caprice crane ESTHER - giunti.it jenkins derek walter caprice crane ... Delores e Finnegan, loro non...
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ESTHER
steve jenkins derek walter caprice crane
Il mondo si cambia
un cuore alla volta
[email protected] 02.08.2016 12:23
Titolo originale: Esther the Wonder Pig: Changing the World One Heart at a Time© 2016 by ETWP, Inc.All photos courtesy of the authors.This edition published by arrangement with Grand Central Publishing, New York, New York, USA.All rights reserved.
Per l’immagine negli interni: © karpenko_ilia/Shutterstock
Traduzione di Elena Cantoni per Studio Editoriale LitteraRealizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI)
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© 2016 Giunti Editore S.p.A.Via Bolognese 165 – 50139 Firenze – ItaliaPiazza Virgilio 4 – 20123 Milano – Italia
Prima edizione: ottobre 2016
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A Esther. Perché ci hai dato la forza e il coraggio di
seguire i nostri sogni, perché ci fai ridere ogni giorno
e ci hai insegnato la comprensione e la compassione
verso ogni creatura: hai cambiato per sempre in
meglio le nostre vite.
A chi si dedica quotidianamente alla difesa degli
animali e dimostra nelle proprie scelte quant’è facile
adottare uno stile di vita «approvato da Esther»:
insieme possiamo davvero cambiare il mondo e la
rivoluzione è già in atto.
E tutta la nostra solidarietà e il nostro affetto
vanno ai milioni di altre «Esther» meno fortunate
di lei: non smetteremo mai di lottare per il
riconoscimento dei vostri diritti.
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CAPITOLO UNO
Ha senso una vita priva di sorprese? Probabilmente no. Ma un
conto è un diversivo ogni tanto, un altro è una specie di treno
merci a quattro zampe, con il muso schiacciato e un codino a
cavatappi, che irrompe nella tua camera da letto ogni notte alle
tre in punto.
Noi la chiamiamo la «Parata del Porcellino», che detta così
sembra una cosa tranquilla.
In realtà non c’è niente di tranquillo o rassicurante nell’essere
svegliati nel cuore della notte da un suino di trecento chili che
caracolla lungo il corridoio. La prima avvisaglia è di tipo fisico:
una profonda vibrazione che dal pavimento si trasmette al mate
rasso e, da lì, alle tue sinapsi addormentate. A quel punto non ti
resta che una manciata di secondi per spalancare gli occhi, capire
cosa sta per succedere e metterti al riparo dalla carica dell’ospite
invadente, deciso a infilarsi nel tuo letto. Nel turbine di cuscini e
coperte lanciati per aria e nel fuggi fuggi di cani, gatti e umani che
si affannano a mettersi in salvo, il rumore degli zoccoli sul parquet
aumenta inesorabilmente di volume e intensità. Quando l’hai
sentito una volta, quel suono si radica nella tua psiche e scatena
una sorta di reazione pavloviana ogni volta che si manifesta (nel
senso che, proprio come i cani di Pavlov, anche i nostri amatissi
mi Reuben e Shelby reagiscono meccanicamente a quella situa
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Esther
zione. Quanto ai gatti, Delores e Finnegan, loro non sembrano seguire uno schema preciso). È un rombo fragoroso che, a ogni passo, scuote la casa fino alle fondamenta, in un crescendo talvolta accompagnato dallo schianto di un mobile che viene distrutto (sì, può succedere anche questo). Senti che si avvicina, lo percepisci fin nelle ossa. Ma non puoi farci niente.
E dura fino a quando la nostra adorabile principessa, forse spaventata da un rumore notturno, fa irruzione nella stanza e si catapulta sul letto con lo stesso impeto con cui è entrata nella nostra vita: a quel punto, nonostante tutti i febbrili quanto assonnati tentativi di scansarci, siamo pervasi da una nuova e meravigliosa ondata di euforia. Un’euforia alla quale non rinunceremmo per niente al mondo.
Probabilmente era destino che adottassi un maiale. Ho sempre amato gli animali. Odio doverlo ammettere, ma tra un cane e un essere umano in difficoltà, il mio istinto mi porterebbe a salvare prima il cane. Gli animali hanno bisogno delle nostre cure e, per un qualche motivo che ancora mi sfugge, mi sono sempre sentito in dovere di difenderli.
La mia prima amica del cuore, da bambino, è stata Brandy, una meticcia di cane pastore, con il pelo a chiazze marrone e nero, le orecchie flosce e una lunga coda dritta; praticamente l’opposto della mia zazzera biondo chiaro e sempre arruffata, e be’, le mie orecchie non erano pendule e di sicuro ero del tutto sprovvisto di coda. (Somigliavo un po’ a Dennis la Minaccia, a detta di alcuni anche per qualche tratto del carattere. Peccato che «Steve la
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Capitolo uno
Minaccia» non suoni altrettanto bene.) Brandy e io eravamo in
separabili. Lei mi seguiva dappertutto come un’ombra: a casa de
gli amici, al parco, persino quando mi spostavo da una stanza
all’altra della casa.
Abitavamo a Mississauga, una città abbastanza grande, ma
quelli erano altri tempi: la vita era più semplice e più sicura, allora,
e noi eravamo liberi di scorrazzare per l’intero quartiere, in bici
cletta e a piedi, finché non faceva buio ed era ora di tornare a casa.
Prima di possedere un animale domestico, da seienne indipen
dente quale ero, andavo a cercarne nei cortili altrui, intrufolando
mi nelle proprietà private per trovare nuovi amici. I miei genitori
mi rimproverano ancora adesso per quella volta in cui trasgredii
la regola più importante: «Col buio, a casa». Stavo giocando con
il cane dei vicini ‒ tra noi due era stato amore a prima vista! ‒
quando i padroni mi fecero notare che si era fatto tardi ed era il
caso di rientrare. Così mi avviai, infilando il cancello e sparendo
alla loro vista. Ovviamente, appena loro richiusero la porta, feci
dietrofront e tornai dal mio nuovo amico a quattro zampe. Da
piccoli non si dà peso a certe inezie come «genitori preoccupati»
o «violazione di domicilio».
Fui scoperto a causa di un gioco da riporto un po’ troppo ani
mato: accidentalmente il legnetto era finito contro una finestra.
(Avete notato con quale abilità ho formulato la frase così da far
sembrare che il legnetto avesse spiccato il volo per conto suo?
Questo perché non trovai un modo per incolpare il cane.)
Le tende si aprirono, i vicini guardarono fuori per capire cosa
fosse successo e io mi impietrii sul posto. Adottai la tattica del
camaleonte, convinto di riuscire a mimetizzarmi nell’ambiente, ma
tanto valeva adottare quella ninja, perché non funzionò affatto.
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Esther
In maniera del tutto inaspettata, almeno per me, non riuscii a
rendermi invisibile, eppure la padrona di casa fu abbastanza gen
tile da invitarmi a giocare con il cane in casa... a patto di non
lanciare legnetti.
Sembra un lieto fine, no?
Curioso come le cose cambino, quando la polizia bussa alla
porta.
Proprio così. Non soltanto i miei genitori avevano notato la
mia assenza (il che, se vogliamo, è consolante) ma, presi dal pani
co, avevano allertato gli agenti, che a quel punto stavano setac
ciando il quartiere palmo a palmo. A me non era neanche passato
per la testa che, sparendo in quel modo, avrei fatto passare ai miei
le pene dell’inferno, ma potete star certi che quando tornai a casa
loro mi fecero capire la lezione, senza alcun rischio di fraintendi
mento. Ripetendomela ancora e ancora, fino a quando non mi
spedirono a letto.
In un certo senso, però, la mia infrazione alla regola più im
portante venne premiata, perché quella stessa settimana i miei
genitori mi regalarono Brandy... per evitare che l’esperienza si
ripetesse.
Ogni volta che i miei andavano fuori città, era la nonna pater
na a occuparsi di me. Era una tipa tosta, cresciuta in Scozia du
rante la Seconda guerra mondiale. Non che fosse cattiva, ma quan
do diceva «No» era «No», punto e basta. Ciononostante la
adoravo. Avevamo un rapporto fantastico, ma era più che altro per
il rispetto che le portavo che mamma e papà si sentivano tran
quilli a lasciarmi con lei.
Un giorno in cui i miei erano via e c’era la nonna sul ponte di
comando, andai a giocare dai vicini. Chissà perché, mi proibì di
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Capitolo uno
portare Brandy con me. Sapevo che la mia cagnolina ne avrebbe
sofferto, ma sapevo anche che con la nonna era inutile discutere,
quindi uscii senza di lei.
Fu l’ultima volta che la vidi.
Poiché ero nella casa accanto, sentendomi ridere e giocare con
gli altri bambini, Brandy diede di matto. Voleva raggiungermi. Ci
separava soltanto uno steccato, così cercò di saltarlo, ma il collare
restò impigliato e lei morì impiccata.
Anche se, grazie al cielo, non avevo dovuto vederla penzolare
agonizzante dalla staccionata, quando i miei mi comunicarono la
notizia ne fui distrutto. Se state leggendo questo libro siete di
certo amanti degli animali, quindi questo episodio vi avrà senz’al
tro turbati. Immaginate l’effetto che ebbe su di me, ancora bam
bino e legatissimo alla mia Brandy.
Molti di noi hanno vissuto la tragedia di vedere il proprio
amico a quattro zampe investito da un’auto e non intendo mini
mamente sminuire il dolore di un simile evento. Ma le circostan
ze della morte di Brandy furono devastanti. Anche se non avevo
assistito alla scena, non riuscivo a togliermi dalla testa l’immagi
ne della mia cagnolina appesa allo steccato, inerte e senza vita. Né
a liberarmi dal rimorso di sapere che era morta perché l’avevo
lasciata sola. Fu straziante.
Gran parte dei miei ricordi d’infanzia è vaga e sfocata, ma
questo è ancora scolpito nella mia memoria, nitido come la luce
del giorno. Quella fu la prima volta in cui persi qualcosa che
avevo creduto mio per sempre. Mi spezzò il cuore. A quell’età
non pensi al fatto che la vita dei tuoi animali sarà più breve del
la tua: dai per scontato che saranno sempre al tuo fianco. Ma
anche se fossi stato consapevole che, in un futuro lontanissimo
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Esther
(magari dieci o quattordici anni dopo), avrei dovuto dire addio
alla mia Brandy, mai e poi mai avrei immaginato che potesse
accadere in quel modo. Quando ci penso mi viene da piangere
ancora oggi.
Della mia infanzia rammento soprattutto le vacanze o i giri in
bicicletta intorno al lago vicino a casa. E sì, anche le mie esplora
zioni per il quartiere in stile Dennis la Minaccia. Ma la morte di
Brandy è l’unico momento di tristezza viscerale che ricordo come
se fosse accaduto ieri, la fitta lancinante della perdita insieme alla
consapevolezza di essere stato il solo responsabile della sua tragi
ca fine, causata dal suo desiderio di raggiungermi a casa dei vicini.
Per mesi continuai a svegliarmi nel cuore della notte chiamando
il suo nome e, appena mi rendevo conto che non era stato un
incubo – Brandy non c’era più davvero –, scoppiavo in un pianto
irrefrenabile. Mi sentivo in colpa per quello che le era accaduto...
Deve essere stato quello il momento in cui decisi che non avrei
mai voltato le spalle a un animale in difficoltà. Ancora oggi, è un
istinto che non riesco a controllare: gli animali esercitano su di
me un richiamo irresistibile, forse addirittura patologico.
Anche prima dell’arrivo di Esther, la nostra casa di Georgetown
era già abbastanza affollata: due uomini, una donna, due cani e
due gatti, tutti stipati in un centinaio di metri quadrati. Non pro
prio una reggia. Il nostro modesto villino a un piano era compo
sto da un soggiorno con cucina a vista e tre camere da letto. Derek
e io dormivamo nella prima, la nostra coinquilina nella seconda e
la terza fungeva da studio, utilizzato a turno per le nostre diverse
necessità: io portavo avanti la mia attività di agente immobiliare,
Derek faceva le telefonate ai promoter per pubblicizzare i suoi
spettacoli di illusionismo.
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Capitolo uno
L’unico televisore della casa era in salotto ma, nelle rare occa
sioni in cui volevamo guardare un programma insieme, non c’era
abbastanza spazio per tutti e tre. Senza contare che anche i due
cani pretendevano una cuccia comoda e farli scendere dal divano
– a tre posti – sarebbe stato contrario alla nostra regola «Chi tar
di arriva male alloggia», che non faceva distinzione tra umani e
animali. Il risultato era che almeno uno dei tre bipedi finiva rego
larmente seduto per terra o su un cuscino, nella migliore delle
ipotesi.
Condividevamo anche un unico bagno e se vi è mai capitato
di trovarvi in una situazione analoga ‒ coinquilini adulti o, peggio,
bambini ‒ sapete quanto questo possa acuire lo spirito di compe
tizione. Al mattino, il primo suono di passi in corridoio ci faceva
scattare dal letto come dai blocchi di partenza, nella speranza di
battere l’avversario al fotofinish. Perché, in caso contrario, tocca
va aspettare almeno venti minuti che il rivale terminasse le sue
abluzioni e, a seconda dell’esigenza del momento, quell’attesa
poteva sembrare interminabile. Era uno degli aspetti più difficili
del vivere a così stretto contatto gli uni con gli altri. Fin troppo
spesso i nostri orari si sovrapponevano nel peggior modo possi
bile: io avevo un appuntamento urgente, Derek doveva correre a
uno spettacolo e tutti avevamo bisogno di quell’unica stanza.
E se non era per la pole position in bagno, c’era sempre qual
cos’altro per cui sgomitare, quindi ciascuno faceva del proprio
meglio per non pestare i piedi agli altri. Se Derek aveva bisogno
dello studio, io prendevo il portatile e mi trasferivo in salotto.
Eravamo proprio in questo assetto quando, di punto in bianco,
ricevetti su Facebook un messaggio da una fidanzatina delle me
die che non sentivo da quindici anni.
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Esther
Ciao, Steve. So che sei sempre stato un grandissimo amante degli ani-
mali. Io ho una maialina nana che non va molto d’accordo con i miei
cani. Per giunta, ho appena avuto un bambino, quindi non posso
proprio più tenerla.
Da solo, in salotto, rizzai subito le antenne. Forse mi guardai
persino alle spalle, per verificare che nessuno avesse visto il mes
saggio sul mio schermo o l’espressione elettrizzata comparsa sul
la mia faccia. Una maialina nana? Si poteva immaginare qualcosa
di più adorabile? Chi non avrebbe voluto prenderla con sé?
Col senno di poi, ammetto che la situazione avrebbe dovuto
insospettirmi: quella donna era rispuntata fuori dal nulla, dopo
tutto quel tempo. E magari questo è il momento buono per con
fessarvi anche un’altra cosa (credetemi, prima o poi sarebbe venu
to fuori comunque): sono una persona un po’ troppo fiduciosa.
Tendo, come dire, a lasciarmi trasportare dalla corrente. Perciò, di
primo acchito, non pensai: Mmm, sento puzza di bruciato. La mia
reazione fu piuttosto: Ma tu guarda! Amanda. Che carina a farsi
viva! Non mi passò neanche per la testa che potesse esserci in
agguato una fregatura. E il fatto che dovesse liberarsi di una maia
lina nana mi sembrò soltanto una splendida coincidenza.
Non aveva allegato alcuna foto al messaggio, quindi si trattava
di una proposta a scatola chiusa. Ma non avevo bisogno di una
foto per abboccare all’amo. Risposi con disinvoltura:
Dammi il tempo di chiedere un po’ in giro e ti faccio sapere.
In realtà, la decisione era già presa: quella maialina doveva
essere mia. Restava solo da capire come.
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Capitolo uno
Non è un’impresa da poco introdurre un suino, per quanto in
miniatura, nell’abitazione che condividi con il tuo compagno, una
coinquilina e svariati animali. A complicare la situazione, meno
di un anno prima avevo portato a casa un gatto senza prima par
larne con Derek e, come potete immaginare, l’iniziativa non era
stata priva di conseguenze (e me ne assumo ogni responsabilità).
Quindi questa volta avrei dovuto organizzare le cose come si
deve, per non dare a Derek l’impressione di aver agito alle sue
spalle, anche se era proprio quello che stavo facendo. Il trucco
stava nel convincerlo che in realtà non si era trattato di una mia
decisione: la maialina era... arrivata, tutto qui.
Con i maiali può succedere, giusto?
Un paio d’ore dopo ricevetti un secondo messaggio di Amanda:
C’è un’altra persona interessata, quindi se la vuoi tu benissimo; in
caso contrario non c’è problema.
Senz’altro sarete abbastanza scaltri da aver riconosciuto subito
la classica tecnica di manipolazione; in circostanze normali sono
piuttosto sveglio anch’io, lavoro nel settore immobiliare dopotut
to, ma quando voglio qualcosa devo averla... ed è allora che il mio
QI precipita. Di quanto? Si azzera, temo.
E quella maialina la volevo a tutti i costi.
Non so spiegarlo. Non l’avevo nemmeno vista, eppure il solo
pensiero di perderla mi gettava nel panico. Avevo sperato di ave
re più tempo per decidere, magari per informarmi meglio e (for
se, a livello teorico, chissà) persino per parlarne con Derek. Non
ero preparato a un ultimatum nel giro di due ore. Ma la situazio
ne era chiara e il messaggio era lì, nero su bianco, a testimoniarlo:
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Esther
c’era il rischio che qualcun altro mi soffiasse la maialina nana. Così,
senza fermarmi neanche un attimo a riflettere, risposi ad Aman
da che la piccola l’avrei adottata io. Le inviai l’indirizzo di casa e
organizzammo un incontro per l’indomani mattina.
Nella mia testa, mi stavo comportando in quel modo per evi
tare che Amanda prendesse accordi con l’altra persona interessa
ta. Sempre ammesso che esistesse, un’altra persona interessata.
Ma, ripeto, non pensi a certe cose quando hai un’anima candida
come la mia (okay, alcune persone utilizzano espressioni diverse
e ben più colorite per definirmi, ma non è il caso di approfondire
ora la questione).
In ogni caso, l’appuntamento con Amanda era fissato per il
giorno dopo, quindi quella sera decisi di raccogliere qualche in
formazione. Ero un neofita assoluto in materia di maialini nani:
non sapevo cosa mangiassero e non avevo la più pallida idea di
quanto potessero crescere. Così mi tuffai in internet. Da qualche
parte lessi addirittura che «i maiali nani non esistono»... e sì, avreb
be dovuto essere un campanello d’allarme. Ma ero accecato dalla
mia fiducia nei confronti di Amanda (e dall’improvvisa ossessio
ne di adottare un maialino). In fondo Amanda la conoscevo bene:
eravamo stati fidanzatini, per la miseria. Non era mica un’estranea.
E se lei aveva detto che la maialina era nana, allora doveva essere
vero: che motivo avrebbe avuto per mentirmi?
Quindi quella frasetta che avevo letto online scomparve subito
dalla mia mente. E tutto il resto era di un carino da non credere.
A quanto pareva, la stazza massima dei maialini nani era di circa
quaranta chili, cioè non molto più di Shelby, uno dei nostri cani.
Tutto sommato, sarebbe stato come adottare un altro cagnetto.
Magari un po’ più ingombrante, d’accordo, ma niente di trop
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Capitolo uno
po impegnativo. E poi era talmente originale! Un maiale, potete
crederci?
Quella sera dissi a Derek che l’indomani sarei andato a Kin
cardine (nel nord, a circa due ore d’auto da casa) per il Festival
Scozzese e i Giochi delle Highlands. In realtà, il mio piano era di
fermarmi in ufficio mentre lasciavo la città, per fare conoscenza
con la bestiola e decidere se tra noi poteva funzionare. Poi mi
sarei comportato di conseguenza.
In effetti, a Kincardine dovevo andarci davvero, non era una
scusa: l’avevo in calendario da almeno due settimane, quindi l’ar
rivo di Esther imponeva soltanto un piccolo fuoriprogramma.
Anzi, la gita al festival giocava a mio favore, perché mi avrebbe
dato il tempo per organizzarmi.
Il piano era di raccontare a Derek che avevo trovato la maiali
na sulla via del ritorno. Sarebbe potuto capitare a chiunque, no?
A dirla tutta, dopo tanti anni insieme, Derek avrebbe quasi dovu
to aspettarsi una cosa del genere. Nessun altro conosce quanto lui
i miei precedenti con gli animali (e la tendenza a salvare trovatel
li a sua insaputa).
Prenotai una stanza in un albergo non lontano dalla sede del
festival. Mi serviva una base in cui sistemare la nuova arrivata per
qualche ora mentre io andavo a incontrare gli amici, mi concede
vo un paio di birre e davo gli ultimi ritocchi al piano. Dopodiché
sarei rientrato in albergo, avrei passato la notte insieme alla maia
lina e al mattino sarei tornato al festival, rimanendo là fino al
momento di rincasare, con il mio nuovo animale domestico e un
alibi che, a quel punto, sarebbe stato rifinito nei minimi dettagli.
(Sì, lo so: a volte i miei intrighi sono più cervellotici del colpo di
Ocean’s Eleven.)
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Esther
Se non fosse che, appena vidi Esther e la presi in braccio, il
piano andò a farsi benedire.
Ma sto correndo troppo. Quando l’auto di Amanda si fermò
vicino al marciapiedi, sul sedile accanto a lei si vedeva solo un
cesto della biancheria coperto da un plaid di flanella. Amanda
scese dall’auto, raggiunse la portiera del passeggero, la aprì e pre
se il cesto.
Ed eccola lì: un affarino microscopico che mi fissava con uno
sguardo innocente. Un vero tesoro. Ma era smalto rosa, quello
sugli zoccoli? Sì. Inguardabile e rovinato, per giunta. Povera pic
cola. Indossava un collare per gatti con i lustrini, tutto logoro e
sbrindellato, al che pensai: Com’è possibile che una cucciolina nuova
di zecca sia già conciata così? Aveva un’aria proprio patetica. Im
possibile resisterle. Non desideravo altro che stringerla a me. Im
mediatamente. Non all’aperto, però, dove la gente poteva vederci
e lei rischiava di spaventarsi. Ricoprii il cesto con il plaid e lo
portai nel mio ufficio, dove la presi in braccio per la prima volta.
Era minuscola, appena venti centimetri dalla punta del naso a
quella della coda. Mi stava tutta in una mano. Per la verità, non
aveva un bell’aspetto. Le orecchie erano ustionate dal sole, mi
ricordavano quelle agghiaccianti signore incartapecorite dalle lam
pade o la tizia con la faccia abbrustolita di Tutti pazzi per Mary.
Era bagnata come un pulcino e tenerissima. Prima di vederla,
l’idea mi era sembrata divertente: Un maiale domestico: fico! Ma
quando l’ebbi davanti agli occhi, pensai: Oddio, guarda come ti han-
no ridotta! Era pelle e ossa. E quelle orecchie! Non potevo abban
donarla al suo destino. Insomma, fu un colpo di fulmine.
Amanda disse che la piccola aveva sei mesi ed era stata steri
lizzata. Lei l’aveva tenuta per una settimana, dopo averla compra
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Capitolo uno
ta da un allevatore su Kijiji. Da come la trattava e ne parlava, era
evidente che non provava un briciolo d’affetto per lei. Non riusci
vo proprio a capacitarmene e un pensiero mi terrorizzò: cosa ne
sarebbe stato di quella piccolina se non fossi intervenuto io a
salvarla?
Così intervenni.
Ma questo cambiò ogni cosa. E non solo nella mia vita in
senso lato. Il mio piano iniziale, con le sue accurate macchinazio
ni per ammansire Derek, era volato fuori dalla finestra: quella
bestiola mi aveva conquistato. La conoscevo da dodici minuti
esatti e già un perentorio istinto di protezione mi urlava nella
testa: Non puoi chiuderla da sola in una camera d’albergo mentre tu
vai a spassartela tutto il giorno al festival! Era una cucciolina di
appena sei mesi. Aveva bisogno di me.
Annullai il mio viaggio, ma a quel punto mi sarei dovuto in
ventare due storie da raccontare a Derek: perché non ero andato
a Kincardine? E da dove era spuntato il maiale? Nella versione
originaria, avrei fatto la figura dell’eroe, del cavaliere senza mac
chia: «Ho salvato una maialina! Non volevo prenderla con me, ma
come potevo abbandonarla?». Un argomento a prova di bomba...
finché il mio karma non mi si è ritorto contro.
A causa di quella cotta clamorosa, ero spacciato. Invece di due
giorni in cui avrei potuto consultare con calma una quantità di
amici e perfezionare il mio alibi, avrei dovuto affrontare Derek il
giorno stesso e avevo solo poche ore per convertire anche lui al
culto di Esther.
La tensione cominciò a montare.
Telefonai agli amici che mi aspettavano a Kincardine per av
vertirli della mia assenza e spiegarne il motivo, che loro trovarono
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Esther
esilarante. Sapevano che Derek avrebbe dato in escandescenze,
quindi vollero che li tenessi aggiornati. Con due richieste: la pri
ma, inviare subito una foto della maialina; la seconda, inviare in
seguito una foto della reazione di Derek.
Poi chiamai un’altra coppia di amici, Erin e Wally. Mi serviva
qualcuno che badasse a Esther mentre io mi precipitavo al super
mercato a comprare il necessario per la raffinatissima cena da «Ti
prego perdonami per aver adottato un maiale» che avevo in men
te per Derek. Con Erin e Wally non avevo precisato l’esatta na
tura del mio «nuovo cucciolo», quindi non avevano idea di cosa si
sarebbero trovati davanti finché non mi presentai da loro e la
maialina cominciò a zampettare per la cucina. Erin era sconvolta.
Credo che le sue prime parole siano state: «Cazzo, stavolta Derek
ti ammazza!». Al liceo erano anche usciti insieme per un po’, quin
di lo conosceva bene quasi quanto me.
Quando ebbi finito la spesa tornai a riprendermi Esther. In
macchina, sul sedile del passeggero, mi sembrò nervosa e disorien
tata, così mi tenni su strade secondarie in modo da continuare a
parlarle e ad accarezzarla. Giunti a destinazione, la portai in casa
e feci uscire i cani. Rimasti soli in salotto, cercai di capire cosa
avrei potuto darle da mangiare (nell’agitazione di quella giornata,
avevo dimenticato sia di informarmi sugli alimenti adatti ai maia
li sia di andare a procurarmeli): provai a tentarla con un cespo di
lattuga, una scatoletta di cibo per cani, un paio di pomodori, qua
lunque cosa mi capitasse sotto tiro. Alla fine Esther sembrò ap
prezzare la lattuga e il mangime per conigli.
Quando fui sicuro che non sarebbe morta d’inedia, mi appre
stai a mettere un po’ d’ordine e a occuparmi della cena. La cosa
migliore da fare era impiegare il poco tempo a disposizione per
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Capitolo uno
lustrare la casa da cima a fondo e preparare una cenetta coi fiocchi,
in modo da creare un’atmosfera romantica e favorevole alla pre
sentazione ufficiale.
I gatti avevano reagito con il consueto atteggiamento di curio
sità blanda e distaccata, mentre i cani li avevo lasciati fuori, all’ini
zio. Shelby e Reuben sono entrambi supereccitabili in presenza
di cuccioli e bambini, così quando li lasciai rientrare – badando a
tenere Esther ben stretta in braccio, a distanza di sicurezza – si
esibirono in una quantità di guaiti e salti acrobatici. Infine mi
chinai, permettendo che la fiutassero un pochino e la salutassero
con qualche leccata amichevole, poi la nascosi nello studio in fon
do al corridoio. Prima di presentargli Esther, volevo accertarmi
che Derek fosse di buon umore. In aggiunta, gli altri animali sem
bravano un po’ confusi, quindi preferii tenerli separati.
Con i minuti contati, ripulii la casa alla meno peggio e prepa
rai la cena, che prevedeva tutti i cibi preferiti di Derek: hamburger
freschi con formaggio e bacon, patatine fritte fatte in casa e aro
matizzate all’aglio. La scenografia era pronta. Versai il vino nel
decanter e accesi un paio di candele per il tocco finale. A quel
punto non restava che aspettare...
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