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Oxford Library Oxford Library - Silvana Cincotti e Livio Secco – venerdì 08 maggio 2020 – N.7
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Cognomi, gioielli insoliti e affetti di una famiglia…reale!
La regina Vittoria nacque a Londra il 24 maggio del
1819 è fu regina del Regno Unito di Gran Bretagna e
Irlanda dal 20 giugno 1837 e Imperatrice d'India dal
1876 fino alla sua morte.
Nel 1836, diciassettenne, Vittoria incontrò il suo futuro
marito, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha.
Pur cresciuto in un ambiente semplice Alberto aveva
ricevuto un'ottima educazione, dandone prova in più
occasioni durante la sua vita da principe consorte.
Apparteneva alla casa reale di Sassonia-Coburgo-Gotha
ma la regina Vittoria ordinò di compiere ricerche
genealogiche e dall'esame dei documenti emerse che il
cognome corretto di Alberto era Wettin.
Wettin, anche se alla regina non piaceva, rimase il
cognome della casa regnante inglese fino al 1917 quando
il nipote di
Vittoria, re Giorgio V, cambiò il nome della casata reale e
il cognome, sostituendoli entrambi con uno dal suono più
inglese (Wettin sapeva troppo di tedesco e la storia
giustificherà ampiamente questa scelta): Windsor, dal
Castello di Windsor.
Durante la loro vita coniugale la regina Vittoria e il
principe Alberto usarono spesso i fiori come simbolo per
esprimere il grande affetto che nutrivano per la famiglia.
Nel 1825 un botanico, scrittore e orticultore-giardiniere,
Henry Phillips, scrisse il primo trattato in inglese che
documentava i significati assegnati a specifiche varietà di
fiori nel corso di migliaia di anni. Il dono dei fiori, per
La regina Vittoria e Vittoria, duchessa di
Nemours, cugina della regina
Vittoria, il giorno del suo matrimonio
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inviare un messaggio al destinatario,
divenne molto di moda nella società
vittoriana e la pratica pienamente
abbracciata dalla famiglia reale.
Al suo quattordicesimo compleanno la
futura regina Vittoria registrò sul suo
diario d’aver ricevuto dalla madre “una
bella spilla a forma di giacinto e un
vassoio di fine ceramica”. Il vassoio
Minton in questione, adatto a riporre le
penne, era decorato al centro dalla
corona reale e da una coroncina di viole
del pensiero tutt’attorno, a
simboleggiare “pensieri d'amore”, ed è
oggi parte della collezione reale.
Al matrimonio della regina Vittoria e del principe Alberto, celebrato il 10 febbraio 1840, il quotidiano
Times scrisse che “Sua Maestà non portava diamanti in testa, nient'altro che una semplice coroncina
di fiori d'arancio”. Un semplice ornamento floreale, emblema di castità e l’abito da sposa in seta
bianca, che divennero presto l'abbigliamento standard delle spose vittoriane e generò una moda per i
gioielli a forma di fiori d'arancio.
Una delle coroncine donate dal principe alla consorte per celebrare il loro anniversario di matrimonio
presenta quattro piccoli frutti di colore arancione, pensato per simboleggiare i quattro figli che la
coppia aveva all’epoca. In totale i figli saranno nove. La regina Vittoria continuò ad indossare i pezzi
di questa parure non solo in occasione del suo anniversario di matrimonio ma per tutta la vita
coniugale.
Sia Albert che Victoria erano appassionati collezionisti, si scambiavano opere d'arte come regali di
compleanno e di Natale e amavano particolarmente la scultura, spesso regalandosi reciprocamente
sculture di marmo a figura intera come regali di compleanno. Parecchi di questi rimangono oggi a
Buckingham Palace. Questo amore per l'arte era un aspetto culturale che la coppia reale condivideva,
sappiamo dai diari della regina come spesso sedessero la sera sfogliando album di acquerelli,
disponendoli, parlando di loro. Erano anche molto preoccupati a proposito dell’esposizione della
collezione; sappiamo che la regina trascorreva parecchio tempo a organizzarla e razionalizzarla.
Ovviamente esisteva già una collezione reale, cui sia Alberto che Vittoria aggiunsero le loro scelte
dettate da preferenze personali.
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La Royal Collection è in effetti una collezione di collezioni.
Ogni monarca ha, potremmo dire, una sorta di sala al suo
interno, ma Vittoria e Alberto furono i primi a rendere il
tutto più simile, non voglio dire ad un vero e proprio museo,
ma l’intento gli si avvicinava molto. Albert si considerava
un intenditore serio e penso che sentisse l’importante
compito di educare il pubblico all'arte, patrocinavano infatti
la realizzazione di copie e stampe di opere famose e versioni
economiche di sculture in modo che più persone potessero
godere della bellezza dell’arte.
Un pezzo della collezione reale, a dire il vero piuttosto
singolare, è una collana d'oro e smalto con 44 denti di cervi,
donato dal principe Alberto alla regina Vittoria, forse come
segno di amore “macho”: tutti i denti provengono da cervi
cacciati da Albert nella tenuta di Balmoral. Ogni dente è
inciso con la data in cui l'animale è stato ucciso.
La spilla in oro e smalto verde, che vedete nella foto, ha la
forma di foglie di agrifoglio legate con un fiocco di nastro
scozzese e decorato da due denti di cervo lucidati. Fu donato
alla regina Vittoria il giorno del suo compleanno, il 24
maggio 1851. Il dente è il risultato di una battuta di caccia a
Dee, fatta dal principe Alberto, l'11 settembre del 1850. La cultura della caccia e del tiro era
decisamente sviluppata in Turingia, patria del principe Alberto, dove era consuetudine montare i denti
di cervo in gioielli. Tradizionalmente si pensava che i denti avessero proprietà magiche, ma è più
probabile che il Principe li usasse per il loro fascino sentimentale e decorativo.
La regina Vittoria durante il suo lungo regno ha espresso l’amore per la sua famiglia e per i gioielli,
inserendovi persino i denti da latte dei suoi figli. Nel mese di
novembre dell’anno 1864, la famosa gioielleria Garrard & Co.
di Londra, fornitrice ufficiale dei gioielli della corona fino al
2007, ebbe il compito di inserire e incastonare alcuni denti da
latte dei figli della coppia reale, in gioielli con raffinate
montature in oro e smalti. Vennero così creati orecchini a
forma di fiori fucsia, un anello e una collana.
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Spirito egittologico ed egittologia con spirito…
Eduard Toda i Güell è stato un
diplomatico, un bibliografo ed un
egittologo spagnolo. Diplomatosi in arte
nel 1869, fu amico d'infanzia di Antoni
Gaudí. Eduard Toda aveva grandi doti
d’intellettuale e padroneggiava numerose
lingue: studiò, oltre alla cultura egizia,
quella cinese, la filippina e la giapponese
e i suoi lavori furono tradotti in diverse
lingue.
Studiò Giurisprudenza a Madrid e
divenne parte del corpo diplomatico a
partire dal 1873.
Nel 1884 si trasferì al Cairo, come
Console Generale di Spagna e qui rimase fino al 1886. Strinse amicizia con il celebre Gaston
Maspero, in quel momento direttore del Servizio di Antichità.
Viaggiò moltissimo, visitando l’Egitto in lungo e in largo, partecipando ad importanti scoperte ancora
oggi momenti pivotali per la storia dell’Egittologia.
Nella piana di Tebe, oggi Luxor, l’evento archeologico che legherà il suo nome per sempre
all'Egittologia sarà la scoperta,
avvenuta nel 1886, della tomba di
Sennedjem, nella necropoli della città
operaia di Deir el-Medina.
Dedicò a questo ritrovamento una
monografia, nella serie Estudios
Egiptológicos, nel capitolo XXV di A
través del Egipto. Redisse l'inventario
del Museo di Boulaq, ovverosia il
primo nucleo formativo di quello che
sarà il Museo Egizio del Cairo (la foto
che vedete in alto, è stata scattata
proprio nel Museo di Boulaq 😊).
Eduard Toda in Egitto, in piedi a destra. Accanto a lui,
seduto, c’è Gaston Maspero.
5
Caravaggio: due opere
Caravaggio dipinse alla fine degli anni Novanta del
Cinquecento, una tela dedicata a Santa Caterina
d’Alessandria. Lo sguardo della santa, tutt’altro che
timoroso, sembra in realtà di sfida, quasi impegnata
in un gioco di potere; accarezza e gioca con uno
spadino (quello che forse Caravaggio usava per i
numerosi duelli ingaggiati?) ed è posta vicino alla
ruota dentata del suo martirio, ruota già rotta, il
martirio è dunque già avvenuto, lei infatti ha già
una aureola. Figura fuori dal tempo ma per nulla
astratta. La modella dovrebbe essere una certa
Fillide, la stessa che poserà per il quadro di Giuditta
che taglia la testa ad Oloferne.
Forse Caravaggio ricorda la storia della giovane
Beatrice Cenci giustiziata a Roma in quegli anni
per aver ucciso suo padre, uomo dispotico e
violento. La tenda rossa che cala dall’alto e dà alla
scena un tocco drammatico e teatrale non ci abbandonerà più. Sembrano davvero lontani i tempi dei
giovani e della frutta. Lo sguardo della giovane donna è velato d’orrore come se l’atto compiuto, di
giustizia contro l’oppressore, le
facesse ribrezzo. L’azione entra
prepotente nell’arte di
Caravaggio, Oloferne non è
ancora morto, un grido che non
sentiamo e di nuovo Caravaggio
gioca con i nostri sensi. Vediamo
ma reagiamo come se sentissimo.
Questo ci ricorda ad esempio
l’Apollo e Dafne di Bernini.
L’orrore in scena, la nascita del
teatro e del melodramma.
Santa Caterina d'Alessandria, 1598-1599
olio su tela, 173×133 cm, Museo Thyssen-
Bornemisza, Madrid
Giuditta e Oloferne, 1600-1602 circa, olio su tela, 145×195 cm
Gallerie Nazionali d'Arte Antica, Palazzo Barberini, Roma
6
L’archeologia: un fascino senza limiti
Una foto che lascia senza fiato.
Vedete la statua del pugile a
riposo, poco dopo il
ritrovamento, sul Quirinale nel
1885. Rodolfo Lanciani,
l’archeologo che trovò il
pugile, rimase allibito. Disse:
“sono stato presente nella mia
lunga carriera a molte scoperte
e ho inaspettatamente
incontrato reali capolavori. Ma
non ho mai provato
un’impressione simile a quella
creata dalla vista di questo magnifico esemplare di un atleta […], uscente lentamente dal terreno come
si svegliasse da un lungo sonno dopo i suoi valorosi combattimenti”
La statua bronzea del Pugile in riposo, conosciuta anche come Pugile delle Terme o Pugile del
Quirinale, è una scultura greca alta 128 cm, datata alla seconda metà del IV secolo a.C. e attribuita a
Lisippo o alla sua immediata cerchia; è oggi conservata al Museo Nazionale Romano (inv. 1055).
Ne parleremo la prossima settimana!
7
Per la vita del re (web liviosecco.it)
La nostra carriera scolastica ci ha portato allo
studio di opere come l’Illiade e l’Odissea. Le
abbiamo studiate raggruppandole sotto il nome
generale di epica. Quanti sogni ci hanno suggerito?
Moltissimi. In essi ci siamo ritagliati la parte di eroi
militari oppure di regine diplomatiche o di
principesse innamorate. È interessante notare che
consideriamo queste opere come l’argomentazione
eroica più antica della letteratura storica; infatti ci
riferiamo alla Grecia arcaica.
Invece, da buoni egittofili, noi siamo al corrente
che una valida documentazione biografica di eroi
era già presente sulle sponde del Nilo molto prima.
È il caso del generale Amenemheb. Lo abbiamo già
incontrato in Oxford Library n.6 nell’articolo La
fucina degli eroi. Quello che ci attira è che non si
tratti qui di brani letterari, ma di una vera e propria
cronaca militare. Amenemheb partecipò come alto
ufficiale a molte delle diciassette campagne militari
del suo sovrano Thutmose III condividendone i pericoli e la gloria. Celebrò le sue gesta facendole
rappresentare e scrivere sulle pareti della sua tomba, la TT85 situata a Sheik Abd el Qurna.
Questa volta non ci interessiamo più ad un evento contro il nemico, ma ad un evento particolare che
si realizzò durante una spedizione militare contro l’Asia.
Ancora una volta, restiamo ad ascoltare cosa ci racconta l’alto ufficiale.
Durante il trentatreesimo anno di regno, il faraone Thutmose III organizza la sua ottava spedizione
militare da intrapprendere contro i regni ribelli e riottosi dell’Asia.
La campagna è un successo, come tutte le altre progettate e realizzate dal Napoleone d’Egitto.
Al rientro, verso la Valle del Nilo, Thutmose si ferma nei pressi della città di Ny, quella che i Greci
e i Romani chiameranno Apamea, sul fiume Oronte, nell’odierna Siria.
Le linee di collegamento con l’Egitto sono parecchio allungate poiché la spedizione si è spinta molto
in profondità. La logistica è sotto un terribile sforzo, ma l’esercito deve essere nutrito e rifornito
quotidianamente. Oltre alle requisizioni sui territori attraversati, diventano utilissime anche le
battute di caccia. Il faraone, con i suoi ufficiali, decide di fermarsi per organizzare una caccia
Thutmose III, statua in basalto, Museo di Luxor.
8
all’elefante. Non secondario sarà il recupero di
avorio. È anche un modo che ha il sovrano di
celebrare ritualmente se stesso davanti al proprio
Stato Maggiore e a tutto l’esercito. Viene scelta
una località che possiede uno specchio d’acqua.
Indubbiamente gli elefanti verranno ad abbeversi
facendo così scattare la trappola dei militari egizi.
wHm.n(.i) mA uhem.en.i Ripetei io ma il vedere
ky sp mnx chi un’altra sep azione menec eccellente,
ir.n nb tAwy m ny ir.en che fece neb il Signore taui delle Due Terre em in ni Ny,
bHs.n.f St Dbawy n(y) Abw behes.en.ef (quando) cacciò egli scet cento gebaui e venti ni di abu elefanti
bty.sn beti.sen (a causa) delle zanne di essi (=loro).
Alcuni branchi di elefanti si sono avvicinati allo specchio d’acqua diventando una facile preda per
gli archi e le lance egizie.
Thutmose III insegue con il carro i pachidermi che fuggono lungo le sponde. I soldati ne hanno diviso
alcuni dai gruppi per farli diventare un facile bersaglio per il faraone.
Raffigurazione di un elefante. Tempio di Esna.
9
Ma nella foga della caccia nessuno si accorge che il sovrano si è
isolato pericolosamente. La Guardia del Corpo è lontana e un grosso
maschio sta guadando di corsa il braccio d’acqua e sta caricando il
re. Amenemheb cerca con lo sguardo il faraone e si accorge del
pericolo che incombe. Velocemente corre verso il re e si butta in
acqua armato di spada. Grida e urla con quanto fiato ha in gola per
attirare su di sé l’attenzione del grosso elefante il quale devia dalla
corsa, cambia rotta e gli si fa incontro rapidamente scrollando il
pesante muso con le zanne puntute ben tese in avanti.
Amenemheb si nasconde tra due grossi massi affioranti per tendere un’imboscata al pachiderma.
aHa.n Ssp.n(.i) pA Abw aA aha.en Allora scesep.en.i presi io pa Abu l’elefante aa grande
nty im.sn neti che era im.sen in mezzo a loro
aHA r-xft Hm.f aha (e) che combatteva er-chefet contro hem.ef la Maestà Sua.
Al momento opportuno, quando l’elefante imbizzarrito è poco distante, Amenemheb esce dal
nascondiglio, ingaggia una lotta impari e, con un preciso colpo di spada, recide la proboscide che
l’elefante ha allungato per colpirlo. Ferito a morte il pachiderma si arresta, si gira e cade nell’acqua
in un inutile quanto disperato tentativo di fuga.
ink Sad d(r)t.f inec Sono proprio io colui sciad che ha tagliato deret.ef la mano sua (=proboscide).
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iw.i aHa.k(wi) m pA mw iu.i Ero io aha.cui in piedi m pa mu nell’acqua
imytw inrwy imitu in mezzo a inerui due massi di pietra.
I barriti, prima di minaccia e poi di dolore, hanno attirato l’attenzione dei militari egizi che si sono
fermati a guardare cosa stava accadendo. La caccia si è arrestata. La Guardia del Corpo recupera
rapidamente il re, frapponendosi tra il suo carro e i branchi in fuga, creando un muro di lance.
Thutmose guarda il generale Amenemheb che raggiunge la riva a passi pesanti, ansimando, con la
divisa insanguinata che gli pende, stracciata, dalle spalle.
aHa.n fqA.n wi aha.en Allora feca.en ricompensò ui me
nb.i im nbw neb.i il Signore mio im in nebu oro.
Il faraone ricompensò il suo coraggioso guerriero con l’oro
del valore. Una ricompensa desiderata da tutti i soldati che
dimostrava pubblicamente la gratitudine del re.
Alla sera, all’accampamento, il faraone fece in modo di far
pervenire al suo eroico generale, un triplice set di abiti nuovi
a sostituzione dell’uniforme diventata ormai inservibile.
È così che si comporta un ufficiale dell’esercito egizio. Una
vita, la propria vita, in cambio di quella del re.
(in verde la pronuncia, in blu la traslitterazione).