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AGEI - Geotema, 56 11 Angela Alaimo Orti urbani tra partecipazione e retorica. Il caso del Comun’Orto di Rovereto Abstract: URBAN COMMUNITY GARDENS BETWEEN PARTICIPATION AND RHETORIC: THE CASE OF COMUN’ORTO (ROVERETO) Citizen participation is becoming a widespread practice in several urban areas, by means of collaborative governance experiences. Are these processes the result of real participation or just rhetorical expedients aimed at institutional goals? I will try to address this question by reflecting on the case of urban community gardens, and particularly on the experience of Comun’Orto, a community project developed in the Brione district of Rovereto as the result of the joint work of eight urban organizations that joined forces to nurture both social sharing and cohesion, as well as the products of the earth. In this intervention, by reconstructing the map of the actors at stake, the organizational and territorial history that led to this outcome, the peculiar characteristics of the neighbourhood, I will try to understand whether Comun’Orto succeeds in its participatory intentions, what are the dynamics of power between the actors involved and the actual territorial effects of the project. Keywords: urban community gardens, citizen participation, Comun’Orto, neighbourhood. 1. Introduzione Il tema dell’agricoltura urbana è cruciale per le città del futuro, se consideriamo che nel 2050, secondo le attuali proiezioni, il 66% della popo- lazione mondiale vivrà in città (proiezione ESA 2017, Nazioni Unite) 1 . Alla luce delle recenti ri- configurazioni urbane, l’antica relazione città/ campagna assume una costellazione di conforma- zioni spaziali (Sommariva, 2014; Spagnoli, Ferra- ri, 2012; Reho, 2016; Donadieu, 2013) che vanno dagli storici orti privati a nuove forme di orti co- munitari e di agricoltura urbana: «parchi agrico- li, fattorie urbane, fattorie per bambini, orti te- rapeutici, orti didattici, parchi fluviali: situazioni variamente integrate con sistemi di rigenerazione dell’acqua, con programmi di riciclaggio e com- postaggio organico, trattamento biomasse, e rea- lizzazione di tetti verdi» (Ingersoll, Fucci, Sassa- telli, 2007, p. 15). Sono tutte esperienze legate a tentativi di partecipazione dei cittadini alla vita urbana, sostenute dalla richiesta di vivere in real- tà sostenibili e di scegliere il proprio destino ali- mentare. Certamente, le esigenze espresse sono diverse e se, nel contesto dei Paesi del Nord del mondo, questi processi esprimono il desiderio di riappropriarsi della relazione con la terra e il di- ritto a partecipare alla cura del proprio territorio, nei paesi del Sud del mondo l’agricoltura urbana rappresenta una possibilità concreta per uscire dalla povertà estrema, come dichiarato da Shivaji Pandey, direttore della Divisione FAO Produzione vegetale e protezione delle piante (FAO, 2010) 2 . La questione allora si amplia: non solo e non tanto agricoltura in città, quanto partecipazione dei cittadini e riaffermazione della propria capa- cità di scegliere, programmi spesso non privi di una certa retorica e strumentali a nascondere al- cune distorsioni della governance urbana contem- poranea. Cosa intendiamo oggi per comunità e quali sono le forme di partecipazione che questi processi innescano e con quali ripercussioni sono alcune delle domande di fondo intrecciate al tema proposto. Questo articolo inizia con la presentazione dell’evoluzione e delle trasformazioni sociopoliti- che e culturali che hanno portato alla diffusione contemporanea degli orti comunitari. Illustra poi l’esperienza di Comun’Orto (Rovereto), analiz- zata a partire da una ricerca sul campo e dallo studio della letteratura di settore 3 , considerando la mappa degli attori coinvolti, le caratteristiche di contesto e le peculiarità del quartiere Brione della città di Rovereto in cui nasce, nonchè le ca- ratteristiche che il fenomeno prende nella PAT (Provincia Autonoma di Trento). L’articolo si con- clude valutando quali forme di partecipazione siano stimolate dalle esperienze degli orti comu- nitari e con quali ricadute territoriali rispetto alla governance urbana.

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Angela Alaimo

Orti urbani tra partecipazione e retorica. Il caso del Comun’Orto di Rovereto

Abstract: Urban commUniTy gardens beTween parTicipaTion and rheToric: The case of comUn’orTo (rovereTo)

Citizen participation is becoming a widespread practice in several urban areas, by means of collaborative governance experiences. Are these processes the result of real participation or just rhetorical expedients aimed at institutional goals? I will try to address this question by reflecting on the case of urban community gardens, and particularly on the experience of Comun’Orto, a community project developed in the Brione district of Rovereto as the result of the joint work of eight urban organizations that joined forces to nurture both social sharing and cohesion, as well as the products of the earth.In this intervention, by reconstructing the map of the actors at stake, the organizational and territorial history that led to this outcome, the peculiar characteristics of the neighbourhood, I will try to understand whether Comun’Orto succeeds in its participatory intentions, what are the dynamics of power between the actors involved and the actual territorial effects of the project.

Keywords: urban community gardens, citizen participation, Comun’Orto, neighbourhood.

1. Introduzione

Il tema dell’agricoltura urbana è cruciale per le città del futuro, se consideriamo che nel 2050, secondo le attuali proiezioni, il 66% della popo-lazione mondiale vivrà in città (proiezione ESA 2017, Nazioni Unite)1. Alla luce delle recenti ri-configurazioni urbane, l’antica relazione città/campagna assume una costellazione di conforma-zioni spaziali (Sommariva, 2014; Spagnoli, Ferra-ri, 2012; Reho, 2016; Donadieu, 2013) che vanno dagli storici orti privati a nuove forme di orti co-munitari e di agricoltura urbana: «parchi agrico-li, fattorie urbane, fattorie per bambini, orti te-rapeutici, orti didattici, parchi fluviali: situazioni variamente integrate con sistemi di rigenerazione dell’acqua, con programmi di riciclaggio e com-postaggio organico, trattamento biomasse, e rea-lizzazione di tetti verdi» (Ingersoll, Fucci, Sassa-telli, 2007, p. 15). Sono tutte esperienze legate a tentativi di partecipazione dei cittadini alla vita urbana, sostenute dalla richiesta di vivere in real-tà sostenibili e di scegliere il proprio destino ali-mentare. Certamente, le esigenze espresse sono diverse e se, nel contesto dei Paesi del Nord del mondo, questi processi esprimono il desiderio di riappropriarsi della relazione con la terra e il di-ritto a partecipare alla cura del proprio territorio, nei paesi del Sud del mondo l’agricoltura urbana rappresenta una possibilità concreta per uscire

dalla povertà estrema, come dichiarato da Shivaji Pandey, direttore della Divisione FAO Produzione vegetale e protezione delle piante (FAO, 2010)2.

La questione allora si amplia: non solo e non tanto agricoltura in città, quanto partecipazione dei cittadini e riaffermazione della propria capa-cità di scegliere, programmi spesso non privi di una certa retorica e strumentali a nascondere al-cune distorsioni della governance urbana contem-poranea. Cosa intendiamo oggi per comunità e quali sono le forme di partecipazione che questi processi innescano e con quali ripercussioni sono alcune delle domande di fondo intrecciate al tema proposto.

Questo articolo inizia con la presentazione dell’evoluzione e delle trasformazioni sociopoliti-che e culturali che hanno portato alla diffusione contemporanea degli orti comunitari. Illustra poi l’esperienza di Comun’Orto (Rovereto), analiz-zata a partire da una ricerca sul campo e dallo studio della letteratura di settore3, considerando la mappa degli attori coinvolti, le caratteristiche di contesto e le peculiarità del quartiere Brione della città di Rovereto in cui nasce, nonchè le ca-ratteristiche che il fenomeno prende nella PAT (Provincia Autonoma di Trento). L’articolo si con-clude valutando quali forme di partecipazione siano stimolate dalle esperienze degli orti comu-nitari e con quali ricadute territoriali rispetto alla governance urbana.

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2. Dagli orti sociali agli urban community gardens: un cambio di prospettiva

Alla fine degli anni Settanta, il Ministero dell’Agricoltura commissiona una ricerca all’As-sociazione Italia Nostra per comprendere un fenomeno in crescita in numerose città: gli orti urbani. Il progetto, considerato pioniere, analiz-zerà casi di studio italiani ed europei per com-prendere le caratteristiche di un fenomeno che sarebbe, di lì a poco, diventato parte di un pro-cesso esteso e coordinato dalla Pubblica Ammi-nistrazione (Crespi, 1982, p. 427). L’orticoltore urbano, non sempre ben visto dalla popolazione urbana, era indentificato nell’anziano o nell’im-migrato del Sud Italia (ricordiamo infatti che il fenomeno nasce spesso stimolato dall’arrivo nelle metropoli del triangolo industriale di im-migrati, provenienti da contesti rurali, portatori di una cultura contadina). Lo spontaneismo e l’abusivismo degli orti, regolati successivamente da assegnazioni pubbliche, sono caratteristiche comuni nei casi presentati.

L’orto urbano continuerà così per molti anni a mantenere questa connotazione socio-culturale, relegato alle esigenze dei più anziani o al recupe-ro di persone in situazione di marginalità (Ber-nardi, Sala, 1989). Il fenomeno degli orti degli anni Ottanta in Italia, però, a ben guardare rap-presenta non tanto un arrivo quanto un ritorno. Infatti, l’orto in città è sempre esistito, nel senso che le città sono nate proprio laddove si poteva avere un bacino di approvvigionamento del cibo di prossimità. Lo spazio interno alle mura, dedi-cato all’orticoltura, era spesso funzionale ad esi-genze militari in caso di assedio. Questa relazio-ne vitale tra città e campagna si spezzerà con lo sviluppo dell’agricoltura intensiva e il progressivo passaggio dall’urbanesimo preindustriale a quel-lo industriale, fino ad arrivare a una fase di de-ruralizzazione della città in cui l’orto perderà via via il suo valore, restando relegato ad esperienze familiari, in aree residuali spesso frazionate per suddivisione ereditaria del fondo originario (Bus-solati, 2014, p. 18; Ferrario, 2014). L’orto poi torne-rà in auge in tutti i momenti di crisi politica e so-ciale e nei periodi di guerra (Schmelzkopf, 1995; Bussolati, 2012; Sommariva, 2014)4.

Attualmente gli orti urbani si stanno diffon-dendo ampiamente in Italia con caratteristiche differenti rispetto al quadro delineato. Secondo un’analisi svolta da Coldiretti, gli orti urbani in Italia stanno notevolmente crescendo, arrivando a coprire 3,3 milioni di metri quadri nel 20155. Si tratta di orti senza scopo di lucro, assegnati in

comodato ai cittadini richiedenti e destinati al consumo familiare, oppure occupati da gruppi spontanei, che contribuiscono a preservare aree verdi residue, spesso in stato di abbandono. La localizzazione degli orti è prevalentemente nel Nord Italia: l’81% nelle città del Nord (Torino, Bologna, Parma, ad esempio).

Vista la molteplicità di esperienze, quando parliamo di orti urbani è necessario suddivide-re gli stessi in tre tipologie: gli orti di proprietà privata a conduzione familiare; gli orti sociali (lottizzazioni comunali date ad uso privato ad anziani o persone in condizioni di marginalità) e gli orti comunitari, quelli che nella letteratura di riferimento vengono definiti urban community gardens (Ghose, Pettygrove, 2014; Picone, 2014; Bergamaschi, 2012), appezzamenti di terreno, non suddivisi in parcelle, in genere di proprietà pubblica e concessi dall’Amministrazione comu-nale a gruppi di cittadini e/o associazioni che ne fanno richiesta, e che esprimono un progetto culturale di gruppo.

Gli urban community gardens in Italia costitui-scono una realtà più recente e sono quindi meno regolamentati degli orti sociali (Merlo, 2014, p. 42). La dimensione collettiva che li contraddi-stingue esprime non solo un desiderio di ritor-no alla terra e di agricoltura di prossimità, ma soprattutto esigenze di riappropriazione della vita quotidiana e di forme di partecipazione alla gestione dello spazio pubblico, considerato come bene comune. Questi movimenti si pongono alla confluenza di richieste ad ampia scala, legate alla crisi dell’attuale modello di sviluppo, che trovano nella dimensione locale dell’orto un radicamento per costruire reti di solidarietà e vicinato, nuove forme attive di cittadinanza. Queste esigenze so-cio-culturali e politiche si intrecciano alle temati-che della sostenibilità ambientale e urbana e del-la sovranità alimentare (Rosset, 2011): il tema del cambiamento climatico, unito a quello del consu-mo di suolo pubblico, porta ad un progetto di cit-tà capace di preservare il suolo agricolo esistente (Pileri, 2014) in uno «sviluppo senza espansione» (Ferrario, 2014, p. 22); il ripensamento del siste-ma di approvvigionamento di cibo accompagna la critica all’allungamento artificioso delle filiere alimentari e la richiesta di maggior controllo sul-la provenienza dei prodotti in termini di quanti-tà, ma soprattutto di qualità e tracciabilità della produzione (Bussolati, 2012). Insomma, entro lo spazio coltivato la città contemporanea cerca un modo per aumentare sostenibilità e resilienza, per chiudere alcuni dei cicli che nelle concentra-zioni urbane restano aperti (Ferrario, 2014). Ma

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a spese di chi? C’è infatti un ulteriore elemento da considerare, legato alla crisi economica diffu-sa a scala globale: la scarsità di risorse finanzia-rie per la gestione degli spazi urbani. Nella fase di “austerity urbanism” (Peck, 2012), i tentativi per regolamentare e favorire la partecipazione dei cittadini (è il momento in cui anche in Italia iniziano ad essere promulgate leggi regionali e provinciali a favore della partecipazione), posso-no essere letti come forme di delega, strumenti per demandare al cittadino funzioni di gestione e cura del territorio, da sempre ambito della di-mensione pubblica (Picone, Schilleci, in corso di pubblicazione).

3. Comun’Orto (Rovereto): un’esperienza di orto comunitario

Comun’Orto è un’esperienza di orticoltura co-munitaria nata nel marzo del 2015 nel quartiere Brione, situato a nord della città di Rovereto. È un progetto di comunità ideato da un collettivo at-tivo da anni nel quartiere (“Quartiere solidale”), in collaborazione con altre otto associazioni della città. Il caso illustra bene alcune caratteristiche del fenomeno oggi in atto in molte città: la forza dei legami deboli e al contempo la loro fragilità, il difficile radicamento locale nella realtà di quar-tiere e la forza delle reti lunghe, la coesistenza di diverse “culture” urbane, l’impegno e l’organizza-zione necessari per garantire la durata dell’espe-rienza e la ricchezza relazionale della sinergia di attori intergenerazionali.

Comun’Orto nasce da un’idea, più che da una pratica, legata al desiderio di creare uno spazio di aggregazione nel quartiere di soggetti diversi e capace di offrire occasioni anche di reddito per persone in condizioni di fragilità, ma anche da una contingenza spaziale: la presenza di un’area verde dismessa, al confine tra il quartiere e il bo-sco della città (questa localizzazione è importante per capire l’evoluzione dell’esperienza e le sue po-tenzialità), area precedentemente utilizzata come orto comunitario e poi abbandonata per difficol-tà logistiche, che diventa un’opportunità per dare corpo a questa nuova progettualità. Inoltre, Co-mun’Orto nasce da un’occasione di finanziamen-to, legata al bando di concorso “Intrecci possibili” del CSV (Centro Servizi per il Volontariato6), in un contesto territoriale favorevole al dialogo tra cittadini e pubblica amministrazione per alcune peculiarità.

Anzitutto, la PAT è tra le prime province in Ita-lia ad aver legiferato in materia di partecipazione

comunitaria con la legge provinciale sulla parte-cipazione del 16 giugno 2006 art. 17, a cui sono seguiti una serie di provvedimenti a livello comu-nale per favorire lo sviluppo di un’amministra-zione condivisa (Bonapace, 2015/2016). Inoltre, la taglia urbana ridotta contribuisce al dialogo e all’accessibilità delle amministrazioni pubbliche. Il territorio provinciale, infatti, è frazionato in piccoli comuni (177) e organizzato in Comunità di Valle per una popolazione totale di 538.604 all’1/1/2017 (ISTAT). I centri urbani più impor-tanti sono tutti di piccola taglia (Trento 117.417 abitanti; Rovereto 39.482; Pergine 21.363; Riva del Garda 17.190). L’importanza delle Comunità di valle è legata alla natura montana del territorio dove tradizionalmente si è sviluppato un senso di compartecipazione, soprattutto nella gestione co-mune della terra. In più, numerose lottizzazioni comunali di orti privati (solo a Rovereto si con-tano, nel 2013, 80 orti privati comunali, mentre a Trento nel 2016 ne sono stati censiti 411), una storica tradizione di orti familiari in terreni priva-ti, unita alla forza del settore agricolo e all’atten-zione per il verde, rendono l’amministrazione fa-vorevole alla diffusione di orti comunitari. Anche se il fenomeno nella PAT è relativamente recente e ancora poco sviluppato: tra il 2008 e il 2013 nei principali centri urbani della provincia nascono una decina di orti comunitari, nessuno da un’oc-cupazione abusiva di spazi, ma tutti regolati da contratti di comodato d’uso (Saguto, 2013/2014).

Come si vede ci sono fattori strutturali (la pre-senza di un’area dismessa utile per creare un orto, l’apertura provinciale, la tradizione orticola) e fat-tori congiunturali (il bando, il gruppo affiatato di Quartiere solidale, l’idea e la voglia di creare un orto comunitario) da cui prende forma la rete lo-cale: l’associazione Italia-Nicaragua diventa capo-fila del progetto ed entrano altre associazioni che, nella fase di ideazione, sono Punto d’Approdo, Brave New Alps, Associazione Shiashu, Comitato Associazioni per la Pace e i Diritti Umani, GaSud, Gas La Sporta, Associazione Murialdo. Ognuno di questi attori mette in campo la propria forza relazionale e le proprie competenze perché forte è la condivisione dell’orizzonte culturale del pro-getto e l’impegno sociale.

Comun’Orto attualmente ha in gestione due terreni di complessivamente 5 ettari. Dei due orti concessi, quello che è stato maggiormente inve-stito di senso e di lavoro è l’orto ubicato alle spal-le della scuola primaria Gandhi, confinante con il bosco della città. È interessante riflettere sulla localizzazione geografica dei due appezzamenti (Fig. 1).

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Uno, l’orto “Drio Pozzo” si trova lungo l’omo-nima strada, un’arteria di passaggio del quartiere in posizione rialzata, ben visibile rispetto al piano di strada, al di sopra di una fila di orti sociali as-segnati dal Comune di Rovereto a dei pensionati. Nonostante la visibilità, l’orto è poco conosciuto dagli abitanti intervistati, che lo confondono con le lottizzazioni comunali. Nessun dialogo si è in-staurato con gli “ortolani” pensionati, tanto che oggi tra i due orti questo è il meno utilizzato. L’or-to dietro la scuola, l’Orto “Gandhi”, si trova inve-ce in una sorta di margine urbano: alla fine dello spazio cementificato del quartiere e alle pendici del bosco della città. Quest’orto non è visibile dal-la strada e, a parte un cartello che ne indica la presenza, non è facile da trovare. Questo essere nascosto lo rende una sorta di oasi, uno spazio di sospensione tra la città e il bosco e lo configura come spazio racchiuso e accogliente, lontano da-gli occhi indiscreti dei passanti e per certi versi scollegato dall’ambito del quartiere. Questa di-mensione spaziale rispecchia la struttura di reti corte e lunghe che lo attraversano.

3.1 Il funzionamento dell’orto: reti corte e reti lunghe

Dalla creazione di Comun’Orto ad oggi sono passati più di due anni e partendo dall’analisi dei cambiamenti occorsi è possibile valutare gli ele-menti di forza e di debolezza.

Fin da subito, ancor prima della concretizza-zione del progetto, avviene la prima frizione tra i promotori rispetto alla dimensione retributiva dell’orto. L’idea di fare diventare l’orto un’occa-sione di reddito per le persone in difficoltà del quartiere viene scartata, così come la vendita dei prodotti. Viene cercato un coordinatore agricul-turale che sarà assunto nel 2016. La figura del coordinatore è molto importante non solo per le sue competenze in agricoltura biodinamica, ma anche per l’attività di coordinamento delle diver-se associazioni coinvolte e di comunicazione con la città e col quartiere. È un elemento di forza che costruisce reti lunghe (partecipa a conferenze internazionali, si connette a reti nazionali e pro-vinciali), rafforza i legami tra gli attori in gioco, diventando un nodo importante della rete. Il suo essere stipendiato, grazie ai fondi dei bandi vinti dal progetto, garantisce continuità all’esperienza che altrimenti risulterebbe frammentata, come nei casi a base esclusivamente volontaria. Infatti, come dichiarato da molti intervistati, la maggior parte delle associazioni ha aderito al progetto più per vicinanza culturale che per una reale dispo-nibilità a coltivare l’orto. Rispetto agli altri attori locali in gioco (amministrazione, circoscrizione e abitanti) il coordinatore funge da raccordo e pro-muove l’esperienza anche attraverso un lavoro di fundraising. Infatti, dopo il finanziamento inziale del CSV, il gruppo di progetto riesce ad ottenere successivi finanziamenti (prima dal Comune e poi dalla Regione). Oltre all’attività più istituzionale, il coordinatore si occupa anche di promuovere le attività proposte e di coinvolgere le persone del quartiere. Questo è ancora un elemento di criti-cità per diverse ragioni. A parte gli abitanti più attivi, vicini per impegno associativo e culturale allo spirito del progetto, la maggior parte degli abitanti del quartiere non partecipa alle attività dell’orto e spesso non conosce di cosa si tratti: du-rante un sopralluogo, tutti gli anziani incontrati per strada, fuori dall’orto, non hanno saputo dire di cosa si trattasse e guardando la cartellonistica del progetto, hanno pensato alle lottizzazioni co-munali per i più anziani (Fig. 2).

Questa difficoltà è stata indicata anche dal coordinatore come un elemento di debolezza. Il quartiere Brione fa parte della circoscrizione Ro-vereto Nord della città, un quartiere di recente

Fig. 1. La cartolina pubblicitaria del progetto Comun’Orto.

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insediamento (nasce infatti negli anni settanta) a carattere residenziale con una popolazione ad alta densità straniera (secondo i dati Istat al 1° gennaio 2017 a Rovereto gli stranieri sono 4.531 abitanti, ovvero l’11,5% della popolazione totale). Gli abitanti in età attiva hanno spesso poco tem-po libero da investire nel territorio locale. Inoltre, sempre secondo il coordinatore, la presenza di richiedenti asilo ha suscitato una certa diffiden-za, soprattutto da parte degli abitanti di origine straniera del quartiere. Comun’Orto ha, infatti, attivato diversi cicli di formazione per richiedenti asilo in sinergia con altre associazioni della città per offrire un’occasione di formazione professio-nalizzante. Purtroppo, si tratta di attori deboli che spesso alla fine del tirocinio nell’orto non par-tecipano più, sia perché vengono trasferiti in altro comune, sia perché la partecipazione è spesso più funzionale a un inserimento sociale che a un reale interesse orticolo. Chi coltiva allora Comun’Orto? Al momento ci sono circa 20 volontari attivi, 10 richiedenti asilo politico per ogni ciclo di forma-zione, il coordinatore e 50 sostenitori. La maggior parte sono legati alle associazioni promotrici del progetto. Possiamo suddividerli tra ortolani “d’i-

dea” e “di fatto”. La dimensione culturale è infatti quella più federante: le iniziative più partecipate sono rivolte a promuovere la cultura della sosteni-bilità, la conoscenza della permacoltura attraver-so conferenze, gli aperitivi nell’orto, i cineforum e le cene sociali (Fig. 3).

Fig. 3. L’orto Gandhi (foto dell’Autore).

Partecipate sono anche tutte le attività di for-mazione (formale e informale) che coinvolgono le scuole e i richiedenti asilo, grazie al lavoro di rete sul territorio. Le attività orticole vere e pro-prie (l’orto sinergico, i sabati nell’orto, la casa degli insetti, l’essicazione di piante), invece, regi-strano una partecipazione più discontinua. Come sottolineato da una partecipante attiva dell’orto, le difficoltà principali, legate alla mentalità loca-le, sono due: «molti hanno già l’orto famigliare o i frutti di quello dei nonni. Se posso avere il mio orto, che senso ha uno in comune? La difficoltà maggiore è anche prendere i frutti dell’orto, per una ritrosia culturale… più facile trovare chi vie-ne a lavorare e a dare una mano, piuttosto che chi poi vuole spartirsi il raccolto!» (intervistata, settembre 2017).

Comun’Orto si presenta come una “rete di reti” con connessioni forti lunghe, con un buon “radi-camento virtuale” nel web (forse medium più adat-to ai sostenitori del progetto culturale dell’orto che agli abitanti del quartiere), attraverso contatti con gruppi e orti lontani che sostengono questo nuovo progetto di società. Le criticità più grandi sono connesse al coinvolgimento degli abitanti, anche se alla domanda su come raggiungere il quartiere, la risposta del coordinatore sembra spe-ranzosa: «Si tratta di un processo… sì, è vero, non riusciamo a coinvolgere le persone del Brione... Ma dobbiamo mantenerci qui... Già esserci è un punto di forza... I processi sono lenti... Io non sono preoccupato... Molti invece alle riunioni del Comitato di gestione si preoccupano, vorrebbero fare... Ma cosa? Ci stiamo provando» (intervistato, settembre 2017).

Fig. 2. La cartellonistica di Comun’Orto (foto dell’Au tore).

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Certo, forse qualcosa di più si potrebbe fare: ampliare la rete alla parrocchia, che è un nodo aggregativo forte; provare a cercare di “conta-minarsi” coi vicini degli orti privati; ripensare a come comunicare le iniziative localmente. Solo il tempo potrà fornire le risposte sugli esiti di un progetto che da questa analisi appare vitale, con-taminato da diversi apporti culturali e forte della presenza di fruitori intergenerazionali.

4. Conclusioni

L’orto urbano comunitario lascia aperti alcu-ni importanti interrogativi. Anzitutto il senso da dare al termine comunitario: si parla di comuni-tà, ma a quale ci si riferisce? Negli ultimi decenni molti cambiamenti hanno profondamente modifi-cato le abitudini di vita dei contesti urbani e la fa-cilità degli scambi e l’accresciuta mobilità (reale e virtuale) hanno ampliato le possibilità di scegliere con chi stabilire legami e relazioni a prescindere dalla localizzazione territoriale. Queste trasfor-mazioni hanno portato i geografi a ripensare le identità territoriali in modo dinamico e proces-suale, ridefinendo i concetti di locale e globale (Banini, 2009). La valenza socializzante e socia-lizzatrice degli spazi urbani pubblici è profonda-mente cambiata, provocando un mutamento del significato di comunità territoriale (Mannarini, 2010, p. 31). Il tradizionale concetto di comunità, ormai metaforico, non è più adeguato a leggere le trasformazioni della società contemporanea (Beck, 2001), e andrebbe declinato nelle sue com-ponenti fondanti «identità, reciprocità e fiducia» (Bagnasco, 1999, p. 30). Eppure è un termine che continua ad avere un peso nei discorsi pubblici e nelle retoriche urbane ed è ancora utilizzato per indicare il bisogno di appartenenza e identità a una comunità di relazioni che agisce a diverse scale in forme diverse (Bauman, 2000; Banini, 2009). Nel caso presentato è chiaro che la scala comunitaria di riferimento non è il quartiere, ma è un gruppo connesso globalmente e disconnesso localmente, che trova nell’orto un “luogo” di ri-trovo e di contatto, in una dimensione locale «che è organizzazione autopoietica rispetto alle sue re-lazioni interne, ma anche parte integrante di una rete di relazioni di dimensioni potenzialmente globali», (Banini, 2009, p. 8). Una comunità che potremmo definire a «scala virtuale» (Calhoun, 1998; Diani, 2000).

Una seconda questione, ancora più profonda, è al cuore del progetto: il senso del coltivare la terra. Qual è il legame con la terra? Che senso ha la col-

tivazione dell’orto? Quali sono i suoi frutti? Che ruolo hanno nell’alimentazione dei suoi membri? Dal caso considerato, la dimensione agricola le-gata al sostentamento dei membri sembra assen-te. La dimensione culturale e la condivisione di un’ideologia comune, anche sulla grande moda diffusa a scala globale, prevalgono sul bisogno di produzione di cibo che ritroviamo, invece, cen-trale in molte esperienze internazionali (Roiatti, 2011). Comun’Orto sembra essere la realizzazione di un progetto politico e culturale che emana dal-le persone che già condividono questo orizzonte culturale, ma che poco dialoga col quartiere in cui è inserito e con chi non fa parte di questa “nicchia ecologica”. L’amministrazione, come nel-la maggior parte delle esperienze di questo tipo, asseconda volentieri l’attivismo di questi gruppi di cittadini. Si tratta di un investimento a basso costo che garantisce da una parte attività sociali e culturali, volte anche all’integrazione (su cui oggi l’investimento pubblico è minimo) e dall’altra la protezione degli spazi verdi dato che la presenza di orti contrasta progetti di speculazione edilizia di aree liminari.

Infine, la questione partecipativa: chi parteci-pa realmente? Con quale obiettivo? Possono gli orti essere considerati l’espressione di una ritro-vata cittadinanza attiva? Non esiste, ovviamente, una ricetta univoca per attivare processi parteci-pativi poiché ogni contesto propone sfide sem-pre differenti connesse, come abbiamo visto, alle «caratteristiche specifiche delle società locali da coinvolgere e delle contingenze temporali in cui il processo si svolge» (Mela, Ciaffi, 2006, p. 125). Certo è che, nel caso considerato, la partecipa-zione sembra coinvolgere chi di fatto è già attivo localmente, più che integrare nel processo nuove relazioni sociali. Coinvolgere il quartiere sembra allora restare una delle sfide più importanti per fare in modo che questo ambito territoriale di-venti «il luogo della resistenza» (Picone, Schilleci, 2012, p. 28) in cui imparare a praticare nuovi oriz-zonti di cittadinanza.

Riferimenti bibliografici

Bagnasco A., Tracce di comunità, Bologna, Il Mulino, 1999.Banini T., “Identità territoriali: verso una ridefinizione possi-

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Note1 http://www.un.org/en/development/desa/population/publications/pdf/policy/Data%20Booklet%20Urbaniza-tion%20Policies.pdf.2 http://www.fao.org/news/story/it/item/45669/icode/3 La ricerca sul campo è stata realizzata in Trentino tra marzo e ottobre 2017, e ha previsto un’attività di osservazione par-tecipante e la realizzazione di 11 interviste semi-strutturate. Per ragioni di protezione dell’anonimato le parti di intervista citate saranno indicate genericamente con “intervistata” o “intervistato” e la data dell’intervista.4 Per un’interessante trattazione storica dell’evoluzione degli orti in città si veda Sommariva (2014, pp. 185-196).5 È quanto emerge da un’analisi presentata della Coldiretti in occasione della presentazione della prima rete di “Tutor dell’orto”, promossa dalla Fondazione Campagna Amica (http://www.ansa.it/sito/notizie/cronaca/2015/03/21/crisi-coldiretti-triplicati-gli-orti-urbani-a-33-mln-mq_edc7feeb-5ae2-41bc-98ae-b18abdf22eee.html).6 http://www.volontariatotrentino.it/.