Orti urbani e sicurezza alimentare

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1 Filosofia della condivisione/orti urbani/appunti1 Orti urbani e sicurezza alimentare di Andrea Braggio I. Nel nostro sistema economico tendiamo generalmente ad andare al supermercato e acquistare ciò di cui abbiamo bisogno per ottenere alimenti (1). Spesso non ci poniamo alcuna domanda sulla provenienza del cibo che acquistiamo, né come sia stato prodotto. Per tante famiglie è un modello indubbiamente comodo, rapido, che non comporta grandi sforzi. Ingenti quantitativi di denaro sono stati spesi «per far sì che il supermercato smistasse più prodotti nel minor tempo possibile, in un esercizio di complesso equilibrismo. La disposizione spaziale deve permettere il veloce rifornimento degli scaffali e l’inventario in tempo reale, ma anche offrire un ambiente che ci aiuti a dimenticare che stiamo facendo la spesa in quello che in fondo è un deposito più illuminato della media» (2). Non sorprende affatto che oggigiorno il supermercato, l’agrobusiness più nuovo e potente, rappresenti «il massimo tempio del moderno sistema alimentare» (3).

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Orti urbani e sicurezza alimentare di Andrea Braggio.

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Filosofia della condivisione/orti urbani/appunti1 Orti urbani e sicurezza alimentare di Andrea Braggio

I. Nel nostro sistema economico tendiamo generalmente ad andare al supermercato e acquistare ciò di cui abbiamo bisogno per ottenere alimenti (1). Spesso non ci poniamo alcuna domanda sulla provenienza del cibo che acquistiamo, né come sia stato prodotto. Per tante famiglie è un modello indubbiamente comodo, rapido, che non comporta grandi sforzi. Ingenti quantitativi di denaro sono stati spesi «per far sì che il supermercato smistasse più prodotti nel minor tempo possibile, in un esercizio di complesso equilibrismo. La disposizione spaziale deve permettere il veloce rifornimento degli scaffali e l’inventario in tempo reale, ma anche offrire un ambiente che ci aiuti a dimenticare che stiamo facendo la spesa in quello che in fondo è un deposito più illuminato della media» (2). Non sorprende affatto che oggigiorno il supermercato, l’agrobusiness più nuovo e potente, rappresenti «il massimo tempio del moderno sistema alimentare» (3).

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Dietro quelle merci sugli scaffali esistono però tante realtà che non immaginiamo, fatte di lavoratori, processi produttivi, trasporti e distribuzione. Trascuriamo per esempio il venir meno di ogni rapporto personale e di fiducia con i produttori del cibo che acquistiamo: «grazie a una manipolazione studiata dello spazio, della topografia e dei diritti d’espressione dei dipendenti, l’unico possibile punto di contatto tra la persona che mangia un alimento e la persona che l’ha prodotto è diventata l’etichetta sulla confezione» (4). È evidente che solo un’economia locale «può trasformare l’atto del consumo – impersonale, sprecone, mai realmente soddisfacente – in una scelta attiva, grazie alla quale il consumatore diventa co-produttore. La vicinanza (fisica o virtuale) con gli uomini e i luoghi della produzione aiuta a sentirsi partecipi del processo che porta il cibo sulla nostra tavola, favorisce la circolazione delle informazioni e insegna ad apprezzare un cibo diverso rispetto a quello che ci arriva attraverso i canali del sistema mondiale dell’industria agro-alimentare» (5). È un cibo, quest’ultimo, di cui ci mancano molte informazioni a causa della tendenza dell’industria a mantenere sotto segreto aziendale caratteristiche e metodi di trasformazione delle materie prime.

Riguardo questa dimensione locale-sociale che favorisce il passaggio del consumatore a co-produttore, riporto quanto già detto da Carlo Petrini in Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo (2009): «Se so come lavora e che faccia ha l’agricoltore che produce il mio cibo, avrò modo di controllare direttamente la qualità e la salubrità dei prodotti, di chiedere migliorie o informazioni, di sapere con chi lamentarmi se è il caso. La conoscenza diretta è la migliore garanzia di una produzione di alto livello qualitativo e può essere foriera, perché no, di rapporti umani molto significativi. Il contadino sicuramente si sentirà meno isolato e avrà anche una concezione più chiara dell’utilità sociale del suo lavoro; il co-produttore potrà sentirsi parte attiva, sarà più sicuro del suo cibo e avrà inoltre la possibilità di educarsi ed educare i suoi figli alla conoscenza dell’agricoltura e, in generale, della vita in campagna» (6). Quando facciamo la spesa dimentichiamo poi l’esistenza di una lunghissima filiera di cui il ripiano del supermercato non è che l’ultimo di numerosi stadi. Il movimento di merci alimentari consuma

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ogni giorno un’enorme quantitativo di combustibili fossili per spostamenti che hanno davvero dell’assurdo (7). E non è detto che tra qualche anno tale sistema – le cui vulnerabilità strutturali sono assai sottovalutate – non entri irrimediabilmente in crisi trovandoci impreparati (8). Gli anni a venire fanno prevedere sconvolgimenti di grave portata che costringeranno le persone tanto nel Nord come nel Sud del mondo a mettere in discussione il sistema globale del cibo agro-industriale, dove si assiste a una totale mercificazione del cibo, privato di valori culturali, sociali e ambientali. Oltre ad autoprodurre il cibo che mangiamo, è possibile porre un freno a questi movimenti scegliendo di acquistare solo cibi di stagione prodotti a livello locale (9). Ciò consente di eliminare una parte del trasporto di merci con gran risparmio di energia e risorse per la refrigerazione e riduzione di emissioni (10). Questo localismo permette la riduzione dell’intermediazione speculativa, perché se il prodotto deve fare meno strada è quasi ovvio che passerà attraverso un numero minore di mani e dunque di ricarichi sul prezzo finale. Favorisce inoltre i produttori della zona piuttosto che qualche oscura filiera produttiva nella quale, il più delle volte, a guadagnare sono solo le grandi multinazionali: grandi società le cui decisioni non tengono conto dell’interesse dei produttori di cibo, dei contadini e dei braccianti (11). Mangiare cibo sano, fresco, prodotto localmente «rende più facile sapere come, dove e perché le cose sono cresciute in un certo modo. È una maniera di mangiare trasparente e inserita nel sociale come non potrà mai succedere con il cibo industriale» (12). Conoscere le persone che producono il nostro cibo significa «creare un legame umano che va oltre la semplice transazione e riconosce certe forme di collettività, certi tipi di sottomissione, che lotta, combatte per abrogare le ineguaglianze sistemiche nel potere, le disparità che forgiano il modo in cui oggi vivono i ricchi e i poveri» (13). Il concetto di “chilometro zero”, cioè la riduzione dei trasporti connessi alla distribuzione degli alimenti nasce per esempio all’interno delle reti dei Gas (Gruppi d’acquisto solidali), dove «gruppi di cittadini hanno creato delle reti alternative di distribuzione, rifiutando quelle di supermercati e grandi catene, per stabilire un rapporto diretto e di fiducia con i produttori. I Gas sono nati con le iniziative di boicottaggio dei prodotti alimentari delle multinazionali, criticate negli anni Ottanta per le loro politiche di monopolio, di forzato consumo e di sfruttamento dei lavoratori» (14). Questo non toglie che la motivazione che spinge a creare uno di questi gruppi sia il più delle volte economica: comperare direttamente dai produttori anziché nei supermercati significa risparmiare sui prezzi (15). Il cibo diventa strumento di relazione tra i produttori locali e coloro che lo acquistano, in una dimensione continua di scambio e confronto che è al tempo stesso piccola, locale e solidale: «piccolo per contrapporsi al grande ipermercato; locale perché viene riconosciuta la propria responsabilità rispetto all’ambiente e al territorio in cui si abita; solidale per favorire la relazione tra le persone che fanno parte del gruppo, e che condividono in modo paritario tutti i compiti, dalla contabilità alla consegna, fino al controllo delle merci» (16). Una delle più importanti capacità che abbiamo perso nel passaggio dall’economia dell’autosufficienza alla società basata sul consumo di massa è stata quella di produrre cibo autonomamente. Coscienti o meno di questo processo, siamo diventati tutti consumatori, abituati ad acquistare cibo nei supermercati, perdendo ogni capacità agricola (17). Recuperare un controllo maggiore sul cibo che mangiamo significa riconoscere che «il modo in cui mangiamo oggi è il risultato di forze che ci sono nascoste e a cui non prestiamo molta attenzione, visto che i loro effetti

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sono diventati normali» (18). Teniamo poi presente che il processo di diffusione di etiche individualistiche e basate sul consumo materiale degli ultimi decenni, oltre ad aver avuto un forte impatto in termini di degrado ambientale e di esaurimento delle risorse, ha sicuramente modificato il tessuto sociale in cui tale processo ha avuto luogo, tranciando per esempio ogni legame comunitario: «le multinazionali, con la complicità della grande distribuzione, di centri commerciali e ipermercati, vogliono un mondo di consumatori senza comunità» (19). Da qui la necessità di ricostruire dei legami con i luoghi nei quali si vive, come dare vita a progetti legati alla diffusione di tecniche e conoscenze agricole, allo scambio di prodotti alimentari e semi, alla riconversione a orti urbani di giardini e terreni abbandonati. Deindustrializzare il cibo significa dunque restituirlo nelle mani di chi lo coltiva e di chi lo mangia in maniera responsabile, dando vita a vere e proprie alternative che abbiano origine dal costituirsi di reti locali su base sostenibile. E gli orti urbani sembrano al momento «uno degli strumenti migliori per ricostruire questo grado minimo di sussistenza un po’ ovunque nel mondo, a tutte le latitudini e in tutti i contesti possibili» (20). Nel libro Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia di Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck (2010) leggiamo: «La consapevolezza crescente dell’impatto sociale, ambientale e sanitario negativo del sistema alimentare industriale impone una riforma dal basso. Gli ultimi anni hanno assistito a un’enorme rinascita di interesse per l’orticoltura urbana su piccola scala come modo diretto di riprendersi il controllo sul diritto fondamentale a un cibo sano e accessibile. Se comprare cibi biologici e di provenienza locale è un progresso rispetto al fast food e agli alimenti pesantemente trattati, è difficile anche per il cittadino più attento evitare del tutto di contribuire ai sistemi ingiusti ed ecologicamente devastanti che oggi ci nutrono. Coltivare da sé il cibo è forse il modo più diretto e trasparente per creare un sistema di distribuzione alimentare basato sulle necessità umane anziché sul profitto delle aziende. Anche pochi pomodori in vaso su un balcone rappresentano un atto di resistenza al complesso agroalimentare industriale. Inoltre, gli orti comunitari e i programmi di agricoltura urbana uniscono i quartieri, offrono i tanto necessari spazi verdi e opportunità di un’educazione diretta basata sulla terra. L’agricoltura urbana non solo comincia a dare un contributo concreto alla disponibilità locale di cibo, ma è diventata anche un’arena della giustizia sociale, rinvigorendo le comunità e stabilendo un nesso più profondo con la terra e i processi naturali da cui dipendiamo» (21). Oltre a rappresentare un legame concreto e diretto tra realtà urbana e cultura contadina, gli orti urbani consentono di stabilire un rapporto con il cibo non mediato dall’industria e di svincolarsi dal grande ipermercato, sul cui futuro sarebbe meglio non fare troppo affidamento. Gli orti urbani possono diventare degli importanti spazi di condivisione dove ci si nutre con maggiore consapevolezza, sia alimentare che politica. L’aggregazione sociale, l’impiego costruttivo del tempo libero e la divulgazione delle conoscenze e delle tradizioni del passato possono avere luogo in queste realtà che stanno guadagnando sempre più attenzione (22). Nell’opera L’orto e l’anima. Dal giardino dell’Eden agli orti urbani, Paola Violani ne racconta la storia mostrando che essi non vanno considerati esclusivamente come fonte di sostentamento. Ogni orto è infatti da sempre un «punto di incontro di conoscenze scientifiche e fatiche fisiche, di

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raccoglimento spirituale ed esigenze materiali, di solitudine e aggregazione umana, di umiltà e autostima. Insomma, è un crocevia di molte strade che portano in direzioni diverse» (23). Oggi, con un minimo di organizzazione, «vengono coltivati verdure, cereali, fiori e alberi, in un’armonia che mancava negli orti individuali. E man mano che i progetti prendono forma, si scopre che l’orticoltura può giocare un ruolo importante per risolvere problemi ambientali e anche socio-economici» (24).

In L’orto diffuso. Dai balconi ai giardini comunitari, come cambiare la città coltivandola (2012), Mariella Bussolati spiega che il successo dell’agricoltura urbana e periurbana segna l’emergere di una nuova sensibilità, presente in tutte le fasce di reddito, «sempre più colpite dalla crisi e dal pensiero che il modello di società capitalista a cui siamo sottoposti possa non funzionare. Non a caso a desiderare l’orto sono tantissimi giovani» (25). Giovani forse più sensibili all’idea che il cibo industriale, omologato, seriale, globale e poco naturale non fa che inquinare la Terra, dal campo ai loro stomaci, in tutto il suo percorso. Come rivela l’autrice di questo testo, l’orto diffuso è innanzitutto un’esperienza educativa, che trasforma piccoli e grandi, a partire da un contatto più diretto con il territorio e un modo diverso d’intendere la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo del cibo. Può davvero rappresentare in questo momento una delle risorse più preziose che abbiamo per dare vita a una cultura di pace e di condivisione, a reti sociali in cui generazioni diverse si incontrano, si confrontano, si mettono alla prova e condividono saperi, esperienze e idee innovative, dove «le competenze di ciascuno possono diventare un patrimonio comune» (26). Nel paragrafo intitolato Una rete che sostiene, Mariella Bussolati descrive un interessante connubio fra tecniche di coltivazione e moderne tecnologie: «Possiamo immaginare gli appassionati dell’orto come persone che passano tutto il loro tempo tra fiori e verdure, appena possibile prendono la zappa in mano, leggono libri di botanica nel loro tempo libero, consultano i cataloghi dei vivaisti e guardano con orrore chiunque usi lo smartphone per twittare. È uno stereotipo che va smantellato una volta per tutte: l’orto diffuso per essere realizzato deve raggiungere un’ampia

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varietà di persone, e non è limitato ai patiti dell’agricoltura o del sapore genuino. Mailing list, blog e social network sono dunque strumenti che servono al pari di vanghe e rastrelli. Su internet è possibile trovare un’enorme quantità di informazioni per coltivare sia i terrazzi che gli orti in terra. Ma gli altri strumenti hanno un ruolo molto più prezioso: servono infatti a creare la rete. Un successo così generalizzato non si potrebbe spiegare senza considerare l’aiuto fornito dagli strumenti informatici, che hanno consentito a molte persone di collegarsi anche quando non era possibile incontrarsi, continuando a scambiare informazioni e idee. Evidentemente gli appassionati dell’orto diffuso amano mettersi in rete, proprio perché ne riconoscono l’importanza per la creazione di una comunità che rinsalda se stessa. Per questo sono nate contemporaneamente centinaia di comunità virtuali, siti, blog, mappe interattive, gruppi, pagine e identità sui social network, che tra l’altro permettono di avere relazioni anche con realtà simili sparse in tutto il mondo. Si scambiano così iniziative, si copiano eventi, si affrontano problemi e si trovano soluzioni comuni» (27). L’orto diffuso è dunque una comunità virtuale e fisica, è un network grazie al quale viene messa in gioco la capacità della gente di “fare sistema”, di riuscire a tessere relazioni “con” piuttosto che “contro” gli altri. Gli orti urbani rendono possibile una diversa progettazione degli spazi cittadini all’insegna della socializzazione e della promozione di iniziative di educazione ambientale rivolte a tutti. Possono stimolare l’integrazione degli immigrati o il recupero di certi quartieri soggetti a degrado, favorendo l’emergere di un’economia locale che parte dal basso. Dobbiamo iniziare a familiarizzare di più con l’idea che il nostro sistema alimentare futuro dipenderà dalla riuscita di produzioni di cibo su piccola scala, sostenibile e di qualità (28).

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Qualcuno potrà anche sorridere della cosa, ma in questa fase di crisi alimentare e finanziaria globale, qualora il sistema alimentare industriale entrasse in crisi, l’unico modo per garantire a ogni cittadino l’accesso diretto a un cibo sano dipenderà da progetti ben organizzati di agricoltura urbana in grado di convertire ogni area verde in orti, una produzione che parte dai balconi per raggiungere ogni spazio coltivabile. Come verrebbero sfamati gli abitanti di una città se a un certo punto le industrie alimentari, le multinazionali dell’agrobusiness e i grandi distributori che decidono i prezzi (senza tenere in nessun conto gli interessi tanto dei contadini quanto dei co-produttori) venissero pesantemente colpiti dall’attuale crisi in corso smettendo così di funzionare come prima? Come verrebbero sfamati gli abitanti di una città se ipermercati e supermercati non riuscissero a rifornirsi in tempo e tanti generi alimentari venissero a mancare dagli scaffali? Non sarebbe meglio cominciare da subito a convertire in orti tutti i giardini e i terreni coltivabili così da generare nuovi posti di lavoro, favorire le economie locali, fare formazione e garantire a ogni residente l’accesso a cibo sano?

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La pratica di aumentare la sicurezza alimentare valorizzando il potenziale della produzione alimentare urbana comincia a essere promossa più seriamente (29). «In India, per evitare la malnutrizione, un rischio ancora presente nel paese, sono state incentivate forme di microagricoltura che potevano trovare spazio anche in aree urbane, scegliendo piante molto nutrienti e produttive, adattate a piccoli spazi, con apparati radicali non troppo esigenti. Vengono coltivati riso, frutta, fiori da vendere per incrementare il reddito familiare, palma di cocco, banana. […] Un programma di orticoltura urbana è stato realizzato dalla Fao nelle cinque città principali della Repubblica Democratica del Congo, e ha avuto un grosso impatto sui livelli di malnutrizione cronica della città. Il risultato è stato notevole: sono stati prodotti 28,6 chili di ortaggi per abitante l’anno, che hanno aiutato a ridurre la denutrizione urbana, particolarmente alta tra i bambini e le donne in fase di allattamento. Oltre il cibo, il programma è riuscito a fornire occupazione diretta e reddito a circa 16mila orticultori su piccola scala, e ad altre 60mila persone se si considera l’intera filiera» (30). Negli orti, insomma, «non crescono solo rape e fagiolini, ma anche autonomia economica e alimentare, cultura e natura. Gli orti permettono di rintracciare le proprie radici e di mettere alla prova le proprie abilità, e di sentirsi parte di una rete più grande. Tornare alla terra da cittadini, o comunque non da contadini produttori, è inevitabilmente parte di una ribellione: il desiderio di

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riconoscere la propria parte biologica e culturale, rifiutando il modello del consumatore passivo, incapace e artefatto, che è stato imposto negli ultimi trent’anni» (31). II. Localizzare l’attività economica nelle mani di tante piccole e medie imprese e favorire la nascita di economie di piccola scala, con comunità autosufficienti e sostenibili rappresenta il primo passo per «riscoprire i valori comunitari, adattandosi all’ambiente e alle necessità locali» (32). Questo non significa affatto «eliminare il mercato, o l’innovazione o la spinta che l’accompagnano di solito», ma semplicemente «tenere sotto controllo il mercato invece di esserne controllati» (33). Nei prossimi anni ogni città sarà chiamata a dare vita a economie locali autonome in termini energetici dove le persone si conoscono, si scambiano prodotti e tempo, si fidano l’una dell’altra e sono disposte a collaborare per progetti comuni da cui l’intera comunità possa trarre beneficio. Quella terza rivoluzione industriale preannunciata da Jeremy Rifkin partirà dai villaggi, dalle piccole e medie imprese, dalle campagne e da tutte quelle aree urbane convertite in orti, luoghi di incontro e sperimentazione per un’agricoltura pulita e sostenibile. Al centro di tale rivoluzione vi sarà un’assunzione di responsabilità comune e una condivisione di valori che porteranno a rivalutare il cibo sano, frutto di un’agricoltura emancipata dall’industrializzazione, dalla meccanizzazione, dalla monocoltura e dalla capitalizzazione intensiva. Questa rivoluzione è già in atto e trova espressione in tutte quelle scelte concrete a favore di uno stile di vita più semplice, attento a consumare meno e che ha più riguardo dei bisogni individuali e collettivi (34). Un modo di vivere più consapevole, più rispettoso dell’ambiente, più attento agli acquisti e agli sprechi, più critico nei confronti di un’agricoltura decostruita e ricostruita dalle industrie, imprigionata sugli scaffali dei negozi in pacchetti molto colorati ed ermeticamente sigillati, la cui etichetta annuncia che «può contenere…» (35). Un sistema nel quale «non possiamo fare a meno dei contadini, non possiamo fare a meno delle comunità produttrici. È su questo senso di «comunità», di destino e in quanto appartenenza alla specie umana, che dobbiamo rifondare il sistema. A partire da loro, dalle comunità produttrici, è necessario costruire una rete mondiale in grado di opporsi al sistema imperante. Rimettere al centro l’uomo, rimettere al centro la terra, rimettere al centro il cibo: una rete del cibo umana, che, in armonia con la natura e nel rispetto di ogni diversità, promuova la qualità: il buono, il pulito e il giusto» (36). Questa rivoluzione commestibile sta già facendo i conti con l’urgente questione di come nutrire l’intera popolazione mondiale nei prossimi anni a partire dal necessario abbandono dell’attuale sistema di agricoltura industriale, il quale «non consente di valutare adeguatamente le risorse naturali. In futuro non avremo le enormi quantità di acqua o di fertilizzanti richieste dall’agricoltura industriale capitalista, e il clima sarà molto più variabile di adesso. In questa storia, contadini e braccianti sono sia vittime sia salvatori. Essendo più poveri, i contadini sono i più vulnerabili agli shock del cambiamento climatico, sebbene le piccole fattorie siano ecologicamente meno esposte al rischio; inoltre, stando ai dati di uno degli studi più antichi sulle dimensioni delle aziende agricole, le pratiche di coltivazione biologica e sostenibile potrebbero assorbire fino al 40 per cento delle attuali emissioni di CO2» (37).

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Per evitare possibili conflitti per le risorse, «si dovranno mettere in atto nuovi metodi di pianificazione e gestione collettiva delle risorse decentralizzati e adattati alle esigenze locali. In pratica, questo significa introdurre pratiche democratiche a diversi livelli istituzionali: le decisioni relative alla condivisione delle risorse idriche dovranno essere condotte a livello dell’area geografica interessata da un bacino idrografico; le decisioni sulla coltivazione e la distribuzione dei generi alimentari dovranno avvenire in contesti geografici differenti, possibilmente a livello municipale. Il modo in cui queste decisioni interagiscono con il cambiamento climatico dovrà essere coordinato globalmente. Per risolvere il problema della fame globale, i più illustri scienziati del mondo hanno proposto gli stessi rimedi già ideati dalle persone più povere della Terra: soluzioni sensibili all’ambiente che rispettano i saperi, la democrazia e l’autonomia delle popolazioni locali» (38). La trasformazione dei nostri sistemi alimentari è già in corso, è l’obiettivo al quale stanno lavorando da tempo persone di ogni parte del mondo desiderose di affermare il diritto umano al cibo. Sono uomini e donne coraggiosi che stanno combattendo assieme per proteggere i diritti sulla terra dei piccoli agricoltori di fronte all’accaparramento della terra e all’espansione degli agrocarburanti (39); il mezzo miliardo di lavoratori agricoli del mondo – comprese donne e bambini – dagli abusi del lavoro industriale; i produttori e i consumatori dalla speculazione finanziaria nei mercati globali delle materie prime. Hanno capito che altri sistemi alimentari sono possibili e che in un’epoca politicamente sfiduciata come la nostra, segnata da profonde insicurezze e un forte senso di smarrimento, la tesi secondo cui nessuna alternativa è migliore dello stato attuale è quanto mai inverosimile. È vero che permangono molti dubbi su quale sia la strada da seguire per creare un ordine postcapitalistico vitale, libero e umano. Ma non si deve dimenticare che nella storia ogni progresso a un certo punto ha dovuto superare l’idea che il fatto di rappresentare una novità rendesse il compito impossibile (40). Un enorme potenziale di trasformazione sta per essere liberato dall’umanità, è una grande forza si solidarietà, compassione, creatività e capacità di organizzarsi e mobilitarsi per cambiare: «a mano a mano che cresce il numero di coloro che vedono alternative lavorando sul campo e cresce il numero di coloro che sentono altri chiedere e ottenere trasparenza, responsabilità, equità e sostenibilità, la speranza e l’azione vinceranno la paura – la causa di fondo del fatalismo, del cinismo e dell’apatia» (41).

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Non aspettiamoci però una risposta entusiasta da parte di tutti (42). Ostilità e forti opposizioni alla sovranità alimentare e ad azioni collettive di ampia portata per ottenere «modi diversi di mangiare ed essere» (43) giungeranno certamente da potenti organizzazioni i cui profitti hanno sempre fatto leva sull’ignoranza di “consumatori” che non si sono mai posti seriamente delle domande sulla provenienza del cibo che mangiano né sulla loro relazione con esso (44). Data la vicina crisi petrolifera, l’instabilità del clima e del sistema finanziario internazionale, quello di assicurare cibo sufficiente a tutti sarà però uno dei problemi più importanti che l’umanità dovrà affrontare anche nell’Occidente industrializzato, dove vecchie strutture economiche, politiche e di pensiero stanno morendo per lasciare il posto a nuovi modelli di vita. Modelli che, nello svincolarsi dalle regole e dai dogmi del nostro mercato, riflettono sui benefici di un altro tipo di ricchezza, benessere e modo di lavorare. Ci stiamo avvicinando al superamento dell’attuale paradigma economico-politico, noto anche come neoliberismo, grazie all’impegno di tante persone semplici nel diffondere uno stile di vita più fondato su rapporti interpersonali e su una cultura della solidarietà, dell’altruismo e della condivisione anziché dell’efficientismo e della produttività a qualunque prezzo (45). E queste persone non hanno che l’educazione per aiutare altre persone a comprendere la necessità di cooperare di più, di un approccio alla vita più attento agli altri, a partire dalla capacità di «reclamare la nostra sovranità, diventare qualcosa di più che semplici consumatori ristrutturando il sistema alimentare e riscrivendo le relazioni di potere che sfruttano la gente sia quando coltiva sia quando mangia» (46). Raj Patel ricorda che molti movimenti per il cibo negli Stati Uniti si stanno già battendo per un’economia che anteponga la compassione e la sollecitudine verso gli altri ai profitti immediati delle grandi società. Non aspettano la soluzione delle grandi questioni per cominciare a riparare un sistema alimentare difettoso, che dovrebbe essere invece fonte di abbondanza, salute e giustizia per tutti (47). Sanno bene che la trasformazione del nostro sistema alimentare «non è frenata dalla mancanza di denaro, tecnologia e neppure buona volontà, ma dalla mancanza di volontà politica dei governi. Finché i leader globali affronteranno solo le cause prossime e non quelle di fondo della crisi, finché si affideranno a ripieghi tecnici per evitare cambiamenti strutturali e si piegheranno al

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potere dei monopoli anziché al potere del popolo, rimarremo sempre più indietro nella corsa a eliminare la fame» (48). Il processo di industrializzazione che ha investito il mondo negli ultimi duecento anni «ha dapprima sensibilmente migliorato la qualità della vita di milioni di persone – quasi tutte residenti in quello che si definisce Nord del mondo – generando il cosiddetto ‘sviluppo’. In molte aree del pianeta la malnutrizione o la difficoltà di reperire il cibo sono diventati ricordi lontani; tutto questo ‘sviluppo’ non ha però tardato a palesare enormi limiti, creando una serie di situazioni che in epoca di globalizzazione, ossia nel postindustriale, appaiono difficilmente tollerabili ancora a lungo dal sistema-mondo; in una parola, sono insostenibili» (49). Insieme al processo di industrializzazione, in poco più di un secolo, «si è progressivamente instaurata una sorta di dittatura tecnocratica, in cui il profitto prevale sulla politica, l’economia sulla cultura e la quantità è il principale, se non l’unico, metro di giudizio per le attività umane» (50). Il sistema economico capitalistico «ha trasformato milioni di americani ed europei in consumatori schiavi dell’industria agroalimentare e dipendenti al 100% dal salario che devono procurarsi per riempire dispense e frigoriferi. […] I dirigenti occidentali o occidentalizzati, formattati dal capitalismo o dal comunismo, hanno una visione semplicistica e triste dello sviluppo delle società. Giudicano il proprio tasso di progresso in rapporto alla percentuale di popolazione agricola. Più quest’ultima è bassa, più gli Stati sono considerati «avanzati» o «sviluppati». L’avvenire dell’umanità sembra trovarsi unicamente nelle fabbriche e negli uffici, nelle città e nei supermercati. Il modo di vita contadino, frugale e autonomo, viene deriso. La semplicità è confusa con la povertà. E deve essere combattuta. Il consumo serve da metro di misura per giudicare la felicità e il benessere delle popolazioni» (51). La crisi alimentare, economica e climatica sono conseguenze della produzione e del modello economico neoliberali e oggi obbligano a formulare nuovi modelli di società e modi di sostentamento alternativi. Servono innanzitutto forme di agricoltura sostenibile in grado di preservare biodiversità, saperi e metodi antichi, appropriati alle specificità locali e su piccola scala. Questo non significa un ritorno al passato, ma piuttosto una ripartenza dal passato, consci degli errori commessi negli ultimi anni. Si tratta di salvaguardare, migliorare e diffondere quelle pratiche tradizionali che stanno dimostrando che altre vie produttive sono possibili. Vie produttive che devono ripartire dalle città perché tra qualche anno più del 50% degli abitanti del mondo vivrà in aree urbane e il cibo sarà una delle maggiori richieste delle città. Stimolare l’agricoltura urbana è strategico per il futuro stesso delle città, che in questo modo possono dipendere meno dal cibo proveniente da campagne coltivate in modo intensivo.

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Note (1) Riporto per comodità la distinzione data da Monica Di Bari e Saverio Pipitone in Schiavi del Supermercato. La grande distribuzione organizzata in Italia e le Alternative concrete, Arianna Editrice, Bologna, Prima edizione gennaio 2007, p.87. Ipermercato: esercizio al dettaglio con superficie di vendita superiore a 2500 mq, suddiviso in reparti, alimentari e non alimentari. Supermercato: esercizio al dettaglio, operante nel settore alimentare, con superficie di vendita superiore a 400 mq. Superette: esercizio al dettaglio di vendita di prodotti alimentari su una superficie di 200-399 mq. Discount: esercizio di vendita al dettaglio con superficie medio-grande che offre una gamma limitata di prodotti non di marca a prezzi contenuti, grazie all’abbattimento dei costi di impianto, gestione e servizio. Negozi tradizionali di vicinato: esercizio di vendita con superficie non superiore a 150 mq, nei comuni fino a 10.000 abitanti, e con superficie non superiore ai 250 mq, nei comuni oltre 10.000 abitanti. In Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, Slow Food Editore, Bra, 2010, p.300 viene riportata la seguente definizione di Ipermercato: grande venditore al dettaglio che unisce sotto un unico tetto il supermercato, il grande magazzino e il negozio di generi alimentari. Ipermercati come WalMart, Carrefour, Target, Kmart e Costo, che spesso coprono una superficie di 14 000 mq, sopravvivono grazie agli alti volumi di vendite con un margine esiguo, spesso estromettendo dal settore i dettaglianti locali. (2) Raj Patel, I padroni del cibo, (traduzione dall’inglese di Giancarlo Carlotti), Feltrinelli, Prima edizione nell’“Universale Economica” – SAGGI, Milano, febbraio 2011, p.168. Si veda anche: http://www.foreignpolicy.com/articles/2010/10/11/supermarkets e il file audio http://www.npr.org/player/v2/mediaPlayer.html?action=1&t=1&islist=false&id=130715314&m=130715299 (3) Ibidem, p.162. (4) Ibidem, p.166. (5) Carlo Petrini, Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo, Slow Food Editore – Giunti Editore, Prima edizione: novembre 2009, p.142.

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(6) Ivi, p.142. (7) Nel capitolo intitolato L’alternativa strategica del “piccolo è bello”, Monica Di Bari e Saverio Pipitone illustrano il tema delle economie locali e l’importanza di abbreviare la distanza tra produttore e consumatore: «Tutti gli Stati delle economie industrializzate spendono continuamente denaro per costruire infrastrutture, reti di comunicazioni, autostrade, aeroporti, porti, treni ad alta velocità, con il solo obiettivo di un’economia sempre più centralizzata. Costruiscono processi produttivi complessi, artificiosi e apparentemente efficienti con le merci fatte viaggiare per chilometri e chilometri. Dal punto del vista del consumatore può sembrare che le merci che provengono da lontano siano più a buon prezzo, ma in realtà acquistano alimenti conservati e a volte di scarsa qualità, prodotti con lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Questa logica è il principio fondante dell’economia capitalista, ovvero del vantaggio comparato, secondo il quale è sempre nell’interesse di un paese specializzare la produzione per l’esportazione invece di promuovere una produzione diversificata per il bisogno locale» (Schiavi del Supermercato. La grande distribuzione organizzata in Italia e le Alternative concrete, p.59). (8) «Come qualsiasi rete logistica a collo di bottiglia, ha dei punti deboli sistemici e strutturali, vulnerabilità molto vicine alla superficie della nostra vita quotidiana. Per portarle allo scoperto basta un lieve scrollone al sistema. Tipo un blocco del petrolio (sottolineatura mia). Negli anni settanta, ai tempi della prima crisi petrolifera, l’attivista e studiosa Laura Davis abitava a Londra in una casa occupata, e ne ricorda ancora gli effetti. “Nei negozi c’era un’ondata di acquisti da panico, e io mi chiedevo cosa sarebbe successo se il cibo fosse sparito del tutto. È stato allora che ho pensato all’agricoltura biologica.” Ma cosa sarebbe successo se gli scaffali si fossero svuotati di generi alimentari? All’inizio del nuovo millennio sessanta milioni di persone stavano per scoprirlo. Nell’anno 2000 in Gran Bretagna un’ondata di proteste nel settore autotrasporti ha bloccato l’accesso a sei delle otto maggiori raffinerie del paese. Le stazioni di servizio sono state costrette a chiudere, e il traffico sulle autostrade è calato del 40 per cento. Le operazioni logistiche e di trasporto merci si sono interrotte, e il paese è rimasto a corto di cibo nel giro di poche ore. La precisione logistica “just in time” dei supermercati si è aggiunta alla secolare dipendenza britannica dai generi alimentari prodotti all’estero, e così gli scaffali sono rimasti pressoché vuoti» (R. Patel, I padroni del cibo, p.215). (9) «Uscire dal sistema significa usare canali di distribuzione alternativi. In ogni città ci sono mercati in cui si può comprare direttamente dai contadini a prezzi vantaggiosi, e con una qualità migliore. È poi fondamentale rispettare la stagionalità dei prodotti. In stagione, frutta e verdura costano meno» (C. Petrini, Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo, p.94). «La diffusione dei dati sulle food miles [= le miglia alimentari, ovvero le distanze che percorre il cibo prima di giungere alle nostre tavole] influenzerebbe di sicuro il comportamento dei consumatori e l’etichettatura dovrebbe fare un ulteriore passo in questa direzione. Oggi per frutta, verdura, pesce e carne è obbligatorio indicare il luogo d’origine, ma in molti casi è ancora troppo generico. Per molti prodotti trasformati, poi, è praticamente impossibile rintracciare la provenienza delle materie prime. Se invece tutto fosse dichiarato in etichetta, e la sensibilità dei consumatori fosse istruita su quanto può costarci far viaggiare il cibo, sono sicuro che una lenta rilocalizzazione dei sistemi produttivi non sarebbe molto lontana» (C. Petrini, Buono, pulito e giusto. Principî di nuova gastronomia, p.124). (10) «[…] se il cibo non è costretto a compiere viaggi intercontinentali, ma fa parte di un sistema che ne consente il consumo a breve distanza, avremo un grande risparmio energetico e di emissioni di anidride carbonica. Pensate a cosa si risparmia dal punto di vista ecologico senza trasporti lunghi, senza la refrigerazione, senza l’imballaggio che poi finisce tutto in spazzatura, senza l’immagazzinamento, che toglie tempo, spazio, porzioni di natura, bellezza. Nella dimensione locale le energie e le risorse si ottimizzano, si

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evita lo spreco, che nella sola Italia vuole dire ogni giorno 4000 tonnellate di cibo edibile buttato via» (Ibidem, pp.9-10). Proprio in riferimento agli incredibili quantitativi di cibo che viene buttato, segnalo Tristram Stuart Sprechi. Il cibo che buttiamo, che distruggiamo, che potremmo utilizzare, Mondadori, Milano, 2009; Andrea Segrè e Luca Falasconi, Il libro nero dello spreco in Italia: il cibo, Edizione Ambiente, Milano, 2011. (11) Il mercato nel suo complesso è oggi largamente controllato dalle grandi multinazionali, cioè aziende molto grandi, oppure conglomerati di aziende, che non necessariamente si dedicano a una data attività o a un dato prodotto. Peggio ancora, i governi più potenti del mondo oggi dipendono da queste multinazionali. Negli Stati Uniti, nessun candidato presidenziale può annusare il potere senza il loro appoggio finanziario. I governi più potenti del mondo sono, in misura significativa, estensioni delle sale riunioni delle multinazionali. In E. Holt-Giménez (a cura di), Food Movements Unite! Strategie per trasformare i nostri sistemi alimentari, Slow Food Editore, Bra, 2011, Xavier Montagut scrive: «Oggi la produzione alimentare è dominata da una manciata di multinazionali che decidono quello che mangiamo, com’è prodotto e chi lo produce. I risultati sono disastrosi. Più di un miliardo di persone nel mondo soffre la fame e migliaia di agricoltori non sono in grado di produrre cibo. Il paradosso è che l’80% degli affamati appartengono al mondo rurale. L’impoverimento degli agricoltori è un fenomeno globale. Negli ultimi 10 anni, in Spagna si è persa una media di cinque agricoltori al giorno. Tra le conseguenze di un sistema agroalimentare industrializzato, non funzionale, possiamo segnalare la perdita di terreni fertili, l’inquinamento dell’acqua e del suolo, l’impoverimento della biodiversità, e l’impatto dell’agricoltura sul clima globale. Anche in termini della qualità del cibo i risultati sono terribili. Più di 500 milioni di persone soffrono di obesità, e molte altre sono minacciate costantemente dalla malattia della mucca pazza, dall’avvelenamento della diossina nei polli e da altre malattie causate da quello che mangiamo. Questo stato di crisi richiede che i cittadini assumano urgentemente il controllo del nostro sistema alimentare» (p.241). In Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, Slow Food Editore, Bra, 2010, (pp. 38-39) si può trovare un accenno ai monopoli che controllano i nostri sistemi alimentari e alcune fonti sull’argomento. Si veda anche José Bové e François Dufour, Il mondo non è in vendita. Agricoltori contro la globalizzazione alimentare, Feltrinelli, Milano, 2000; Luca Colombo, Fame. Produzione di cibo e sovranità alimentare, Jaca Book, Milano, 2002; Luca Colombo e Antonio Onorati, Diritti al cibo! Agricoltura sapiens e governance alimentare, Jaca Book, Milano, 2009. (12) Raj Patel, I padroni del cibo, p.207. (13) Ibidem, p.226. (14) Mariella Bussolati, L’orto diffuso. Dai balconi ai giardini comunitari, come cambiare la città coltivandola, Orme Edizioni, Roma, Prima edizione: giugno 2012, p.24. Si veda anche http://ortodiffuso.noblogs.org (15) La motivazione economica non è affatto da sottovalutare e per tanti rappresenta per esempio uno dei motivi per passare a un’alimentazione priva di carne. In Cucina vegana, edito da Mondadori (2012), lo chef Simone Salvini si esprime in questi termini: «una dieta vegana è più economica di una dieta onnivora. È ovvio che nutrirsi con alimenti di origine vegetale, di stagione e raccolti nelle zone adiacenti alle aree in cui si abita può comportare un risparmio di denaro di non poco conto. Frutta, verdura, legumi e cereali costano meno rispetto alla carne o al pesce perché minori sono i costi di produzione e le spese di trasporto».

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Seguendo un’alimentazione più sana ed equilibrata, con meno carne e più verdura, possiamo inoltre ridurre l’impatto sull’ambiente e contribuire alla salvaguardia del pianeta. A pagina 168 dell’opera Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo (2010), Raj Patel afferma: «Sarebbe insensato sminuire le difficoltà, sia personali sia politiche, che dovremmo affrontare per garantire a tutti cibo a sufficienza. In un mondo con nove miliardi di abitanti, bisognerà ridurre il consumo individuale di carne. Se mai continueremo a seguire una dieta carnivora (e io non sono affatto sicuro che dovremmo), la razione individuale a livello globale dovrà essere di 25 chilogrammi di carne e di 50 chilogrammi di latticini all’anno: un solo grammo in più, e il clima ne soffrirà. Secondo Tara Garnett del Food Climate Research Network, questo equivale al massimo a due salsicce, una piccola porzione di pollo e una piccola braciola di maiale alla settimana, più il latte per i cereali e il tè. Soffocare la brama di carne tipica della dieta occidentale sarà difficile – significherà sfidare ogni tipo di interesse costituito nell’industria della lavorazione degli alimenti e della grande distribuzione, nonché le nostre stesse abitudini – ma dovremmo abituarci all’idea di pagare i nostri hamburger duecento dollari, e fare in modo che tutti possano fare scelte di consumo simili». Orientarsi verso una dieta vegetariana e, per chi ne è in grado, vegana, resta a mio avviso la scelta migliore per la propria salute. Una scelta di questo tipo ha di solito alla base ragioni di carattere etico e comunque motivazioni “forti”. Ecco perché chi abbraccia questo stile di vita condivide anche una filosofia di vita che prevede, come indispensabile corollario, l’impegno a favore della grande causa dei diritti degli animali, che molto spesso vengono oggi violate in nome del consumismo e del profitto. (16) Mariella Bussolati, L’orto diffuso. Dai balconi ai giardini comunitari, come cambiare la città coltivandola, p.25. Si veda anche http://www.retegas.org (17) Suggerisco di leggere Prepariamoci. Un piano per salvarci, di Luca Mercalli, edito da Chiarelettere (2011). È un testo semplice, chiaro e istruttivo. Nella prima parte del libro vengono richiamati argomenti (sovrappopolazione, disponibilità di petrolio, cambiamento climatico, riduzione dei ghiacciai, inquinamento, biodiversità minacciata, ecc.) con riferimenti precisi, rimandi ad altra bibliografia. La seconda parte, invece, è la testimonianza delle scelte compiute dall’autore e dalla sua famiglia. Lo consiglio a quanti desiderano riflettere sulla possibilità di attuare un proprio piano personale di decrescita e semplificarsi la vita per essere più felici. Concordo pienamente quando Mercalli scrive: «Ogni bambino dovrebbe poter frequentare un orto e, se possibile, disporne per tutta la vita. Qualcuno ha cominciato a pensarci, come il progetto «Orti di pace». Quindi se vivete in una villetta a schiera con uno stupido prato all’inglese, non indugiate, ricavate subito spazio per le verdure. Se vivete in condominio in città non scoraggiatevi, unitevi insieme ad altri cittadini e chiedete al vostro comune che vi assegni un’area da adibire ad orti pubblici. Ad Amsterdam ci sono zone verdi coltivate con centinaia di orti individuali, dove vengono condotti in visita i bambini delle scuole. Migliaia di bambini hanno addirittura a disposizione piccoli orti di dieci metri quadrati dove far crescere le proprie verdure e l’orticoltura fa parte dei programmi scolastici della scuola di base fin dal 1930. In Italia gli orti domestici – forse tra i più belli e vari del mondo – stanno scomparendo sempre più rimpiazzati da sciocchi giardini in stile californiano ispirati dalle telenovele, dotati di plateali olivi centenari da seimila euro espiantati in Puglia e Croazia da trafficanti di organi vegetali. Chiaro esempio della spaventosa ignoranza di un paese che, salvo nobili e recenti eccezioni, non insegna a scuola il valore dell’orto, ma anzi lo dipinge come elemento di arretratezza e lo relega a cultura residuale da pensionati nostalgici» (pp.112-113). Anche Maria Bussolati tocca questo aspetto in L’orto diffuso: «Un mito che va assolutamente sfatato è quello secondo cui l’orto è un’attività molto faticosa e per vecchi pensionati. Due caratteristiche in apparente contraddizione. L’indagine di Coldiretti dimostra per esempio che si tratta di un hobby che oggi coinvolge allo stesso modo maschi e femmine e che piace ai giovani, considerato che tra chi lo pratica più di uno su

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quattro ha un’età compresa tra i venticinque e i trentaquattro anni, anche se l’interesse aumenta con l’età e la metà sono ultrasessantenni» (p.21). http://www.ambienteterritorio.coldiretti.it/tematiche/Urbanistica-Territorio-Paesaggio/Pagine/Ortiurbanieguerrillagardening.aspx (18) Raj Patel, I padroni del cibo, p.190. (19) Monica Di Bari e Saverio Pipitone in Schiavi del Supermercato. La grande distribuzione organizzata in Italia e le Alternative concrete, p.60. (20) Carlo Petrini, Terra Madre. Come non farci mangiare dal cibo, p.107. (21) Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, Slow Food Editore, Bra, 2010, p.222-223. (22) Un altro libro molto interessante, che affronta il desiderio crescente di riappropriarsi della terra e dei suoi frutti seguendo modelli di produzione sostenibili, è La rivoluzione della lattuga. Si può riscrivere l’economia del cibo? di Franca Roiatti (Egea – 2011). (23) Paola Violani, L’orto e l’anima. Dal giardino dell’Eden agli orti urbani, Antonio Vallardi Editore, Milano, 2011, p.11. (24) Mariella Bussolati, L’orto diffuso. Dai balconi ai giardini comunitari, come cambiare la città coltivandola, p.19. (25) Ibidem, p.7. (26) Ibidem, p.111. (27) Ibidem, p.55. (28) Il grave momento di crisi che stiamo vivendo ha portato molti studiosi a capire l’importanza di riflettere con maggiore attenzione su una progettualità educativa che promuova in ambito intellettuale e non solo la costruzione di un pensiero previsionale. Si tratta di un pensiero capace di cogliere i nessi nella rete di relazioni complesse che caratterizzano la realtà contemporanea, un pensiero esercitato a guardare lontano, oltre il presente, a immaginare il futuro e soprattutto a immaginare modi nuovi in cui la nostra specie potrà continuare ad abitare il pianeta e contribuire a costruirne il futuro. Tale pensiero è assolutamente fondamentale in questo momento critico a livello globale. Nessuna persona di buon senso può mettere in discussione il fatto che oggi il mondo è assediato da forze che impediscono uno sviluppo sereno nella direzione di un maggiore benessere: una crescente tendenza allo sfruttamento, all’avidità e alla bramosia; un’incessante manipolazione delle opinioni che rafforza i bisogni più grossolani; movimenti miranti a riportare i diritti dei lavoratori a livelli ottocenteschi; un mercato privo di regole che non rende il mercato libero ma dominato da monopoli; un’enfasi ridicola sul profitto economico, quasi fosse l’unico obiettivo per cui vivere. Occorre pertanto che il progetto educativo che sta tanto a cuore alla filosofia della condivisione si impegni verso l’acquisizione, da parte di ogni soggetto aperto agli altri e sensibile ai problemi della collettività, di una vera e propria competenza nuova, che sa orientarsi nelle trasformazioni e immaginare altri possibili e

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personali modi di essere. Una competenza che include il coraggio di sperimentare percorsi di indagine previsionale che consentono al pensiero di invadere il futuro, prevedendone componenti, aspetti e problemi. Fra i tanti, quello alimentare è ora il problema più urgente, che richiede (e richiederà) nuovi modi di intendere la produzione, la trasformazione, la distribuzione e il consumo del cibo. Questo significherà per esempio costruire da subito rapporti in grado di eliminare ogni ingiustizia perpetrata dal Nord globale ai danni degli abitanti delle campagne del Sud globale. Ne I padroni del cibo, Patel propone alla fine del testo una serie di azioni per favorire un cambiamento individuale e globale utili per il presente, ma fortemente proiettate in avanti. Studiando con attenzione questa parte conclusiva ci si accorge di quanto il suo pensiero non rinunci mai a guardare lontano: «Il debito del Nord nei confronti del Sud dovrà essere ripagato per molti anni a venire. Come risultato delle attività industriali del Nord, i cambiamenti climatici sconvolgeranno il pianeta, e la più colpita sarà l’agricoltura del Sud globale. Inoltre le condizioni di vita dei contadini del Sud globale sono nettamente più dure a causa della manipolazione politica del sistema alimentare, con le eccedenze nel Nord globale scaricate sotto il costo di produzione nelle economie del Sud globale. Anche questo deve finire. Perché la sovranità alimentare esige che i diritti dei popoli del Sud globale siano rispettati non meno di quelli del Nord, che quelli dei poveri siano rispettati non meno di quelli dei ricchi, la gente di colore non meno dei bianchi, le donne non meno degli uomini» (p.229). In Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, troviamo un altro passaggio importante dove è evidente la componente previsionale accennata prima: «L’Africa è centrale per qualunque soluzione duratura della fame sul pianeta. Quando si elimineranno la povertà e la fame in Africa, tutti i poveri del mondo staranno meglio. Tutto ciò che avviene – o non avviene – in Africa avrà ripercussioni profonde sui sistemi alimentari del mondo. Ciò che si sta facendo in Africa per risolvere la crisi alimentare è emblematico per molti versi degli eventi globali. I successi e gli insuccessi in questo continente riflettono la capacità o i limiti dei sistemi alimentari globali di soddisfare gli interessi delle maggioranze povere del mondo. Se il sistema non funziona in Africa, non funziona da nessun’altra parte. In questo senso mettere fine alla fame in Africa non è semplicemente una “sfida globale” per i governi del mondo: la crisi alimentare è una sfida al sistema alimentare globale che non funziona così come il persistere della povertà in Africa è una sfida al sistema economico globale. La posta in gioco nel continente è alta in termini umani, ambientali e geopolitici» (p.179). (29) Riporto queste due definizioni tratte da Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia (p.302). Secondo la Fao, «si ha la sicurezza alimentare quando tutte le persone hanno in ogni momento accesso materiale ed economico a cibo sufficiente, sicuro e nutriente per soddisfare il loro fabbisogno dietetico e le loro preferenze alimentari per una vita attiva e sana» (si veda anche www.fao.org/spfs/en/). Per sicurezza alimentare della comunità si intende la «condizione per cui tutti i residenti di una comunità dispongono di una dieta sicura, culturalmente accettabile e adeguata sul piano nutrizionale grazie a un sistema alimentare sostenibile che massimizza l’autonomia della comunità e la giustizia sociale» (si veda la definizione di M. Hamm e A. Bellow, www.foodsecurity.org). (30) Mariella Bussolati, L’orto diffuso. Dai balconi ai giardini comunitari, come cambiare la città coltivandola, p.32. Qua il riferimento è all’India e alla Repubblica Democratica del Congo. In altri paesi come Senegal, Gabon, Mozambico, Botswana, Sud Africa, Namibia, Egitto, Mali, Colombia sono già stati lanciati programmi di microagricoltura cittadina che sostengono un gran numero di piccoli orti adattati ai particolari vincoli di ciascuna situazione urbana. Ma i problemi legati alla crisi alimentare, ai quali si aggiunge ora la crisi economica, li troviamo anche negli Usa: «Pochi pensano agli Stati Uniti quando si parla di crisi alimentare. Tuttavia, sfugge all’attenzione internazionale il fatto che, ancora prima della crisi alimentare globale, più di 35 milioni di americani – il 12% della popolazione – soffrivano la fame. Con la crisi a loro si sono aggiunte le persone che vivevano appena al di sopra della soglia di povertà, per un totale di 50 milioni di individui

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vittime dell’insicurezza alimentare nel paese più ricco del mondo. In una terra scarsamente popolata di immensa ricchezza, suoli fertili, acqua abbondante e tecnologia d’avanguardia, queste cifre costituiscono una sfida diretta alle tesi secondo cui la fame è dovuta alla sovrappopolazione, al sottosviluppo o alla scarsità di risorse. La crisi alimentare colpisce gli Stati Uniti e con la crisi economica diventerà presto un problema politico nazionale» (Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, p.93 – Si veda anche il paragrafo Riparare il sistema alimentare degli Stati Uniti del capitolo 8). Si veda anche http://www.horticity.it/wordpress (31) Ibidem, p.6-7. (32) Monica Di Bari e Saverio Pipitone in Schiavi del Supermercato. La grande distribuzione organizzata in Italia e le Alternative concrete, p.61. (33) Raj Patel, I padroni del cibo, p.185. (34) Dopo il crollo dell’attuale sistema economico, il primo ambito che dovrà essere ristrutturato sarà l’economia alimentare e i necessari cambiamenti a livello di produzione, distribuzione e consumo. All’agricoltura familiare, che rimane il modello principale di produzione agricola, dovranno essere affiancati nuovi progetti in grado di ispirarsi grosso modo a quei sei princîpi di un paradigma agricolo alternativo che Annette Aurélie Desmarais riporta in La Vía Campesina: Decentramento; Indipendenza; Comunità; Armonia con la natura; Diversità; Controllo (pp.95-96).

Paradigma agricolo alternativo Decentramento ■ Maggior grado di produzione, trasformazione, commercializzazione locali e regionali ■ Produzione dispersa (più aziende e più agricoltori), controllo della terra, delle risorse e del capitale Indipendenza ■ Produzione inferiore e con meno input, minore dipendenza da fonti esterne in quanto a conoscenze, energia e credito ■ Maggiore autosufficienza personale e comunitaria ■ Maggiore importanza ai valori, alle conoscenze e alle competenze delle persone Comunità ■ Più cooperazione ■ Coltivazione della terra come modo di vita e fonte di reddito ■ Enfasi su un approccio produttivo olistico, ottimizzando tutte le parti degli agrosistemi ■ Enfasi sulla tecnologia appropriata alla scala della produzione ■ Impegno in favore dell’agricoltura familiare tradizionale e della comunità rurale come «scelte di vita» caratterizzanti Armonia con la natura ■ Gli umani partecipano e dipendono dalla natura ■ La natura offre risorse ma ha anche un valore intrinseco ■ Utilizzare nutrienti e cicli di energia naturali ■ Lavorare con un approccio ecologico di ciclo chiuso – sviluppo di un sistema diversificato ed equilibrato ■ Incorporare più prodotti e processi naturali ■ Utilizzare metodi colturali che restituiscano salute al suolo Diversità ■ Ampia base genetica ■ Policolture, rotazioni ■ Integrazione fra agricoltura e allevamento ■ Eterogeneità di sistemi colturali ■ Approccio interdisciplinare (scienze naturali e sociali), partecipativo (inclusione degli agricoltori), sistemico

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Controllo ■ Calcolo di tutti i costi ■ Risultati nel lungo periodo importanti quanto quelli nel breve periodo ■ Maggior uso di risorse rinnovabili, preservazione delle risorse non rinnovabili ■ Consumo sostenibile, stili di vita più semplici ■ Accesso in condizioni di equità ai bisogni fondamentali ■ Riconoscimento e inclusione di altri saperi e pratiche, una base di conoscenza più eterogenea (35) Annette Aurélie Desmarais, La Vía Campesina. La globalizzazione e il potere dei contadini, Jaca Book, Milano, 2009, p.63. (36) Carlo Petrini, Buono, pulito e giusto. Principî di nuova gastronomia, Einaudi, Torino, 2005, pp.136. (37) Raj Patel, Il valore delle cose e le illusioni del capitalismo, Feltrinelli, Milano, prima edizione in “Serie Bianca” marzo 2010, pp.167-168. In Diritti al cibo! Agricoltura sapiens e governance alimentare (Jaca Book – 2009) di Luca Colombo e Antonio Onorati, leggiamo: «Le piccole aziende non sono un residuo del passato o una zavorra: esse sono portatrici di molteplici esperienze tecniche e sociali divenute oggi pratiche correnti, rendono l’agricoltura più autonoma, più economa in energia e consumi, più capace di integrarsi in circuiti corti di trasformazione e commercializzazione alla portata dei contadini e più vicina ai consumatori. Non si tratta, quindi, di elaborare interventi di politica sociale per aiutare questi tipi di azienda a sparire lentamente senza sommosse, ma, al contrario, di elaborare politiche agricole capaci di riconoscere e promuovere questi produttori perché necessari domani, in particolare per garantire la sovranità alimentare in un’economia di prossimità capace di affrontare con strumenti validi ed efficaci l’impatto dei cambiamenti climatici in corso» (p.27). (38) Ibidem, p.168. (39) In Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, Slow Food Editore, Bra, 2010, p.297 viene riportata la seguente definizione di Agrocarburanti: carburanti di origine biologica prodotti su scala industriale centralizzata, utilizzati in prevalenza come carburanti liquidi per veicoli. Gli agrocarburanti si possono ricavare da granturco, soia, canna da zucchero, canola, jatropha, olio di palma o da cosiddette colture “di seconda generazione” come panico verga, Miscathus (canaria), alberi e foraggi. Il termine talvolta è contrapposto a biocarburante, che si riferisce a produzioni di natura simile ma locali, decentralizzate, di proprietà degli agricoltori e di piccole dimensioni. Dello stesso testo si veda anche il capitolo 4 Gli agrocarburanti: una cattiva idea nel momento peggiore possibile (pp.101-115). (40) Oggi non sono molti coloro che si stanno rendendo conto del ruolo strategico del settore agroalimentare rispetto ad altri settori. A causa dell’impazzimento dei prezzi alimentari, degli sconvolgimenti della dieta del pianeta, dei cambiamenti climatici, della fame dei poveri e della sete delle auto, l’alimentazione rientra a far parte a pieno titolo delle priorità internazionali. L’economia futura vedrà il rilancio del settore primario, rimetterà al centro il cibo: non quello senza origine e girovago, oggetto di speculazione finanziaria, materia prima emblema di un’agricoltura industriale proiettata su consumi di massa su scala planetaria; ma un cibo strutturalmente legato al territorio, ancorato a mercati di prossimità e alla sapienza dei produttori, volto a garantire il diritto all’alimentazione e soprattutto funzionalmente legato alla sopravvivenza sociale, economica e culturale dei soggetti impegnati nella produzione e messa a disposizione degli alimenti. Questa rinnovata attenzione al settore primario rientra nella forte presa di coscienza di chi ha capito che il mondo sta cambiando e che il settore agroalimentare – il quale sta riappropriandosi di un ruolo profondamente innovativo – è tutt’altro che una forma primitiva di economia.

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Questa rinnovata attenzione per la qualità del nostro cibo e delle nostre vite punta inoltre al rilancio di valori solidali che non sono semplice esercizio di buonismo, ma rappresentano il tentativo sincero di lavorare per il bene comune, che è la fonte principale da cui attingere il proprio benessere e quello delle future generazioni. Proprio a tale scopo è attualmente in preparazione Generation Food, un nuovo documentario, libro e progetto multimediale grazie al quale Steve James, Raj Patel e quattordici ricercatori condivideranno e diffonderanno le storie di comunità e organizzazioni che stanno già inventando modi migliori per mangiare oggi in modo che tutti possano mangiare bene in avvenire: http://generationfoodproject.org (41) Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, p.241. (42) «Le sempre più scarse riserve di carburanti fossili, la fertilità del suolo e l’acqua sono le fondamenta pericolanti dell’odierno sistema alimentare, eppure i contestatori che cercano di ricordarlo vengono immediatamente imbavagliati. Christine Dann, un’attivista del Partito verde neozelandese, ha vissuto un’esperienza del genere quando i suoi appelli al cibo sostenibile hanno incontrato orecchie da mercante durante le riunioni con i ministri, nonostante una sfilza di prove incontestabili. “È questo che combattiamo, il re è nudo ma a noi non è permesso gridare che non ha i vestiti addosso.” I Verdi della Nuova Zelanda sono impegnati da cinque anni in una campagna “alimentare” per il cibo sicuro, Safe, un acronimo che sta per sostenibile quanto a produzione, accuratezza nell’etichetta, libero (free) da sostanze chimiche, malattie e contaminazioni ed etico nella sua commercializzazione. “I cittadini comuni hanno una visione del cibo più olistica del governo. Vogliono sapere da dove viene la roba, com’è stata coltivata e lavorata e che cosa contiene esattamente. Ma quando la libertà di scelta del consumatore collide con l’interesse aziendale sotto forma di ‘libero’ scambio, cioè commercio libero da considerazioni etiche, sanitarie e ambientali, allora il governo neozelandese si schiera costantemente dalla parte delle multinazionali”, sostiene Dann» (R. Patel, I padroni del cibo, pp.216-217). (43) Ibidem, p.231. (44) «Per diventare sovrani alimentari non possiamo permettere che siano le filastrocche e le favolette a dominare le nostre idee in tema di cibo, né possiamo basarci su qualche motivazione viscerale per spiegare la fame e l’obesità. Un impegno per la sovranità alimentare esige che rimaniamo curiosi sul sistema alimentare, sui semi e sul contesto in cui è prodotto il cibo, chiedendoci se è stato geneticamente modificato, chi possedeva i terreni, come sono trattati i lavoratori. Possiamo mettere in discussione le risorse che hanno reso possibile la sua produzione: da dove veniva, come ci è arrivato, quanta acqua c’è voluta per coltivarlo, quanto carburante fossile è stato usato per crescerlo e trasportarlo? Però possiamo indagare anche la capacità di accedere al cibo che vorremmo: quanto tempo ci resta per mangiare in famiglia, cucinare, quanta parte del reddito vorremmo spendere in cibo, quali alimenti vorremmo mangiare però ci è proibito? Possiamo porre domande sul contesto internazionale: quali sono le condizioni nei paesi in cui è prodotto il nostro cibo, che debito illegittimo devono rifondere, quanto sono liberi i locali di vivere la propria vita, quanti diritti hanno, come possono aiutarli o danneggiarli i consumatori? Sono domande da porci ogni volta che sentiamo un notiziario, quando sfidiamo i nostri rappresentanti eletti, quando costruiamo la nostra democrazia» (Ibidem, p.230). (45) La dedizione, la fiducia, il rispetto, la gratitudine tornano all’attenzione di un pubblico sempre più interessato a riscoprire la dimensione relazionale e cooperativa dell’uomo. È un interesse che tocca anche la famiglia, il primo e più importante ambiente in cui l’uomo viene al mondo e si sviluppa. Anche se economicamente florido, il futuro della società, senza la famiglia, appare davvero fragile. Perché il mercato non è il tutto di una società; è solo uno degli elementi che la costituiscono. Per secoli non è stato la

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componente più importante e nelle condizioni odierne può subire rapide mutazioni che nessun governo, per quanto stabile e forte, è in grado di contrastare. Quelle sopraelencate sono virtù che hanno un valore costitutivo per il legame interpersonale, perché mirano a instaurare o a ristabilire relazioni con gli altri che abbiano valenza costruttiva. La fiducia stessa in questi rapporti non è però acquisizione pacifica di certezze; è un cammino, un itinerario che conosce la fatica della ricerca e dell’incomprensione, ma anche la gioia della scoperta; e mantiene con pazienza e perseveranza l’obiettivo della cooperazione. Non è da escludere che questo modo di pensare e di dare un senso alle proprie relazioni possa richiedere prassi educative più efficaci nel modificare atteggiamenti sclerotizzati, nell’annullare pregiudizi e immagini stereotipate, potenziando un pensiero flessibile e meglio capace di cogliere i diversi aspetti in cui si declina ogni situazione. Occorrono senz’altro metodi educativi nuovi, in grado di potenziare quelle capacità empatiche che permettono ai singoli e ai gruppi di sperimentare sentimenti di altre persone, di fare propri i loro pensieri e di tenerne conto. (46) Raj Patel, I padroni del cibo, p.21. (47) Per un approfondimento rimando a Eric Holt-Giménez e Raj Patel con Annie Shattuck, Food Rebellions! La crisi e la fame di giustizia, Slow Food Editore, Bra, 2010; Eric Holt-Giménez, “The World Food Crisis – What’s Behind It and What We Can Do About it”, in Food First Policy Brief, 16, Institute for Food and Development Policy, Oakland 2008. (48) Ibidem, p.241. (49) Carlo Petrini, Buono, pulito e giusto. Principî di nuova gastronomia, pp.14-15. (50) Ibidem p.15. (51) Annette Aurélie Desmarais, La Vía Campesina. La globalizzazione e il potere dei contadini, p.14.