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Otto ricette per un delitto Un thriller gastronomico

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Otto ricette per undelitto

Un thriller gastronomico

editing e impaginazione a cura di Silvia De MarchiOtto ricette per un delittoUn thriller gastronomicoArca NazionaleVia di Villa Patrizi 2,b - 00161 Roma

La riproduzione, anche solo parziale, di questo testo, a mezzo di copiefotostatiche o con altri strumenti, senza l’esplicita autorizzazionedell'Editore, costituisce reato e come tale sarà perseguito.

ISBN 1 edizione - Gennaio 2013Ristampa 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9

PREMESSA

“Otto ricette per un delitto “ è un meraviglioso risulta-to frutto di una scelta e di un lavoro collettivo.

L’Arca è sempre alla ricerca di stimoli e nuove ideeche sappiano caratterizzarla come associazione attentaalla cultura in tutte le sue espressioni.

È tradizione fare da vetrina a prodotti elaborati dainostri soci, pubblicando i loro manufatti sulle nostreriviste o sul sito on line, mettendo in evidenza l’amoree la passione che li accompagnano.Inoltre organizziamo momenti d’incontro dove i soci

possono confrontarsi tra loro presentando ciò chehanno sviluppato anche con concorsi valutati da pro-fessionisti.Attraverso le nostre iniziative cerchiamo di far com-

prendere tradizioni e culture del nostro stupendo ter-ritorio, per incoraggiare quel bisogno di conoscenza ecuriosità, base essenziale per la crescita di un indivi-duo.

Anche se avere un palcoscenico a disposizione è unfatto sicuramente importante per dei dilettanti quali

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sono i nostri soci, abbiamo valutato che non potevaessere questa l’unica forma di stimolo. Da qui l’idea di utilizzare le loro potenzialità e realiz-

zare iniziative che attraverso il “fare” caratterizzino lanostra Associazione come una fonte produttrice di cul-tura. Dopo aver prodotto dei cortometraggi con i nostri

ragazzi, impegnati al Festival del Cinema di Veneziacon Arca Cinema Giovani, l’ idea è stata quella di trac-ciare la costruzione di un libro, da fare in collettiva,con i soci che hanno partecipato all’evento del Festivaldel Libro di Torino.Maria Pia Capuano, Adriana Virzì, Michele Ciardi,

Vittoria Maraniello, Leonarda Barraco, AntonellaCalatabiano, Nino Cirrincione, Maria Concetta Noto,Massimiliano Del Testa, sono i 9 soci a cui va tutto ilnostro ringraziamento per il gran lavoro svolto, l’impe-gno profuso e la qualità del risultato che ne è derivata.Permettetemi inoltre un ringraziamento particolare

all’ex ”figlia della luce” Silvia De Marchi, ora editordella Casa editrice indipendente Compagnia delleLettere, coordinatrice del lavoro e a Fabio Sabatinidell’Ufficio Marketing dell’Arca, ideatore dell’iniziati-va e in particolare del progetto “romanzo collettivo”.

Il “fare insieme” è l’elemento centrale su cui si svilup-pa l’idea, metodo che ci riconduce alla partecipazione,caratteristica fondamentale della nostra Associazione.

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La costruzione del libro elegantemente rappresentaun’espressione perfetta di ciò che è l’Arca e le suepotenzialità, per questo non finirò mai di ringraziaretutti voi che avete permesso la sua riuscita.

Il Presidente

Ferruccio Valletti

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NOTA INTRODUTTIVA

L’abbiamo fatto per divertimento.Il progetto di questo romanzo collettivo, di questo

lavoro a più voci, di questo racconto scritto a ventimani, è nato a Torino, qualche mese fa.L’occasione è stata la visita – pensata per i soci Arca-

Enel – al Salone Internazionale del Libro che, da venti-cinque anni, si svolge nel mese di maggio nel capoluo-go piemontese.Siamo stati veramente fortunati, il tempo splendido ci

ha accompagnato per tutti i cinque giorni del soggior-no, ci ha consentito di visitare la famosa fiera del libroma anche gran parte della città. Abbiamo così scoperto che la Torino barocca convive

felicemente con quella multietnica e coloratissima diPorta Palazzo; è proprio lì, nel cuore del mercato all’a-perto più grande d’Europa che è iniziata la nostra pas-seggiata per Torino. Una guida rumena e una peruvia-na che ci hanno aperto le porte di macellerie islamiche,saloni di bellezza senegalesi e alimentari cinesi. APorta Palazzo, che gli arabi chiamano Bab al-Kssarvivono, si incontrano e si scontrano l’Europa, l’Africa el’Asia; e proprio qui abbiamo deciso di ambientarequesta storia, che è un giallo in piena regola, con la giu-

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sta dose di alibi e moventi, con tanti personaggi cheruotano intorno ad uno centrale: lo chef VittorioChiara. Eclettico alchimista della cucina, con una spic-cata passione per la mixité alimentare, una passioneindomata per le spezie e le contaminazioni tra le cuci-ne del mondo, Vittorio Chiara è uno chef intercultura-le, trasversale, con un carattere forte che, ahimè lo con-dannerà ad una morte beffarda.

Il testo che avete tra le mani non è stato scritto dascrittori professionisti, ma da lettori curiosi e avidi, dasoci Arca con la voglia di mettersi in gioco e la pazien-za necessaria per armonizzarsi con il resto del gruppo.

Ve lo consegniamo sperando che possa farvi trascor-rere qualche ora serena e piacevole, noi ci siamo moltodivertiti a scriverlo, immaginando ricette e personaggiimprobabili… Ci siamo spinti in là con la fantasia con-vinti, come Michel Houellebecq, che vivere senza leggereè pericoloso, ci si deve accontentare della vita, e questo com-porta notevoli rischi.

Buona lettura!

Silvia De Marchieditor e coordinatrice

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LA STAMPA

Torino 22 Maggio 2012 MISTERO IN CITTÀ

MORTO VITTORIO CHIARA, ECLETTICO CHEF MONDIALE

Trovato morto dalla sua colf, la signora Khalida E., lochef Vittorio “Titto” Chiara, colui che ha stravolto erinnovato le regole della cucina mondiale!

Ieri mattina è stato trovato morto nella sua camera daletto Titto Chiara. La sua colf, avendo visto l’auto diChiara regolarmente parcheggiata davanti l’abitazio-ne, è entrata, lo ha cercato e trovato nella camera daletto, il corpo stranamente accasciato a terra in posizio-ne fetale sopra un bellissimo tappeto bukhara.

Al momento non si conoscono le cause della morte,gli inquirenti brancolano nel buio, le informazioni chetrapelano dalla Questura fanno pensare che Chiaranon fosse da solo la sera precedente la mattina delritrovamento, sono stati trovati sul tavolo di cucinasegni della presenza di altre due persone anche se –pare - non ci siano prove schiaccianti; i RIS di Parmaindagano.

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Gli inquirenti aspettano fiduciosi l’autopsia del medi-co legale nominato prof. Augusto Ferrari.

Chiara è stato un pioniere! Il più conformista e con-temporaneamente il più anticonformista dietro ai for-nelli. Solo lui sapeva come presentare gli scialatielli aifrutti di mare e il Sambal indonesiano secondo la tradi-zione più rigorosa; ma sapeva anche sconvolgere ipalati, come quando presentò alla cena di Gala delFestival di Cannes le crocchette di caviale e cous couslaccate alla vaniglia e fragola.A ogni feroce critica non si sapeva mai come avrebbe

reagito, poteva rispondere con un silenzio imbaraz-zante tipico di chi ignora il suo interlocutore, o con ela-borate citazioni logorroiche che alla fine riuscivanosempre a zittire chi lo attaccava.Unico figlio di un tenente colonnello del 1° Reggimento

carabinieri paracadutisti “Tuscania” con sede a Livornoe di un’insegnante di asilo, nato e cresciuto a Lucca, lau-reatosi a pieni voti con lode a Pisa in IngegneriaAeronautica, invece di seguire le orme del padre avevapreferito trasferirsi a Torino e investire la sua vita sullagrande passione di sempre, la cucina, che grazie allazia paterna lo aveva affascinato fin da bambino.

Dopo due matrimoni – il primo nato troppo prestonelle aule del corso di analisi I, naufragato poco dopola laurea, e il secondo nato troppo tardi e finito alcuni

anni dopo, quando oramai Chiara era già famoso –viveva da solo in un loft nel centro di Porta Palazzo, ilquartiere multietnico di Torino.Molti i flirt, alcuni si vocifera, omosessuali. Si fanno i

nomi del suo ex personal trainer, ma anche di moltemodelle, attricette in cerca di fama e perfino una frut-tivendola del mercato dove lo chef regolarmente siriforniva, ma le persone a lui più vicine lo descrivonocome un uomo fragile e afflitto dalla solitudine, checome un’ombra nera era presente anche quando solonon era.Sicuramente scompare un grande che ha allargato i

confini della cucina, luogo dove è possibile tutto, untutto che solo pochi, pochissimi sapevano e saprannoesprimere; o lo si amava o lo si odiava, un uomo dallafaccia da bambino, tendenzialmente cupo e schivoamante della letteratura tutta e sempre pronto adascoltare il “diverso”, un uomo che odiava lo stupidoclassismo delle etichette.Titto ci mancherai, e mancherai soprattutto a chi pro-

prio non ti sopportava!

Il direttore del Centro Culturale Dar Al Hikma, l’archi-tetto egiziano Ahmed El Helwe, afferma che stava perconsegnare a Vittorio Chiara il premio per la MiglioreCucina Interculturale e Mediterranea 2012, e per que-sto ha deciso di trasformare la serata di premiazione inuna di commemorazione in suo onore.

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Gli invitati, accuratamente selezionati tra le conoscen-ze del defunto, dovranno portare un piatto da dedica-re al grande chef; tutti insieme condivideranno questepietanze nella cena finale.La cena è prevista per il solstizio d’estate, il 21 giugno

2012 alle 21,00 presso il Dar Al Hikma, il CentroCulturale Italo-Arabo della città di Torino.

Roberta Loggini

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LA STAMPATorino 21 giugno 2012

L’ENIGMATICA MORTE DELLO CHEF

PER RICORDARE VITTORIO CHIARA

Una cena presso il Centro Culturale Dar Al Hikmacelebra la figura di un grande artista dei fornelli

A distanza di un mese dalla sua scomparsa torniamoa parlare di Vittorio Chiara. Purtroppo le indagini nonhanno ancora fatto chiarezza sulla morte del noto chef.C’è il massimo riserbo da parte della magistratura.Sono state sentite dagli inquirenti decine di persone traparenti, amici e semplici conoscenti del rinomatocuoco torinese.Ma, a meno di futuri importanti sviluppi nelle inda-

gini, la sensazione è che la morte di Vittorio Chiara sia,per il momento, avvolta nel più fitto mistero.Puntuale all’impegno preso circa un mese fa, il diret-

tore del Centro Italo-Arabo, l’architetto egizianoAhmed El Helwe, ci conferma che stasera, in onore diVittorio Chiara e per commemorarne la popolare figu-ra nel mondo della cucina multietnica, si terrà un par-ticolare incontro fra le persone che nella vita gli sonostate più vicine.I partecipanti, accuratamente selezionati tra le cono-

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scenze del defunto, sono stati invitati a portare un piat-to da dedicare al grande chef e che al tempo stesso lorappresenti nel rapporto che ognuna di queste personeaveva con lui. Lo scopo della cena è ricordare Vittorio Chiara attra-

verso i racconti dei partecipanti che condivideranno lepietanze e i ricordi che li legano allo scomparso.La cena è prevista per le ore 21,00 presso il Dar Al

Hikma, il noto Centro Culturale Italo-Arabo della cittàdi Torino.

Francesca Chiurla

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Francesco Tuccillo, aiuto chef

di Maria Pia Capuano

Vittorio Chiara era uno chef torinese di grande famae io, suo assistente, napoletano doc con il gusto spa-smodico della sperimentazione, ne seguo onorevol-mente le tracce. Mi vanto persino di essere capace divalutare se la salatura dell’acqua della pasta è perfettasemplicemente annusandola. Mi faccio chiamare FranzHaas ma il mio vero nome è Francesco Tuccillo.Ho collaborato con Vittorio Chiara per una decina di

anni; noi due eravamo profondamente diversi sia performazione culturale (Chiara si era laureato a pienivoti con lode a Pisa in Ingegneria Aeronautica, mentreio ho finito a stento la scuola dell’obbligo), sia peresperienze di vita.Spinto dalla necessità di guadagnare ho cominciato a

fare il garzone presso i ristoranti del lungomare parte-nopeo. Vittorio aveva investito la sua vita sulla passio-ne di sempre, la cucina, anche se avrebbe potuto segui-re con tranquillità le orme paterne, mentre io, per esi-genze familiari, ho iniziato a fare l’aiutante di cucinacambiando una infinità di locali con padroni non sem-pre validi.

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Curioso per carattere, in ogni piatto sperimentavoqualcosa di nuovo e, per migliorarmi, ho girato moltecittà; col tempo, cucinare è diventata per me una pas-sione coinvolgente e irresistibile, così quando seppi,durante un mio soggiorno torinese, che il grande chefVittorio Chiara stava cercando un assistente, mi pre-sentai da lui munito solo delle mie mani, con un baga-glio di esperienze, però, che a soli trent’anni mi ha con-sentito di realizzare il sogno della mia vita.Eravamo una bella squadra: un cuoco napoletano e

un grande chef esperto di cucina internazionale,accoppiata decisamente insolita; la collaborazioneinfatti non è stata priva di scontri soprattutto per leforti differenze temperamentali, io solare e creativo,Vittorio uomo vero e senza filtri, schivo, taciturno, chescivolava spesso in depressione.La mia vita sentimentale è colorita e vivace, non sono

bello nel senso classico del termine, ma la simpatia, imodi, il mio sguardo intenso e arguto, continuano amietere molte vittime. I miei inviti a cena, grazie alcibo inteso e usato come strumento di seduzione ecomunicazione, si concludono puntualmente e ineso-rabilmente con il profumo della primavera, anche sefuori la temperatura segna parecchi gradi sottozero. Iluoghi dell’infanzia che non ho mai dimenticato, ivicoli della Napoli nei quali si diffondeva la fragranzaaranciata che da ragazzo mi riempiva cuore, mente epancia, mi hanno reso maestro nell’arte di preparare la

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pastiera, autentico rito che, negli anni, ha conservatotutta la sua magia.La mia fantasia napoletana spesso ha fatto a pugni

con il carattere cupo e schivo di Vittorio. Sulle sue ten-denze omosessuali o sui suoi flirt dopo i due matrimo-ni andati male, egli manteneva un riserbo assoluto.Spesso con il mio carattere generoso e appassionatoavrei voluto aprire una breccia nel castello dalle altemura che si era costruito; la rigidità del suo atteggia-mento però non concedeva un’intimità che andasseoltre il nostro impagabile connubio gastronomico. Homolto amato la sua casa, un loft in pieno centro a PortaPalazzo, il quartiere multietnico di Torino dove le voci,i colori, la mercanzia, i piccoli cortili affacciati sullestrade, mi riportavano alla mia infanzia, quando ibambini tornavano a casa dopo aver corso sudati econtenti. Con Chiara non si parlava di certe cose e adesso che è

stato trovato morto nella sua camera da letto, accascia-to a terra in posizione fetale, ripenso a quella volta incui assieme andammo a correre al Valentino doveall’improvviso si alzano le colline dell’omonimo parco,ed escono fuori come per una impertinenza, costeggia-te dalla strada per qualche chilometro. Mentre erava-mo in macchina, a un semaforo, entrambi ci voltammoa guardare le colline come se fossero un ricordo e nonuna cosa che sta lì a pochi metri, come si guarda unpezzo di infanzia con gli occhi chiusi allorché si sente

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l’odore di un tiglio o del mare, e così guardandolo pen-sai che ciascuno di noi ha molte facce e di volta in voltane mostra una. Ripensandoci adesso, fu proprio un belmomento, un bel momento come bella non fu la voltain cui lo incontrai a teatro con Hamed, un nordafrica-no che da ambulante era diventato venditore all’in-grosso; non so come si fossero conosciuti, so solo chenotai la sua aria spavalda e sfacciata, quasi da padro-ne, e mi venne da sorridere: tutto il contrario dello stileminimal che Chiara esigeva nel comportamento deisuoi collaboratori. Il suo abbigliamento, un look multi-colore, oltre che multistrato, evidenziava abbondanzadi soldi, non di buongusto. Quando fummo presentati,una fila di denti bianchissimi rivelò un che di felino,come il sorriso falso che accompagnò un lieve cennodel capo. Con il trascorrere dei giorni notai in Vittorioun netto cambiamento, i nervi a fior di pelle, telefona-te continue e concitate, perfino la notizia del premioche l’architetto egiziano Ahmed El Helwe, direttoredel Centro Culturale, stava per consegnargli, il premioper la Miglior Cucina Interculturale e Mediterranea2012, sembrava lo lasciasse indifferente, quasi la suamente, il suo sangue fossero assorbiti da qualcosa o daqualcuno che non gli lasciava più nessuna libertà dipensiero.Non riesco a togliermi dalla testa quello che accadde

una domenica mattina di qualche mese fa: nella suavita, sono sicuro così come sono certo di essere vivo, la

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cocaina non è mai entrata, eppure quella mattina, por-tandogli delle bollette, notai alcune bustine di polverebianca che Chiara si affrettò a far sparire nel cassettodella scrivania. Poco dopo bussarono alla porta dellostudio e Ahmed entrò in compagnia di due nordafrica-ni dall’aria equivoca, ci fu una discussione breve maconcitata e sentii Chiara dire: “È l’ultima volta checorro dei rischi per procurarti questa robaccia, vai via,sei diventato una palla al piede, un percorso di solasofferenza. Basta, ho detto basta e questa volta sarà persempre!”.Quelle parole mi fecero rabbrividire, e al ricordo rab-

brividisco ancora; adesso eccomi qui a preparare unpiatto che ti rappresenti, come se fosse facile rappre-sentare una leggenda vivente, un maestro della cucinainternazionale. Forse il modo migliore per rappresen-tarti è non tradire me stesso, non l’ho mai fatto in que-sti lunghi anni di collaborazione, non lo farò adesso.Sono emozionatissimo, preparerò un bel ragù, sì ci sipuò emozionare, sono sensazioni provocate dal piace-re della carne quando viene trattata con la pazienzainfinita di chi interpreta l’eredità di secoli di civiltà;l’orgoglio della mia storia e della mia identità mi spin-ge a preparare l’archetipo del ragù campano. Dopo aver rosolato la carne con cipolla appassita e

soffritta con olio, burro e sugna in un largo tegame dicoccio, aggiungo il vino rosso e lascio cuocere il tuttolentamente finché il vino non evapora. A questo punto

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verso nel tegame il pomodoro, rosso come la tua pas-sione per la cucina, caro Vittorio, e inizia così la lentis-sima cottura. Dopo circa tre ore, mescolando spessoaffinché non s’attacchi, aggiungo il basilico, un pizzicodi noce moscata, e il sale. Continuo la cottura.Il ragù richiama la virtù del fuoco lento, della pazien-

za umana, della sensibile dosatura dei gusti e deitempi. Alla fine il mio ragù assume un colore bruna-stro, come l’amore che ti ha accompagnato negli ultimimesi, una consistenza delicata come la tua sensibilità,oltre a un sapore inimitabile, proprio come la tua cuci-na, un patrimonio di gusto e di cultura, cultura intesanel senso più ampio della parola. All’improvviso un lampo: non posso preparare solo

un piatto napoletano sarebbe come tradire il binomiocucina locale-globale; devo contaminarlo con una ricet-ta asiatica, mi dico, ci vuole poco, me lo hai insegnatotu, il più classico e anticonformista tra i grandi, che civuole un poco di zenzero per trasformare la salsa dipomodoro in una esperienza esotica. Sciacquo il risosotto l’acqua corrente, lo scolo e lo cuocio a fuoco bassoper diciotto minuti, scaldo l’aceto di riso, sciolgo zuc-chero e sale, e bagno con questo composto. Il riso vamesso nel frattempo in un piatto largo, mentre io con-tinuo e tosto i semi di sesamo, lesso e taglio la barba-bietola, pesto il pepe nel mortaio, taglio a striscioline iltonno e lo rosolo nell’olio a fuoco vivo; affetto ilmango, rivesto uno stampo di plumcake con pellicola

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trasparente e faccio vari strati in quest’ordine: riso,sesamo, riso, barbabietole, riso, mango, riso, semi disesamo. Copro con un cartone e metto un peso perpressare, pongo il tutto nel frigo fino al momento direcarmi presso il Centro Culturale Italo-Arabo.

Ciao Vittorio, ti ho preparato un piatto tradizionale einnovativo come solo tu sapevi fare, sconvolgendo ipalati con la geniale bizzarria delle tue ricette, tenendoperò sempre presente che la tavola è anzitutto piacere,allegria, ed esplosione di profumi; la tua tavola asciut-ta, intrigante, garbatamente complessa lasciava sem-pre negli occhi dei commensali una superba visione.Mentre mi avvio verso il Centro, preceduto dai mieipiatti, penso a tutta la gente che arriverà per comme-morarti: amici, rivali, gente selezionata e con piatti pre-parati in tuo onore che ti faranno probabilmente rab-brividire. Chissà se verranno le tue ex mogli con piattiagrodolci come i vostri rapporti, ma non voglio pen-sarci, voglio pensare invece a chi poteva odiarti fino alpunto di desiderare la tua morte.I RIS di Parma ancora indagano, si aspetta l’autopsia

del medico legale; dal canto mio, io sono certo che latua morte non resterà, non potrà restare impunita. Homolti sospetti e ne parlerò agli inquirenti.Ciao Vittorio, uomo come tanti, chef come pochi, mi

mancherai, riposa finalmente in pace, vai e insegnaagli angeli a cucinare!

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Guglielmo Moretti, il migliore amico

di Adriana Virzì

No, stasera non voglio preparare alcun piatto perVittorio, non andrò nemmeno a una cena organizzatada chi, magari, lo voleva morto già da tempo e adesso,con la scusa di ricordarlo, organizza un macabro ban-chetto. Non voglio trovarmi gomito a gomito con il suo

assassino, con il rischio di riconoscerlo dall’espressio-ne di disgusto stampata sulla sua faccia, come quellasul volto di Erode davanti alla testa di Giovanni, servi-tagli su un vassoio.Ti onorerò in un altro modo, Vittorio. So che non me ne vorrai, sapevi bene che, in genera-

le, non ho mai apprezzato l’arte della cucina e che con-sidero tempo sprecato quello che le viene dedicato.Sono una persona semplice, al mio palato è sempre

bastato poco per essere soddisfatto: un piatto di spa-ghetti al sugo con basilico, una bistecca ai ferri coninsalata verde o una semplice caprese con mozzarelli-na di bufala.Come potevano piacermi le pietanze elaborate sfor-

nate dalla tua fantasia?

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Al solo guardarle pensavo che un quarto di porzionedi una di esse sarebbe stato in grado di fornirmi lecalorie necessarie per almeno dieci giorni.Conoscevamo entrambi i nostri punti di vista e, per

questo motivo, quando uscivamo insieme evitavamodi parlare di cucina. La profonda amicizia che ci lega-va non mi permetteva di prendermi burla, come avreivoluto, di un tema per te così importante da sempre.Mi presento, sono Gugliemo Moretti, nato e vissuto

ad Arezzo, nel cuore della mia bella Toscana; ho cono-sciuto Vittorio Chiara ormai tanti anni fa, alla mensadell’università di Pisa. Ero al secondo anno dellafacoltà di Ingegneria e per il pranzo e la cena, tutti igiorni, proprio a causa della mia riluttanza congenitaverso i fornelli, facevo pazientemente la fila per rag-giungere l’anelato tornello che dava il via libera allascelta dei “piatti del giorno”.Il menù era sempre lo stesso, rigatoni al sugo o al

burro, seguiva poi il secondo, arrosto o bollito con con-torno di insalata verde o patatine lessate e per comple-tare si finiva con una mela gialla, unico frutto disponi-bile in tutte le stagioni.In una di quelle circostanze conobbi Vittorio. Era accompagnato da un cane di grossa taglia, che

tentò di nascondere sotto al tavolino che avevo occu-pato. Il contatto tra le mie gambe e l’animale provocòil rovesciamento della bottiglia d’acqua sui miei rigato-ni al sugo e sulla sua bistecca ai ferri. Il cane, infatti, al

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primo tentativo di trovare la posizione ottimale nellospazio angusto che gli era stato assegnato, sollevò iltavolino sulla sua schiena, facendolo ricadere subitodopo. Rivolsi a Vittorio uno sguardo feroce ed elo-quente, che valeva più di mille parole.Egli non si scompose. Diede la bistecca sgocciolante al

cane, che la divorò in un sol boccone e con un mezzosorriso mi chiese scusa per quanto aveva causato. “Eh no” dissi “troppo facile! E ora, mangio la pasta in

brodo? No, no adesso ritorni fuori, leghi per bene il tuocane e rifai la fila mentre io aspetto qui. Vanno beneanche i rigatoni al burro!”.Mi rispose se mi andava di mangiare a casa sua, abi-

tava nei pressi di piazza dei Miracoli, non distante dadove ci trovavamo.Questa soluzione stemperò gli animi di entrambi e,

durante il tragitto allungato di molto per seguire leperipezie del suo cane che andava ora in una direzio-ne ora nell’altra, chiacchierammo molto; l’empatianaturale e il fatto di essere entrambi studenti diIngegneria rese più facile la nostra conversazione.Vittorio viveva da solo in un bilocale di recente

costruzione, arredato in modo molto eccentrico.Erano pochi i ragazzi universitari che potevano per-

mettersi una simile sistemazione, dunque lo etichettaisubito come un ragazzo facoltoso, in grado di soddi-sfare i capricci suoi, e anche del suo cane. I mobili della casa, in stile etnico, erano appoggiati

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alle pareti tinteggiate con toni vivaci; dal rosso all’a-rancio sino al giallo, senza linee di discontinuità. Unenorme batik raffigurante quattro farfalle gialle occu-pava l’unica parete libera da mobili di una delle duestanze del bilocale. Nella casa mancava “l’odore tipico dell’Arno”, così

chiamavamo noi studenti fuori sede la puzza di muffapresente in quasi tutte le nostre case.La mia attenzione, rapita dal portacandele a forma di

tartaruga, fu distolta dalla vista della cucina. Vittorioaprì la porta a soffietto che lasciava intravedere il suolaboratorio culinario… Il disordine che in esso regnavasi scontrava con l’ordine presente nella restante partedella casa. Ovunque bottigliette e barattoli. Non vi era però alcu-

na pentola lasciata sporca. Vittorio aprì la dispensaposta in alto, sopra il piano cottura, tirò fuori dellepenne, poi la richiuse.

Guardai meravigliato l’interno della dispensa, c’erauna quantità di prodotti incredibile. Era una dispensadiversa dalla mia, dove al massimo avresti trovatomezzo litro di olio, un chilo di pasta e mezzo di zuc-chero.Quella sera gustai delle ottime penne con piselli e

tonno che Vittorio preparò per scusarsi di quanto eraaccaduto in mensa.E io cosa posso preparare per te, Vittorio? Come

posso superare questa inerzia che mi blocca? Devo,

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devo in forza di quest’amicizia, prepararti un piattospeciale.Nessun altro omaggio ti renderebbe felice! Ci proverò, certamente preparerò un piatto freddo…

spaghetti al limone per esempio, un piatto molto sem-plice.

Quando ci conoscemmo, Vittorio e io frequentavamoil secondo semestre di ingegneria - ingegneria mecca-nica io, aeronautica lui; le materie dei due corsi eranole stesse, essendo comune il biennio dei due indirizzi.

Quel fatidico giorno dell’incontro l’argomento pro-fessori e materie riempì interamente il tempo trascorsoinsieme. Così venimmo a conoscenza del fatto cheentrambi stavamo preparando analisi matematica II,zoccolo duro del biennio. Ci scambiammo i numeri ditelefono, concordammo così di risentirci per ripetereinsieme qualcosa di analisi; a volte la condivisioneaiuta quantomeno a rendere tutto meno noioso.Decidemmo di studiare la serie di Taylor. Ricordo

lucidamente quel mattino di luglio di trent’anni fa,mentre in vista dell’imminente esame di analisi II cer-cavamo di sviscerare invano i buchi neri del famosoteorema. Erano le dieci del mattino e stavamo studian-do già da due ore. D’un tratto, come rapito dall’estasi,Vittorio si alzò dalla sedia dicendomi di dover andarein cucina per preparare gli gnocchetti con funghi e gor-gonzola.

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“Guglielmo” mi disse “vedrai che dopo aver soddi-sfatto il nostro palato, le idee di Taylor diventerannoanche le nostre!”. Detto questo si diresse in cucinasenza aspettare la mia approvazione.Pensai che fosse pazzo, l’afferrai per un braccio ricor-

dandogli che a quell’ora i comuni mortali al massimofanno uno spuntino o sorseggiano un caffè.Ci facemmo una bella risata liberatoria, a sciogliere la

tensione che avevamo accumulato nelle due ore prece-denti. Accettai la sua proposta pregandolo di rispar-miare il mio piatto dal previsto gorgonzola. Solo oggi mi spiego perché, in quel contesto fatto di

serie e derivate, nella sua mente fossero balenatiimprovvisamente gli gnocchetti!

Dopo la laurea ho trovato subito lavoro nel campodella mia specializzazione all’Ansaldo di Genova, cittàdove continuo a vivere da allora con mia moglie e lemie due figlie Giulia e Serena, di venti e sedici anni.Oggi sono ancora manager di quell’azienda alla guidadi un gruppo specialistico che studia la resistenza deimateriali alternativi all’acciaio. Pur proseguendo io e Vittorio su strade diverse, la

nostra amicizia ha continuato verso la stessa direzionedi silente crescita.Eravamo entrambi affermati e per questo capitava di

non vederci anche per mesi eppure, quando ci incon-travamo, era come se questi vuoti non ci fossero maistati.

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Abbiamo condiviso molti momenti importanti dellanostra vita.La nostra amicizia era vera, Vittorio! Come può basta-

re un piatto di spaghetti al limone a rappresentarequello che sei stato, quello che sei ancora per me?

Quando è morto mio padre, per esempio, Vittorio sitrovava a Parigi per una delle tante manifestazioni chelo vedevano protagonista.Me lo ritrovai sotto casa il giorno dopo, giusto in

tempo per poter piangere sulla sua spalla prima delfunerale di mio padre.

E quando sei stato abbandonato dalla tua primamoglie? Hai suonato al citofono chiedendomi se avevoun posto dove dormire. Ti invitai a salire ma ti rifiuta-sti perché non volevi essere causa di questioni con lamia di moglie. Sapevi che aveva paura della nostraamicizia, che potessi “contaminarmi” con le tue stranescelte. Mi dispiace che non abbia mai avuto modo diconoscerti veramente.Sono le sei del mattino, mia moglie dorme ancora,

devo fare presto a preparare questo piatto. Vogliogiungere puntuale a Torino per partecipare alla ceri-monia che ti hanno dedicato.Apro la pagina di google e scrivo “spaghetti al limo-

ne” e tra le tante ricette restituite dal web scelgo la piùsemplice.

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Non è difficile lavare, tagliare finemente e togliere isemi da quattro limoni, né tantomeno portare a ebolli-zione l’acqua salata necessaria a cuocere gli spaghetti.Non serve neanche una laurea per mettere sul fuoco

la casseruola per riscaldare mezzo bicchiere di olio nelquale immergere i limoni appena tagliati.

È fatta. Vittorio che ne dici? L’avresti mai immagina-to che il tuo amico Guglielmo sarebbe stato capace diquesto?Il tuo lavoro ti ha permesso di tessere vere e proprie

ragnatele di rapporti con gli individui più disparati,ma rimaneva comunque il cibo il collante di tali rela-zioni.Pochi sono stati capaci di vedere che dietro quel cap-

pello bianco da cuoco c’era una persona dal cuore gen-tile, di capire che anche la preparazione del più sempli-ce dei piatti sarebbe stata impossibile senza le tuedirettive. Senza le parole che solo uscendo dalla tuabocca mantenevano la loro aura di magniloquenza,perché legate al tuo spirito, alla tua passione. Nullasarà più come prima.I tuoi spaghetti sono pronti, Vittorio. Li guarnisco con

delle foglie di prezzemolo freschissimo.Poi prendo del miele, sì del miele, da cospargere sugli

spaghetti.Così al primo assaggio distinguerò tra i presenti quel-

li che ti hanno voluto male da quelli che ti hanno volu-

30 Otto ricette per un delitto

to bene, solo osservando le loro espressioni, perché illimone dei tuoi spaghetti brucerà la bocca e l’animo deiprimi e il miele allevierà il dolore dei secondi.Ecco, questa strana accoppiata di acre e dolce, che ti

offrirò stasera, mi servirà a renderti giustizia.Sono le otto, mia moglie si è appena alzata. Io ho già

rimesso tutto a posto. Affondo il cucchiaio nel miele e lo porto alla mia

bocca, prima di salutarla e partire in direzione diTorino.

31Un thriller gastronomico

Pietro Rossi, critico gastronomico

di Michele Ciardi

Capita che la vita non sia giusta talvolta, spesso anzi la sipuò definire terribile! Questo pensai alla notizia dellascomparsa del grande chef Vittorio Chiara trovatomorto a casa dalla propria colf, giunta presso l’abita-zione per fare le pulizie. Che beffa del destino morirepochi giorni prima di ricevere il premio per la MiglioreCucina Interculturale e Mediterranea 2012. Un ricono-scimento che intendeva innanzitutto premiare il suoanticonformismo in cucina, che lo portò a prepararedei piatti originali ma un tantino eccessivi, per me cri-tico gastronomico dai gusti forse un po’ più tradiziona-li.Ricordo ancora una cena in onore di una nota attrice

nel suo locale torinese durante la quale, alla luce del-l’indubbio legame fra festa, sacro, e cibo Chiara avevariunito a tavola tutte le pietanze legate alle maggioriricorrenze festive di un intero anno, partendo dall’in-grediente principe della cucina italiana: la pasta, pre-parata in molteplici modi; da quelli più fieramente tra-dizionali, ad altri per me troppo creativi ed esotici.Brodi, fondi, vinaigrette, burro bianco e salse vere eproprie, dolci e salate. E poi marinate, coulis, guazzet-

33Un thriller gastronomico

ti, con un mix di aromi, erbe e spezie. Costolette diagnello in crosta di pistacchi con crema di piselli,coscia d’anatra con zucchero e agrumi, formaggicosparsi di paprika e arricchiti dalle verdure; insommaun modo di intendere la tavola per me troppo audace!

Ricordo che in quell’occasione avemmo un vivacescontro, criticai le sue stravaganze culinarie pur rico-noscendo il suo grande talento. Alle critiche, a tutte lecritiche che nel corso degli anni gli avevo mosso,Chiara aveva reagito all’inizio con un silenzio beffar-do, in seguito limitandosi a rispondere che le sue cene,checché ne pensassero i critici legati alla tradizione,erano magiche come magico era egli stesso. Come tuttidovevano riconoscere, Chiara, uomo di grande talentoe gusto, applicava i concetti di eccellenza a tutto ciòche sceglieva nella vita, figuriamoci nell’arte dellacucina in cui era maestro. Perfino il pepe - ci teneva asottolinearlo - andava a sceglierlo nel Kerata, uno statodell’India del Sud famoso per la spezia. “In genere lagente consuma il pepe”, disse l’ultima volta, “senzasapere che, se non viene dal Kerata, non è di grandequalità”. Io tentai di spiegargli che non contestavo laqualità del prodotto, ma l’uso troppo originale che nefaceva. La mia antica antipatia nei suoi riguardi, frutto di un

modo diverso di intendere le delizie della cucina, nonscalfiva la mia ammirazione per un maestro capace di

34 Otto ricette per un delitto

accontentare i palati più esigenti, anche se con speri-mentazioni troppo personali: in ogni caso, per me,restava un grande nella sua arte.E adesso questa morte così assurda. Il suo corpo

riverso sul tappeto bukhara, in posizione fetale, quasia volersi difendere. Da alcune indiscrezioni avute diprima mano dalla Procura, pare che lo chef sia mortoper shock anafilattico. Ancora non si hanno informa-zioni precise, gli inquirenti pare abbiano scoperto chela sera precedente Chiara non fosse solo, sul tavolo dacucina sono stati trovati segni della presenza di altredue persone, ho letto che i RIS di Parma continuano aindagare.

E ora io, Pietro Rossi, critico gastronomico severo einflessibile, dovrei preparare un piatto per commemo-rarlo. Caro Vittorio, mi tremano le mani, ma voglioessere coerente con la mia linea di condotta e onorarequello che è stato il nostro rapporto; perciò prepareròun piatto a base di carciofi. Il ruvido carciofo dal cuoretenero ma spinoso, così come spinosa è stata la nostraamicizia, ti commemorerà egregiamente. I carciofi inumido al profumo di limoni, così come tutti i piatti abase di verdure, sono il vero cuore della cucina tradi-zionale (mi hai sempre rimproverato di esserlo trop-po). Stasera in tuo onore però, farò un uso accorto diaromi e spezie, voglio arricchire questo piatto con unripieno di carne macinata aggiungendo aglio, sale e

35Un thriller gastronomico

pepe (scusami, non è quello del Kerata), pangrattato,uova e formaggio. Dispongo i cuori di carciofo ben cotti in una pirofila

unta di olio, allargo le foglie e li farcisco con il compo-sto di carne, cuocio tutto al forno a 180°, e alla finecospargo di parmigiano e olio; è un ghiotto piatto,unico, tutto da provare.Caro Vittorio, sai che il carciofo, il cui nome in greco

arcaico è ”Cynara” fa la sua prima comparsa letterarianella mitologia degli antichi Greci, dove la bellissimaninfa Cynara, dotata di carattere spinoso ma di cuoretenero, viene trasformata da Zeus in una verdura dallestesse caratteristiche?Adesso non ti arrabbiare, ma non ho trovato modo

migliore per ricordare te, uomo dal carattere non faci-le ma dal cuore grande. Diceva Nina, la presenza fem-minile più importante della mia prima giovinezza, chel’amore è mangiare la stessa foglia di carciofo in due.C’è intimità nelle sue parole, sarà per questo che amopreparare piatti con questo ingrediente. Nina è statauna delle donne più intelligenti che abbia conosciuto:generosa, passionale, libera. Di professione modella,richiestissima dai pittori, aveva occhi grandi e allunga-ti, zigomi alti e sporgenti, era un po’ chic e un po’casual, un mix di mistero e capacità di sorprendere. Ciamavamo molto e sull’onda del successo di entrambipensammo seriamente al matrimonio. Dovemmo ritar-darlo perché Nina si ammalò e cominciò così il calva-

36 Otto ricette per un delitto

rio delle sale operatorie, delle diagnosi a lei tenutenascoste, delle strazianti degenze in ospedale. Poi ci fula stagione del lutto, Nina morì il quattordici dicembre,da quel momento le festività natalizie mi procuranouna dolce malinconia. Chissà perché la preparazione di questo piatto che

deve rappresentarti ha aperto una finestra sul mio pas-sato, su una parte della mia vita. Forse perché noisiamo fatti anche delle nostre esperienze passate comedelle nostre speranze per il futuro. So che il futuro perte, Vittorio, consisteva anche nel desiderio di avere unfiglio con la tua prima moglie, desiderio che svanìquando gli esami clinici accertarono la tua sterilità. Hosempre pensato che la passione per i tuoi piatti espri-messe una voglia di creazione che non ti era stato pos-sibile soddisfare in altro modo. Il secondo matrimonioandato male, le velenose insinuazioni sulla tua vita pri-vata ti avevano reso estremamente riservato. La neces-sità di controllare tutto, dalla semplice fogliolina diprezzemolo alla spezia più introvabile, nasceva dallatua fragilità, dal tuo bisogno di dominare il mondo, dicapirlo. Credo che il tuo grande problema sia stato quello di

non corrispondere alle aspettative di tuo padre, uomorigoroso e tutto d’un pezzo, per il quale il lavoro dachef poteva essere solo da femmine o da froci. La tua fuuna scelta difficile e sofferta, e così la cucina diventòenergia creatrice, cultura e visione del mondo.

37Un thriller gastronomico

Hai identificato il cibo con l’amore, prediligendo pie-tanze che richiedono tempo e lavoro. Risotti, pasteripiene che richiamano il calore del sole: il tuo fare èsempre stato raffinato e alla ricerca di un equilibrio tracolori, forme e sapori. Nelle tue mani ogni cibo èdiventato arte, e i piatti a sorpresa ti intrigavano comeil mistero. Ti ho sempre detto: “Va bene sperimentare,ma cerca di non dimenticare le regole dei nonni”. Avolte esageravi, proprio perché amavi provare e farprovare sapori diversi, stupire i palati con accostamen-ti inediti, prediligendo i cibi piccanti capaci di riscalda-re perfino i cuori più freddi. Hai mescolato cibo eamore, chissà, forse ispirandoti a Eva, la prima donna,che tentò Adamo con una mela, scoprendo così quan-to le relazioni amorose siano legate al cibo. Le tue ricette erano un’autentica festa dei sensi e del-

l’amore, sentimento questo che non sempre haaccompagnato in maniera tranquilla e duratura la tuavita. La tua morte poi, inaccettabile e imprevista, miha riempito di tristezza, ho molti dubbi, resta forte lavoglia di capire. Ciao Vittorio, il piatto che ho preparato in tuo onore

non so se ti possa veramente rappresentare, ma è ilsolo modo che mi rimane per raccontarti, per ricor-darti; un ricordo può avere odore, spessore, dolcezza,può dare una sensazione di pienezza, di qualcosa dicostruito, proprio come una delle tue leggendariericette.

38 Otto ricette per un delitto

Chissà che ne diresti di me ai fornelli, non vorrei maiesser valutato e criticato da te. Riposa in pace caro Titto!

P.S. Certi giudizi impietosi però, molte volte, eranogiusti!

39Un thriller gastronomico

Giulia Maiello, signora torinese

di Vittoria Maraniello

Mi chiamo Giulia Maiello e vengo da Napoli; risiedoa singhiozzo a Torino perché ho una storia con Max,torinese puro. La nostra relazione dura da moltissimianni (forse perché è un tantino alternativa?), ma anco-ra non mi convinco del tutto a trasferirmi nel capoluo-go piemontese. A Torino, però, ci vengo spesso; ho un piccolo appar-

tamento nel centro storico e vivo questa città come lamia seconda casa. Adoro i suoi portici lunghi e cupi,che mi riparano dalla pioggia del lungo inverno, i suoinegozi elegantissimi che hanno conservato il vecchiostile sabaudo e la vitalità dei suoi abitanti, la culturache vi si respira. Il mio piccolo appartamento affaccia su Piazza

Carlina (così i torinesi chiamano Piazza Carlo III, acausa della discussa virilità del noto sabaudo) e ha unabellissima finestra dalla quale posso vedere la collina. In casa trascorro molte ore, alcune delle quali dedica-

te al mio hobby preferito, preparare dolci, anche se nondisdegno di cimentarmi nella preparazione di tutte lealtre pietanze. Cucinare mi diverte e mi rilassa. Mipiace anche stare in poltrona a leggere o alla finestra a

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godere della splendida vista. Insomma, non sono unochef con tutti i crismi come Vittorio Chiara, ma ancheio ci provo, e spesso con successo.Una sera Max, una buona forchetta che di lavoro fa il

libraio, volle schiodarmi da casa proponendomi unaserata a sorpresa.Mai avrei pensato di varcare la soglia di un ristorante

arabo, meno che mai in Italia, un ristorante che evoca-va in me sensi di sgomento gastronomico. Nei miei viaggi sono sempre stata molto chiusa verso

i gusti e i sapori stranieri, in particolare verso quelliorientali, così ricchi di spezie; le basi sono sempre fine-mente triturate tanto da non farti capire cosa staimasticando. Ecco, ora me ne vergogno, ma sì, sino apoco tempo fa pensavo che la cucina italiana fossa lasola davvero sana e gustosa.Questa mia diffidenza mi imponeva, ogni volta che

mi trovavo in paesi stranieri, di rifocillarmi abbondan-temente in hotel, a colazione (che per noi italiani èquella del mattino). Riuscivo a rimediare pietanze“nostrane” quali latte, marmellata, fette biscottate,frutta, cibi appartenenti alle nostre semplici tradizioni.Questa pratica mi consentiva, all’occorrenza, di saltareanche pranzo e cena, se nel corso della giornata nonavessi avuto modo di convincere il ristoratore di turnoa prepararmi delle uova fritte o una bistecca di manzoai ferri.

42 Otto ricette per un delitto

Ma quella sera la tenacia di Max, mio storico amico“intimo”, aveva vinto sulla mia ostinazione e a nienteerano valse le proteste, men che meno le propostealternative, anche ammiccanti, di cene a lume di can-dela a casa mia; la resistenza delle mie gambe avevadovuto soccombere alla dolce fermezza della spinta(fisica) di Max, secondo il quale sarei rimasta affascina-ta dal posto e dai suoi frequentatori. Così fu. Quel ristorante dall’architettura così insolita, dagli

arredi fedelmente orientali, dall’aria accogliente,divenne per me un rifugio nel quale, oltre alla bontàdei cibi, trovavo la familiarità e la cordialità dei fre-quentatori abituali. Una volta lì era come trovarsi infamiglia. Unica nota negativa era proprio lo chef,Vittorio Chiara detto “Titto”, cuoco di grande fama,ma anche di enorme antipatia. Un uomo la cui scontrosità mal celava una grande

presunzione. Aveva sempre stampata in faccia un’e-spressione di superiorità e distacco; quando la conver-sazione verteva sulle pietanze era la fine: la sua boriasuperava ogni limite per la mia sopportazione. Inrealtà aveva fama di grande chef ma questa non eracerto la scusa per sentirsi il migliore al mondo. Mi eradecisamente antipatico. I frequentatori abituali, invece,erano persone semplici e amabili, e con loro si stabilìun rapporto di piacevole frequentazione.In quel periodo, prossimo alle festività pasquali, cia-

scuno dei presenti volle condividere una serata specia-

43Un thriller gastronomico

le, mettere su una cena evento dove ognuno del grup-po doveva creare una ricetta del menù tradizionale peril pranzo di Pasqua. Anch’io, presa dall’idea, raccontai subito della nobile

tradizione napoletana e, quando arrivammo a parlaredei dolci e feci il nome della pastiera, si verificò qual-cosa di simile a una magia e l’interesse di tutti si con-centrò sulle mie parole. Evidentemente i piemontesinon assaggiano spesso una pastiera fatta come si deve.Attraverso i gesti e le espressioni del mio viso cerca-

vo di trasmettere i profumi e i sapori della mia città.Dopo l’estasi, frutto dell’immaginazione indotta dalle

mie parole, mi strapparono l’impegno di preparare perloro una pastiera e mi chiesero anche la ricetta.

“Questa”, dissi, “ve la do adesso. Prendete carta epenna e scrivete…”Ingredienti per la pasta frolla:gr 500 di farinagr 200 di zucchero2 tuorli d’uovogr 100 di burrogr 100 di struttogr 100 di latteVanillinaIngredienti per l’impasto:gr 500 di ricottagr 400/500 di zuccherogr 500 di grano

44 Otto ricette per un delitto

5 uova intere + 2 tuorliCannellaFior d’arancioFrutta candita

La pastiera è un’arte che richiede tempo, e per prepa-rare la pasta frolla si inizia la sera prima.Versate la farina a fontana. Su di essa spezzettate con

le mani il burro e lo strutto che avrete tenuto a tempe-ratura ambiente. Al centro versate uova, zucchero elatte. Lavorate l’impasto abbastanza velocemente finoa ottenere un impasto omogeneo. Avvolgete in cartada forno e conservate in frigorifero per una notte.Preparazione della crema di grano: versate il grano

precotto in una pentola con aggiunta di 100 gr di latte,30 gr di strutto, la buccia di un limone e fatelo cuocerefinché non diventi crema, all’incirca per 30 minuti.Per preparare poi la crema di ricotta ponetela in una

ciotola e versate sopra lo zucchero, coprite la ciotolacon carta pellicola e tenetela in frigo per una notte.La seconda fase del dolce si farà il mattino successivo.

Si inizia col frullare la ricotta alla quale vanno aggiun-te le uova, una bustina di vanillina, una fiala di essen-za di acqua di fior d’arancio e un pizzico di cannella.Bisogna poi lavorare il tutto fino a ottenere una cremasoffice e omogenea, far scivolare dolcemente nell’im-pasto la frutta candita e una buccia di limone biologi-co tagliata molto sottilmente. Aggiungete il grano eamalgamate il tutto.

45Un thriller gastronomico

Rivestite con la pasta frolla una teglia del diametro di26/28 centimetri, versatevi dentro il composto e rico-prite il dolce con strisce di pastafrolla formando conesse dei rombi.Infornate a temperatura moderata (160°/170°) per

un’ora, fino a che il dolce non avrà assunto un coloreambrato. Poi spegnete e lasciate che si rassodi.

Dopo che gli amici ebbero preso nota di tutti gli ingre-dienti e le indicazioni per la preparazione del dolce, silevò un fitto vociare da cui trapelò il timore di testarela loro capacità nella preparazione del dolce che io,scherzosamente ma anche provocatoriamente, avevodefinito “il più buono del mondo”. Allora suggerii diaspettare il giorno della premiazione (poi divenuta,purtroppo, di commemorazione per Vittorio Chiara) edi assaggiare la pastiera che avrei preparato io stessaper l’occasione rimandando a dopo giudizi e iniziative.

Lo confesso, ho anch’io la mia buona dose di presun-zione. Una volta avevo già dato prova della mia capa-cità di buona pasticciera in occasione del compleannodi Max, offrendo agli invitati, a fine serata, delizie allimone e caprese, dolci tipici della costiera amalfitana,che avevo preparato e sistemato con cura in un grandevassoio in ceramica bianca. Amo Torino, qui l’apertu-ra e l’accoglienza sono consolidate – essa è infatti laprima città d’Italia per livello di integrazione etnica –

46 Otto ricette per un delitto

sembra impossibile che proprio qui, in passato, esistes-se un razzismo forte nei confronti degli stessi italianidel Sud. Questa apparente intolleranza però, non hamai impedito a torinesi, milanesi, veneti di apprezzarele nostre pietanze che hanno il sole dentro, quasi fosseun ingrediente indispensabile, quel sole che dalle loroparti è un po’ assente (lo dico con orgoglio parteno-peo!).Anche quella volta mi chiesero la ricetta della mia

caprese e ogni muscolo di Vittorio Chiara si irrigidì. Sitrasformò in una statua impenetrabile. Chissà se si sen-tiva sfidato o addirittura messo in discussione…In realtà mi rendevo conto che anch’io, per la recipro-

cità tipica di questo sentimento, ero antipatica aVittorio, e ciò faceva nascere in me una gran voglia disfidarlo a colpi di pietanze.

Ora eccomi qui, nel mio appartamento a PiazzaCarlina, a preparare il mio dolce preferito, che non saràsottoposto, come avrei voluto, all’esame del noto cheftorinese (che poi tanto torinese non era, dato che si dicefosse nato a Lucca), certa di ottenere un giudizio posi-tivo, ma che contribuirà al buffet della sua commemo-razione. Il direttore del Centro Culturale, il professor Ahmed

El Helwe, ha infatti voluto trasformare la serata di pre-miazione di Vittorio Chiara, in una serata di comme-morazione.

47Un thriller gastronomico

E pertanto non potrò mai più sfidarlo. Vittorio Chiaraè morto e io mi ritrovo a preparare la pastiera che saràofferta, insieme ad altre pietanze, in onore di una per-sona defunta prematuramente e misteriosamente. Certo la notizia è piombata come un fulmine a ciel

sereno. Antipatico, mi era proprio antipatico, e chi sa aquanti altri suscitava lo stesso sentimento. Ma da qui asaperlo morto… tutto sommato mi provoca un certosenso di disagio!

La mia immaginazione vola tra tante ipotesi: saràmorto prematuramente per qualche anomalia congeni-ta oppure è stato ucciso da qualcuno dei suoi collabo-ratori, trattati sempre con arroganza e distacco? Ma no,non si uccide per questo; da un marito tradito? Avevaanche fama di essere donnaiolo.Oppure da qualche fidanzata gelosa, già si sentivano

strane voci di lui con il suo personal trainer; chissàmagari era invischiato in giri malavitosi internaziona-li, viaggiava sempre molto, che sia stato ucciso pervendetta? Tutto può essere e io potrei venire a cono-scenza di ulteriori notizie, si sa la curiosità è donna, eanche grazie al confronto con gli altri amici, che unpochino pettegoli lo sono, formulerò presto un’ipotesipiù attendibile.

48 Otto ricette per un delitto

Sara D’Ambrosio, la tirocinante

di Leonarda Barraco

Alterno momenti di tristezza e rabbia mentre la miamano destra prepara, come per magia, i granellini disemola mista ad acqua, particelle di quel cous cous chestasera dedicherò a te, mio maestro.Prima che ti conoscessi preparare il cous cous mi face-

va pensare al gesto di un bambino che scava nella sab-bia fino a trovare l’acqua del mare. L’avevo ricostruitocatturando con attenzione ogni movimento di miamadre esperta, come tutte le donne trapanesi, nellapreparazione di questo piatto. Fotogramma per fotogramma avevo impresso quei

gesti nella mia memoria di bambina e da questa li horipescati quando, poco più che ventenne, ho dovutofare il primo bilancio della mia vita. Sono siciliana, nata a Rilievo, una frazione del trapa-

nese. Il mio nome di battesimo è Rosaria, ma tutti quel-li che mi hanno vista nascere mi hanno sempre chia-mata Sara.Ero tutta casa, scuola e chiesa, così si definisce dalle

mie parti una ragazza con la testa sulle spalle, giudiziorimasto valido fino al giorno in cui la sola forza delcuore mi ha spinto ad abbandonare la mia famiglia e lamia terra per raggiungere il mio principe azzurro a

49Un thriller gastronomico

Torino. Avevo appena completato il quarto liceo men-tre Lucio, affermato commercialista di dieci anni piùgrande di me, si prese subito cura della mia persona alpari di come si fa, i primi giorni, con un cucciolo dicagnolino tanto desiderato. Non dovevo preoccuparmi di nulla, il mio lui avreb-

be pensato a tutti miei bisogni. Così, ignara del fattoche dividesse la sua vita anche con la moglie, continuaia vivere i due anni seguenti in quell’attico che avevapreso in affitto per farne il nostro nido d’amore, fino algiorno in cui, dopo avermi detto come stavano le cose,sparì definitivamente dalla mia vita lasciandomi dasola e senza un quattrino.Nonostante la desolazione del momento e l’ossidazio-

ne del mio cervello, fermo da mesi, non mi mancò lalucidità di pensare di aver avuto un pizzico di fortuna,non ero stata abbandonata alla fine del mese! Avreipotuto disporre ancora per quindici giorni, e solo perquesta casualità, di quell’attico in via San Francescod’Assisi. Poi la padrona di casa mi avrebbe mandatavia e l’alternativa, seppur contro ogni mio desiderio,sarebbe stata quella di ritornare alla casa natale. E io questo non lo volevo.Avrei provato vergogna a guardare negli occhi mio

padre, dopo la scelta definitiva che avevo fatto. Loconoscevo bene e sapevo che sarebbe stata un’ulterio-re sofferenza per lui, dover giustificare a tutti i parentiil ritorno a casa della figlia sconfitta e raggirata.

50 Otto ricette per un delitto

Per quanto di ampie vedute, non aveva digerito ilfatto che la sua unica figlia avesse abbandonato lascuola per scappare come una ladra nel cuore dellanotte con uomo che poteva essere suo padre. E poi dalle vetrate dell’attico avevo imparato ad

amare Torino e la sua gente.Torino mi piaceva in primavera quando l’aria era

carica dei fiocchi bianchi dei pioppi che volteggiavanocome farfalle, rendendo meno tristi le mie giornate disolitudine. E mi piaceva d’inverno quando l’unico colore diverso

dal bianco era quello delle punte dei comignoli fuman-ti delle case.Pensai che, se mi fossi impegnata a fondo, quindici

giorni sarebbero stati sufficienti per trovare un lavoro.Ma da dove cominciare? Come? Non conoscevo le lin-gue, non sapevo fare la segretaria, non avevo i numeriper dare lezioni private, non sapevo badare ad anzianio bambini. Lo specchio, senza l’ombra di Lucio, mirestituiva l’immagine di un pezzo di marmo al qualedare forma e anima.Per liberare la mia mente dai pensieri confusi, che mi

allontanavano dalla soluzione, scelsi di uscire in stra-da. Pochi passi e i miei neri occhi scorsero un annunciopenzolante sulla porta a vetri di un negozio di generialimentari “Cercasi aiuto cuoco”, a seguire, con carat-teri più piccoli “Centro Culturale Italo–Arabo Dar AlHikma”. Avevo sentito parlare di questo posto ed ero

51Un thriller gastronomico

consapevole del fatto che, anche in campo culinario,non avevo cartucce a disposizione. Tuttavia associaialla figura del cuoco quella di mia madre. Tante volte,affascinata, l’avevo guardata mentre preparava il couscous trapanese.Interpretai questa visione come il segno del destino,

della buona sorte. Arrivai a destinazione dopo circadieci minuti di passeggiata veloce. Entrai di colpo,come se fossi stata appena inseguita da un cane e senzaprendere respiro mi presentai all’unica persona chestava nella sala del locale, dando per scontato che nefosse il gestore. Aggrappandomi con forza all’immagi-ne di mia madre nel rito preparatorio del cous cous,feci riferimento all’annuncio e, sotto la spinta delladisperazione, dichiarai, mentendo spudoratamente, diessere esperta nella preparazione del cous cous dipesce, tipico piatto che tutte le donne del mio paesecucinano per la festa di sant’Alberto, il santo patrono.Per fortuna solo successivamente seppi che l’uomo

che mi ero trovata davanti era il signor Vittorio Chiara,il mio maestro, lo chef, conosciuto in tutto il mondo,osannato da alcuni e crocifisso da altri. Forse solo ionon ne conoscevo ancora la grande fama.Guardandomi con molta attenzione mi disse solo di

ritornare il giorno seguente per una verifica pratica.Ne dedussi che l’idea del cous cous di pesce aveva fun-zionato.

52 Otto ricette per un delitto

L’indomani trovai quanto occorreva per la mia provacous cous sul piano di lavoro della cucina, una peniso-la di circa tre metri per quattro, unico elemento diviso-rio degli spazi sala-cucina. Nella mia area di lavorotrovavano posto un sacco di tela aperto, contenentecirca due chili di semola, una brocca piena d’acqua,una di olio e la mafaradda, la grande ciotola svasata diterracotta, l’alcova dove acqua e semola si accoppiano,si incocciano, come si usa dire nel mio dialetto

Il signor Vittorio mi stava accanto. Per allontanarel’incontrollabile paura che si era impadronita di mechiusi gli occhi e ripensai al bambino sulla sabbia. Nelbuio rivedevo le mani del bambino che scavavanonella sabbia, poi quelle abili di mia madre che univanol’acqua alla semola secondo il rito dell’incocciatura.Fermai questa immagine e riaprii gli occhi. Versai tuttala semola nella mafaradda, aggiunsi acqua a piacere,mescolando l’impasto con la mano molto velocemente.La consistenza del cous cous non era però quella giu-sta, la poltiglia tra le mie mani era solo un semolino, laprima pappa per i bambini. Forse la quantità di acquaera stata eccessiva? Fermai la mia mano e aspettai lasentenza. Il signor Vittorio non parlò. Tirò fuori la miamano dall’impasto e la lasciò sospesa nella mafaradda,sostenendola con la sua sinistra. Parte del “materiale”si staccò così in caduta libera dalla mia mano. Poi lostrofinaccio umido che egli mi porse, uno di quelli cheavevano già asciugato tante mani tra una preparazione

53Un thriller gastronomico

e l’altra, aiutò a completare l’asportazione della restan-te pappina. Ero stata assunta! Ma il ruolo riconosciutomi dal

signor Vittorio fu quello di tirocinante. La prima quantità di granelli di cous cous è già pron-

ta. Ne controllo la consistenza, sollevandola tra le manigiunte, poi la lascio ricadere a fontana nella “mafarad-da”. La verso in un contenitore di raccolta e ricomincioil rito. La prima regola elementare che ho imparato dalmio maestro è l’incocciatura, necessaria a creare i gra-nelli del cous cous, e questa è un’arte.Per fare un granello, non ci sono percentuali definite

di semola e di acqua, è l’ artista a stabilire in base allaqualità della semola che si muove tra le dita quali sianole dosi giuste. E l’opera riesce bene solo se l’artista è unmaestro. L’unica precauzione suggerita dal signorVittorio, la stessa che adottava mia madre, era quelladi incocciare piccole quantità di acqua e semola un po’per volta, onde evitare di perdere d’un colpo tutta lamateria prima e vanificare il lavoro nel caso in cui ladose d’acqua scelta non fosse stata quella giusta.Le persone che lavoravano in cucina lo chiamavano

maestro, solo io lo chiamavo “signor Vittorio” e luinon ha mai avuto da ridire anche se io ero la tirocinan-te e lui esigeva molto rispetto.Oggi però mi sento anch’io una maestra. La mia

opera è fatta di semola e acqua, ma non è più la manodel bimbo che scava nella sabbia per cercare l’acqua

54 Otto ricette per un delitto

del mare, ma quella che accarezza i capelli crespi e riccidi un uomo di colore nel momento più sublime dell’a-more. Carezza dopo carezza, esso prende così la consi-stenza desiderata.Mi torna in mente Babakar Seck, il bel giovane sene-

galese che lavora al mercato della carne di PortaPalazzo. Quando arrivava al ristorante per consegnarela merce ti si illuminavano gli occhi, Vittorio, e strana-mente Babakar non ritornava mai indietro da solo. Glisorridevi con aria di intesa, impartivi al primo cuoco leistruzioni per completare il capolavoro da te iniziato esparivi per qualche ora.Davvero dividevi la tua anima con lui? Dai vapori

della cucina erano trapelate voci circa le tue preferen-ze in fatto di uomini e si diceva anche che i tuoi stranipiatti fossero frutto di questa passione.Quella volta che hai preparato le lasagne alla frutta e

crème caramel, invece che al ragù, in cucina si vociferòche questo estro fosse stato la conseguenza del rappor-to che avevi avuto, la notte precedente, con Pilot ilperuviano, assistente chef presso il ristorante. Ricordobene come l’hai guardato mentre era intento a farmivedere come andavano tagliate le grosse cipolle rosseper l’agnello in agrodolce. Stavamo parlando sottovo-ce quando tu l’hai ammonito dicendogli che la lama diun coltello colpisce sempre quando si è distratti.Questo tuo sentimento di gelosia per un uomo mi ha

fatto pensare a te come a un diverso.

55Un thriller gastronomico

Provo subito vergogna per questo pensiero e dai mieiocchi cadono nell’impasto prima due, poi tre, quattro,cinque lacrime. È il cous cous della sofferenza questo,del dolore e del ricordo. Sarà il caso di diminuire ladose d’acqua necessaria a dar forma ai granelli. Resta poca semola da incocciare e poco tempo per rac-

contare, ma è il tempo sufficiente per riconoscere alsignor Vittorio Chiara la sensibilità di aver capito che ilvero insegnamento doveva cominciare dal mio primogiorno di prova. Quando, dopo avermi liberato le manidall’impasto, mi hai invitato a sedermi sul divanetto dibanano, il tuo preferito, e senza apparenti emozioni haiaccolto con attenzione il racconto di ciò che era stato ilmio breve passato, io subito ti ho voluto bene.

E forse ti è bastato poco per dedurre che potevo esse-re facile preda di una società della quale non conosce-vo i pericoli; perciò mi hai trattenuta al Centro. Da allora sono passati due anni e sono ancora tiroci-

nante, in cucina come nella vita. Conosco poco di quel-lo che c’è fuori dal Centro dove trascorro quasi tutto ilmio tempo. A conclusione del mio lavoro mi resta solol’energia necessaria a percorrere il breve tratto di stra-da che mi separa da casa.Nel miscuglio di granellini, pronto per essere cotto,

nascondo aglio, sale, peperoncino e cipolla tritati fine-mente. Poi lo accarezzo dolcemente con olio di oliva elo guarnisco con grandi foglie di alloro, aspettando cheil vapore faccia il resto.

56 Otto ricette per un delitto

Chi ha ucciso il tuo corpo signor Vittorio? Tra lenostre comuni conoscenze non riesco a riconoscere ilvolto di chi l’abbia potuto fare.L’attribuisco però alla mano di chi ha ignorato che

l’artista non muore mai e che dunque ucciderti sareb-be stato inutile.Molti di quelli che lo detestavano raccontavano episo-

di della sua vita che, di fatto, non gli appartenevano.Una volta il secondo assistente fu sorpreso dal signorVittorio mentre, al cospetto della brigata di cucina,dichiarava ridacchiando che il grande chef era statoabbandonato dalla sua prima moglie perché a letto lalasciava sempre a digiuno.L’unica risata che si aggiunse alla sua fu quella di

Vittorio che commentò la frase meschina del suo deni-gratore sostenendo che quello sarebbe stato un buonsistema per avere una moglie perfettamente in linea.Il signor Vittorio era l’artista della cucina, diverso da

tutti gli altri artisti. Chi ha saputo apprezzare la sua opera ha percepito le

emozioni che egli ha voluto trasmettere nei suoi piatti:non solo le sue, ma soprattutto quelle degli altri che inlui confluivano, e che egli trasformava in sapori, odorie colori.La sera dei festeggiamenti per il divorzio di una ricca

signora torinese si inventò un piatto coloratissimo cheribattezzò le “Farfalline di Arlecchino”. Ci aiutò nellapreparazione cuocendo le farfalline in acqua carica di

57Un thriller gastronomico

zafferano fino a farle colorare di giallo intensissimo.Poi unì a esse le listarelle ricavate da peperoni rossi,verdi e gialli a diverse sfumature che io avevo fine-mente tagliato.Completò la sua opera guarnendo il bordo esterno

del piatto con delle rose ricavate da pomodorini diPachino cosparsi di prezzemolo e mandorle tostate.Il signor Vittorio aveva creato quel piatto per trasmet-

tere alla signora torinese l’allegria della quale lei avevabisogno quella sera.Dal mio primo giorno di tirocinio non credevo più

alle favole e avevo sviluppato in modo naturale quellacapacità di vedere oltre l’apparenza. Questo mi succe-deva anche con Vittorio.Quando eravamo soli mi ridicolizzava dicendomi che

non sarei mai diventata brava come lui perché le donnein cucina sono delle schiappe. Percepivo che era ilmodo di dare sollievo alla ferita aperta lasciatagli dasuo padre, che non aveva mai accettato quella realizza-zione del suo unico figlio, negli ambienti culinari desti-nati fin dalle origini alle figure femminili. Conservavatanta rabbia in sé Vittorio, viveva la delusione del padree il suo senso di colpa per averlo deluso. Conviveva conquesti stati di dolore dai quali si liberava tutte le volteche dava sfogo alla sua creazione culinaria. E così, tutte le volte che preparava un piatto nuovo, io

capivo cosa stava provando. E quanto meglio conosce-vo la sua vita tanto meglio capivo le sue opere.

58 Otto ricette per un delitto

Sono cresciuti così, insieme al suo dolore, la sua famae il suo successo.Il cous cous è pronto. Il vapore, passando attraverso i

fori del recipiente che lo contiene, lo ha cotto.Anche la zuppa di pesce ha completato la sua cottura.

Gli spinosi scorfani, il pesce San Pietro, la murena e lacernia, vittime sacrificali per questa offerta, hannosmesso di muoversi nel brodo bollente.Completo il mio capolavoro unendo la zuppa al cous

cous. Ti offro questo piatto affinché tu sappia che dentro di

me non sono più una tirocinante, perché anche io hosaputo cogliere e imparare la tua filosofia di vita: quel-la per cui ogni uomo è capace, anche vivendo insiemeagli altri, di trovare la propria libertà.Provo a leggere il cous cous come l’umanità, i granel-

lini sono gli uomini, la mafaradda il mondo nel qualesi impastano e si fondono, il brodo l’onda della vita.Pur divisi gli uni dagli altri gli uomini stanno tuttiinsieme nel mondo accumunati dallo stesso destinodopo essere stati investiti dall’onda della vita.

59Un thriller gastronomico

Sibilla De Luca, la personal trainer

di Antonella Calatabiano e Nino Cirrincione

Mi sono svegliata di soprassalto, con una sensazionedi inquietudine e con gli occhi spalancati fisso il soffit-to. È mattina presto, in queste ore silenziose e desertei fantasmi della memoria mi tengono sveglia, da unmese mi trascino dentro questo peso… Vittorio nonc’è più.Ricordo il nostro primo incontro, quando mi disse che

lui avrebbe voluto un personal trainer uomo e che nonlo aveva mai sfiorato l’idea di essere seguito da unadonna (sei sempre stato un po’ misogino Vittorio, te nerendevi conto?). Però, dopo aver visitato il mio blog,attratto dalla mia formazione e colpito soprattutto dalmio post: “Tutto quello che sono è sufficiente se soloriesco ad esserlo” (Carl Rogers), ha deciso di telefona-re a me, Sibilla “Shanti” De Luca.È viva in me l’immagine di quell’uomo dalla fronte

ampia e sporgente, i suoi occhi brillavano di saggezzainteriore. I suoi capelli, un tempo castani, erano brizzo-lati. Parlava con proprietà di linguaggio e aveva modiimpeccabili, garbo e un sottile senso dell’umorismo.Domani sera ci sarà la commemorazione in onore di

Vittorio. L’architetto Ahmed El Helwe ha organizzato

61Un thriller gastronomico

un incontro tra le persone più vicine nella vita aVittorio, tutti porteremo un piatto preparato da noi dadedicare al grande chef.Io gli dedicherò la caponata, un piatto che richiama le

mie origini siciliane e che lui aveva gradito moltoquando gliene portai un barattolo di quella originale,preparata da mia madre. Si sta facendo tardi, devo prepararmi per andare al

mercato di Porta Palazzo per comprare gli ingredientidella mia ricetta. Il mercato di Porta Palazzo sembra unformicaio operoso, frenetico di vita, che accoglie e viveil confronto con gente diversa, tutto sembra uguale aprima, ma non lo è, manca Vittorio; lui era un pezzo diquel mosaico, una parte del quartiere e il quartiereparte di lui.Vittorio ha assistito a tutti i grandi cambiamenti delle

persone del quartiere, gente che lavorava sodo per sfa-mare la famiglia ma anche gente che lasciava tuttosenza guardarsi mai indietro. Lui semplicemente erarimasto lì, non se n’era mai andato, non aveva avutomai una ragione per farlo da quando aveva preso ladecisione di lasciare la professione di ingegnere e diintraprendere la carriera culinaria, per ripicca nei con-fronti del padre.

Porta Palazzo accoglie e vive il confronto con popolidiversi, gremita di una varietà di persone, ricche dibuone speranze e fiere del loro passato. È bellissimo

62 Otto ricette per un delitto

vedere la molteplicità dei colori e dei profumi, tante dispezie ed erbette a me sconosciute, le variopinte ban-carelle di frutta e ortaggi.Finita la spesa torno a casa a piedi. Ci è voluta più di

un’ora, fa già caldo, un caldo umido, e il sudore miappiccica addosso il manico della borsa che pesa sullaspalla, mi vengono in mente tanti ricordi e ho bisognodi tempo e spazio per placare il dispiacere per questaperdita e il senso di solitudine che mi accompagna.Entrata a casa appoggio il sacchetto e mi siedo in cuci-

na, sono molto stanca, prendo il cellulare e rileggo perl’ennesima volta l’ultimo e insolito messaggio cheVittorio mi aveva inviato: “Ciao come stai? Mi è dav-vero piaciuta la nostra ultima conversazione e vorreisaperne di più di questo buddismo che stai praticando.Con tutta la mia gratitudine per un indimenticabilepomeriggio di dialogo, di compagnia e di calore. Apresto”.Quel pomeriggio tiepido di primavera, durante gli

allenamenti sul lungo Po, Vittorio, correndo, avevasubito una contrattura al polpaccio; ci sedemmo su unapanchina, il Po scorreva silenzioso, liscio e pulito ementre gli praticavo un massaggio per distendere lamuscolatura, Vittorio lodò la mia capacità dicendomi,attraverso una metafora poetica, che le mie dita eranocosì abili che sembravano dialogare con i suoi muscoli.Io gli risposi che praticavo il buddismo di Nichiren

Daishonin e che, mentre massaggiavo, dentro di me

63Un thriller gastronomico

recitavo costantemente un mantra. Mi fece alcunedomande, alle quali risposi semplicemente che pratica-vo il buddismo della pace nel mondo e della felicità ditutta l’umanità e degli esseri viventi.Non mi chiese altro (forse ti sono sembrata strana? Mi

guardavi con certi occhi…), ma mi raccontò che dimattina era stato da una sua vecchia amica di PortaPalazzo, ed era molto dispiaciuto perché non avevasaputo risolvere il problema che ella aveva con suafiglia. Mi disse: “Le madri che vivono sole con i proprifigli devono spesso farsi carico di tutto, essere contem-poraneamente madre e padre”. Lei si occupava di tuttoma la figlia aveva incontrato difficoltà negli studi eaveva deciso di abbandonare l’università, con grandedolore della madre che si era sacrificata per mantener-la lavorando come fruttivendola a Porta Palazzo. Nellafiglia riponeva tutte le aspettative di riscatto sociale,sperava di garantirle una qualità della vita migliorerispetto alla sua.Interpretai quella confidenza come un richiesta di

aiuto e, dopo una pausa, gli dissi che il buddismo inse-gna che tutti gli sforzi diligenti da parte di una madreproducono la fortuna, la virtù e l’onore dei figli.

La soluzione al problema sta nel dedicarci alla nostrafelicità e alla realizzazione della nostra vita, senza pen-sare di poter essere felici solo se i nostri figli realizza-no il progetto di vita che avevamo scelto per loro.

64 Otto ricette per un delitto

Amando la nostra vita e avendo cura della nostra feli-cità possiamo riuscire a trasformare la sofferenza eliberare i nostri figli da ogni pretesa.Gli dissi: “Ti leggo un passo tratto da Le piccole virtù

di Natalia Ginzburg che ho memorizzato nel mioiPhone e che mi ha sostenuta in un momento difficilecon mio figlio.Natalia Ginzburg scrive: «Una vocazione è l’unica

vera salute e ricchezza dell’uomo. Quali possibilitàabbiamo noi di svegliare e stimolare nei nostri figli lanascita e lo sviluppo d’una vocazione? [...] Se abbiamouna vocazione noi stessi, se non l’abbiamo tradita, seabbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, aservirla con passione, possiamo tenere lontano dalnostro cuore, nell’amore che portiamo ai nostri figli, ilsenso della proprietà. Se invece una vocazione nonl’abbiamo o se l’abbiamo abbandonata o tradita, percinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amorpaterno, o per qualche piccola virtù che si è installatain noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come unnaufrago al tronco dell’albero, pretendiamo vivace-mente da loro che ci restituiscano tutto quanto gliabbiamo dato, che siano assolutamente senza scampoquali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita quantoa noi è mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quan-to può darci soltanto la nostra vocazione stessa: voglia-mo che siano in tutto opera nostra, come se si trattassenon di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se

65Un thriller gastronomico

abbiamo noi stessi una vocazione, se non l’abbiamorinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germo-gliare quietamente fuori di noi, circondati dell’ombra edello spazio che richiede il germoglio di una vocazio-ne, il germoglio di un essere. Questa è forse l’unicareale possibilità che abbiamo di riuscire loro di qualcheaiuto nella ricerca di una vocazione, avere una voca-zione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con pas-sione: perché l’amore alla vita genera amore allavita»”.Quando finii di leggere, lui, guardandomi negli occhi

con gratitudine, mi disse: “Glielo regalerò subito”.Poi ci salutammo come al solito per rivederci dopo

una settimana.Ma adesso basta con i ricordi, devo pensare alla mia

caponata. La cucinerò in maniera semplice. Mi mettodi buona lena ai fornelli e comincio con le melanzane ei peperoni, li taglio con cura a dadini e poi li friggo.Passo in seguito a cuocere a fuoco lento la cipolla cheimbiondisce e sparge il suo profumo nella mia cucina,nella stessa padella getto anche un po’ di uvetta e dipinoli come si usa da noi in Sicilia. In seguito aggiun-go i pomodori pachini rossi e succosi e unisco tutto alleverdure fritte. Con aceto, zucchero e basilico frescocompleto la mia opera. Non è un piatto innovativo, maio tengo molto alle tradizioni della mia famiglia.Questa caponata è per te Vittorio, anche noi due,

diversi come le verdure che compongono la mia ricet-

66 Otto ricette per un delitto

ta, ci siamo amalgamanti in qualche modo, è c’è statosenz’altro il dolce della cipolla a unirci, ma anche l’acredell’aceto che ricorda ad entrambi quant’è difficile sce-gliere ed essere coerenti.

E la felicità può essere anche la lama che si posa sulcollo dell’agnello e attraverso il sacrificio ne libera l’a-nima.Mi mancherai,tuaSibilla Shanti

67Un thriller gastronomico

L’ex moglie

di Maria Pia Capuano e Michele Ciardi

Vittorio era un mago, un giocoliere lieve; per lui lacucina aveva bisogno di tempo, come un bambino dacrescere piano piano. Era un giovane d’assalto e dibelle speranze al tempo del nostro incontro. In un’esta-te di molti, troppi anni fa un giovane e promettentecuoco mi fu presentato da alcuni amici, la prima cosache notai in lui fu il viso, dai lineamenti irregolari e unsorriso un po’ spento: aveva l’atteggiamento di unbambino che non ha mai potuto saziare la propriavoglia di giocare. Mi sentii quasi impigliata in queisuoi occhi strani, mutevoli, a volte distanti, altre di unasimpatia irresistibile. Il suo sguardo liquido e taglien-te, puro e obliquo al tempo stesso, mi è rimasto nelcuore. Mi condusse a visitare i giardini di un grandecomplesso acquatico e mi offrì un cocktail sulla prospi-ciente terrazza. La sera stessa, dopo avermi riaccompa-gnata a casa, mi telefonò per ringraziarmi per la deli-ziosa sera trascorsa, e così cominciammo a vederciquasi tutte le sere.Fu un periodo molto creativo, a volte divertente altre

malinconico, per certi improvvisi cambiamenti diumore di Vittorio; è come se avesse avuto sempre

69Un thriller gastronomico

paura che potessi scoprire chissà quale segreto, mentreio osservavo con interesse e sana curiosità l’uomo checominciavo ad amare. Dopo qualche anno, ancora gio-vanissimo, fu inserito dalla critica tra i componenti del“dream team” della casseruola. Di poche e sempremeditate parole, sicuro di sé senza arroganza, inco-minciò a dare il meglio nell’elegante ristorante cheaveva rilevato con non pochi sacrifici al centro diTorino. La sua cucina nobile diventò per lui quasi unalucida ossessione: era sempre teso a mettere in primopiano i sapori, arricchendoli allo stesso tempo coninvenzioni folgoranti. Durante una serata in un grandealbergo del centro, i suoi piatti raffinati e solidi condelle novità ben centrate entusiasmarono un criticogastronomico, che lo definì “un vino in continua fer-mentazione”. Fu in quella sera quasi magica che michiese di sposarlo. Dopo tre mesi eravamo marito emoglie e i primi tempi sperammo molto nella venutadi un figlio, che purtroppo non arrivò. Nella vita, sonocerta, Vittorio sostituì i figli mai avuti con la creazionedi piatti unici, sempre più preso dalla passione per ilsuo mestiere; io non chiedevo nulla se non l’amore,Vittorio però si animava solo in cucina, pronto a esibir-si su qualsiasi ribalta mediatica. Troppo pigro per con-cepire il minimo sforzo che riguardasse la sua vita sen-timentale, non faceva nulla per curare il nostro rappor-to, per ascoltarmi. Era sempre più difficile condividerela vita con lui, più i giorni passavano e più mi rendevo

70 Otto ricette per un delitto

conto che la nostra avventura di vita insieme era arri-vata al capolinea. chef di talento conosciuto ormai in campo internazio-

nale, Vittorio si lasciava sedurre soltanto da mestoli,ceramiche, nuovi sapori, nuovi profumi. Tutta la suafantasia, la sua creatività, il suo tempo, erano proietta-ti nell’esplorare nuovi spazi gastronomici; in ultimaanalisi si identificava soltanto con il proprio lavoro.Siccome al peggio non c’è mai fine, era a volte eufori-co, a volte nervoso, ma comunque sempre stanco esopra le righe. Ci lasciammo dopo cinque anni burra-scosi, l’ultimo dei quali davvero triste perché ormainon trovavamo più nulla da dirci. Vittorio continuò amietere successi, ebbe altri incontri, altre storie, maerano soltanto ritagli di tempo sottratti all’unica pas-sione della sua vita. Ecco, in due minuti mi è passata davanti tutta la

nostra vita, ho ricordato ogni cosa come se fosse ieri,sono sprofondata nei ricordi, e nei ricordi sei ricom-parso tu, una grande ombra; adesso dovrei preparareun piatto in tuo onore, mi sento così piccola al tuo con-fronto, ma non importa, devo preparare qualcosa chepossa ricordarti, ricordare te; genio della cucina eapprendista nella vita, fino a perderla in un modo cosìatroce. Perché, per mano di chi, non si sa; la morte ègrigia, è ombra, è nero, vuoto e sconosciuto precipizio.Le illazioni si sprecano, le malignità, i pettegolezzipure, sei un fantasma ingombrante Vittorio, chissà

71Un thriller gastronomico

dove si nasconde il tuo assassino, la polizia indaga.Stasera ci riuniremo tutti, ex mogli, collaboratori,amici, falsi amici, tutti provvisti di piatti-ricordo, e io?Eccomi qua, ho deciso! Porterò prosciutto di petto d’a-natra al sale! Perché questo piatto? Perché il sale nel-l’antichità era considerato sacro ed era usato comemerce preziosa di scambio, al pari delle monete. Il salesei tu Vittorio, chef unico e insostituibile! Inizio: trito nel mixer il coriandolo con lo zucchero,

l’alloro spezzettato, il timo e il pepe, e mescolo unabuona dose di sale grosso marino integrale con il tritoottenuto. Sbuccio l’aglio, elimino l’anima centrale, lotrito. Stendo un triplo foglio di pellicola per alimentisul piano di lavoro, ci dispongo sopra la metà del salearomatizzato e dell’aglio tritato e al centro il petto d’a-natra, con la parte della pelle rivolta verso il basso.Copro con aglio e sale rimasti, lo avvolgo nella pellico-la, ci metto un peso appoggiato sopra e lo faccio mari-nare in frigo, dopodiché sciacquo il petto d’anatrasotto l’acqua, lo asciugo, lo avvolgo in un telo di lino,lo lego stretto con spago da cucina e lo faccio riposareper tre ore nella parte bassa del frigo. Infine taglio ilpetto a fettine sottili. Lo porterò al Centro CulturaleItalo-Arabo. Sono certa che si parlerà tanto dei possibi-li moventi che hanno spinto qualcuno a toglierti la vita.Per me, Vittorio, non importa tanto chi ti ha ucciso, miimporta tenerti vivo nella memoria.

72 Otto ricette per un delitto

Vorrei che questa sera, anche per un momento, tuentrassi nella vita di tutti noi riuniti lì per ricordarti,con la tua passione per la cucina, la buona tavola, latua tecnica sottile e magica. Se non si trattava di magia,gli somigliava molto. Ci mancherai!

73Un thriller gastronomico

Ahmed El Helwedirettore del Centro Culturale

di Maria Concetta Noto

Sono nato a Damietta, sul ramo orientale del delta delNilo. La mia terra è circondata dall’acqua di mare, dilago e di fiume ed è l’unica cosa che mi manca qui aTorino. Ho 55 anni. A 20 ho lasciato l’Egitto per andare a stu-

diare in Francia, a Parigi presso l’Ecole spéciale d’ar-chitecture. Lì ho imparato ciò che mi serviva per capi-re quello che volevo veramente fare nella vita. Ho con-seguito il diploma e ho avuto accesso all’ordine degliarchitetti, ma tutto è finito lì. Ho cominciato a pianificare e costruire altro nella mia

esistenza. Intanto avevo capito che la mia indole avevafame di un sapere letterario, avevo bisogno di una cul-tura più umanistica. Mi piaceva scrivere, soprattutto lestorie delle vite delle persone che lasciano, per neces-sità o bisogno, il loro paese, la loro lingua, le personeche amano. Mi piaceva scrivere del loro smarrimento,del loro isolamento, della loro solitudine e della lorovoglia e capacità di farcela. Tramite un amico magrebi-no sono riuscito a farmi pubblicare da Libération unaserie di racconti incentrata su alcune figure femminilisignificative per le scelte di vita che avevano fatto.

75Un thriller gastronomico

A Parigi ho conosciuto tante persone di tanti paesidiversi. Ho fatto esperienze entusiasmanti, che hannoarricchito e cambiato il mio modo di guardare allevicende della vita. Lì ho conosciuto l’amore, quello cheti lega a un’altra persona in modo totale e, visto comesono andate le cose, anche in modo indissolubile. Lei èalgerina, volitiva, indipendente, positiva e con unagrande passione per la fotografia. L’arrivo a Torino non era stato pianificato. È successo

che la mia Souad era stata invitata a una collettiva foto-grafica su “L’integrazione multietnica fra luci eombre” sponsorizzata dall’Amministrazione comuna-le di Torino. Era il 1983, Souad trovò subito un lavoro per una pic-

cola casa editrice e mi incoraggiò a iscrivermi allaFacoltà di Lettere e Filosofia. Siamo rimasti a Torino,siamo stati e stiamo bene qui. Durante gli studi ho con-tinuato a scrivere racconti e, su una storia di donna chemi aveva molto colpito, ho scritto un libro che ha avutoun discreto successo di critica e di vendite.Ho pubblicato altri libri che hanno incontrato il favo-

re dei lettori e oggi dirigo la collana Souad sulle cultu-re del Nord Africa e del Medio Oriente. Svolgo attività di opinionista, conferenziere e insegno

Lingua e Letteratura araba presso la Facoltà di Linguedell’Università degli Studi di Pavia. Collaboro con igiornali La Stampa e Il Messaggero. Insomma, ho fattoqualche passo avanti.

76 Otto ricette per un delitto

Durante questi anni non ho mai tralasciato di dedi-carmi alla difesa dei diritti degli immigrati e all’impe-gno costante per la loro integrazione, perseguiticomunque nel segno della laicità.In questa idea fondante della mia vita ho trovato sin-

tonia e appoggio in alcuni illuminati amministratorilocali che hanno reso possibile il coronamento del miosogno nel cassetto: la fondazione di un CentroCulturale Italo-Arabo .Il Centro Dar al Hikma, di cui oggi sono il Direttore, è

aperto da più di un decennio e in questi anni ha vistoconfluire nella sua sede un afflusso enorme di personetra italiani ed extraeuropei. I temi trattati, dall’immi-grazione all’intercultura, dall’islamistica all’egittolo-gia, ai dibattiti, hanno trovato il favore del pubblico esono stati un incentivo per gli organizzatori ad andareavanti lungo il percorso tracciato, convinti che le fina-lità del Centro ovvero l’integrazione, il dialogo tra leciviltà e l’amicizia fra le culture, fossero raggiungibili.Pochi sono oggi i torinesi che non hanno avuto noti-

zia delle attività del Centro, grazie anche alla stampa ealle televisioni locali che hanno sempre dato il giustospazio alle nostre iniziative.L’ultima notizia, in ordine di tempo, è apparsa stama-

ni su La Stampa e riguarda la nota, assurda, luttuosavicenda del mio amico Vittorio Chiara.Eccola qua, la stretta al cuore. Il suo ricordo…

77Un thriller gastronomico

Oh buon Dio! Da quanto tempo non mi era più capi-tata una cosa del genere. Tanto tempo. Il tempo in cuile ragazze andavano in giro con gli occhi rivolti versoterra e, anche se in compagnia di altre donne, per nondistrarre lo sguardo incollato alla punta dei piedi, nonsi guardavano tra loro e neanche si parlavano. E anda-vano di fretta, benedette figlie, quasi per togliersi daldisagio di essere in quella situazione tanto innaturaleper i tanti occhi che le guardavano. La ragazza che mi si parava davanti si fissava anche

lei la punta delle scarpe. Erano delle ballerine blu apois bianchi. A quanto pare sono molto di moda.

Ho notato subito le ballerine blu a pois bianchi perchého seguito d’istinto la traiettoria dello sguardo dellaragazza. Guardava proprio quelle o qualcos’altro sem-pre vicino alla punta delle scarpe. Comunque, gli occhirimasero lì. E non li alzò più. Un po’ smarrito, guardai Vittorio cercando di interro-

garlo con un’occhiata che non saprò mai che effettoabbia avuto. Forse non l’ha neanche colta, impacciatocom’era.Vittorio era così sicuro di sé, in qualsiasi situazione,

che niente lo coglieva di sorpresa. Era come se il librodella sua vita l’avesse già letto e sapesse come andavaa finire. Poteva sembrare anche cinico, ma non lo era.È l’immagine di quella circostanza che continua a

riempire l’inizio di tutti i miei ricordi di lui. È la pas-sword che mi consente di avviare la memoria intorno

78 Otto ricette per un delitto

a lui. Sono tanti i ricordi di quasi quindici anni di fre-quentazione, nei primi tempi capitava che per mesinon avessimo notizie l’uno dell’altro, anche se unavolta ci siamo confidati di seguire parte delle nostrevite attraverso quello che la stampa o i comuni amiciraccontavano di noi. Ci eravamo visti per la prima volta in occasione di un

meeting organizzato dal Comune di Torino riguardoad alcune iniziative che l’Amministrazione locale vole-va promuovere e avviare per facilitare sia l’ingressoche l’integrazione dei primi significativi flussi dimigranti.La seconda volta l’occasione per incontrarci ci fu data

dall’organizzazione presso il nostro Centro di un corsodi cucina per badanti rumene. Ci rivolgemmo aVittorio Chiara perché, oltre a essere molto bravo,sapeva parlare con le persone, entrava in empatia conloro, coglieva i problemi e le difficoltà e, con fare moltosemplice, offriva le più facili soluzioni. Ma anche per-ché, a quel tempo, non era ancora uno chef di fama, percui l’abbiamo potuto pagare poco.Il corso ebbe un successo inaspettato e il Comune ce

ne commissionò altri. Le persone che li frequentavanos’innamoravano del Centro e col passaparola siamodiventati una bella realtà multietnica molto frequenta-ta anche dai torinesi.

79Un thriller gastronomico

La nostra cucina e il nostro ristorante hanno tantissi-mi estimatori e il fatto che da noi passasse ogni tanto ilfamoso chef, ci ha procurato il resto della pubblicità.

La passione comune mia e di Vittorio era l’intercultu-ra, il meticciato culinario e culturale; ci interessavamodi tutto quello che gravitava attorno alle questioniderivanti dagli incroci fra le diversità delle culture e,pur nella differenza dell’approccio, ci ritrovavamo acondividere gli stessi valori, le stesse analisi e conclu-sioni.Ma era proprio davanti a una sua creazione gastrono-

mica che il piacere dell’incontro, della conversazione,dell’ironia ci faceva stare bene. Lui, lo vedevo, era rilassato, contento e a volte felice

per quel suo nuovo piatto, risultato di tante idee etante prove. Mi raccontava quale era stata la scintillainiziale, la storia, a volte semplice a volte complessa,che lo aveva condotto al risultato finale, la prova di uningrediente piuttosto che di un altro, ma anche di unavarietà rara dello stesso ingrediente, della prova degliaromi e dell’abbinamento dei colori. Perché “anche l’occhio vuole la sua parte”, come ci

trovavamo spesso a commentare, è una piccola grandeverità, come tutti i detti popolari passati attraverso ilvaglio della storia e delle esperienze. Un piatto ben fatto appaga tutti i sensi, perfino il

tatto. Perché il contatto tra le mani e la bocca è appa-gante già di suo e se ci metti nel mezzo un buon bocco-

80 Otto ricette per un delitto

ne, diventa una cosa suprema. Il problema è che non sideve fare in pubblico, perché non sta bene, perché nonè fine, perché è sconveniente. Ma oggi siamo salvi. Cisono due paroline inglesi che ci hanno tolto dagliimpacci e hanno fatto il miracolo di farci riconciliare,anche in pubblico, con una pratica che ci consente divolerci più bene mangiando alcuni cibi. Il finger food cisalva tutte quelle volte in cui vogliamo mangiare(ovviamente in pubblico) con le mani. Anche la pizza,che possiamo addentare in grossi pezzi ripiegati,godendo appieno di questa pietanza che delizia ilmondo. E il mondo si è inchinato alla pizza sfornando bravis-

simi pizzaioli. Gli egiziani, fra i più versatili, si distin-guono per la loro bravura e sono fra i più apprezzatipizzaioli sia in Italia che all’estero.La pizza mi fa pensare a quanto talvolta sia semplice

e apparentemente banale trovare un’idea vincente.Anche alcuni piatti di Vittorio nascevano in modo faci-le: un’immagine, un lampo, ma anche un caso o unosbaglio gli permettevano di creare la novità.Il suo punto fermo era comunque la costruzione di un

percorso gastronomico di fusione di culture diversecon un interesse particolare all’esaltazione di queinessi, che lui trovava molto marcati, tra la cucinadell’Italia meridionale e quella tunisina/magrebina.Era andato tante volte in Marocco e in Tunisia. Aveva

vissuto i mercati, aveva parlato con le venditrici di ver-

81Un thriller gastronomico

dure e di spezie, aveva annusato gli odori e raccoltostorie e segreti. Era entrato nelle case dove si prepara-vano i cibi tradizionali, aveva parlato con le anziane esi era fatto coccolare come un bambino a cui si deveinsegnare tutto. Aveva raccolto un patrimonio di cultura, forse unico,

che gli ha consentito di creare i suoi migliori piatti evincere i migliori premi nel settore della gastronomia.Le giurie avevano premiato la genialità, la creatività, igusti, la presentazione dei piatti ma lui sapeva che ilriconoscimento era dovuto al suo viscerale, forse inna-to, amore per la cucina. Quell’amore che caparbiamen-te, ma anche rabbiosamente, aveva voluto coltivare percontrapposizione a un modello paterno che non vole-va accettare. La sfida lo esaltò, gli servì per diventarealtro da un’idea precostituita della sua vita. Si sentìlibero di disporre di sé e, anche se le parole di suopadre a volte lo ferirono e lo umiliarono, si scoprìcoraggioso quando, spalancando la porta del suonuovo mondo, si rese conto che avrebbe potuto affron-tare qualsiasi difficoltà. Sicuro del fatto che, continuan-do a coltivare quell’idea che sentiva come un’attraentepossibilità per la sua vita, aveva con sé le risorse che gliavrebbero permesso di scrivere un’altra storia.La storia di un bambino, di una donna che da giova-

nissima aveva lasciato la Sicilia e che, nel trasmetterglil’amore per quella terra, la nostalgia di colori e saporiperduti, aveva indicato al figlio adulto una strada che

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lo aveva portato a tornare più volte nei luoghi dei rac-conti materni, a raccogliere storie, a vivere sensazioniforti di sapori, aromi e profumi che gli sembrava diaver già conosciuto. Furono esperienze fondamentali,tasselli importanti per la sua storia di professionista. Andò oltre, volle trovare in altri luoghi le possibilità

di nuovi itinerari per mischiare la storia dei popoli. Sisentiva un grande, in questo progetto di creazione,colui che perdendosi e confondendosi nelle cultureavrebbe potuto produrre qualcosa per unire i popoli,per esaltarne le diversità e portare il suo singolare con-tributo alla loro integrazione.La scelta di abitare nello storico quartiere di Porta

Palazzo era un tassello fondamentale alla costruzionedel progetto. Era lì, dentro al crogiuolo, al mix deipopoli e delle culture; dentro al più grande mercatod’Europa, che trovava conferma o nuova ispirazioneper molte delle sue creazioni. Se, per caso, non rintrac-ciava un particolare ingrediente, o frutto o fiore oaroma o spezia, trovava sempre qualcuno che riuscivain qualche modo a soddisfare la sua necessità e ancheil suo capriccio. Quello era il suo posto ideale. Lì sembrava trovare la

sua vera dimensione, quasi in piena pace con se stesso.Conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Parlava conchiunque, aveva sempre qualche storia da farsi raccon-tare, come se le storie dei tanti riuscissero per un po’ ariempire quei vuoti che sentiva dentro di sé. E spesso

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erano storie tristi, di stenti, di patrie e famiglie abban-donate, di violenze, di fame e di guerre. Molti si inte-gravano, avevano un lavoro o avevano creato un’atti-vità. Ma la cosa che lo faceva più contento era sapereche qualcuno era riuscito a rimettere insieme la fami-glia. Era quello il vuoto che sentiva più grande di tutti, la

famiglia che gli mancava. In genere, quando poteva, aiutava chi secondo lui

aveva più bisogno; ma quando c’era in ballo la possibi-lità di ricongiungere la famiglia, si faceva in quattro,smuoveva mari e monti, metteva in subbuglio tutte lesue conoscenze e le tartassava fino a quando non riu-sciva a ottenere quello che voleva. Anche con me face-va così, mi sfruttava quando sapeva che potevo farequalcosa direttamente o potevo parlare con Tizio, Caioo Sempronio.Mi manca, mi manca molto. Mi manca quel pezzo di me che parlava per ore con

lui. Che rideva con lui. Che si arrabbiava con lui quan-do mi raccontava di alcune frequentazioni che secondome potevano essere pericolose. Ma lui svicolava e se neusciva con qualche frase buonista che sembrava venu-ta fuori dalla bocca di un prete. Ma le discussioni più appassionate erano comunque

a proposito di una nuova pietanza.Era ormai una consuetudine; tutte le volte che pensa-

va a un nuovo piatto, veniva al ristorante del Centro e

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me lo cucinava: io e lui soli. Portava tutto lui. Prima miraccontava come gli era venuta l’idea, se aveva vistofare qualcosa di simile e voleva apportare delle varia-zioni, se durante una notte insonne aveva pensato aqualcosa di originale o di azzardato o, se, parlando conqualcuno dei suoi conoscenti di Porta Palazzo, una sto-ria o un racconto avessero dato la stura alla sua dila-gante creatività.Fin qui potevo dire poco o nulla. Preparava con meticolosità tutti gli ingredienti.

Sapeva dove trovare tegami, pentole e padelle, posatee mestoli. A questo punto cominciava la vera discussione, per-

ché, dopo avermi riassunto il piatto, mi chiedeva cosane pensassi in generale e poi, in particolare, man manoche la preparazione andava avanti. Per l’assaggio ci spostavamo nella sala ristorante,

dove voleva trovare un tavolo apparecchiato con i suoicorredi; piatti, posate e bicchieri custoditi gelosamentein un armadio dedicato alle sue cose.Il rituale prevedeva che mi sedessi e che lui mi servis-

se come i migliori camerieri professionisti sanno fare.Diceva che mi voleva coccolare, che era il minimo chepotesse fare per me, che lui non dimenticava quantoero stato determinante per alcune sue scelte di vita,quanto l’avessi aiutato quando non sapeva dove sbat-tere la testa. Altre volte veniva al ristorante come semplice com-

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mensale con qualcuno dei suoi amici o conoscenti. Ingenere faceva decidere ai suoi accompagnatori i piattie lui li seguiva nelle scelte.Benché il suo palato fosse ormai abituato alle eccel-

lenze, pareva mangiare di buon grado tutto quello chegli altri sceglievano anche per lui. Non faceva mai unacritica, un commento negativo, anzi alcune volte miraccontavano che andava in cucina e faceva i compli-menti allo chef.Recentemente era capitato (sarà successo due o tre

volte) che arrivasse con due ospiti. All’apparenza sitrattava di una coppia, anche se male assortita. Lasignora, bella ed elegante, avrà avuto una cinquantinad’anni, mentre il ragazzo di colore che l’accompagna-va, non avrà avuto più di trent’anni. Era bello, aitantee sfrontato, vestito come vanno i ragazzi di oggi, jeanssdruciti e maglietta informe. Ecco le strane frequentazioni di Vittorio. Ma i suoi

“no comment” sull’argomento erano glaciali, nonammettevano alcuna interferenza. Potevo fare solo voli di fantasia, anche azzardati, e

poi me ne pentivo. Il fatto era che conosceva una miria-de di persone e fra le tante ci poteva stare qualcuno unpo’ “borderline”.Anche le voci che correvano sulla sua presunta omo-

sessualità non mi sorprendevano più di tanto. La suaera una confusione che aveva lontane origini, un tarloinculcato nella sua testa e nella sua psiche dall’incer-

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tezza e dalla debolezza di un padre dai rigidi schemimentali. Uno di questi era che far da mangiare fosseun’attività da donna e che un vero uomo non avrebbemai dovuto occuparsi di cose da femmina.Vittorio era decisamente orientato verso le donne,

non necessariamente belle. La vera attrazione scattavaquando le donne sapevano parlargli al cuore, guardan-dolo dritto negli occhi. Si sentiva invaso, riempito, avolte lenito in quella parte di sé che pativa la solitudi-ne.Ma quella volta in cui venne con la ragazza delle bal-

lerine rimasi veramente sconcertato. Dopo il breveimbarazzo iniziale, fu lui a dirmi di indicargli il tavolodove sederci. Voleva che mi sedessi con loro. Nonaveva prenotato, generalmente lo faceva. Cercai con losguardo un tavolo decentrato e ci sedemmo. La ragaz-za in quel momento alzò lo sguardo e io capii perché lotenesse incollato giù. Gli occhi grandi, dalle ciglia lun-ghe e folte, sconvolgevano, mai visto nulla del genere.Più che guardare, sembravano attrarre, risucchiare la

luce di tutto quanto percorrevano e le sue pupille si ali-mentavano di quella luce, impedendo alla persona chele stava davanti di poter dire o pensare nulla. Dopo iprimi istanti di annegamento, mi resi conto che eranodi colore marrone chiaro con tante stelline d’oro. Ilfondo era di un celeste pallido, molto luminoso. Nonparlò, forse la sua mente inseguiva qualcosa di piùinteressante o più divertente di quello che accadeva

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seduti lì, a quel tavolo, in quel ristorante. Una solavolta sorrise a una mia battuta e fu l’altro colpo allostomaco. La bella bocca carnosa schiudendosi mise inmostra dei denti perfetti, bianchissimi che illuminaro-no ancora di più lo sguardo e l’incarnato ambrato. Vittorio parlava pochissimo, la mia impressione era

che lui fosse a disagio, come se la sedia su cui era sedu-to scottasse, non era sicuro di voler stare lì, con lei econ me. Era come quasi pentito di essere venuto.Riuscì a parlottare solo di banalità.Quando fu chiaro a tutti che la situazione andava

avanti per inerzia e l’unica cosa sensata sarebbe stataquella di congedarsi, proprio quando fu sul punto dilasciare la sedia bollente, Vittorio mi disse che avevaavuto un’idea a proposito della ragazza. Era bravissi-ma nella danza del ventre e mi chiedeva cosa ne pen-sassi di organizzare, magari una volta a settimana, unospettacolo con lei.Stavolta fui io a non trovare le parole, blaterai sola-

mente che ci si poteva pensare…Lui mi disse anche che la ragazza era la figlia della

sua colf, una brava persona, venuta in Italia dalMarocco tre anni prima. La voleva aiutare in qualchemodo.Nel congedarsi la ragazza, prima di far tornare lo

sguardo sulla punta delle scarpe, mi guardò e mi sor-rise. Mentre si incamminavano verso l’uscita, Vittorioera come invecchiato di colpo, incurvato e schivo,

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cercò di guadagnare l’uscita nel più breve tempo pos-sibile, ignorando i saluti di chi lo conosceva.E poi guardai la ragazza, jeans alla capri e una corea-

na di lino bluette due taglie più grande di quella chesarebbe servita. Ma si vedeva lo stesso che era unoschianto.Pensai che non avrei potuto acconsentire alla richiesta

di Vittorio; avrei dovuto, per la prima volta nella vita,dirgli di no.I fatti, purtroppo, mi hanno tolto dall’imbarazzo. Ci

ha pensato la vita, con i suoi casi imponderabili chelasciano chi rimane su questa terra perso fra i perché, afare i conti con quello che sarà, ma soprattutto conquello che poteva essere.Per me poteva essere che, finalmente, sarei riuscito in

un’impresa coltivata da anni. Era già tutto pianificato eorganizzato nei minimi dettagli. Lui, inizialmente sor-preso e disorientato, dopo i miei argomenti e le mieinsistenze, accolse la proposta. Alla fine si convinseche era anche giusto riconoscere alla nostra ricca e soli-da relazione il merito per l’impegno che avevamo pro-fuso nell’attività di ricerca gastronomica. Si convinse, così, argomentando tra sé, che in effetti il

premio fosse dovuto al nostro lavoro comune. Eaccettò.Il premio per la Migliore Cucina Interculturale e

Mediterranea 2012 sarebbe stato consegnato nella salaconvegni alla presenza di un centinaio di persone. A

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parte qualche inevitabile presenza istituzionale cittadi-na, molti invitati erano stati scelti direttamente daVittorio fra i suoi “fratelli” di strada di Porta Palazzo.Avevo preparato un bel discorso, non retorico, chemetteva in risalto oltre alle motivazioni tecniche del-l’assegnazione, il significato e l’importanza che l’attri-buzione del premio aveva per me, per il sodalizio cul-turale su cui avevo investito per anni e che per anniaveva motivato, interessato e riempito una buonaparte della mia vita.Nel frattempo il destino decise diversamente. Dopo i primi giorni di completo dolore e smarrimen-

to, ho provato a ritrovare la lucidità di pensiero. Hocostruito tante ipotesi, ho preso in considerazionetante possibilità, ho cercato di sistemare alcune tesserein un mosaico che, mentre prendeva una certa forma,improvvisamente crollava sotto i colpi di altre conget-ture. Mi sono sfinito e alla fine mi sono arreso.Una settimana dopo la morte di Vittorio, sono stato

convocato in Questura. In quei giorni hanno sentitodiverse persone a lui vicine. Il colloquio è stato molto civile ed è durato circa un’o-

ra. Forse, più che all’Ispettore con cui ho parlato, è ser-vito soprattutto a me per rivedere come in un film ilpezzo della mia vita dove Vittorio, entrato in scenacome semplice comparsa, ne è uscito da importantecomprimario.Non me la sono sentita di far scomparire Vittorio così,

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di punto in bianco, dalla mia realtà, dalla mia vita. Nonera giusto. Anche per le persone a lui più vicine, siache lo avessero amato o che l’avessero odiato, non eragiusto disfarsi così velocemente di una memoria, deiricordi, del pezzo di vita percorsa insieme.Dovevo fare qualcosa.Poi mi capitò la notte che porta consiglio. Ma assieme

al consiglio, che mi sembrò davvero buono, arrivò l’in-sonnia a causa dell’adrenalina che ero riuscito a mette-re in circolo, eccitato com’ero sia per l’idea in sé, sia pertutto il lavoro che mi aspettava e per il quale nonavevo molto tempo. Se gli eventi avevano tracciato un percorso di vita

diverso per tutti noi, se i progetti saltavano, se doveva-mo comunque tutti pensare ad alternative di vita senzaVittorio, dovevo creare ancora una possibilità per par-lare di lui, nel bene e nel male, raccogliendo parte deipezzi della sua vita che lui aveva lasciato nelle perso-ne che lo avevano conosciuto.E per fare questo pensai a una sorta di commemora-

zione in luogo di quella che sarebbe stata la festa dedi-cata alla fulgida carriera del mio amico chef. A pensar-ci, anche una commemorazione è comunque una sortadi premio. Il premio al significato di una vita.E le persone che avrei invitato avrebbero portato il

personale significato delle loro esperienze di vita conVittorio, e lo avrebbero fatto cucinando una pietanzarappresentativa del loro rapporto con lui.

91Un thriller gastronomico

Dovevo, quindi, mettere insieme quelle persone chegli erano state più vicine, convincerle della buonacausa e invitarle a preparare un piatto significativo perricordare Vittorio. Non c’era un minuto da perdere. Nottetempo, andai

nello studio e cominciai a stilare una possibile listadelle persone da contattare. Che avrei detto? Come leavrei convinte? Avrebbero accettato? Troppe cose dafare. Il tempo era poco, ma la faccenda era assai delica-ta e aveva bisogno di mille precauzioni e attenzioni. Eio non volevo fallire in quello che mi sembrava il giu-sto, doveroso, ultimo atto d’amicizia nei confronti diVittorio.E poi mi intrigava molto la possibilità di poter mette-

re insieme le differenti verità intorno alla vita diVittorio, ma soprattutto intorno alla sua morte.La verità è fatta di tante piccole parti. Più ce ne sono

e tanto più si può parlare di verità. Da sola, assoluta, laverità individuale non esiste, è una contraddizione intermini. È semplicemente un punto di vista. Stasera, finalmente, ci ritroveremo in sala ristorante

per l’evento cui ho dedicato intere giornate di freneticicontatti personali e intere nottate di affinamento stra-tegico. Ho messo insieme una dozzina di persone; ungrande, insperato risultato.

Certo, adesso mi aspetta il lavoro duro di coordinarela discussione, di permettere a tutti di parlare e raccon-

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tare. Non dovrò farmi sfuggire la situazione di mano,dovrò essere vigile e attento, ed evitare soprattutto chequalcuno abbia la tentazione di far degenerare ladiscussione per qualche questione personale.

Ho fatto sgombrare la sala ristorante di tutti i tavoliper collocarne uno grande e tondo al centro, capace dicontenere comodamente tutti gli ospiti. È stato appa-recchiato sobriamente, con un bel cesto di gerbere gial-le e arancioni (i fiori e i colori preferiti da Vittorio).Non ho previsto posti assegnati. Siamo rimasti d’accordo che gli invitati lasceranno le

loro cose nella sala d’ingresso e spegneranno i cellula-ri. Dovrà essere un momento da dedicare solo aVittorio. Su una cosa sono ancora perplesso, anche se so che

comunque non tornerò indietro. Ho fatto fare unagigantografia da una bella foto di Vittorio che, davan-ti alla storica pensilina di Porta Palazzo, risponde sor-ridente al saluto di una famigliola cinese e l’ho fattapiazzare proprio sopra al bar. Così in bella mostra, inmodo che nessuno si dimentichi perché è lì e che cosaè venuto a fare.

93Un thriller gastronomico

Vittorio Chiara, lo chef

di Massimiliano Del Testa

Eccoli lì, uomini e donne riuniti assieme, tronfi eboriosi, riuniti al Centro, burattini del teatro dell’assur-do pronti a dar fiato a quelle bocche sporche pronte fintroppo spesso a divorare gli altri ritenendosi unicidepositari del sapere e della profonda conoscenza.Non hanno capito e non capiranno mai che nel teatro

della vita il bello non sempre risiede nella parola, manella commistione delle culture.Sono folli nella loro sicurezza, nella loro inconsisten-

za. Non saranno mai né grandi chef, né grandi perso-ne. Solo alcuni si salvano… spinti, in questo luogo ame caro, dal dolore sincero e da una tristezza incolma-bile.Io non solo sono stato un grande chef, ma anche un

grande artista, e si sa che i grandi artisti sono unici,spesso solitari, troppo superiori per essere capiti daglialtri.Io sono un grande chef!Io sono un grande artista!Guardateli, tirati a lucido, agghindati come la notte di

Natale per andare a messa, ridicoli e falsi, come quelliche invece di pregare sparlano gli uni degli altri.

95Un thriller gastronomico

Arroganti nel loro essere subito pronti a dimostrarmiche anche loro possono valere quanto me. Dovrebberocercare di essere se stessi, capire chi sono e che futurovogliono costruirsi. Non è facile, e io stesso mi sonoperso nella ricerca del mio io e delle vette alle qualivolevo innalzarlo.Immerso e intimamente perso nei miei sentieri inter-

rotti, parafrasando la mia guida spirituale Heidegger,dove sono finito? La mia vita è stata un caos calmo etenebroso.Io, Vittorio lo chef, il creativo, il creatore di opere

d’arte effimere a metà tra il sacro e profano, pur essen-do io ateo per cultura e nascita.Io Vittorio e basta!E loro? Ma chi se ne frega, i morti vanno a marcire e i

vivi se ne faranno una ragione, e poi chissà perché imorti sono tutti bravi e belli, fanculo! A me di tuttaquesta cagnara proprio non me ne frega niente, anzi sea morire fosse stato uno di loro, di sicuro non avreipartecipato a una simile pagliacciata. Ahmed ha messosu tutto questo con nobili intenzioni, la nostra era ed èsempre stata un’amicizia vera, basata sul rispetto e sul-l’accettazione del diverso, io ateo, lui musulmano nonpraticante, io ruvido e spigoloso, lui sempre sorriden-te e pronto a mediare e smussare; ma entrambi abbia-mo dovuto sopportare le ambigue e velenose cattiveriealtrui, per lui come per me le malelingue non sono maimancate.

96 Otto ricette per un delitto

Francesco, caro aiuto chef, mi ricordo come fosse ieriquando ti sei presentato, oramai dieci anni fa, per ilposto di assistente. Avevi le pezze al culo e solo il tuosorriso a farti compagnia, avevo smosso le mie cono-scenze per sapere chi eri, in molti mi avevano parlatodel tuo talento, ma col passare del tempo mi hai delu-so, sia come cuoco che come uomo. Io e Ahmed tiabbiamo offerto ciò che di più bello si possa dare a unapersona, una serena speranza per il futuro, e l’unicacosa che hai saputo fare è stato sputarci in faccia, dan-doci degli spacciatori e dei drogati, stronzetto presun-tuoso, pure il nome d’arte… È vero, con Ahmed e alcu-ni suoi amici marocchini avevamo dei segreti, quellebustine che probabilmente mi hai visto scambiarespesso erano rare spezie che loro cercavano per me, èanche vero che a volte li pagavo con dei semi dimarijuana raffinata, quella roba serviva come miorilas-sante per il padre di uno di loro affetto dal morbo diParkinson, se poi se la fumavano anche erano cazziloro!Il tuo vero problema sarà sempre che io ero un gran-

de artista e tu solo un bravo cuoco, basta vedere cosahai portato come piatto commemorativo a questa cena,un banalissimo ragù di riso speziato, guardandolo afondo sia per l’aspetto che per l’odore potrei chiamar-lo “pioggia e fango indocinese”, che tristezza!È frustrante quando prendi coscienza di essere solo

uno dei tanti ma non il migliore, sei proprio un fallito.

97Un thriller gastronomico

Avevo già dato disposizioni al mio avvocato di licen-ziarti, non hai scampo.Caro Guglielmo, che dolore vederti in mezzo a tanta

marmaglia, caro amico sincero, chissà che sforzo avraidovuto fare per essere qui, tu, col tu carattere schiettoma schivo, che è la ragione per la quale ti ho semprevoluto bene.Il dolore vero si vive in solitudine… Ma eccoti, una

mosca bianca in mezzo a fin troppe mosche nere cheaffollano il bel salone del Centro di Ahmed, ti osservo,se tu potessi ti nasconderesti dietro alla tua stessaombra, non perché tu non abbia le palle per teneretesta a tanta marmaglia, ma perché non è il tuoambiente. Ti sei addirittura messo ai fornelli per cuci-nare quegli strani spaghetti al limone, li chiamerò“abbraccio sincero”.Ci univa l’interesse per l’arte e per la letteratura e

anche se ci vedevamo non tanto spesso quanto avrem-mo voluto, ci sentivamo quasi tutti i giorni per parlaredei nostri progetti, l’idea di promuovere la cultura, dicostruire scuole in Africa, combattere le guerre con l’i-struzione e promuovere la pace nel mondo… solo cosìsi può aiutare il maggior numero di bambini, investen-do su di loro.Nessuno ne sapeva nulla, abbiamo investito una

quantità immensa di denaro, sia nostro sia dei tantiche, in silenzio, ci hanno supportati creando una retedi solidarietà.

98 Otto ricette per un delitto

Un solo neo, un solo scheletro tra di noi.La tua compagna (odio il termine “moglie” troppo

asettico) proprio non mi sopportava e a te dispiaceva.Chissà se sapevi che pochi giorni prima del vostromatrimonio io e la tua dolce metà abbiamo vissutoalcune ore di intimità, lei ha passato proprio con me ilsuo addio al nubilato. Si è trattato di un episodio avve-nuto quasi per caso, lei era con alcune sue amiche, ave-vano bevuto veramente tanto, ci siamo incontrati esenza parlare siamo finiti in una squallida bettola afare sesso, non l’amore, solo freddo sesso.

Nessuno ne trasse il minimo piacere, fu solo meschi-na follia.Mi feci schifo! E questa sensazione non mi ha mai

abbandonato. Lei non ha potuto fare altro che odiarmi,la mattina dopo mi guardò con disprezzo disumano,poi mi sputò in piena faccia e mi disse: “Che tu possapassare tutta la tua vita solo e odiato da tutti, bastardoschifoso!”. Non riuscii a fiatare.Caro Guglielmo, se lo sapevi come hai fatto a rima-

nermi così vicino e amico? Ma ti voglio bene, tutto ilresto non conta.

Ora tocca a te, caro il mio critico gastronomico PietroRossi.Parliamo del piatto commemorativo, carciofi in

umido al limone, accidenti che fantasia! Dopo tantianni durante i quali hai mangiato a sbafo le più squisi-

99Un thriller gastronomico

te prelibatezze, ti presenti qui con questa schifezza, e ilnome che darò a tale creazione che tanto bene ti rap-presenta è “Io, il carciofo”.Per te fare il critico gastronomico è solo un lavoro, per

me creare in cucina è arte! C’è una bella differenza,chissà se almeno te ne rendi conto. Caro Pietro, ti chiamo per nome non per amicizia, ma

perché per uno come te l’appellativo “signor” mi sem-bra eccessivo, nel tuo lavoro hai sempre lodato unacucina per te più familiare, più rassicurante. Le tue ori-gini hanno sempre preso il sopravvento sul tuo man-dato di giudice, tu che ti definivi uomo inflessibile,confondevi la ricerca e la sperimentazione con la sfron-tatezza, sempre pronto a tessere le lodi della cucinatradizionale confermando così la mediocrità del tuolavoro.Mi ricordo la tua critica, feroce quanto stupida,

riguardo la mia scelta di utilizzare del pepe del Kerata.Piccolo uomo inutile, sono proprio questi dettagli arendere unica una portata altrimenti anonima e ripeti-tiva.Ogni volta che presentavo una nuova creazione all’a-

vanguardia, nei tuoi articoli tiravi in ballo cazzate sullamia famiglia, pensi di essere uno psicologo e invece seisolo un ciuccia sedani! Parli della mia vita privata soloperché non sei in grado di valutare l’artista.Credo che il tuo astio sia aumentato quando ho invo-

lontariamente spinto tua sorella a fare outing in fami-

100 Otto ricette per un delitto

glia. Una conversazione avuta durante una delle sera-te organizzate con l’Arcigay al mio ristorante, le hadato la forza di affrontare i pregiudizi. Proprio Giada,la tua sorellina prediletta, era gay. Deve essere stato uncolpo per te.Ma ti ho dedicato fin troppo tempo.

La prossima è la signora Giulia.Partiamo dalla ricetta portata per questa bellissima

serata commemorativa in onore di un grande artistadei fornelli, non poteva essere altro che la pastieranapoletana, che io rinominerò “Only Sweet Naples”.Ma che ci è venuta a fare a Torino, cara signora

Giulia? Non ho mai conosciuto una persona più razzi-sta di lei, tutto ciò che è diverso le procura ansia, tuttociò che si allontana da Napoli è da criticare aspramen-te, tutto ciò che non capisce è da scartare, ma perchénon se ne torna da dove è venuta?Se c’è una cosa che proprio non tollero è la stupidità

e lei, signora Giulia, è davvero stupida!Conservatrice e snob, razzista e disadattata, che ci è

venuta a fare a Torino, città multietnica e tollerante pereccellenza? Mi creda, signora Giulia, io non ho nientecontro Napoli, tutt’altro, ho molti amici nella suasplendida città, e ho studiato a fondo i suoi usi e costu-mi, bellissimi e affascinanti, ma lei sa solo lodare le sueorigini sputando meschinità sul resto del mondo.Lei è semplicemente da ignorare.

101Un thriller gastronomico

Cara Sara, cara Sarina, uno spiraglio di luce in unanotte senza fine, tra di noi non c’era l’intimo rapportodi amicizia che avevo con Ahmed e con Guglielmo, mati ho voluto bene, come si vuole bene a una sorellaminore che ha bisogno di crescere sotto l’ala protettri-ce di una persona sincera.Vediamo cosa hai preparato per me questa sera,

cos’altro se non il cous cous di pesce alla trapanese?Pensare alla semola del cous cous mi fa venire in

mente i granelli di sabbia del Sahara, mi ricorda la con-sistenza del deserto libico della zona del Grande Arco,ed è per questo che lo chiamerò “tempesta primordia-le sahariana”.Tempestoso, così era il tuo stato d’animo quando ti sei

presentata per il posto di lavoro da Ahmed, quel postodi lavoro era nel ristorante del Centro Culturale Italo-Arabo Dar al Hikma, ma il mio caro amico fu ben lietodi lasciarti andare per diventare la mia tirocinante.Orgogliosa delle tue origini siciliane, ma ancora più

orgogliosa nel difendere la tua dignità.Eri venuta a Torino inseguendo una chimera, lo

stronzo ti aveva fottuto seducendoti e illudendotiprima, abbandonandoti al tuo destino dopo.Molte ragazze nella tua condizione sarebbero tornate

mestamente a casa, umiliate dal destino, ma tu no! Tisei subito messa in gioco, hai scommesso su di te e haivinto. Se per il signor Francesco Tuccillo il mio avvoca-to ha preparato una bella lettera di licenziamento, per

102 Otto ricette per un delitto

te, cara Sarina, nei prossimi giorni preparerà una bellalettera di assunzione come secondo chef. Non saraiuna grande artista, ma sei portata per questo lavoro.Dicendoti questo so di non umiliarti, ne avevamo

anche parlato. Ti avevo detto che credevo in te e nelletue potenzialità, ma che dovevi imparare a farti rispet-tare.Certo, nessuno è perfetto, nemmeno tu. Mi vengono

in mente quelle volte in cui Babakar Seck veniva sia nelmio locale al Centro per le sue consegne e io subitodopo me ne andavo con lui; in molti pensavano cheavessi dei rapporti omosessuali con lui, in fin dei contiio ero quello che aveva accettato la propostadell’Arcigay, e quindi uno più uno fa due! Ma non eracosì, e anche se lo fosse stato? Il mio rapporto conBabakar era del tutto diverso, avevamo un progettoletterario insieme, mi era venuta voglia di misurarmicon la scrittura; volevo raccogliere tutta una serie difiabe arabe sia per bambini che per adulti e abbinare aognuna una ricetta tipica che si legasse al racconto. Eroin cerca di fiabe inedite ma vere, e non erano facili datrovare, ma di Seck mi fidavo. Avevo aiutato la suafamiglia in un periodo veramente difficile e lui si sen-tiva orgoglioso di poter ricambiare impegnandosi almassimo delle sue possibilità. Avevo deciso di pagarloper i suoi servigi, non che ce ne fosse bisogno, ma eraimportante dargli un valore e in più lo avrei messocome secondo autore.

103Un thriller gastronomico

Ma tu, come molti altri, credevi che ci andassi a letto,è difficile essere una persona eclettica e sperare che glialtri capiscano.Ora però mi pento di averti messo in difficoltà in

alcune occasioni, lo facevo solamente per spronarti,anche se alcune volte sono riuscito solo a farti piange-re. Come quella volta che si era fatto tardi, eravamorimasti soli al ristorante e io volevo a tutti i costi che misorprendessi in cucina. Ti spinsi a fare una gara, tilasciai carta bianca, potevi usare qualsiasi cosa nelladispensa, senza badare a spese, io cucinai una faraonaripiena di cervello di montone. Alla fine glassai il tuttocon una crosta di more, lamponi e ciliege, per richia-mare il rosso scuro del sangue. Tu preparasti un picco-lo budino alla crema catalana guarnito con due frago-line di bosco, il tutto confezionato a forma di cuore. Ione rimasi deluso e ti dissi – Ti avevo chiesto di sorpren-dermi! - e tu per tutta risposta mi baciasti. Ti allontanai energicamente, ma se volevi sorprender-

mi ci eri riuscita alla grande, io proprio non riuscivo avederti come una donna nel senso carnale del termine,per me eri e sei una cosa preziosa da proteggere a tuttii costi, una sorellina da aiutare, e invece un bacio…Ti meriti un uomo vero all’altezza della tua femmini-

lità. Forse sarebbe stato meglio se ne avessimo parlatoe invece ho preferito che il nostro rapporto si raffred-dasse.

104 Otto ricette per un delitto

Chissà perché hanno chiamato anche te che eri solo lamia personal trainer. Di sicuro meglio te del tuo prede-cessore, che non prese bene il mio garbato rifiuto allesue avances e mise in giro voci su un nostro presuntoflirt, nella speranza di rovinarmi la carriera. Avreipotuto querelarlo, ma preferii fregarmene, in fondoqueste voci contribuirono a fare di me una leggenda.Fu per questo che mi contattò l’Arcigay, sapevano la

verità e giocosamente mi chiesero di collaborare conloro, e fu per questo che, quando decisi di avvalermi dinuovo di un personal trainer, scelsi te. Avevo sentitodire che eri seria ma tremendamente schiva, mai unaparola di troppo; proprio quello che cercavo.

Ti sfottevo perché facevi un lavoro prettamentemaschile, ma tu mi hai dimostrato sul campo che il mioera un pregiudizio. Per essere una il cui lavoro erabasato sul fisico, non trascuravi la mente, però.“Un tuffo al cuore”, questo è il nome che do al piatto

dedicato a me, una bella caponata.Ci siamo spesso confrontati sul buddismo, che tu pra-

ticavi, come se dopo l’allenamento fisico decidessimodi effettuare un allenamento mentale, come se dopoaver allenato il corpo fosse il turno della mente.A tratti ti comportavi quasi fossi una sacerdotessa,

ma a me sembravi semplicemente una donna sola ecomplessata, sempre con quella storia di cercare unamissione, anzi una vocazione. A volte le persone paca-te come te sono represse, pronte ad esplodere comebombe a orologeria.

105Un thriller gastronomico

Buona sera “mia cara” è passato molto tempo dalnostro ultimo incontro… e francamente avrei fattovolentieri in meno di rivederti di nuovo!Sei stata la mia compagna (odio il termine moglie) e

devo confessare che quando ti ho conosciuto ho presoil più grande abbaglio della mia vita; ti credevo unadonna forte, culturalmente vivace e sincera, invece tiho scoperta piagnucolosa, i tuoi discorsi erano cosìprosaici e quando non ti ascoltavo mi accusavi di egoi-smo. Non ti sei mai resa conto di aver sposato ungenio, un artista, non un ragioniere da 36 ore settima-nali! Io ho sempre vissuto a modo mio, schivando labanale quotidianità, sono stato un esteta, un surfistaalla ricerca dell’onda perfetta!Mi ha fregato la tua raffinatezza di facciata, in realtà,

lungi dall’essere una donna elegante e colta, ti interes-savi solo di pellicce e bigiotteria.Ti credevo sincera, chissà perché mi ero convinto che

tu fossi la persona giusta per provare ad avere unfiglio, ma quando ben presto ci siamo resi conto che ciònon sarebbe successo sei cambiata, diventasti sgrade-vole, e rivolgesti le tue attenzioni ad altri uomini. Oh,cara, come mi hai fatto stare male, mi son sentito unfallito.Vediamo che hai portato, cosa hai preparato per la

tua dolce metà? Niente di meglio ti avrebbe rappresen-tata, petto d’anatra al sale, certo, buono ma niente più,anche qui, raffinatezza di facciata, il classico piatto che

106 Otto ricette per un delitto

si dà un tono, buono per far colpo la domenica nelristorante di provincia.Lo chiamerò “Domenica delle Falsità”.Non ti curar, ma guarda e passa!

Per ultimo abbraccio te, caro Ahmed, sempre ecomunque spinto da un animo nobile e da buoneintenzioni.Tu, caro Ahmed, vorresti che gli esseri umani fossero

solo onesti e costruttivi ma, caro Ahmed, sappiamoentrambi che non è così e non lo sarà mai, eppure haicontinuato a testa bassa a investire sulle tue convinzio-ni, e a credere e far credere che è possibile, che tutti noipossiamo vivere in un mondo e in modo migliore.Il tuo essere musulmano laico è stata la prima cosa

che mi ha affascinato di te.Hai fatto tanto, tantissimo! Per alcuni dei tuoi proget-

ti abbiamo camminato assieme, e tu, intrigato da moltemie idee, mi hai sempre sostenuto.Siamo sempre stati speculari, tutti e due abbiamo

fatto degli studi che non ci appartenevano, ma abbia-mo scommesso sulle nostre qualità e abbiamo vinto.Ma si sa, quando si è vincenti tutti, ma proprio tutti,

sono pronti a farti le scarpe sfruttando ogni tua piùpiccola debolezza. Mi mancherai e sono certo che saràlo stesso per te, con un po’ di presunzione credo che lamia morte segni la fine di un’epoca, anche per te.

107Un thriller gastronomico

Al mio arrivo tu eri già qui a Torino, avevo iniziato aseguirti leggendo alcuni tuoi articoli su La Stampa, manon solo, mi ricordo le prime uscite di libri curati oscritti da te, sono persino venuto ad ascoltarti all’uni-versità e quando mi chiamasti per quel progetto sullascuola di cucina per collaboratrici domestiche rumenenon mi feci pregare.Tu crescevi.Io crescevo.Ho aperto il mio locale, con le mie regole. Non era

possibile prenotare, non c’era menù e decidevo ioquando aprire, ma non perché non avessi voglia dilavorare, ma perché a un artista non si può imporre dicreare, l’artista si propone al suo pubblico solo quandoha qualcosa da dire.Molto spesso venivo nella tua cucina, mi piaceva fre-

quentare il tuo Centro, mi sentivo a casa, a volte nean-che cucinavo, mi portavo un libro e mi accomodavo inuna delle salette per stare tranquillo, d’inverno poidiventavo un frequentatore abituale dell’hammam,almeno due tre volte a settimana.Trovavo sempre qualcuno con cui parlare, adoravo

farmi raccontare le storie di mondi lontani, a me piace-va sentire le storie di tutti i giorni, capire come si vive-va in Asia, in Africa o chissà dove, ne rimanevo sem-pre affascinato.Il tuo Centro era anche un luogo dove poter giocare in

cucina, adoravo torturarti con le mie nuove sperimen-

108 Otto ricette per un delitto

tazioni, c’era sempre tutto un cerimoniale da rispetta-re, usavamo solo piatti e stoviglie di mia proprietà chetenevo in un mobile sotto chiave lì da te, spesso erava-mo soli, e solo tu potevi degustare le pietanze che tiproponevo. Io ascoltavo in religioso silenzio i tuoicommenti, anche quando mi massacravi.Non ero l’unico cuoco che lavorava nel ristorante del

Centro, ma sicuramente ero l’unico che non ti chiede-va un euro, e che ogni volta che veniva a cena da tepretendeva sempre di pagare il dovuto.Quando mi comunicasti che mi avresti assegnato il

riconoscimento per la Migliore Cucina Interculturale eMediterranea 2012 rimasi interdetto, di solito questopremio era riservato alle giovani speranze provenientida tutto il bacino del Mediterraneo, io per primo tisegnalavo i più meritevoli, ma quando un pomeriggiodi qualche tempo fa mi hai detto: “Caro Titto, que-st’anno il premio lo assegno a te, prendilo come unriconoscimento da parte mia alla tua straordinaria car-riera di artista”. Abbozzai un rifiuto, dicendoti che tra-divi le speranze dei giovani, ma tu mi zittisti con unsemplice: “Sei una guida e un simbolo per il settore, edè giusto così “.

Tra noi c’è sempre stato un grande rispetto, anche seultimamente avevo frequentato il Centro con degliindividui che a te facevano storcere il naso. Mi avevacontattato una produttrice francese interessata a realiz-

109Un thriller gastronomico

zare un documentario sulla Torino multietnica, e si erapresentata con un giovane attore nero veramente vol-gare, credevo fosse un progetto nobile, ma si era rive-lato tutt’altro, la produttrice francese oramai di mezzaetà stava cercando un contentino per il suo giovane eprestante attore/accompagnatore.Mi fu chiaro che non ne sarebbe venuto fuori niente

di buono, io volevo che le persone riprese fossero realimigranti e non ragazzotti bizzosi, e quindi abbandonaiseccamente il progetto.Sai Ahmed, mi ero innamorato di Amina, la figlia

della mia colf, così bella nella sua semplicità, timidatanto da farsi intimorire anche dalla sua ombra, all’ap-parenza fragile, ma sicuramente tenace e flessibilecome il bambù.Ti avevo proposto di fare delle serate a tema al

Centro, Amina è veramente brava nella danza del ven-tre, anche se la sua mamma mi aveva confessato che lafiglia si voleva avvicinare alla danza classica per cre-scere nella tecnica e poi provare a dedicarsi dopo qual-che anno al teatro-danza di Pina Bausch, ma tu inizial-mente hai rifiutato, per poi fare una cosa che da te nonmi sarei aspettato; hai contattato direttamente Amina eti sei proposto come suo diretto pigmalione, in fin deiconti ambedue eravate degli stranieri in terra straniera,avrai fatto leva sulla solidarietà tra immigrati, chissàche cazzate le avrai detto…È vero mi stavo innamorando della ragazzina, ma

110 Otto ricette per un delitto

non ci avrei provato, per me poteva essere una speciedi donna angelo come quelle del Cavalcanti in purodolce stil novo, ma a te non bastava più la tua compa-gna, avevi deciso di prenderti anche la ragazza.

Che peccato, avrei voluto parlare con te dopo la con-segna del premio, non potevamo buttare al vento unacosì lunga e ricca amicizia.

111Un thriller gastronomico

LA STAMPATorino, 22 giugno 2012

IRRUZIONE DELLA POLIZIA AL DAR AL HIKMA

CLAMOROSA SVOLTA NELLE INDAGINI SULLAMORTE DI CHIARA

Dietro l’omicidio del grande chef il delirio religiosodella sua personal trainer

Ieri sera colpo di scena al Centro Culturale Dar AlHikma!La Polizia di Stato con a capo il Questore Pastorelli ha

risolto il caso della morte del noto chef Vittorio “Titto”Chiara in puro stile Ellery Queen.Alle ore 21.00 in punto le forze dell’ordine hanno

fatto irruzione nel Centro bloccando tutti i presenti eimpedendogli di andar via.I poliziotti hanno iniziato a far domande all’inizio in

maniera apparentemente casuale.Ma niente in realtà era fatto per caso e dopo quattro

ore la Polizia ha portato via in manette la ex personaltrainer di “Titto”! Ma perché e chi è questa personaltrainer?Il suo nome? Nessuno se lo ricorda.Vittorio Chiara aveva in passato già avuto un perso-

112 Otto ricette per un delitto

nal trainer, non perché fosse un patito del fitness anzitutt’altro, ma perché probabilmente intendeva mante-nersi in forma ottimizzando i tempi.Questo fatto normale si trasformò in qualcosa di

straordinario poiché i giornali di gossip parlarono diuna relazione omosessuale tra il noto chef e il suo per-sonal trainer; furono pubblicate anche alcune fotogra-fie che erano però confuse e sfocate ma la voglia deigiornali di montare lo scandalo (che fa sempre vende-re molte copie) fu superiore alla voglia di verità. Ma dilei non si sa praticamente niente, si dice sia una profes-sionista seria, ma molto silenziosa, sicuramente unapersona attenta più al cervello che al fisico. Due persone diverse, diversissime, caratterialmente

agli antipodi si incontrano, si frequentano per motiviprofessionali e alla fine uno dei due finisce ucciso acausa dell’altro!Ora bisogna capire come mai sia successo tutto ciò.Domani mattina in Questura gli inquirenti presente-

ranno alla stampa le motivazioni dell’arresto e le ragio-ni della morte di Vittorio Chiara.

Roberta Loggini

113Un thriller gastronomico

LA STAMPA

Torino, 23 giugno 2012ALLA SCOPERTA DI UN ASSASSINO

ECCO LA DONNA CHE HA UCCISO VITTORIO CHIARA

Breve ritratto di S.D. personal trainer dalla personal-ità multipla e schizoide e dall’oscuro passato

Due giorni fa le forze dell’ordine hanno arrestato S.D.personal trainer di Vittorio Chiara.Ieri pomeriggio finalmente è stato diramato il comu-

nicato stampa della Questura a seguito della confessio-ne dell’ omicida. La parola chiave secondo il Questoreè stata NEMESI, vendetta purificatrice, ma perché?Lo chef è morto a casa sua, tra le mura domestiche,

teoricamente nel luogo più sicuro per un essereumano, ma per lui non è stato così.Dopo la scoperta della sua morte, molte sono state le

indiscrezioni, ancor più sono state le voci circolate incittà, ma ora sappiamo cosa è successo e proprio perquesto abbiamo difficoltà a capirne le motivazioni.All’inizio non si sapeva se fosse morto per una causa

naturale, per una disgrazia o se fosse stato ucciso, e lacertezza ora è che Vittorio è morto per mano di unadonna che lo conosceva bene.

114 Otto ricette per un delitto

L’importante ovviamente non è conoscere il nomedella donna, ma le motivazioni che si nascondono die-tro al suo gesto.Alcuni giorni dopo la sua morte le tracce sembravano

indicare la presenza di altre due persone oltre aChiara, ciò si evinceva dal fatto che nella sala da pran-zo del suo appartamento sono stati trovati tre bicchie-ri di tè verde. Poi le indagini hanno evidenziato comeChiara stesse semplicemente degustando tre nuovevarianti dell’infuso, sono state fatte numerosissimeanalisi, gli inquirenti hanno passato al setaccio tutti iripetitori telefonici della zona, ma anche questo avevaportato a un niente di fatto. E ora si parla solo di lei.Ma come mai questa donna, che mai gli è stata legatasentimentalmente, è imputata della sua morte?Gli inquirenti hanno comunicato che, tra le persone

presenti alla cena commemorativa del CentroCulturale Italo-Arabo, molte tra quelle più vicine aChiara avrebbero avuto un movente per uccidere ilgrande chef.Lei apparentemente non ne aveva, nonostante il brut-

to carattere, Vittorio Chiara non si era mai scontratocon lei, non l’aveva mai umiliata o offesa, non le avevamai fatto un torto (vero o presunto), non l’aveva maidelusa, o forse sì?!Chiara era detestato dal suo mondo, e al contempo

amato dalla gente comune -, fu un uomo solidale versogli altri, aveva aiutato molti disgraziati di Porta

115Un thriller gastronomico

Palazzo regalando loro una speranza; detestava però iborghesi e gli snob, e coloro che non lo riconoscevanocome un “artista dei fornelli”.Ma come è morto Vittorio “Titto” Chiara?S.D. - fingendosi un ammiratore - aveva pagato un

ragazzo per consegnare un pacco al famoso chef.Chiara, tendenzialmente curioso per natura, l’ha

accettato, pensando si trattasse di un ingrediente pre-giato, come era scritto sul biglietto anonimo allegato.Preso il pacco, è tornato alla degustazione di tè; infattinon amava essere disturbato durante le sue sperimen-tazioni.Lo chef, sul finire della serata, è andato in camera da

letto, ha aperto la confezione di datteri avvolti in unacarta spessa legata con uno spago, ed è stato puntoimmediatamente da uno scorpione giallo anch’essotipico del Nord Africa e dell’Asia centrale.La morte è stata oltremodo rapida e non perché lo

scorpione giallo sia letale, bensì perché il noto e gran-de chef purtroppo ne era pericolosamente allergico.Ancora non è chiaro come la personal trainer posse-

desse tale informazione, dove avesse preso l’animale,ma questo è ciò che è successo, e ora la leggenda viven-te Vittorio Chiara è divenuta una leggenda eterna,riposi in pace!Gli inquirenti non si sarebbero mai aspettati una con-

fessione così rapida e dettagliata con la spiegazione delmovente dell’omicidio.

116 Otto ricette per un delitto

Ma perché S. D. ha ucciso Vittorio Chiara?Dalle indagini e dalla confessione è emerso che S.D.

in gioventù è stata trattenuta a lungo in centri di igie-ne mentale a causa di un delirio di onnipotenza subase mistica che da sempre la tormenta. Infatti, già daragazzina aveva mostrato un forte desiderio di intra-prendere la vita monastica, ma poi ben presto si eraresa protagonista di atti di violenti di libidine nei con-fronti di suoi coetanei, sia maschi e femmine. Spesso,prima di perpetrare queste violenze, si vestiva dasuora e obbligava alcuni ragazzi e ragazze plagiatidalla sua forza di volontà a compiere atti al limite dellapornografia.Denunciata dai parenti delle vittime, è stata seguita

per anni dai servizi sociali e sottoposta a terapia psi-chiatrica, in seguito, poiché la sua salute psichica sem-brava migliorata, è stata reinserita nella società civiledai servizi di igiene mentale che l’hanno spinta versol’attività fisica arrivando a farle prendere il brevetto dipersonal trainer.Come si era applicata in modo assoluto agli studi reli-

giosi prima, così fece con l’attività fisica, applicandosicon rigore sino a raggiungere il titolo di istruttore. Quando sembrava guarita e i terapeuti l’avevano gra-

dualmente lasciata camminare con le sue sole forze, S.D. aveva abbandonato gli studi cattolici avvicinandosial buddismo, più che una religione una filosofia divita.

117Un thriller gastronomico

Ma la “bestia” dentro di lei non era stata domata, erasolamente sopita, forse si era nascosta in qualche ango-lo buio del suo inconscio.In Vittorio Chiara aveva visto il volto del demonio, lei

schiva, lui sempre sotto i riflettori, lei fissata con l’au-tocontrollo, lui il re degli eccessi e della sregolatezza,lei sempre con un obiettivo superiore da raggiungere,lui tutto genio e pura follia artistica.Lei così devota nel suo credere.Lui ateo per convinzione.Lui era il Diavolo e lei l’Angelo Vendicatore.Nemesi.

Roberta Loggini

118 Otto ricette per un delitto

INDICE

Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .3di Ferruccio Valletti

Nota Introduttiva . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .6di Silvia De Marchi

Francesco Tuccillo, chef . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .15di Maria Pia Capuano

Guglielmo Moretti, il migliore amico . . . . . . . . . . . . . . . .23di Adriana Virzì

Pietro Rossi, critico gastronomico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .33di Michele Ciardi

Giulia Maiello, signora torinese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .41di Vittoria Maraniello

Sara D’Ambrosio, la tirocinante . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .49di Leonarda Barraco

Sibilla De Luca, la personal trainer . . . . . . . . . . . . . . . . . .61di Antonella Calatabiano e Nino Cirrincione

L’ex moglie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .69di Maria Pia Capuano

Ahmed El Helwe, direttore del centro culturale . . . . . . . .75di Maria Concetta Noto

Vittorio Chiara, lo Chef . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .95di Massimiliano Del Testa

Finito di stampare nel mese di Gennaio 2013

presso

per conto dell’editore