PER IL DIRITTO ALLA SALUTE UN SISTEMA DI QUALITÀ filedi Manuela Vespa, Dipartimento Welfare ......

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PER IL DIRITTO ALLA SALUTE, UN SISTEMA DI QUALITÀ

Lombardia: una sanità da curare. Servizi territoriali e partecipazione:

dieci proposte per rispondere ai bisogni di salute dei cittadini

Quaderni del socio sanitario n. 13

Questo numero dei Quaderni contiene gli atti del Convegno “Lombardia: una sanità da curare. Servizi territoriali e partecipazione: dieci proposte per rispondere ai bisogni di salute dei cittadini” promosso dalla Cgil Lombardia e dal Dipartimento Welfare e Nuovi Diritti della Cgil nazionale che si è svolto a Milano il 14 giugno 2005.

Segreteria di Redazione: Velia Mariconda Progetto grafico: Daniela Boccaccini Stampa: Tipografia C.G.E. srl - Roma Finito di stampare nel mese di aprile 2006 Disponibile on line: www.cgil.it/welfare

INDICE

Presentazione di Manuela Vespa 05

Introduzione di Riccardo Terzi 08 Relazione di Giuseppe Vanacore 12 Comunicazioni - Livio Melgari 24 - Piermaria Zannier 31 - Giuseppe Landonio 47 - Angela Di Giaimo 52 - R. Alfieri, R. Peasso, T. Terrana, F. Tortorella 58 Interventi programmati - Gian Battista Guerrini 71 - Tommaso Terrana 77 - Bruno Benigni 88 - Fulvia Colombini 92 - Giovanni Bissoni 97 Conclusioni di Roberto Polillo 103 Documento: dieci proposte di correzione del sistema sanitario lombardo 111

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PRESENTAZIONE di Manuela Vespa, Dipartimento Welfare Cgil Lombardia

La Cgil lombarda ha seguito con attenzione, sia sul terreno dell’analisi, sia dell’iniziativa sindacale l’evoluzione del “modello lombardo” di welfare sanitario e sociale, cogliendone le caratteristiche peculiari e le distorsioni sin dal suo avvio, con la legge regionale di riordino 31 del ‘97 ed i successivi sviluppi (in particolare, il Piano socio sanitario 2002-2004). Un modello, unico nel panorama delle Regioni italiane, i cui aspetti problematici sono stati evidenziati in un precedente numero (n. 5 del 2004) dei “Quaderni del socio sanitario”, dal titolo significativo “Lombardia: un modello da non imitare”, che documenta le trasformazioni intervenute nella rete dei servizi, risultanti da una profonda ristrutturazione del sistema di offerta, in particolare ospedaliera, non orientata al soddisfacimento dei bisogni della popolazione e da scelte di programmazione, ma condizionata dalle scelte di bilancio e realizzata attraverso la leva economico-finanziaria. Il Servizio sanitario lombardo ha vissuto, a partire dalla seconda metà degli anni ‘90, due fasi distinte: - una prima fase “espansiva”, avviata nel ‘96, con la

liberalizzazione dell’offerta specialistica, che ha determinato, attraverso l’accreditamento di tutta l’offerta privata, un aumento significativo dei ricoveri, delle prestazioni ambulatoriali e della spesa, una netta redistribuzione di risorse a favore del privato e forti interrogativi sulla sostenibilità economico-finanziaria del sistema,

- una seconda fase “recessiva”, avviata nel 2002 con l’approvazione del primo Piano socio sanitario regionale e confermata ora nella proposta del secondo (2006-08), che attraverso il blocco degli accreditamenti, la fissazione di tetti di spesa ed il conseguente abbattimento delle tariffe ha permesso di mettere, in una certa misura, sotto controllo la spesa, ma ha determinato il ridimensionamento dell’offerta pubblica, nei presidi ospedalieri e sul territorio.

Il convegno organizzato dalla Cgil Lombardia, insieme al Dipartimento Welfare della Cgil nazionale nel giugno del 2005, ha rappresentato un’occasione importante di attualizzazione

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dell’analisi e di elaborazione di una proposta per una riforma “sostenibile” del sistema socio-sanitario lombardo. La relazione ed i diversi contributi hanno indagato gli effetti del “modello lombardo” sulla rete di offerta dei servizi, dalla profonda trasformazione della rete ospedaliera, al ridimensionamento dei distretti e all’indebolimento della rete territoriale dei servizi integrati (consultori, servizi per le tossicodipendenze, per l’handicap, per gli anziani,…), anche a seguito della scelta di esternalizzazione e di “voucherizzazione” dei servizi socio sanitari di competenza delle Asl. Per ragioni di spazio non è stato possibile pubblicare tutto il materiale prodotto, che è però disponibile sul sito della Cgil Lombardia: www.cgil.lombardia.it In particolare, sono di un certo interesse la raccolta di dati sul sistema sanitario (indicatori demografici, sanitari e di evoluzione dell’offerta delle strutture sanitarie e socio-sanitarie in Lombardia) ed i risultati di un’indagine, realizzata nel mese precedente al convegno, sui tempi di attesa per alcune visite specialistiche (cardiologica, gastroenterologica, ginecologica, geriatrica, oculistica) e per alcuni esami radiologici (mammografia extra-screening, ecografia mammaria, ecografia prostatica) in alcune aziende ospedaliere e case di cura private nelle Asl di Milano città, Brescia e Lecco. La ricerca, che per la limitatezza del campione non aveva alcuna pretesa scientifica, aveva come obiettivo la verifica della corrispondenza tra i dati reali e quelli ufficiali, pubblicati sul sito della Regione. I risultati hanno evidenziato che i tempi reali per tutte queste prestazioni sono spesso doppi o tripli rispetto a quelli dichiarati e che è tuttora diffusa l’abitudine di chiudere le liste, per non rilevare tempi eccessivi. Gli esiti dell’indagine hanno confermato che l’aumento dell’offerta di prestazioni specialistiche ambulatoriali, soprattutto nel privato, come peraltro era prevedibile, non è riuscito a ridurre in modo significativo i tempi di attesa, poiché, come riconosce anche la proposta di “Piano socio sanitario regionale 2006-08” in via di approvazione da parte della Giunta regionale, è dimostrato che l’aumento dell’offerta può determinare una temporanea riduzione delle attese, che è però “rapidamente vanificata dal successivo incremento della domanda”, poiché “in sanità è l’offerta che determina la domanda”.

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Inoltre, abbiamo molti elementi per affermare che l’aumento dell’offerta ha determinato una riduzione dell’appropriatezza, come viene riconosciuto anche dalla proposta di Pssr, senza che però se ne traggano le conseguenze in termini di correzione del sistema. Il convegno non si è limitato a denunciare le storture del modello lombardo, ma ha posto al centro del confronto le nostre proposte di modifica, contenute nel documento preparatorio “Dieci proposte di correzione del sistema sanitario lombardo”, che affronta i diversi nodi del sistema sui quali riteniamo sia necessario intervenire per renderlo più equo ed adeguato a rispondere ai bisogni di salute dei cittadini lombardi. Per fare questo riteniamo necessario innanzitutto affrontare il problema dell’accesso e del rispetto dei tempi, un nodo cruciale del sistema ed uno dei motivi di maggiore insoddisfazione da parte dei cittadini, e riequilibrare il sistema, per rispondere meglio alle modificazioni epidemiologiche intervenute, spostando l’asse dell’intervento dall’ospedale al territorio, attraverso il rilancio del ruolo dei distretti, la sperimentazione della “Casa della salute” e valorizzando il ruolo del medico di medicina generale, che deve diventare sempre più il garante della salute degli assistiti, della continuità assistenziale e dei percorsi di cura. E poi ancora: il rilancio delle politiche di prevenzione, una politica del farmaco improntata all’equità ed all’appropriatezza, lo sviluppo, a partire dal livello distrettuale, dell’integrazione socio sanitaria dei servizi per anziani, minori, disabili,… proposte contenute anche nella “Piattaforma sul welfare” che la Cgil lombarda ha presentato alla Giunta regionale insieme a Cisl e Uil alla fine del 2004 e che mantiene tutta la sua attualità e validità.

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INTRODUZIONE di Riccardo Terzi, Segretario Generale Spi Cgil Lombardia

Il sindacato deve affrontare il problema della politica sanitaria da un punto di vista negoziale, cercando cioè di individuare qual è lo spazio possibile per un confronto sindacale, evitando la contrapposizione di astratti modelli ideologici. E’ un’operazione non facile, perché tutto il dibattito sulle politiche di welfare è fortemente ideologizzato, soprattutto in Lombardia, e perché con il governo regionale non si è mai sviluppato un vero confronto sindacale, ma ci si è limitati a far funzionare qualche tavolo tecnico, senza mai poter discutere davvero delle scelte strategiche complessive. L’unico criterio che dobbiamo seguire è quello di metterci dal punto di vista dei cittadini, delle persone che vogliamo rappresentare, e vedere, in questa ottica, quali sono le criticità del sistema sanitario in Lombardia e come possono essere affrontate. Naturalmente, in un campo come questo, la rappresentanza del sindacato non è esclusiva, e dobbiamo metterci in una posizione di dialogo e di collaborazione con altri soggetti, dalla rete associativa del terzo settore alla comunità scientifica. E lo stesso sindacato ha al suo interno una pluralità di interessi, che devono essere tra loro mediati, degli utenti e degli operatori, degli anziani bisognosi di cura e dei dipendenti pubblici. La fondamentale criticità del sistema sanitario in Lombardia sta nel fatto che esso si regge su una forte struttura ospedaliera, con alcune punte di avanzatissima qualificazione, ma manca un presidio territoriale diffuso, manca ciò che viene prima e dopo il ricovero ospedaliero. E’ quindi un sistema squilibrato, che risponde alle più gravi emergenze, ma non riesce ad accompagnare le persone nelle loro quotidiane necessità, sia nella fase della prevenzione e del controllo, sia in quella dell’accompagnamento e della riabilitazione post-ospedaliera. Questo difetto incide particolarmente sulle persone anziane, che più hanno bisogno di una costante azione di sostegno, e per le quali spesso sarebbe necessaria e sufficiente un’efficace assistenza domiciliare, oggi del tutto carente. Manca, in sostanza, un presidio territoriale, il quale non può che essere socio-sanitario, con una forte integrazione tra intervento sanitario e politiche sociali. Ci possono essere diversi modelli,

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diverse soluzioni possibili a questo problema. Un esempio interessante è quello della “casa della salute”, che si sta sperimentando in Toscana. Un’altra ipotesi di lavoro è quella di riorganizzare tutta la rete dei medici di base, passando dalla concezione tradizionale del libero professionista a quella di un lavoro organizzato collegialmente, dando luogo a strutture polivalenti, che mettono insieme diverse competenze e che possono così offrire una risposta più qualificata ai bisogni delle persone. Le soluzioni possono essere diverse, ciò che è importante è riconoscere che questo è un problema aperto e prioritario. Possiamo cercare di affrontarlo, qui in Lombardia, con un dialogo concreto tra istituzioni, operatori sanitari, sindacato, associazioni? Nel programma elettorale del presidente Formigoni c’è qualche vago accenno a questo tema, ma manca qualsiasi indicazione operativa concreta. Prevale una linea di continuità, esaltando il modello lombardo, senza vederne però con sufficiente chiarezza i punti critici, i problemi che sono rimasti irrisolti. Ecco allora un tema di iniziativa sindacale e di confronto istituzionale: l’attività di prevenzione, da un lato, e quella di riabilitazione, di assistenza post-ospedaliera, dall’altro, che sta diventando una vera emergenza, anche per i criteri di rigida efficienza aziendale che sono seguiti dalle strutture ospedaliere, le quali riducono al minimo i tempi di degenza, scaricando poi sui malati e sulle loro famiglie tutti i problemi successivi di recupero e di riabilitazione. Il secondo aspetto da considerare è il rapporto della politica sanitaria (e più in generale di tutte le politiche di welfare) con le trasformazioni sociali e demografiche che stanno avvenendo nella nostra società, e quindi con le nuove domande e con i nuovi bisogni, cercando così di attrezzare tutta la rete dei servizi per affrontare non solo le situazioni di emergenza, ma le tendenze di fondo e strutturali della società italiana. C’è anzitutto il processo di invecchiamento, che sta cambiando profondamente tutta la struttura sociale. Tutte le proiezioni demografiche per i prossimi decenni ci danno delle previsioni allarmanti, con una crescita molto consistente del numero delle persone anziane e delle situazioni di non autosufficienza. A questo si accompagna anche un processo di destrutturazione della famiglia tradizionale, per cui la famiglia sempre meno riesce a funzionare come una rete di protezione. Basti

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considerare il numero, in costante crescita, delle persone sole. Si indebolisce quindi quello che è stato nel passato un importante punto di forza a sostegno della coesione sociale, e in queste nuove condizioni tutte le politiche per la famiglia debbono quantomeno essere aggiornate e ripensate. C’è un altro grande processo sociale, di cui si parla ancora troppo poco nel dibattito pubblico: è l’ondata migratoria, che cambia la composizione sociale e incide sulle forme della convivenza e sulle identità culturali. Ci troviamo di fronte a persone deboli, senza diritti, con barriere linguistiche, ideologiche, e a volte anche razziste, che impediscono la realizzazione piena dei diritti di cittadinanza. Se a questo aggiungiamo le nuove forme di povertà e di emarginazione, presenti soprattutto nelle grandi aree urbane, vediamo un quadro complessivo di allarme sociale, nel quale per moltissime persone tutto il tema dei diritti è tutt’altro che risolto. Dobbiamo allora considerare tutto il funzionamento del sistema sanitario e assistenziale dal punto di vista di queste persone, considerando le loro fragilità e la loro difficoltà a orientarsi in un sistema complesso, ad affrontare le complicazioni burocratiche, a disporre delle informazioni necessarie. Quando la Giunta Regionale mette al centro della sua strategia il principio della “libertà di scelta”, pone un problema molto importante, ma occorre vedere in concreto come rendiamo effettiva questa libertà, che rischia altrimenti, se manca una concreta azione di accompagnamento delle persone più deboli, di essere solo uno slogan propagandistico. Se tutta la situazione sociale richiede un sistema rafforzato di welfare, diventa decisivo il tema delle risorse economiche. Va attentamente studiato tutto il problema della compartecipazione dei cittadini ai costi del sistema, distinguendo nettamente però le diverse situazioni individuali, sia dal punto di vista del reddito, sia sotto il profilo delle condizioni di salute. In questo senso, è stato importante l’accordo sindacale che ha eliminato i ticket per i malati cronici. Ma resta del tutto irrisolto quello che è il problema più acuto, sotto il profilo delle relazioni affettive e dei costi economici, e che riguarda le situazioni di non autosufficienza. E’ un discorso che va riaperto con urgenza sia a livello nazionale, sia nelle singole Regioni, dove possono essere avviate delle sperimentazioni, anche con forme autonome di finanziamento

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(addizionale Irpef, tassa di scopo, assicurazione obbligatoria). Ecco un caso concreto in cui la libertà di scelta si scontra con la durezza della realtà, e in moltissimi casi l’unica scelta è quella di cercare una soluzione sul mercato privato delle assistenti familiari. In conclusione, la politica sanitaria in Lombardia ha bisogno di essere inquadrata in una visione sociale allargata, non essendo per nulla sufficiente la rete ospedaliera ed essendo necessario un intervento integrato che affronti le diverse emergenze sociali. Il principio della sussidiarietà può essere un utile filo conduttore per affrontare questi problemi. Questo principio viene oggi sbandierato dalla Giunta Regionale, ma viene nei fatti disatteso e distorto. La sussidiarietà vuol dire due cose: valorizzazione di tutta la rete delle autonomie locali, e coinvolgimento dei soggetti sociali. Su entrambi i fronti, il governo regionale è inadempiente. Non c’è la responsabilizzazione di Comuni e Province, ma c’è un sistema regionale accentrato. E non c’è un confronto sistematico con i soggetti sociali, tra i quali certo non si può ignorare il peso delle rappresentanze sindacali. La Lombardia, tra l’altro, è l’unica regione che non si è ancora dotata di uno statuto, che non ha quindi definito la sua architettura istituzionale, e non ha creato gli strumenti e gli istituti della partecipazione democratica alle decisioni. La sussidiarietà rischia quindi di essere solo un vessillo ideologico, senza contenuti e senza effetti concreti. Noi quindi insistiamo perché si apra davvero un confronto su tutti i temi fin qui accennati, coinvolgendo tutti i soggetti che sono interessati, tenendo conto dei nuovi poteri e delle nuove competenze che sono state attribuite alle Regioni nel campo delle politiche sociali, prendendo quindi sul serio il federalismo come una scelta di autogoverno e di responsabilità delle diverse comunità regionali e locali.

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RELAZIONE di Giuseppe Vanacore, Segreteria Cgil Lombardia

1. Nel quadro di una situazione economica a dir poco allarmante del nostro Paese, la situazione della sanità si presenta fortemente a rischio (taglio IRAP). L’accordo tra Stato e Regioni dell’8 agosto 2001 sul riparto delle risorse nonostante fosse nato con l’intento ambizioso di risolvere definitivamente i problemi del sottofinanziamento del servizio sanitario si è dimostrato, nella realtà, inadeguato agli scopi: la distanza ancora notevole tra livello di finanziamento e fabbisogno e il gap strutturale delle Regioni del sud non hanno trovato in quell’accordo risposte adeguate. Naturalmente la condizione di sottofinanziamento, che ha caratterizzato come dato strutturale permanente il nostro SSN, non è stata priva di conseguenze, che incidono pesantemente sul sistema, rappresentando anche un’insidia per la sua tenuta complessiva. Ad esempio, l’Istat fa notare nel rapporto annuale 2003 come nel periodo 1991-2001 la spesa sanitaria pubblica sia passata da 47 a 74 miliardi di euro e come nello stesso periodo la spesa direttamente a carico delle famiglie sia cresciuta da 10 a 22 miliardi. All’aumento della spesa a carico delle famiglie corrisponde una visibile diminuzione della quota di spesa pubblica, diminuita dal 50,3% del 1991 al 46,2% del 2001. Per l’Istat in conclusione quello che emerge con chiarezza è un vero e proprio processo di privatizzazione del sistema, sia dal lato dell’erogazione dei servizi, e sia da quello della spesa sostenuta. La difesa dell’universalismo e la consapevolezza dei processi in atto di modifica della composizione della spesa a favore dei soggetti privati - la Regione Lombardia è all’avanguardia in questo senso - sono stati un forte presupposto comune tra le persone che hanno contribuito alla preparazione del convegno. Importante è però oggi analizzare i diversi approcci al sistema dei servizi sanitari, ascoltando il punto di vista di addetti ai lavori e utenti, cercando insieme di costruire quelle proposte necessarie a rilanciare il sistema pubblico e l’universalità dell’accesso. Le politiche per la prevenzione primaria, come evitare che l’accesso ai servizi continui ad essere per i cittadini o una corsa

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ad ostacoli o l’arte di arrangiarsi o mettere mano al portafoglio, il ruolo dell’ospedale e il rapporto con il territorio, la funzione dei medici di medicina generale e il problema dei farmaci, il rapporto tra gestione pubblica e gestione privata, i criteri per la distribuzione delle risorse sono tutti argomenti intorno ai quali sono emerse proposte, sensibilità, esperienze anche molto diverse tra di loro. Temi certamente complessi che non possono essere ricondotti alla semplificazione liberista del mercato in sanità. Le dieci proposte che avanziamo, pur rappresentando una buona sintesi di quella discussione non hanno la pretesa di averla esaurita. Tutti d’accordo però sul fatto che il cosiddetto modello lombardo non ha dato buoni esiti su diversi fronti. A questo proposito nella pubblicazione della Cgil nazionale, n. 5 di “Quaderni del socio sanitario”, dal titolo “Lombardia un modello da non imitare”, provammo a ripercorrere le tappe del percorso avviato in Lombardia nel 1996. Analizzando gli atti della Giunta, ponemmo in evidenza come la politica sanitaria aveva mirato a produrre l’enorme deficit di bilancio, che in pochissimi anni aveva raggiunto quasi 4,5 miliardi di euro. Tutto questo senza che le liste di attesa fossero state significativamente ridotte. Anzi, a partire dal 2002 si è assistito ad un vero e proprio razionamento dei servizi sanitari (rapporto IRER) e delle prestazioni. Quell’analisi non ha perso di validità e ad essa rinviamo, poiché vorremmo in questa occasione andare oltre la denuncia degli effetti e dei rischi della politica sanitaria delle giunte Formigoni, che non abbiamo mai condiviso, e concentrare la nostra attenzione su alcune scelte da proporre, all’inizio di una nuova legislatura regionale, alla nuova giunta; si tratta di alcuni punti prioritari, molto concreti, finalizzati ad una correzione del sistema, per orientarlo verso la domanda di salute dei cittadini lombardi, ed in particolare della sua componente più fragile, gli anziani. Non conosciamo il programma della nuova giunta regionale, né il nuovo Programma regionale di sviluppo di questa legislatura, su di essi ci confronteremo quando sarà presentato al Consiglio regionale, sulla base delle proposte che qui discuteremo. 2. Da una serie di segnalazioni che ci provengono dall’interno delle strutture sanitarie, emerge una situazione di difficoltà

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crescente del sistema a mantenere soddisfacenti livelli di qualità dei servizi, sia rispetto all’attività di ricovero, sia rispetto alle attività territoriali ed in particolare agli obiettivi di riduzione delle liste di attesa di determinate prestazioni specialistiche. In particolare esprimiamo forti dubbi sul pareggio di bilancio conseguito nel 2003 e nel 2004, ritenendo che il risultato rilevato formalmente potrebbe non rappresentare la realtà effettiva; ci risulta infatti che:- i risultati di bilancio delle aziende sono concordati preventivamente con l’assessorato regionale; - le aziende rinviano la contabilizzazione dei debiti; - le aziende ospedaliere rinviano l’acquisto di materiale sanitario per non incidere sul bilancio corrente. Il pareggio corrente sarebbe il risultato costruito a tavolino, per non compromettere l’accesso ai finanziamenti nazionali e per dimostrare che il sistema rispetta le compatibilità economico-finanziarie dettate dal patto di stabilità. Tutto questo implicitamente si evince anche dal documento di governo del sistema per il 2005. Gli interventi riguardano solo manovre di bilancio, in una logica di “razionamento” delle prestazioni, conseguente ad una serie di vincoli e di tetti di spesa. Inoltre la parola d’ordine che attraversa il documento è “contenimento della spesa”, ma in realtà si tratta di una riduzione di risorse per il settore. L’incremento delle risorse previsto nell’ordine dello 0,8- 1%, infatti, è inferiore al tasso di inflazione e quindi conferma la fase recessiva inaugurata con le misure assunte alla fine del 2002. Naturalmente in questa situazione sono particolarmente esposte le persone anziane, che hanno a disposizione meno servizi sanitari. Indicativa la riduzione dei posti letto di medicina e la contestuale assenza di strutture in grado di garantire dimissioni protette, con adeguati servizi territoriali per la fase post acuta. Nessuna intenzione di dipingere la situazione della sanità in Lombardia peggio di quanto sia in realtà, per fortuna esistono buoni ospedali pubblici e c’è anche un privato di buona qualità, è evidente però che il sistema ospedaliero è stato via via indebolito dal produttivismo indotto dall’apertura all’incursione di interessi privati; e che il territorio non è stato al passo con i nuovi bisogni di salute che negli ultimi anni si sono manifestati. Non ci interessa in questa fase una disputa nominalistica intorno alle soluzioni da mettere in campo, ci interessa verificare con l’insieme degli attori se vi è convergenza sulla necessità di

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correggere il sistema, in particolare su questa seconda gamba rappresentata dal territorio, dalla cosiddetta medicina distrettuale. Alla discussione di stamattina e al confronto che si svilupperà nella tavola rotonda del primo pomeriggio, vogliamo dunque sottoporre alcune proposte senza pretesa di esaustività. Del resto non partiamo da zero, la piattaforma unitaria consegnata alla Regione nello scorso mese di novembre rimane un punto di riferimento fondamentale. Nel documento che presentiamo oggi esplicitiamo però con maggiore nettezza la necessità di alcuni interventi di correzione del sistema, a partire da un rilancio della programmazione basata sull’analisi dei bisogni, il recupero di un ruolo gestionale delle ASL, attraverso il rientro della specialistica e di alcuni ospedali, il mantenimento della gestione diretta di una parte dei servizi socio-sanitari, il rilancio del distretto, con la costituzione dei dipartimenti delle cure primarie, il ruolo dei comuni nella definizione degli atti di programmazione e la sperimentazione della casa della salute. I dati elaborati da Aldo Gazzetti ci aiutano a capire alcune cose importanti che sostengono ampiamente le nostre tesi. Prendiamo ad esempio la flessione del numero dei ricoveri nel 2003, non sostituita da un analogo aumento dei ricoveri in day hospital o in riabilitazione. Il 2003 è l’anno in cui la Regione impone un tetto di spesa ad ogni struttura e c’è da ritenere che la riduzione sia dovuta al raggiungimento del tetto di determinate attività; in questo caso non di maggiore efficacia complessiva del sistema si tratterebbe, ma soltanto dell’evidenziazione di una riduzione dei servizi ospedalieri. Analogamente si può osservare dalle tabelle riferite al costo medio per giornata di degenza, per dimesso e per letto l’elevato costo medio per giornata di degenza nelle strutture private, che indica come gli ammalati vengano dimessi più velocemente per aumentare la redditività del caso trattato. Nello stesso tempo però c’è da rilevare la mancanza di una reale parità tra strutture pubbliche e strutture private, con queste ultime intente a selezionare le prestazione maggiormente remunerative e con le strutture pubbliche, invece, che non possono selezionare, dovendo far fronte - per fortuna - a tutti i bisogni. Per questa principale ragione, ad esempio, rilanciamo la proposta di rivedere il sistema di finanziamento, privilegiando il finanziamento a quota capitaria ponderata per età. Si pone infatti l’esigenza di disincentivare e

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progressivamente superare il paradosso che il pagamento a prestazione ha determinato in questi anni, premiando di fatto la malattia e non la salute, sulla base di un produttivismo fine a se stesso e molto costoso. Le esperienze europee sono oggi indirizzate a premiare i risultati in termini di obiettivi di salute; è evidente che per arrivare a questo è necessario un ripensamento complessivo delle politiche di salute pubblica, partendo dall’epidemiologia, attraverso la prevenzione, fino ad una corretta analisi della qualità della vita del cittadino anche nel momento della malattia. Dai dati emerge anche un esempio di dato demografico non conosciuto. Solo dopo due anni e da fonte non regionale si può conoscere l’aumento di mortalità registrato nell’estate del 2003: 3637 decessi in più rispetto all’anno precedente, pari ad un incremento del 14,1%, (circa la metà dei decessi avvenne nelle Rsa). La Regione Lombardia, pur avendo a disposizione questi dati non ha prodotto, a differenza di altre Regioni, nessuno studio per approfondirne le cause e predisporre possibili rimedi per il futuro. In generale poi se la Lombardia, come altre Regioni, ha ridotto significativamente i tassi di mortalità, resta tuttavia ancora una delle regioni a più alta mortalità complessiva. Ciò è in contrasto con le tendenze europee, che vedono le regioni più ricche, quelle a maggior investimento in sanità pubblica, presentare gli esiti migliori. Nonostante la sopravvivenza per tumore in Lombardia sia complessivamente buona (inferiore però a quella di altre regioni come l’Emilia Romagna), la mortalità per tale malattia è la più alta d’Italia: è troppo alto il numero di nuovi casi rispetto ad altre regioni europee. Invecchiamento della popolazione, alto numero di casi per patologie cronico-degenerative (nel 2000 le persone con passato oncologico erano oltre 260.000), buona sopravvivenza dopo la comparsa delle patologie sono i fattori che determinano la crescita di domanda socio-sanitaria e rappresentano il grande problema della sanità pubblica del futuro in questa regione dove, per reggere le attese epidemiologiche, è necessario puntare drasticamente su investimenti in prevenzione primaria e sulla gestione delle liste di attesa in modo diverso rispetto a quanto si è finora fatto. Su quest’ultima tematica, infatti, pur senza alcuna pretesa scientifica, da un’indagine che abbiamo condotto emergono problemi molto seri, derivanti dalle vistose differenze

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organizzative tra le varie realtà territoriali. Una sorta di babele delle procedure, con centri di prenotazione che pretendono l’impegnativa, altri nei quali non sono disponibili i tempi di attesa, altri ancora con i quali solo per comunicare occorrono venti, venticinque minuti di attesa. Se è defatigante il modo di accedere alle informazioni, per quanto riguarda concretamente i tempi, per le prestazioni più complesse siamo molto oltre i tempi ufficiali, come nel caso delle mammografie extra screening: negli ospedali più grandi, a fronte dei 40 giorni fissati dalla Regione, si superano i 240 giorni di attesa. 3. In realtà, la Regione Lombardia nella passata legislatura si è interessata prevalentemente alla revisione della natura giuridica e dell’assetto proprietario e gestionale delle aziende ospedaliere e delle aziende sanitarie locali. Anche se a partire dal 2002, come già si è accennato, è stato introdotto il tetto di spesa per ogni struttura che ha dato luogo ad un vero e proprio razionamento delle prestazioni, per far fronte alla disastrosa situazione di bilancio, costata ai cittadini lombardi l’aumento dell’Irpef e l’introduzione dei ticket sui farmaci, la diagnostica e il pronto soccorso. Passando dal piano normativo a quello delle prestazioni, in più occasioni è stata denunciata una situazione socio-sanitaria in costante peggioramento, che si manifesta in particolare negli squilibri nell’assistenza ospedaliera e nella non adeguatezza della rete di cure primarie, con l’abbandono della medicina distrettuale e l’assenza di una politica di sostegno professionale e organizzativa ai medici di medicina generale. A questo stato di cose si accompagna una situazione quotidiana delle strutture pubbliche di profonda crisi, con la contrazione degli organici e la crescita del lavoro precario, con il ricorso sistematico alle esternalizzazione, che interessano sempre più apertamente le attività di cura, subordinando in questo modo agli interessi dei fornitori i livelli di assistenza. Per la popolazione anziana, ad esempio, è diminuita la quantità e la qualità dei servizi offerti: i letti di medicina generale sono diminuiti e non appare tuttora adeguata l’offerta di p.l. nei reparti o nelle strutture di riabilitazione. Come risposta ai bisogni di cura della popolazione anziana, viene esibito l’aumento dei posti nelle RSA (+50%), ma il cui costo per gli anziani e le loro famiglie è sempre più oneroso.

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Il fatto che la sanità lombarda non sia in condizioni disastrose non è una buona ragione per non temere per il futuro. Con i mutamenti demografici, determinati dall’invecchiamento, l’immigrazione e i bassi tassi di natalità sorgono nuovi bisogni di salute ed occorre inevitabilmente occuparsene. 4. Regioni e Comuni, con i loro rispettivi poteri in materia di sanità e nel settore sociale rappresentano oggettivamente i due principali livelli di competenza e gli interlocutori privilegiati per tutti gli attori che operano nel sistema socio-sanitario. Come si struttura questa relazione è un problema fondamentale per il successo sia delle politiche sanitarie sia delle politiche sociali stesse, essendo l’intreccio tra le due problematiche sempre più stretto e, per taluni versi, addirittura indissolubile. La maggiore capacità di cura del sistema sanitario, come abbiamo sopra accennato, comporta, ad esempio, sia una crescita della cronicità sia un contestuale aumento di anziani non autosufficienti e dare una risposta completa su questi versanti vuol dire innanzi tutto che Comuni e Regioni debbono governare insieme una parte delle rispettive competenze. L’integrazione socio sanitaria costituisce senza dubbio il punto di relazione intorno al quale ragionare sia in termini politici sia in termini organizzativi, ed è questo uno dei problemi principali che in varia misura tutte le Regioni stanno affrontando. Ogni Regione ha sperimentato nel tempo percorsi diversi, non pensiamo che vi sia un modello da esportare tout court, ma senza dubbio vi sono in corso esperienze che stanno producendo risultati diversi, è questo che a noi preme evidenziare, per ricavarne indicazioni da porre alla base delle nostre proposte e della nostra negoziazione, con la Regione e con i Comuni a livello territoriale. La Lombardia nel 1980 aveva scelto di istituire Unità socio sanitarie locali, le due “S” stavano ad indicare che si privilegiava l’integrazione nel territorio delle politiche sanitarie e sociali, ciò a partire dalla delega da parte dei comuni alle USSL delle competenze in campo sociale. Anche successivamente con la trasformazione in Aziende delle unità sanitarie locali, l’integrazione venne salvaguardata; nella legge regionale 31/97 si attribuivano in teoria al distretto funzioni fondamentali nel campo delle cure primarie e per tutto quanto attiene all’accesso ai servizi da parte del cittadino.

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Negli atti successivi tuttavia, come è stato sopra accennato, dagli organi di governo della Regione, giunta e assessorati, è stata presa un’altra direzione: nell’attuale contesto in Lombardia il distretto non ha più la funzione di interfaccia tra sistema sanitario e cittadino. E’ stata intrapresa un’altra strada che ha portato al progressivo assorbimento del personale da parte degli ospedali. Stessa sorte per la rete degli ambulatori, prima afferiti alla gestione delle aziende ospedaliere e poi assorbiti come attività all’interno degli ospedali. Nello stesso tempo la Regione ha operato per superare il modello di gestione delle ASL fondato sull’integrazione socio-sanitaria, con la restituzione ai comuni delle deleghe sociali. Ciò che oggi si presenta all’attenzione di un qualsiasi osservatore è che sul versante socio-sanitario è andato molto avanti il processo di esternalizzazione e di voucherizzazione dei servizi. Tutto è partito con la messa in discussione dell’assistenza domiciliare integrata (ADI), ma oramai nelle ASL residuano poche funzioni, prevalentemente di tipo burocratico-amministrativo. Dopodiché nel territorio è presente meno personale qualificato, mentre si scaricano sul settore sociale problematiche chiaramente di tipo sanitario: malati cronici, bisognosi di cure palliative, malati non autosufficienti, vengono scaricati alle famiglie o ai comuni, che devono farsi carico di tutte le difficoltà derivanti da dimissioni ospedaliere non protette o nella mancanza di chiarezza nelle responsabilità dei percorsi di presa in carico. Per non parlare del fatto che da questo percorso di traslazione della responsabilità dalla sanità al sociale, derivano spesso ingenti oneri economici che gravano direttamente sulle famiglie e sui comuni. Le cure ai malati terminali, ad esempio, non rientrano nelle competenze del servizio ADI quantunque in passato sotto la dizione ADI si siano assicurate anche prestazioni riconducibili a cure domiciliari di tipo squisitamente sanitario. Con la voucherizzazione dell’ADI il problema emerge in tutta la sua contraddizione e mette ulteriormente in evidenza la povertà della rete di questi servizi in Lombardia, con la perdita della gestione diretta e l’oramai generalizzata esternalizzazione degli stessi. 5. Si è accennato al fatto che nelle regioni si sono sviluppate sperimentazioni differenti dei servizi territoriali preposti alla

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prevenzione e alla cura e rispetto all’integrazione socio-sanitaria. In alcune regioni i problemi sono stati affrontati in maniera diversa dalla Lombardia, la rete dei servizi territoriali è stata rafforzata in Emilia, nei distretti vengono elaborati annualmente i piani di salute, approvati dai comuni. E’ stato costituito il dipartimento delle cure primarie, nel quale interagiscono medici di medicina generale ed operatori dei servizi. Anche in Toscana le costituende Società della salute, formate dai comuni e dalle ASL, hanno come compito precipuo quello di ricomporre nel territorio le funzioni sanitarie e sociali, affidando loro compiti di committenza dei servizi gestiti direttamente dalle strutture pubbliche. La presenza di Bissoni assessore alle Politiche della Salute in Emilia Romagna alla tavola rotonda e di Lorenzo Roti direttore dell’agenzia sanitaria della Toscana nel dibattito, ci consente di accostare attraverso testimoni autorevoli esperienze diverse, indicative di scelte politiche che noi consideriamo in sintonia con le necessità di una regolazione della medicina distrettuale in Lombardia, diversa da quella attuale. Noi riproponiamo la costruzione di un forte polo territoriale accanto all’ospedale, che abbia nel distretto il punto centrale di organizzazione della domanda e di erogazione dei servizi, una scelta che rappresenta la premessa per una possibile ricomposizione dell’intero sistema di servizi preposto alla cura della persona. Negli ultimi anni in più occasioni negli incontri sindacali con l’assessorato si è parlato della necessità di favorire l’associazionismo dei medici di medicina generale, di interventi per la non autosufficienza, del problema di rilanciare le cure primarie. Ma a differenza della Giunta che pensa di trasformare il medico di medicina generale in un venditore di prestazioni, noi nel territorio pensiamo che vada rafforzata la rete dei servizi pubblici preposti alla tutela della salute, in forte sinergia con il terzo settore, con l’ASL non ridotta a svolgere un ruolo residuale di tipo eminentemente burocratico, prevedendo la costituzione del dipartimento delle cure primarie e rafforzando il ruolo del medico di medicina generale come professionista al servizio del sistema pubblico

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6. Da questa premessa fondamentale discende il ruolo dei comuni, con la previsione di precisi poteri da attribuire all’assemblea dei sindaci, a partire dall’approvazione degli atti di programmazione, al coinvolgimento nella nomina del direttore di distretto. Discende, inoltre, dalla stessa premessa la possibilità di una politica rivolta all’assistenza primaria e nei confronti dei MMG. Per l’assistenza primaria occorre innanzitutto rivedere le scelte che hanno portato all’afferimento di tutti i poliambulatori agli ospedali, per riportarne la titolarità nel territorio. Il ruolo del medico di medicina generale deve diventare sempre più quello di garante della salute degli assistiti, di gestore della continuità assistenziale e dei percorsi di cura, avvalendosi quando occorre della collaborazione delle strutture di ricovero, dei servizi specialistici e delle altre figure operanti a livello distrettuale. Occorre valorizzare il ruolo dei medici di medicina generale promuovendo e sostenendo le forme associative dell’assistenza primaria previste nella convenzione nazionale recentemente sottoscritta, quali modalità in grado di assicurare l’apertura e l’attività degli ambulatori per un più lungo arco di tempo e con prestazioni di cure primarie (ad esempio: primo soccorso per patologie di minore rilievo, monitoraggio clinico e strumentale delle patologie croniche stabilizzate - diabete, cardiopatie ed ipertensione, asma e bronchite cronica...- ed anche prestazioni infermieristiche ambulatoriali e domiciliari, e non ultime funzioni di collegamento con i servizi pubblici per funzioni di tipo amministrativo, dalle informazioni alla prenotazione di visite ed esami …). Svolgendo tale ruolo il medico di medicina generale diventa anche responsabile della domanda sanitaria e “valutatore della qualità” dell’offerta essendo in grado di monitorare l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie erogate al proprio assistito, individuando le prestazioni erogate non necessarie: in un sistema “di qualità” evidenziare l’errore (in questo caso la prestazione inutile, o non appropriata) diventa momento indispensabile verso un miglioramento del sistema stesso. La sfida che la Lombardia ha di fronte, come tutte le altre regioni, è quella di assicurare nel futuro una sanità per tutti i cittadini di buon livello. Il governo della domanda, prestazioni appropriate e la riduzione dei ricoveri ospedalieri sono

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sicuramente parte di una strategia che noi consideriamo al servizio della difesa dell’universalismo. 7. In questo quadro strategico si pone anche la nostra proposta di Casa della salute. La Casa della Salute, secondo la definizione di Bruno Benigni dello SPI nazionale che interverrà nel nostro dibattito, è la sede pubblica in cui la comunità locale si organizza per la promozione della salute e del benessere sociale e dove trovano allocazione, in uno stesso spazio fisico, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie e sociali per una determinata e programmata porzione di popolazione. E’ la soluzione organizzativa per la messa a disposizione di servizi a livello distrettuale o sub-distrettuale, dalla specialistica di primo livello, alle attività di igiene e prevenzione, alle attività di tipo consultoriale per la famiglia, la donna ed i bambini, gli anziani, ai servizi territoriali per la psichiatria, le tossicodipendenze e l’handicap oltre che i vari servizi di carattere amministrativo per informazioni, rilascio di documenti, attestazioni, prenotazioni, ecc… La Casa della Salute crea le condizioni strutturali per passare dalle affermazioni di principio sull’unitarietà e l’integrazione dei livelli essenziali delle prestazioni sociosanitarie di base - principi fondamentali, affermati esplicitamente dalla legge 229/99 e dalla legge 328/2000, ma che fin qui sono rimasti sostanzialmente enunciazioni teoriche – alla loro concreta realizzazione, dal momento che essa si costituisce come il luogo della ricomposizione delle culture, delle competenze e delle responsabilità dei servizi sanitari e sociali territoriali, nel rispetto dell’unità della persona, considerata nel suo contesto di vita e di lavoro. Conclusioni E’ stato detto ed è assolutamente condivisibile da Victor Fuchs (professore emerito alla Stanford University, si occupa di analisi economica applicata ai problemi sociali con particolare riferimento ai temi della salute e dell’assistenza sanitaria) che “i grandi cambiamenti nella sanità sono atti politici intrapresi per motivi politici”. Questa affermazione ci rinvia al ruolo della politica e delle istituzioni, ma anche al ruolo che le forze sociali possono svolgere in questa nuova legislatura per orientare diversamente le politiche generali della sanità, ripartendo dalla

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necessità del metodo della programmazione, abbandonato negli ultimi anni. C’è la necessità di governare democraticamente il sistema, di estendere la partecipazione e accrescere la responsabilità di tutti i soggetti e degli stessi cittadini rispetto al governo del Ssr. Formigoni nel suo programma elettorale pone come obiettivo di questa legislatura il completamento del proprio modello, con la sperimentazione di forme assicurative, a partire dalla non autosufficienza, la trasformazione degli ospedali in fondazioni, l’introduzione di modelli sperimentali sulla professionalità, per prefigurare il contratto di lavoro regionale, lo sviluppo della sussidiarietà orizzontale e il federalismo fiscale, pensati non per ampliare gli spazi di partecipazione, ma per ridurre la responsabilità diretta delle istituzioni, che in questa prospettiva si limiterebbero ad erogare i voucher ed a garantire le riduzioni fiscali, per le prestazioni acquistate sul mercato. E’ una prospettiva da noi non condivisa in passato e da contrastare ancora adesso, perché produrrebbe meno responsabilità collettiva e più solitudine del cittadino in condizione di bisogno. Per aprire una nuova fase è stata presentata una piattaforma unitaria e oggi una proposta ulteriore di approfondimento, per dare centralità al territorio, rilanciare la partecipazione di tutti i soggetti, a partire dal sindacato e dai comuni, collocare maggiori risorse economiche e professionali nel territorio, dove sorgono i bisogni. Si tratta di misure che mirano a correggere la linea fin qui seguita dalla giunta regionale, utili per assicurare un sistema di cure adeguato per tutti, per avviare anche percorsi di partecipazione e responsabilizzazione dei cittadini, offrendo con la sperimentazione della “casa della salute” un’opportunità non solo di servizi decentrati, ma anche di informazione e di relazione.

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COMUNICAZIONE di Livio Melgari, Segreteria Spi Cgil Lombardia

Premessa Rappresentare, se pur brevemente, la complessità del rapporto delle persone anziane e degli ammalati cronici con il sistema sanitario lombardo è compito semplice e arduo nello stesso tempo. Semplice in quanto basterebbe il lungo elenco delle disfunzioni e delle difficoltà di fronte alle quali si trovano quotidianamente, per aver un quadro sufficientemente preciso del problema. Arduo in quanto noi non vogliamo fermarci alla denuncia, ormai ripetuta a noia, ma andare oltre, comprendere come sia possibile aggiustare la sanità lombarda, non solo nelle sue ipotesi di miglioramento, ma nelle sue possibilità concrete di cambiamento. Per brevità penso che possiamo dare per acquisito che i tratti fondamentali delle politiche regionali in sanità, si sono concentrati nella spinta verso una maggior privatizzazione del sistema, nella promozione del mercato sanitario come elemento dinamico e di contenimento della spesa. Abbiamo già visto come questa idea abbia dato risposte insufficienti o sbagliate, lontane dai bisogni reali e come, sul terreno delle fragilità e delle insicurezze, non esista di fatto quella libertà di scelta che si vuole prerogativa dei cittadini e presupposto di un’economia concorrenziale. Chi non ha voce, chi sta male, chi non può far altro che chiedere, non è in condizione di scegliere. Per questo il primo indispensabile passo da fare per qualsiasi reale approccio riformatore è di riportare al centro del sistema la persona in quanto tale, modificando l’attuale presupposto che il paziente è prima di tutto un soggetto economico, un cliente, i cui bisogni possono essere più o meno soddisfatti in base alla sua possibilità di spesa, fosse anche sostenuta da buoni e voucher.

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1. Essere soli e ammalati Ma cosa vuol dire essere anziani e ammalati in Lombardia? Vuol dire innanzi tutto essere soli. Soli, come dicono le statistiche, che indicano in più del 30%, cioè una su tre, le persone oltre i 65 anni che vivono da sole. Soli, come ci dice lo stesso questore di Milano quando denuncia 29 casi in un anno di anziani trovati morti in casa senza che nessuno se ne fosse accorto. Soli, come ci ricorda il servizio telefonico “Filo d’Argento” dell’Auser con le migliaia di chiamate ricevute, di cui ben il 79% provengono da anziani che vivono soli. Di questi il 68% chiedono un trasporto protetto, in genere per andare dal medico o a fare delle analisi, ma spesso vogliono solo compagnia, o un aiuto per fare la spesa o andare in farmacia. E’ vero, in Lombardia non ci sono solo “questi” anziani, ma bisogna partire da loro per capire la difficoltà, la sofferenza intrinseca che c’è nella distanza tra i loro bisogni e un sistema che ha perso per strada quote di umanità, che non considera più le stagioni, con il variare delle temperature più estreme, un elemento di cui tener conto nella tutela dei soggetti più fragili. E non si pensi che questi siano problemi solo metropolitani. L’anziano che vive in un paese della Val Sabbia o della Valtellina, nella campagna di Cremona o sul lungo Po pavese, dopo che gli hanno chiuso l’ambulatorio e il servizio Adi e gli hanno messo in mano un voucher e una card dei servizi informatizzata, è forse meno solo del suo coetaneo di Milano? Se poi ha la ventura di dover prenotare un esame può passare mezz’ora al telefono senza sentirsi rispondere, per poi essere invitato a farlo via fax, via e.mail o presentandosi di persona, in quanto al telefono non tutti accettano prenotazioni. Il punto di partenza è dunque questo: come si modifica una struttura costruita non sul bisogno della persona ma sulle regole di mercato, dove è il paziente che deve adeguarsi alle esigenze del gestore e non viceversa, dove chi sta male, se non può contare su una rete familiare, è nei fatti in balia di una struttura aziendale anonima. Qui non stiamo parlando naturalmente dei tanti operatori sanitari che sopperiscono quotidianamente con la loro umanità a ciò che

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la struttura non prevede, stiamo più precisamente parlando della mancanza di diritti di cittadinanza per i più deboli. I livelli essenziali di assistenza devono essere a tutti gli effetti un diritto esigibile, non un’invocazione o un’opzione per chi può permetterseli.

2. Dentro il sistema

Il lungo percorso nella sanità di una persona inizia in genere con un fatto acuto o con il sospetto di un problema. Per gli anziani e gli ammalati cronici, entrambi i fenomeni, potrebbero essere sufficientemente previsti e gestiti se solo si provvedesse ad un periodico monitoraggio delle loro condizioni, visitandoli a casa, riducendo al minimo le corse dal medico di famiglia o al pronto soccorso di fronte all’insorgere di sospetti o eventi acuti. La prevenzione sulle categorie a rischio rimane infatti il miglior percorso di salute, quella più in grado di ridurre la spesa sanitaria e i ricoveri impropri. E’ la sua assenza a determinare, con un sovraccarico delle strutture, anche una vasta area di auto-cura improvvisata, con un eccessivo uso di farmaci chiamati a dare risposte a problemi altrimenti risolvibili. Non è un caso se oggi è spesso il farmacista a rivestire il ruolo di primo interlocutore del soggetto fragile, con la farmacia che diventa sede di informazione e di accesso alle cure primarie. Quando invece è il medico a prescrivere il farmaco si pone subito il problema del pagamento del ticket o della sua parziale o totale esenzione, in base a condizioni di reddito e di cronicità. Ricordiamo che in Lombardia, l’alleggerimento del ticket per queste categorie, è stato conseguito solo dopo una lunga mobilitazione sindacale, prevalentemente di pensionati ed anziani. Ricordiamo anche, ma solo per sottolinearne la complicanza burocratica, che i ticket farmaceutici è possibile detrarli in sede di denuncia dei redditi, però alla sola condizione di esibire la fotocopia della ricetta che il farmacista ha trattenuto un anno prima in originale.

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E se è pur vero che queste sono norme nazionali, spesso tardive, al punto da rendere inagibile il diritto, è altrettanto vero che pure queste si sommano alla condizione di difficoltà più generale che grava su chi si rivolge al nostro sistema sanitario. Un sistema che in venti anni ha diminuito dal 29% al 18% il numero delle famiglie con anziani destinatarie dei suoi aiuti, riducendo i contributi economici e le attività di assistenza, delegandole sempre più al terzo settore, limitando i suoi interventi alle grandi età e agli handicap gravi.

3. Le liste d’attesa E’ una vasta area di anziani e ammalati cronici quella che non riceve aiuto e proprio quando il bisogno è maggiore e non basta il farmaco, quando servono visite specialistiche od esami diagnostici, quando i problemi aumentano in maniera esponenziale. Inizia qui l’impatto con le liste d’attesa, quelle reali, non quelle dichiarate dalla Regione e dalle Asl, che pure sono già generosamente derogate. Quelle che hanno avuto modo di riscontrare anche i carabinieri, confermando dati che abbiamo più volte denunciato, compresa quella disinformazione che favorisce il ricorso alle strutture private, dove, a pagamento, la visita o l’esame arriva nel giro di pochi giorni. In questi anni, tentando di rimediare, la Regione ha introdotto alcuni espedienti quali il “bollino verde”, a cui il medico di famiglia può ricorrere per garantire la prestazione urgente, o il rimborso da parte dell’Asl del costo aggiuntivo sostenuto in una struttura privata, in caso di impossibilità di quella pubblica a garantire il servizio nei tempi stabiliti. Il bollino verde espone però il paziente al sospetto di un suo uso improprio, magari per saltare la coda, mentre la burocrazia per stabilire se hai diritto al rimborso della differenza pagata è pressoché insuperabile. Interventi che non hanno scalfito il muro delle liste d’attesa, contro il quale si scontra l’immediatezza del bisogno, l’ansia che spinge a ricorrere al privato e ad assumersi costi pesantissimi per trovare risposte, per avere certezze.

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Perché nessuno vive portandosi dentro dubbi laceranti, perché anche i più poveri non lasciano niente di intentato se c’è di mezzo la salute, per di più se di una persona cara, perché, in queste situazioni, tutti ci adeguiamo a logiche e costi che si nutrono non della nostra libera scelta, ma delle nostre preoccupazioni e delle nostre difficoltà. Non è quindi solo aumentando l’offerta sanitaria che si risolvono le liste d’attesa, certo anche il potenziamento e il miglior utilizzo dell’esistente sono passaggi necessari, ma ancora una volta torna decisiva la rimozione di quel sottofondo di disagio, di costante emergenza che accompagna gran parte delle prestazioni richieste.

4. Gli ospedali Lunghe liste d’attesa e taglio dei posti letto sono anche il biglietto da visita di una spedalità pubblica che in questi anni ha ceduto quote significative al privato, mentre l’uso dei Drg ha di fatto ridotto drasticamente la durata della degenza, determinando il paradosso che la vera urgenza non è quella con la quale si entra, ma quella con la quale si esce dall’ospedale. Noi non vogliamo contestare l’affermazione che attribuisce alla Lombardia strutture di eccellenza della rete ospedaliera, sappiamo che molti cittadini provenienti da altre regioni vengono qui a cercare risposte che nei loro ospedali non trovano. Ciò che contestiamo è “il prima” e “il dopo” il ricovero ospedaliero, cioè il percorso attraverso il quale si arriva all’ospedale e quello che segue la fase acuta, con le dimissioni di pazienti spesso ancora convalescenti. E’ del tutto evidente che le dimissioni affrettate, per di più se di persona anziana, scaricano in maniera insostenibile, su famiglie e comunità non attrezzate, problemi di assistenza sanitaria, di cura e di riabilitazione. Sono infatti ben poche le strutture territoriali in grado di dare continuità di cura all’intervento ospedaliero e, anche quando l’anziano dimesso dall’ospedale trova posto in Rsa, per la famiglia si tratta di assumersi il costo di una retta spesso pesantissima.

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Ma ancora una volta un reale percorso di dimissioni protette ha bisogno di una rete di cura, di quel servizio di assistenza domiciliare integrata tra sociale e sanitario che vede la Lombardia agli ultimi posti, ha bisogno di continuità nelle cure che vanno preventivamente concordate tra ospedale, asl e servizi socio-assistenziali.

5. Il fondo per l’autonomia possibile Anche per questo stiamo rivendicando un fondo regionale per la non autosufficienza (o per l’autonomia possibile), in grado di aiutare persone non autosufficienti curate sia in rsa che a domicilio, oggi per lo più consegnate alle assistenti familiari, più realisticamente chiamate “badanti”, un fondo compatibile con il Fondo nazionale approvato all’unanimità dalla Commissione del Ministero del Welfare e bloccato dal Governo nazionale dall’ottobre del 2003, per il quale anche la Conferenza Stato Regioni riteniamo debba giocare un nuovo ruolo. Un problema che, come le cure dentarie e le cure palliative, in Lombardia è una vera e propria emergenza, di cui Formigoni si è ricordato giusto pochi mesi prima delle elezioni, per dimenticarsene nel giro di qualche settimana. E’ poi questo che continua ad essere inaccettabile in Lombardia, cioè che si continui a non affrontare problemi di assoluta rilevanza e urgenza, problemi le cui soluzioni ci sono, concretamente già sperimentate e verificate dentro e fuori la nostra regione. C’è in questo tutto il limite di politiche sanitarie regionali auto-referenziali, imbalsamate dal rapporto di questa Giunta con il Governo Berlusconi; dov’è finita la fiera autonomia regionale così aggressivamente rivendicata verso il ministero di Rosi Bindi? Dov’è la capacità operativa di una Regione che si promuove come modello in Italia e all’estero? Dov’è quel nuovo rapporto con la società civile così solennemente annunciato dallo stesso Formigoni? Dimostri questa Regione che davvero sa tracciare un percorso innovativo, negoziando con il Sindacato risposte puntuali e avanzate ai bisogni socio-sanitari che oggi qui esponiamo.

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Noi non ci siamo posti il problema di ribaltare logiche e delibere che pure non condividiamo, ma siamo qui a chiedere di modificare, di correggere, di risolvere insieme, non nell’interesse di una categoria o di una parte pur rilevante di società che rappresentiamo, ma di tutti quei cittadini lombardi che di un sistema socio-sanitario umano ed efficiente hanno bisogno, che da noi e dalle istituzioni aspettano risposte.

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COMUNICAZIONE di Piermaria Zannier, Coordinatore Medici Medicina Generale FP Cgil Medici Lombardia Diapositiva 1

LOMBARDIA:UNA SANITA’ DA CURARE

Comunicazione del

Dott. P. ZannierCoordinatore regionale Medicina GeneraleFP CGIL MEDICI

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Diapositiva 2

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 2

La convenzione 2005 per la medicina di base

1. Scarse risorse investite da parte del Governo

scelta politica di “non investimento” sulla sanità territoriale.

2. Delega alle RegioniDifferenti modelli organizzativiDifferenti investimenti regionali verso le cure primarie

3. Forte spinta verso l’associazionismo medico

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Diapositiva 3

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 3

Livelli di organizzazione della Medicina Generale

Team di progettoRete territorialeMedicina di gruppoCentro polifunzionaleCentro polifunzionale integrato

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Diapositiva 4

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 4

Livelli di performance della Medicina Generale

Valutazione dei fattori di rischioScreeningGestione soggetti ad alto rischioADI a bassa complessitàADI ad alta complessitàPercorsi diagnostico-terapeuticiIntegrazione dei servizi territorialiContinuità assistenziale

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Diapositiva 5

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 5

Regione Lombardia

“un sistema libero, un sistema sano”

Slogan elettorale elezioni regionali 1995 – 2000 - 2005

“Lombardia: una sanità da curare”

14 giugno 2005: convegno regionale FP CGIL

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Diapositiva 6

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 6

Regione Lombardia

Comportamento di riferimentoMondo reale

Scelte politiche

Scelte professionali

Ruolo del medico di medicina generale

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Diapositiva 7

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 7

Scenari possibili

Ruolo di fornitore di CURE PRIMARIE

LiguriaLombardia (accreditamento)

Ruolo tradizionale

Ruolo di integratore delle CURE PRIMARIE

Veneto (dssb)Marche (case manager)Lombardia (GCP)Emilia (dssb e NCP)Toscana (Società della Salute)

Ruolo di gatekeeperPiemonte (ASL)Lombardia (PAC)Toscana (ASL)

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Diapositiva 8

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 8

Governo della domanda

Offerta di prestazioni

Quali sono le specificità del MMG da valorizzare?

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Diapositiva 9

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 9

Il modello “casa della salute”Per ricostruire la sanità territoriale in Regione Lombardia la proposta politica CGIL è il modello “casa della salute”

È essenziale modulare il modello di riferimento “casa della salute” alla realtà lombarda

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Diapositiva 10

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 10

Il percorso del pazienteRuolo del MMG

Integrazione con i servizi territorialiIntegrazione tra sanitario e socialeIntervento nel rapporto ospedale-territorioIntervento sulle liste d’attesaIntervento sulla spesa farmaceutica

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Diapositiva 11

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 11

Il SISS-CRS può essere “strumento”, non “ruolo”

Problemi aperti:Privacy……………………………………….Completezza del progetto…………….Integrare al sistema la Medicina Generale non solo come “strumento”…………………

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Diapositiva 12

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 12

Libertà di scelta oppure…scelta di libertà

Ruolo del MMG in Regione Lombardia:

CompatibilitàEqua distribuzioneVerifica e controllo

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Diapositiva 13

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 13

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Diapositiva 14

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 14

La democrazia, i diritti politici e le libertà civili hanno una correlazione diretta con lo stato di salute della popolazione.

Il livello di salute è legato a:L’organizzazione del territorioI differenti gradi di disuguaglianzaLa misura dell’intervento da parte del settore pubblico

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Diapositiva 15

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 15

In questo studio, il livello di democrazia dimostra una fortissima e altamente significativa correlazione con alcuni indicatori di salute:

Aspettativa di vitaMortalità infantile e materna

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Diapositiva 16

14 GIUGNO 2005 "lombardia: una sanità da curare" PIERMARIA ZANNIER 16

Man mano che cresce l’importanza degli effetti della democrazia……………gli interessi economici perdono il loro peso……………………………..

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COMUNICAZIONE di Giuseppe Landonio, Dirigente medico Ospedale di Niguarda Milano

1) Trent’anni anni fa l’ospedale di Niguarda aveva 2000-2500 posti letti. Oggi ne ha circa 1100, cioè meno della metà. C’erano molte più suore, più infermieri (professionali e soprattutto generici), molti più ausiliari, e un po’ meno medici. Ma c’erano, soprattutto tra i medici, meno precari, e molti meno contratti atipici di quelli attuali. Mentre l’emergenza infermieristica c’era allora e c’è oggi, in misura ancora più drammatica. Disponevamo di meno risorse, soprattutto diagnostiche. Dovevamo attendere alcuni giorni per fare radiografie abbastanza comuni. Oggi il tempo di attesa per una Tc è di 1-2 giorni. Ma anche una RMN è fattibile in pochi giorni. I tempi di attesa per i pazienti ricoverati sono ridotti. Sono stati praticamente aboliti i lunghi ricoveri pre intervento chirurgico. Le degenze medie sono nettamente più basse di quelle di 30 anni fa. Talora sono addirittura troppo basse. Si è creata una vasta rete di day hospital, che hanno certamente ridotto molte degenze inutili (anche se non sempre l’accesso al day hospital è preferito al ricovero tradizionale, soprattutto in oncologia). Si stanno anche sperimentando nuovi servizi di assistenza domiciliare, ad esempio proprio i pazienti onco-ematologici. Eppure l’affollamento al PS non è venuto meno. I periodi di emergenza non sono meno caotici di quelli di allora. Ci sono, certo, meno letti volanti (oggi camuffati in reparti “filtro”). Ma le condizioni ambientali non sono dappertutto migliorate. Il problema della dimissione è rimasto in gran parte un problema soprattutto per le persone fragili e sole. La rete dei servizi territoriali latita. Le “low care” sono esperienze pilota encomiabili ma appaiono come delle “mosche bianche”. Anche le riabilitazioni e le lungodegente, soprattutto a Milano, non risultano sufficienti. Un panorama a luci e ombre (quasi più ombre che luci), certamente cambiato – ma non così radicalmente – rispetto a trenta anni fa. 2) La grande novità degli anni 90 è stato il processo di aziendalizzazione, particolarmente spinto nella regione

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Lombardia dalla riforma Formigoni. Un processo nato da un obiettivo di efficienza. E certo si può dire oggi che sul piano del puro efficientismo si vada meglio di anni fa. Ma con l’efficientismo (più ricoveri per posto letto normale o di day hospital; minori tempi di degenza; minor esigenza di posti letto per acuti, e via elencando) sono aumentate la burocrazia (la compilazione della SDO è diventata un atto determinante del lavoro medico; l’attenzione al DRG un interesse talora eccessivo; l’ancoraggio al budget, per lo più determinato sulla spesa storica, spesso ossessivo). E poi riunioni su riunioni, talora francamente inutili, e la circolazione di un linguaggio (dalla mission alla customer satisfaction) che, nonostante le buone intenzioni, non si traduce in un reale vantaggio per il cittadino. Gli stessi dipartimenti, essenziali all’organizzazione aziendale, sono diventati contenitori di forza per regolare i flussi di spesa, piuttosto che strumenti per liberare risorse o per concordare programmi di sviluppo. In ultima analisi c’è un problema culturale: il cittadino ridotto a cliente, l’ospedale (hospitium: luogo di ospitalità) trasformato in azienda ha determinato contrarietà perfino nel cardinal Martini prima, oggi nel cardinal Tettamanzi. 3) Ma c’è di più oggi, almeno in Lombardia. In una regione che ha fatto del controllo centralista uno degli strumenti fondanti della riforma Formigoni, oggi proprio il processo di aziendalizzazione è francamente spurio e del tutto inadeguato. I direttori generali rispondono direttamente ai vertici regionali, in un processo di fidelizzazione che poi si cala, a scendere, nel rapporto con i direttori sanitario e amministrativo, con i capi dipartimento e con i dirigenti di II livello. Partecipazione e democrazia non fanno più parte del sistema, ma neanche, o solo in minima parte, la valorizzazione delle competenze e delle professionalità. L’autonomia dei singoli è compressa, non meno di quella dei direttori generali. 4) Questo deficit di responsabilizzazione (anche se ci sono, e le potremmo enumerare, le eccezioni lodevoli per impegno, qualità e risultato) si traduce in un processo pericoloso e diffuso di demotivazione, di emarginazione, in una sorta di burn-out strutturale collettivo. Questo processo che accomuna molti lavoratori “anziani” (che non a caso attendono con vivo

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desiderio la data della pensione), si accompagna alla situazione di insicurezza, precarietà e reale sfruttamento delle giovani generazioni, soprattutto mediche, in una miscela per ora non esplosiva ma che, al contrario, rischia di ingolfare o di inaridire il motore. 5) Temo che queste questioni siano largamente prioritarie, perché fortemente condizionanti, rispetto ai problemi che pure esistono, della qualità del servizio prestato, della appropriatezza delle prestazioni, della soddisfazione degli utenti. Oggi si è portati a discutere molto più in termini di quantità che di qualità: recentemente è venuto, in questo ospedale, un grido di protesta dal dipartimento cardiologico per il progressivo contingentamento dei tempi delle visite ambulatoriali e delle prestazioni diagnostiche; si riducono gli organici in molti reparti, e si pretendono le stesse prestazioni: chiaro che ne va della qualità e della possibilità di sviluppare un rapporto positivo con il malato. Ma questi esempi potrebbero continuare. Quanto alla appropriatezza delle prestazioni non esistono forme di controllo reali: anche le analisi dei NOCS rappresentano controlli sulla forma piuttosto che sul contenuto delle procedure. La soddisfazione dell’utente viene misurata attraverso improbabili questionari al momento del ricovero quando il ricatto psicologico e ambientale è di fatto più forte, piuttosto che con interviste mirate lontane sia temporalmente che spazialmente dal momento del ricovero. 6) Che fare allora, su quali temi incentrare l’iniziativa di un sindacato autorevole come la CGIL? Indico quattro percorsi necessari: ridare voce alle attese degli operatori, rivedere alcuni nodi della organizzazione del lavoro, ridiscutere alcuni principi esasperati della aziendalizzazione,

a partire dal nodo del finanziamento, infine rivedere a livello regionale e soprattutto milanese la

politica della “rete” ospedaliera.

• ridare voce alle attese degli operatori Si tratta in primo luogo di ricostituire un tessuto e una fiducia nel sindacato oggi in gran parte latitante. Non alludo tanto al comparto, che ha nella RSU una rappresentanza

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complessivamente credibile e percepita come tutelante. Mi riferisco soprattutto ai medici che vivono oggi una fase di disincanto (tra i medici anziani) o di non sindacalizzazione (tra quelli giovani). C’è da fare un grande lavoro, in qualche modo pre-sindacale, per promuovere incontri, far parlare, rimotivare, garantire un interesse e un possibile impegno. Solo dopo si potrà passare all’iniziativa sindacale condivisa…

• rivedere alcuni nodi della organizzazione del lavoro Significa ripensare alcuni dei problemi che il processo di aziendalizzazione ha introdotto. Va ripensata se non l’organizzazione dipartimentale in sé il modo in cui si è realizzata; vanno ridiscusse le dotazioni organiche delle singole divisioni, ma anche l’organizzazione delle guardie e delle notti: siamo sicuri che aver sguarnito molti reparti specialistici dei turni di guardia notturni abbia tutelato la qualità del servizio? Il pronto soccorso ha una organizzazione adeguata rispetto alle necessità dell’utenza (i tempi di attesa sono accettabili?). Troppe decisioni sono state prese e vengono prese unilateralmente dalle direzioni sanitarie senza consultazioni preventive delle organizzazioni sindacali: siamo tornati, per quanto riguarda le relazioni sindacali, molto indietro rispetto alle conquiste degli anni ‘70 e ‘80…

• ridiscutere alcuni principi esasperati della aziendalizzazione, a partire dal nodo del finanziamento

Il tema non è certo solo lombardo. Ma la troppa (o troppo poca) aziendalizzazione è un problema da ridiscutere. Il potere monocratico dei manager. La mancanza di controlli che non siano quelli, di direzione centralista, della Regione. Il mancato coinvolgimento di organismi professionali di indirizzo (come era un tempo il consiglio dei sanitari). L’eccessivo ruolo dei dirigenti di dipartimento e di II livello nel dettare le scelte operative delle singole divisioni. La visione del budget in una logica ragionieristica e non di sviluppo. Lo stesso finanziamento per DRG: uno strumento ormai obsoleto, che ha rivelato tutta la sua limitatezza e le su storture, e che andrà modificato. Non per tornare a finanziamenti per giornate di degenza, che rappresenterebbe un arretramento alla preistoria, ma, come ha cercato recentemente di argomentare Donzelli, a quote capitarie ponderate per età, che possono rappresentare uno strumento utile

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anche per gli ospedali, oltre che per la medicina di base, per determinare un budget complessivo entro cui ridefinire i finanziamenti per le singole unità operative, favorendo più l’impegno complessivo di tutela della salute che non la sommatoria delle singole prestazioni erogate: un modo per passare dall’efficientismo alla ricerca dell’efficacia (o, come dice Donzelli, per premiare la salute più della malattia…).

• Infine rivedere a livello regionale e soprattutto milanese la politica della “rete” ospedaliera

Si lavora ancora per compartimenti stagni. La competizione senza programmazione è fallimentare in sanità. C’era una sperimentazione a Milano che si è fatta volutamente fallire. Ma proprio a Milano occorre ridefinire il ruolo delle singole aziende per concorrere a un obiettivo unitario. Non basta la rete del 118: occorre ridefinire la rete delle oncologie, degli hospices e delle assistenze domiciliari, delle cardiologie e cardiochirurgie, della riabilitazione in tutti i suoi aspetti, delle lungodegenze. Gli ospedali vanno riclassificati per bacini di utenza e per rilevanza di strutture. In teoria gli ospedali-azienda potrebbero essere ridotti a poche unità, mentre sarebbe da ridiscutere il ruolo della integrazione tra ASL e ospedali medio-piccoli. Occorre in ogni caso ridefinire il ruolo dei piccoli ospedali (solo a Milano Macedonio Melloni, Buzzi e CTO, per i quali il destino non è oggi molto chiaro). Seguire il programma di ammodernamento delle strutture: il project financing così esteso, come ad esempio si prospetta per questo ospedale, non finirà per snaturare la loro vocazione pubblica? E affrontare con rigore e con realismo il nodo delle fondazioni: sappiamo che esistono pressioni di vario genere in questa direzione e che c’è un chiara filosofia Formigoniana che le persegue. Ma, va anche detto, c’è fondazione e fondazione. E’ già oggi in discussione la istituzione di una fondazione per l’ospedale di Saronno: è un precedente molto importante, che rischia di riprodursi in altre realtà (Vimercate e, perché no, Sesto o Cinisello). Che cosa ha da dire il sindacato in proposito? Chiediamo tutele e precise garanzie o ci opponiamo (senza poter impedire la nascita delle fondazioni stesse?). Credo che da questo convegno emerga un appuntamento di lavoro urgente anche su questo terreno…

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COMUNICAZIONE di Angela Di Giaimo, Coordinatrice infermieristica Asl di Cremona

Ringrazio la Cgil per aver progettato un evento con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su un argomento così importante, ma anche per aver l’intenzione di proporre delle soluzioni sostenibili. Mi presento. Mi chiamo Angela Di Giamo, da circa 4 mesi lavoro presso l’azienda ospedaliera di Cremona, ma per circa 20 anni (dal 1984 ai primi mesi del 2005), ho prestato servizio in ambito distrettuale. L’obiettivo del mio intervento è quello di porre l’attenzione su quanto ho potuto verificare nel corso della mia esperienza professionale, anche se da un osservatorio limitato e di proporre a questa assemblea alcune riflessioni. Desidero ricordare a tutti i presenti, sia come cittadini che come potenziali utenti, che il sistema sanitario regionale non prevede solo strutture ospedaliere. Ciò potrà sembrare ovvio e banale ma, soprattutto per chi non ha mai avuto la necessità di ricorrere a servizi socio sanitari territoriali e domiciliari, questi possono apparire assolutamente sconosciuti. Peccato. E pensare che queste strutture, a differenza degli ospedali e delle case di cura, sono distribuite capillarmente su tutto il territorio e, come cita un documento dell’O.m.s., “rappresentano il primo punto di contatto con il servizio sanitario… sono quei servizi che vanno verso le persone e le famiglie, nei luoghi dove la gente vive e lavora…”. Essi, attraverso le loro specificità, non intervengono solo quando c’è il sospetto o si è verificato l’evento morboso, ma offrono prestazioni per garantire e mantenere la salute: operano cioè anche e soprattutto sull’individuo sano. Oltre a ciò, proprio perché si basano su un principio di globalità, non si occupano solo della salute del corpo, ma di tutta la persona, vista anche sotto il profilo dei bisogni psicologici e sociali. Infine, i servizi distrettuali, a differenza degli istituti di ricovero, non offrono un intervento in un lasso di tempo breve e determinato (come lo spazio di un ricovero ospedaliero o di un’indagine diagnostica), ma garantiscono una serie di interventi

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di prevenzione cura e riabilitazione che possono interessare tutto l’arco di vita di una persona, addirittura anche prima che questa nasca (pensiamo per esempio ai consultori familiari). Pur non essendo alternativi agli ospedali, sono ad essi certamente complementari. Ebbene in questo universo, si colloca anche l’Assistenza domiciliare integrata (Adi), con il suo esercito di personale “invisibile” che svolge il suo lavoro di assistenza e cura direttamente a casa delle persone. In 20 anni di esperienza professionale, svolta in particolare nel settore dell’Adi, ho avuto modo di osservare essenzialmente tre fasi di sviluppo di questo sistema. Dalla metà degli anni ‘80 ho assistito ad un avvio dei distretti socio sanitari di base (Dssb) “a scartamento ridotto”; allora, forse, non si era ancora compreso appieno quanto previsto dalla L. 833/78 (era talmente rivoluzionaria...), di conseguenza risultava estremamente difficoltoso intraprendere scelte di decentramento spesso in controtendenza a quanto erogato fino ad allora. In quegli anni comunque l’ospedale e con esso il solo concetto di cura, era e rimaneva il principale protagonista sulla scena sanitaria. Solo verso gli anni ‘90, grazie ai Progetti obiettivo sulla tutela degli anziani approvati dal Parlamento, si sono dati i primi input in materia di assistenza domiciliare. Anche la Regione Lombardia nel 1995, approvando il “Progetto obiettivo anziani” e le linee della programmazione regionale per l’assistenza ai non autosufficienti, ha fornito elementi sostanziali per avviare la creazione di una rete di servizi territoriali e per garantire il potenziamento di strutture alternative al ricovero. Nonostante ciò, in quel periodo le Ussl, sebbene più estese, comprendono ancora sia ospedali che Dssb: si acquisiscono elementi in più che consentono di meglio definire alcuni servizi territoriali, ma la mentalità è ancora troppo ospedalo-centrica, non ci sono investimenti e progetti di tipo programmatico e organizzativo che riconoscano dignità all’Adi e ad altre strutture extraospedaliere. Dopo la l.r. 31/97, ovvero quando si istituisce il sistema sanitario regionale, definendo e separando le funzioni delle Asl e delle aziende ospedaliere, inizialmente è sembrato si iniziasse

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a riconoscere un ruolo specifico ai distretti e con essi all’assistenza domiciliare. Tuttavia, quando questi servizi hanno dimostrato di aver acquisito dignità e struttura, rispondendo a determinati standard, avviando progetti che hanno dato ottimi risultati, ebbene a questo punto si è iniziato a parlare di “esternalizzazioni”, voucher, enti pattanti (pubblici e privati), applicando appieno tutti i contenuti di questa legge. Come si può ben comprendere, lo scenario è a dir poco dinamico. Vi assicuro che tutti questi cambiamenti hanno richiesto e richiedono tutt’ora un grande investimento di energie e non solo… Ad oggi, le parole chiave sono: esternalizzazione, pattanti voucher… Spero che sappiate di che cosa stiamo parlando. Dicasi esternalizzazione quel procedimento per cui si “appalta” un servizio, fino ad oggi garantito in esclusiva dal pubblico, a enti pubblici o privati, con i quali si stipula un contratto detto “patto”, da qui il termine “pattante”. Dicasi voucher sanitario quel valore economico espresso in euro, che si sviluppa su tre fasce o profili (corrispondenti ad un valore che varia dai 362 ai 619 euro mensili). A tali profili, cioè a tale ammontare, devono corrispondere le risposte ai bisogni assistenziali infermieristici, riabilitativi e specialistici della persona da seguire a domicilio. Si ricorda che una giornata di degenza ospedaliera costa mediamente circa 814 euro. È evidente come il sistema che impone un tetto di spesa all’Adi ingabbi la risposta ai bisogni delle persone in un “tot” di euro. L’obiettivo non è più il prendersi cura, attraverso la risposta a bisogni assistenziali, ma quello di rimanere entro un limite di spesa: spesso, chi effettua la valutazione delle necessità espresse dalle persone e dalle loro famiglie, è costretto a farlo con la calcolatrice. Oltre a ciò l’identificazione di indicatori di verifica su quanto previsto in termini di risposta al bisogno, risulta tanto complessa quanto necessaria, alla luce del fatto che spesso chi eroga è un privato. Talvolta sorge anche il sospetto che il voucher, non essendo sempre sufficiente a coprire le spese del personale e del materiale necessario (es. medicazioni), sia gestito in maniera

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inadeguata, prevedendo l’utilizzo di materiale scadente o in carico alle famiglie, il che non accelera di certo la guarigione, ma piuttosto prolunga il periodo di assistenza domiciliare e quindi di spesa. Risulta pertanto ancora tutta da dimostrare l’efficacia del modello intrapreso ma soprattutto quanto questo risulti economico. Infatti sarebbe estremamente parziale pensare che l’economia sia legata al tetto di spesa imposto dal budget destinato ai voucher, piuttosto che la verifica complessiva di quanto questo risponda adeguatamente ai bisogni della popolazione in un’ottica di crescita del sistema di welfare. Lo scenario socio sanitario è oggi caratterizzato dai seguenti elementi: incremento della stabilizzazione di malattie cronico

degenerative e non solo di soggetti anziani, data dal continuo progresso scientifico;

incremento dell’aspettativa di vita di persone con disabilità fisiche o psichiche o affette da dipendenze patologiche;

incremento delle malattie cronico-degenerative, soprattutto legate all’invecchiamento della popolazione;

riduzione dei tempi di ricovero e di cura in ambienti ospedalieri, dove si assistono sempre di più pazienti che richiedono alta intensità assistenziale e tecnologica, a cui seguono dimissioni sempre più precoci;

indebolimento del tessuto di auto-produzione sociale garantito dalle famiglie, vicinato, volontariato, ecc…, compensato solo parzialmente da una maggiore consapevolezza e capacità organizzativa delle famiglie stesse (esse oggi conoscono di più i loro diritti).

Rispetto a questo scenario, per molti aspetti, le caratteristiche dell’offerta ospedaliera e territoriale e del settore socio assistenziale, risultano per lo più disallineate. Infatti, a fronte di un sistema ospedaliero che non solo ha drasticamente ridotto il numero di posti letto, ma che deve incrementare i propri tassi di specializzazione ed intensità clinica, a scapito delle prestazioni legate alla fase post acuta ed alla cronicità, vi sono dei servizi territoriali che non sono ancora in grado di garantire risposte sufficienti. Questa inadeguatezza è determinata da una molteplicità di fattori: in primis la debolissima integrazione dei servizi, il

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mancato sviluppo di modelli assistenziali alternativi, il ritardo nello sviluppo manageriale dei servizi territoriali, identità professionali e culturali deboli, insufficienza di risorse. Quindi, rispetto ai bisogni socio sanitari emergenti (cronicità, assistenza ai post acuti, riabilitazione, cure palliative), ci troviamo di fronte ad un settore ospedaliero troppo specializzato e costoso e ad un settore territoriale non sufficientemente organizzato, valorizzato ed integrato per generare servizi di intensità assistenziale idonea. La sanità dell’oggi e del prossimo futuro si colloca in un terreno intermedio tra ospedale e territorio: essa deve risultare diversa dalle configurazioni strutturali abituali. Le cure domiciliari devono rappresentare il perno di un nuovo modello di assistenza, in cui l’ospedale deve trasferire competenze e risorse attraverso le quali il territorio deve svilupparsi, incrementando l’organizzazione per far fronte a diverse e maggiori intensità assistenziali. Ma in questa prospettiva, auspicabile quanto difficile, chi

assumerà il ruolo di regia in un sistema che prevede una pluralità di “attori”?

Il servizio si costruisce a rete attraverso l’integrazione, l’interazione e la concertazione fra diverse componenti pubbliche e private, profit e no profit, ma chi diviene garante del patto fra le varie parti?

L’assenza di uno degli attori determina la carenza di uno degli elementi del sistema di riproduzione sociale e quindi genera un servizio in qualche modo incompleto.

Ma siamo sicuri che il nostro attuale management pubblico sia in grado di costruire e gestire questa rete che necessita di connessioni e dinamismo lontano dai modelli burocratico-gerarchico-amministrativi che caratterizzano la gestione delle strutture territoriali odierne?

I modelli per le cure domiciliari possono prevedere solo soggetti pubblici oppure un contesto che preveda sia pubblico che privato. La scelta del modello è necessariamente intrisa di opzioni politiche ed ideologiche, venendo implicitamente richiamate questioni quali il ruolo delle pubbliche amministrazioni nella società, la libertà di scelta del cittadino, ecc… Nel caso della scelta in atto che vede la presenza di soggetti privati deputati all’erogazione di servizi domiciliari,

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risulta indispensabile che la classificazione dei bisogni dell’utente (e quindi il livello di voucher assegnatogli) deve rimanere saldamente in mano al soggetto committente pubblico, perché comportamenti opportunistici da parte degli erogatori sarebbero altrimenti più difficilmente controllabili. Purtroppo nella Regione Lombardia è stato sì scelto il modello che prevede erogatori pubblici e privati, ma l’organizzazione dei servizi è talmente diversificata da provincia a provincia, che risulta molto difficile comprendere il comune denominatore che caratterizza il livello di valutazione dei bisogni e di individuazione del profilo di voucher, dalla qualità delle prestazioni erogate da pattanti per rispondere ai bisogni. Ma chi ha individuato il modello lombardo di cure

domiciliari, ha forse esagerato nel pragmatismo operativo del “facciamo e poi vediamo”?

Ci si è adeguatamente interrogati su quali sono i migliori strumenti operativi da adottare in un preciso contesto operativo?

Si sono definiti i mix di utenti a cui rivolgersi e le risorse necessarie?

Si sono chiariti i ruoli dei diversi attori costruendo alleanze e partnership interistituzionali tra pubblico e privato?

Si sono progettati e sperimentati dei modelli di accoglienza, selezione, costruzione e valutazione di piani assistenziali?

Si sono valutati modelli sperimentati che potrebbero essere adottati come standard minimo, teso a ridurre le differenze di gestione delle cure domiciliari tra le diverse Asl?

Ci si è chiesto cosa fare dell’esperienza e delle abilità maturate in tutti questi anni dal personale infermieristico distrettuale pubblico, che oggi è chiamato a svolgere assistenza a bassa intensità e fra poco forse neanche quella?

Spero di aver fornito sufficiente materiale, affinché non l’esperto, non l’addetto ai lavori, possa riflettere, in quanto tutti siamo fruitori di questo servizio e altrettanto siamo responsabili della sua implementazione o distruzione.

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COMUNICAZIONE di R. Alfieri, R. Peasso, T. Terrana, F. Tortorella, FP Cgil medici Lombardia

1. Il distretto

1.1 Introduzione Possiamo immaginare il distretto come un sistema complesso, costituito da una molteplicità di persone e gruppi che interagiscono tra loro per problemi correlati con la salute. Le relazioni che si instaurano tra i vari attori avvengono sullo sfondo di storie, valori e culture diverse. Il distretto viene così a riflettere le difficoltà tipiche della società odierna. E’ il luogo dove si esasperano i conflitti tra parti del sistema che sono state separate e messe in competizione tra loro; dove si scaricano le contraddizioni di servizi che dovrebbero prendersi cura dei più fragili e che, viceversa, con le loro tensioni e rigidità, diventano essi stessi fonte di sofferenza, a incominciare dagli operatori che vi lavorano; è il posto in cui dovrebbero promuoversi scambi di idee e riflessioni critiche e in cui, al contrario, ci si riduce ad eseguire efficientemente delle prescrizioni di dubbia efficacia, imposte verticisticamente. In relazione con tutto questo vorremmo riflettere su quanto sia importante presidiare, nei distretti socio-sanitari, la cura delle relazioni, la valorizzazione delle competenze e delle persone. La domanda che ci poniamo in questo convegno è come far sì che, nonostante le difficoltà, le interazioni tra i vari attori concorrano a migliorare la salute dei singoli e il benessere della collettività, diano senso all’agire di tutti e costruiscano un servizio sanitario degno di questo nome, capace di rispondere alle priorità, con caratteristiche di efficacia, efficienza ed equità. Ma dobbiamo, per incominciare, porci nel contesto della crisi in cui versano oggi tutti i sistemi sanitari, perché ogni tipo di riflessione non ha un valore assoluto, ma va contestualizzata nel tempo e nello spazio cui si riferisce.

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1.2 La crisi della sanità e i tentativi di affrontarla

La percezione di crisi è un aspetto usuale della nostra esperienza. Ogni essere umano, infatti, in quanto intrinsecamente riflessivo, non può resistere a lungo senza autocritica. Ma le crisi di oggi differiscono nel genere, non solo nel grado e nella frequenza,rispetto a quelle del passato. Si conosce tantissimo sulla crisi dei sistemi sanitari. C’è, ormai, una condivisione unanime sui fattori che, in tutti i paesi del mondo industrializzato, concorrono a determinarla: l’invecchiamento della popolazione, con il suo carico di malattie croniche; l’aumento dell’impiego della tecnologia, accompagnato da costi crescenti; l’incremento della cultura e delle aspettative delle persone, sempre più istruite ed esigenti. All’aumento dei bisogni e della domanda sanitaria occorrerebbe rispondere con un incremento qualitativo e quantitativo dei servizi, ma i governi si dimostrano sempre più riluttanti a incrementare la spesa pubblica, almeno oltre certe soglie. La crisi viene così spiegata con la tensione emergente tra domanda ed offerta, per cui occorrerebbe contenere la domanda o far pagare i servizi, almeno in parte, ai cittadini . Ma ciò che non viene colto di questa crisi è l’essenza della sua natura. Non può essere gestita aggredendo semplicemente i singoli fattori che la determinano. L’aumento dell’attesa di vita non va certo contrastato; l’innovazione tecnologica potrebbe essere meglio gestita, ma procura indubbi benefici e fa nascere tante speranze; il miglioramento culturale della popolazione è essenziale per affrontare le difficoltà di un mondo sempre più interdipendente e complesso. Sembra, allora, che si tratti di una crisi di crescita, correlata con il “progresso”: l’effetto collaterale di un bene supremo che non può essere nemmeno in parte sacrificato.

1.3 Il distretto come sistema complesso Se questa è la rappresentazione comune della crisi, le modalità adottate ubiquitariamente per fronteggiarla fanno leva,

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soprattutto, su 3 elementi: l’aziendalizzazione, la privatizzazione e la responsabilizzazione individuale. Queste strade nascondono, però, molte insidie. Appaiono quasi scontate perché, di fronte all’aumento dei costi e della domanda, non si presenta alcuna via d’uscita più ovvia che puntare sull’efficienza, trasferire, almeno in parte, i rischi di impresa dal pubblico al privato e responsabilizzare di più i singoli. Si crede nella possibilità di diminuire gli sprechi tramite il rafforzamento del management e la competizione, sulla scia dei successi ottenuti nell’industria. Ma l’efficienza non può essere aumentata più di tanto: la relazione, infatti, non è assimilabile all’attrito; i professionisti hanno bisogno di tempo per le loro prestazioni; gli automatismi possibili sono pochi; i costi del personale non possono essere compressi, al di là di certi limiti. Raggiungere livelli più elevati di efficienza potrebbe rendere ancora più freddi, ad esempio, gli ospedali, che già ora appaiono bisognosi di umanizzazione. Si punta anche sul privato. Si dimentica, però, che esso trascina con sé un cambiamento di scopo. Se il fine del servizio pubblico è, infatti, garantire la soddisfazione dei bisogni di salute (tenendo conto delle priorità, dell’equità e dei vincoli di bilancio), il fine del privato è assicurarsi, prima di tutto, sopravvivenza e successo. Nel settore privato, efficacia, rispetto delle indicazioni ed equità rischiano l’irrilevanza, quando non siano percepibili dai “clienti” stessi come fattori di soddisfazione e di orientamento al consumo. Per di più, il mercato, a causa del suo potere di stimolare desideri, consumo, avidità e profitti, contribuisce a generare una sanità insostenibile (1). Infatti, regola i servizi sulla base del “valore di scambio”, non del “valore d’uso”. In altre parole, induce i servizi a selezionare, prima di tutto, i casi che promettono maggiori profitti, non certo i casi che si avvantaggerebbero di più, in termini di salute, delle prestazioni sanitarie utilizzate, come avverrebbe, invece, in base al valore d’uso (2). Così, la medicina è portata a smarrire le componenti migliori della sua tradizione: la compassione, il servizio, l’accantonamento dell’interesse egoistico. Perse queste prerogative, le azioni di interpretazione del bisogno e di orientamento della domanda dei malati degenerano fino a trasformarsi in leva del consumismo sanitario.

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Infine, in tema di aziendalizzazione, la tendenza ad assimilare i servizi sanitari alle imprese di produzione è radicalmente sbagliata, a causa delle loro differenze profonde. Sono diversi gli scopi, la storia, la natura delle loro azioni (3).

Tabella 1 Le diverse declinazioni dell’agire a seconda che si operi sull’uomo o sulla materia. Caratteristiche dell’azione Essenza Virtù che presiede all’azione Natura del fine Legame dell’azione con la parola Tirocinio Epistemologia primaria Processi di acquisizione della conoscenza Interpretazione Predeterminazione Polarità nel modello dominio/partecipazione Coinvolgimento dell’attore nel processo Rapporto tra decisioni, attuazione e responsabilità Luogo di decisione

Poiesis (sulla materia) produzione di manufatti in conformità a un modello techne * prodotto esteriore irrilevante ci si esercita nel forgiare la materia conformemente a un modello predefinito empirismo monologici quantitativa, numerica quasi assoluta, fino ad automatismi tradizionalmente posizionata verso il polo del dominio l’attore resta esterno rispetto all’oggetto di interesse diretto o inequivoco nel rapporto tra decisore ed esecutore può essere accentrato

Praxis (sull’uomo) azione morale conforme al “bene” dell’uomo phronesis ** è un fine in sé stessa inestricabile l’uomo deve imparare a forgiare sé stesso in conformità a ciò che dovrebbe essere, secondo un piano e uno scopo scelto ermeneutica dialogici qualitativa, linguistica parziale, imprevedibilità degli effetti richiede un posizionamento verso il polo della partecipazione l’attore è pienamente coinvolto nel processo di comprensione-intesa Spesso mediato, con condivisioni di responsabilità per via di numerose interdipendenze dovrebbe essere decentrato il più possibile

* techne : l’abilità ad usare strumenti ** phronesis: la capacità di comprensione di una situazione specifica

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L’agire dell’industria è tipicamente strumentale, basato sulla “techne”. L’agire nei servizi è discorsivo, fondato sulla saggezza: la cosiddetta phronesis, ossia l’arte di comprendere le circostanze specifiche di una situazione ispirandosi,oltre che ai saperi tecnici e scientifici, a quelli umanistici. Nell’industria si tende a una standardizzazione sempre più spinta. Nei servizi c’è bisogno di una maggiore personalizzazione, anche in relazione all’incremento dei malati cronici, anziani e multiproblematici. Nell’industria appare egemone il modello gerarchico di organizzazione, rispetto a quello cooperativo e consulenziale, alla base della relazione di fiducia con i professionisti e i malati. Nei servizi la gerarchia tende a disconoscere i valori della professionalità e della responsabilità. Anzi, sotto la pressione della managerialità e del controllo, i professionisti si sentono braccati, quasi con il fiato sul collo, e avvertono il disagio di una minore autonomia che, fatalmente, si traduce in una progressiva deresponsabilizzazione (4). In contrasto con la deresponsabilizzazione degli operatori si insiste enfaticamente sulla libera scelta, come se i malati, specie quelli meno autonomi, in carenza di informazioni e conoscenza, fossero effettivamente liberi di scegliere. Si insiste anche molto sulla responsabilizzazione individuale, come se gli esseri umani fossero svincolati da qualsiasi condizionamento socio-culturale per quel che riguarda abitudini e stili di vita. Sembra, insomma, che talvolta si ecceda negli slogan e nelle semplificazioni e che siano stati escogitati dei rimedi parziali, se non assolutamente inadatti.

2. L’aziendalizzazione accentua il disagio Potere come dominio, non come servizio.

Ci sono delle modalità primitive di esercizio del potere nelle ASL che poco hanno a che vedere con le politiche sanitarie regionali (su alcune delle quali, peraltro, siamo convintamente critici). A ciò contribuisce, oltre allo strapotere di cui è dotato, per legge, il direttore generale, la personalità disturbata di alcuni direttori generali scelti dal presidente della giunta regionale.

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In occasione di ogni nuovo problema che metta in difficoltà il direttore generale, il potere viene utilizzato per avviare campagne di persecuzione (verso questo o quel capro espiatorio) o di proselitismo, nei confronti dei più fortunati di turno. Deterioramento del clima aziendale e delle relazioni

sindacali. Il deterioramento delle relazioni sindacali e del clima aziendale non ha tanto a che fare con l’assenza di democrazia, quanto con un regresso culturale e scientifico. Si stanno snaturando i servizi sanitari che, da ambiti di relazioni professionali basati sull’autorevolezza, si sono trasformati in luoghi fortemente gerarchici fondati sull’autoritarismo. La carenza di scambi e l’inibizione della circolazione delle idee rendono asfittico il clima lavorativo. Lo spazio di dibattito è precluso. Prevale un clima intimidatorio, in cui è palese la paura di esprimere le proprie opinioni, di marcare le differenze, di arricchire il dibattito con qualcosa di diverso dal puro conformismo. In questo clima il consiglio dei sanitari e il collegio di direzione, che dovrebbero essere organi consultivi essenziali al servizio delle aziende, sono ridotti a un mero strumento formale, da sentire solo nelle occasioni in cui non se ne possa fare a meno (vedi indagine proposta). La credibilità sta scemando

Si abusa troppo della scelta “fiduciaria” nell’affidamento di incarichi e responsabilità. Degne di fiducia appaiono le persone più fedeli o acquiescenti nei confronti della direzione generale, indipendentemente dalle capacità, dal curriculum, dai meriti e dalle doti relazionali dimostrate nella loro vita professionale. Ci pare doveroso sottolineare il rischio di una selezione negativa, anche perché spesso fedeli e acquiescenti si dimostrano le persone più opportuniste, nemmeno quelle più accondiscendenti per carattere. Il rischio troppo sottovalutato è che a poco a poco si consolidi un governo di inetti, a capo di organizzazioni talmente compromesse da non meritare più di essere tenute in piedi. Non vogliamo credere che sia questo il traguardo cui si vuole giungere.

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L’omologazione delle ASL ad aziende di manufatti Prevale un’assimilazione sempre maggiore delle ASL alle aziende manifatturiere. Il centralismo regionale viene rispecchiato, nelle ASL, in una direzione locale centralistica. Al centro, ai direttori e ai loro consulenti è demandato il compito di ideare e progettare; altrove e nei distretti resta la pura esecuzione, da parte di una manovalanza che si vorrebbe rendere acefala e controllare a vista. Risulta progressiva nel tempo la privazione di personale dai distretti per il rafforzamento degli uffici centrali.

3. La legge 31: alcune osservazioni critiche La legge 31 ha tra gli altri alcuni difetti, micidiali per la funzionalità del sistema: Mette in competizione tra loro alcune parti che sono per loro natura complementari, ad esempio l’assistenza sanitaria primaria con la specialistica ambulatoriale, con gli ospedali e con la riabilitazione; i servizi sociali con la psichiatria. E invece la complementarietà risulterebbe tanto più essenziale di fronte alle patologie che sono oggi prevalenti su tutte le altre: quelle croniche degenerative. Anziché limitare un’eventuale competizione a elementi considerabili concorrenti, in quanto sostituibili tra loro (pur con tutte le cautele tipiche della sanità), come ad esempio tra ospedali dello stesso tipo, il mercato rischia di far degenerare il settore in una lotta di tutti contro tutti, per la sopravvivenza del più forte o, forse più realisticamente, del più protetto. Il secondo difetto è connesso con l’esasperazione dei conflitti di interesse. I meccanismi di mercato esasperano, infatti, il conflitto di interessi. Di fronte a malati che si consegnano in una relazione di fiducia, il conflitto di interesse pone i professionisti nella tentazione di indurre la domanda anche di fronte a bisogni che non possono trovare risposte efficaci e appropriate. Già oggi, infatti, diversi contratti di medici che lavorano in ospedali del settore profit sono ancorati in qualche modo al prezzo delle diverse prestazioni da loro prodotte. Inoltre, si afferma la tendenza a selezionare i ricoveri dei pazienti con minori

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problemi e per i quali possono essere attuate le prestazioni più remunerative, in cui c’è una maggiore differenza tra costi e ricavi, anche forzando le indicazioni a intervenire o non intervenire. Il rischio di un incremento artificioso della domanda cresce anche perché viviamo in un contesto estremamente favorevole alla sua induzione da parte dei professionisti della sanità. Mai come oggi, infatti, abbiamo raggiunto un così grande controllo sulla malattia, ma, paradossalmente, mai come oggi la malattia detiene un così grande potere su di noi, tanto che siamo diventati tutti un po’ ipocondriaci. Si devono aggiungere anche delle considerazioni sulla tecnologia sanitaria, per cui a un aumento degli investimenti e dei costi fissi dovuti all’evoluzione tecnologica, gli ospedali sono portati a far fronte con un maggior numero di prestazioni. Il cosiddetto punto di pareggio (ottenuto quando i costi uguagliano i ricavi) si sposta verso l’alto, imponendo un aumento di attività. C’è, quindi, una maggiore spinta all’incremento delle prestazioni per raggiungere il successo economico o, più prosaicamente, per motivi di sopravvivenza. In questo contesto il valore più a rischio è quello della dignità dell’essere umano, perché la persona con i suoi bisogni si riduce a diventare uno strumento di profitto nel mercato della sanità. Quando, infatti, il prestigio economico, sociale e culturale dei professionisti entra in conflitto con l’interesse più vero per il paziente ci si trova nella tentazione di seguire il proprio tornaconto, tanto più se si è condizionati, contemporaneamente, dalle pressioni dell’azienda da cui si dipende, valutata, a sua volta, essenzialmente tramite gli strumenti del bilancio d’impresa. Ma, in queste condizioni, la fiducia andrà scemando e, superate determinate soglie di deterioramento, darà luogo a una progressiva litigiosità. Abbiamo moltiplicato le situazioni di potenziale conflitto di interesse. Per di più le abbiamo introdotte in contesti che per la loro specificità andavano tutelati con la massima cura. L’ADI, in questo senso, è emblematico. Tipicamente riguarda malati cronici in una situazione di autonomia ridotta. In questi casi il rapporto tra il malato e il personale che lo assiste è molto asimmetrico. Non può, quindi, essere imperniato sul diritto, bensì sul dovere. I professionisti provvedono a riequilibrare le

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parti dandosi degli obblighi. Ma il dovere, per gli erogatori dell’assistenza domiciliare, a causa dei meccanismi di pagamento e degli assetti istituzionali, è soprattutto quello di far quadrare i conti... Questo dovere entra in rotta di collisione con l’obbligo etico di fare il bene del malato, non nuocere e non perseguire il proprio interesse. Cosa fare? Coinvolgere i comuni nelle politiche per la salute. Valutare le priorità ed esplicitare i criteri etici e politici di assegnazione delle risorse. - Si deve tener conto del fatto che la salute dipende solo in parte dai servizi sanitari (influiscono molto altri settori vitali del sistema Paese: istruzione, occupazione, trasporti, sicurezza, tutela ambientale, lavori pubblici…) - Si deve tener anche conto della composizione del welfare globale, dai sussidi di disoccupazione agli aiuti ai poveri e agli alloggi… Cosa fare? Rimuovere tutto ciò che strutturalmente incrina le relazioni. Bisogna promuovere il benessere organizzativo, cioè contrastare: a) la frammentazione e separazione degli erogatori: sono state messe in competizione parti del sistema che per loro natura dovrebbero essere complementari (almeno gli ospedali sotto i 150 letti dovrebbero essere gestiti dalle ASL) b) La selezione nei posti di maggiore responsabilità non deve essere basata sulla fedeltà all’uno o all’altro partito di governo; c) l’eccesso di potere dei direttori generali va limitato poiché scivola fatalmente nella prevaricazione; d) Gli spazi di riflessione etica vanno ampliati: non bisogna avere paura della responsabilità e della libertà delle coscienze. Cosa fare? Impegnarsi sulle malattie croniche: un delicatissimo incrocio tra comunità e istituzioni sanitarie e sociali. Occorre valutare l’appropriatezza delle storie assistenziali dei malati cronici. Bisogna riconvertire le analisi sui dati dei Data Base dei sistemi informativi a vantaggio di un approfondimento di conoscenza sulle malattie croniche

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Si deve passare dalle analisi trasversali a quelle longitudinali per disegnare le traiettorie nella storia assistenziale delle singole persone e, successivamente, confrontare le diverse tipologie di traiettorie in base a patologie e gruppi prognostici Siamo molto evoluti nella scienza e nella tecnica. Non altrettanto nell’etica e nella politica. Le difficoltà sono anche dovute al fatto che le verità della medicina e delle scienze umane sono tipiche delle cosiddette teorie di range intermedio (14). Esse non includono leggi universali della natura, come quelle della gravità, tipiche delle scienze esatte. Sono invece collocate a metà tra le semplici generalizzazioni empiriche e le leggi naturali e hanno la peculiarità di basarsi sul reciproco rinforzo tra vari tipi di evidenza a differenti livelli di realtà. Ciò che è efficace deve dimostrare i suoi effetti benefici, oltre che al livello biochimico cellulare, sulla singola persona, sulla relazione tra operatore e paziente, sul servizio e sul sistema nella sua globalità. Per raggiungere un qualche grado di confidenza le nostre valutazioni hanno bisogno di una buona competenza tecnica professionale, ma anche etica, filosofica e politica. Occorre attingere a diversi saperi. Si pone, allora, il problema delle urgenze educative perché non c’è bisogno solo di competenze tecniche ma anche di saperi umanistici e di una più elevata maturità morale per arrivare a: 1) comprendere i problemi secondo una prospettiva sistemica, tenendo conto dei punti di vista dei diversi attori e delle contingenze storiche in cui viviamo; 2) associare gli obbiettivi delle diverse azioni agli scopi e ai valori che devono guidare i nostri comportamenti; 3) conoscere le procedure e le linee guida efficaci, ma, soprattutto per gli interventi più complessi, sapere reagire agli imprevisti e puntare sulla strategia della ricerca-azione; 4) essere consapevoli che ci troviamo di fronte alle difficoltà e alle turbolenze tipiche di un sistema complesso (15). Memori, allora, di quanto ci insegna la teoria della complessità, di fronte alle crisi e ai problemi difficoltosi, dobbiamo prepararci e ricorrere ad approcci multipli. Ad esempio, per riprendere i temi di questa riflessione, c’è bisogno di mercato,

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purché opportunamente dosato e regolamentato. C’è anche bisogno di innovazione manageriale (di diverse tipologie di progettazione, esecuzione, organizzazione e controllo), a patto che non degeneri nel dispotismo. C’è pure bisogno di progresso tecnico-scientifico e di ricerca finalizzata, purché venga orientata e ben gestita nelle sue applicazioni. Infine, per guidare tutte queste attività e accompagnare le azioni di politica sanitaria, va riservato uno spazio molto maggiore all’etica e al dibattito pubblico.

4. Conclusione La sanità del mondo industrializzato sta attraversando un periodo di crisi. I rimedi assunti sembrano parziali e gravidi di insidie. Anche nei distretti della nostra regione viviamo i riflessi di queste criticità, nel contatto quotidiano con la gente e con operatori di molteplici appartenenze e professionalità. La crisi ci interpella a diventare professionisti all’altezza delle sfide del nostro tempo. A questo fine ci sembra di poter indicare alcuni orientamenti: limitare la frammentarietà degli erogatori che lavorano con

obbiettivi diversificati e difficilmente integrabili; ricorrere a modalità di selezione del personale con maggiori

responsabilità meno subordinate alla fedeltà ai partiti di chi governa e più legate alle competenze professionali e alle doti relazionali; attenuare gli eccessi di potere dei direttori generali che

tendono fatalmente ad imporre decisioni basate sulla ragione dei rapporti di forza più che sulla forza delle buone ragioni; valorizzare l’etica nelle decisioni e azioni di ogni giorno,

coltivando il terreno della libertà e della responsabilità affinché diventi sempre più fecondo. Infine si intravede un rischio nelle professioni di aiuto: che queste professioni si svuotino progressivamente di significato. Un rischio che si palesa soprattutto nei distretti, a contatto con le persone e i loro mondi vitali.

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Una tale involuzione ci fa capire quanto sia importante presidiare la cura delle relazioni e la valorizzazione delle persone. Ma occorre riconoscere che sull’infragilimento della coesione sociale e sulla diffidenza dilagante hanno un peso non marginale l’aziendalizzazione e la mercificazione della sanità. Non è quindi paradossale che chi, nei distretti, deve prendersi cura degli altri debba prima di tutto superare le sue frustrazioni e ritrovare il senso di un lavoro che rischia di essere reso via via più insignificante.

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Bibliografia 1) D. Callahan. La medicina impossibile. Ed. Baldini e Castoldi, Milano, 2000. 2) C. Arnsperger, P.Van Parijs. Quanta diseguaglianza possiamo accettare? Il Mulino, Bologna, 2003. 3) R. Alfieri. Le idee che nuocciono alla sanità. ASI, 11marzo 2004. 4) R. Alfieri. Democrazia e diritti umani in sanità. Prospettive sociali e sanitarie, anno 30, n.18, 2000. 5) Osservatorio italiano sulla salute globale. A cura di Eduardo Missoni. Feltrinelli, Milano, 2004. 6) Ministry of welfare, health and cultural affairs. Choices in health care. A report by the government committee on choices in health care, The Netherlands, 1992. 7) L. Garattini et al. L’inclusione dei costi indiretti nelle valutazioni economiche: la situazione italiana. Mecosan n. 34, 89-94,2000. 8) D.J. Weatherall, A new year’s resolution after a lost decade. British Medical Journal (BMJ). 27-12-2003, 327: 1415-1416. 9) R. Dobson. Industry sponsored studies twice as likely to have positive conclusions about costs. BMJ 1-11-2003; 327:1006. 10) J.A.Muir Gray. Getting research into practice. Meeting a Barcellona 1-10-97. 11) R. Alfieri. Quale globalizzazione per la sanità? QA 2004: vol.15, n1. 12) G. Bocchi, M. Ceruti. Educazione e globalizzazione. Cortina 2004, Milano. 13) Z. Bauman. La solitudine del cittadino globale. Ed. Feltrinelli, Milano 2000. 14) P. Vineis. Proof in observational medicine. Journal of epidemiology and community health 1997; 51; 9-13. 15) R. Alfieri. Dirigere i servizi socio-sanitari. Idee, teoria e prassi per migliorare un sistema complesso. Franco Angeli, Milano, 2000.

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INTERVENTO PROGRAMMATO di Gian Battista Guerrini, Geriatra Responsabile Servizi anziani Comune di Brescia

Il punto di partenza di una riflessione sull’impatto delle politiche sanitarie e socio-sanitarie della Regione Lombardia sulla salute e sui livelli assistenziali delle persone anziane è la profonda trasformazione, negli ultimi decenni, non solo del quadro demografico del nostro Paese e della nostra Regione, ma – in parallelo – del quadro epidemiologico, con il sempre più consistente prevalere della malattia cronica degenerativa sulla malattia acuta. Perché di fronte alla malattia cronica la nostra Medicina, cresciuta nel tempo, nella gestione della malattia acuta, a grandi livelli scientifici e tecnologici, mostra tutta la sua inadeguatezza culturale ed epistemologica ancor prima che operativa. E’ la valenza stessa di malattia infatti che cambia, nel passare dall’acuzie alla cronicità: dove la malattia non può essere interruzione, antitetica, di uno stato di salute (da ripristinare, appunto, grazie all’intervento della medicina) ma diventa una dimensione dell’esistenza, con la quale la persona convive, costruendo nuovi equilibri psicologici e funzionali che la medicina deve promuovere e sostenere costruendo a sua volta con l’interessato un progetto terapeutico capace di integrarsi con il suo progetto di vita. E’ proprio alla luce di questa profonda trasformazione epidemiologica che si presenta inadeguata l’opzione di fondo del “mercato” quale risposta ai mali della sanità: laddove l’attenzione viene posta sull’efficienza dei servizi (più ancora che del sistema) nel produrre prestazioni anziché sull’efficacia del sistema nel suo complesso nel produrre salute; laddove prevale la dimensione dello scambio “mercantile” di prestazioni sulla definizione e condivisione di un progetto di salute; dove la logica che presiede alla valutazione della propria operatività è tutta interna alla singola unità produttiva con il rischio – ben segnalato nei suoi scritti da Alberto Donzelli – di premiare la malattia anziché la salute. E’ opportuna anche un’altra premessa, nel tentare di delineare – sia pure schematicamente – le conseguenze delle scelte politiche regionali: ed è la grande variabilità delle situazioni locali, frutto del permanere dei precedenti modelli culturali ed operativi accanto a quelli proposti dalla più recente produzione normativa,

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alle scelte autonome di alcuni direttori generali, sia delle ASL che delle Aziende ospedaliere, alla capacità dei singoli operatori di salvaguardare esperienze significative, ma anche alla stessa contraddittorietà di alcune indicazioni regionali. Fatte queste premesse, intendo richiamare, schematicamente, tre questioni: gli ospedali, l’Assistenza Domiciliare Integrata e le RSA. 1. Per quanto riguarda gli ospedali la prima riflessione si collega alla premessa relativa alle modificazioni epidemiologiche: lo scorporo di tutti gli ospedali dalle ASL e l’enfatizzazione della logica aziendale che ne regola il funzionamento entrano in profonda contraddizione proprio con quell’esigenza, posta dall’aumento delle malattie croniche, di una spostamento della centralità del sistema dall’ospedale al territorio ed alle cure domiciliari, di una condivisione degli obiettivi di cura tra l’ospedale e le cure primarie, di un possibile trasferimento di risorse dal primo al secondo comparto. Un secondo accenno merita la questione dei DRG. Che le conseguenze della scelta di finanziare gli ospedali non più a giornata di degenza ma in rapporto alle prestazioni erogate avrebbero colpito soprattutto gli anziani era già stato documentato dalla letteratura scientifica di quei Paesi, gli Stati Uniti in testa, che per primi avevano imboccato questa strada. La riduzione della durata delle degenze penalizza infatti soprattutto quegli ammalati, come gli anziani più fragili, nei quali la riduzione delle riserve rallenta il recupero degli equilibri clinici e funzionali. Anche in Italia è ormai ben documentato il rischio per i pazienti anziani, ammesso che riescano a superare il filtro del pronto soccorso, di essere dimessi in condizioni cliniche non ancora stabilizzate e in condizioni di autonomia ancora pesantemente compromessa, scaricati anzitempo su famiglie o servizi domiciliari inadeguati a gestire problematiche complesse, a prezzo di una riduzione delle possibilità di recupero o di stabilizzazione e di un aumentato tasso tanto di riospedalizzazione quanto di ricovero, precoce e raramente reversibile, nelle strutture residenziali. Si tratta di problemi che discendono da scelte operate a livello nazionale: ma la nostra Regione non ha certo brillato nel tentativo di affrontarli, mentre la riduzione dei posti letto negli ospedali pubblici – storicamente più “resistenti” a logiche

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puramente economiche, la mancata attivazione di unità operative di lungodegenza, la rigidità dei controlli sui presidi riabilitativi (oggi la perdita dell’autonomia personale a seguito di un evento clinico acuto non rappresenta una condizione “appropriata” per essere accolti in un presidio riabilitativo, salvo che negli IDR,) rischiano di aggravarli anziché contenerli. 2. L’introduzione, da parte della Regione Lombardia, del voucher per l’ADI si colloca nel processo di trasformazione delle ASL in soggetti deputati alle sole funzioni di programmazione acquisto e controllo, e risponde ad una serie di obiettivi: ridurre progressivamente (sarebbe meglio dire, destrutturare)

il sistema dei servizi pubblici, che devono liberarsi di qualsiasi ruolo di gestione diretta, esternalizzando i propri servizi e limitandosi all’erogazione di finanziamenti;

favorire la nascita di una pluralità di soggetti in competizione tra di loro, per aumentare la qualità dei servizi erogati al cittadino;

valorizzare la libertà di scelta della persona e della sua famiglia.

Anche su questo tema non è possibile sviluppare una riflessione approfondita; mi limito a ricordare che: una vera libertà di scelta deve sostanziarsi della capacità per

il cittadino di valutare le diverse opzioni e di utilizzare correttamente le risorse a disposizione: capacità non sempre presente negli utenti dell’ADI, soprattutto nei più fragili;

resta fondamentale, pertanto, il mantenimento in capo all’ASL delle funzioni • di accompagnamento e di counseling, di “case

management”, di sostegno, in particolare alle situazioni di maggiore fragilità, di tutela del destinatario finale dell’intervento, l’anziano ammalato al proprio domicilio;

• di verifica della qualità del servizio erogato (verifica che non può limitarsi – trattandosi di prestazioni professionali – alla sola qualità percepita dall’utente);

• di integrazione delle prestazioni sanitarie rese al domicilio con gli interventi del comparto sociale e con le altre articolazioni della rete.

Appaiono contradditori con queste esigenze – peraltro segnalate da molti studiosi della materia, e non solo nel nostro Paese – sia

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l’abolizione delle Unità di valutazione geriatrica (UVG) e delle Unità di valutazione multidimensionale (UVMD), che la totale rinuncia da parte delle ASL a compiti di gestione diretta. Per quanto riguarda l’accesso all’ADI, le delibere di istituzione dei voucher non fanno alcun riferimento alla definizione del progetto né all’individuazione – al di fuori del solo medico di medicina generale – di una figura che si fa garante del progetto stesso, che ne segue lo sviluppo e che ne presidia l’integrazione con la rete dei servizi: tutte funzioni che la Regione stessa affidava nel 1998, con una puntuale delibera, all’UVG/UVMD. Sull’altro versante, proprio la necessità di sviluppare una capacità di definizione del progetto di cura, di verifica e controllo sulla qualità delle prestazioni erogate e sulla affidabilità dei soggetti accreditati postula nell’ASL una crescita delle competenze e del know-how, difficilmente compatibile con la rinuncia da parte sua ad ogni quota di gestione diretta del servizio e con la mortificazione delle UVG-UVMD. Un’ultima osservazione mi pare doverosa, data la sede nella quale ci troviamo ed è relativa al rischio, o meglio alla realtà, che lo smantellamento del servizio pubblico e la crescita della competizione tra diversi erogatori accentuino la tendenza alla precarizzazione del lavoro, con la conseguenza non solo di far pagare alle nuove generazioni di lavoratori sempre più atipici e precari il contenimento dei costi dei servizi, ma di compromettere la stessa qualità delle prestazioni (pensiamo alle dimensioni del turn-over di lavoratori precari, o alla difficoltà con cui un operatore non garantito può investire in un’attività che richiede una forte motivazione professionale e personale). 3. Anche per le RSA le trasformazioni introdotte negli ultimi 10 anni dalle Giunte regionali miravano a contenere il peso del pubblico all’interno del sistema e a facilitare la nascita di altri soggetti (attraverso la generalizzazione delle possibilità di accreditamento), così da aumentare la competizione e per questa via migliorare la qualità e ridurre i costi. Era inoltre esplicitata la volontà di aumentare la libertà di scelta del cittadino, abolendo ogni vincolo all’accesso in RSA (il Centro unico di prenotazione a livello di ASL, piuttosto che l’UVG) e lasciando al solo rapporto tra la famiglia e la struttura la decisione in merito al ricovero.

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Partendo da quest’ultimo punto, è facile sottolineare come l’effettiva possibilità di scelta della famiglia sia fortemente limitata da molteplici condizionamenti (basta pensare ai tempi di attesa, agli aspetti economici, all’insufficiente conoscenza del sistema); valgono inoltre le considerazioni svolte per l’accesso all’ADI, relative alla difficoltà che la famiglia incontra nell’affrontare, senza alcun intervento di accompagnamento e di consulenza, un passaggio particolarmente delicato. Per quanto riguarda gli altri due obiettivi perseguiti, la dinamica dei costi medi delle rette non ha subito, in realtà, significativi rallentamenti, se non nelle RSA già più costose, e questo nonostante l’aumento, da parte dei nuovi soggetti gestori privati, del ricorso al lavoro precario a basso costo ed alla riduzione del personale qualificato. D’altra parte, il nuovo sistema di finanziamento delle RSA in rapporto alle 8 classi di utenza – il SOSIA – ha comportato, soprattutto per le strutture che accoglievano prevalentemente anziani totalmente non autosufficienti, una riduzione dei trasferimenti, che non poteva che scaricarsi sulle rette. Il raggiungimento dell’ultimo obiettivo indicato – il miglioramento della qualità dell’assistenza erogata dal sistema delle RSA – è senz’altro più arduo da valutare, in mancanza di strumenti condivisi. Non sembrano peraltro andare in questa direzione alcune scelte regionali. Parlo del “superamento” degli standard richiesti per ogni singola figura professionale, che consente ala struttura di definire autonomamente il mix di personale all’interno di un livello minimo quantitativo di assistenza da erogare (901 minuti alla settimana per ospite); parlo, ad esempio, del venire meno di uno standard adeguato di presenza del medico, sostituito dall’obbligo della sola reperibilità, che sottende una visione del ruolo delle figure sanitarie limitato ad un intervento di risposta alle singole necessità terapeutiche, al di fuori di una “reale partecipazione alla promozione della qualità della cura e della qualità della vita del residente” (A. Guaita, in press); parlo di un sistema di tariffazione – il già citato SOSIA – che rischia di premiare la disabilità e di penalizzare la riabilitazione e la promozione dell’autonomia. Il complesso di questi interventi normativi, se applicati a pieno, rischia di spingere le RSA, per reggere la competizione, ad

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investire solo sulla qualità “di facciata” cercando di contenere i costi proprio attraverso la riduzione del personale qualificato e la rinuncia ai progetti assistenziali innovativi, invertendo così un percorso che ha visto impegnate queste strutture, negli ultimi due decenni, a scrollarsi di dosso lo storico marchio dell’istituzione totale e a tentare di garantire una reale presa in carico della salute possibile dei più fragili tra gli anziani.

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INTERVENTO PROGRAMMATO di Tommaso Terrana, Responsabile Cgil medici FP Lombardia

Diapositiva 1

Il distretto come sistema complesso• Si pone all’incrocio di diversi bisogni con il

difficile compito di orientare la domanda, dovendo mediare tra interessi contrapposti di cittadini, amministratori, professionisti di diverse culture e appartenenze.

• Come dar senso alle interazioni nell’interesse del singolo e della collettività?

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Diapositiva 2

Il distretto come luogo di crisi

• Squilibrio tra domanda ed offerta

• I fattori che la spiegano:– Cambiamenti demografici– Progresso tecnico e scientifico– Aumento delle aspettative

• La natura profonda della crisi

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Diapositiva 3

I rimedi delle politiche neo-liberistiche

• Aziendalizzazione

• Privatizzazione

• Responsabilizzazione individuale

• Dividere per dominare

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Diapositiva 4

L’aziendalizzazione accentua il disagio

1) Il potere viene concepito come dominio, non come servizio

2) Il clima e le relazioni sindacali si deteriorano

3) La credibilità sta scemando

4) L’omologazione delle ASL ad aziende di manufatti svilisce la professionalità degli operatori

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Diapositiva 5

La moltiplicazione del conflitto di interessi

L’esempio paradigmatico del malato cronico:

- conflitto ospedale – medicina di famiglia e distretti

- conflitto tra cooperative d’assistenza, distretti e malati

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Diapositiva 6

Si incrina il rapporto di fiducia

• Divampa la diffidenza

• Aumenta la contesa medico-legale e la dispendiosa “medicina difensiva”

• Nella lotta tra concorrenti si allenta la coesione sociale.

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Diapositiva 7

Conseguenze della l.r. 31/97

• Progressivo sgretolamento della “rete dei servizi socio sanitari”

• Smantellamento di strumenti utili al governo degli accessi ai servizi in base a criteri di appropriatezza, equità e trasparenza (es. : Unità di Valutazione)

• Riduzione dei Distretti sociosanitari a pure “espressioni geografiche” svuotati di possibilità operative ed autonomie decisionali

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Diapositiva 8

Cosa fare? Coinvolgere i comuni nelle politiche per la salute.

- Valutare le priorità ed esplicitare i criteri etici e politici di assegnazione delle risorse.

- Si deve tener conto del fatto che la salute dipende solo in parte dai servizi sanitari (influiscono molto altri settori vitali del sistema Paese: istruzione, occupazione, trasporti, sicurezza, tutela ambientale, lavori pubblici…)

- Si deve tenere anche conto della composizione del welfare globale, dai sussidi di disoccupazione agli aiuti ai poveri, agli alloggi,...

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Diapositiva 9

Cosa fare? Rimuovere tutto ciò che strutturalmente incrina le relazioni.

Bisogna promuovere il benessere organizzativo, cioè contrastare:

a) la frammentazione e separazione degli erogatori: sono state messe in competizione parti del sistema che per loro natura dovrebbero essere complementari (almeno gli ospedali sotto i 150 letti dovrebbero essere gestiti dalle ASL).

b) La selezione nei posti di maggiore responsabilità non deve essere basata sulla fedeltà all’uno o all’altro partito di governo;

c) l’eccesso di potere dei direttori generali va limitato poichéscivola fatalmente nella prevaricazione;

d) Gli spazi di riflessione etica vanno ampliati: non bisogna avere paura della responsabilità e della libertà delle coscienze.

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Diapositiva 10

Cosa fare? Impegnarsi sulle malattie croniche: un delicatissimo incrocio tra comunità e istituzioni sanitarie e sociali.

Occorre valutare l’appropriatezza delle storie assistenziali dei malati cronici.

Bisogna riconvertire le analisi sui dati dei Data Base dei sistemi informativi a vantaggio di un approfondimento di conoscenza sulle malattie croniche

Si deve passare dalle analisi trasversali a quelle longitudinali per disegnare le traiettorie nella storia assistenziale delle singole persone e, successivamente, confrontare le diverse tipologie di traiettorie in base a patologie e gruppi prognostici

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Diapositiva 11

ConclusioneSi intravede un rischio nelle professioni di aiuto: che queste professioni si svuotino progressivamente di significato.Un rischio che si palesa soprattutto nei distretti, a contatto con le persone e i loro mondi vitali.

Una tale involuzione ci fa capire quanto sia importante presidiare la cura delle relazioni e la valorizzazione delle persone. Ma occorre riconoscere che sull’infragilimento della coesione sociale e sulla diffidenza dilagante hanno un peso non marginale l’aziendalizzazione e la mercificazione dellasanità.Non è quindi paradossale che chi, nei distretti, deveprendersi cura degli altri debba prima di tutto superare le sue frustrazionie ritrovare il senso di un lavoro

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INTERVENTO PROGRAMMATO di Bruno Benigni, Spi Cgil nazionale

1. Tutte le volte che il Sindacato ha progettato le sue piattaforme per la salute dei cittadini e per applicare i livelli essenziali di sanità, si è trovato dinanzi ad una difficoltà generale e condizionante: nei territori, non c’è una controparte istituzionale democratica con cui misurarsi nelle scelte, per il semplice fatto che essa o non è stata mai costituita o è del tutto precaria. Eppure le piattaforme affrontano problemi seri e cruciali. Si tratta dei rischi ambientali, lavorativi e domestici, di malattie da usura e a carattere degenerativo, quali i tumori, le malattie ischemiche, le malattie del ricambio, le malattie mentali, le dipendenze, le nuove malattie infettive e altro ancora. Tutti sanno che queste malattie che oggi sono causa prevalente di morte e/o di pesanti invalidità si possono contrastare con maggiore efficacia, con minori disagi sociali e con costi più sostenibili fuori dell’ospedale, nel territorio, sia con la prevenzione primaria e secondaria che con un sistema integrato di cure primarie, di interventi riabilitativi e di servizi sociali. Purtroppo attualmente il territorio non ha programmazione, non ha livelli di responsabilità istituzionale, non ha una rete integrata di servizi sanitari e sociosanitari integrati tra loro, non ha un sistema di relazioni disciplinate con l’ospedale, non ha risorse dedicate, non ha sistemi di rilevazione e di valutazione interni ed esterni, sia tecnici che democratici. La legge prevede il distretto sociosanitario, ma la sanità territoriale è, per l’appunto, la sanità che non c’é. 2. Eppure, dall’OMS al Piano sanitario nazionale e a tutte le sedi scientifiche è unanime la convinzione che nella sanità territoriale risieda il futuro dei Servizi sanitari nazionali sia per la garanzia del diritto dei cittadini alla salute che per la sostenibilità economica del sistema sanitario. Mancano molte cose, ma nei distretti sociosanitari manca soprattutto il Comune singolo o associato, dotato di poteri e responsabilità, come rappresentante dei cittadini, come interlocutore delle parti sociali, come soggetto responsabile delle scelte di programmazione sanitaria territoriale, come

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portatore di competenze nel governo di importanti determinanti della salute. E’ un problema di prima grandezza politica ed istituzionale che deve essere risolto, perché le scelte sulla salute e sull’impiego delle risorse non possono essere affidate ad un funzionario privo di autonomia decisionale e ad un sistema di apparati burocratici. Manca il Comune, mancano gli Enti locali, che sono competenti su tutto, tranne che sulla salute dei loro cittadini. Molte sono le ragioni di questa assenza e di questa esclusione, ma tutte possono essere ricondotte alla convinzione, tutta ideologica, che per l’efficienza del sistema si debba fare a meno della democrazia, che regole aziendali tratte dal privato possano essere trasposte in un sistema pubblico, che la sanità sia un mercato in cui si possa fare a meno della politica. A questo si deve aggiungere l’affermazione del neocentralismo regionale che è la negazione della sussidiarietà verticale ed orizzontale. Qui si è aperto il varco negli anni ‘90 e qui si sono registrate le insufficienze più vistose della cultura democratica che ha subito le scelte altrui, senza sapersi misurare con esse con una diversa progettualità. Si è trattato di un ritardo culturale, politico e progettuale, di una separazione tra progetto istituzionale e progetto sociale. Ha reagito la Cgil con la Conferenza del gennaio 2003, che attingendo ai fondamenti della legge n. 833 del 1978 e tenendo conto delle leggi quadro n. 229 del 1999 e n. 328 del 2000, ha proposto l’obiettivo di rendere centrale la salute, la sanità, la partecipazione e il governo territoriale. Un patto per la salute con il cittadino protagonista attivo e responsabile. Non hanno reagito a sufficienza le Autonomie locali che hanno subito o comunque accettato il centralismo regionale, rinunciando a svolgere la funzione di rappresentanza globale degli interessi dei cittadini che comprendono la salute come le politiche sociali in un nesso inscindibile. 3. I risultati delle recenti elezioni regionali, provinciali e comunali, che hanno registrato una rilevante affermazione del centrosinistra, ottenuta soprattutto sui temi del welfare e sulla qualità delle politiche sanitarie, rendono possibile realizzare un fronte comune tra società civile ed Istituzioni e dunque importanti intese tra Organizzazioni sindacali e Comuni per

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superare il centralismo regionale e per realizzare un governo democratico della programmazione sanitaria e sociosanitaria in tutte le aree distrettuali del Paese. Ci sono esperienze importanti nell’Emilia Romagna e in Toscana da approfondire per trovare soluzioni generali entro la potestà statutaria delle Regioni ed entro il Testo Unico dell’Ordinamento degli Enti locali. La stessa contrattazione esige che in tutti i distretti si dia vita ad una fase costituente per nuove forme di potere locale che superino la dispersione municipale, il carattere marginale dell’attuale ruolo dei Comuni nella sanità, per forme di governo che, tutte, abbiano una chiara e netta responsabilità giuridica, quella che consente di deliberare e di assumere atti di governo, di rispondere delle scelte e dell’impiego delle risorse. Bisogna andare oltre gli atti di indirizzo che non hanno nessuna cogenza e che non hanno alcun effetto concreto nei diritti dei cittadini. Gli Enti locali non sono associazioni di volontari, sono Istituzioni il cui compito è quello di governare e di governare responsabilmente, rispondendo del proprio operato erga omnes. 4. Questa funzione di governo unitario dei Comuni si realizza in maniera organica,con impegni e responsabilità, se nei propri territori, nelle aree decentrate del distretto, le più vicine ai cittadini, essi sono i promotori, con la Regione e con le forze sociali di un nuovo sistema sociosanitario. Oltre che essere responsabili delle scelte, i Comuni devono concorrere alla loro coerente esecuzione per dare continuità e valore alla partecipazione dei cittadini, per mettere fine alla dispersione di uffici e servizi e allo spreco e per garantire l’integrazione tra servizi sanitari e sociali. Il Sindacato Cgil ha avanzato la proposta di realizzare in ogni area sub distrettuale la Casa della salute, una sede decentrata che consente ai cittadini di partecipare direttamente, nelle sedi formali e informali del Servizio sanitario, alla esecuzione di programmi di salute condivisi, una sede unica dove è possibile realizzare l’Ufficio di cittadinanza o Sportello unico per far uscire il cittadino dal “labirinto” degli uffici e dei servizi e per una presa in carico della sua domanda di salute e di cura da parte del Servizio pubblico.

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Sul versante degli operatori, la Casa della salute é una inedita centralità periferica che rende possibile l’utilizzo comune di tecnologie informatiche e diagnostiche, l’integrazione tra le diverse professionalità della sanità e del sociale, senza separazioni spaziali e senza dispersione di risorse professionali. La Casa della salute non è una chimera, ma è la sede idonea per dare concreta attuazione agli articoli 14, 26, 27 e 54 della Convenzione per la Medicina generale recentemente approvata e di andare oltre, perché essa consente di realizzare operativamente, in virtù della contiguità spaziale e della compresenza temporale degli operatori, l’integrazione tra attività sanitarie e attività sociali, ormai e sempre più indispensabili per far fronte alle nuove e diffuse patologie ad andamento cronico e degenerativo. Si parla spesso e giustamente di governo clinico, ma bisogna dire con chiarezza che questo è possibile se sono realizzate le condizioni culturali, politiche e organizzative per un lavoro comune degli operatori e per una loro assunzione di responsabilità non solo individuale, ma collettiva sulla salute della comunità e sull’impiego delle risorse. Una nuova sanità territoriale è un obiettivo di cambiamento che impegna le Istituzioni, gli operatori e le parti sociali in un progetto comune e condiviso. Il Sindacato con le sue posizioni, con la sua iniziativa e soprattutto con le sue piattaforme contrattuali partecipate contribuisce a questo cambiamento per rendere concreti ed esigibili i livelli essenziali delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie.

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INTERVENTO PROGRAMMATO di Fulvia Colombini, Segreteria CdLM di Milano

Condivido e apprezzo l’idea di questo convegno sindacale della Cgil regionale che si tiene all’inizio della legislatura della Regione Lombardia con la finalità di mettere a fuoco la nostra strategia e le nostre priorità per i prossimi cinque anni in tema di politica della salute e di welfare. Le politiche sociosanitarie rivestono un’importanza cruciale per la qualità di vita dei cittadini, inoltre assorbono circa l’80% del bilancio regionale e quindi gran parte delle risorse disponibili sul territorio per politiche di tipo federale. L’obiettivo del convegno risulterà tanto più centrato se l’intero sindacato saprà muoversi intorno alle indicazioni contenute nel documento preparatorio e se sapremo avviare e praticare, sia centralmente, che nei territori, che con le categorie le priorità condivise. Mi riferisco in particolare alla Confederazione Regionale che deve svolgere un ruolo di indirizzo e di guida, alle Camere del Lavoro Territoriali che devono porre le questioni agli interlocutori istituzionali nei territori di loro rappresentanza, al ruolo fondamentale della Funzione Pubblica e dello Spi. A mio avviso la capacità di lavorare il modo articolato, ma coordinato è condizione essenziale per l’efficacia del nostro operato. Su questo versante alcuni miglioramenti sono stati ottenuti negli ultimi anni, in particolare il Coordinamento regionale welfare ha svolto un’utile funzione ed esercitato un ruolo di indirizzo delle politiche, ma necessita una maggior coesione tra tutte le strutture sindacali che, a vario titolo, intervengono sui temi della sanità. L’idea forza che va attuata è quella di agire sindacalmente per ottenere una serie di correzioni del sistema sanitario lombardo e quindi raggiungere risultati concreti e più favorevoli per i cittadini residenti nella nostra Regione. Diviene ineludibile, visto che il bisogno di salute si misura solo sul territorio, essere in grado di presentare proposte e piattaforme sulle quali impegnare l’Assessorato, ma soprattutto le Asl, le Aziende Ospedaliere, gli Enti locali in collaborazione anche con le associazioni di cittadini che operano localmente e che si impegnano nella difesa delle strutture sanitarie presenti sul territorio. A mio avviso è giunto il momento di sfidare le

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Aziende Sanitarie su temi concreti, a partire dalla lettura dei bisogni di salute di ogni distretto e dalle carenze che noi giornalmente registriamo. Per quanto riguarda le dieci proposte contenute nel documento base , penso sarebbe utile indicare anche una scala di priorità che metta al centro il tema della valorizzazione del territorio e della riqualificazione e potenziamento delle strutture territoriali di assistenza attraverso lo spostamento di risorse dall’Ospedale al Distretto Sanitario. La scala delle priorità può essere la seguente: Prevenzione, riorganizzazione della medicina di base, integrazione sociosanitaria, interventi volti alla continuità di cura, avviare alcune esperienze a carattere sperimentale di “casa

della salute” e di “ospedale di comunità”. Il nostro operato sindacale sul territorio dell’area metropolitana. A Milano, in Camera del Lavoro, insieme alla Funzione Pubblica, allo Spi ed alle Zone confederali stiamo attuando un percorso sistematico di confronto con i nostri interlocutori istituzionali: Asl e Aziende Ospedaliere, che mira ad una coerenza ed unicità di fondo con gli obiettivi esplicitati a livello regionale.

1. Prevenzione

Abbiamo avviato un monitoraggio sul funzionamento di alcune strutture territoriali deputate alla prevenzione ed in particolare: Consultori familiari e pediatrici che per effetto delle nuove

norme sull’accreditamento, varate dalla Regione Lombardia, che diventeranno obbligatorie a partire dal 31 dicembre dell’anno in corso, rischiano ulteriori ridimensionamenti e chiusure. In particolare l’attenzione a queste strutture, che rischiano l’esternalizzazione da parte delle Asl e la fine della gestione diretta, deve essere prestata perché operano nel campo fondamentale della prevenzione della salute sessuale e riproduttiva, in tutti i suoi aspetti: dalla contraccezione alla maternità, alla menopausa, al monitoraggio e gestione della legge 194. ecc… Sono inoltre importanti strutture per la prevenzione e la cura del disagio familiare, giovanile,

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adolescenziale ecc… Vogliamo impegnare le quattro Asl del nostro territorio ad investire di nuovo nei consultori, recuperando i valori ed i contenuti originali della legge istitutiva (decreto 1/12/1995 – legge n. 34 del 31/06/1996). Servizi PSAL: anche sul versante della prevenzione e della

salute e sicurezza sul luogo di lavoro stiamo attuando un confronto con tutte le Asl di nostra competenza e in collaborazione con le due camere del lavoro, con cui condividiamo parte del territorio: la Camera del Lavoro della Brianza e la Camera del Lavoro di Legnano. Siamo partiti dalla verifica sull’utilizzo dei finanziamenti che stanno arrivando sul territorio per i “Progetti obiettivo regionali”, per arrivare a impegnare le direzioni delle aziende sanitarie ad un piano di intervento che porti all’assunzione di nuovo personale, sia medici che tecnici del lavoro e all’acquisizione degli strumenti necessari per svolgere un lavoro efficiente: automobili, computer, macchine digitali, ecc…, verificando i risultati e coinvolgendo gli operatori della prevenzione e le categorie maggiormente interessate ai progetti. Servizi territoriali: ci apprestiamo ad un’analoga verifica e

confronto sul funzionamento di tutti gli altri servizi sanitari e socio/sanitari presenti sul territorio: Adi, Sert, strutture e strumenti dell’integrazione sociosanitaria, interventi volti a risolvere i problemi legati alle dimissioni precoci, garantendo la continuità di cura. Attraverso queste interventi diretti sulle Asl, volti alla valorizzazione dei servizi del territorio, ci prefiggiamo l’obiettivo di non consentire lo svuotamento delle Aziende Sanitarie dalle attività svolte ancora direttamente e di impedire il completamento della trasformazione in PAC, così come previsto dal PSSR 2002/2004. L’attuazione del PSSR è stata ritardata grazie al nostro intervento sindacale di opposizione generale e di tenuta nel territorio. E’ quindi giunto il momento di porre con forza il problema della riconsiderazione e del cambiamento di alcune scelte effettuate dalla giunta precedente. La necessità di tornare a investire sulle Asl e sui servizi da esse gestiti è uno dei primi risultati da raggiungere.

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2. Medicina di base Recentemente, il 10 maggio scorso, a Milano insieme alla Cgil Regionale, abbiamo promosso un seminario di approfondimento sul ruolo del Medico di Medicina Generale quale pilastro fondamentale del nostro sistema sanitario nazionale. L’idea che si fa strada è quella di impegnare le direzioni delle Asl a tentare alcune sperimentazioni, laddove possibile, come la Casa della salute o l’Ospedale di comunità, dove il MMG è destinato a svolgere un ruolo importante di assistenza diretta e di controllo di tutte le decisioni che riguardano la salute dei propri assistiti. Nel contempo è utile cogliere e intercettare, incanalandolo, il bisogno di riorganizzazione di taluni presidi ospedalieri territoriali che faticano a svolgere un ruolo di ospedale specialistico, mentre potrebbero essere molto più utili se sviluppassero una vocazione territoriale volta al soddisfacimento dei bisogni di medicina di base e di assistenza, prestando particolare attenzione alla necessità di garantire continuità e contiguità di cura per i residenti, soprattutto se anziani o cronici. In questi percorsi è fondamentale coinvolgere nelle decisioni e nell’attuazione dei cambiamenti i medici ospedalieri che potrebbero sentirsi sminuiti nel loro ruolo, per effetto del mutamento della natura assistenziale dell’ospedale nel quale lavorano. In un accordo sindacale recentemente raggiunto con l’Azienda Ospedaliera di Melegnano questa possibilità è contenuta. Se saremo in grado di sviluppare una proposta compiuta e di ottenere alcune alleanze importanti con i sindaci dei comuni interessati, forse potremo avviare nel prossimo periodo qualche interessante sperimentazione.

3. Altri obiettivi

Queste sono alcune delle linee di intervento che ci prefiggiamo di seguire nei prossimi mesi insieme alle riorganizzazioni delle aziende ospedaliere che ci interessano, come il progetto di un ospedale a rete riguardante l’Azienda Ospedaliera “G.Salvini” di Garbagnate Milanese, sul quale abbiamo avanzato nostre proposte; la realizzazione delle nuove strutture della Fondazione

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Policlinico-Mangiagalli-Regina Elena; la riorganizzazione dei Poliambulatori territoriali della città di Milano, la realizzazione di un Centro Multiservizi per anziani a Garbagnate Milanese; la realizzazione di 200 posti letto di riabilitazione e lungodegenza sul territorio dell’Azienda Ospedaliera di Melegnano; la determinazione delle nuove strutture sanitarie per il territorio dell’hinterland milanese derivanti dalla creazione della provincia di Monza ecc…, con interventi in coerenza con gli obiettivi generali che abbiamo delineato in questo convegno e contenuti nel documento preparatorio. Riprenderemo altresì il confronto diretto con la Direzione Generale della sanità presso l’Assessorato sul “tavolo milanese” per i problemi dell’assistenza sanitaria della città di Milano. Riproporremo il problema della necessità di una struttura che abbia la funzione di programmare e di coordinare un piano Socio Sanitario per la Città di Milano con poteri decisionali delegati dall’Assessorato e che possa agire in sinergia con la Asl Città di Milano, le Aziende Ospedaliere Pubbliche, gli Irccs e le strutture private presenti in città. Investire per il diritto alla salute e alla sicurezza significa garantire uno dei fondamentali diritti di cittadinanza e garantire una migliore qualità di vita alle persone. La Cgil in questi anni si è caratterizzata come il sindacato dei diritti e in questo senso il nostro impegno deve essere forte e costante.

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INTERVENTO PROGRAMMATO di Giovanni Bissoni, Assessore alle Politiche della Salute Regione Emilia Romagna

Il tema delle risorse rappresenta un elemento cruciale per analizzare lo stato di salute della sanità nel nostro Paese. Penso che si possa tranquillamente affermare che, al 31 dicembre 2005, se il Servizio sanitario nazionale compisse una operazione di verità, dovremmo tutti riconoscere di essere in una situazione estremamente allarmante. Questo per la sottostima del Fondo sanitario nazionale e per la necessità di considerare a bilancio gli oneri dovuti ai rinnovi contrattuali, con gli arretrati relativi al 2002 e 2003. Anche Regioni come l’Emilia-Romagna, la Toscana e l’Umbria che hanno chiuso i conti del 2003 con una sostanziale parità senza tasse e senza ticket, cominciano, a causa degli elementi richiamati, ad essere in una situazione di difficoltà finanziaria. Non è un caso che la Conferenza dei presidenti delle Regioni, prima del rinnovo delle Giunte, e quindi quando ancora la maggioranza di quei presidenti non era di centro sinistra, abbia avanzato al Governo la richiesta di un rifinanziamento del Fondo sanitario nazionale 2004 pari a 4,5 miliardi di euro, calcolando in quei 4,5 miliardi non il disavanzo reale delle Regioni, che è più alto, ma quello sostanzialmente imputabile alla sottostima del Fondo sanitario nazionale. L’Emilia-Romagna, lo sapete, ha scelto di non mettere i ticket sui farmaci. Si tratta di una misura che non condividiamo perché rappresenta un aggravio di spesa a carico dei cittadini e, peraltro, non serve nemmeno a contenere la spesa e a determinare consumi farmaceutici. Infatti, se analizziamo l’andamento della spesa farmaceutica in Regioni che hanno messo i ticket e in Regioni, come l’Emilia-Romagna, che non l’hanno fatto, troviamo che la spesa è cresciuta proprio in quelle Regioni che hanno scelto di utilizzare il ticket sui farmaci. C’è chi ha scaricato su quelle misure ogni impegno di razionalizzazione e di appropriatezza dei consumi farmaceutici. C’è poi il rischio che il ticket sui farmaci venga utilizzato come forma di finanziamento del Servizio sanitario. A questo ci opponiamo fermamente, poiché il Servizio sanitario pubblico deve essere finanziato dalla fiscalità generale.

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Voglio sottolineare che parlare di “fiscalità” non ci spaventa, tant’è che il presidente della Regione Emilia-Romagna nel suo programma ha inserito la possibilità di usare la leva fiscale regionale per costituire il fondo per la non autosufficienza. Ci preoccupa invece quando la leva fiscale regionale serve a finanziare il Servizio sanitario: un conto è, infatti, usare quella leva per finanziare servizi aggiuntivi rispetto ai Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) definiti a livello nazionale o per risolvere inefficienze proprie di una Regione (che ne ha quindi la responsabilità), altro è usare la fiscalità regionale per finanziare strutturalmente il Servizio sanitario. Pare di tutta evidenza, in questo ultimo caso, l’introduzione di un principio pericoloso: se la leva fiscale regionale serve a finanziare i LEA che devono essere garantiti in modo uniforme in tutto il Paese, scatta la diversa capacità impositiva tra Regioni e dunque la diversa capacità di garantire i LEA che, a questo punto, non saranno più un diritto garantito a tutti e in tutto il Paese. Come sappiamo, è alla legislazione nazionale che spetta definire il quadro complessivo dei diritti e gli obiettivi generali; alle Regioni spetta organizzare risposte assistenziali concrete, garantire cioè l’erogazione dei servizi ricompresi nei LEA. E in questo naturalmente conta la storia e la cultura di governo di ciascuna Regione. Per l’organizzazione dei servizi, in sostanza, ogni Regione è in primo luogo un laboratorio per se stessa. Quando si parla dell’Emilia-Romagna, si parla di una Regione che è caratterizzata da una forte coesione istituzionale e sociale, una caratteristica molto forte, non presente in tutte le parti del Paese. Dopo il decreto legislativo 229/99 - che ha ribadito i principi fondanti del Servizio sanitario nazionale (universalismo, equità, solidarietà), ha rafforzato il ruolo degli Enti locali nella programmazione e verifica dei servizi, ha sottolineato la necessità di una partecipazione piena dei professionisti al governo e alla gestione dell’Azienda sanitaria - abbiamo avuto la riforma del titolo V della Costituzione. Con essa è stato sancito che il Servizio sanitario è nazionale per i diritti da garantire a tutti i cittadini, con la definizione dei Livelli Essenziali di Assistenza ed è regionale per l’organizzazione e il

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funzionamento. Con quella riforma è stato sancito un federalismo sanitario solidale. Se ogni Regione è responsabile dei sistemi organizzativi e gestionali che mette in campo, non per questo le diverse opzioni non possono essere messe a confronto. Purtroppo però, siamo precipitati in un dibattito che non è più su come realizzare quel federalismo solidale indicato dal nuovo titolo V ma è sulla sciagurata ipotesi di devoluzione che il Governo intende portare avanti. Noi dobbiamo continuare a lavorare per salvaguardare il Servizio sanitario nazionale e l’universalismo delle cure. Oggi assistiamo a una nuova domanda di salute. Sono oggettivamente cambiati i bisogni di assistenza, poiché è aumentata la popolazione anziana ed è aumentata, di conseguenza, la cronicità, è aumentata l’aspettativa delle persone riguardo alla capacità di risposta dei servizi, è aumentata la popolazione immigrata, ecc…, inoltre le innovazioni tecnologiche ci possono mettere in condizione di rispondere meglio ai bisogni. Soffermiamoci per un attimo sulla popolazione immigrata. Correttamente ci richiamiamo alla necessità di integrazione. Pensate cosa sarebbe questo Paese se agli altri problemi si dovesse aggiungere un Servizio sanitario non universalistico e dunque non in grado di accogliere la domanda di salute della popolazione immigrata. Sono anche questi cambiamenti che devono indurre il Servizio sanitario ad assumere pienamente la centralità del cittadino, a scapito della autoreferenzialità dei servizi. I concetti di presa in carico, di continuità di cura, di deospedalizzazione possono davvero spingere al cambiamento, se siamo coerenti con la necessità di assumere la centralità della persona e del suo bisogno di salute. Si tratta di un problema che non riguarda solo il territorio, riguarda tutta l’organizzazione dei servizi, la necessità di metterli in rete, di assicurare l’intervento più appropriato nel luogo più appropriato. Questo stiamo facendo in Emilia-Romagna. Ad esempio, il Trauma center dell’Ospedale Bufalini di Cesena - che non possiamo replicare in ogni provincia della Romagna - deve essere in grado di prendersi carico di un traumatizzato grave ovunque esso sia, da Ravenna a Rimini, e di organizzare il

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percorso assistenziale necessario. Ma posso citare anche l’oncologia e la cardiochirurgia, dove abbiamo privilegiato il concetto di collaborazione e di integrazione rispetto alla competizione tra strutture. La centralità della persona ha per noi significato rivedere tutta la organizzazione assistenziale, dalla rete ospedaliera alla rete dei servizi territoriali, alla rete di integrazione tra servizi sociali e servizi sanitari. Ed è in questo quadro che introduco il tema della programmazione. E’ evidente che non parliamo più della “vecchia” programmazione sanitaria fatta di posti letto, di piante organiche, ecc… stiamo parlando di un’altra cosa, della capacità di leggere i bisogni di assistenza, della capacità di destinare nel modo più efficace le risorse a disposizione, di far partecipare tutti i soggetti interessati alla programmazione e alle politiche per la salute con processi di integrazione istituzionali, organizzativi, gestionali, in alcuni casi anche finanziari. In Emilia-Romagna il primo problema che abbiamo avuto è stato quello di uscire da una situazione di diffidenza degli Enti Locali rispetto al processo di aziendalizzazione in sanità, che è stato visto, a volte, come un passaggio di espropriazione delle loro competenze. Oggi penso di poter dire che questo è un problema risolto. La nuova organizzazione che abbiamo disegnato con la legge regionale 29 del dicembre 2004 rafforza la partecipazione degli Enti locali; la pratica quotidiana dimostra che questa partecipazione non rimane lettera morta. Con questa legge abbiamo introdotto innovazioni importanti nel rapporto tra Regione ed Enti locali. Faccio alcuni esempi. Alla Conferenza territoriale sociale e sanitaria spetta il parere formale e preventivo sulla nomina del direttore generale dell’Azienda sanitaria. La Regione Emilia Romagna non nomina un solo direttore generale che non abbia avuto il parere favorevole della Conferenza territoriale sociale e sanitaria interessata. La nomina del direttore di Distretto, che nel nostro sistema è il rappresentante della committenza, è effettuata di concerto con il Comitato di distretto, all’interno del quale siedono i Comuni che afferiscono a quel territorio. La programmazione sanitaria locale, dall’assistenza ospedaliera all’assistenza territoriale, è approvata dalla Conferenza

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territoriale sociale e sanitaria. La Giunta regionale ne verifica e ne certifica solo la conformità. Certo è però che questo equilibrio importante lo abbiamo raggiunto nel rispetto delle competenze e non confondendo la programmazione sanitaria e la verifica dei risultati con la responsabilità del governo clinico, che spetta ai professionisti sanitari, o con la responsabilità degli assetti organizzativi e gestionali, che spetta alla direzione generale dell’Azienda sanitaria. Mi permetto una battuta: su chi deve ricoprire il ruolo di primario non ci mette mano l’assessore regionale, ma nemmeno il sindaco. Il nostro obiettivo è stato quindi quello di operare una separazione netta tra le responsabilità della programmazione e le responsabilità dell’organizzazione e della gestione. Ora stiamo ragionando sull’assetto interno dell’Azienda sanitaria per elaborare il nuovo atto di indirizzo per la redazione dell’atto aziendale, lo strumento che disegna gli assetti organizzativi e di relazione interna ed esterna dell’Azienda sanitaria. In questa elaborazione dobbiamo affrontare tre temi: il governo clinico, la partecipazione organizzativa, l’organizzazione. Inoltre, come sistema, oggi abbiamo un nuovo obiettivo, che discende dalla riorganizzazione delle deleghe secondo la quale le politiche socio-sanitarie, le politiche per gli anziani e per la non autosufficienza rientrano tra le deleghe dell’Assessore alle politiche per la salute. Il problema che abbiamo di fronte è quello di come rendere davvero il Distretto il luogo dell’integrazione sociale e sanitaria, un luogo che sia “riconosciuto” dai sindaci dei territori parte del Distretto. In questo ambito, rientrano anche le politiche per la non autosufficienza e le politiche per la salute mentale. A proposito del fondo per la non autosufficienza, la penso come voi: si tratta di una emergenza nazionale che deve essere affrontata in sede nazionale. Ma, in assenza di questi interventi, non abbiamo ritenuto di rimanere inerti. Abbiamo invece ritenuto di dover intervenire perché davvero le sofferenze in questo ambito sono ormai insopportabili, il carico per le famiglie è insopportabile. E dunque abbiamo istituito con legge regionale il fondo per la non

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autosufficienza, finanziandolo con risorse del Fondo sanitario e del bilancio regionale. Abbiamo già l’intesa con gli Enti locali e le parti sociali: il fondo sarà distribuito su base distrettuale e sarà collocato in un bilancio ad hoc dell’Azienda sanitaria. Il governo di quel fondo è del Comitato di Distretto e dei direttori di Distretto, che costituiranno uffici comuni per l’organizzazione e la gestione delle risorse. Vorremmo partire già dal 2006, quando e se arriveranno altre risorse avremo un sistema pronto per funzionare. In questo processo si inserisce anche la riforma delle IPAB, che diventano soggetti erogatori di servizi ed in quanto tali entrano nella rete dei servizi. L’Emilia-Romagna ha una delle popolazioni più “vecchie” d’Italia con una percentuale di persone con più di 65 anni del 22,6. Tuttavia, accanto ad una doverosa attenzione per quelle sofferenze di cui parlavo prima legate all’età e alla cronicità, ritengo che ci debba essere una lettura più puntuale riguardo all’invecchiamento della popolazione. La prima considerazione riguarda la differenza tra la previdenza e l’assistenza. Voglio dire che l’allungamento della vita non necessariamente comporta più costi per la sanità, mentre, ovviamente, aumenta i costi previdenziali. Il processo di invecchiamento è reale, così come è reale la necessità di risorse. Ma la scommessa è quella di avere la capacità di rimodellare i nostri sistemi di assistenza per assicurare i servizi al momento del bisogno, ma è anche quella di investire, con la prevenzione, sulla salute delle persone, anche delle persone anziane. Questa è l’esperienza che stiamo cercando di portare avanti; una esperienza che credo possa essere un contributo per affrontare quello che sarà il tema degli anziani di domani nel nostro Paese.

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CONCLUSIONI di Roberto Polillo, Responsabile Politiche della Salute Cgil nazionale

E’ un convegno particolarmente interessante, mi sembra infatti che la qualità sia stata veramente notevole anche per il materiale che è stato prodotto, in particolare le proposte, i 10 punti che verranno da noi letti con particolare attenzione. Io cercherò di fare una brevissima sintesi. Mi sembra che tutti gli interventi che si sono succeduti abbiano riconfermato quelle quattro criticità che gli studiosi della materia identificano all’interno dei Servizi Sanitari. 1. Il primo elemento è la crisi fiscale, la crisi finanziaria del sistema. Vanacore ha illustrato il suo pensiero da noi largamente condiviso e che può essere esteso ad altre regioni. C’è un processo di occultamento dei disagi reali, specie di quello finanziario, delle Regioni che ora sta emergendo con fatica. Ci sono infatti dei meccanismi perversi in base ai quali le Regioni, per poter accedere ai fondi integrativi devono dimostrare di aver rispettato il patto di stabilità interna. E per fare questo le Regioni procedono ad occultare la gran parte del disavanzo. Abbiamo poi un problema di risorse, ancora insufficienti; un problema che va a cadere in un periodo particolarmente drammatico per il Paese, perché ormai tutti quanti dicono chiaramente che l’Italia è in recessione. Recessione significa che si produce meno PIL e siccome per la sanità il finanziamento è messo in relazione con il PIL, qualora anche il finanziamento per la sanità restasse costante, in realtà esso sarebbe minore; il PIL non è cresciuto ma l’inflazione è invece continuata a crescere. Noi continueremo pertanto ad avere un problema di liquidità che è un problema reale. Certo è in parte un problema che hanno anche gli altri paesi. Voglio ricordare che le stime sulla crescita della spesa nei paesi anglofobi, in particolare in America sono qualcosa di drammatico. Alcuni studiosi ritengono che se in America il trend di crescita della spesa sanitaria sarà quello attualmente registrato, entro 5 anni questo aumenterà al 18% mentre nel 2050 prenderà il 30% del PIL, (adesso siamo al 15); esiste dunque in quel paese un problema drammatico di solvibilità del servizio sanitario. In Italia invece le stime che sono state fatte dalla Ragioneria Generale dello Stato, ci dicono

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che tutto sommato nel 2005 la spesa sanitaria, quella pubblica, dovrebbe aumentare di 2,5 punti del PIL. Non so se queste stime siano giuste tuttavia, in quanto la verità di questi anni è ben diversa; in realtà infatti la spesa sanitaria è cresciuta del 5,6% del PIL, mentre i Presidenti delle Regioni hanno chiaramente espresso il concetto che mancano 4,5 mld di euro per ripianare il 2004 e che probabilmente lo stanziamento al 2005 sarà inferiore di una pari misura. Inoltre c’è questo problema dell’IRAP all’ordine del giorno. Oggi sulla stampa è stata avanzata l’ipotesi che uno dei meccanismi per trovare questi soldi, per ridurre la parte di IRAP che pesa sul costo del lavoro, potrebbe consistere in un minore trasferimento agli EE.LL. dell’1%. Quindi questo significa che nel 2006-2007 il Fondo Sanitario invece di essere rivalutato del 2% come dice la Finanziaria (che è sempre basso se, come abbiamo detto prima, l’inflazione sanitaria in realtà in Italia è stata del 6%), dal 2% potrebbe calare all’1%. Ci sarebbe dunque un problema di finanziamento aggiuntivo. 2. La seconda crisi, il secondo momento di difficoltà che attraversa i Servizi Sanitari, non soltanto quello italiano, e che qui è stato magnificamente rappresentato, è rappresentato dalla crisi demografica. La piramide demografica si è praticamente invertita, 50 anni fa alla base c’erano i giovani e all’apice c’erano gli anziani, adesso è esattamente il contrario, alla base ci sono gli anziani e all’apice ci sono i giovani. Nei documenti che voi avete allegato - ho dato uno sguardo – risulta che gli ultrasessantacinquenni sono il 18% nel 2000 e diventeranno il 28% nel 2030, gli ultrasettantacinquenni passeranno dal 7,9 al 14%. Questo cosa significa? E’ già stato ribadito che il fenomeno comporterà, e ha già comportato, un cambio nella composizione delle malattie, quella che alcuni studiosi chiamano la patocenosi delle malattie. Dalle malattie tipiche dell’Italia industrializzata: tumori, diabete, ipertensione, si sta infatti passando a quelle che sono le malattie della terza fase: le malattie croniche degenerative: l’Alzheimer, le demenze, la non autosufficienza. Questo cosa significa? Che bisogna pensare ad una rimodulazione di tutti i Servizi Sanitari. Perché in fondo l’organizzazione del servizio sanitario, quello che abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa era impostato su quella che possiamo definire la società fordista, una società che era

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composta fondamentalmente dalle famiglie numerose e da persone con occupazione stabile che, come detto, andavano incontro a quelle malattie indotte da un società di tipo industriale. Continuiamo nel nostro ragionamento. I dati che ha citato l’altro compagno sono particolarmente interessanti: il 30% dei ultra sessantacinquenni a Milano sono soli. Che cosa significa? Significa che tutte le famiglie non hanno più una rete di protezione; che le famiglie sono monocomponenti, che c’è una persona per famiglia e che questo crea e determina il venir meno di tutte quelle reti di solidarietà che erano state la forza dei Servizi Sociali anche nei paesi poveri, dove con un minimo di investimento per le cure primarie si riusciva ad ottenere grandi risultati, come dimostrano gli studi che ha fatto Amartia Senn, paragonando per esempio gli investimenti indirizzati alle cure primarie nei paesi poveri. Per esempio negli Stati Uniti dove c’è un reddito elevato e dove tuttavia ci sono disuguaglianze interne, l’attesa di vita è di molto inferiore a quella di altri paesi e in particolare l’attesa di vita della popolazione nera è esattamente sovrapponibile a quella dei paesi di origine; si verifica infatti un gap fra i bianchi e le persone di diverso colore, compresi gli ispanici, compreso fra i 20 e 30 anni. Questo è dunque il secondo grande problema che dobbiamo porci. 3. Il terzo riguarda invece il modo in cui è cambiata la stessa medicina. E anche questo è stato ricordato dagli interventi precedenti. Si è passato da una medicina di tipo olistico, in cui c’era la presa in carico del paziente, in cui c’era un soggetto che curava la persona, ad una medicina che è estremamente specialistica. E così abbiamo assistito anche ad una trasformazione dell’ospedale, dove è stata implementata una serie di attività ultraspecialistiche; ma molte volte questa introduzione delle tecniche più sofisticate non risponde ad una logica di reale efficienza, ma ha risposto alle necessità di competizione del complesso sanitario industriale che con tali tecnologie ha creato valore aggiunto rispetto ai concorrenti. In un convegno cui ho partecipato pochi giorni fa c’era il professor Liverani che ha detto delle cose estremamente interessanti ed ha portato questi due dati: fino a pochi anni fa, il tempo che intercorreva dal momento in cui, con la ricerca di base, si scopriva qualcosa a quando questo poteva consentire

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una applicazione di tipo terapeutico, era superiore a 5 anni. Io credo infatti che l’introduzione della TAC abbia avuto un periodo di gestione lunghissimo; adesso invece da quando c’è una scoperta della ricerca di base a quando questa trova una diretta applicazione nella clinica bastano 6 mesi. Perché questo? Perché evidentemente risponde alla necessità di acquistare una posizione di dominanza sul mercato. Ma c’è da chiedersi: chi ha validato effettivamente il rapporto tra costi e benefici di queste prestazioni? Nessuno e quindi questo è il terzo problema. 4. Il quarto problema, che è stato largamente dibattuto, è quello della crisi del modello partecipativo. La riforma del 1978, la 833, aveva posto alla base della rivoluzione sanitaria la partecipazione. In seguito Maccacaro dirà che la riforma sanitaria era fallita perché purtroppo non era riuscita proprio su questo punto: fare entrare la buona politica nelle Unità Sanitarie Locali, ovvero istituzionalizzare la partecipazione dei cittadini. Questo è un problema che rimane tuttora e tutti gli interventi che si sono succeduti qui l’hanno declinato. Landonio ha parlato degli operatori, dei medici, Di Giaimo ha parlato di un altro settore: quello degli operatori del distretto e così Bruno Benigni ha parlato della partecipazione dei cittadini. Quindi, il bisogno di partecipazione e le richieste portate avanti dal consumerismo sono altre grandi criticità non risolte. Ma bisogna fare attenzione alle mistificazioni. Per esempio qui in Lombardia è particolarmente evidente il modo distorto di interpretare il ruolo del cittadino. Storicamente sono da ricordare diverse fasi. Siamo passati da un momento in cui il cittadino era un soggetto passivo, mentre il medico era colui che governava, che decideva per lui, ad un modello in cui la supposta libera scelta del cittadino è stata utilizzata per incrementare soltanto il lavoro privato. Ed infatti, come è successo in America, si è creata una sinergia tra l’industria privata degli erogatori ed il cittadino nella sua funzione di cliente, perché solo facendo così si potevano superare i rigidi vincoli della programmazione e della prioritazione degli interventi da parte del pubblico. In altre parole con questo sistema noi diamo al cittadino solo la possibilità di spendere liberamente, a tutto vantaggio del sistema, ma non quella di partecipare effettivamente alla politiche sanitarie.

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Quello che invece noi proponiamo ed auspichiamo è invece un terzo modo di considerare il cittadino. Il cittadino deve essere un codecisore. Codecidere significa che deve essere implicato nelle 3 fasi in cui tutto il processo decisionale in sanità si sviluppa. Innanzitutto la definizione dei bisogni, che è stato definita dai precedenti oratori con grande chiarezza; si tratta della decisione su che cosa e dove produrre, su quali sono le prestazioni reali che bisogna incrementare o rafforzare. In Toscana si sta facendo un esperimento, i cittadini e gli EE.LL., aggregati nelle Società della salute decidono con gli erogatori quali sono le prestazioni che devono essere erogate in quel determinato territorio. Inoltre, ed è ancora più importante, i cittadini devono essere anche chiamati a valutare le risposte e gli obiettivi realizzati. Naturalmente questi non saranno certo solo obiettivi di tipo macroeconomico, che poi non li rispetta nessuno, ma veri obiettivi di salute Vorrei poi parlare di un altro problema relativo alla qualità gestionale e di corretto impiego delle risorse. E comincio dalla trasmissione dei dati dalla periferia al centro dove la situazione è semplicemente ridicola. Praticamente non c’è nessun monitoraggio reale dal centro alla periferia perché ogni Regione ha usato metodi per la trasmissione dei dati che non consentono una reale confrontabilità e quindi anche questo nell’equilibrio economico è una dichiarazione di principio che nessuno ha perseguito realmente. E allora anche su questo deve essere fatta chiarezza, perché in sanità continuano ad esserci degli sprechi enormi che noi dobbiamo combattere; e questo in modo particolare se con la prossima legislatura saremo chiamati al governo del paese; in questo caso è chiaro che si porrà anche per noi il problema della gestione delle risorse economiche. Tutto questo, (il convergere e la presenza di questi quattro problemi), rappresenta una sfida, che io credo la CGIL dovrà fare sua. Questi quattro elementi; la crisi fiscale, la crisi demografica, la iperspecializzazione della medicina (con il venire meno di un soggetto che prende in carico il paziente e che fa un discorso di cura complessiva) e la necessità di fondare un modello partecipativo allargato necessitano di una ricomposizione. La domanda che dobbiamo allora rivolgerci è la seguente: è possibile una ricomposizione? Noi riteniamo di sì, ma a patto di modificare l’attuale modello assistenziale.

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Noi dobbiamo dire dunque che è indispensabile cambiare il modello così come è stato declinato in Lombardia e in altre regioni evolute, considerato che in queste, soprattutto centro meridionali non si può neanche parlare di modello, in quanto in tali regioni semplicemente l’assistenza sanitaria è un’accozzaglia di prestazioni al di fuori di qualsiasi progetto. Noi riteniamo che si possa fare, puntando allo sviluppo delle cure primarie. Questo tuttavia non deve essere uno slogan. Puntare alle cure primarie avendo per modello quello che hanno fatto in altri paesi più evoluti; e io cito, anche a rischio di ripetermi, le esperienze condotte in Andalusia (la zona basica de salud), in California (HMO Kaiser permanente) o in Gran Bretagna (Primary cure trust). Implementare le cure primarie significa che noi dobbiamo creare dei distretti, e delle strutture fisiche ed architettoniche (che abbiamo chiamato casa della salute) in cui noi mettiamo i medici di base, li riaggreghiamo con la costituzione di gruppi che possano condividere i loro pazienti, mantenendo tuttavia un rapporto personalizzato; gruppi che lavorano insieme agli infermieri ed al personale che è adibito alle prestazioni sociali, al fine di fare finalmente la prevenzione; gruppi o team che abbiano la possibilità di fare una diagnostica di base, disponendo di un laboratorio di radiologia, che dispongano di un sistema di implementazione tecnologica per poter fare teleconsulto e telemedicina. Noi dobbiamo creare queste strutture. Queste strutture devono essere in grado di rispondere ai cittadini 7 giorni su 7, e soprattutto devono essere in grado di dare delle risposte complessive. La nostra convinzione è che il medico di base non possa più lavorare da solo. Riteniamo infatti che sia una cosa ridicola pensare che se al medico di base diamo l’elettrocardiografo e lo spirometro abbiamo risolto il problema della formulazione di una corretta diagnosi cardiologica e spirometrica; e questo per un motivo semplice, perché chi ha un minimo di conoscenza dell’assistenza sa che le procedure diagnostiche sono estremamente più complicate. Noi invece dobbiamo inserire il medico di base in un circuito in cui lavorano altri professionisti, che insieme condividono dei percorsi di cura, che fanno la programmazione degli interventi necessari e che prendono in carico insieme il paziente. Accanto alla costituzione di queste strutture, dobbiamo pensare a ridisegnare la rete ospedaliera, ridimensionando e riqualificando

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al contempo l’attuale offerta. Dobbiamo arrivare ad una dotazione di posti letto che non superi il 3,5 per mille, con una degenza media di 3-5 giorni. Questo è possibile tuttavia solo a condizione di portare la diagnostica fuori dall’ospedale e di lasciare l’ospedale soltanto per la cura del caso acuto, di quella persona che ha un livello di complessità della sua patologia o si trova in condizioni di urgenza tali da non potere essere curato fuori. Accanto a questi ospedali ultratecnologici, dobbiamo creare delle strutture intermedie, là dove il paziente, dopo i 3 giorni di permanenza in ospedale e dopo la formulazione esatta della diagnosi, viene trasferito in un contesto di minor assistenza. In America, è giusto ricordarlo, queste strutture di secondo livello vengono gestite dagli infermieri, che hanno tuttavia un percorso di carriera completamente diverso; in Italia potranno essere gestite dai medici, dagli infermieri o dai medici di base. Bisogna dunque creare queste strutture, come anche l’ospedale di comunità, e poi investire nella domiciliarizzazione delle cure. Le cure domiciliari sono un’altro dei settori da potenziare, come risulta con tutta evidenza dai dati forniti al convegno, infatti da questi si evince che in Danimarca il 24,6% di pazienti riceve cure a domicilio, in Francia il 7,9% e in Italia solo il 3%. Qualcosa quindi c’è che non funziona. Bisogna superare questi ritardi e superare quelle assistenze minimali come l’ADI, in cui il medico di base va dalla persona anziana e si limita a misurare la pressione o portare conforto. Per noi questa attività non può essere definita assistenza domiciliare. Organizzare l’ADI significa avere dei gruppi assistenziali polispecialistici, (qualcuno ha ricordato il lavoro di squadra, in team), poter portare al domicilio del paziente un insieme di cure che non è solo la diagnostica, ma ricomprendono la riabilitazione, la rieducazione di tipo motorio e del linguaggio, ed infine una riabilitazione di tipo sociale, sotto forma di inserimento. Io credo che la sfida che la CGIL dovrà assumere, specialmente se ci sarà un cambio del governo, sia questa. Bisogna capire che, come è stato detto da Fulvia Colombini, lasciare le cose come stanno significa non avere miglioramenti; significa subire quelle grandi criticità che attraversano tutti quanti i servizi sanitari di tutto il mondo.

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Finora la risposta quale è stata? Quella della privatizzazione dei servizi, sul modello proposto da Griffith, che si è dimostrato un totale fallimento? Vi ricordo che Griffith era un dirigente della catena di supermercati Sainsbury, assunto dalla signora Tatcher per ristrutturare il servizio sanitario. I risultati di questa operazione modello supermercato li abbiamo visti tutti: il servizio sanitario inglese, che era il fiore all’occhiello di quel Paese, era diventato il servizio sanitario più scadente del mondo, nel senso che al di là delle grandi professionalità che esprime, vi sono delle code d’attesa che superano l’anno. Entrare in ospedale anche per un intervento chirurgico è diventata una cosa complicatissima e una larghissima parte della popolazione fa uso di assicurazioni private per potersi pagare le prestazioni. Un quadro deprimente a cui Blair sta cercando di dare risposta in modo originale, cominciando a cogliere successi non secondari Come CGIL, noi abbiamo elaborato un nostro modello di implementazione delle cure primarie, riteniamo che con questo sia possibile realizzare un cambiamento importante nel modello assistenziale, anche se ci rendiamo conto che bisogna vincere tante resistenze anche al nostro interno. Il sindacato, nel passato è stato fondamentalmente difensore di alcune posizioni, anche se negli ultimi anni al nostro interno c’è stata una grande trasformazione culturale. Ricordiamo anche da dove siamo partiti. Siamo partiti da una posizione in cui nella sanità gli infermieri e il personale in generale, che avevano una professionalità ancora troppo bassa, non contavano assolutamente nulla. Il sindacato ha fatto una grande battaglia per dare dignità e professionalità a questi lavoratori, e io credo che ci sia largamente riuscito: ha dato loro una qualificazione professionale, ha saputo dare anche una prospettiva economica, anche se non del tutto appagante, ottenendo comunque grandi miglioramenti. Questo è il passato e adesso credo che per noi si imponga un altro obiettivo, già ampiamente illustrato anche dagli altri interventi: cambiare il sistema e capire che se noi vogliamo mantenere e rafforzare il Servizio Sanitario dobbiamo puntare su una sua riorganizzazione e su una diversa organizzazione incentrate su cure primarie e partecipazione.

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DIECI PROPOSTE DI CORREZIONE DEL SISTEMA SANITARIO LOMBARDO

1. La questione dell’accesso

La questione dell’accesso e del rispetto dei tempi è un nodo cruciale del sistema ed uno dei motivi di maggiore insoddisfazione da parte dei cittadini; va garantita l’accessibilità ai servizi pubblici, oggi spesso messa in discussione dalla politica dei tetti di spesa, che costringe i lombardi a ricorrere a prestazioni private. La semplificazione dell’accesso dei cittadini alle prestazioni va perseguita anche attraverso la realizzazione dei Cup a livello di Asl, per la gestione centralizzata delle liste d’attesa delle strutture specialistiche esistenti sul territorio. La riduzione delle liste di attesa va perseguita controllando e qualificando l’offerta delle prestazioni, verificandone appropriatezza e efficacia; ciò potrebbe anche consentire un risparmio di attività diagnostiche e terapie, teso ad eliminare quelle meno appropriate. Nel rilancio del ruolo del medico di medicina generale, occorre affermare una funzione di garanzia nell’individuazione dei percorsi di cura del cittadino. Un ruolo per certi aspetti nuovo di cui investire il MMG, è quello di assegnare differenti priorità alle richieste di visita o di prestazione specialistica, a seconda delle effettive urgenze e necessità del paziente. Va anche operato un controllo della libera professione, da programmare previa adeguata effettuazione delle attività istituzionali, nello spirito della legge 229/99 e nella prospettiva di una reale attuazione del principio dell’esclusività del rapporto di lavoro.

2. La prevenzione

E’ necessario un rilancio delle politiche di prevenzione primaria e secondaria negli ambienti di vita e di lavoro, specie nei confronti delle patologie prevenibili di natura infettiva,

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neoplastica e cronico degenerativa di rilevanza sociale oltre che per la prevenzione dei danni da incidenti domestici, da traffico o da lavoro. È indispensabile garantire risorse certe e maggiori alla prevenzione, tutelando i servizi e gli operatori e rilanciando i “Progetti Obiettivo”. In Lombardia purtroppo si continua a morire sul lavoro; è quindi necessario garantire investimenti adeguati per ampliare e qualificare gli interventi per l’igiene e la sicurezza nei luoghi di lavoro. È inoltre indispensabile: a) sviluppare capillarmente i servizi per la salute sessuale e riproduttiva, per la salute dell’età evolutiva, per prevenire il decadimento psicofisico degli anziani; b) potenziare l’igiene e la sanità pubblica per le attività di vigilanza e controllo di competenza in materia di prevenzione e profilassi delle malattie diffusive, di igiene degli alimenti e della nutrizione, di vigilanza sull’esercizio delle attività sanitarie; c) promuovere azioni specifiche per la prevenzione e la diagnosi precoce dei tumori; d) sviluppare l’educazione sanitaria, soprattutto a livello distrettuale e consultoriale, per le patologie di rilevanza sociale prevenibili e per la riduzione del danno. È urgente e indispensabile – stante la critica situazione regionale – affrontare il problema dell’inquinamento ambientale (aria/acque) proprio in termini di prevenzione della salute dell’intera collettività lombarda, ripartire dai dati di epidemiologia delle malattie legate all’inquinamento ambientale, per monitorare correttamente la situazione, e per affrontare e programmare soluzioni idonee, non soltanto a brevissimo termine (blocco del traffico, ecc…); in tal senso occorrerà che l’ARPA finanziata in gran parte con il fondo sanitario torni a svolgere le attività di controllo quantomeno a livello di quelle precedentemente svolte dalle ASL, operando anche per esse in uno stretto e costruttivo rapporto di collaborazione.

3. Il ruolo delle Asl e degli enti locali

Deve essere restituito alle Asl un ruolo di responsabilità complessiva nella programmazione degli interventi, che deve

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basarsi sull’analisi dei bisogni di salute della popolazione, nella gestione e nel controllo dell’attività sanitaria e socio sanitaria nel territorio e deve vedere un’attiva partecipazione dei comuni nella formulazione dei programmi e nella valutazione dei servizi resi. L’Asl deve diventare il soggetto responsabile della programmazione a livello territoriale, cui compete la definizione dei Piani di salute, con la partecipazione dei Comuni e delle forze sociali. Il processo di trasformazione delle Asl in Pac, già avviato con l’esternalizzazione dei servizi ADI, deve essere riconsiderato: i servizi erogati direttamente dall’Asl devono continuare a rappresentare il punto di riferimento per una corretta programmazione degli interventi e per garantire una maggiore possibilità di scelta da parte dei cittadini; questo anche attraverso l’utilizzo di personale stabile, fornito dei necessari requisiti professionali e di studio oltre che degli strumenti di analisi ed inserito in percorsi di aggiornamento e formazione permanente. All’Asl devono inoltre rimanere in carico le funzioni di valutazione complessiva del sistema. Non solo la prevenzione e i servizi distrettuali, ma anche i servizi specialistici e alcuni ospedali dovranno tornare alla gestione diretta delle ASL. Deve essere riconosciuto ai comuni un ruolo più incisivo a livello di Asl e di distretto, dando attuazione alle previsioni del D. Lgs 229/99, all’esercizio dei poteri di revoca dei direttori generali e coinvolgendoli nell’esprimere il gradimento per la scelta dei direttori di distretto.

4. Il distretto, i servizi territoriali, la casa della salute E’ necessario riequilibrare il sistema, spostando l’asse dell’intervento dall’ospedale al territorio, attraverso il rilancio del ruolo dei distretti e la sperimentazione della “Casa della salute”. E’ a livello di distretto che il ruolo dei Comuni diviene essenziale ed è a partire da questo livello che si deve realizzare la partecipazione dei cittadini e delle associazioni, nonché rendere effettivo il ruolo di programmazione e di controllo degli

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enti locali, prevedendo la loro partecipazione alla formulazione dei Piani di salute. La “Casa della Salute” è la soluzione organizzativa per la messa a disposizione di servizi a livello distrettuale o sub-distrettuale, dalle cure primarie alla specialistica di primo livello, alle attività di igiene e prevenzione, alle attività di tipo consultoriale per la famiglia, le donne, i bambini e gli anziani, ai servizi territoriali per la psichiatria, le tossicodipendenze e l’handicap, oltre che i vari servizi di carattere amministrativo per informazioni, rilascio di documenti, prenotazioni, ecc… E’ necessario valorizzare il ruolo dei medici di medicina generale promuovendo e sostenendo le forme associative dell’assistenza primaria, previste nella convenzione quali modalità in grado di assicurare l’apertura e l’attività degli ambulatori per un più lungo arco di tempo e con prestazioni di cure primarie (ad esempio: primo soccorso per patologie di minore rilievo, monitoraggio clinico e strumentale delle patologie croniche stabilizzate - diabete, cardiopatie ed ipertensione, asma e bronchite cronica,..-, prestazioni infermieristiche ambulatoriali e domiciliari e, non ultime, funzioni di collegamento con i servizi pubblici per funzioni di tipo amministrativo, dalle informazioni alla prenotazione di visite ed esami, ecc…). Il ruolo del medico di medicina generale deve diventare sempre più quello di garante della salute degli assistiti, diventandone il gestore della continuità assistenziale e dei percorsi di cura, avvalendosi quando occorre della collaborazione delle strutture di ricovero, dei servizi specialistici e delle altre figure operanti a livello distrettuale. Elemento forte da proporre nelle sperimentazioni previste di medicina di gruppo e di “casa della salute” è la presenza di personale in grado di fornire tutte le informazioni necessarie per aiutare il paziente (e i suoi familiari) ad affrontare e risolvere l’enorme carico di burocrazia che troppo spesso ostacola la fruizione dei servizi socio-sanitari presenti sul territorio, oltre che per far conoscere in modo corretto e concreto i diritti del cittadino nel momento del bisogno. Il MMG ha la possibilità, se adeguatamente investito di risorse e strumenti idonei, di monitorare l’appropriatezza delle prestazioni sanitarie erogate al paziente, individuando a posteriori tutte le prestazioni erogate non necessarie: in un

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sistema “di qualità” evidenziare l’errore (in questo caso la prestazione inutile, o non appropriata) diventa momento indispensabile verso un miglioramento del sistema stesso. In questo contesto, occorre anche intervenire sul servizio di guardia medica, allo scopo di integrarlo adeguatamente nel sistema delle cure primarie e nello sviluppo della medicina generale e dei pediatri di libera scelta. È necessario in tal senso un forte investimento verso l’integrazione tra tutti gli operatori professionali che operano sul territorio, in modo da garantire la continuità delle cure per tutti i giorni della settimana, 24 ore su 24. Inoltre, attraverso una adeguata integrazione, si potrebbe affrontare il problema dell’accesso improprio ai pronti soccorsi degli ospedali, problema che non può essere risolto sbrigativamente attraverso l’imposizione di iniqui ticket.

5. La politica del farmaco

Per garantire cure appropriate, per superare definitivamente i ticket, che sono uno strumento iniquo e non efficace per il controllo della domanda, occorre rivedere le scelte compiute in Lombardia in materia di farmaci ed in particolare: Incentivare l’uso di farmaci generici, ancora molto basso in

Lombardia, per allinearsi alla migliore situazione europea e garantire così farmaci di identica efficacia a quelli con nome commerciale, ma a prezzi decisamente inferiori; sviluppare la distribuzione diretta, per immettere nei circuiti

di cura farmaci acquistati con gli sconti fino al 50%, da parte di ASL ed Aziende ospedaliere; intervenire sui prontuari farmaceutici ospedalieri per

garantire consumi e prescrizioni di farmaci basate sui principi di appropriatezza ed efficacia; assicurare che la quantità di farmaco per confezione sia

rapportata alla durata della terapia, per evitare sprechi e distorsioni nelle cure. Questo ultimo tipo di intervento in numerosi Paesi europei si è dimostrato particolarmente efficace per una immediata risposta concreta al contenimento della spesa farmaceutica, secondo logiche di efficienza ed appropriatezza, in alternativa alle attuali

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logiche soltanto economico-finanziarie di imporre ticket al malato.

6. L’integrazione socio-sanitaria ed il ruolo dei Comuni

A partire dal livello distrettuale, l’integrazione dei servizi deve assumere un rilievo strategico di “Progetto e pianificazione” nel campo socio-sanitario, con particolare riguardo alle aree degli anziani, dei minori, dei disabili, della salute mentale, delle dipendenze e delle categorie più fragili e svantaggiate, contrastando così le tendenze contenitive, a favore di una politica di inserimento e di inclusione. Bisogna valorizzare i Piani di Zona e rilanciare la politica dei servizi sociali, anche attraverso forme di gestione consortile, con l’utilizzo di eventuali buoni e voucher solo ad integrazione dei servizi.

7. Il riordino della rete ospedaliera Un intervento di riordino della rete ospedaliera è necessario, è indispensabile però uno strumento di programmazione regionale, che possa rappresentare un riferimento per le scelte di riorganizzazione dell’offerta a livello territoriale. La rete ospedaliera va ridisegnata, puntando sull’innovazione, su una chiara differenziazione dei compiti e sulla loro armonizzazione a livello territoriale. Va rivista in base ai criteri della programmazione la dotazione dei posti letto per acuti, oggi già al di sotto dello standard programmatorio del 4 per mille, a seguito di processi di riorganizzazione non programmata, ma determinata da esigenze di razionamento; va inoltre adeguata la dotazione di posti letto per la riabilitazione, che oggi soffre di squilibri territoriali e la realizzazione di posti letto di lungo-degenza e lungo-assistenza per coloro che, pur avendo superato la fase acuta della loro patologia, necessitano di una degenza di natura prevalentemente assistenziale, finalizzata alla stabilizzazione clinica e al recupero funzionale.

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Un progetto di riordino della rete ospedaliera, che sia finalizzato ad una riqualificazione della risposta ospedaliera sul territorio regionale, non può prescindere dall’esigenza di un coinvolgimento dei diversi soggetti istituzionali e sociali, per verificare la rispondenza dei progetti ai bisogni delle comunità locali.

8. Il rapporto pubblico-privato Va rilanciato il servizio pubblico, garantendo l’ammodernamento delle strutture e l’innovazione, insieme al rafforzamento degli organici, nel quale trovi spazio anche la trasformazione in lavoro stabile delle innumerevoli forme di lavoro precario. Occorre allo stesso tempo rivedere la parità pubblico/privato attraverso la programmazione regionale, definendo qualità e tipologie dei servizi e degli interventi da richiedere alle strutture private tramite rapporti contrattuali di cui al DL 229/99. L’obiettivo generale è quello di assicurare una risposta adeguata ai bisogni, integrando le prestazioni di tutte le strutture del sistema e ponendo fine a una competizione incontrollata tra pubblico e privato, ma anche tra pubblico e pubblico, che non ha certo determinato un miglioramento dei servizi, ma ha causato un’esplosione incontrollata della spesa, a tutto svantaggio di prestazioni tanto utili ed efficaci quanto poco remunerate. Occorre inoltre difendere e rilanciare il ruolo degli IRCCS (Istituti di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di patrimonio pubblico, ribadendo la contrarietà allo strumento delle Fondazioni, che rischia di portare a una commistione pericolosa fra pubblico e privato nella gestione della sanità.

9.Il finanziamento a quota capitaria

È necessario rivedere il sistema di finanziamento, privilegiando il finanziamento a quota capitaria ponderata per età. Si pone infatti l’esigenza di disincentivare e progressivamente superare il paradosso che il pagamento a prestazione ha determinato in

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questi anni, premiando di fatto la malattia e non la salute, sulla base di un concetto di produttivismo fine a se stesso e molto costoso. Le esperienze europee sono oggi indirizzate a premiare i risultati in termini di obiettivi di salute; è evidente che per arrivare a questo è necessario un ripensamento complessivo delle politiche di salute pubblica, partendo dall’epidemiologia, attraverso la prevenzione, fino ad una corretta analisi della qualità della vita del cittadino anche nel momento della malattia.

10. Le politiche per gli anziani E’ necessario prevedere la costituzione di un fondo per la non autosufficienza per la copertura della parte non sanitaria del bisogno di cura ed assistenza, oggi a carico degli assistiti e delle loro famiglie, che sia garantito da risorse certe, alimentato dalla fiscalità generale con criteri di equità e progressività, comprese le risorse già diversamente destinate allo scopo, utilizzando anche l’addizionale IRPEF istituita a suo tempo e gestito dai Comuni a livello territoriale. Un problema reale e fortemente diffuso tra le persone anziane è rappresentato dall’insostenibilità dei costi per la cura dell’apparato dentario, fonte spesso di un’alimentazione non corretta e di ulteriori malesseri. Il problema, ampiamente conosciuto (lo stesso Ministero della salute si è riproposto di affrontarlo) ad oggi ha trovato risposta solo per alcune categorie attraverso accordi aziendali, casse e fondi categoriali, o per aree geografiche. Va quindi promosso da subito uno studio di fattibilità per far fronte al problema. Va valorizzata e sostenuta una corretta pratica delle cure palliative in tutto il territorio, in particolare per ammalati anziani e terminali, quale risposta reale e alternativa a pratiche di accanimento terapeutico. Maggio 2005

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