente. «Tranquilla, Ginevra! Posso aspetta-re se è quello che vuoi». E ancora adesso aspettava. In lontananza la loro futura villetta dimorava sola, intagliata nell’ombra con-tro la luce energica del mattino. Una staccionata delimitava il perimetro del cortile. Due giganteschi alberi di gelso rasentavano il vialetto che conduceva alla villetta; i loro frutti rossi spuntavano tra i rami come addobbi natalizi. Le more di gelso erano preda dei ragazzini affamati, che attendevano con impa-zienza i mesi estivi per farne razzia. Mangiavano e benedicevano tutte le volte gli arabi, che durante la loro dominazione in Sardegna avevano importato quell’albero maestoso, sfruttandolo come habitat naturale per la proliferazio-ne del bacco da seta. Daniele aveva beccato parecchie volte i ladruncoli. Chiedeva loro di mostrare le mani con la scusa di trovare il colpevole. Il suc-co delle more di gelso era di un rosso accecante, più intenso della terra di Sardara, e macchiava la pelle come una tinta indelebile. Daniele fingeva d’essere infuriato con i ragazzi che senza fiatare gli mostravano le mani in-zaccherate. A quel punto Daniele rideva, perché tutti avevano anche mezza faccia pregna di succo rosso e non c’era certo bisogno di mostrare le mani per essere accusati del furtarello. Ogni estate la stessa storia. Daniele ci giocava e lasciava fare, sapeva che quei furti erano dettati dalla fame, non dalle cattive intenzioni. Quei bambini erano magri come cavallette e rovistavano tra i mucchi di scarti che venivano lasciati in capo ai campi d’ortaggi. Alcuni era-no stati visti mangiare anche le foglie secche dei cavoli. Nei mesi scorsi era morto un cavallo che nessuno aveva avuto il coraggio di mangiare. A uccider-lo era stata una malattia che gli aveva fatto schizzare il sangue persino dagli occhi . Tutti avevano pensato che fosse meglio restare ignoranti e non sapere se quel morbo potesse risultare contagioso. Dopo tre giorni, dove era stato se-polto il cavallo, avevano trovato una buca profonda e vuota. Ciu Barrua con Ginetto Pintori, figli di due maestri di muro che lavoravano alla costruzione dell’albergo per minatori, erano stati visti ingozzarsi di carne putrefatta condi-ta con terra e vermi. Nonostante questo, non potevano neppure nominare la parola fame. In Polonia c’era chi stava molto peggio. E allora gli adulti ri-spondevano a muso duro: «Tu hai fame? Fame avevano nell’anno dodici» di-cevano, ricordando la fame dell’anno 1812, dovuta alle carestie che avevano portato alla morte di migliaia di persone. Quelli erano bambini che nella notte del primo novembre andavano a dormire terrorizzati. Da sempre esisteva la leggenda di Maria Punta Oru: una specie di strega che alla mezzanotte, ora che separava il giorno di Ogni Santi dal giorno dei morti, si aggirava per le case con lo scopo di saziare il suo appetito. Era tradizione che tutti i bambini lasciassero un poco di pastasciutta nei loro piatti, e allora Maria Punta Oru

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avrebbe mangiato e sarebbe tirata dritta. In caso contrario, avrebbe bucato la pancia dei bambini con una punta, per riprendersi la pasta che le era stata sot-tratta. I piccoli credevano ciecamente alla strega, ma la porzione di pasta che potevano mangiare era così ristretta che raramente riuscivano a non farsi bef-fare dalla fame. Teodorico Vincis, un bambino con problemi di cuore, era ad-dirittura morto di paura. Quelli che lasciavano qualche spaghetto nel piatto erano davvero pochi. Nella notte di Maria Punta Oru non chiudevano occhio, vigili nel buio della stanza e terrorizzati dal pungiglione della strega, pronta a punirli per la loro ingordigia. Teodorico quella volta aveva mangiato tutti i suoi spaghetti ed era andato a dormire con il terrore negli occhi. La fame era stata più forte anche dei timori, e aveva ceduto, pentendosene solo a stomaco pieno. Sua madre, con un candelabro acceso sotto il mento, era entrata nella stanza per controllarlo. Lo aveva chiamato senza ottenere risposta. Preoccu-pata aveva acceso l’altro candelabro, quello sistemato sul comodino disfatto. Teodorico era immobile a braccia aperte: morto stecchito. Il suo cuoricino non aveva retto. La sua era la faccia abominata di chi aveva creduto di vedere Maria Punta Oru nel volto illuminato della madre, e tutto per un piatto di spaghetti. Daniele non era al corrente della storia di Teodorico, in fondo era normale, visto che conosceva solo gli aristocratici. Aprì la portiera dall’auto e fece scendere Ginevra aiutandola con un gesto da cavaliere. Carrubi e lecci spa-droneggiavano nel verde e accerchiavano la villetta. La proteggevano fino al-la zona spoglia che freddo e roccia avevano imposto con arroganza al monte Linas. Ginevra adorava la pace di quel posto. I passeri cinguettavano pacata-mente, come se amassero quella serenità e non intendessero disturbarla. L’abitazione era bella: bianca e strutturata su due piani, con un bel balcone a vista e con l’altana che spiccava sopra il tetto di tegole marsigliesi; dei conci eleganti abbellivano i paramenti esterni. Daniele salì cinque gradini e si trovò sul pianerottolo davanti al portone d’ingresso. Ginevra rimase interdetta sulla pedata del primo gradino, con il gomito posato sul pomo della balaustra. Fissava una nicchia posizionata di fianco allo stipite del portone, nella quale la statua della Madonna pare-va volerli accogliere con le braccia tese. Daniele girò la chiave e si udì lo scatto deciso dei cilindri che rientravano nei loro alloggiamenti. Entraro-no. L’ambiente era fosco. Daniele spalancò le imposte e la luce del giorno illuminò il salone. Ogni mobile, ogni suppellettile, ogni singola maiolica del pavimento testimoniavano possibilità economiche sconosciute per tut-to il resto di Montevecchio. Un grande tavolo in noce centrava il soggior-no. Due divani di pelle scura formavano una elle che racchiudeva due dei

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tre lati che si affacciavano davanti al camino. C’erano specchi. C’erano ritratti degli avi di Daniele. C’era tutto. C’era ricchezza. Appesi in modo da formare una piramide, una quindicina di cesti in paglia occupavano la parete frontale al portone d’ingresso. Erano il dono del mare-sciallo, anche se lui stesso non ne comprendeva il valore effettivo. In quell’angolo remoto di Sardegna la ricchezza di una sposa si quantificava in base al numero e alla qualità del suo servizio di cesti. Tzia Piricca, prima del matrimonio di sua figlia, per far apparire tramite i cesti la sua famiglia più fa-coltosa di quello che era, aveva venduto metà del gregge di capre ricevuto in eredità da babbai Antiogu. Pietro invece era abituato alle usanze di Caserta, dove la ricchezza si calcolava in base ai possedimenti: danaro, terreni, immo-bili, eredità. Al massimo, per chi era affetto dall’allergia per le banche, la ric-chezza la determinava il materasso del letto, farcito di banconote da mille lire. Si era adeguato e aveva commissionato a una impagliatrice quel servizio di cesti senza badare a spese, si doveva fare bella figura di fronte al figlio dell’ingegner Minghetti. «Ti piace? » domandò Daniele con un sorriso. Ginevra si guardava intorno. Centellinava ogni centimetro di quella casa che lei aveva veduto solo in fase di allestimento. Era la prima volta che la visitava da quando era stata arredata. La sua bocca si aprì e colpita dal so-le mise in mostra il riverbero dei suoi denti scintillanti. «Daniele, è bellis-sima!». «Sono contento che ti piaccia. Ho cercato di accontentare i tuoi gusti». Ginevra lo abbracciò stringendolo forte. «Ci sei riuscito alla grande!». Ma Daniele in quell’abbracciò percepì qualcosa di gelido, di forzato. Poco dopo Ginevra ebbe l’ennesima crisi epilettica.

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5 L’estate avanzava, stravagante, fra caldo torrido e sprazzi imprevisti d’autunno. In quei giorni la silicosi si era portata via Mario Zuddas e A-velino Madeddu, due ragazzi che non avevano ancora compiuto trentacin-que anni. Mario aveva quattro figli. Avelino sette, e il più grande doveva ancora fare la cresima. In miniera si perforava a secco, senz’acqua che spegnesse i pulviscoli, e le polveri andavano a calcificarsi nei polmoni portando a una morte agghiac-ciante. Assieme all’anima si sputava quasi tutto il sangue presente in cor-po. Chi aveva la fortuna di scampare a quella malattia orrenda, nella mag-gior parte dei casi si portava comunque dietro un ricordo della miniera. Molti erano sordi a causa dei forti scoppi delle cariche, altri, maneggiando l’esplosivo, erano divenuti dei monchi inutilizzabili dalla società. Efisio Olla aveva perso entrambe le braccia. La sua ricompensa era stata una let-tera di licenziamento. Si era suicidato gettandosi a strapiombo sugli scogli dal castello spagnolo di Torre dei Corsari. Quel giorno il mare violentava la battigia, spargendo il suo seme spumoso. La schiuma si arrampicava sugli scogli e poi si lasciava afferrare per i piedi dall’acqua, che la riporta-va indietro. Il corpo di Efisio era stato trascinato via e inghiottito dai mu-linelli che le correnti formavano sul pelo verderame del mare. Non era sta-to mai ritrovato. Nazareno Cuccu invece era solo uno dei tanti che avevano contratto l’angioneurosi: una malattia che a causa delle vibrazioni delle perforatrici di-struggeva il sistema nervoso e rendeva una semplice pisciata l’impresa più contorta del mondo. Negli ultimi giorni in miniera di Nazareno nessuno si af-fiancava più a lui nelle consuete pisciate di gruppo. «Non crederai che mi fac-cia pisciare i piedi da te. Vedrai che con quelle mani, a furia di vibrarti il pi-sello, finirai per avere un orgasmo. Dopo la terza scrollata si può già chiamare sega» gli dicevano i suoi compagni per rallegrargli il morale. Lui si scherniva più degli altri, ma il suo cuore piangeva lacrime pesanti come il piombo. Per mangiare la brodaglia si era ridotto a farsi imboccare da sua moglie e non prendeva più in braccio i suoi bambini per paura che gli cascassero a terra. Raimondo Puxeddu era uno dei più sfortunati. Aveva utilizzato per vent’anni la perforatrice. Il modello BBR veniva affettuosamente chiamato dai minatosi

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sa pisitta, la gatta, perché tra le mani si contorceva come un felino dentro un sacco e produceva un suono identico al verso dei gatti in amore. Quel nome colpiva davvero nel segno, perché come i gatti sanno cavare gli occhi con i loro artigli, anche la perforatrice era capace d’accecare. Raimondo, dopo anni di costante esposizione alle vibrazioni della perforatrice, aveva subito un di-stacco totale della retina. La perdita della vista a un occhio era stata la conse-guenza. Fermarsi era un lusso che non apparteneva al mondo dei pezzenti ed era necessario persistere per poter garantire un misero tozzo di pane ai propri figli. In poco tempo Raimondo aveva perso anche la vista all’occhio sano e crudele come una fiera era sopraggiunto il buio, pesto e inseparabile sino alla fine dei giorni. Qualche volta Raimondo passeggiava ancora per Montevec-chio, aiutandosi con un bastone levigato d’oleastro, di quelli che i rabdomanti usavano per trovare l’acqua. Si sedeva nel parco di fronte al palazzo della di-rezione e fissava la strada. Sospirava e sembrava quasi che i suoi occhi conti-nuassero a vedere. Per uno come lui, che aveva amato le belle donne al punto da commettere follie per averle, doveva essere un supplizio cercare d’immaginare quello che non poteva più vedere. In ogni angolo di Montevecchio c’erano vicende di sofferenza che tra-sformavano in illusione la felicità. Tra tutte le storie ce n’era una che inte-neriva ad ascoltarla. La direzione, forse impietosita, aveva assunto da al-cuni anni un ragazzo sordomuto dalla nascita. Erano in debito con lui per la prematura morte in miniera di suo padre, scomparso a soli ventisette anni. Lucio era un ragazzo particolare. Oltre a essere sordomuto, anche il suo aspetto testimoniava che madre natura avesse un conto aperto con lui. Era nato con il labbro leporino e il naso schiacciato sulla parte sinistra del vi-so. La bocca deformata non permetteva mai ai suoi denti sghembi di tro-vare nascondiglio. E per le gengive, talmente rosse da sembrare pennellate di sangue, la sorte non era stata dissimile. Di cose belle il padreterno ne faceva tante, ma quando decideva di farne di brutte sembrava impegnarsi anche di più. Contemplare quel volto seminascosto da lunghi capelli rossi creava disagio senza ragione di colpa, un disagio che nessuno chiamava con il suo vero nome: “riluttanza”. In miniera Lucio preferiva lavorare da solo e la sera declinava la compa-gnia degli altri minatori. Odiava mostrare le sue fattezze più del dovuto. Si vedeva poco in giro ed era stato avvistato più di una volta aggirarsi solita-rio nelle campagne durante la notte. Cosa facesse nelle sue uscite notturne era un mistero che gli abitanti di Montevecchio avevano poca voglia di

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approfondire. Quel ragazzo dai modi diffidenti incuteva loro un inconfes-sato timore. I minatori lo chiamavano “Gnagno”, tra di loro. Quel nomignolo gliel’aveva appioppato Felicino Putzolu, uno stronzo che avrebbe deriso anche la madre in punto di morte. Felicino aveva assistito a un tentativo fatto da Lucio di acquistare del pane nel locale della cantina, nel reparto spaccio viveri. Ne era venuta fuori una cacofonia di versi incomprensibili che avevano portato a quell’appellativo. Tuttavia si era ancora alla ricerca di chi avesse il coraggio di pronunciare quel soprannome in sua presenza. Felicino temeva farlo anche silenziosamente alle sue spalle, come se non credesse fino in fondo alla sua condizione di sordomuto. Lucio svolgeva la mansione di fuochista. Il caposquadra del suo livello aveva pensato che non potendo soffrire lo scoppio delle cariche esplosive si sarebbe trovato a meraviglia in quella sistemazione. Adesso si trovava nel pozzo. Organizzò con cura la carica esplosiva che avrebbe generato un fornello passante dal livello Yosto al livello Rolandi. Tentava di creare un circolo d’aria che prevenisse i frequenti vuoti d’ossigeno da profondità. Accese la miccia collegata a una ventina di ca-riche che sarebbero esplose l’una appresso all’altra, e corse al riparo te-nendo ben stretta la lampada a carburo. Si rifugiò all’angolo della galleria principale che si intersecava a dovere. Un bagliore accecante illuminò a giorno l’intero livello Yosto. Il fragore insostenibile dello scoppio costrin-se i minatori ad aprire la bocca e turarsi le orecchie con le luride dita ope-raie. L’ondata di decibel rischiò di distruggere i loro timpani. Emilio era distante dall’esplosione. Appresso alla vibrazione vide comun-que la polvere scuotersi e precipitare dal solaio verso di lui. D’istinto scosse velocemente il capo, nonostante il pulviscolo lo avesse già ricoper-to da capo a piedi. Luigi non era con lui. Aveva ricevuto una busta sigilla-ta dell’esercito e si era recato in caserma a chiedere lumi. Emilio non ave-va letto quella lettera, anche se nutriva il sospetto che riguardasse una chiamata al fronte. Da come lo aveva descritto Luigi, il simbolo che reca-va la lettera era inequivocabilmente quello dell’impero. Dopo la brillanza delle cariche esplosive c’era sempre il rischio di frane. Il livello Yosto aveva la fama d’essere uno dei più sicuri dell’intero pozzo Amsicora. Gli armatori avevano costellato le gallerie con assi cilindriche e travi di legno sostenute alla base da grossi tronchi di castagno. Quando la quiete prevalse sull’eco, i timpani di Emilio scacciarono quel sibilo che dopo le esplosioni piroettava come una pulce nel condotto auri-colare. Tese l’orecchio come gli avevano insegnato gli anziani. La super-stizione diceva che il castagno fosse l’unico legno sincero, perché prima

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di spezzarsi avvertiva con degli scricchiolii. Emilio non sentiva nulla, a parte i suoi pensieri più sinceri anche del castagno: «Che cazzata! A volte i vecchi sono saggi, altre volte sono solo ingenui!», e lui andava ancora alla ricerca di un tipo di legno che si spezzasse senza aver prima scric-chiolato. Dove il pericolo era considerato alto, gli ingegneri avevano previsto l’utilizzo di travi in ferro. Bastava chiedere a Sisinnio Zoccheddu se la pratica avesse funzionato. I solfati corrodevano il metallo e l’unica protezione contro i crolli restavano le preghiere, diverse da quelle indirizzate all’arganista Foffo Dessì. Lui poteva manovrare solo l’argano, non le frane. E così Sisinnio, dopo essere stato sepolto vivo da una frana, adesso viveva paralizzato dalla testa ai piedi. Prima dell’incidente non avrebbe chiesto aiuto alla suocera neppure se lo a-vessero impiccato a un albero di fichi. Tzia Rosa Piscedda non lo aveva mai voluto come genero. «Già l’hai fatta bella ad accasarti con questo morto di fame» rimproverava alla figlia Lucrezia. Sisinnio le avrebbe pisciato volentieri in faccia a quella vecchia bagassa, tan-to era il disprezzo che provava per lei. Ora, invece, era costretto farsi lavare il culo e i testicoli da quella maledetta, perché sua moglie non aveva più tempo per lui; doveva lavorare per far mangiare i loro bambini. Si trattava di un’umiliazione che gli aveva fatto perdere la ragione. Tzia Rosa entrava già ridacchiando nella stanza di Sisinnio, che puzzava di pannolone imbottito de-gli unici veri segni della vita. Se uno non butta fuori più niente dal corpo è brutto segno: o è morto o sta per esserlo. «Ti sei cagato addosso pure oggi?» gli chiedeva tzia Rosa con un risolino i-sterico. Sisinnio chiudeva gli occhi perché non poteva tapparsi le orecchie. Tzia Rosa poi gli sollevava il pene e lo lasciava ricadere da una parte e dall’altra. «Oh, non funziona neanche oggi il gingillo. Peccato, prima o poi Lucrezia dovrà cercarsi un'altra pistola per giocare a guardia e ladri» diceva ridendo sempre più forte. Sisinnio, che riusciva a muovere solo la lingua e gli occhi, cercava di sputarla in faccia, ma non raccontava nulla a sua moglie Lu-crezia: tremava alla sola idea di cosa gli avrebbe fatto Rosa quando fossero rimasti soli, se lui avesse spifferato qualcosa. In conclusione, non era vero che il livello Yosto fosse più sicuro degli al-tri. Gli armatori effettuavano la messa in sicurezza delle gallerie periodi-camente in tutti i livelli della miniera; quel livello era stato semplicemente assistito dalla buona stella e si era creata la leggenda. Lucio fuoriuscì dal cantone. Avanzava alla cieca e tossiva con fatica. Dal-la sua gabbia toracica risalì un suono rauco.

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La polvere volteggiava fitta nell’aria prima di riaddormentarsi al suolo fi-no alla carica successiva. Lucio agitò velocemente le braccia incrociando-le più volte all’altezza del suo viso. Tentava invano di scacciare quella nuvola farinosa. Quando lo strato si dissolse, i suoi occhi furono trafitti da barbagli intensissimi. Rimase stupefatto. Le sue corde vocali non erano state progettate per vibrare producendo dei suoni, ma la sua mente aveva la capacità di mettere nero su bianco ciò che con le parole gli era precluso. “Non credo ai miei occhi, questo è argento vivo”, pensò. L’esplosione aveva portato alla luce una parete rocciosa straripante di ga-lena, la pietra dalla quale si estraevano il piombo e l’argento. A poca distanza, Emilio aveva ripreso a colpire la roccia con il suo robusto piccone. Quel giorno l’attrezzo produceva solo un gran fracasso e rimbalzava senza affondare. La sua pisitta ad aria compressa era bloccata in officina, in attesa che nella fonderia di pozzo S. Antonio venisse forgiato il pezzo di ri-cambio di cui necessitava. Nel frattempo si trovava costretto al getto manuale. Non riusciva a trasmettere forza nei suoi colpi; era stremato e all’interno del suo carrello aveva depositato solo poche pietre di buon minerale. Si asciugò la fronte pronto a desistere. Davanti ai suoi occhi apparve l’immagine del pic-colo Franco, rinsecchito e scheletrico come un infermo di meningite spinale. Emilio aveva visto Zelia Brovelli, una sua vicina, morire di meningite spina-le, e ancora tremava ricordando le sue ossa che si contorcevano sotto la pelle come topi fuggiaschi sotto una coperta d’orbace. Rabbrividì, trasferendo all’istante le sue residue forze al piccone. Il villaggio di Montevecchio era una comunità ristretta che non poteva o-spitare la totalità dei minatori. La direzione aveva fatto partire i lavori per la costruzione di un albergo che coprisse questa mancanza. Purtroppo le opere, con l’arrivo della guerra, procedevano a rilento. Emilio era costret-to a percorrere ogni giorno i nove chilometri che separavano Guspini, suo paese natale, da Montevecchio. Si alzava tutte le mattine alle quattro e, nel migliore dei casi, dopo le dieci o dodici ore di lavoro lo aspettavano altri nove chilometri di sfacchinata. Se poi era costretto a fare il viaggio di ri-entro in compagnia di Ernesto Oliva, un logorroico che parlava anche nel sonno, oltre al fisico si stremava anche la mente. Chiunque rientrasse con Ernesto non poteva che dar credito alle parole di Mario Spissu, che rac-contava di finire il tragitto con le palle che gli strisciavano in terra, la-sciando un solco più utile delle molliche di pane di Pollicino, e almeno non c’era il pericolo di perdersi. La produzione di Emilio si era dimezzata, la sua famiglia aveva sempre più fame e il suo corpo stava cadendo a pezzi come una decrepita baracca. Aveva quarant’anni ma ne dimostrava almeno venti di più. Ingobbito e

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magro già di costituzione, con il lavoro in miniera era divenuto ancor più malconcio. Si piegò in avanti sostenendosi con il manico del piccone. Il sudore gli gron-dava dalla fronte in maniera costante. Scrutava le gocce scivolare via per poi cadere sul terreno polveroso ed era certo che rimanendo in quella posizione avrebbe dato vita a una pozza. Fissò il carrello vuoto, poi ancora il terreno scurito dal suo sudore. «Quanta fatica per niente!» gemette stanco. Quando stava per assestare alla barriera rocciosa l’ennesimo colpo fiacco, una mano lo bloccò serrando con forza il suo braccio. Si voltò di scatto e spaventato a morte si fece cadere il piccone. Illuminato dalla lampada a carburo, il volto malfatto di Lucio si mostrava dinanzi a lui, terrorizzandolo. Il corpo di Emilio tremava ancora e i suoi occhi cercavano protezione dietro le mani devastate dai calli. La luce e-manata dalla lampada a carburo era poco più che soffusa, ma nel contorno cupo della miniera bastava e avanzava per ferire le sue iridi chiare. Era a-gitato. «Che cosa vuoi?» . Lucio non rispose, come aveva sempre fatto dal giorno della sua nascita; impetuosamente lo trascinò con sé. Emilio non oppose resistenza. Non sa-rebbe potuto sfuggire a quella morsa umana neppure se lo avesse voluto. Lucio era in forze e aveva una corporatura doppia rispetto alla sua: un ti-tano di quasi due metri con braccia e gambe da lavoro. Emilio chiuse gli occhi e si lasciò trasportare come un cucciolo di cane afferrato per la pel-liccia dalla madre. Quando Lucio abbandonò il suo braccio erano trascorsi pochi attimi. Emi-lio riaprì gli occhi e rimase inerte a bocca aperta. Si trovava davanti alla parete rocciosa più ricca di galena che avesse mai visto. Lucio sospinse uno dei vagoni carrello lungo le rotaie piazzate al centro della galleria; lo posizionò in prossimità della zona in cui era esplosa la carica. Gesticolando e producendo dei versi indecifrabili fece capire a E-milio di cominciare a caricare i minerali. Lucio era pagato in base al nu-mero dei fornelli che riusciva a creare e non avrebbe guadagnato nulla di più da quel ricco giacimento. Aveva pensato che per un cottimista al getto come Emilio fosse una buona opportunità per mettere qualcosa da parte in previdenza dei periodi di magra. Emilio cominciò a picconare con veemenza la nuova scoperta. La galena saltava fuori a pepite smisurate, capaci di restituirgli le energie che crede-va di non possedere più. Ormai era abbastanza esperto da accorgersi che da quella galena così fertile, per una tonnellata di piombo si sarebbero po-tuti ottenere quasi trenta chilogrammi d’argento, un’enormità. Peppi Cur-

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reli si sarebbe mangiato le mani dall’invidia e forse avrebbe smesso d’intervistare tutti a fine giornata per sapere se avesse vinto la gara del cottimo. In poche ore Emilio riuscì a stipare ben sette carrelli vagone. Era radioso di gioia perché Franco avrebbe mangiato per almeno tre settimane da quel carico. La sua immagine scheletrica non avrebbe tormentato Emilio per parecchio tempo. Con una corda issò tutti i sette carrelli alle robuste spalle di un mulo. L’elettricità non aveva ancora sostituito del tutto gli animali da lavoro nella miniera. Prima della guerra si era sperimentato anche un locomotore diesel, subito accantonato. Emilio se lo ricordava bene: era stato quasi soffocato dai gas di scarico e aveva rischiato di morire come gli ebrei nei campi di stermi-nio. Della compagnia che aveva sfiorato quella tragedia avevano fatto parte anche Mario Zuddas e Avelino Madeddu. Era difficile capire se qualche anno in più di vita fosse valso tutte le sofferenze che la silicosi aveva portato ai du-e. Emilio si era recato a rendere visita ad Avelino prima ch’egli morisse. Lo aveva visto eruttare sangue nel letto come se avesse appena addentato un pez-zo di fegato crudo di maiale. Proprio come faceva Janu Canoi, un balente e-migrato dalla Barbagia, che se lo divorava ancora caldo accompagnandolo con uno o due bicchieri di buon sangue suino. Avelino si contorceva dal dolo-re mentre i suoi polmoni si restringevano come un pezzo di plastica al fuoco. Nella stanza sembrava avessero scannato un porco. La moglie di Avelino, ne-gli ultimi giorni di suo marito, aveva spedito i figli da una sorella a Villaci-dro. Aveva preferito che i bambini non vedessero le pene atroci che stavano sterminando loro padre. Emilio lo aveva abbracciato e si era accomodato su una sedia di fianco al letto. «Ti ricordi quando il gas del locomotore stava per ammazzarci tutti?» gli aveva chiesto Avelino. Emilio aveva emesso un sospiro nostalgico.«Certo che me lo ricordo! ». Avelino tossiva e qualche rivolo di sangue gli scolava dagli angoli della bocca. «Mi sono pentito di non essermi addormentato per sempre respi-rando quel gas. Allora mi sembrava bruciante e terribile, ma ti giuro che in confronto a quello che sto passando oggi mi sarebbe parso dolce come il bacio della buonanotte dei miei bambini». Emilio gli aveva asciugato il sangue dalla bocca con un fazzoletto. Sentiva gli occhi che si rigonfiavano, pressati dall’affetto per un compagno di vita che stava per lasciarlo. Era stata l’ultima volta in cui lo aveva visto. Il volto di Avelino si disperse nel baratro infinito dei ricordi. Emilio adesso scrutava il povero mulo mettere lentamente una zampa davanti all’altra, tra-

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scinando a fatica l’enorme carico e sparendo avvolto dalle tenebre della galle-ria. I carrelli sarebbero riaffiorati in superficie grazie all’argano e poi condotti nella laveria “Sanna ”. In quel luogo, una truppa che tra donne e bambine non ammetteva intrusioni virili, avrebbe effettuato la cernita del materiale. Le pietre ricche sarebbero state separate da quelle sterili a ritmo forsennato, sen-za privilegi per le operaie bambine o per chi custodiva in grembo il raccolto della stessa virilità che nella laveria non era consentita, ma che in casa rappre-sentava la legge. Ne sapeva qualcosa Anna Lasio che, per non farsi scoprire incinta dal caporale che le controllava, si era dovuta cucire un vestito di due taglie più grandi e raccontare che stava mangiando come una scrofa. Aveva partorito di notte e la mattina era già in laveria trascinando a stento le gambe a fionda, talmente scosciate dal nascituro di cinque chili che ci sarebbe passa-ta in mezzo una motocarrozzetta piena di sarmento. Tutto per non perdere quel lavoro. Anche se non poteva più vederlo, Emilio sentiva gli zoccoli del mulo, che a-vanzava a memoria senza bastone e cane guida. Tutte le volte Emilio aveva un brivido nel constatare la sorte orripilante che toccava ai muli. Gli animali, dopo un anno di vita, quando ormai erano in grado di sostenere i carichi esa-gerati dei carrelli, venivano calati all’interno dei pozzi. Da quel momento non ricevevano più il bacio caldo del sole. Le loro eterne dimore diventano le stal-le trasandate di pagliericci e allestite nei vari livelli della miniera. Senza più la luce, in poco tempo i muli diventavano completamente ciechi. Emilio aveva visto centinaia di volte i loro occhi scolorire fino a diventare bianchi come le biglie d’osso che i bambini usavano per giocare a su canabi. Dopo sei o sette anni i muli morivano di silicosi, perché stando in mezzo alle polveri venti-quattro ore su ventiquattro la contraevano molto prima dell’uomo. Ma quelle bestie sputavano solo il sangue, la loro anima era già volata via verso prati verdi, serbandosi le sofferenze che solo l’uomo è capace di procacciare per gli altri, questo piaceva pensare a Emilio. I muli in punto di morte venivano ri-portati in superficie e abbandonati al loro destino in mezzo ai campi: non per-ché si volesse dare a quei disgraziati animali una fine più dignitosa, ma sola-mente per non sentire all’interno del pozzo il lezzo insopportabile del loro ca-davere in decomposizione. Quando era morto Giuseppino, Emilio aveva be-stemmiato. Come poteva un Dio buono prendersi un bambino di soli cinque anni? Per fortuna avevano fatto in tempo a battezzarlo, altrimenti quel Dio buono avrebbe negato anche l’ingresso in paradiso a Giuseppino, che non a-veva colpe. Lo avrebbe rinchiuso nel limbo senza nessun processo, solo per-ché Adamo ed Eva avevano dato un morso a una mela. Poi Emilio, anche se provava ancora rancore per Dio, aveva smesso di bestemmiare. Vedendo tutto

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quello che la guerra stava portando, e avendo tutti i giorni a che fare con la vita squallida dei poveri muli, aveva capito che lui, come tutti gli altri uomini, si meritava le disgrazie che gli erano accadute. “Gli uomini hanno la presunzione di considerarsi gli unici a poter provare sentimenti come l’amore, l’odio, la sofferenza e la nostalgia. Ma in questa vita non è dato sapere cosa passi nella testa degli animali”, si diceva Emi-lio. Toti Pinna si sceglieva i cani, Corudepedra i gatti. Li crescevano, li sfamavano, li facevano accoppiare; decidevano tutto per loro. Quando ar-rivavano i cuccioli di una gatta o una cagna, Toti e Corudepedra si pren-devano quello che più li aggradava. Gli altri, se si riusciva a trovare qual-cuno che li volesse,venivano regalati. Quando questo non avveniva, Toti infilava i cuccioli dentro un sacco come immondizia, poi li ammazzava sbattendoli a terra con tutta la sua forza. Corudepedra era più risoluto. Lui i gattini li affogava dentro una tinozza d’acqua. Facevano tutto questo so-lo perché non avevano il posto per tenerli tutti, o solo perché intendevano tenerne soltanto uno. Emilio sapeva che, nel mondo, di Toti Pinna e Coru-depedra ce n’era uno a ogni angolo di strada. “La madre di quei cuccioli potrebbe soffrire come noi! Potrebbe odiarci per averle preso i suoi figli! Potrebbe sentire la nostalgia dei suoi cuccioli, che le divora l’anima distruggendola giorno dopo giorno!” Erano queste le considerazioni che aveva fatto Emilio. «All’uomo capitano le disgrazie e non si dovrebbe lamentare» diceva. « Perché Dio, che con la solita pre-sunzione consideriamo l’unico essere a noi superiore, potrebbe avere la stessa concezione che abbiamo noi degli animali. Forse ci crede degli es-seri trogloditi che sanno solo mangiare, bere e accoppiarsi, oltre che farsi la guerra. Forse crede che non possiamo fare altro che seguire l’istinto, e quando ci vuole prendere una persona cara come un figlio, lo fa e basta, solo perché ha voglia di farlo. Dio non pensa di crearci dolore, vuole solo accanto a sé quello che più lo attrae di noi; come fanno gli uomini con gli animali: con i cani, con i gatti … e i muli». Erano questi i pensieri profon-di che lo turbavano. Il rimorso per il vecchio mulo gli dava l’impressione d’avere le budella annodate. Ma c’era dell’altro che non gli consentiva d’essere felice sino in fondo. Si sentiva in colpa per aver provato terrore vedendo il volto di Lucio. Al contrario, il ragazzo gli aveva fatto un regalo inimmaginabile. Quella venatura straordinaria era un regalo. «Un regalo» disse Emilio, così fievolmente che ebbe l’impressione di vo-ler nascondere a se stesso quella parola. Il significato di quell’esitazione non si dissolse. Rimase incagliato tra le pieghe ispide della sua gola. A pensarci bene, Emilio non aveva mai fatto un regalo alla buonanima di suo figlio. Per Natale Giuseppino aveva diritto a una doppia razione di

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salsiccia, ma alla fine non la terminava mai e ne mangiavano tutti. Per il compleanno, Maria gli preparava una piccola torta di mele con una sola candela al centro: una sola, indistintamente per tutti i cinque compleanni. Un buon padre evitava di considerare regali un pezzo di salsiccia e una tortina di mele con una sola candela al centro. Un padre era tenuto a dare da mangiare a suo figlio, aveva il dovere di renderlo felice, aveva l’obbligo di dargli la miglior vita possibile: con venti lire al giorno, la mi-glior vita possibile aveva la fattezze di un tozzo di pane raffermo e due cucchiai di brodaglia. L’immagine della piccola bara bianca scorse rapida davanti agli occhi di Emi-lio. Poi scomparve, veloce come era venuta, e fu sufficiente per ricordargli che forse l’unico vero regalo fatto a Giuseppino era proprio quel feretro. Ri-cordò la notte in cui le sue mani tremanti l’avevano cesellato; l’angoscia che gli scoppiava il cuore a ogni grattata di lima; le lacrime che distruggevano il lavoro del suo pennello. Nella stanza a fianco c’era Giuseppino morto. Emilio era abile nel lavorare ogni tipo di materiale, dal piombo alla pietra. La sua dimestichezza con il legno aveva garantito a Giuseppino un funerale più di-gnitoso: il danaro risparmiato per la bara era stato investito in fiori ed epitaf-fio. Quel feretro rappresentava l’unico oggetto che Emilio avesse mai fatto con le sue mani per Giuseppino che, scherzo del destino, non aveva mai potu-to vederlo. Emilio ci aveva messo tutta l’attenzione possibile ed era venuto fuori un bel lavoro, proprio un bel lavoro, Giuseppino l’avrebbe apprezzato. Emilio fu destato dai colpi di un martello. Si avvicinò timidamente al ri-covero attrezzi. Lucio stava schiodando il coperchio degli scatoloni di le-gno che contenevano le cariche per il giorno seguente. Con un tocco di mano sulla schiena, Emilio attirò la sua attenzione. Lucio vide nel volto di Emilio una certa emozione. Emilio non sorrise, era contratto. Cercava con dei gesti di far capire qual-cosa a Lucio. Il sordomuto continuava a fissarlo senza avere la minima idea di cosa significassero quelle gesticolazioni. «Stasera non rientro a Guspini. Luigi dà una festicciola per il suo complean-no a villaggio Righi e sono ospite da suo cugino. Ti andrebbe di venire?». Leggendo il labiale, Lucio afferrò il nome di Luigi e fece un cenno d’assenso con il capo, ripetendo in modo incomprensibile il nome. Emilio allungò il braccio sinistro e sfiorandosi il petto fece andare su e giù la mano destra, come se stesse strimpellando una chitarra. Lucio capì e sorrise. «Fetta! Sì, fetta! » esclamò, che per lui significava “festa”. Scrutò con grati-tudine il sorriso che aveva scacciato l’austerità dal volto di Emilio. Era la prima volta che qualcuno dei colleghi gli dava importanza, addirittura invi-

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tandolo a una festa. Rise felice, poi scrollò le spalle, non sapeva se sarebbe andato a quella festa, era già tanto essere stato invitato.