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Tracce poetiche di Franco Pucci

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Orme e dintorni

tracce poetiche di Franco Pucci

Antologia inedite 2011-2012

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Franco Pucci Grande sensibilità e profonda ricchezza interiore rendono particolarmente pregiate le liriche dell’autore Franco Pucci, nel suo dispiegare elaborati versi che affrontano gli argomenti più disparati. Risalta nel poeta una spiccata emotività in grado di trasmettere osservazioni non comuni, basate su elevata predisposizione a cogliere i più impercettibili particolari del contorno e delle sfumature che da esso derivano, in un mix di empatici motivi fortemente dinamici. Si nota inoltre, nel suo scrivere, un nostalgico ritorno ad attimi del vissuto, che sottolineano l’importanza di affetti essenziali e il fascino di certezze sentimentali, acquistate nel corso del tempo che passa, senza tralasciare, accenti di mirata consapevolezza, che donano ancor più tono, a saggi dell’anima. Un lessico elegante e particolarmente creativo elargisce alle poesie dell’autore una preziosità da non trascurare, immersa spesso in temi originali, che affronta con molta semplicità e con espressioni argute e spontanee. Considerazioni interessanti e mai banali rendono gli elaborati del Pucci di particolare risalto e rappresentano spunti di riflessione su cui soffermarsi con profonde meditazioni. Grande significato assumono i versi immersi nell’acqua e nel cielo della sua Chioggia…in quel percorso lagunare, ricco di chiaroscuri e intensi contrasti ove inebrianti sensazioni dell’anima rappresentano meta importante di suggestive creazioni poetiche. Non tralascia l’autore, ricco di una personalità costruttiva e assai brillante, di soffermarsi su validi brani letterari, che confermano ottima apertura mentale, proprietà di linguaggio e raffinata intellettualità. Franco Pucci con il suo estroverso porsi ci presenta elaborati davvero efficaci che è un piacere leggere ed apprezzare per il loro valido contenuto. Silvia De Angelis

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Abduction Quel piccolo alieno che mi segue da quando sono nato con occhi indagatori che perforano e violentano l’anima irride ogni sera le mie storie indecenti di stagioni perse e come poeta che scrive il tempo senza averne misura scandisce i battiti, comanda il cuore con note straniere. Ormai aduso alla sua presenza interpreto aliene parole, indosso nuova pelle e recito una farsa antica sull’assito e mentre il finto palcoscenico muore al nascere del sole istrione rubo il proscenio e da vero guitto scrivo il finale. L’applauso si spegne nel lampo ironico dei suoi occhi.

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A ciascuno il suo peso Passò di li il vecchio stanco, curvo sotto il peso della bisaccia polverosa occhi puntuti come spilli dalla capocchia color di cielo ci attraversarono. Come laghi calmi e sereni che rimandavano stupiti le nostre angosce, si fermarono nei nostri un attimo lungo una vita e ci ritrovammo nudi. Non bastarono a coprire le nostre vergogne laceri veli di ipocrisie, col sorriso di chi ha attraversato tutte le stagioni e ne conosce il mutare, ci consegnò la sua bisaccia e proseguì stancamente il suo cammino. Di lui rimasero severe le parole non dette appese alla luce dell’imbrunire. [dividemmo la soma, mentre improvvisa la neve annunciava l’inverno e gli anni riprendevano il possesso delle stagioni vanamente mistificate]

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Allegramente ti amo Ho provato a scriverti frasi d’amore con gli occhi immersi nel blu profondo di un cielo stellato che si confondeva tuffandosi nel cobalto del mare in attesa dell’arrivo di una falce di luna vanesia. Il pensiero abbagliato dall’inutile sfavillio, disancorato, scivola adagio sull’acqua. Ora le parole intirizzite scolorano piano dondolando pigre al respiro della marea, maligna vendetta di una luna dispettosa. [non so perché, ma rido a crepapelle]

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A testa ingiù, tra le nuvole [a testa ingiù] Il paese senza tetti si specchiava a testa ingiù nella luna un mazzo di rose avide d’amore inseguiva una farfalla indifferente e il merlo sul divano fischiettava allegro irridendo il gatto in gabbia. Il luccicore del tuo sorriso asciugava le lacrime stese al sole, mentre la piccola gonna rossa di vergogna copriva miriadi di efelidi,un ricamo di pizzo nero arabescava il candore della tua pelle. Il sentiero che attraversava il laghetto aveva riflessi sottobosco lampi d’argento sul verde tenero erano la danza di pinne e squame e tu accarezzavi la chioma di una piccola stella che nuotava felice. [tra le nuvole] Un gabbiano vestito da gallo strazia il nuovo giorno al morire del sole, a testa ingiù raccolgo i fogli sparsi sul pavimento, torno a vedere il cielo ha confuso il mio racconto questa laida notte mascherata da giorno.

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Argilla riflessa [All’inizio furono lettere e numeri, disordinati segni senza alcuna vita poi arcaiche, impronunciabili parole. Mani incapaci e superbe crearono un embrione d’argilla rossa, stolta emulazione dell’umana arroganza servo muto cui negarono la voce] Un nuovo Frankenstein. Errabondo vaghi nel mondo alieno tra vestigia del tecnologico tempio cerchi risposte ai perché dall’argilla che vedi riflessa nella teca parlante. Furenti labbra incatenate attendono catartiche sentenze dall’infido clone. La parola scolpita sulla fronte affiora stupisce nel cuore l’impasto d’argilla. La verità ostilmente gridata deflagra, pensieri senz’anima invocano invano vendetta per l’impronunciabile segno ma Nemesi distrae altrove lo sguardo. L’eco del nome rimbalza tra le rovine, sbriciola in polvere rossa l’arrogante embrione figlio della superbia umana. Beffarda dallo schermo l’argilla riflessa sorride alle nuove macerie, altre mani ingorde di potere creeranno nuovi miti. L’ultimo Golem.

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Ci ho creduto, ma poi… credimi amico mio niente vale il perdersi nel sognante arcobaleno del cristallino purissimo che riluce negli occhi di un bambino mentre gioca a nascondino con la clessidra rubandole il tempo credimi amico mio niente vale l’abbeverarsi alla fonte della sua stupita e ingenua interpretazione del trascorrere delle stagioni dove ogni piccola scoperta è premio alla sua caparbia tenacia perché amico mio se il racconto della vita è una fiaba scritta in quel libro che nessuno legge più, mentre la clessidra ha scoperto il trucco e ti nascondi tra le bugie appese alle ciglia di una zingara vagabonda allora puoi non credermi perché nello sfuggente e mistificatorio luccichio dei gelidi smeraldi incastonati nell’olivastro viso della slava ho letto che tutto era già stato scritto e nessun premio era dovuto

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Controra tzigana Respiro in questa afosa controra bruciata, morsa da un sole assassino galleggio inerte in un tempo sospeso tra l’alito del cielo e il rutto del suolo. Perfora inattesa il silenzio assonnato una coinvolgente melodia tzigana, poche note venute da chissà dove si insinuano fagocitando il mio respiro. Mentre cerco un disperato appiglio ai miei pensieri che si inseguono bolsi, respiro al ritmo di una gipsy dance, e lego il cuore alle chiavi di un violino. [galleggio immemore nel tempo sospeso di questa afosa controra zingara]

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Ditemi perché Ditemi perché dovrei fare del mio cuore una pietra ora che il fiume degli anni ha finalmente sciolto la corazza artefatta del quotidiano scorrere degli affanni. Ditemi perché il bianco che incornicia ormai il mio ritratto debba preludere a una risibile e timida vergogna ora che anch’io so chiamare per nome i miei sentimenti. Ditemi allora che anche se la mia voce si è fatta sorda udite egualmente il mio stridere di gabbiano ferito che grida all’approdo tutto l’amore che aveva tra le ali. Ditemi perché, ora che mi udite.

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E’ tornata la luce Come una lucciola orba dalle pile scariche cerco a tentoni nel buio una parvenza di luce, mille lumini in attesa di scaccini compiacenti che stanno morendo nell’asfissia dell’incenso. Inginocchiato all’altare della tua indifferenza sgrano pregando giaculatorie improponibili mentre pensieri come plumbei nembi avviliti agitano invano gli ultimi scampoli di dignità. Basterebbe un lampo di umiltà per illuminare questa pece che ottunde l’anima e il cuore, ma il tuono rimbomba e un refolo incattivito spegne le ultime fiammelle, soffoca il respiro. Triste lucciola ormai spenta volteggio cieco plano a tentoni le stanche elitre sul cuscino, lascio il sudario che mi avvolge e discinto attendo gelando il sudore una luce salvifica. Il tuono del cuore annuncia la tua presenza il mattino sorprende l’amore, è tornata la luce.

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Ero io quello? Ero io quello che anche lo specchio faticava a riconoscere, che la notte litigava con la luna nascondendo tutte le paure, e mentendo a se stesso giustificava come inevitabili gli sbagli? Quello che guardando l’amore mai spento dei tuoi occhi negli anni ha mistificato emozioni e disincanto urlandoli al vento e ha traghettato la vita verso approdi indecenti con te accanto? Ero io quello che tutte le promesse scritte nel libro dei sogni ha venduto per un pugno d’illusioni vestite con gli abiti dell’inganno e alla fine della recita ha bruciato il sipario per una nuova catarsi? Araba fenice rinata spargo le ceneri nelle acque pacificate del tempo, l’immagine riflessa rimanda come in uno specchio una condivisa canizie, i tuoi occhi incidono il vetro come diamante, sorrido e mi riconosco.

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Il rumore del sorriso La nuvola bianca di gabbiani chiassosi e festanti insegue il bragozzo al morire del dì di pesca, m’interroga lo sguardo assetato di rosso tramonto catturandomi le labbra, aprendole al sorriso. Mille ali con ardite evoluzioni planano sulla spuma nella argentea scia, ospiti voraci del banchetto che il consueto operare del pescatore offre ogni giorno alla pervicacia del lacerante richiamo. Il passare del traghetto scompiglia la tavolata, torna la nuvola bianca e macchia l’azzurro morente mentre gli occhi ebbri del sole che si tuffa nel mare catturano lo stupore del muto volteggiar di ali. [nel silenzio, il rumore del sorriso]

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Io, il Ticino e un pesciolino ingordo Il nylon sapientemente teso come corda di violino attende inerte i sussulti del piccolo terremoto che avviene laggiù, sotto quel mulinello d’acqua. Da musico provetto che interpreta le note di fuga mi segnala con la sua danza la fine dell’attesa. [ogni volta l’emozione scatena adrenalina] Mentre appeso al fumo dell’ennesima sigaretta mi accingo al recupero della preda sospirata e l’argentea livrea dell’incauto riluce tra le mie mani, il Ticino scorre impetuoso e maestoso come sempre riflettendo l’azzurro sulle arcate del Ponte della Becca. [l’inganno celato abilmente alletta e attrae l’ingordo] Spendo appassionatamente parole affumicate in una dura reprimenda all’ingordigia del pesciolino che con occhi vitrei mi osserva e non capisce ma sorride, sono sicuro, mentre con tuffo carpiato torna a pinneggiare cercando un altro mulinello. [anch’io sorrido al fiume e torno a tendere il filo]

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Latte e miele Quelle notti di Dicembre a piedi nudi nel corridoio il cuore che ti precede, il freddo nel buio che gela, pungono i piedi le tracce di un Natale precoce. Aghi di pino come filo di Arianna verso la cuccagna guidano, ma il passo circospetto tradisce l’equilibrio, a tentoni cerchi un appiglio, e improvvisa è la luce. Sul bianco del marmo, dietro una scodella fumante il sorriso di mia madre, latte e miele per scaldare un piccolo cuore gelato da un albero ancora spoglio. Oggi le notti che inseguono le mie fughe irreali sono caffè amaro e aghi di pino che bucano il cuore mentre il dolce ricordo svanisce, cerco invano il calore. Latte e miele, il sorriso di mia madre.

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Libia improvviso il tuono che non aspetti il silenzio è scoppiato piovono ali di farfalle nel deserto come scroscio di temporale sicario colorano di rosso la piccola oasi piangendo false lacrime di rugiada l’urlo di dolore ammutolisce il cuore nel silenzio dell’anima la libertà muore

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Mimose in volo per l’altra metà del cielo Due ali lassù recitano un plastico volo che si specchia nel cristallo della laguna l’acqua incuriosita segue quelle parentesi muoversi in mirabili danze increspate. Nel verdemare la bianca macchia attrae rivela nel suo tremolare un riflesso dorato che l’amico gabbiano planando all’approdo con perizia posa sulla panchina in attesa. “non son qui per te, immemore amico il mio omaggio fiorito oggi è dovuto all’altra metà del cielo dimenticata, quella che manca al tuo esser uomo” [il rosso del mio viso scolora nell’azzurro e impallidisce il sole all’oro delle mimose]

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Quelle sere Non so se hai presente quelle sere guardando il mare in cui la tristezza sale piano al cuore e la fa da padrona, una di quelle sere di straziante bellezza dove le luci delle stelle nel cielo sembrano lacrime appese nel buio. [e tu sei lì, accucciato nell’angusto spazio dell’anima che la tua melanconia ha ricavato tra i suoi anfratti e ascolti distrattamente i lamenti che la calle rimanda] L’urlo strozzato del solitario gabbiano in amore che da troppe sere insegue una compagna qualsiasi, il lamento metallico dei pescherecci ormai vetusti, che come crocchiare di scheletriche ossa, tutto avvolge. [e tu piangi, non sai perché, ma piangi] Lacrime asciutte, come rasoi affilatissimi, ora sezionano le emozioni soffocate che affiorano dall’apnea dei ricordi. Lentamente, un falso sorriso tra i denti, chiudi gli occhi mentre con l’ultimo sospiro una lacrima infine scende. Non so se hai presente, ma quelle sere io piango.

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Tu, dolce malinconia Chissà perché la pioggia che riga i vetri, quando anche il cielo è di pessimo umore e sfoga le sue futili idiosincrasie tessendo grigie trame, fitte come un ricamo abortito, ci appare come lo scorrere di dolci lacrime che si tuffano nel mare placato dei ricordi. Chissà perché il canto del vento tra le gelosie, quando anche i capelli arruffati ridono al sole e rincorrono invidiosi il volteggiar delle farfalle che accorrono al primaverile banchetto fiorito, ci cattura come un ammaliante, dolce assolo che un impareggiabile interprete offre al cuore. Chissà perché ora, che tra pioggia e vento spesso le mie giornate si srotolano inesauste cercando invano dolci lacrime scorrere sui vetri mentre celo l’orecchio al fischiare della bora e alieno i pensieri nel grigio metallo del cielo, sospiro il sorriso come una farfalla infreddolita. Dimmelo tu, dolce malinconia.

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Un inutile ricordo di un piccolo pianto Non puoi raccogliere il mare con un colino, lacrime azzurre sfuggirebbero alla tua insipienza non potrebbero raccontarti il dolore o la gioia. Quanto pianto sprecato si infrange sulla riva, quando gli stolti come te si immergono nell’amore senza conoscerne le maree e le profondità abissali. False lacrime che il mare rifiuta e muoiono sulla rena. Cosa te ne faresti poi di un piccolo pianto raccolto in un vecchio secchiello di plastica arancione?

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Una stramba quadriglia Guarda lassù cuore stanco, nevicano sorrisi questa sera dondolando dolcemente infiorano il cielo di tenerezza, planano sulla laguna in mille bollicine scoppiettanti risate. Vestiti d’allegria usciamo, la brezza ci spinge al largo, incontreremo la luna che regala lucciole al vecchio faro, danzeremo sul molo una stramba quadriglia coi gabbiani. La dolce neve marzolina imbianca come zucchero filato i nostri cuori bambini alla ricerca di una eterna primavera tra i sorrisi inganniamo il tempo danzando questa quadriglia. “alors on danse mes amis, changement de jambe…”

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Voglia di scrivere d’amore Questa malcelata voglia di scrivere d’amore non cala al tramonto quando scende la neve alza un soffio di vento che accarezza il cuore e tinge i pensieri come farfalle dal volo lieve. Scioglie agli occhi il pianto di lacrime rapprese sorride alla canzone baciando labbra stanche per chi ha nel cuor la noia delle lunghe attese scompiglia le emozioni colorando notti bianche. Col tempo ho chiuso la partita del dare e avere i conti con me stesso li ho fatti, ma ho sbagliato se per scrivere d’amore ho aspettato primavere giocando con la poesia di un cuore innamorato.

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Chi vince prende tutto Quattrocento aironi dalle movenze sgraziate litigano un metro quadrato di laguna incespicando sui loro ossei trampoli. Grande è la confusione nell’agitar di penne e zampe come bacchette di Shangai gettate alla rinfusa nel ribollire di alghe e vongole fuggitive come minuscoli dischi volanti inabissati nel pentolone del brodo primordiale. Ormai aduso alle sceneggiate che l’alcool mi rappresenta ogni qualvolta l’umore si inabissa e la depressione cerca rifugio in una serie di cristalli variamente colmi di panacee a poco prezzo, ho scommesso sull’airone cinerino. Mi sta simpatico e poi ostenta un’aria indifferente alla tenzone, attende sornione la fine del massacro degli antagonisti in un rutilar di becchi, ali penne e zampe per affrontare il vincitore ormai distrutto dalla fatica e conquistare così facilmente lo spazio oggetto della disputa.

….

[sorrido, ora posso finalmente dormire la mano trova sicuro appiglio sul tuo seno

il consueto viaggio notturno anche stanotte ha lasciato sul terreno la vittima designata

tu attendi e, come sempre, vinci…]

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Catarsi Difficile ricostruire i percorsi e i sentieri attraversati nella vita, quando il cammino soffocava nella cedevolezza della sabbia e tu, volgendo lo sguardo, nel ripercorrerli perdevi il passato cancellato dalla risacca del tempo mentre rincorrevi la vita dimentico, con la mente spazzata dal vento che sale dal mare. Cercare con ostinazione falsi alibi e giustificazioni agli errori, sedersi sulla rena e sognare di trasformarsi in un gabbiano per spiccare il volo e guardare finalmente dall’alto, distaccato, le ultime faticose orme lasciate sulle sabbie mobili degli anni. In attesa che il mare finisca il lavoro, ne cancelli la memoria.

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E io che il militare non ho fatto Non ho truccato le carte. Ma il caso volle che non ci fossero armi da imparare né scarponi da indossare né il grigioverde caserma così mi sentii uomo egualmente a metà della strada, e il passaporto per la maturità aveva un timbro rosso. Era la ceralacca con cui impacchettarono i miei anni li consegnai al mio divenire uomo come foglio di via senza sapere quale sapore avesse il fumo delle Milit o se la puttana all’angolo valesse davvero la decade. Una carta ingiallita tra i ricordi trovata quasi per caso recita nel mio congedo, aspirante uomo già schedato, le “ridotte attitudini militari” che non ebbero mai peso, e gli anni inseguirono gli anni marciando il mio passo. Sfinito mi ritrovarono nella neve dell’inverno della vita senza scarponi, senza armi e divisa, le braccia alzate nudo, mentre il sorriso gelava tra le labbra, abbaiavo “non ho fatto il militare, non ho mai truccato le carte”. Ma ho combattuto la vita.

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E’ solo paura Quando resti appeso all’ultimo moncone di speranza, mentre intorno a te Gerico crolla con un fragore sordo e socchiusi gli occhi non resta che acconciarsi al buio, quando il corpo dondola disarticolato come scheletro che danza una oscena tarantella sul molo e le ombre dei pescherecci ti accompagnano al ritmo della marea, e se il respiro insegue inerte il cuore che aliena i battiti, e le membra irrigidite avversano i comandi in anarchia, rifiuti anche il solo pensiero di una possibile solitudine. Non preoccuparti, è solo paura.

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Hai vinto, Ric (dedicata a Riccardo) Sei lì, da tempo immemore, seduta sull’erme al ciglio della vita attendi il fluire scomposto di corpi in sfacelo, ormai orbi d’anima non li conti più infine, la piena ha rotto gli argini, come valanga trascina a valle relitti dimentichi, lascia un fetore che ammorba. L’orrenda ferita che sghemba attraversa il tuo volto si acconcia d’un perfido sorriso quando riconosci il sembiante di chi ti lasciò appesa ad un tempo irrisolto sfuggendo tristezza e malinconia, anche se il suo corpo ha attraversato il Lete, non cantar vittoria. Senti l’eco di questa risata? Hai vinto laida puttana, la battaglia, ma la guerra è un’altra cosa, l’ha combattuta, ha messo l’anima, ora da lassù ride beffardo del tuo sconcerto, scevro da orpelli, ha gettato il cuore oltre l’ostacolo e ora libra sereno nell’azzurro. Hai perso Nera Signora, lui vive in noi, lui vive ancora.

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Hold on, please [non perda la priorità acquisita, attenda...] Avessi saputo l’inglese ti avrei aspettato ma forse avrei trovato più affascinati quelle voci amorfe e sintetiche che guidano i tuoi desideri, le tue necessità, i tuoi sogni. [se desidera un appuntamento digiti uno, altrimenti attenda, hold on, please…] Ho creduto al fascino di quella voce aliena, ho atteso, mi hanno trovato l’indomani appeso ciondolante al filo del telefono. Dalla cornetta la voce metallica ripeteva: [hold on, please..]

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Il gabbiano dagli occhi di falco Sono arrivato sin quassù con volo arcuato, ora aggrappato a questo lembo stracciato di nuvola riposerò le stanche ali di gabbiano mistificatore scruterò il palcoscenico con i miei occhi da falco. Stanco d’istrioniche esibizioni nel circo della vita dopo la superbia degli improbabili voli senza rete mentre con l’arroganza negli anni piombavo le ali ho trovato rifugio quassù, ai margini dell’immenso. Aspettami stanotte, scenderò e verrò a prenderti anche se l’amica luna fosse senza respiro e il buio fosse pece impenetrabile, come radar i miei occhi guideranno il nostro volo, sarà il clou della serata. Indifferenti agli applausi di un pubblico ipocrita, abbracciati nell’ultimo atto della nostra esibizione fianco a fianco appesi sulla nuvola vedrai l’amore nei miei occhi di falco, mentre laggiù il sipario cala.

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Le farfalle di Piancavallo Bianche e nere, gialle screziate di arancione delicate filigrane di gracili francobolli iridescenti che spolveravano di magiche polverine le felci della radura lassù, tra i monti di Piancavallo. Sciamavamo assetati di libertà noi piccoli ospiti della colonia montana ed io rincorrevo a perdifiato quei magici sogni colorati che mi provocavano con le loro danze eteree ed eleganti, inafferrabili. Poi al ritorno, nel grigiore del cemento cittadino, mi ritrovavo a cercare un po’ della magica porporina che incipriava la punta delle dita, regalo dell’ultima fantasmagorica falena faticosamente catturata. Perso nelle anguste tasche della malinconica divisa ho cercato invano quella magica, iridescente polvere mentre tu diafana farfalla prendevi il volo con nuove ali, tra le dita svaniva il colore che avevo in serbo per te.

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Nella sfera di cristallo a passo di Giava Ora stringo tra le mani emozionate la sfera di cristallo e inseguo rapito i riflessi colorati che le nostre immagini, ologrammi tridimensionali, creano sul bianco del muro. [l’ironica danza dei colori propone ricordi lontani, solari, lampi di luce i tuoi occhi mutevoli e cangianti nell’amore] Senza musica alcuna danziamo l’eterna Giava della vita, il tuo passo esperto mi lascia come sempre senza parole e le tue impronte segnano orme indelebili sul mio cuore. [se sorridi, alzo lo sguardo e leggo l’amore sulle tue labbra ma il movimento scomposto cambia la scena, ora nevica] Non imparerò mai la Giava.

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Poesia muta Amore mio avvolto in cineree parole ho occhi troppo stanchi per scriverti ho pensieri plumbei appesi al vento mani incontinenti rapite di anarchia. Laccio emostatico che blocca il fluire delle emozioni gelate a fior di labbra l’amore che ho dato a questa pagina come deserto arido m’appare alieno. Vano il mio inseguire di lettere e frasi ancelle neghittose restie ai miei voleri manca l’allegria negli occhi in attesa di leggerti finalmente nelle mie labbra. Urlerò al vento, parlerò parole attonite orbo della tua compagnia nei miei voli ti penserò, poesia d’amore e tu vivrai nei riflessi cristallini delle mie lacrime. Tu, muta poesia.

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Profuma l’aria di Aprile L’aria finalmente tiepida innamora i respiri lo stridere dei gabbiani è meno dolente, le nostre ombre danzano lievi nonostante e il sorriso si desta dopo il lungo letargo. Vestiti di niente vorremmo ora navigare l’approdo ci appare meta raggiungibile, i cuori che accelerano battono aritmici la danza tribale della primavera attesa. [mi perdo nei tuoi occhi ora che il sole gioca rimpiattino tra il verde screziato e l’allegria che addolcisce lo sguardo regala tenerezza al tramonto sereno] Sai di buono, come pane appena sfornato che profuma l’aria di questo Aprile solare, ho fame di te, del tuo sorriso, come sempre il sole del nostro amore non conosce inverni.

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Quella piccola ruga bugiarda La luce spezzetta il verde del cristallino, vibra maliziosa la piccola ruga che gioca a nascondino sotto i tuoi occhi, appare e scompare in questo trafficato sentiero della vita e racconta le nostre fughe, i nostri sogni, il nostro amore. Le storie scritte nelle mille e mille pagine del nostro libro hanno consumato il limpido, vivace scorrere sulle parole, lo sguardo dolcemente si è acquietato nei colori pastello mentre seguo con le labbra quella sottile linea rivelatrice. Ora asciugo lacrime del sorriso scritto nelle ultime pagine il riflesso abbaglia, mi perdo nel verde lago dei tuoi occhi e nel rilucere di lacrime e cristalli, come gioco di specchi, maliziosamente mistifichi gli anni e nascondi la parola fine. …quella piccola, bugiarda ruga…

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Respiro a metà Perché il respiro si è inerpicato lassù stanotte? Perché questa sottile angoscia tra le pieghe dell’anima? Eppure sei qui al mio fianco, come sempre, ma stanotte il nostro respiro è rimasto orfano del mio, chissà perché. Ora di lassù comanda il gioco, l’anarchico buffone. Forse se l’angoscia che mi opprime trovasse una risposta l’amore riprenderebbe la consueta voce univoca. E sarebbe ancora vita insieme tu ed io, un respiro in due.

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Stronzio 90 [il terzo occhio mi fissava lascivamente acquoso il pelo maleodorante innescava scintille sulfuree il ghigno traverso appariva come ferita suppurea] Lucciole di gas inesploso fecero del giorno la notte improvviso il palcoscenico crollò al limitare del cielo così la risata lacerò il silenzio inebetito dagli eventi. Ancora echeggiano i brividi, mentre allo specchio cercavo quell’immagine consueta e rassicurante, l’alieno in me non si riconobbe e fuggì terrorizzato. Tornai avvilito alla mia bottiglia di giallo cherosene la rabbia ora montava come tsunami incontrollabile, non erano questi i patti, il nucleare mi aveva fottuto. [ancora quell’occhio…]

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Un, deux, trois…ricordi? Era caldo quella sera d’Agosto alla stazione il wagon-lit ci attendeva sudando sul binario tu eri bella nel tuo vestitino leggero sul seno io sfoggiavo il sorriso delle grandi occasioni. Noi amanti con la storia già letta alle spalle dimentichi della vita verso il sogno parigino facemmo l’amore cullati dal ritmo metallico nella notte afosa come fosse la prima volta. Parigi ci abbracciò nel suo materno ventre un valzer musette ci guidò sino alla Senna, sul parapetto del Pont Neuf noi danzammo specchiandoci tra le stelle fu ancora amore. un, deux, trois…

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Cenere Non ho rimorso, ho guardato con indifferenza gli ultimi sussulti dei miei ricordi ardere portandosi via tre quarti della mia vita nel fuoco purificatore acceso da un cuore insofferente ai lacci che lo legavano al passato. Anche l’anima ha fatto capolino dal nascondiglio, dove si era rifugiata ed ha assistito agli ultimi spasimi del mucchietto. Fischiettando indisponente ho ramazzato la cenere ed è stato allora che ho visto una piccola fiammella, giovane ma prepotente, ardere ancora incessantemente. Non voleva morire, ho guardato meglio e ho riconosciuto il ricordo cui sbadatamente avevo dato fuoco: l’amore. Come al solito avevo sbagliato tutto, i ricordi fanno parte della vita, puoi dargli fuoco e seppellirli sotto montagne di cenere, ma poi lentamente, ma inesorabilmente ritornano ad ardere, non si spengono mai del tutto. Ho recuperato la cenere e l’ho raccolta in un angolo della mia anima, mi è parsa contenta. So che alla fine torneranno a tormentarmi. Ho deciso: cambierò strategia, li affogherò in un mare di lacrime. Servirà?

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A che gioco giochiamo? E’ un gioco perverso, questo. Ci siamo rifugiati come ogni notte, quando la neve tarpa le ali, sulla gobba del nostro arcobaleno nascosto da nubi dispettose. Da lassù la nostra valle si rispecchia nel cristallo dei tuoi occhi e lo sguardo spazia tra asfodeli d’oro e nuvole d’iridee falene. Come ogni notte giochiamo. Contiamo laggiù i nevrastenici punti neri che si agitano imbelli, ma la nostra conta diviene viepiù ardua col passar del tempo, all’esercito dei piccoli voraci insetti si aggiungono astutamente pasciuti generali che amministrano il saccheggio programmato. La nausea spariglia le carte. L’altezza si sa procura un senso di dolce vertigine, regala alibi. Mi chiedo quanto durerà questo rifugiarsi nel delirio, nel sogno,stanotte ti terrò per mano, ancorato al cuscino il nostro respiro non salirà lassù a cavalcare l’ingannevole arcobaleno colorato. E sarà nuovo l’antico gioco dell’amore.

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A chi? Sorridevo perso in un lembo di cielo grigio come una ruvida coperta stesa ad asciugare sul davanzale di quest’autunno imbronciato e zuppo di lacrime che lassù affogava l’anima. Seguivo affascinato le evoluzioni militaresche di uno stormo di rondini in assetto migratorio, quando il profumo del tabacco di una sigaretta ammaliò i miei sensi catturandone le intenzioni. Accanto a me un giovane interrogava lo sguardo con la sfrontatezza di chi conosce l’alfabeto della vita e ne ha visitato ogni vicolo, ogni anfratto, il lampo ironico dei suoi occhi feriva l’anima. Non risposi alla provocazione solo la malinconia arrivò improvvisa e guardandolo m’interrogai: a chi? A chi lasciare il posto sulla coffa del veliero se non vi sono più occhi bambini capaci di stupore? Piccoli uomini nati già imparati e cresciuti nell’agio del tutto già visto, conosciuto e preconfezionato, con le risposte già pronte alle domande della vita. Incapaci di comprendere che il sapere senza l’amore è come un cane affamato che si rincorre tondo tondo mordendosi voracemente la coda sino a divorarsi. Rimarrà solo l’eco scheletrico di zanne fameliche e un lembo di cielo grigio zuppo di lacrime ingoiate. …tragica sindone dell’ingordigia umana…

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Acido lisergico Aspre di more di gelso e di lamponi acerbi colate come false lacrime disseccate al sole dell’ipocrisia rosse di ribes straniate da passi frettolosi sul cuore. [stempero crudamente con le dita questa tavolozza] Alieno da setole lucenti intingo entrambe le mani nel zuccherino e colorato impasto, violento la tela e mentre t’imbratto l’anima prosciugo il tuo amore. [succhiandolo, come novizia falena imbrattatele, la dolce arroganza muta venefica in acido colore]

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Al di là del tempo [solo un piccolo movimento, uno scatto] Nei calzoncini di tela ormai fuori taglia, inutile riparo per gambe ferite dai rovi. Le righe bianche e blu della maglietta alternavano il verde smarrito del prato e la scarpa perennemente slacciata inciampava tra false spighe di grano. Assorto su quella collinetta. Fissavi un punto indefinito lassù nel cielo nemmeno il sottile fruscio della libellula che finiva il suo volo su un rovo lì vicino catturò il tuo sguardo, gli occhi inesausti indagavano l’azzurro che non s’esauriva. Testardo cercavi risposte più in là, oltre. [solo un piccolo movimento, uno scatto] Nuovamente bambino dai calzoncini di tela e una piccola coda di lucertola nella tasca, caccerò la libellula distratta, coglierò more e il rosso sulle tue labbra non avrà stagioni Nell’azzurro del prato dove ci ritroveremo saranno davvero spighe di grano maturo.

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Ali spezzate …ancora un volo prima dell’amore… Quasi all’approdo della tua breve vita l’ingiuria del vento ne ha mutato la rotta. Porporina colorata, polvere d’arcobaleno ora dipingono la laguna di tinte pastello. Teneri note di iridescente tavolozza richiamano nostalgie come tele di Monet. Ti dibatti laggiù, tra nasse stese al sole, incredula ospite di una natura a te aliena. Mentre il sole arrossisce, il respiro del mare stempera i relitti colorati delle tue piccole vele. Piccola falena dalle ali spezzate, hai sognato l’amore in un cielo avverso.

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al-nasr-al-ta'ir (Altair) Ti cercherò anche stanotte, Aquila volante. Lassù all’apice del triangolo di questa estate strana, contraddetta dalle tue allettanti, vacue promesse. Stanco di mutazioni improvvise ed umori melanconici col tuo lucore scaccerò le ombre di notti strascicate passate alla ricerca di una nuova, plausibile dimensione. Hanno imbrattato la mia anima le scorie dei ricordi malamente sepolti nella cenere di anni di oblio coatto inconsistente cipria facilmente spazzata dallo scirocco. Ti cercherò piccola stella dalla grande luce, ti troverò. Tutto sarà più chiaro allora, tutto sembrerà più semplice porto con me solo poche parole, parto stanotte, ora. …ma tu, non spegnere la luce…

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Ancora voliamo il tempo Sono fuggiti in silenzio, senza frastuono gli anni perduti, giocati per troppo amore, l’arroganza del falso pudore ha lasciato bisacce di sogni comprati a poco prezzo nei mercati della vita e un baule ricolmo di ricordi e foderato di buone intenzioni. [ma gli occhi sorridono] Così estate dopo estate si rinnova il rito, contiamo i passi sfidando il ritmo degli anni mentre passano viepiù veloci e regalano piccole sporte da riempire con piccoli sogni conservati sotto la neve che ogni anno attende l’ultimo raggio di sole al tramonto. [c’è ancora posto nelle piccole sporte…]

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Ancora mi manca …quel triangolo di cielo arrovesciato all’insù con gli occhi socchiusi, feriti da scintille di sole sdraiato su fili di verde, supino, a palme aperte conto le raganelle che saltellano tra le dita …ancora mi manca quel respiro a metà rubato alle corse e agli amori sognati tra le nuvole con la malizia e lo stupore dell’età che avanza come falena intrappolata e nascosta nella tasca di quell’età che è passata come una cometa è rimasta solo la polvere dispettosa della coda …e un paio d’ali di farfalla …

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Appesi al silenzio Sul letto nostre impronte si dissolvevano alle mie spalle e il vitreo diaframma che separava le pagine della storia si imperlava di iridescenti bugie recitate a fior di labbra, mentre la tua sagoma barava sul selciato pallide ombre Il dolore fu allora la mia veste e inarcata una parte di me, ebbi un moto di sofferta ripulsa dell’inevitabile fine, ma invano. Sottilissimi fili come corde di arpa dolente mi trattenevano, vibravano risplendenti proiettando lame di luce accecante. L’agonia dell’amore in quell’alba ebbe la voce del silenzio.

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Appunti Il cielo rabbuia. La laguna sembra pasta di pane azzimo lasciata a lievitare mentre milioni di bollicine scoppiettanti emergono in superficie e concludono l’apnea intonando un sommesso, musicale crepitio. Un gabbiano dalle ali affannate interpreta parabole etiliche, rincorre un grido sgraziato quasi fosse chimera di prossimo amore, perso nella brezza che gonfia il petto mostrando muscoli poderosi. Pretendono parole e rime le mani sudate che inciampano sui tasti ma lo sguardo perso nel piombo del cielo che viepiù s’oscura tradisce gli affanni delle notti insonni aliene del giusto compenso. …eppure tutto era chiaro, terso nella mente… Lei era lassù, piccola poesia scolpita nel blu di un cielo volubile, dalla memoria fallace, che presto disattende i sogni e le illusioni e invidioso malignamente ne cancella il ricordo e le emozioni. …ma il gabbiano insegue la sua chimera e piove…

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Astu visto? (hai visto?) “Tasi mona de un cocai!” Certo che ho visto mio gabbiano saccente avessi le tue ali non morirei così al tramonto tra il mare che nereggia e il sole che strazia le ultime pennellate d’azzurro che respiriamo. Ho visto l’ultimo bragozzo rientrare ansando e il nugolo bianco di famelici becchi seguire mentre braccia stanche gettavano in mare relitti d’argento per un banchetto annunciato. Ho visto il saluto rubato sulle labbra al molo mentre il legno salpava e la speranza ardeva il cuore e l’attesa della donna tra le reti stese come velari nel pudore di una muta preghiera. Ho visto piovere col sereno a scolorire il vino del vecchio seduto sulla pietra della banchina occhi persi nel mare piangeva un antico dolore stringendo forte tra le mani una piccola croce. …ho visto il mare amico mio, ho visto…

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Avevo il morbillo Mi venne il morbillo quando decisero che era ora che diventassi finalmente uomo. Una miriade di puntini rossi aveva trasformato la mia pelle in carta da parati anni sessanta, quella adatta per la cameretta del bimbo. Mi venne il morbillo quando attonito appresi che le naturali polluzioni notturne non erano un difetto del pannolino che ancora tormentava le mie cosce inconsapevoli dell’ingiuria imposta alla mia prorompente e immanente virilità. Mi venne il morbillo quando dovetti per la prima volta spiegare la mia inattesa debacle notturna alla tardona che immaginava estasi paradisiache da prestazioni ginnico/circensi e che rimase di granito allo scoprire che la ginnastica si fermava ai piedi del letto. Mi è tornato il morbillo quando infine ho scoperto che tra le parole dal sen fuggite non ho trovato comprensione alcuna, ma solo tanta ironia e l’indifferenza di chi vorrebbe importi di nuovo il pannolino e misura il tuo esser uomo sul suo metro. [ci vuole pazienza, dopotutto sto ancora cancellando i puntini rossi…]

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C’era Una Volta Ssssssssssssst! No! Non raccontarmi quella storia, mette i brividi. Una Volta non c’è più. L’ingannevole Circe che ammaliava i miei sogni e salutava le mie albe grugnendo i miei chicchirichì è morta, finalmente. Divorata da Oggi, l’errante drago insaziabile che immemore si ciba del tuo tempo e lascia il desco senza pagare il conto. Ora c’è Ora. Sono innamorato di Ora magica e splendida icona della fiaba del tempo, fugace e leggiadra farfalla che colora gli attimi della vita. Ora. Assonnato sul tuo seno, gli occhi al nero cielo bambagia che ci sorprende piano piano, conto le lucciole della fantasia e dolcemente mi addormento. Sssssssssssssst! Una Volta non c’è più.

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Cerco cerco tra le macerie di un muro di parole che si sgretola piano le ragioni di una catarsi le orme da percorrere una nuova dimensione cerco bruciando l’edera che cementa l’uscita di sicurezza dell’anima un varco seppur minimo da cui aspirare gocce d’ossigeno senza filtro cerco l’ultimo spartito dimenticato sul leggio musica di una sola nota ritmata con arroganza da un cuore stonato sul palco della vita cerco…

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Cesoie arrugginite [parole come affilate cesoie lucenti recisero lo stelo senza un lamento] …e rotolò il fiore dell’amore abortito neppure il piacere ebbe il suo nome il tempo non medicò l’orrenda ferita rimase così il piccolo amore acefalo …celato tra i rovi della verde stagione concimato negli anni con odio e livore regalò more di un antico color ruggine dal sapore di fiele di mancata rivalsa …ancora risuona l’eco metallica…

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Ciao Parola abusata stiracchiata sorridente sputtanata velenosa ironica mesta un saluto un insulto una promessa un amen una rosa un’orchidea una viola una margherita un nontiscordardime Nei tuoi occhi ha un sapore diverso. Il mio sorriso la canterà nuovamente quando cadrà l’ultimo fiocco di neve e il tempo, inedita Penelope al telaio terminerà paziente la bianca coltre. Saluterò così il nuovo appuntamento ma non temere, l’attesa dell’incontro durerà solo l’attimo di questa parola. Quindicimilaseicentonovantacinque volte - oggi come ieri - il nostro ciao. Ciao Conny *19/10/1968 da 43 anni mia moglie

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Ciao, pà. Non so perché, ma stasera l’ultimo respiro del sole morente ha sollevato la polvere dei ricordi e fermato la tua immagine. Laggiù dove l’orizzonte muore e il sogno si chiama speranza hai sorriso e sciolto la nostalgia che incatena parole al cuore. Prima che svanisca fagocitata dall’eterna lite tra mare e cielo vorrei parlare un po’ con te così, e chiederti occhi negli occhi di darmi le risposte a tutte le domande che non ti ho mai fatto, perché partisti presto e non ci fu il tempo, questo fu l’inganno. Vorrei di nuovo accanto il tuo sorriso per sciogliere la tristezza che affoga i sentimenti e soffoca i battiti di un cuore stralunato, dirti sono sicuro, c’è primavera là dove mi attendi, ma la neve? Forse ha senso tutta questa neve, spiegamelo tu, c’è tempo… Ciao pà.

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Come un cuore in lattina Ammaccato, tinto e ritinto rossa ferita che si accartoccia scolorando il minio in ruggine, tra ingiurie del sale del tempo e graffi di un’anima inquieta, batti e ribatti tamburo di latta. Oggi mio cuore ti porto al mare mentre la risacca bagna i piedi mano nella mano dolcemente ci incammineremo fino a laggiù, là dove il blu muore nel nulla al ritmo metallico dei tuoi battiti. Rabbrividiamo, il sole imbruna l’orizzonte viepiù si avvicina, ma... il mare accarezza i nostri passi e riflessi dorati sciolgono la neve. Il rosso tamburo di latta sorride, stanotte lo riempirò di stelle per te.

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Compravendita di false identità Ho barattato un paio d’ali stanche di gabbiano corroso di salso mare e ho circuito una lince errabonda che avea smarrito il senno e la rotta. Ho venduto tre versi incomprensibili a quattro soloni dalle penne dorate ora, aquila reale di nuove piume alato da quassù rimiro con occhi di lince. [macerie di ieri passato per sempre] La mia immagine, figurina sbiadita dai bordi piegati e corrose cicatrici, ricordi di partite giocate a muretto vinte e perse, scommesse testarde. Su tavoli illeciti nei vicoli della vita alzando ogni volta la posta in gioco ho raccolto loglio seminando grano e farina degli anni finita in crusca. [un altro batter d’ali] Pensieri come artigli ora stringono tra i rostri una nuova intonsa figurina. Un passero che credendosi gabbiano dipinse se stesso come aquila reale. Presto un tavolo, tre carte, due dadi un muretto su cui giocar la mia abilità. E’ l’ultima mano, truccando le carte chissà, forse stavolta raccolgo grano. [ho finito le figurine]

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Così preciso, così perfetto… L’aria respirava il sapore dei ceri. Distesa nel biancore alienante della stanza, la sagoma sul letto pareva un nero insulto all’ordine prestabilito delle cose. Comunque era li, parallela alla linearità delle piastrelle anni ’50 che quadrettavano ordinate e sussiegose l’improbabile pavimento. Chili di gel piegavano come tondini di ferro i radi capelli coartandoli in un percorso a loro indigesto e congenitamente alieno. Un solco discriminatorio come spartiacque ne divideva le incombenze, viaggiavano quindi paralleli anch’essi all’iter pretenzioso delle piastrelle. Un gessato di un grigio spento che un dì fece furore a Londra rivestiva l’immota sembianza e l’ordinato percorrere del bianco gesso, come binari che percorrono il rettilineo di una vita spesa senza sussulti, disegnavano nell’insieme una scena di rara e ordinata perfezione mortuaria. Il silenzio, ritmicamente rotto da un sommesso sgorgare di finte lacrime, venne lacerato da un grido straziante: <<Lì…lì…>> la mano tremante indicava con tremebonda iterazione il piede del caro estinto, la scarpa destra, inopinatamente slacciata, in completo disordine, i lacci sparsi in allegra anarchia. Un ultimo grido e la donna svenne. Fu il caos. …ancora mi rido dentro…

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Contessa…au revoir? Accartocciato pierrot ammasso informe, disarticolato burattino gettato con noncuranza sui gradini di marmo del centro commerciale. Icona dell’ingordo potere che globalizza la vita a malapena coperta da un lurido giaccone raccattato in qualche cassonetto periferico. Cerea, gli occhi acquosi rivolti a un passato ucciso e poi reinventato, indifferenti al futuro che non vuoi incontrare, vomiti la tua solitudine, la tua non essere vita tra i cartoni accumulati, tua unica coltre, giaciglio. Solo una vampa rossa fiammeggia nell’informe plumbeo della scena, l’incredibile dei tuoi capelli. I nigeriani del quartiere ti chiamavano Contessa e per te che mendicavi tra i passanti la dose giornaliera di veleno, era quasi intimo riscatto. Ti rividi fulva Contessa sugli scalini della clinica che ciclicamente salivo

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ripulita, rivestita, ma… inevitabilmente incrociai lo stesso liquido sguardo, persa sul falso marmo del nuovo potere cinese, la mano tesa, come artiglio di una annunciata morte. Un ricordo rosso sangue, di un mondo vomitato al soldo dei nuovi mausolei di città aliene, indifferenti al colore del cielo che urla. [se il cuore è sordo alla vista e gli occhi negano il respiro l’anima si cela negli anfratti il dolore strazia e nasconde rifugge la verità, regala oblio] Padova, Quartiere Stanga, Natale 2005

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E ancora leggo il tuo respiro Due sagome claudicanti mano nella mano intrecciano passi sghembi quasi danzando un tango immaginario, come ombre proiettate sui sampietrini del molo, passano incuranti della curiosità assassina di occhi ammanettati che non sanno leggere le note oltre l’ovvio e non conoscendo l’amore confondono le carte. In loro il trascorrere delle stagioni ha rinsaldato la complicità della tenerezza che ormai regge da sola il peso dell’amore da traghettare in porto. Sorridono le ombre cinesi create dal tramonto e un bacio pare essere un insulto alla stagione, ma le ali spiegate al garbino gentile che ci solleva guidano il nostro volo verso la meta in attesa. Ultimi refoli di vento spazzano ore di tempo inutile lasciato a rotolare livide parole vendicatrici sul molo mentre ti stringo leggo nei tuoi occhi i miei sorrisi. Planiamo dolcemente, gabbiani che senza fretta attendono il calar del sole per ripiegare ali stanche e acconciarsi al tramonto, dopo aver colorato albe danzando musica nonostante le note disarmoniche. Così scrivo mentre leggo il tuo respiro.

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È sempre Natale? nello sguardo leggi un‘intenzione due parole racchiuse tra le ciglia -il Martini?...con l’oliva va benone- la gran voglia di ritmar che ti piglia la Marlboro affogata che galleggia nel bicchiere tra la coca arrugginita l’allegria indora il falso che aleggia ma sei uomo con il pacco tra le dita e le feste si ripeton sempre in coro -il Martini? non lo bere…ti fa male- c’è nell’aria un profumo di Marlboro stancamente riproponi il tuo Natale …ma forse mi sbaglio…

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Del Dolore e dell’Amore “Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente.” Fernando Pessoa …….. Se la sutura di una ferita profonda non trattiene il ricordo di un dolore e la cicatrice tarda a proporsi come ruga mistificatrice dell’età, se nonostante il placebo del tempo le fitte impauriscono i battiti del cuore e le mani rubano carezze consolatorie che solo l’amore potrebbe lenire, allora guardando negli occhi il dolore fingerai amandolo come fosse amore.

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Di quella metà sono figlio Metà vecchio e metà bambino porto a spasso la mia incoscienza quasi fosse il mio clone, la mia ombra sorriso ipocrita di malcelato orgoglio. Metà angelo e metà assassino cerco un paradiso di cartapesta da capovolgere e agitare nella sfera di un mondo rinchiuso nel cristallo. Metà donna e metà uomo scrivo l’amore col rossetto sullo specchio ma canto il dolore di tante albe inutili e inseguo un sole che veloce declina. Metà poeta e metà sognatore…

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Due pietre. Ho le dita intorpidite, le nocche impallidiscono. Stringo mucchietti di parole che anelano cieli diversi. [disteso, sospeso tra due blu, come in un limbo immeritato, godo di privilegiata situazione] Lassù. Un segno, un’ipotesi. Una parentesi aperta, attende parole in libertà per chiudere la storia di una vita. Ho le dita intorpidite. Un diaframma di falso cristallo protegge e riflette le mie emozioni mi tiene sospeso tra sogno e realtà. Qualcuno lo chiama poesia. Un sibilo, uno schianto e lo specchio va in frantumi. Due parole, due pietre, lasciano aperta la parentesi. [una poetessa mi sorrise un giorno “in fondo siamo mica poeti, noi”] E’ vero. In fondo sono solo tempo incanutito. Un pugno di parole ribelli che scappano dalle dita e l’anima persa da qualche parte nei calzoni.

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E… …e ancora inseguiamo la vita ladra di tempo …e la racconto mentre ti abbandoni al sonno …e l’amore rubato ovunque cadesse lo sguardo …e il colore delle more a stingere sulle labbra …e la conta delle nuvole mentre il cuore placava …e l’azzurro del cielo indossato tra le felci …e il ritmo delle onde a cullare i fianchi …e il pudore della sabbia a celare nudità …e la luna compagna che dirige i nostri passi …e gli occhi che barano il passar delle stagioni …e le parole nascoste liberate con la neve …e la comune voglia di amare ancora …e…dormi?

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…e il mare dintorno… Una fitta lancinante, uno stropicciato fruscio e il mio volo traverso muore su questa bricola. Osservo, il capo reclinato, l’insolito planare della penna timoniera che si avvita lentamente e dolce va ad ammarrare sul crespo delle onde. Il mio timone, la mia guida sicura lassù nel cielo, improvviso mi ha lasciato orbo dei suoi occhi. Ora lieve, come stranito e inconsueto naviglio, solca dondolando e senza alcun rumore il mare. Seguo rassegnato il suo mutevole navigare mentre allontana inesorabilmente la speranza di futuri voli con rotte sicure, così senza governo. L’illogica linea che laggiù recita l’inizio dell’infinito attende il piccolo relitto per fagocitarne l’arrivo. Il cielo incendia l’orizzonte e la vampa proietta una piccola ombra che piano scolora nel cobalto. Chiudo gli occhi feriti dal furore dei riflessi ramati, mentre artiglio nel sonno il mio incerto domani. …e il mare dintorno…

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Eclissi di luna È ancora notte e sto cercando la luna nascosta ho una fetta di mare per il suo argenteo sorriso, mentre un gatto innamora del suo pianto la calle e le luci tremule dei lampioni danzano nel canale. Se aspetto al poggiolo che passi la malinconia l’inevitabile compagna del mio spirito inquieto, insoddisfatta amante del mio cuore scapigliato, mi coglie all’improvviso sorridendo cinicamente. Ora il pianto reiterato di una bimba capricciosa ferisce il magico incanto e il fiato sospeso rotola tradisce l’impazienza di un’attesa viepiù sofferta mentre la luna gioca, si nasconde sotto la coltre. È ancora notte e sto aspettandoti qui sul molo raccontando al gatto ormai rassegnato l’amore m’illudo con ipocrite filosofie di lenire il dolore ma la malinconia ride sguaiata alla sua vittoria. È ancora notte e ho perso la luna cercandoti.

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Equilibrista per amore Provetto equilibrista in bilico sul filo delle parole tese tra di noi insceno da consumato guitto una pantomima di un unico atto, mentre la luce della porta del cuore lasci aperta a bella posta filtra il lampo dei tuoi occhi, abbagliato perdo l’equilibrio, cado. Ancora una volta la rete del tuo amore mi salva nell’abbraccio, termina l’esibizione dell’arroganza, muore tra i veli dell’anima. Mentre raccolgo i mozziconi spenti delle frasi disperse in volo, la tua serenità mi sorprende nudo al cospetto delle emozioni.

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Era di San Martino. O giù di lì… Era di San Martino. Ancora?

Scatoloni guardavano attorno affranti, le voci dei figli rincorrevano inesauste il rimbalzar dell’eco tra le stanze vuote e nel tuo sorriso complice nascondevi rughe di dolce stanchezza tra le ciglia. Dio quanti traslochi. L’ennesimo.

Anime errabonde col sorriso degli anni e l’incoscienza giovanile nelle mutande. Si finiva a far l’amore tra le ante tarlate di un antico, altezzoso armadio a muro viepiù sconcertato da tanta impudenza. Era di San Martino. Era ieri? La neve incipiente tra i capelli mitigava il calore dei brindisi di rosso vino novello gli scatoloni lamentavano vecchie ferite e muri infastiditi rimandavano il silenzio di una ciurma ormai assuefatta e afona. Il desiderio sorrideva ancora negli occhi mentre l’incoscienza esigeva impudente uno spazio acconcio dove festeggiare… Era di San Martino? Non ricordo più. Ma non è importante, non lo è mai stato.

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Era solo un aperitivo, ma poi… Brillava tra l’arancio e il verde oliva il sorriso come aperitivo nel cristallo e il lampo degli occhi era un sorso di caldo sole mediterraneo nel brindisi. Un tuffo nel verdeazzurro del tuo mare fu la risposta del mio cuore all’invito… Aracne completò la sua tela e fui preda, la paura tuonò improvvisa nei miei battiti. Il lampo era l’amore che vince il tempo fuggii, ma il filo che mi teneva era forte così mi persi tra l’arancio e il verde oliva e inutili furono i convulsi tentativi di oblio. Come yo-yo ritornai tra le tue mani.

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Fa diesis alcune rotolavano sul bianco del lenzuolo steso al sole ad asciugare tra rossi gerani un gentile garbino lo tendeva come vela di un legno salpato in crociera visionaria altre saltellavano tra le volte dei portici, note ribelli che l’uomo liberava assorto adulando con l’archetto il vecchio violino ma sorda l’indifferenza scorreva accanto senza una guida, un rigo di pentagramma nell’anarchia assoluta dipingevano canti dolcemente il violino spegneva il respiro e l’uomo socchiudendo gli occhi assopiva lo trovarono sotto un sorriso addormentato scarmigliato l’archetto, reclinato sul violino un pugno di note incatenate tra le corde sognava libertà, nuovi cieli da incantare …fa diesis si risvegliò tra i gerani…

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Gioco di specchi Si disse sì, uno è figlio della paura allora l’amore aveva sorriso giovane e nelle reni lo scatto del purosangue. Forse si esagerò, si andò al galoppo allora l’amore chiamava incoscienza e lo specchio era l’alleluia del mattino Difficile la conta all’appello degli anni l’amore non chiedeva lauree di numeri e l’ironia era lo specchio dello sguardo. La semina sparsa intorno germogliò giunchi forti al vento alienarono tratturi e il sorriso fu specchio dei purosangue. Il vento del tempo ha mutato ramazza su strade ora diversamente acciottolate il passo di reni stanche irride il galoppo. …e lo specchio evita il mattino…

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Grigio airone Cinereo acrobata librato tra opaline coltri d’ovatta e liquida lastra di grigio riflesso d’inquieti umori, come aliante circospetto silente sorvola planando. Mimetico, tono su tono, nulla, se non un fruscio, una tenue bava di vento che accarezza le canne e corruccia lieve il piano, rivela la sua presenza. [un bagliore argenteo lungo un istante, laggiù... brillano gli occhi rapaci, e il becco, lama di falce] Un tuffo, un colpo felpato buca il fermo immagine di una trama monocolore. Arruffa l’apatica scena, protagonista della recita, il sicario coatto della vita. L’airone, nel grigio.

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Il bacio rubato Rose tea gialle ricche di invidioso colore volavano allegre oltre il muretto della villa. Maggio inoltrato chiamava ai piccoli delitti, il tepore delle serate portava con se l’alibi e l’irresistibile profumo della trasgressione. Pennellate d’oro impreziosivano le ali rosa nel mazzetto di roselline di rovo tra le mani. Indossando il sorriso della furba innocenza porgevi l’omaggio a tua madre per la festa da provetto attore porgevi la gota in attesa. Lo schiocco delle labbra allora perdonava il bacio rubato senza alibi così, per amore.

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Il bruco verde Il bruco verde a macchie bianche e blu procede inarcandosi quasi fisarmonica che accompagna i suoi millimetrici passi con il frenetico vibrare delle sue antenne. Dimentico della breve vita che lo attende spende il tempo in una corsa affamata, e ignaro del mistero celato nel suo corpo affronta il destino con un lauto banchetto. La clessidra nella corolla del bocca di leone divora il tempo e l’occaso lo trova in sonno. Nulla è rimasto dei suoi colori ora è appeso nero sarcofago in attesa dell’inevitabile fato. Rinato a nuova vita, vestito di ali colorate ora stupirà la natura col sorriso del suo volo e nel breve percorso dipingerà d’acquerello il suo passaggio con tinte leggere e delicate. …e noi… Abbiamo divorato il tempo, bruchi affamati, anni e stagioni mistificate con finto stupore, ora contando i granelli appesi alla clessidra attendiamo sereni il trascorrere della sabbia. …nuove ali ci attendono…

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Il fascino indiscreto della poesia [ne dite pas a ma mere que je suis dans la publicité elle me croit pianiste dans un bordel…] Jacques Séguéla E ti ritrovi al passar delle stagioni la bisaccia dei sogni consumata, la voglia di stupire ancora deflorata e il sapore delle parole instupidito. Eppure oggi un volo di aironi cinerini disegna indiscrete parentesi voluttuose graffiando l’azzurro di un cielo attonito scorteccia i ricordi che germogliano. Il nuovo raccolto darà copiose messi con la sfrontata allegria del passato riempirai di magiche, ma sincere parole questa tua diversa stagione da pianista. [e sarà discreta, affascinante poesia]

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Il faro Vivido l’arancio inattinico della luce guardiana proietta ombre cremisi all’incendio del tramonto mentre riflessi rosso sangue graffiando il mare rimandano messaggi luminosi al buio incipiente. Ritornano i legni sparsi all’orizzonte al richiamo stridono le catene degli argani corrosi dal sale, i gabbiani scortano famelici il gratuito banchetto e danzano mille ali al ritmo colorato delle ombre. Orfano si oppone al cobalto della notte il chiarore della piccola torre solitaria, stanco il cuore pulsa, mentre la sua solitudine piange lacrime d’arancio un diadema di zaffiri incorona una luna vanitosa. [luci della ribalta per una pièce in eterna replica]

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Il buio scende silenzioso come una penna agitata Il verde del camicie insulta dappresso il bianco alienante della stanza che mi assale e soffoca, nodo alla gola. [stride il volersi sereno, nonostante] Mentre il tunnel mi inghiotte come igloo il cuore gela il pensiero incombente e la paura attende un’altra dimensione. Nel fragore dei battiti del cuore d’acciaio i miei non hanno risonanza alcuna ma raduno parole, pezzi d’anima sparsi. [si vorrebbe calmo respiro, ora] Chiudo gli occhi feriti dal bianco alienante il verde non ha respiro nel nero che inghiotte. Nel silenzio che stanotte mi cheta, lo scrivo. …ma la penna è agitata, ancora…

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Il veleno nella coda Un insignificante dolore in fondo. Il distacco non fece rumore, una rossa ferita che rimarginerà scolorando la nuova stagione. [rimane solo l’aspro sapore di una vendetta non consumata] Il peso del veleno ancora i miei passi, come uno scorpione impazzisco nella ricerca di una via di fuga dal cerchio di fuoco che mi costringe. [troncherò la coda] Sarà più dolce il nuovo cammino. Lieve, liberato dalla velenosa soma danzerò al ritmo di note inusuali e il sapore del ribes arrossirà le labbra.

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Inattesa metamorfosi Tra il geranio e il rampicante, oltre l’irrequieta coccinella che punge di rosso screziato il primo chiarore dell’alba, ingabbiato nell’angusto poggiolo, lo sguardo cattura immagini. Ciondolando il passo stanco giunge il vecchio pescatore, si acconcia al nuovo giorno. I suoi movimenti indaffarati hanno il respiro del mare, la calle ne rimanda la eco. La rete reclama cure, mani forti e decise come tenaglie hanno la sapienza del sale. Rapidi gesti di antica maestria medicano le ferite del tempo. Dodici matite monachelle, come vergini anime colorate, ora soccorrono le mie mani. Inattesa torna arrogante la persa consuetudine al segno. L’irrequieta, rossa coccinella, giovane goccia di sangue, tradisce il rampicante, si posa. Ora dipinge la mia mano. Porta fortuna, dicono. Infinitamente piccolo,

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infinitamente grande Tre marciavano spedite, la quarta arrancava disfatta, tre inorgoglivano il petto la quarta piegava la schiena. Sei antenne giocavano liete a nascondino col sole morente, due si confondevano meste tra le ombre incipienti della notte. [quattro formiche erranti in fila indiana sulla mia mano hanno svegliato il torpore di un respiro addormentato] Infinitamente piccolo questo strano gioco militaresco, il mio sorriso scandiva il ritmo e la marcia proseguiva altera. Tre formiche dal passo marziale rubavano ammiccanti la scena mentre la quarta annaspava mesta sotto il peso della loro cena. Infinitamente grande la briciola rubata alla mia tasca, bastano quattro istrioni in fila tre passi cadenzati, e il mondo casca.

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In punta di piedi Questo è l’ultimo aquilone, poi non ne faremo più. Nell’attesa della tramontana intrecciamo bacchette, leghiamo catenelle iridate. Non temere se il tempo vigliacco t’impiomba i piedi e vuole legarti ai ricordi. Togliti le scarpe, voleremo tra i sorrisi. In punta di piedi.

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Ipocrita Dimmi perché ora sei qui e accusi le tue mani incolpevoli dell’inerzia che attraversa queste ore quando sai che il cuore gioca e nasconde i battiti fingendo interessi altrove sagacemente riposti. I rintocchi che rimangono allo scadere del vespero sono disattesi dalla pigrizia di un campanaro imbolsito, mentre la tua anima, invaghita di un gabbiano parolaio, ha spiegato le sue ali inseguendo rime sconosciute e tu sei rimasto con quattro piume strette tra le dita. Dimmi perché, ipocrita.

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Io e te, infine. Erano cucite sulle ali di un gabbiano anarchico, domato quando il morire del sole rosseggiava sulla neve che ora imbianca la rena della vita, le sfrontate parole d’amore sussurrate al vento, ma urlate nella poesia di un amore mai scritto. Quando giunti all’arrivo le ipocrisie inaridiscono e i battiti del cuore cantano non più disarmonici danzano lievi i nostri passi nel cammino comune mentre la poesia che sto scrivendo lassù in volo recita in volute leggiadre un’affascinante piece. Io e te, infine, in uno splendido finale.

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La calle delle vedove Finestre come sorrisi spenti che la notte illumina mentre il brusio sale per la calle, le ombre cinesi si rincorrono sui muri scrostati inseguendosi ratte in pose invereconde dimentiche degli anni andati. Colori incredibili di chiome ridipinte ridono al vento, l’abile paraninfo che spazza la polvere dalle voglie, promette frenetiche danze al ritmo di antichi respiri che di notte si fondono sciogliendo amori mai sopiti. Mentre il canto indecente rimbalza sull’acciottolato i sorrisi piano si spengono, le finestre come bocche serrate disegnano il sonno nella calle delle vedove e il mare richiama le onde sbarazzine, il vento tace. E il mio sorriso ancora acceso…

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La franchezza 2.0 non vale un franco Francamente potrei farne a meno, ma mi solluchera l’idea: quanto sei “franco”? mi domandano con simpatica malizia. Ma a chi importa, oggi che il nickname e l’avatar impazzano e ci si nasconde dietro il paravento di un dito di “privacy”? Quanta della cosiddetta spregiudicatezza, del parlar diretto è sincera o non è forse una calcolata captatio benevolentiae? Oggi che va tanto di moda esser contro sempre e comunque quanto è scomodo poi metterci la faccia, il proprio nome! Francamente me ne infischio, sberle nella vita ho dato e preso, ho attraversato anni guardando negli occhila puttana di turno, firmando le poche vittorie e sempre le sconfitte, mai rinnegando. Ma forse tutto questo non è che un altro stanco giro di valzer, al ritmo dell’organetto asmatico del Luna Park delle Illusioni. Venghino signori, la donna cannone fa l’occhiolino a De Gregori, il leone si è suicidato stamani e il pagliaccio è in crisi d’identità. Lo spettacolo è una schifezza, ma ha tanto successo sul web. … e l’ironia è una Molotov che accende le code di paglia…

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La pazienza degli angeli L’erta sfiorisce. Un ultimo respiro spezzato e nel chiarore improvviso l’ovattata ombra silvana scolora il muschio antico. Si apre a due passi dal cielo la fatica ridente del passo ti accoglie immeritato sorriso l’abbraccio materno del sole. Il ruzzolo fanciullo tra le erbe. Due ranuncoli si celano timidi mentre la vanità si esibisce nell‘illecita ricerca di stelle. -un legno secolare infisso a braccia aperte sorride- Attende. E il tuo procedere ardito sul limite del dirupo scosceso è sorriso di verde incoscienza. E pazienza degli angeli.

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La vedovella Il canticchiar della vedovella nei giardini dietro casa aveva le note argentine che solo l’innocenza dell’età assetata di sole e di gioco sapeva intonare alla sosta. L’acqua pareva essere prezioso rosolio che la nonna conservava gelosa celato tra i cristalli della credenza e il suo scorrere incessante attirava gole pari al miele. L’aria all’imbrunire si faceva dolce come fetta di pane caldo, dove burro e marmellata in goloso matrimonio aprivano al sorriso la nivea collana di perle tra le gote. Ormai riarso dagli anni e cotto al calore di soli diversi assetato alla fine di una lunga corsa cerco verso sera un canto ristoratore, le note argentine della vedovella. …l’acqua scorre incessante, ma la sete rimane…

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Lui… il sorriso sempre pronto da bambino (quando triste rifugiavo in un sogno) mi addormentava cullandomi vicino, spazzava via le nubi, ogni mugugno …il mio gemello…

[paziente, sempre accanto, ha pagato nell’altalena della vita la mia giostra senza catene che dondolava appesa all’iride di anni dipinti con falso smalto]

…la mia fantasia… per lui ho costruito un piccolo naviglio (una scatola di fiammiferi può bastare) il vento lo cullerà come fosse mio figlio dolce lo porterà là dove finisce il mare …l’ultima poesia…

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L’ultimo volo della rondine

[lì su quel davanzale] Un’ ala falcata pendeva innaturale insultando la ruvida pietra, nel fragore di un mattino insolente raccontava di un volo spezzato.

[marionetta disarticolata] Insegnava eleganza ai gabbiani, fece sfoggio di superba arroganza, ma innamorata della sua maestria azzardò geometrie impossibili.

[attrice di un volo sbagliato] Lassù violentando l’azzurro, recitava a soggetto traiettorie ardite, incontrò il sole e frantumò le nuvole in una incontrollabile picchiata.

[l’uscita di scena] Mentre il sole spegneva le luci sul palcoscenico di un cielo assonnato la rondine interpretò nel tragico finale la parabola della superbia.

……

I gabbiani ripresero le liti disputandosi l’ultimo spicchio di azzurro morente. Mamma

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Prendetemi così come sono, senza certezze con l’animo inquieto diviso tra il cielo e la terra frequento i miei dubbi che camminano in bilico sugli inganni tesi sopra il precipizio della vita. Odio i baciapile depositari del verbo assoluto, i falsi agnostici che leccano breviari nottetempo gli atei che all’arrivo mistificano il fumo dei ceri con l’ultima sigaretta promessa ai condannati. Le convenzioni che assegnano le parti in recita ti vestono i panni del giudizio che l’età vorrebbe ma rivendico le fughe repentine nella nostalgia, l’impudicizia dei sentimenti che il mondo brucia. Ho chiamato senza alcun preavviso il tuo nome come farebbe un bambino nel buio della notte non è difficile, basta ascoltare il grido d’amore che fatica sepolto tra gli inutili vagiti della mente. …nel silenzio delle parole la tua risposta…

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Messaggio in bottiglia (una notte di fine Ottobre) [un tonfo inatteso stanotte ha straziato il silenzio con un fragore assurdo è rotolato nella calle] I sampietrini rimandavano echi di note spezzate gelide rimbalzavano come cubetti di ghiaccio sull’acciottolato inseguendo lo scorrere dell’acqua. Lo stridente rumore di questa notte frantumata lacerava come rasoio affilato un’anima intorpidita dalla lunga agonia di una apatica dimenticanza. [brillava di luce sinistra il vetro nella notte lunatica feriva lo sguardo il suo lucore riflesso nel dondolio] Fu un lampo la discesa in strada, breve la rincorsa e fiato mozzato la presa al collo della bottiglia ma il contenuto pietrificò la mia insonne ingordigia. Mentre l’acqua moriva la sua corsa senza gemito l’urlo di un gatto innamorato avverso alla luna sfiniva le attese di una quiete altrimenti abusata. Le parole scolorirono nel foglio tra le mani tremanti. quando la luna beffarda ingiallì in un ghigno sdentato. Passò un’allegra processione illuminando il canale, mille lucciole ondeggianti irrisero la mia stupidità e il messaggio fu risata che arrossì i battiti del cuore. …vuoto a perdere…

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Mille di me [un alito, un soffio , un lieve vibrare d’aria, un niente]

libellula [impalpabile e diafana occhi alieni a scrutare il mondo, noi]

ti posi [incredibile, in bilico, provetta acrobata sui fili danza sull’acqua]

mi guardi ……. abili e ardite evoluzioni catturano il mio cuore mi affascini, mi specchio nei tuoi occhi, sogno immerso nelle sfaccettature del tuo cristallino, e tu, in un crudele gioco di specchi deformanti moltiplichi ingorda la mia immagine, poi scegli

quale di me?

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Monte Stella (la piccola montagna di Milano) Tante piccole macerie ricordo di una Milano piagata ricoperte di terra e innaffiate dalle brume ottobrine ciuffi spaesati di verde malato faticosamente spuntati lassù sulla cima di quella falsa montagna cittadina. Era nei giochi bambini un’ardua montagna da scalare fantastica vedetta da dove scrutare e immaginare voli, mondi sconosciuti nascosti tra le pieghe dell’azzurro, piccole fantasie dimenticate in una convulsa crescita. Eppure con gli occhi ormai cresciuti di cuori innamorati si andava le sere d’estate a caccia di stelle confidenti mentre le mani arrossivano la ricerca dei seni nascosti i cuori mentivano promesse di amori indimenticabili. Tu, come piccolo alieno atterrato in un mattino d’estate con gli occhi sgranati avvezzi al cobalto di spazi infiniti sedevi meravigliato sulla panchina ad ascoltarne l’eco e sognavi distese azzurre condivise per amori marinai. Ora come allora gli occhi confusi in un fondersi di blu mentre cerchi con un gioco antico la stella confidente ascolti la voce della laguna unirsi al coro universale e l’eco cantare al battito di un cuore ancora bambino. Tra cielo e mare lassù, la Montagnetta di San Siro.

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Nebbia… […un sottile brivido corre lungo la schiena c’è nebbia fitta stamane qui sulla laguna respiro il salmastro grigio perlato e penso che la nebbia ha sempre lo stesso sapore inevitabile il ricorso alla bisaccia dei ricordi mentre a nulla vale opporre l’attuale scena sapori, odori, colori, si fondono nell’anima tutto concorre a richiamarli in superficie…] …nebbia… amica degli amanti, discreta e soffice coltre scendevi improvvisa la notte celando la luna la città immalinconiva giocando a nascondino e passanti frettolosi serravano usci alle spalle furtive ombre sgattaiolavamo nella bambagia (la panchina la in fondo si scorgeva appena) i brividi allacciati accendevano micce perenni il fuoco ardeva nel silenzio ovattato del parco poi dimentichi del mondo, sospesi nell’irreale, recitavamo antiche fiabe interpretando realtà e due sorrisi che brillavano ironici tra i platani erano gli unici testimoni della nostra presenza

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Kalinikta agàpi (buonanotte amore) [ammucchiata in un angolo polveroso disarticolata marionetta senza fili, la corazza di latta che ha indossato l’arroganza dei miei giovani anni giace muta testimone di battaglie perse] Guerriero mercenario al soldo di false verità ho inseguito e combattuto senza armi e onori ombre cinesi disegnate sui muri della vita. Stasera, in un respiro che sa di malinconia, conto stelle sparse come lumini anarchici in un cielo di cartone dipinto che pare vero e non basta il profumo del mare, o il richiamo di un gabbiano nottambulo a scaldare il cuore quando ancora le ferite dolgono sotto pelle. Dormi, il respiro tradisce l’affanno degli anni è un sorriso appena accennato il tuo sonno, ma sereno ormai è il mio percorso di reduce. Mentre la corazza s’inabissa lentamente e i gabbiani stupidamente giocano i gorghi, a te accanto si scioglie la malinconia, sogno. Kalinikta, agàpi

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La canta della conta “onze, donze, trenze, quale, qualinze, mele, melinze, riffe, raffe, cece”… un pallottoliere bambino due lacrime sul cuscino, mia madre col suo sorriso che mi asciugava il viso disteso, gli occhi chiusi ai lampi di dolore già adusi il cuore stretto dentro un laccio contavo lacrime di ghiaccio ora i giorni non son più incerti guardo a ieri ad occhi aperti e sorrido dei miei pensieri era giusta la conta dei desideri “onze, donze, trenze…” ma la canta torna come un disco e di contare più non finisco

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La zimarra Stasera la neve soffoca e imbianca la zimarra degli anni e benché l’ingordigia del rosso abbia fagocitato l’azzurro il tepore del primo vagito dell’estate tarda ad annunciarsi e il liquido scorrere dei pensieri vaga sospinto dal mare. Lo sguardo obliquo di un gabbiano impertinente cattura e sollecita la risposta al quesito che veleggia sulle onde a nulla vale allora mentire sulla tua tristezza immotivata la verità riflessa nell’argenteo dondolio esplode liberata. La sdrucita zimarra che ha coperto gli insulti del tempo scivola lentamente nell’acqua sciogliendo nivei ghirigori e ascolti sbigottito la risata del gabbiano alzatosi in volo mentre le spalle nude rabbrividiscono sul calar del sole. [non ho più tempo da spendere per una nuova zimarra]

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Laggiù Laggiù, laggiù dove lo sguardo si perde il mare si confonde con l’erba della valle e il cielo sprofonda dietro l’ultimo scoglio mentre il verde si fa ruggine al tramonto. Nella gran confusione mentale il vecchio non riconosce stagioni, mistifica gli anni, confonde la realtà col sogno di un amore soffice coperta con cui scaldare il cuore. L’ingiuria degli anni ormai l’accompagna e cammina accanto al suo passo incerto, ma sorride il vecchio al bimbo che lesto gli ruba la mano reclamando il suo tempo. Laggiù, laggiù dove lo sguardo si perde il mare attende inquieto la tua vela antica carica delle foglie arrugginite dall’autunno bianca di neve e sale sul cassero stanco. Avvampa il cielo mentre il blu va a morire il bimbo ha perso la tua mano e ora corre a piedi nudi sul verde prato del tuo sogno tra realtà e fantasia si perde nella poesia. Laggiù, dove i vecchi torneranno bambini.

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Lasciami volare Lasciami volare ora che le ali sorridono al vento salirò sulle nuvole che veloci scorrono stasera mentre vanno a morire laggiù dove il blu scolora veleggerò con l’ultimo soffio del suo respiro gentile. Canterà il cuore al ritmo di un alito nuove canzoni e troverà tra le geometriche evoluzioni di gabbiani l’approdo agognato per un sogno di tutta una vita se mistificando il peso degli anni danzerà leggero. Stasera il respiro del mare racconta nuove emozioni mentre ascolto in silenzio storie fantastiche di sirene e un tordo ritardatario zirla appollaiato su un’antenna raccolgo le mie ali stanche e sorrido al nuovo sogno. Ma tu, stanotte, lasciami volare.

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Lasciatemi qui Tamburelli come martelli gentili scuotono l’anima il ritmo cattura, il fumo acre della legna trasporta i sensi desiderio di liberi soli, di mari lontani, terre straniere. Ha piccole ali, ma grande volontà, l’airone a testa ingiù che nel blu profondo sogna una stagione da cormorano. Balla, vecchio zingaro dei sentimenti, nomade della fantasia, questa danza è per te, il violino ora si accompagna al ritmo frenetico che percuote gli animi, mentre tu cerchi l’ombra inesausta che insegue il tuo girovagare tra gli inverni che ancora non ti appartengono, ma ti attendono al passo. Non ho bagagli, pesi da trascinare col mio incedere bolso. Some e zimarre pesanti ho lasciato nel mio peregrinare barattati con cieli limpidi con cui cibare i miei polmoni. Stanotte ballerò, benché l’inquietudine sfinisca i miei passi sì, consumerò il poco azzurro dei cieli rimastomi in dote. Lasciatemi qui, i tamburelli chiamano.

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L’ultima bricola, poi è mare aperto ho lasciato l’ultimo paio di ali appese, appiccicate al muro con uno sputo di cera Icaro non è mai stato l’eroe dei miei fumetti e le metafore sono alibi per versi senza parole non sono un gabbiano né tantomeno poeta ho provato a volare finché la cera ha tenuto ho nuotato nel veleno che avevo inghiottito evitando le secche e seguendo le rotte che le bricole saggiamente mi indicavano …ora è mare aperto… un sottile senso di angoscia mi affonda appesantisce il respiro volgendomi a oriente la catena rossa che fin qui mi ha trattenuto sospeso tra sogno e realtà, si allontana pencola come filo spezzato dalle nuvole poche bracciate ancora, l’infinito è laggiù le ultime parole rotolano senza rumore lungo la calle indaffarata, un leggero alito le sospinge straziandole a morire nel canale …forse era poesia…

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Mamma Matrioska racconta… Il vento che un tempo veniva dall’Est raccontava di Generale Inverno che soffiava incanti tra un fiocco e l’altro regalando sogni di cristallo alle genti. Quanto ardore, quanto niveo stupore imbiancava l’amore non conosciuto, arrossava le gote di pudore bambino sciogliendo la neve dell’innocenza. Nuvole di piccole lacrime trasparenti vortici arabescati dai riflessi perlacei vestivano con merletti di finissime trine la nuova stagione come piccola sposa. Ammalia la slava tenerezza del sorriso la Matrioska ha assolto il suo compito e inghiotte nel prolifico ventre le spose in fila una ad una fino al piccolo seme. …l’utopia spezzata del vento dell’Est

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Nel frattempo Avevo tempo, così scrissi una lettera. Non era un lessico di grandi pretese, frasi buttate lì alla ventura, ancorate al piccolo appiglio rimasto nel cuore. Avevo tempo, così distrussi la lettera. Brogliaccio zeppo di buone intenzioni a braccetto con l’ipocrisia più becera vocaboli desueti e parole insincere. [ho poco tempo, ti scriverò domani un legno mi attende giù al porto salperò verso l’isola che non c’è laggiù non ci sono cassette postali] Nel frattempo, scrivimi.

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Nero onirico mediorientale [il bianco riflesso abbaglia il nero profilo taglia lo scuro la voce roca invita al passo oltre il muro colore mare] neri fondi di caffè disegnano inedite macchie di Rorschac i suoi occhi come brace spenta ora lampeggiano il responso danza vorace il nero scorpione inarca la coda, misura la preda come goccia acida la menzogna incide di nuovo il viso di pietra rotola la moneta, il marmo risuona il ghigno la inghiotte, corvo rapace bevo il caffè, di nero tinge il passo oltre muro il bianco mi accoglie ride la vecchia al tinnir del soldo lontana una nenia sfinisce i sensi danza lo scorpione da frenesia colto muore il nero nel bianco tuo seno …flashback in bianco e nero…

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Nessuno è il tuo nome [c’è chi aprendo gli occhi al mondo esibisce la sua arroganza e lo reietta] Nascondi la tua paura tra bit e transistor manipolando le vesti con icone artefatte vendi la tua vita a una scatola bugiarda. L’identità che ti aggrada ormai è costruita il sorriso riverente di chi ti vuole adulare vieta il tuo ritorno ad una realtà più cruda. Vivi dentro un monitor cibandoti di parole con la falsa identità ti ripari dal calvario dell’affrontar la vita con le sue asperità. Non sai delle bianche corsie, del dolore del veleno che dai cavi cola nel sangue dell’attesa che uccide la luce negli occhi. Delle speranze appese a fili e boccette di giochi sparsi, macchie colorate sui letti del sorriso di piccoli pierrot disarticolati. Non sai, non puoi sapere, sei altrove. Ora l’icona appare, scompare improvvisa come il serpente dall’immensa sapienza lascia l’oracolo al discernimento umano. [sei un avatar, apologia della modernità un click e scompari, non sei più nessuno] Click.

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Non cercatemi Non cercatemi sulle panchine dei giardini A sminuzzar pane in briciole per i piccioni Né seduto sul freddo marmo dei gradini A discutere di tempo infame e di pensioni Non al bar o all’osteria sbracato al tavolino A contare barando le ombre del mattino Nemmeno in chiesa come bimbo birichino A spegnere i ceri riaccesi dallo scaccino Ora ho tempo. Come un tappo, seduto su un formicaio di ricordi, scongiuro possibili evasioni. Ora ho tempo, ma domani è un altro ieri e oggi è il suo gemello. …o è il tempo che ha me?...

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Poeta per caso Mattone su mattone, la vita sulle spalle, pesa la gerla dei sogni prezzolati mentre con fantasia e occhi di vecchio bambino dipingi affascinanti case di muri di carta. [nella primavera dell’autunno il muro crolla il cuore in sonno batte il ritmo della paura mentre l’anima mistifica gli insulti passati] Col dolore hai sventrato le tele imbrattate hai piegato sulla tastiera mani dimentiche inciampando nel sogno ora scrivi poesia e nello stupore ogni volta catturi il cuore. Così, per caso.

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Polvere rossa e scarabei d’oro “cuore piramide di polvere rossa scarabei d’oro a custodir la fossa” E’ una nenia come antica filastrocca che torna in mente se rincorro visioni, e conto le lune perse a cercar altrove quei tesori che invece avevo accanto. …mille perché a mille lune nascoste gli inutili affanni del mentire stagioni… Passa veloce tra i lampi delle ciglia la nostra storia come in una canzone, ma caparbio attendo ancora risposte e il vento bugiardo non le ha mai date. …la neve ha scolorito la polvere rossa dondola sul tuo seno lo scarabeo d’oro…

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Orme e dintorni Strane impronte le nostre, schive, convesse, abili nel respingere qualsiasi velleitario tentativo di memoria, restie al trattenere il più recondito ricordo dei nostri passi. Strane impronte le nostre, niente viene raccolto, tutto sfugge via, lasciando irrisolte le azzardate premesse. Ah, la concavità! Superbo ricettacolo di umori, passioni e ricordi a cui attingere a piene mani alla bisogna. Camminiamo circospetti sulla rena di un mondo alieno, convesso capovolti a cercare un cielo che ci accolga, finalmente amico mentre anche i dintorni non raccolgono orme e la vita scivola, scivola…

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Penombra Impercettibili, lenti movimenti animano i tuoi fianchi, respirano al racconto dei tuoi sogni ancora bambini li osservo nella penombra mentre dolcemente piove sui miei occhi l’improvvisa tenerezza di questa notte. Ora anche il mio respiro, chetato dalle ansie isteriche dei ricordi si accomuna al tuo, cammina nei tuoi sogni. Oh sì, vorrei ritrovare quelle giovani ali indimenticate e volare insieme occhi negli occhi sorridendo l’amore. Timido è il pensiero tra le lenzuola della penombra.

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πέτρα (Petra) onirico rosa [l’incanto mi prende -lo so- sto sognando] Il sole è al tramonto e la roccia s’infiamma mentre il rosa arrossisce all’impudica carezza è stupore di occhi che abbracciano ammirati l'incredibile favola raccontata dalle coltri. Come vorrei un cavallo, un nero e lucente arabo per tornare indietro, uscire dal sogno e rapirti attraversando come porta d’oriente quel sottile diaframma che separa la realtà dall’inganno. Qui, davanti a questo incredibile rosa scolpito, varcare l’immenso portone, il naso all’insù allibiti mano nella mano, mentre le ombre si allungano e la roccia materna ci accoglie nel suo grembo. La magia antica di leggende che echeggiano come voci straniere ma suadenti catturerà i nostri cuori e il desiderio brucerà il risveglio. Il nostro sogno rimarrà impresso nel rosa come due cuori incisi in un tronco millenario.

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Piccola bugia [piccola lacrima rossa, sette piccole note nere come peccati capitali] s’aprono elitre in fuga scompigliano la magia di un incontro inatteso mistificando la ferita ricomponi la tua bugia sulla punta del dito coccinella bugiarda che inganni col rossore il veleno dei tuoi nei non ho lacrime per te

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Più in la Solo un volo di farfalle. Circospetti passi tra le felci levano come cipria iridata un volo di farfalle. Il cuore apre alla certezza della meta sospirata, finalmente il crinale declina. -una carezza ad una nuvola lo sguardo oltre- Altre felci. Come verdi onde increspate da maree sotterranee nascondono lo stormire. Un altro volo di farfalle. Il sorriso disamora lesto al batter di ciglia: il niente oltre l’intuizione. -oltre il limite del sogno- Solo altra terra, altre felci e farfalle come polvere iridata che mistifica la vita. -più in la della montagna esiste altra terra- Altra fatica.

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Poesia persa Di questa notte non ho ricordo, frasi perse nel buio pesto e lampi accesi a fondere il cuore fughe vigliacche in sogno e inevitabili rese di fronte all’amore. Di questa notte ricordo tutto la ricerca affannata nel sonno, il mio crucciarsi delle parole perse il bagliore dei tuoi candidi seni che della poesia il ricordo ha distrutto. Di questa notte vorrei ritrovare l’oro dei tuoi occhi riflesso dalla luna sul palcoscenico di stelle del mio cuscino, le parole fuggite nel buio per raccontare la poesia che il sogno mi ha fatto scordare.

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Poesia senza respiro ti ho cercato di te ho trovato solamente il respiro abbandonato inconsciamente sul cuscino ti ho seguito al ritmo del battito accelerato del tuo cuore eternamente fuori tempo ti ho trovato tra la penombra e la lama di luce giallastra che stanotte giocava ombre cinesi sul muro poi ti ho visto tenacemente rincorrevi lettere come formiche che si allineavano guerriere al comando dei tuoi battiti convulsi. ti ho sorriso e compiacente ho assecondato il tuo gesto perentorio mentre radunavi parole per farle scomparire in un amen distruttivo ti ho accompagnato tenendoti per mano ho guidato la tua ombra ad abbracciare il respiro rimasto orfano sul cuscino [ora posso respirare, fino alla prossima poesia]

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Post mortem, ridete pure… quando meriterò il vostro ultimo sguardo e mi vedrete così, ciascuno con gli occhi della propria convinzione, non toccatevi scaramantici quasi voleste trattenere lacrime trasgressive sgorgare da siti indecenti non andate via per non disturbare non sarò che polvere libera da ceralacche inutili e veleggerò i mari padrone delle mie rotte e non sarò nascosto sotto il tappeto dell’oblio da badanti svogliate non andate via avrete da consolare chi ha avuto il coraggio di restare al suo posto nonostante lo spettacolo fosse scadente, il biglietto pagato con anni di noia e l’attore un pessimo guitto, un incorreggibile istrione non piangete, come Ariel, spiritello dispettoso, verrò la notte a solleticarvi i piedi non avrete alcuna paura

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e sarà un’ esibizione assolutamente gratuita, un exploit indimenticabile e voi riderete, riderete.. [perché la morte è l’ultima risata della vita, la badante distratta che a volte ti sorride ma ti prende per il culo]

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Prosit [e ancora attendo l’inverno che scaltro travaglia ad arrivare tra le nubi gioca a mosca cieca, e mistifica i suoi passi pesanti] Improvvise folate di maestrale spegneranno gli ultimi falò, sulla spiaggia tremule ombre sfiniranno la danza esauste e un paio di sandali distratti, in cerca di orme ormai perse, scriveranno sulla rena la fine e l’inizio di un’altra stagione. Nemmeno la ruggine d’ottobre calmerà le ansie represse, ma tingendole come caduche foglie dell’albero del tempo, planeranno bugiarde a infrascarsi tra le pieghe dell’anima. Solo un sorriso di circostanza e brinderò alla nuova soma. Sarà un sorso di neve, come sempre. Prosit.

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Qualcuno la chiama vecchiaia E’ un sapore che direi tenerezza quel groppo di lacrime che avvinghia la gola e lì rimane, orfano degli occhi. Attende un moto d’anima per sciogliersi in pianto. Piccola stella rubata alla briga dei gabbiani come allora respiri ferita sul palmo del briciolo d’uomo che incredulo interrogava l’azzurro e stupiva del tuo volo. Perso tra le gore della grande utopia della vita oggi ti ho ritrovata. Come ieri, in attesa di risposta, interrogo l’azzurro velato mentre la collana di lacrime scioglie finalmente in gola. Sarà il pianto di un cuore bambino sculacciato dagli insulti del tempo? Qualcuno la chiama vecchiaia.

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Quand’ero piccolo… (tutto d’un fiato) cinque sassolini corrosi dal sole e dal sale del mare un pezzetto di vetro azzurro levigato come una caramella due stecchetti del ghiacciolo ancora pallidi di verde menta una manciata di bilie multicolore da giocarsi in feroci tenzoni il costume da bagno in lana grezza che pizzicava le natiche la voglia irrefrenabile di mare frustrata dalla beghina di turno le suore che sciamavano pel cortile della colonia come formiche la mensa soldatesca al grido il rancio è ottimo e abbondante la biondina dagli occhi di cristallo della camerata accanto il sorriso di un’amicizia nel coro per sfuggire la noia pomeridiana l’innocenza di una mano nascosta dalla coda del pianoforte la voglia di crescere per scoprire dove l’innocenza andava a morire giocare sulla sabbia la destrezza nel cogliere al volo i sassolini rapirli dal suolo velocemente e lanciarli in aria ad uno ad uno… [il blu del cielo ha rapito l’azzurro del mio sassolino di vetro] …era ieri

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Quasi fosse Settembre Sfogliare chicchi d’uva come fossero rose succose gocce rubino a ingolosire il palato così il sapore degli anni passati insieme. [quasi fosse amore, sempre] Amore zuccherino divorato a piccoli morsi acino dopo acino catturandone il calore ingannando la vita nel divenir delle stagioni. Quasi fosse Settembre. Sempre.

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Quello che sei [senti come accarezza stasera il vento caldo che attraversa le gelosie, mentre davanti ad una pagina bianca cerco stancamente il filo dei ricordi ingarbugliatisi come anarchica matassa nel gioco frenetico di un gatto dispettoso] Ci sarà pure una ragione. Sei tu, il vento che mi solleva dal grigiore del limbo apatico in cui sto sprofondando e mi trasporta verso la nuvola dei sogni che attende lassù da tempo dimenticata. Sei tu, l’ago della bussola nella mia vita che non sbaglia mai l’indirizzo, la rotta, mi adagio nella certezza della tua guida e torno a rincorrere i sogni mai sognati. Sei tu, la panacea della mia inquietudine che dispensando amore in dosi massicce calmi i battiti aritmici di un cuore sciancato dalla inutile e affannata rincorsa del tempo. Sei tu quella ragione.

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Questione di attimi il riflesso nei tuoi occhi era più che eloquente

rapirlo fu un attimo ombre diseguali sul muro precedevano i sorrisi

baciarti fu un attimo le mani sciolsero l’abbraccio scoprendo nuovi approdi

amarti fu un attimo …lungo una vita

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Roma alias Milano erano sampietrini di porfido operaio quelli che volavano vicino alla Statale erano altri anni ma oggi fanno il paio coi tempi che ingoiano anche l’ideale dalla finestra entrava fumo arancione cantavi Della Mea, i Nomadi, Guccini indossavi l’eskimo, stringevi il limone correvi giù in strada davanti ai celerini allora sfilavamo indossando quell’idea che recitava libero di vivere altrimenti ma tra pietre e spari morì l’ultima dea tra il ghigno soddisfatto dei delinquenti che senso aveva per te quell’affanno tu che vivevi estraneo di sogni colorati e che alla sera seduto su uno scanno cantavi utopie ai vecchi addormentati cantavi senza voce, urlava la chitarra il bicchiere di rosso nella cooperativa copriva tutti i mali come una zimarra e dondolavi al ritmo della locomotiva poi rientravi a casa nell’ora indecente la moglie disfatta dormiva sul divano tu che la guardavi come un deficiente piano ti scusavi stringendole la mano se il fumo è tornato, è sparito il vento le stagioni han soffocato i mutamenti rimane come allora tutto lo sgomento per non aver potuto essere altrimenti

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Rossa luna di vergogna Ho atteso che il dolore sedimentasse e la vendetta avesse il sapore acido delle more acerbe colte tra i rovi. Ho ricercato e imparato a memoria le parole e le frasi più velenose che un’amante deluso possa profferire. Ho provato il brivido dei preparativi e come un killer professionista ho pazientato il tuo arrivo nella notte. [a te ho dedicato notti insonni alla ricerca di versi acconci a descrivere la tua bellezza, la tua nivea e regale presenza, ma altrove hai girato il tuo sguardo, ad altri hai regalato il tuo sorriso] Ora sei lassù, cerea espressione del tradimento più atroce, falso pierrot di lacrime dipinte con rimmel disfatto, ingannevole soubrette che promette un eterno amore che presto disattende. Ammantata della tua arrogante bellezza, distratta osservi e interroghi il mio cuore. A te urlo stanotte questa mia dedica, grido il mio rancore, la mia disillusione. E tu arrossisci, finalmente!

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Sarà così (dedicata ai miei figli) Sarà come le parole che rimarranno appese all’imbrunire quando anche le labbra non avranno più lacrime da spendere che il sorriso nei vostri occhi scaccerà come vento il fumo dei ceri. Sarà come le notti che le fiabe presero vita nei vostri sogni bambini quando i miei racconti carezzandovi ingannavano il buio fantasticando mentre rimboccavo gli orli della mia fantasia addormentata sui vostri cuori. Sarà così non avendo altro che un mucchietto di parole mute nel cassetto, cercherete una favola, un racconto da leggere per allietare il mio volo e stupirete se tra il lucore delle perle sul mio cuscino si poserà un sorriso. Sì, sarà così.

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Seminare sogni ho un pugno di sogni rinchiusi in un vasetto giacciono da tempo in attesa di una terra li ho stretti nelle mani una vita intera mentre cercavo di mettere radici in terre ogni volta sconosciute che mi sforzavo di arare e i sogni aspettavano chiusi nel pugno senza terra inutili prenderò la vanga nuovamente e solcherò questa terra che da matrigna mi accoglie indurita da aride stagioni riarse al sole inghiottirà avida i miei semi di vita romperà quel vetro, finalmente il sale del mare farà il resto i sogni come germogli metteranno radici forti nell’anima è tempo

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Senza pudore Ancora stupirò gli occhi, prima che il buio accenda l’ultima luce leggerò di noi, delle parole che un tempo inclemente ha inciso nella neve e niente riconoscerò di me in quella mano impudica che ha scritto della vita, del nostro amore con parole mai dette. Sì stupirò il cuore, quando battiti anarchici volgeranno al silenzio, se con gli ultimi versi come in una poesia posata tra le tue mani cercherò baciandoti le labbra quel sorriso nei tuoi occhi sereni, allora sarà ancora desiderio l’ultimo battito così, senza pudore.

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Senza radici fischiavano pallottole quel mattino senza sosta mia madre alla finestra celata dall’imposta guardava affascinata passare i partigiani il bimbo appeso al seno ben stretto tra le mani mentre lassù regnava ancora lo sgomento le case giù in pianura crollavan di spavento quando tornò la calma cantarono le pernici tornammo giù in città, …non furono radici… nei giorni assolati d’ignara fanciullezza anche la periferia pareva gran bellezza la scuola, l’oratorio le fughe con la bici volavan anni ingordi …non furono radici… e ancora periferia negli anni quasi oro scanditi dalla voglia precoce di lavoro di libertà, di spazio, di nuove emozioni di diritti inalienabili di lotte e di canzoni

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anni in cui l’amore bussò violentemente e un solo desiderio occupò la mente fu casa assai presto e festa con gli amici ma non durò a lungo, …non furono radici… gli anni che seguirono rincorsero gli affanni paesi e città aliene accolsero i miei panni i fiori che erano nati cresciuti in altri tempi …mettevano radici… non presero esempi e mi domando ancora se poi valse la pena fagocitar la vita, cambiare spesso scena la tournee quando finisce è replica stucchevole spettacolo imbolsito di critiche benevole [sto guardando il mare ormai col fiato corto ho fatto nuovi amici planando qui sul porto forse quando la teca si adagerà sul fondo cresceranno le radici del cuore vagabondo] …forse…

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Senza sangue (as a pulp fiction scene) In fondo erano solo finti colpi al cuore, ben assestati peraltro, ma l’animale non profferì verbo sputò la lingua biforcuta e sorrise. [tutto si svolse in un amen in una sera dove parole non dette e frasi avvelenate da acido rosso corrodevano ironiche l’anima] I riflettori illuminarono la contesa creando ombre sconvolte sul telo senza respiro, spezzate dalla fatica crollarono intatte, deludendo le attese. [un sibilo e la falsa donna cannone attraversò la scena schiantandosi, nella muta indifferenza generale, su una tripolina d’acciaio più in là] Non vinse la giovane arroganza né la vecchia irascibile saccenza. Finì in patatine la stucchevole fiction senza alcun spargimento di sangue. …as a pulp fiction scene…

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Senza scampo [ti ho sulla pelle, anima scorticata] Abito confezionato su misura cucito a parole con il filo del tempo, teca di panno amaranto e ossidiana dove lasciare appese le mie illusioni ricettacolo spesso di inattesi sorrisi o taglienti parole di numi avversi. Sgrano il mio rosario, piego i tasti, rotolano svogliati pensieri nella calle l’eco rimanda lamenti come miagolii. E’ quasi dolore. Sottili, velenose spine straziano infisse sulla pelle, legano un anima ulcerata ad essiccare al sole. [ma ti ho sulla pelle, non c’è scampo]

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Soprappensiero Il ricordo è un sicario prezzolato dal tempo ti coglie all’improvviso e ti toglie il respiro come una folata improvvisa di brezza che accappona la pelle mentre scende la sera. Inutili le fughe con la mente verso il domani lui attende e appena s’acquieta il dolore t’avvolge l’anima col suo nero tabarro mentre ti costringe a guardarti negli occhi. Dicono dei vecchi che non hanno memoria forse, ma ingannano gli altri e se stessi il ricordo invece non dimentica il suo lavoro e il tempo è un puntuale pagatore…

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Struscio d’anime Escono alle cinque quando le ombre si allungano sul corso e l’antico acciottolato sopporta in silenzio il continuo logorio. Anime irrequiete che si sfiorano annusandosi come randagi sgranano insulse parole come rosari rimandati a memoria, con falsa meraviglia motteggiano sorpresi l’incontro fortuito e sorrisi inebetiti nascondono ataviche asociali indifferenze. Mentre l’opportunità bara al tavolo della comune convivenza echi di noia provinciale bruciano narici come zaffate sulfuree e ammantano le anime discinte imbellettandole orridamente. Lo spettacolo rutilante di falso perbenismo continua alla sera calze a rete, guepiere licenziose divinano rotondità eccessive nessuna vergogna è ammessa nell’eterno gioco dell’apparire. Anime in mutande di lana caprina che celano virtù indecenti.

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Tattoo lunare [dai palmi a coppa -stanotte- la luna trabocca bianca pelle -tatuata- e cenere di stelle] che vuoi poeta stanotte? giorni come anni… notti rinnegate… piccoli sotterfugi… compromessi d’anima… -ora implori- una nuova dimensione perché aiutarti? avevi la luce tra le mani dimentiche resta la cenere tatuaggio indelebile di stelle bruciate e ricordi che vuoi poeta stanotte? -ora mi sfuggi- marchiato per sempre troppo amore o ingannevole henna?

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Tre nuvole oltre l’arcobaleno […è tempo che la neve si stemperi nel colore…] Tre nuvole più su, oltre l’arcobaleno morì il mio volo. L’incanto mi avvolse in una soffice cappa di blu, milioni di lucciole dorate sciamavano inseguendosi, ceselli preziosi svelarono uno strappo nella volta, dietro un piccolo cirro una sorta di dolorosa ferita profferì un sospiro di luce e attirò la mia attenzione. […è tempo che la neve si stemperi nel colore…] Fu lesto il mio ardire e il nulla luminoso m’ingoiò. Galleggiavo scevro dai dolori, assente nei pensieri neppure il volteggiare sinuoso della tua immagine, che irridente fuggiva la luce sposando il blu stellato, scoprì l’inganno del sogno, divorai la mia assenza sospeso in un limbo inconsapevole di un vero addio. […è tempo che la neve stemperi il dolore…]

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Tutto di me, tranne l’amore Vi lascio un cesto tessuto di alghe marine colmo di emozioni, ali di gabbiano sognate e scritte sui fogli azzurri d’infiniti cieli, primavere di lacrime terse dal desiderio ardente di nuovi soli, passi incerti nei tratturi improbabili attraverso campi seminati a gramigna per una vita agra comunque vissuta a muso duro. L’amore quello no, quello ingannato, perso, illuso e riscoperto quando ormai le ombre sul molo si adagiavano viepiù lunghe e il sole morente infiammava anche i ricordi più insignificanti, quello che ha stretto la vita tra le ganasce come dolce morsa e ha trattenuto la mia insana corsa verso la pece della notte. Quell’amore lo porto con me.

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Una buona ragione Forse c’è una buona ragione per continuare a scrivere. Quando le parole rincorrono le mani e si sentono sole e la notte ha il sapore del caffè irrancidito nella tazzina, stravolgi i tuoi pensieri e leghi il cuore a un solo battito. Sarà quel ritmo ossessivo, monocorde che comanderà, detterà il percorso dei tuoi pensieri fagocitando il senso. [le dita come alunni in un’aula vuota spezzano gessetti straziando brandelli di anima su una lavagna bugiarda] Sì, forse c’è una buona ragione perché tutto ciò accada anche stanotte inseguo immagini, laceri pezzi di anima che bussano e premono alla porta, coartando le mani… il bisogno di urlare, di liberare la mente è insopprimibile. La voglia indecente del raccontarsi nonostante gli errori altera la sequenza degli impulsi vitali e denudo parole. [anime sensibili in farisaica processione ora giudicano spettacolo inverecondo quel lacerar veli del tuo mondo] E’ amore, è una buona ragione.

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Una canzone per noi In questa notte mentre una falce di luna fa messe di giovani stelle giunge il respiro dei pescherecci come canto d’amore per il mare. I gabbiani ammutoliti ascoltano sbuffi e cigolii farsi crome e diesis che il sibilare del vento intona tra i casseri ormai disfatti dal sale. Chissà perché l’eco di ogni rumore, di ogni alito che la calle rimanda stanotte non è noia, ma dolce e malinconica musica che mi prende. Vorrei trasformare questa pagina di notturni e spericolati pensieri in un magico pentagramma ove mutare con perizia le parole in note. Una canzone, sì, una canzone finalmente! Un lieve frullo d’ali sapienti che ci catturino nel profondo e trasportino in una danza interminabile, dimentichi del mondo, stupiti della profonda intesa che gli anni donano, leggeri come foglie ruggine che planano all’imbrunire della stagione. A chi stupito chiederà come la neve non abbia ancora soffocato il sole, un sorriso racconterà per noi la storia che non conosce la parola fine. Capitoli sparsi in libertà nelle pieghe della memoria, raccolti in un libro, canteranno della nostra vita e stanotte scriverò poesia come canzone. [quando l’amore ha colori come ali di farfalla, non chiederti quanto esso durerà, basterà il battito di un ciglio e gli occhi stupiranno tra la porporina che piano si poserà sulla neve]

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Una storia per Dario “vieni qua piccolo uomo accanto a me sulla panchina non ci sono verdi vallate davanti a noi c’è la laguna ho portato uno zainetto di tela grezza verde militare quello dove infilavo libri usati e il panino da divorare zeppo di sogni rubati a un tempo fuggito inclemente e dimenticato nella polvere di un’ignavia indecente la brezza che accarezza il mare sorride tra le ciglia e il tuo sguardo disincantato in fondo mi assomiglia le fiabe vengono alla sera, ora è tempo d’esser seri ti racconterò di un erba verde cresciuta sui sentieri caparbia nonostante i veleni di uomini e arroganza che ospitava fiori e farfalle sfiorite nell’ultima danza non è una storia triste è solo polvere sullo zainetto ma dentro ci sono ancora le fate, un elfo piccoletto sono i miei sogni bambini di un mondo dimenticato vieni andiamo via, ti sto annoiando ti va un gelato? sta imbrunendo e il sole mette il pigiama, si fa sera con lo zainetto accanto sognerò un’altra primavera” *dedicata a mio nipote Dario

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Un attimo prima del nulla Quando i miei occhi avranno ancora fame di luce allora il buio avrà la nauseante sofficità del nulla non ci sarà il ricordo del tempo a scandire l’odio non ci sarà il battito aritmico della tua emozione non si udrà il canto univoco dei cuori innamorati. […nulla…] Quando la brezza che al tramonto sale dal mare avrà gonfiato inutilmente vele incatenate al molo non salperanno i navigli verso tramonti incantati non avrà eco il richiamo straziante del gabbiano non avrà sapore l’ultimo bacio a labbra schiuse. […ma tu baciami un attimo prima…]

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Un Maggio presuntuoso In questo rosseggiar di cielo in un Maggio presuntuoso che mistificando i profumi e le attese si veste d’Agosto l’aria calda ammaliata dalla sabbia portata dal libeccio, balla come l’odalisca in un’indecente danza del ventre. Vorrei avere i tuoi occhi per leggere nei riflessi del mare la canzone che i gabbiani intonano così sgraziatamente ma propongono danzando abilmente lassù al tramonto al ritmo dei refoli ribelli sfuggiti all’abbraccio della notte. Lo so che esser romantico è una puerile giustificazione della timidezza che sorprende ognuno al calar del sole, quando anche l’aria che dall’Africa nuova linfa trasporta riempie di sabbia e graffia un cuore steso ad asciugare. Canterò in questa serata di una bellezza incomparabile, ti offrirò una rosa blu che mai ebbe a crescere nel vento lei accompagnerà la mia goffa danza al limitar del molo e con la presunzione di un Maggio che si crede Agosto, spalerò la neve che scioglie nell’anima.

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Un piccolo recital Sono piccole note sgraziate quelle che piccoli diapason di cristallo cercano invano di intonare al canto sempiterno della vita. Sono piccole cascate di iridescenti lacrime le note spezzate rifiutate all’ingresso del coro. Falsi diamanti che riflettono sul selciato degli anni e raccontano vanesi l’inutilità dei tuoi sforzi. [ad libitum] Infranti i piccoli diapason ora giacciono. Mucchietti di schegge taglienti feriscono il cuore, mentre l’anima intona imperterrita il canto solitario delle piccole note sgraziate da sempre fuori dal coro. [piccolo recital di una vita stonata]

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Venite, bastardi Venite, vi aspetto appoggiato alla canizie le tasche pieni di sogni, i piedi come radici, ululate pure alla luna i vostri inutili inganni. Nulla può ormai ferire un cuore scaltrito, protetto dalla teca di cristallo degli inverni dove ha nascosto paure e mistificazioni buttando la chiave nella gora dei ricordi. Venite, stupirete nel vedere come l’età saprà tenere testa alle ancestrali paure e come la scaltrezza delle vostre lusinghe non avrà alla fine ragione della mia anima. Ho un’antica ragnatela di cicatrici da offrirvi come passaporto per il prossimo viaggio. Presto, prima che i sogni si addormentino. Venite, anni bastardi.

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Verdi pensieri Un guizzo increspa l’acqua improvviso un desiderio argenteo riflette l’occaso forse fuga vitale o anelito di libertà…? Tra i riflessi bruni il defilè della medusa. Ansima l’incedere il diafano pelagico, ostenta l’arroganza dell’innata eleganza. Hanno il colore e il sapore della menta i pensieri che guizzano ratti nella laguna, battiti come nuovi ritmi, chiedono ascolto. [il cuore getta la rete, la luna annuisce]

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Vita diabetica (tra il serio e il faceto) Ho sputato la vita come una caramella succhiata a metà ha rimbalzato sull’acciottolato degli anni senza rompersi, ora è là, incastrata tra un tombino ed una crepa d’asfalto insudiciato simulacro di menzogneri piaceri e falsi sapori. [e allora…] Ho comprato un cartoccio di giovani e sincere emozioni, deliziosi, accattivanti confetti incartati con argute parole. Zuccherose promesse ho appeso al palo della cuccagna salirò sin lassù, sarà dolce premio, non le sputerò a metà. [spero non siano caramelle col buco…]

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ZBG 207- 44 Un alieno a Milano Un ammasso di detriti ricordo di una Milano piagata ricoperti di terra e innaffiati da brume ottobrine, ciuffi spaesati di verde malato penosamente spuntati. Era nei sogni bambini una montagna da scalare, una vedetta da dove scrutare e immaginare voli fantasie perse nel tempo di una convulsa crescita. Come piccolo alieno scordato da un raggio di luna giocavo tra i resti dell’idiozia umana col sorriso spento. Estraneo a questo mondo che tutto sa e nulla capisce dell’anelito di vita che la pietra ferita ancora esalava, inseguivo ammaliato code di lucertole asmatiche tra i veleni di un gioco assassino per vecchi alienati.

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Averti… [ho combattuto contro un temibile rivale, la mia paura il lampo degli occhi raccontava una storia senza fine la fuga terminò inebriandosi nella tempesta dei sensi così il ruscello impetuoso sfociò in un fiume in piena] quattro passi tra ciuffi di bambagia sparsi nell’azzurro un oliva nel Martini questo tuo incollarsi al mio cuore un sapore che ogni volta rinnova il piacere dell’amore sognanti i versi che brindano a nuove mature stagioni …averti, ora come allora, è un cin cin alla vita…

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Baratti Ho venduto le ultime biglie di vetro colorato come perle autentiche di falso Murano a quattro cinesi in gita sulla laguna in cambio di paio di bacchette di bambù. Ho ceduto le bacchette al bar sul corso ad un oste dal sorriso mefistofelico in cambio di un bicchiere di Rosso Inferno in un amen l’ho bevuto, ho visto il fondo. C’era un numero di telefono impresso. Ci sto pensando. Vorrei indietro le mie biglie di vetro colorato.

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Cuore di maiolica sotto l’indaco dipinto dello smalto -tu cuore di friabile biscotto- cotto al sole di roventi primavere -indurito al gelo dell’inverno- appeso come falsa icona adorata -ninnolo d’antica cristalliera- indisponibile ai richiami dell’anima -ti culli nella tua apparenza- scivolano quasi lacrime di ghiaccio -sul blu diamantato le parole- non prova alcun fremito o passione -una corazza vitrea di smalto- ti spezzerai nonostante l’arroganza -l’acciaio forerà la tua difesa- quando l’amore colpirà improvviso -raccoglierò briciole d’amore- …dal cuore di biscotto

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Domani farà bello, hanno detto… "...i avarave ciamà belo per doman…" Quel repentino, lattiginoso strato di nebbia sembrava bambagia sfilacciata tra le dita che saliva silenziosa posandosi sulla laguna e come algido sicario ne affogava i colori. Testarda una lama di luce bucava la bruma, creando sull’acqua trasparenti arabeschi, mentre il peschereccio si perdeva nel limbo la sirena urlava il suo commiato dal molo. L’orizzonte m’apparve come sogno concreto che da tempo rincorrevo e protesi la mano, solo stracci di nebbia rimasero appesi alle dita. Con la voce arrochita dall’umido salmastro bestemmiai alla caligine la mia delusione. "…i avarave ciamà belo per doman…" Straziò la voce stridula ma ne riconobbi il tono, lo schioccar del becco e il frullar d’ali felpato lacerarono come artigli il velo dell’amarezza e nella laguna ovattata rispecchiai il mio sorriso. …come sempre avrai ragione tu amico mio.

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Eccomi eccomi accanto a te a capo chino guaisco le dolenti ferite aperte -cucciolo maldestro- in un gioco pericoloso eccomi davanti a te occhi di cane bastonato che implorano perdono -ingenuo protagonista- di un gioco sconosciuto eccomi dentro di te ora l’altalena dei fianchi blandisce il mio il dolore -l’acme è alla chiama- l’urlo si scioglie nel miele conosco il gioco eccomi

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Ho guardato la notte negli occhi albeggia… [abbandoni le coltri, ti alzi e il ricordo delle lenzuola svanisce nel brivido d’addio sui gradini conti i tuoi passi viepiù stanchi, circospetti] Nel buio che attende le mani ti muovi come un automa che ha fatto della sua paura una gelida compagna discinta guardiana del suo respiro. Sacrista in una chiesa di carta, come improvvisato scaccino che accende e spegne falsi ceri, sei custode che schiude cancelli e lacrima sul mazzo di chiavi. e albeggia… [l’eco dei passi s’è persa oramai nella luce immemore del buio l’alba che saluta i miei domani porta con sé la brezza del mare e dolce è il brivido tra le lenzuola] …ma ricordo quegli occhi…

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Il velo da sposa Gli argini del fiume quella mattina accolsero la bruma vestita da sposa l’acqua ammaliata dal candido velo ondulò dolcemente baciando la riva. Nel silenzio di canne dipinte di brina come algidi spettri riflessi nell’acqua il passo seppur cauto scalfiva l’idillio e il fiato sospeso lacerava il mantello. Trattenni il respiro sedendo in attesa del brusco risveglio d’incauti amanti mentre ammiravo l’emozione dipinta il vento spogliava pian piano la novia. La gallinella deflorò l’acqua correndo e le goffe ali presero il volo nel bianco il rumore di canne spezzate fu strazio del silenzio complice dello spettacolo. Il fiume rispecchiò un azzurro sorriso sull’acqua dondolava il velo da sposa.

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Immemore cancello il ricordo è un serto spinoso che lacera il farisaico velo involucro ipocrita dell’anima emerso dal nulla della memoria è dolore che buca lo stomaco ricordare l’infamia degli uomini alleviare la falsa dimenticanza con alibi d’ignobile comodo oltre l’acciaio vagano anime perse in un girone lastricato d’odio arse nel fumo acre di camini accesi rinchiuse nel ventre della storia la memoria non ha cancelli

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Non sono Icaro …celava sotto la zimarra nera l’acciaio degli occhi, la signora e la bocca, ulcera menzognera socchiudeva al volgere dell’ora mellifluo il sorriso ammiccante nel gelido spirar di tramontana la vita era mercede in contante per saldar il conto alla puttana non era la mia ora, morì il nero l’ulcera tacque come d’incanto l’attesa accecò il suo pensiero la falce abbandonò lì accanto (usai ottima cera il sole non fu avverso sparì nella bestemmia la zimarra nera / di lei rimase il ghigno nell’aere disperso le ali regalarono una nuova primavera) …e fu un grande volo!

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Non svegliarmi del dolore che conosco parliamone domani oggi tienimi così, tra i seni come piccola cosa fasciata dall’amore come ninnolo dalla musica dolce sul petto del dolore che proverò parliamone adesso che hai occhi per vedere le lacrime che verranno come artigli rapaci ruberanno la via del cuore il dolore che non conosco mi attende all’angolo ma la vita ha perso tempo e non sono mai puntuale allora non parliamone oggi tienimi così, tra i seni non svegliarmi

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Sabbia e neve non ho memoria d’inverni sabbiosi ma la neve negli occhi graffia e lacrima come sangue bruciato nell’oblio dei tuoi/miei ricordi [a testa in giù nella rena, struzzi affogati nella neve] e testardo è il dolore nascosto accanto l’anima e il cuore attende estati nevose per sciogliersi tra lenzuola calde di luna piena tra sabbia e neve

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*Snake charmer (avanti, c’è posto) Una madre a Roma rinnega il bimbo appena nato affetto da una forma di possibile nanismo, rifiutandosi persino di vederlo. Credo che l’umanità intera abbia toccato il fondo, togliendo il tappo ad un verminaio senza fine. Non è il primo caso né sarà l’ultimo, ma stanotte non ho resistito. [fa strame di umanità, postriboli di coscienze, indifferenza e avidità scivolano come pioggia acida che non scalfisce la corazza dell’egoismo] -ouverture- neri pulcini rinnegati sparsi cocci uova reiette madri aliene da ricordi ventri ingordi in attesa di altro seme …e poi veleno… crotali immondi avviluppati alle note del bausari echi di morte seni inutili

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intonano Calcutta forever …e poi veleno… tragico carrozzone di guitti continua la vita traballa conscio dell’orrido comunque curva …cade ma incanta… *incantatore di serpenti

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Spine della memoria, per non dimenticare appese al recinto di filo spinato brandelli di carne come ombre dimenticate da Dio reclamano un perché nel campo carri bestiame vomitano nella polvere nuove vittime sacrificali da incenerire sull’ara dell’odio salgono al cielo disperdendosi nell’acre odore di fumo urla e simulacri di parole come bestemmie di dolore canti di bimbi che perforano le coscienze dei giusti e sguardi spenti di vecchi che recitano rassegnazione da stracci e mucchietti d’ossa rannicchiati tra la polvere s’alzano nenie alienanti di madri dai seni rinsecchiti mentre allattano straziate un fiore nato già morto con lacrime di un sangue odiato come la corona di Cristo Shoah, una spina nella coscienza degli uomini

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Tarsia [la mia vita è come una panchina in attesa di un’anima zingara eternamente indecisa pochi versi hanno dato raramente conforto a un legno errabondo in cerca di un porto] sole d’onice

gioiello che riflette intarsi d’oro fino nel blu della laguna

ruvida pomice cuore che non smette ma gioca a nascondino barando con la luna

potremmo allora

riposar lo sguardo che muore all’orizzonte tra mille e più parole

cielo non scolora nicchia, ma è in ritardo e l’anima dal monte non scende come suole

sposto cautamente

di un passo la panchina è ormai quasi trastullo sfogliar la margherita

sole finalmente infiamma la mattina sul legno torno fanciullo

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da sempre è la mia vita [nomade d’amore vago col mio fardello spesso a testa insù nei sogni ho volato rubando la poesia ne ho fatto un gioiello il suo antico legno di sole ho intarsiato]

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Tra bistro e ciglia quattro braccia ad abbracciare la mia/tua paura non erano forti i verdi rami d’intrecciate mani e nodose nocche sulla schiena a premere il fiato [l’azzurro tra bistro e ciglia] inesperti semi dispersi sul bistro color del ventre nel batter di ciglia negarono radici al solco assetato [la paura inaridì l’azzurro]

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A perdifiato, nel sogno [stanotte il tuo respiro è rimbombo aritmico del cuore sibilo acuto, un frinire di sguaiate cicale nel cervello] corri, le gambe sono involucri di gesso e il fiato che cola nel polmoni come piombo fuso incenerisce i pochi scampoli anarchici d’anima desiderosi di azzurri respiri che il vento Caino strozza in gola nudo, mentre cristalli di neve come aghi roventi trafiggono i tuoi occhi accanto a te scorrono veloci le immagini accelerate di un film che ironici e arroganti lazzi stanno interpretando in tua vece assisti, nonostante le vergogne malcelate e consapevole della tua nudità, come pubblico non pagante agli inutili sforzi dei tuoi piedi che immobili, inchiodati al passato sotto di te corrono, corrono… a perdifiato, nel sogno

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Ad occhi nudi anche stanotte il sonno ha inscenato la sua acida danza lacerando veli, baloccandosi con la mia spossatezza e lasciandomi vestito di nudi occhi ad accarezzare i miei sogni dormienti a me accanto, mentre aliene figure danzano sul vetro in frammenti colorati che ratti svaniscono in un vortice di mille flash e feriscono i miei occhi così i pensieri che ora inseguono il ritmo di un cuore amante del sonno bastardo e gli occhi rincorrono parole inespresse che veloci s’insinuano in logiche nicchie tutto è più chiaro, anche la falsa luna sorride laggiù nella teca del lampione saluto i sogni che rotolano nella calle, raccolgo i veli persi dal sonno dimentico abbraccio la notte in uno sterile amplesso …e dormo, ad occhi nudi…

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All’ Università della terza età Ti scrivo perché ormai so dire solo nome cognome e codice fiscale, le parole sono frecce avvelenate e le intendono solamente i sordi. Avevo un bouquet di rose per te è sfiorito senza parlare. Mi avevano detto: ditelo con i fiori. Ieri finalmente ho parlato, ho detto sì. Hanno chiamato l’autombulanza era svenuta la commessa del negozio non aveva retto all’emozione. Ho chiesto a cenni un posto dove sedere non ho profferto parola, visti gli esiti. Mi hanno detto che qui non c’è il pack dove lasciare a svernare i vecchi loquaci. Mi avevano detto: ditelo con le mani. Prima o poi lo farò.

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Bianco Arcobaleno ti pare nulla… un colore assoluto,

una finestra sull’anima

dove intingere i colori, immagina -colori- un diario aperto… per pensieri colorati,

spazio infinito senza cornice

iridi spoglie da vestire, in libertà -e mani sapienti-

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“Buongiorno, come stai?” “Buongiorno, cara, come stai?” “Eh, la schiena…”-lamenti- Il lampo che attraversa i tuoi occhi vorrebbe declamare sofferenza, ma il sopracciglio inarcato rivela l’ironia delle tue parole nella recita, così il dolore si sgretola nel caffè. “Anch’io, sai…” –sussurro- Un attimo, due sorrisi, e il singhiozzo improvviso di una risata malcelata si trasforma in goccioline di caffè a macchiare il pigiama da carcerato. Mentre ti bacio. Così scrivo l’amore che vivo.

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Calce bianca e zinco tempera è grezza materia,

aliene visioni polveri e gesso

e mani artigiane è bianco su bianco,

inno alla follia oltre la ragione

nelle forme coatte è assoluta disciplina,

la geometria dispensatrice

nei brividi sottesi è incontro d’anime

di virginali palpitazioni

nel chiarore lunare

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Ciondola le gambe, la luna puttana Ciondola la luna le gambe diafane sul colmo di una vasca di pece greca. Quaranta le gasse d’amante sulla fune calata di soppiatto per tornare a casa fuggo straziando di pelle il canapo lascerò sul cuscino tracce d’amore.

i sogni sanno essere cattivi nelle notti orbe di stelle

Dondola ironico il lume sul banco è pane azzimo il conforto dell’anima. Perso a rincorrere improbabili gemme, affamato d’amore nel vuoto pneumatico di un’apnea notturna, annaspo al colmo nella vasca lorda di nero mentre ti cerco. Ciondola le gambe, la luna puttana.

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Di grembiuli bianchi, aghi e occhi azzurri non ricordo il nome di quel grembiule bianco, sorridente non ricordo nemmeno se mai l’ho visto, davvero -arcani veli confusi alla vista- quei vetri su croci d’acciaio insulti di giallo veleno, tra gli aghi nell’azzurro meravigli gli occhi ricordando il nome, Anna* -forse- * 2005 - Day Hospital Clinica Ematologica di Padova

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…e sono ancora qui …e poi nella notte della ragione ho accarezzato sogni bastardi cavaliere in arme ho combattuto mulini a vento con parole inermi [cento secondi di furiose erinni hanno travolto anni di senno] negli angoli sperduti dell’anima ho raccattato i loro miseri resti crisalidi abortite, riarse nell’ira hanno perduto l’antica sicumera quanto sapeva di gesso quell’odio bevuto alla fonte della vendetta Don Chisciotte dai versi pugnaci ora disarcionato dal verbo letale …e sono ancora qui Pierrot sospeso in una bolla precaria d’onirico fiato

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Figlio di puttana sai cara potrebbe essere veleno quel verde lucore

[la goccia corrode]

voglia d’assenzio che sorride sulle tue labbra

[è onirico amore]

è falso orgasmo quel vibrare di verde cicuta

[che mente ai seni]

ma il tuo respiro danza ancora il ritmo del sogno… …figlio di puttana!

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Ho ritrovato il mio palcoscenico [siamo entrati a spettacolo iniziato buio in sala, sul teatrino allestito Pulcinella schioccava le mani di legno ritmando in falsetto “Core Ingrato” due mascherine là, in prima fila, applaudivano la buffa scenetta] Oggi i miei nipotini mi hanno portato a vedere lo spettacolo dei burattini. Seduto quattro file più indietro, il mento appoggiato alle mani, nel buio della sala ho inumidito il velluto della poltroncina. Dio quanto tempo! E quanto mi sono mancati questi autentici interpreti della vita! Nel loro raccontare il mondo mi sono ritrovato, mi sono rivisto. Io, burattino dagli arti di legno con il cuore ridipinto di rosso, animato da un burattinaio monco ho interpretato tragedia e farsa su un palcoscenico sbagliato. Non ho divertito tutti, ma ho fatto del mio meglio.

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I colori di San Valentino Per San Valentino ti vorrei vestita di rosso un paio di scarpe lustre, leggere, ballerine come negli anni sessanta, la gonna a plissé e tra i capelli un cerchietto d’oro vanitoso. Fasciato come allora nei jeans blu indigo, agile ballerino dai neri capelli impomatati catturavo la luce della luna che ti donava riflessi multicolori nei giochi delle ciglia. Allacciati nello slow a misura di piastrella riempivamo gli occhi del colore della notte sulla terrazza il mare dipingeva coi pastelli il rosso delle guance che stingeva il vestito. [Ora nel baule dei ricordi la gonna a plissé e i jeans indigo stingono lentamente i colori, ma tra scarpe lustre, leggere e brillantina questa sera ho ritrovato l’antica tavolozza.]

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I conti alla fine tornano sempre Vorrei non saper far di conto per non misurare i passi mancanti. Quattro gambe su e giù ogni giorno e una croce a matita sul calendario. [basta un giorno di anno bisestile per mandare i piedi in confusione] Avrei fatto volentieri a meno delle dita, per non vederle smarrite nel rincorrere cifre improbabili dimentiche degli anni nelle nocche. Ho deciso porterò gli zoccoli, le orecchie conteranno i rintocchi. Sarà il tempo a tirare le somme.

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Lo zoccolo di legno col cinturino di cuoio rosso I balconi con le ringhiere di ferro ormai corroso si affacciavano sul cortile come protesi dentarie neglette dai dentisti, ma convenzionate all’Inam. L’immancabile gatto, signore delle cantine, orbo da un occhio, e dal mantello virgineo che tradiva scelleratezza, dominava le afose notti d’Agosto. [la notte suonò un solo tocco quando il lamento mutò in richiamo di felinei ormoni entusiastici, fu strazio lacerante e il sonno fuggì atterrito] La fuga e l’inseguimento risuonarono nella corte, fra moccoli e miagolii lo zoccolo si levò nell’aere planando fragoroso su damigiane di rubizzo vino. Non venne mai recuperato tra le vitree schegge, il battere ritmico del piede orbo di legno gemello fu compagno ai tocchi che ricondussero al sonno. Da allora il vino rosso mi dà acidità di stomaco…

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Mandorle amare È come se lo avessi sempre saputo -quel sapore rancido di mandorle amare retro gusto d’afrore di violenza bestiale- ritorna puntuale a bruciarmi la gola nei racconti di vita raccolti per le strade laddove il mandorlo vorrebbe essere fiore. È come se d’improvviso la notte celasse con pesanti coltri di Damasco gli orrori e tu, Perla d’Oriente ormai senza lucore stuprata, inaridita, dal ventre come pietra negherai il fiore di una nuova primavera. È amara impotenza che avvelena la vita.

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Nelle mani (in punta di dita) racconto a puntate frasi sbeccate sull’orlo, le labbra

le anche distanti, solo a momenti

e intese acquietate rincorrono capoversi, ansiose -in punta di dita, le pieghe- squaderno le pagine di questo amore rilegato, col refe

ora sigillano dorsi intarsiati

leggo la luna calante negli occhi giunta la fine, chiudo -nelle mani, gocce d’amore-

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Nelle mani (in punta di lingua) nel sottobosco, poi

lamponi, mirtilli dolcezze rapite

tra labbra incatenate e batuffoli di cielo

occhieggiano tra il verde

riflessi d’azzurro, noi - in punta di lingua la tavolozza- elfi giganti di passo lieve

tracciano scie sulla magica tela

a ruzzoloni nella controra -nelle mani coppe di fragola-

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Nelle mani (in punta di matita) pantaloni alla coscia calzini bianchi della prima comunione una lametta da barba e la matita tra le dita -gli occhi di mio padre- nelle mani in punta il dardo di grafite fierezza artigiana dei quaderni tra aste e fantasmi di lettere la mia vita il legno appuntito d’anima nera la lametta incartata nella stagnola e l’orgoglio nel taschino -negli occhi mio padre-

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Nelle mani (in punta di piedi) dietro il rovo le more

là sul greto riflesso lunare

a mezzogiorno, sul seno -in punta di piedi, le ciglia- quadretti scozzesi

rosso e blu cotone appeso

sui sassi ad asciugare, il giorno -nelle mani, il sorriso-

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Nero Notturno Bolero il cielo stanotte è un colabrodo di plastica nera insù rovesciato e mille fiammelle pretenziose facendo capolino dai forellini reclamano vanitosa attenzione esibendosi in una danza antica

[in quell’azzardato bolero ogni passo era al limite di un’incosciente slalom tra i buchi della plastica che, nera cappa, illudeva mentendosi falso gioiello]

ho ululato fuori tempo alla luna il mio sonno e scorticata la pelle sulle spine di un sogno bastardo sono crollato spegnendo i lumini tra le piume di un cuscino ribelle sgorbi di nero caffè sullo spartito

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Oggi ha nevicato…(ancora mi mancate) Oggi ha nevicato. Poco. Il molo ha un aspetto cadaverico, algida rappresentazione di una pièce d’inverno inoltrato, atteso e incattivito. La laguna, come lastra di vetro incrinato, spezzetta i riflessi e i rari gabbiani in volo paiono frammenti di farfalle dislessiche in cerca di materno riparo, di un rifugio. Nel grigio che incombe e tutto soffoca con la sua indole indifferente e apatica, ogni rumore pare ovattato, lontano. Oggi ha nevicato. Poco. Le strade deserte rimandano echi e suoni secchi, come di vecchie canne spezzate da raffiche di bora inclemente. Anche i pensieri paiono grigi mentre prendono forma pigramente dentro di me. Poi esplodono. A fatica trattengo un gemito. E’ strano come, quando si pensa a chi ha terminato il suo viaggio, lo si immagini sempre solo lì, in una stazione, in attesa dell’arrivo di tutti o di nessuno, chissà. Oggi ha nevicato. Troppo. In quella stazione disadorna, al termine di quell’unico binario imbiancato vi ho visti, fianco a fianco, insieme come una volta, senza bagagli, liberi dalle inutili some della vita. Stretti stretti, col calore dei sorrisi negli occhi scaldavate serenamente l’attesa di un treno, in quella stazione senza tempo né orario. Quel treno non è ancora partito e il freddo che gela le ossa non è bora che frusta la laguna, bensì desiderio mai sopito del vostro calore .

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Onirico bianco del bianco parlai a tre sepolcri imbiancati rinchiusi tra mura di sorrisi compiacenti del bianco portai perché ogni mattone rivelasse l’ipocrisia della loro connivenza di bianco tinsero le mura di Gerico due farisei orbi entrambi d’anima mentirono il colore pel bianco d’orbite l’ultimo cieco non sentì mura prive di vita divennero sepolcri eterni

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Sarà tristezza? È un velo, una trina aerea. Cesello d’Aracne traspare negli occhi e trattiene la rugiada dell’anima. Pensieri si accavallano, si rincorrono. Il cassetto inghiotte i pochi attrezzi del mestiere di vivere rimastimi. [un sorriso esagerato dipinto nel rosso di labbra esangui, una risata chioccia e improbabile rubata allo specchio stamani, e un’anima da pagliaccio inquieto alla ricerca di arcobaleni materni] Tutto sparito, fagocitato dal canterano. Una stilla di rugiada dondola indecisa se aprirsi a cateratta o rinsecchire tra le ciglia nel rimpianto futuro. L’eco argentina che risuona dappresso strappa la tela e la tristezza svanisce. Sarà tristezza…?

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Senza titolo “Ciao.” -Ciao.- “Posso sedermi accanto a te allora…?” -Se proprio vuoi..- “Vedi, ho preparato anche la valigia…” -Ah, sì…?- “Sì, ci ho messo dentro di tutto, guarda qui: dodici tappi di bottigliette colorati… pensa c’è anche quello del Chinotto..rarissimo…” -Chinotto? Cos’è…?- “È una bibita dolce, lo sai? Beh, comunque ho anche un sacchetto di biglie di vetro colorate bellissime, il biglione ne vale 20… vuoi fare uno scambio?” -Uno scambio? E con cosa…?- “Io ti do il biglione e t u mi dai il tuo naso da pagliaccio…vuoi?” -Non se ne parla nemmeno!- “Beh ho messo dentro anche dei fumetti del Piccolo John, di Tex Willer,…ti piacciono i fumetti…?” -Sì, ma non quella roba lì…- “Pensa ho anche una fionda, ne ho prese di lucertole…ero un po’ malandrino da piccolo…” -Malandrino?...Che vuol dire..?- “Ehm…birbantello, indisciplinato…” -Ah…?!- “Allora non vuoi fare scambio, non ti piace niente di quello che ho?” -No…cos’è quel pezzo di carta lì in fondo? Sembra la lista della spesa..- “No, è una poesia…” -Poesia? E che roba è?...Mica vorrai scambiarla col mio naso da pagliaccio…- “No, a dire la verità è rimasta lì dentro dall’ultimo viaggio che ho fatto…”

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-Va beh, non hai altro? Che fai qui allora?- “Non ti sono simpatico, vero?” -No, sei vecchio e i vecchi quando vogliono far ridere fanno piangere.- “Ho capito…È già passato il treno?” -No, e non passerà mai di qui!- “E perché?” -Perché è un binario morto…- “E allora tu che ci fai qui? I binari morti sono per i vecchi…” -Appunto, ciaoooo….!-

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Ti direi… *dedicata a mia nipote Agata ti direi… guardandoti, sorridi… poi mi sono accorto che già lo avevi negli occhi e allora mi sono perso inseguendo il tuo sguardo [sì, forse i pagliacci hanno il cuore dipinto e negli occhi il sorriso ma l’anima quella no, quella non tradisce, lassù imbroncia il cielo e gonfia le nuvole] ti direi… c’è l’azzurro nascosto tra quelle ciglia abbassate, sai, la tristezza non esiste, è invenzione di uomini che non sanno più giocare Ti direi…fammi posto…

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Tic Tac Volevo fare l’orologiaio, da piccolo. Riempivo fogli a quadretti di minuziosi particolari. Aurei ingranaggi filigranati, bilancieri dispensatori d’imparziali briciole di tempo, ancorette guardiane. -tic tac- Il tempo annichilì velocemente tra bilancieri, ruote dentate, bariletti e rubini, piccole gocce di sangue incastonate che scandiscono la vita. La pazienza rimane, avvitata a piccole mani. Inconsueta dote di bimbo che calza la fretta di vivere e rincorre lancette dispettose andando controcorrente. -tic tac- S’è fatto tardi, c’è vento. Ho perso i fogli a quadretti e i rubini hanno macchiato briciole di tempo venduto. Incastrato tra le ruote della vita il bilanciere pulsa asincrono. Volevo fare l’orologiaio, da piccolo. Pazienza.

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Tienimi così, stretto tienimi così, stretto tra il respiro dell’anima e le labbra lascia che io ascolti ancora quella parola che ogni volta si rinnova in un patto inviolabile tienimi così, stretto tra il sorriso delle mani e le braccia come nella morsa di un’abile artigiano che crea da materia grezza un cesello sopraffino tienimi così, stretto tra il vermiglio del cuore e i seni lascia che io attraversi la valle del desiderio e scenda a placarne l’arsura alla fonte della vita tienimi così, stretto tra le parentesi di questo racconto lascia che chiuda alle mie spalle un mondo che ha lacerato gli spazi aumentando le distanze tienimi così

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Un vespaio di sogni coatti ho un grappolo di sogni incrostato nell’anima

anni insonni d’attese deluse

celle bugiarde che legano ore d’amore inespresso

infidi vespai privi di mieli

desideri abortiti nel sonno, sospiri piagati dal tempo

appesi al forse del domani

come in una pira l’amore brucerà il grumo inaridito

senza il veleno di notti mendaci

e i sogni finalmente liberi da arcigne vespe guardiane ..torneranno a volare…

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19 Marzo (a mio padre) -sono sempre in ritardo, lo so- Mi avresti svegliato alle quattro del mattino “le canne sono pronte, andiamo è già tardi” Dopo la prima sigaretta, amara più del caffè, di corsa sull’autobus gli occhi pieni di sonno. In quel piccolo bar di Pavia sempre aperto l’ultimo caffè “corretto perché fuori è freddo” Trascinando gli stivali oltre il Ponte Nuovo il verderame dello stagno ci avrebbe salutato. Oggi il ricordo punge, è un amo conficcato e l’acqua che mi circonda non lava il dolore. Le canne sono pronte, aspettami.

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Ciao Lucio, raccontami *dedicata a Lucio Dalla ho tante parole, ma la lingua attonita rifiuta potrei scriverle, ma le dita ammanettate negano piange il mare così piccolo per accoglierti, incredulo ma tu sai quant’è profondo, raccontami ciao Lucio

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Fiammiferi e frammenti [accantono ricordi per il viaggio] Nel veliero di fiammiferi che ho costruito per te, accanto ai barili stipati di neve e ragnatele di rime, stiverò quei frammenti d’inutili e mute malinconie. -schegge di sogni infranti- Ne farò tessere di mosaico, splendida tarsia di ricordi incorniciata di piccoli legni che accenderanno il cuore. [salperemo prima che il sole se ne avveda]

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Nell’immediatezza che coglie Non fu subitaneo sentore di parole come primizie, ma reiterati tentativi di un cielo affatto diverso. Non fu l’immediato calore che sorprende gli occhi, le vene e il cuore. Furono versi appena colsi l’inizio della parola fine. Immediatamente.

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Ottomarzo tra le voci Scrivere oggi di mimose e auguri -poche rime in cerca di consensi- è ipocrita ricerca di benevolenza per celare nel sorriso la vergogna. Scrivere di fiori, simboli irranciditi non serve a medicare le sofferenze se non t’accorgi che metà del cielo lacrima sangue e non son tramonti. -Basta!- Le voci siano allora questa parola urlata contro il muro dell’ignavia di chi è indifferente alla violenza, nell’ultima spiaggia della ragione. Ottomarzo, la mia voce. Anche.

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Quattro mani di bianco gesso, spago e cotone nuvole di luce d’acrilico biaccate candide lenzuola tese come vele spiegate dai riflessi boreali per rinnovare l’azzurro dei vecchi cieli bastano quattro mani -di bianco-

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Senza Potrei tentare di misurare il vuoto in cui sprofonda il mio respiro o provare a contare le farfalle che frusciano nello stomaco o ancora lasciare che l’apatia rincalzi le mie coperte alla sera, mentre la mano orfana cerca inutilmente l’appiglio consueto. Potrei? Il solo pensiero blocca il respiro, annebbia la vista e ottunde la ragione. È un esercizio crudele, masochistico. Perché immaginare un simile calvario vorrebbe dire esistere, non vivere. E non ha senso vivere nel vuoto di te. Potrei senza di te?

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Specchi deformanti nei riflessi delle vetrine gli occhi s’interrogano

sagome lontane d’ironico disappunto

tra schegge di luce bestemmiano commenti il rosario sgrana i ricordi -tacche sulle costole dell’anima-

cucite con refe di seta bugiarda

urlano ferite mai sanate nel gioco di specchi del tempo

siamo noi?

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Tracce di cinica albagia -mondo- ammantato da falso

velario di realismo

fagociti ogni verità l’acido delle parole

rode l’amore come ossa

reiette da sciacalli

[invano parlano gl’occhi di fame, ma vomita parole la cinica albagia]

cogli con una smorfia

nel disgusto pesti la vita

come merda di cane -tracce rimangono-

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Zo de cale Non è uno zefiro gentile quello che preme le spalle stasera e affretta i passi sotto i portici. Racconta l’antica storia del mare sui volti terracotta dei pescatori, sibila tra nasse stese ad asciugare. [non mettermi fretta, ho capito torno a casa, ecco, giro l’angolo] No, non è uno zefiro gentile. Mentre la calle muore nel canale folate irose bucano come spine. Il vento ha accartocciato la notte dai lembi briciole di stelle fuggono e il cielo pare avere il morbillo. [gocce di luce giocano a gibigiana sulla carta argentata della laguna] Zo de cale, il vento è magia. *(giù per la calle)

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