Pedulla Paladini Ariosto Sulle Ceramiche

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C’è la morte di Piramo e Tisbe e c’è Apollo all’inse- guimento di Dafne. C’è Alessandro Magno e c’è Enea davanti alle mura di Troia. C’è Circe, con Ulisse, e c’è la Roma dei Medici come novella Babilonia. E le imma- gini appartengono tutte allo stesso servizio di maioliche istoriate: uno dei più famosi dell’intero Rinascimento, realizzato a Urbino nel 1532-33 per Antonio Pucci, che giusto nel settembre dell’anno precedente era stato ele- vato da Clemente VII alla dignità di cardinale. Nulla di troppo sorprendente: la famiglia dei Pucci era tra gli alleati di più antica data dei Medici e con quella nomina Antonio veniva chiamato dal papa a ricoprire lo stesso ruolo chiave appartenuto sino a quel momento a suo zio Lorenzo (1458-1531). Tuttavia la conferma di una dignità tanto importante al nipote andava celebrata lo stesso con tutta la magnificenza che la carica implicava, e non era strano che per una commissione di prestigio ci si rivolgesse a uno dei centri più rinomati per questo genere di manufatti. Per un servizio di qualità, di quella qualità, le alterna- tive non erano molte. Da alcuni anni, infatti, gli artigiani di Urbino contendevano con successo a quelli di Faenza il primato nella fabbricazione delle maioliche «istoria- te» o «figurate» (ancora oggi, in francese e inglese il termine con cui si allude alla maiolica rimanda a questa città: rispettivamente faïance e faience); mentre però a Faenza mancava una corte che stimolasse la produzione di beni di lusso, Urbino, centro di una piccola signoria passata nel 1508 dai Montefeltro ai Della Rovere, ve- niva a trovarsi in una condizione assai più favorevole. La creta della zona, che ancora oggi alimenta l’industria locale di mattoni, riforniva le botteghe specializzate, e lo stesso duca Francesco Maria Della Rovere aveva cercato di stimolare la produzione e il commercio ad ampio rag- gio sin da quando nel 1521 aveva ripreso possesso del proprio dominio dopo cinque anni di esilio. Anche nel caso del servizio Pucci, peraltro, non è da escludersi la mano del duca, che aveva conosciuto bene lo zio del nuovo cardinale. Alla metà degli anni venti Francesco Maria e Lorenzo si erano trovati infatti a mili- tare fianco a fianco. Clemente VII, sino a quel momento famoso per la sua politica filospagnola, una volta eletto papa aveva compiuto un improvviso cambio di fronte, promuovendo un’alleanza contro l’imperatore Carlo V assieme al re di Francia e alla repubblica di Venezia, le cui truppe erano allora capitanate proprio dal Del- la Rovere. In quell’occasione, il duca e il cardinale si erano trovati entrambi nel difficile partito di quanti, all’interno dello schieramento antispagnolo, non appro- vavano la nuova linea del papa e invitavano alla pruden- za. Quando, dopo un brillante inizio, le cose avevano cominciato a mettersi male per i nemici di Carlo V, al duca di Urbino, in qualità di generale del contingente più forte, sarebbe spettata la difesa di Roma contro l’esercito di Lanzichenecchi calato dalla Germania, ma Francesco Maria aveva rinunciato subito a ingaggiare il nemico in battaglia; così che, dopo il sacco del 1527, in molti avevano sospettato che sulla sua scelta avessero influito antichi dissapori con i Medici, direttamente re- sponsabili (nella persona di Leone X) di aver scacciato da Urbino i Della Rovere per insediarvi quel giovane Lorenzo (1516) che noi oggi ricordiamo anzitutto quale dedicatario del Principe di Niccolò Machiavelli. Anche se non pochi ritenevano che il comportamen- to del duca fosse stato originato dal desiderio di vendet- ta, la devastazione della capitale della cristianità aveva finito per danneggiare soprattutto i consiglieri di Cle- mente VII responsabili della svolta filofrancese (tra cui Francesco Guicciardini). Per questo, quando l’impera- tore e il pontefice si erano rappacificati, Francesco Ma- ria Della Rovere e Lorenzo Pucci avevano preso parte da veri trionfatori alla cerimonia di incoronazione di Carlo V a Bologna, nel febbraio del 1530, e lo stesso Antonio Pucci, allora vescovo di Pistoia, aveva personalmente orchestrato la cerimonia con cui la spada recata dal duca di Urbino era stata consegnata al papa e da questi all’im- peratore assieme alle parole «Accipe gladium sanctum», prendi questa santa spada. Un affresco realizzato poco dopo gli eventi nella sala dei semibusti di Villa Impe- riale, nelle vicinanze di Pesaro (dal 1513 capitale del Ducato di Francesco Maria), rappresenta esattamente questa scena (fig. 1). Urbino, 1532-33 Paladini d’argilla: Ariosto sulle ceramiche francesco xanto avelli dipinge un servizio di maioliche istoriate per il nuovo cardinale antonio pucci. ariosto sulle ceramiche. la rapidis- sima canonizzazione di un classico moderno. la legge del desiderio. il ruolo degli illustratori dell’orlando furioso nella fortuna del poema. tasso alla ricerca dell’eroe. visività di ariosto? il sogno dell’impero universale

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C’è la morte di Piramo e Tisbe e c’è Apollo all’inse-guimento di Dafne. C’è Alessandro Magno e c’è Enea davanti alle mura di Troia. C’è Circe, con Ulisse, e c’è la Roma dei Medici come novella Babilonia. E le imma-gini appartengono tutte allo stesso servizio di maioliche istoriate: uno dei più famosi dell’intero Rinascimento, realizzato a Urbino nel 1532-33 per Antonio Pucci, che giusto nel settembre dell’anno precedente era stato ele-vato da Clemente VII alla dignità di cardinale. Nulla di troppo sorprendente: la famiglia dei Pucci era tra gli alleati di più antica data dei Medici e con quella nomina Antonio veniva chiamato dal papa a ricoprire lo stesso ruolo chiave appartenuto sino a quel momento a suo zio Lorenzo (1458-1531). Tuttavia la conferma di una dignità tanto importante al nipote andava celebrata lo stesso con tutta la magnificenza che la carica implicava, e non era strano che per una commissione di prestigio ci si rivolgesse a uno dei centri più rinomati per questo genere di manufatti.

Per un servizio di qualità, di quella qualità, le alterna-tive non erano molte. Da alcuni anni, infatti, gli artigiani di Urbino contendevano con successo a quelli di Faenza il primato nella fabbricazione delle maioliche «istoria-te» o «figurate» (ancora oggi, in francese e ingle se il termine con cui si allude alla maiolica rimanda a questa città: rispettivamente faïance e faience); mentre però a Faenza mancava una corte che stimolasse la produzione di beni di lusso, Urbino, centro di una piccola signoria passata nel 1508 dai Montefeltro ai Della Rove re, ve-niva a trovarsi in una condizione assai più favorevole. La creta della zona, che ancora oggi alimenta l’industria locale di mattoni, riforniva le botteghe specializ zate, e lo stesso duca Francesco Maria Della Rovere aveva cercato di stimolare la produzione e il commercio ad ampio rag-gio sin da quando nel 1521 aveva ripreso possesso del proprio dominio dopo cinque anni di esilio.

Anche nel caso del servizio Pucci, peraltro, non è da escludersi la mano del duca, che aveva conosciuto bene lo zio del nuovo cardinale. Alla metà degli anni venti Francesco Maria e Lorenzo si erano trovati infatti a mili-tare fianco a fianco. Clemente VII, sino a quel momen to

famoso per la sua politica filospagnola, una volta eletto papa aveva compiuto un improvviso cambio di fronte, promuovendo un’alleanza contro l’imperatore Carlo V assieme al re di Francia e alla repubblica di Venezia, le cui truppe erano allora capitanate proprio dal Del-la Rovere. In quell’occasione, il duca e il cardinale si erano trovati entrambi nel difficile partito di quanti, all’interno dello schieramento antispagnolo, non appro-vavano la nuova linea del papa e invitavano alla pruden-za. Quando, dopo un brillante inizio, le cose avevano cominciato a mettersi male per i nemici di Carlo V, al duca di Urbino, in qualità di generale del contingente più forte, sarebbe spettata la difesa di Roma contro l’esercito di Lanzichenecchi calato dalla Germania, ma Francesco Maria aveva rinunciato subito a ingaggiare il nemico in battaglia; così che, dopo il sacco del 1527, in molti avevano sospettato che sulla sua scelta avessero influito antichi dissapori con i Medici, direttamente re-sponsabili (nella persona di Leone X) di aver scacciato da Urbino i Della Rovere per insediarvi quel giovane Lorenzo (1516) che noi oggi ricordiamo anzitutto quale dedicatario del Principe di Niccolò Machiavelli.

Anche se non pochi ritenevano che il comportamen-to del duca fosse stato originato dal desiderio di vendet-ta, la devastazione della capitale della cristianità aveva finito per danneggiare soprattutto i consiglieri di Cle-mente VII responsabili della svolta filofrancese (tra cui Francesco Guicciardini). Per questo, quando l’impera-tore e il pontefice si erano rappacificati, Francesco Ma-ria Della Rovere e Lorenzo Pucci avevano preso parte da veri trionfatori alla cerimonia di incoronazione di Carlo V a Bologna, nel febbraio del 1530, e lo stesso Antonio Pucci, allora vescovo di Pistoia, aveva personalmente orchestrato la cerimonia con cui la spada recata dal duca di Urbino era stata consegnata al papa e da questi all’im-peratore assieme alle parole «Accipe gladium sanctum», prendi questa santa spada. Un affresco realizzato poco dopo gli eventi nella sala dei semibusti di Villa Impe-riale, nelle vicinanze di Pesaro (dal 1513 capitale del Ducato di Francesco Maria), rappresenta esattamen te questa scena (fig. 1).

Urbino, 1532-33Paladini d’argilla: Ariosto sulle ceramiche

francesco xanto avelli dipinge un servizio di maioliche istoriate per il nuovo cardinale antonio pucci. ariosto sulle ceramiche. la rapidis-sima canonizzazione di un classico moderno. la legge del desiderio. il ruolo degli illustratori dell’orlando furioso nella fortuna del poema. tasso alla ricerca dell’eroe. visività di ariosto? il sogno dell’impero universale

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Proprio a causa della stretta relazione tra le due fa-miglie non è difficile supporre che, due anni dopo il suc-cesso bolognese, il duca di Urbino abbia pensato di sa-lutare la nomina del nipote del proprio principale allea-to in Curia con un regalo tanto prezioso, da intendersi quale memento di un’antica amicizia che doveva passa-re intatta alla nuova generazione. Una ipotesi tanto più credibile alla luce del fatto che diverse maioliche del ser-vizio alludono al sacco di Roma, presentato come un ef-fetto della politica scriteriata di un avido e corrotto Cle-mente VII, manifestando la volontà di tramandare una precisa interpretazione degli eventi appena trascorsi: non diversamente da quanto, secondo una prospettiva radicalmente opposta, lo sconfitto Guicciardini avreb- be fatto qualche anno più tardi nella Storia d’Italia, nel tentativo di attribuire tutta la responsabilità del sacco alla sospetta inattività di Francesco Maria.

Probabilmente non sapremo mai con assoluta certez-za chi abbia commissionato il servizio con il simbolo della famiglia Pucci dipinto su ogni pezzo (una testa di un moro con una fascia sulla fronte e tre martelli); gli storici dell’arte concordano però almeno nel dire che si tratta di un prodotto di fattura particolarmente squisi-ta, oltre che di gran valore. Se la moda delle ceramiche figurate si era diffusa solo di recente (i primi esemplari sopravvissuti risalgono alla fine del Quattrocento), l’ar-te della maiolica era assai più antica ed era penetrata in Italia tra la fine del xii e l’inizio del xiii secolo, dal Nord Africa e dalla Spagna musulmana (il nome maiolica, asso -ciato alle ceramiche smaltate divenute di moda nel xv se-colo, deriverebbe dalla città di Malaga). Il procedimen-to era lungo e laborioso e prevedeva innanzitut to la rea -lizzazione della ceramica, poi la smaltatura e un’ultima mano di cristallina-vetrina trasparente prima di una se-

Figura 1. Dosso Dossi e Girolamo da Carpi, Clemente VII incorona Carlo V davanti a San Petronio a Bologna (1530 circa).

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conda passata nel forno. L’ultima cottura avveniva alla temperatura di circa 950 gradi centigradi e questo re-stringeva di molto la varietà dei colori che potevano es -se re utilizzati (blu, verde, giallo, ocra-marrone, marrone scuro, manganese-porpora, bianco e nero), mentre au-mentava la percentuale delle rotture facendo lievitare il costo del prodotto finito.

Sulla smodata passione degli uomini del tempo per questo genere di manufatti ci informa – persino con un certo stupore – Giovanni Pontano nel De magnificentia: «C’è qualcuno che preferisce un vasetto piccolissimo, di quelli detti di porcellana (porcellanica), come la chiama-no, ai vasi d’argento e di oro, che pure sono di costo maggiore». I Pucci, che nel Quattrocento si diceva fos-sero stati i primi fiorentini ad adoperare la forchetta a tavola, sembravano particolarmente adatti ad apprez-zare tali lussi e non è dunque strano che una simile ope-ra sia legata proprio al loro nome (e qui andrà notato che, se i piatti del servizio Pucci sono sopravvissuti, ciò è avvenu to anche perché era ancora poco diffusa l’abi-tudine di utilizzare il coltello per tagliare la carne; solo più tardi infatti, nel Cinquecento avanzato, sarebbe sor-ta la consuetudine di appendere alle pareti i piatti isto-riati come decorazione, mentre è verosimile che il ser-vizio per Antonio sia stato davvero adoperato in ban-chetti speciali).

Il servizio Pucci non si distingue tuttavia soltanto per la qualità delle immagini istoriate. Se esso merita un posto anche nella storia delle lettere italiane, è infatti per quello che i piatti e le coppe rappresentano. Con un procedimento non usuale per il tempo, ciascuno dei pez-zi riporta sul retro un preciso riferimento alla fonte ico-nografica, per lo più in forma di endecasillabo: da Virgi-lio a Ovidio, da Valerio Massimo a Plinio il Vecchio, senza tralasciare nemmeno quel Francesco Petrarca che sem-pre più spesso in quegli anni veniva indicato come il principe dei poeti moderni. Complessivamente, dei trentasette pezzi sopravvissuti (oggi dispersi in un gran numero di collezioni), otto hanno una fonte epica, di-ciotto una fonte lirica e quattro una fonte storica, ma la fame di soggetti degli artisti cinquecenteschi, decorato-ri compresi, è ben nota agli studiosi e non stupisce che le figure si ispirino ad alcune delle opere più amate dagli uomini del tempo, dall’Eneide alle Metamorfosi. Più sor-prendente, però, è che due dei pezzi giuntici rimandino all’opera di un autore vivente, accostato implicitamente ai massimi nomi della letteratura di tutti i tempi: l’Or-lando furioso di Ludovico Ariosto, presente con gli epi-sodi di Orlando e dei suoi amici mentre trovano le armi di Ruggiero e con Astolfo nella terra delle femmine omi-cide (fig. 2): una scommessa sul valore del poema ario-stesco che a quest’altezza cronologica appare tutt’altro che scontata e che dà un’idea del suo travolgente suc-cesso assai meglio di tante altre testimonianze coeve.

Ariosto come Virgilio, Ovidio e Petrarca? Di per sé, già solo questa centralità della tradizione poetica ha qual-cosa di eccezionale nella ceramica del tempo, e si spie-ga in gran parte con la personalità dell’autore del ser-vizio Pucci, forse il ceramista in assoluto più famoso del suo tempo: Francesco Xanto Avelli. È da qui che occor-re riprendere il filo se si vuole decifrare il senso di que-sto Ariosto sulle ceramiche ben oltre l’eccezionalità del-la sua inclusione in un ristrettissimo canone di classici antichi e moderni. Originario di una tormentata Rovi-go (in quegli anni variamente contesa tra Ferrara e Vene-zia, che se ne era impossessata nel 1482, e poi al centro delle lotte tra spagnoli e francesi per la supremazia nel-l’Italia settentrionale), per molti versi Xanto rimane an-cora oggi una personalità enigmatica. Con sicurezza sap-piamo che giunse a Urbino non ancora trentenne, e che la sua mano è riconoscibile nella produzione cittadina per lo meno dal 1522, mentre negli anni successivi è at-testata la sua presenza a Gubbio e a Rimini e poi di nuo-vo nella capitale del Montefeltro, dove a partire dal 1528 Xanto cominciò a firmare i propri lavori. Anche in que-sto caso si trattava di una pratica tutt’altro che comu-ne, ma il fatto non deve sorprenderci più di tanto per-ché gran parte della biografia di Xanto si è svolta al-l’insegna della eccezionalità: dalla scelta di classicizza re

Figura 2. Francesco Xanto Avelli, Astolfo nel paese delle femmine omici-de (ceramica). Sul retro del piatto si legge: «1532 | Nel Regno fe mi-neo col | corno Astolfo | Nel XVIII canto del furioso di M.L. | Ario-sto. | di Francesco Xanto A. | da Rovigo, in | Urbino». Il riferimen-to è al canto XVIII perché evidentemente Xanto sta ancora usando l’edizione del Furioso del 1525.

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il proprio cognome, Santo o Santini, sulla falsariga del fiume cantato nell’Iliade e con un probabile riferi-mento alla vantata origine troiana dei Della Rovere (ma si tenga anche presente che in dialetto veneto la S si pro-nuncia come la X o la Z), alla pratica di inscrivere die-tro a ciascuno dei propri piatti un endecasillabo che ne dichiara il soggetto, sino alle testimonianze che ce lo pre-sentano come l’organizzatore di una protesta degli arti-giani impiegati nell’industria della ceramica (gli «inter-laboratores artis figuli») per ottenere un trattamento mi-gliore dai datori di lavoro, nel 1530.

Questo orgoglio – l’orgoglio di chi intende affermarsi dalla qualifica di semplice esecutore materiale e di «vi-le meccanico» – non è isolato fra i pittori e persino fra gli artigiani più dotati della sua generazione, e si sposa bene con una delle poche informazioni certe che abbia-mo sulla biografia di Xanto. Non diversamente da tan-ti altri artisti del Rinascimento come Bramante, Raf-faello e Michelangelo (ma senza il talento di quest’ulti-mo), Xan to ci ha lasciato infatti anche un’opera in ver-si, Il ritratto dell’illustrissimo e invittissimo principe Fran-cesco Maria della Rovere: una collezione di quarantaquat-tro sonetti (dall’autore denominati «canti») per il duca di Urbino e composti verosimilmente poco dopo il 1530, nell’entusiasmo della pacificazione tra papa e imperato-re e in vista di una ipotetica crociata contro il Turco, di cui lo stesso Francesco Maria avrebbe dovuto assumere

il comando (la nomina in effetti sarebbe giunta nel 1538, pochi mesi prima della morte del Della Rovere).

I versi di Xanto non si segnalano particolarmente per la loro qualità letteraria nel vasto mare del petrarchismo cinquecentesco ma lasciano trasparire una solida cultu-ra poetica, fatta di letture sedimentate negli anni (in par-ticolare un’ottima conoscenza dei Trionfi di Petrarca). Soprattutto, ci segnalano che nella scelta di collocare Ariosto accanto ai massimi autori dell’antichità deve si-curamente aver giocato un ruolo proprio tale passione per la poesia volgare. Il gusto per il poema ariostesco si era manifestato in Xanto già l’anno precedente, nel 1531, con un Ruggiero sull’ippogrifo dipinto appena pochi me-si dopo la prima edizione riccamente illustrata del Fu-rioso, presso Niccolò Zoppino; né il rapporto col Furio-so si sarebbe esaurito con il servizio Pucci, perché si so no conservati un quarto e un quinto piatto di argomen-to ariostesco siglati da Xanto, con Astolfo tra le arpie (fig. 3) e con le imprese di Grifone a Damasco, datati ri-spettivamente 1532 e 1537.

A distanza di cinque secoli rischiamo di non render-ci conto dell’enormità di una così tempestiva assimila-zione del Furioso tra i classici di tutti i tempi. Nel 1532, ancora vivente Ariosto (che proprio in questo anno pub-blica la terza redazione del poema), a sedici anni dalla prima edizione (1516) e a sette dalla seconda (1525), col suo gesto Xanto non esprimeva solo una predilezione personale, ma dava per scontato che dovessero condivi-derla coloro ai quali i piatti erano destinati. Quale pro-va migliore dell’immediata fortuna del Furioso? Ben pri-ma dell’esplosione tipografica dei decenni centrali del secolo (più di centodieci edizioni tra il 1540 e il 1580) le attestazioni di un consenso senza precedenti sono nu-merosissime, fin dal principio. C’è solo da scegliere. Ec-co per esempio Niccolò Machiavelli rivolgersi a Ludo-vico Alamanni per chiedergli di trasmettere all’autore la propria ammirazione in una lettera del 17 dicembre 1517 («Io ho letto a questi dì Orlando furioso dello Ariosto, e veramente il poema è bello tutto, et in molti luoghi è mi-rabile»); ecco Ariosto stupirsi, in una missiva del 1520 a Mario Equicola, che a Verona ci fossero ancora delle copie del poema, «perché in nessun luogo d’Italia non so dove ne restino più a vendere»; ecco la testimonian-za di un corrispondente da Roma di Alfonso d’Este che in quello stesso 1520 il condottiero Giampaolo Baglio-ni, caduto in disgrazia presso i Medici, trascorreva gli ultimi giorni prima dell’esecuzione in compagnia di Astolfo, Angelica e Rodomonte («Ioan Paulo Baione vi-ve, sì come intendo, e si fa legiere Orlando furioso»). E tuttavia, nella sua apparente nonchalance, la scelta di Xanto ha qualcosa di ancora più clamoroso perché pre-suppone un consenso generalizzato.

L’accoglienza favorevole era stata naturalmente pre-parata dalla scelta di Ariosto di concepire il proprio poe-

Figura 3. Francesco Xanto Avelli, Astolfo insegue e scaccia le arpie (ce-ramica).

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ma come una continuazione dell’Innamoramento di Or-lando di Boiardo e dal fatto che Boiardo si fosse a sua volta rifatto – per quanto anche lui in maniera originale – all’antico ciclo dei paladini di Carlo: matrice di una cospicua letteratura canterina in ottava rima tanto di-sprezzata dagli umanisti quanto fortunata nelle piazze e nelle tipografie. Se già nel prologo dell’opera, facendo impazzire Orlando, Ariosto aveva rivendicato il diritto di cantare «cosa non detta mai in prosa, né in rima», non ignorava a quale punto quasi tutte le figure princi-pali del poema fossero già familiari ai suoi lettori prima di leggere anche un’ottava soltanto del Furioso. Come il poeta, così anche l’artigiano doveva aver giocato su que-sta immediata riconoscibilità dei personaggi: il savio Ri-naldo, l’irruento Rodomonte, la bellissima Angelica, il protettivo Atlante, il bislacco Astolfo… E naturalmen-te lui: il paladino per eccellenza, il paladino perfetto, Orlando – colui che proprio in virtù della sua esempla-rità era tanto più adatto a tramutarsi, con un clamoro-

so ribaltamento, nell’emblema dell’uomo virtuoso rin-citrullito per amore.

Buoni o cattivi, saggi o stolti, tutti quei personaggi avevano una storia, spesso ben prima di Boiardo; eppu-re, se il ciclo di Francia e il ciclo di Bretagna contene-vano virtualmente tutte le trame possibili, in una sorta di inventario del poetabile (tanto che l’Orlando furioso ha dato così spesso l’impressione di riassumere e con-densare una tradizione plurisecolare, in francese e poi in volgare, in ottave come in prosa), nella prospettiva di Ariosto proprio questa condizione epigonale poteva rap-presentare un punto di forza. Non si trattava soltanto del precetto oraziano secondo cui il «notum» deve far-si «novum»: quelle storie antiche, cui L’innamoramen-to di Orlando aveva dato da poco nuova vita, si presta-vano a un’opera che ambiva a essere assai più che un ele-gante intrattenimento proprio in quanto repertorio di fabulae e patrimonio condiviso sul quale esercitare il pro-prio controcanto.

Figura 4. Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Gabriele Giolito, Venezia 1548 (xilografie di autore anonimo, impiegate a partire dal 1542, canto XX).

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Il plauso senza precedenti manifestato al Furio so – quel plauso di cui il servizio Pucci è una delle più cla-morose testimonianze – si spiega in parte anche attraver-so questo intenso dialogo con le attese dei suoi lettori condotto all’insegna della meraviglia e della delusione. Se da un punto di vista linguistico le storie dei paladi-ni vengono nobilitate grazie al ricorso a una lingua emen-data di tutti i regionalismi e sempre più consapevol men-te modellata sul dialogo con i grandi autori volgari (Pe-trarca, ma anche Dante e Poliziano), dal punto di vista dell’intreccio il Furioso si stacca dalla produzione pre-cedente per il significato che l’autore attribuisce al vec-chio armamentario di intrecci e di peripezie. Tutt’a un tratto coincidenze, simmetrie, agnizioni, raddoppiamen-ti, colpi di scena non sono più soltanto stratagemmi per conquistare l’attenzione di chi legge – o, più spesso, ascolta –, ma nelle mani del poeta diventano lo strumen-to per mettere in luce le forze irrazionali che governano la storia e la vita degli uomini. Mentre insomma, da Hegel a Francesco De Sanctis (e oltre) la critica ha sempre vi-sto in Ariosto il liquidatore del Medioevo attraverso gli acidi corrosivi dell’ironia, per il modo in cui ordisce il suo racconto si dovrebbe dire esattamente il contrario: nessuno prima di lui aveva mai preso così sul serio le convenzioni canterine sino a farne la chiave di volta del proprio universo poetico.

Per questa strada, invece di sbarazzarsi di una tec-nica al suo tempo ormai già logora quale il così detto en-trelacement (ovvero il moltiplicarsi dei filoni narrativi, abbandonati e ripresi a seconda delle esigenze della tra-ma), il Furioso se ne serve con una tale frequenza da far-ne il principio di organizzazione di un poema dove i sen-tieri della vita si biforcano continuamente per rianno-darsi un poco più avanti, secondo un meccanismo com-binatorio che nella seconda metà del Novecento avreb-be entusiasmato i seguaci di Viktor !klovskij e di Roman Jakobson. Analogamente, Ariosto sfrutta anche l’altro principio strutturale della letteratura canterina, che at-tribuisce a ogni cavaliere una speciale quête da portare a compimento (liberare una dama prigioniera, recupera-re un oggetto fatato, sconfiggere un gigante…), ma imbroglia le carte in modo che l’inchiesta dell’uno coin-cida con l’inchiesta dell’altro. Il risultato è che in breve tutti gli eroi del Furioso si scoprono destinati alle stesse imprese e alle stesse passioni, e dunque in aperta com-petizione: quasi che ogni cavaliere potesse desiderare soltanto quello che già gli altri desiderano e che il desi-derio stesso non avesse altro fondamento che nella vo-lontà di trionfare sui propri pari, come nel caso dell’in-namoramento collettivo di tutti i cristiani e di tutti i pa-gani per la bella Angelica.

Così congegnato, il Furioso si rivela, sin nelle sue tra-mature più profonde, una grande macchina desiderante. Tutti inseguono qualcosa o qualcuno, al punto che il mon-

do stesso non è che un gigantesco prisma nel quale si riflettono le passioni umane: passioni di personaggi tutti già ciechi e folli, pronti a proiettare indifferentemente e con la medesima intensità la propria brama sugli ogget-ti più diversi – che si tratti di una donna di ecceziona-le bellezza, di un destriero particolarmente focoso o di un’armatura fatata – purché qualcun altro vi abbia già messo gli occhi addosso. Lungi dall’essere un semplice espediente, la recursività strutturale e gli echi interni – gestiti con consumato gusto combinatorio – diventano così lo strumento principe per denunciare la patologia del mondo del desiderio, cioè del nostro mondo. A patto però di precisare che, in questo universo di innamorati patologici, Ariosto inclina senza alcun moralismo per una saggia follia: che riconosca e non neghi il ruolo delle pas-sioni e la realtà delle sofferenze che producono, ma che le sappia osservare con occhio al tempo stesso compren-sivo e disincantato, relativizzandole nel turbinio delle mille e mille storie tutte uguali eppure tutte diverse.

L’Orlando furioso poteva essere così nuovo perché aveva accettato di essere, al tempo stesso, anche così an-tico. Questa apparente continuità deve aver sostenuto Xanto nella sua scelta. Persino chi nel 1532 non avesse letto il poema di Ariosto avrebbe potuto riconoscere sen-za intoppi i personaggi principali sui piatti e sulle cop-pe da lui dipinti. Allo stesso tempo, nella sua ecceziona-le precocità, il servizio Pucci si colloca giusto agli albo-ri di quella fascinazione degli artisti per il Furioso che sa-rebbe durata per secoli, facendo di Ariosto uno dei poeti più amati dai pittori: da Dosso Dossi a Palma il Giova-ne, da Lorenzo Lippi a Guido Reni, da Jean-Honoré Fragonard a Eugène Delacroix, da Jean-Auguste-Domi-nique Ingres a Gustave Moreau, solo per citare i maggio-ri (ma si potrebbero ricordare anche il ritratto di Ario-sto attribuito a Tiziano e lo schizzo della sedia di Ariosto eseguito dal vivo a Ferrara da Jean-Baptiste Corot). Al di là delle opere dei maestri più famosi, la capacità del-l’Orlando furioso di ispirare gli artisti sembra essersi ma-nifestata soprattutto nel numero eccezionale di incisio-ni (su legno o rame) realizzate appositamente per le stam-pe del poema. Come si è già detto, l’anno in cui Xanto realizza il primo piatto ariostesco – il 1531 – è infatti an-che quello in cui a Venezia vide la luce la prima edizio-ne abbondantemente illustrata di Ariosto. Simili opera-zioni erano favorite dall’assenza di un diritto d’autore che accentuava la competizione fra tipografi, obbligati a contendersi gli acquirenti arricchendo le proprie stam-pe di apparati esclusivi, soprattutto nel caso delle edizio-ni in quarto (le più costose): commenti, interpretazioni allegoriche, biografie dell’autore, riassunti in versi con l’argomento di ciascun canto, analisi delle fonti poetiche dell’autore e – appunto – le illustrazioni, da subito chia-mate a giocare un ruolo speciale in questa lotta all’ulti-mo sangue.

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Ariosto non è l’unico autore ad aver ricevuto un trat-tamento simile in tipografia (sono famose per esempio le edizioni illustrate delle Metamorfosi di Ovidio), ma è difficile resistere alla tentazione di spiegare l’eccezio-nale fortuna iconografica dell’Orlando furioso con alcu-ne caratteristiche del poema. C’è innanzitutto il gusto persino un po’ scontato per l’esotico e per il meraviglio-so: l’ippogrifo, l’orca, la maga Alcina, che sono rimasti a lungo – non a caso – i temi di gran lunga preferiti dai pit-tori. Secondo questa interpretazione Ariosto sarebbe so-prattutto il poeta delle forme lussureggianti e della sfre-nata fantasia compositiva, e già nel Cinquecento vi era stato chi aveva guardato ai versi del Furioso come un punto di riferimento inevitabile per i pittori, invitandoli a porsi idealmente alla scuola di Ariosto, a cominciare da Lodovico Dolce nel Dialogo della pit tu ra (1557). «Ma se vogliono i pittori senza fatica trovare un perfetto esempio di bella donna, leggano quelle stanze dell’A-riosto, nelle quali egli discrive mirabilmente le bellezze della fata Alcina; e vedranno parimente quanto i buoni poeti siano ancora essi pittori». L’idea avrebbe avuto una grande fortuna da quel momento, stimolando gli esperimenti degli artisti e guidando le letture critiche del poema, ma anche assicurando ad Ariosto una solida fama di esperto connaisseur in fatto di questioni artisti-che (dal Dialogo de’ colori del solito Dolce al Trattato de’ colori di Coronato Accolti, e oltre). Ancora all’inizio del Seicento, il celeberrimo paragone tra Tasso e Ariosto proposto da Galileo a vantaggio del secondo sancirà que-sto primato come la differenza tra «uno studietto di qualche ometto curioso», ripieno di mirabilia e al mas-simo, «in materia di pittura, qualche schizzetto di Bac-cio Bandinelli o del Parmigianino» (la Gerusalemme li-berata), e lo splendore di una collezione di raro valore (l’Orlando furioso): «una guardaroba, una tribuna, una galleria regia, ornata di cento statue antiche de’ più ce-lebri scultori, con infinite storie intere, e le migliori, di pittori illustri». La superiorità della poesia di Ariosto sarebbe dunque anche la superiorità della sua “pittura”.

Naturalmente, però, questo stesso supplemento di visività poteva anche essere percepito come un limite. È quanto sarebbe successo due secoli più tardi nel capo-lavoro della critica settecentesca: il Laocoonte di Gott-hold Ephraim Lessing (1766). Inventore della distinzio-ne fra le arti dello spazio (pittura, architettura, scultu-ra) e le arti del tempo (letteratura, teatro, musica), Les-s ing ha sempre censurato duramente le rispettive inva-sioni di campo e – in polemica diretta con Dolce – sce-glie proprio Ariosto come esempio degli errori che può commettere un poeta quando cerca di imitare i pittori, invece di affidarsi ai punti di forza della propria disci-plina: e lo fa confrontando la descrizione della maga Al-cina nel canto VII del Furioso con la ben più saggia scel-ta di Omero di mostrarci la bella Elena unicamente at-

traver so gli sguardi di coloro che la osservano ammirati. Secondo Lessing, Ariosto incarnerebbe il tipo del (grande) poeta che non ha compreso che ogni arte si fa forte di diverse bellezze e che dunque non ha senso com-petere con il pennello in un campo in cui la letteratura può solo giungere seconda:

Il Dolce raccomanda la descrizione dell’Ariosto a tut-ti i pittori, come il modello più perfetto di una bella don-na; io lo raccomando a tutti i poeti, come il più istruttivo monito a non tentare in modo ancor più infelice quel che non è riuscito a un Ariosto.

È possibile tuttavia giudicare diversamente questa vocazione descrittiva di Ariosto, su cui – con risultati op-posti – tanto Dolce quanto Lessing sembrano trovarsi pienamente d’accordo. Il Furioso si colloca infatti al cro-cevia di due tendenze opposte. Da un lato, certo, Ario-sto si compiace di descrizioni particolareggiate e nel-l’ultimo canto del poema riprende minuziosamente il piano compositivo della Scuola d’Atene di Raffaello in

Figura 5. Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Giovanni Andrea Valvas-sori, Venezia 1566 (xilografie di autore anonimo, impiegate a partire dal 1553, canto XX).

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una delle scene dipinte sulle stoffe del padiglione di Rug-giero, quasi lanciandogli una sfida. Allo stesso tempo vi è però in Ariosto una spinta per lo meno altrettanto for-te a sottrarsi alla figuratività: una spinta che si spiega proprio con la sua estremizzazione del principio del-l’entrelacement. Nel Furioso le forme sono sempre in co-stante metamorfosi e sfuggono a qualsiasi tentativo di fermarle una volta per tutte in una misura stabile: al pun-to che potremmo domandarci se l’insistenza persino esa-gerata sull’avvenenza di Alcina non serva ad anticipare la sua improvvisa trasformazione in una orribile mege-ra, non appena verrà meno la magia che la mantiene ar-tificialmente giovane. Basta infatti rivolgersi al princi-pale personaggio femminile del poema – la bella Ange-lica – per verificare come, diversamente da quel che credeva Lessing, pure Ariosto si attenga al precetto omeri-co di mostrare la perfezione delle forme preferibilmen-

te per via indiretta. Non solo Angelica vie ne descritta con pochissimi tocchi che si concentrano al massimo sul-l’eleganza di una particolare azione (in I, 52 ci viene det-to per esempio che esce dal bosco «come di selva o fuor d’ombroso speco | Diana in scena o Citerea si mostra»), ma soprattutto è colta sempre sul punto di dileguarsi e di sottrarsi una volta per tutte agli sguardi: come se fos-se fatta di una materia onirica non troppo diversa dal suo doppio che tiene avvinti i cavalieri nel secondo ca-stello di Atlante, dove chiunque supera la so glia finisce prigioniero dei propri desideri e non smette di insegui-re il fantasma dell’oggetto amato. Non a caso, il verbo «fuggire», che descrive sin dall’inizio le azioni della fi-glia del re del Catai («ma seguitiamo Angelica che fug-ge») è anche l’ultimo verbo, con cui si conclude il po-e ma («bestemmiando fuggì l’alma sdegnosa, | che fu sì al-tiera al mondo e sì orgogliosa»). Se dunque la bellezza di Alcina è solo un inganno dei sensi, anche la bellezza non adulterata di Angelica si rivela tutt’al più una fugace ap-parizione: a conti fatti non più solida della prima. An -che se, di sicuro, ancora meno rappresentabile a parole.

Come con Alcina, quanto più Ariosto indugia a de-scrivere qualcosa, tanto più la cosa è destinata a rivelar-si inconsistente nel proseguire del Furioso. Questo para-dosso, curiosamente, sembra essere stato compreso as sai meglio dagli artisti che dai letterati. Non è un caso per esempio che la più compiuta descrizione della se-greta disposizione antifigurativa di Ariosto si trovi in un appunto di Eugène Delacroix, in cui il pittore fran-cese sfrutta l’intuizione di Lessing sulla separazione delle arti per affermare il primato poetico di Ariosto:

In genere non sono i poeti più grandi che offrono più spunti alla pittura; quelli che ci offrono più spunti sono coloro che danno maggior spazio alle descrizioni […]. Per-ché l’Ariosto, malgrado i suoi soggetti così adatti alla pit-tura, ispira meno di Shakespeare e lord Byron? […] I due inglesi sono spesso ampollosi e gonfi. L’Ariosto, al contra-rio, dipinge talmente con i mezzi della sua arte, abusa co sì poco del pittoresco, della descrizione interminabile, che non gli si può rubare niente.

Mentre la maggior parte dei critici ha esaltato la vi-cinanza del Furioso alla grande pittura del suo tempo (al punto che Benedetto Croce, nella sua monografia su Ariosto, si sarebbe trovato a ironizzare sul dubbio va-lore di espressioni come «il Raffaello della poesia», «il Dante della scultura» o «il Michelangelo dei suoni» che i retori adoperano in casi come questo), il giudizio di De-lacroix coglie assai più nel segno. La natura metamorfi-ca dei personaggi impedisce che le loro fisionomie si fer-mino sulla tavolozza; trascinati dalle loro venture e dal-le loro inchieste, ogni volta che crediamo di averli fis-sati in un luogo e in un’immagine, essi sono in realtà già sempre altrove. È proprio qui che i dubbi e le soluzioni

Figura 6. Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Vincenzo Valgrisi, Ve-ne zia 1573 (xilografie di autore anonimo, impiegate a partire dal 1556, canto XX).

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di Xanto e degli illustratori cinquecenteschi che lo han-no seguito ci possono tornare particolarmente utili. Al-l’incirca negli stessi anni in cui i teorici rinascimentali delle arti cominciavano a tessere le lodi della visività di Ariosto, la natura elusiva delle sue descrizioni si rive-lava infatti una vera e propria sfida per coloro che si prendevano carico della trasposizione in immagini del poema. Tale incertezza, assente nei primissimi illustra-tori (Xanto incluso), si sarebbe manifestata abbastanza presto. Come rendere sulla tavola la mobilità ariostesca, il perenne divenire dei suoi personaggi? Cosa fare degli incroci di storie? E come restituire il senso di inarre-stabile corsa che comunica il poema di Ariosto, con i suoi giochi di specchi, le sue simmetrie e i suoi ribalta-menti? Tutte domande inaggirabili per chiunque non volesse limitarsi a usare il Furioso come un semplice pre-testo figurativo.

Se Xanto e l’anonimo autore delle tavole per l’edi-zione approntata da Gabriel Giolito de’ Ferrari (1542), più volte riproposte negli anni (fig. 4), non avevano esi-tato a scegliere la scena cruciale del canto e a soffermarsi solo su di essa (a spese del movimento), col procedere del secolo vediamo crescere l’insoddisfazione per que-sto genere di soluzioni, che negavano l’inarrestabile vi-talità del Furioso. Proprio il XX canto del Furioso, di-pinto da Xanto per il servizio Pucci – con Astol fo che volge in fuga le «femmine omicide» al suono del suo cor-no magico ma in tal modo terrorizza anche i propri stes-si compagni –, ci offre un esempio perfetto dei proble-mi che poteva porre la dinamizzazione delle figure. Da Giovan Andrea Valvassori (1553) a Vincenzo Valgrisi, dove i paladini si muovono su una vera e propria carta dell’Europa (1556), sino alle splendide tavole incise di Girolamo Porro per Francesco de’ Franceschi (1584), nelle scelte degli illustratori vediamo prevalere l’azione multipla (figg. 5, 6 e 7). La tavola a poco a poco si allar-ga sino a occupare l’intera pagina ma allo stesso tempo si frammenta, con una scena in primo piano e una serie di azioni minori (o semplicemente successive) rese in lon-tananza, a restituire l’intrecciarsi delle diverse quêtes nel canto. Anche se dovrebbe farci riflettere che il princi-pale stratagemma impiegato dagli illustratori per pre-sentare nella stessa immagine più scene – l’architettura, che separa i personaggi all’interno e all’esterno dell’edi-ficio – si trova anticipato nell’edizione di Giolito, dove un muro divide la fuga delle femmine omicide da quella dei compagni di Astolfo (a sinistra, in prossimità delle navi). La difficoltà di fermare il racconto ariostesco do-veva essere apparsa un problema già allora.

Questa scelta da parte degli illustratori dell’Orlando furioso è particolarmente significativa perché sembra muoversi del tutto contro tendenza rispetto alla dire-zione presa dai pittori in quegli stessi anni, quando co-minciò a diffondersi l’interdetto di rappresentare più

volte in una stessa scena un dato personaggio, secondo una modalità compositiva che era stata ancora piuttosto comune nella prima metà del secolo (l’avevano usata sen-za problemi artisti quali Vittore Carpaccio, Lorenzo Lot-to e Jacopo Pontormo). In questa scelta a favore dell’a-zione multipla bisogna vedere probabilmente la volontà di esaltare la specificità di quello che i teorici della let-teratura cinquecenteschi tendevano a descrivere sempre più spesso nei termini di un genere moderno, sconosciu-to ai greci e ai romani e legittimato piuttosto dai cicli cavallereschi francesi del Medioevo: il poema roman ze-sco. Proprio per la sua struttura divagante, infatti, il Fu-rioso non era rimasto senza contestazioni. Alla sua com-parsa gli estimatori di Ariosto avevano cominciato qua-si subito a celebrarlo come l’opera che rinnovava i fasti dell’epica antica (a tutti gli effetti il poema degno di sta-re accanto all’Iliade, all’Odissea e all’Eneide); allo stesso tempo però non c’era chi non vedesse la novità della sua

Figura 7. Ludovico Ariosto, Orlando furioso, Francesco de’ France-schi, Venezia 1584 (calcografie di Girolamo Porro, canto XX).

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costruzione policentrica e – di fronte al progressivo im-porsi della Poetica di Aristotele come sorgente di una elaborata precettistica – erano sorte ben presto le prime critiche. Ad Ariosto si rimproverava sostanzialmente di aver commesso un grossolano errore nella concezione del Furioso, quando all’unità di azione dell’epica (un so-lo personaggio principale) aveva preferito le trame plu-rime e la rinuncia a costruire l’intreccio su un’unica fi-gura dei romanzi medievali.

Per tutto il secolo, fino alle contestazioni di Tasso e oltre, il dibattito avrebbe continuato a girare attorno al la maggiore o minore aderenza di Ariosto ai modelli an-tichi di Omero e Virgilio: con gli ammiratori dell’Orlan- do furioso pronti a difendere il poema con gli argomen-ti più diversi, ma sostanzialmente inclini ad abbando-nare l’insostenibile difesa della integrale “omeriticità” di Ariosto per rivendicare una genealogia alternativa che avrebbe fatto capo alle Metamorfosi di Ovidio (un altro poema dagli intrecci molteplici), o per reclamare il dirit-to dei moderni di cercare la propria strada, autonoma-

mente dagli antichi. Insistere attraverso le immagini sul-la centralità dell’intreccio romanzesco significava dun-que valorizzare proprio la discontinuità di Pulci, Boiar-do e Ariosto rispetto a Omero e a Virgilio; esattamente come, alla fine del secolo, supervisionando la prima edi-zione illustrata della Gerusalemme liberata, Torquato Tas-so avrebbe persuaso l’incisore Bernardo Castello a ri-nunciare alla soluzione adottata da Valgrisi, Valvassori e Porro per mettere piuttosto in primo piano, a tutta pa-gina, una e una sola scena ogni volta. Per giunta quasi sempre focalizzando l’attenzione su Goffredo di Buglio-ne, secondo la volontà dello stesso Tasso di riallacciarsi più strettamente al magistero omerico e alle regole co-dificate nella Poetica (fig. 8).

La molteplicità degli intrecci non era però l’unico problema che doveva turbare gli illustratori dell’Orlan-do furioso. Come rendere nelle loro immagini l’inconsi-stenza dei personaggi ariosteschi, sempre pronti a dis-solversi sotto gli occhi dei lettori, come allo scomparire del secondo castello di Atlante? Niente e nessuno ri-mane immobile nel Furioso, dove la staticità equivale sempre alla morte, proprio come il matrimonio di Rug-giero e Bradamante coincide con la fine del poema e di tutte le avventure. In questo universo in perenne tra-sformazione, da un punto di vista strettamente grafico la vocazione metamorfica dei personaggi ariosteschi è assicurata paradossalmente dall’elemento più solido del loro abbigliamento: le armature. Nello stesso momento in cui la corazza di ferro separa i cavalieri dagli altri per-sonaggi – dame, eremiti, maghi, contadini – la «secon-da pelle del gentiluomo» finisce infatti per costringere tutti i guerrieri in un unico tipo figurativo, rivelando la fondamentale unità dei personaggi ariosteschi, oltre ma soprattutto contro tutte le opposizioni binarie elemen-tari (uomo/donna, cristiano/pagano, vecchio/giovane, saggio/stolto, buono/cattivo). Una scelta obbligata per ogni illustratore, ma che rende assai bene le ambigui tà del Furioso, dove l’unico dualismo davvero importante è quello che contrappone la verità all’apparenza, così come viene a delinearsi nelle mille diverse storie di tra-dimenti amorosi (uno dei grandi temi del poema) anco-ra più che negli episodi di magia che hanno per prota-gonisti la maga Alcina o il mago Atlante.

Trascinati tutti dalla medesima logica del desiderio perennemente insoddisfatto e sempre rinascente, i pa-ladini di carta hanno saputo conquistare tanti lettori an-che perché – sotto i panni esotici della lotta titanica fra i cavalieri di Carlo e di Agramante – non facevano che mettere in scena le loro stesse, concretissime, passioni. Di desiderio in desiderio: senza mai fermarsi. Proprio questa assenza di contrapposizioni irreversibili è infatti ciò che nel Furioso assicura dinamismo all’intreccio. Rug-giero si converte senza problemi al cristianesimo inau-gurando la genealogia degli Este, e persino il saggio Or-

Figura 8. Torquato Tasso, Gerusalemme liberata, Giovanni Bartoli, Genova 1590 (calcografia di Giacomo Franco su disegno di Bernardo Castello, con la supervisione dello stesso Tasso, canto II).

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lando – ci insegna Ariosto – può diventare pazzo solo perché il mondo non si divide una volta per tutte in uo-mini di senno e folli ma la pazzia è sin dall’inizio insita in ognuno di noi, in agguato, e aspetta soltanto che giun-ga il momento più opportuno per manifestarsi. Ma qual-cosa di simile avviene appunto anche sulle tavole degli incisori cinquecenteschi, i quali, non appena i personaggi si allontanano dal primo piano, sono costretti a marcar-li con una serie di sigle elementari che li rendano rico-noscibili: AST (Astolfo), MAR (Marfisa), PIN (Pinabel- lo). Quando invece i nomi non vengono direttamente ri-portati per esteso, come nelle tavole di Porro.

Questa perenne volatilità dell’universo del Furioso, che non accetta di essere fermata in una immagine con-clusa e che è stata dall’inizio uno dei suoi maggiori ele-menti di fascino, può essere letta naturalmente anche in una chiave pessimistica, come cifra dello spreco e della dissipazione cui gli uomini sono condannati. Il dinami-smo, in questo caso, rimanda all’approssimarsi della mor-te; la mobilità degli ingegni alla inconstanza degli affet-ti; la tolleranza etica per i valori altrui alla incapacità di resistere alla seduzione del male. In Ariosto i due ele-menti convivono, come lasciano intuire quei Cinque Can-ti composti tra la prima e la seconda edizione o tra la se-conda e la terza e mai aggiunti al resto del poema per- ché percorsi da un pessimismo e da un senso di disgre-gamento così neri da sbilanciare le spinte contrastanti su cui si regge l’«amara armonia» dell’Orlando furioso.

Non è strano allora che in Ariosto a poco a poco si sia fatto sempre più forte il desiderio di un appiglio al-meno ideale nel naufragio di tutte le certezze. Ed è per questa strada che – rispetto alla perenne mutabilità dei fenomeni e dei caratteri che è forse il tema principale del poema ariostesco – nella riscrittura del Furioso del 1532 sembra emergere l’aspirazione a un approdo più solido oltre il turbinio delle forme: il sogno di una sta-bilità sino ad allora negata, che non è ripiegamento se-nile, ma anelito a una via d’uscita dalle guerre sanguino-se che sconvolgevano l’Italia ormai da trentotto anni. Lo provano la riorganizzazione della trama per dare mag-gior risalto alla vicenda eroica di Ruggero (il mitico fon-datore della casa d’Este) e alcune delle ottave apposita-mente aggiunte in questa occasione, laddove si celebra

la prospettiva finalmente concreta di una pace duratu-ra sotto l’ombra dell’impero universale di Carlo V. L’im-pressione è che in questo caso non si tratti di un sempli-ce omaggio cortigiano, ma di una sincera aspirazione a un nuovo ordine dopo una stagione di lacrime e di sangue:

Dio vuol ch’ascosa antiquamente questastrada sia stata, e ancor gran tempo stia;né che prima si sappia, che la sestae la settima età passata sia:e serba a farla al tempo manifesta,che vorrà porre il mondo a monarchia,sotto il più saggio imperatore e giusto,che sia stato o sarà mai dopo Augusto.

Dalle iscrizioni sul retro dei piatti sappiamo che Xan-to usava ancora la seconda edizione del Furioso, del 1525 (il canto delle femmine omicide è indicato come XVIII invece che XX, come nell’ultima stampa approntata dal-l’autore); eppure possiamo immaginare facilmente che tanto lui quanto Francesco Maria Della Rovere avreb-bero salutato con favore l’elogio dell’Impero inserito da Ariosto al momento di licenziare per la terza volta il suo poema.

Proprio nel novembre di quel 1532, mentre Xanto era verosimilmente ancora impegnato a dipingere le ma ioliche del servizio Pucci (alcune portano infatti inscritta sul re-tro la data 1533), Ariosto ebbe occasione di incon trare a Mantova Carlo V e di offrirgli personalmente una co-pia dell’ultima riscrittura dell’Orlando furioso: quella che si apre con il ritratto dell’autore disegnato da Tiziano e inciso da Francesco Marcolini e che, assieme al suo ruo-lo di pacificatore, celebra i «nuovi Argonauti» che, ripe-tendo il viaggio di Ruggero sull’ippogrifo, hanno esteso i domini imperiali all’altra sponda dell’Atlanti co. Due anni dopo l’incoronazione di Bologna, in cui i due Puc-ci e Francesco Maria Della Rovere avevano giocato un ruolo tanto importante, il sogno di una nuova età del-l’oro sembrava più che mai attuale. Era, a ben vedere, il sogno di molti. Anche in questo caso però il meravi glioso castello di carte costruito dall’imperatore avrebbe co-minciato ben presto a mostrare tutta la sua fragilità, non troppo diversamente da quelli edificati dal saggio Atlan-te per proteggere Ruggero da una morte prematura.

Su Xanto Avelli vanno visti innanzitutto: f. cioci, Xanto e il duca di Urbino, Fabbri, Milano 1987 (con l’edizione dei so-netti al duca); g. b. siviero (a cura di), Francesco Xanto Avel-li da Rovigo, Accademia dei Concordi, Rovigo 1988; e j. v. g. mallet, Xanto, Pottery-painter, Poet, Man of the Italian Re n-aissance, Wallace Collection, London 2007 (catalogo della mostra omonima, con l’edizione e la traduzione inglese dei so-netti). Per una ricostruzione del servizio Pucci: j. triolo, Fran-

cesco Xanto Avelli’s Pucci Service (1532-1533), in «Faenza», LXXIV (1988), pp. 32-44 e 228-84. Per l’identità del com-mittente o destinatario del servizio: f. cioci, Xanto e il duca di Urbino. Il servizio Pucci e il suo titolare. Un omaggio all’Impe-ro, ivi, LXXXIII (1997), pp. 205-28, e id., Xanto e il duca di Urbino. Antonio Pucci… «ma chi diavolo era costui?», ivi, XCII (2006), pp. 47-55. Per una lettura politica del servizio: j. triolo, L’Urbs e l’Impera tore. A Proposal for the Interpretation of the

gabriele pedullà

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Pucci Service by Xanto Avelli, in t. wilson (a cura di), Ital ian Renaissance Pottery, British Museum, London 1991, pp. 36-43. Per le fonti letterarie di Xanto: a. holcroft, Francesco Xanto Avelli and Petrarch, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», LI (1988), pp. 225-34, e t. wilson, Xanto and Ario-sto, in «Burlington Magazine», CXXXII (1990), pp. 321-27. In generale sulle ceramiche che traggono spunto dal Furioso: c. ravanelli guidotti, Ariosto «istoriato» nella maiolica ita-liana del Cinquecento, in j. bentini (a cura di), Signore cortese e umanissimo. Viaggio intorno a Ludovico Ariosto, Marsilio, Ve-nezia 1994, pp. 61-73. La citazione dal De magni ficentia di Gio-vanni Pontano proviene da I libri delle virtù sociali, a cura di F. Tateo, Bulzoni, Roma 1999, p. 260.Su Ariosto ispiratore dei pittori si può partire da c. gnudi, L’Ariosto e le arti figurative, in aa.vv., Ludovico Ariosto, Acca-demia Nazionale dei Lincei, Roma 1975, pp. 331-401 (ristam-pato in j. bentini (a cura di), Signore cortese cit.), ma si veda ora m. jeanneret e m. preti-hamard, Imaginaire de l’Arioste, l’Arioste imaginé, catalogo della mostra, Louvre, Paris 2009. Per i vari giudizi sulla pittoricità del poema: l. dolce, Dialo-go della pittura, intitolato L’Aretino, in aa.vv., Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di P. Barocchi, Laterza, Bari 1960, pp. 141-206; g. galilei, Scritti letterari, a cura di A. Chiari, Le Mon-nier, Firenze 1943, pp. 358-59; e. g. lessing, Laocoonte. Ov-vero sui limiti della pittura e della poesia (1766), a cura di T. Ze -mella, Rizzoli, Milano 1994, pp. 175-79; b. croce, Ariosto (1917), a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1991, p. 106; e e. delacroix, Suppléments au Journal, in Journal de Delacroix (1822-1863), a cura di A. Joubin, Plon, Paris 1981, p. 880. Se diamo retta a Vittorio Alfieri, a un bambino del Settecento la descrizione di Alcina non appariva così evidente come i so-stenitori della pittoricità di Ariosto hanno sempre sostenuto: «Sempre mi ricorderò che nel canto di Alcina a quei bellissi-mi passi che descrivono la di lei bellezza io mi andava facen-do tutto intelletto per capir bene; ma troppi dati mi manca-vano di ogni genere per arrivarci. […] E tenevamo consiglio col mio competitore di scuola, che non li penetrava niente più di me, e ci perdevamo in un mare di congetture» (Vita, Gar-zanti, Milano 1989, p. 29). Per il dibattito rinascimentale sul-le figure multiple è importante s. tomasi velli, Le immagini e il tempo. Narrazione visiva, storia e allegoria tra Cinque e Seicen-to, Edizioni della Normale, Pisa 2007. Pare che al catalogo degli illustratori del Furioso si debba oggi aggiungere anche il nome di Domenico Beccafumi, se sono giuste le ipotesi avan-zate da l. degl’innocenti, Il Furioso del Beccafumi. Due cicli silografici ariosteschi, in «Paragone. Letteratura», nn. 84-86 (2009), pp. 73-101. I cicli completi delle illustrazioni di Gio-

lito, Valgrisi, Valvassori, Porro e Angeleri sono riprodotti og-gi assieme ai principali interventi critici cinquecenteschi sul-l’Orlando furioso (Lodovico Dolce, Simone Fornari, Giovan Battista Pigna, Giovan Battista Giraldi Cinzio, Bernardo Tas-so, Sperone Speroni, Filippo Sassetti, Lionardo Salviati e Ca-millo Pellegrino) nella edizione del poema da me curata per il Poligrafico dello Stato (Roma 2011: con un’introduzione di Gianni Celati).Le più recenti monografie su Ariosto sono quelle di Giuseppe Sangirardi (Le Monnier, Firenze 2006), Giulio Ferroni (Sa-lerno, Roma 2008) e Stefano Jossa (il Mulino, Bologna 2009): quest’ultimo con importanti considerazioni sul mito dell’Im-pero nel Furioso del 1532 (ma in generale, per i riflessi nel poe- ma della poli tica estense, prima filofrancese poi filospagnola, si veda a. casadei, La strategia delle varianti. Le correzioni sto-riche del terzo Furioso, Pacini Fazzi, Lucca 1988). Di «amara armonia» parla a. ascoli, Ariosto’s Bitter Armony. Crisis and Evasion in the Italian Renaissance, Princeton University Press, Princeton N.J. 1989. Per il «desiderio mimetico» che guide-rebbe i cavalieri (quando si desidera qualcosa perché la desi-derano già gli altri, secondo la lezione di René Girard): e. do-nato, «Per selve e boscherecci labirinti». Desire and Narrative Structures in Ariosto’s Orlando Furioso, in «Barocco», IV (1972), pp. 17-34, e s. zatti, Il Furioso fra epos e romanzo, Pacini Faz-zi, Pisa 1990. Per il dibattito sull’Orlando furioso e la circo-lazione del poema, nel Cinquecento e oltre: k. w. hempfer, Letture discrepanti. La ricezione dell’Orlando Furioso nel Cinque- cento (1987), Pani ni, Modena 2004; d. javitch, Ariosto classi-co. La canonizzazio ne dell’Orlando Furioso (1991), Bruno Mon-dadori, Milano 1999, e m. roggero, Le carte piene di sogni. Te sti e lettori in età moder na, il Mulino, Bologna 2006 (tutti e tre da leggersi assieme al classico studio di b. weinberg, A History of Literary Critic ism in the Italian Renaissance, University of Chicago Press, Chicago Ill. 1961). Tra i difensori della piena “omericità” di Ariosto vanno annoverati Pigna, Fornari e Sal-viati; tra i sostenitori di una matrice ovidiana Dolce e Giral-di Cinzio; tra gli assertori della libertà di sperimentare Giraldi Cinzio, Francesco Cabu racci e Giuseppe Malatesta. Per le pri-me attestazioni della fortuna del Furioso mi sono rifatto a m. beer, Romanzi di cavalleria. Il Furioso e il romanzo italiano del primo Cinquecento, Bulzoni, Roma 1987. I significati simbo-lici dell’armatura rinasci mentale hanno catturato negli ultimi anni anche l’attenzione degli studiosi di letteratura; si vedano in particolare a. quondam, Cavallo e cavaliere. L’armatura come seconda pelle del gentiluomo moderno, Donzelli, Roma 2003, e c. springer, Armour and Masculinity in the Italian Re-naissance, University of Toron to Press, Toronto 2010.