Ontologia e alterità · sulla via di un pensare “alternativo” che rifiuta il ... Cavallo...

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Il Pensare – Rivista di Filosofia ISSN 2280-8566 www.ilpensare.it Anno III, n. 3, 2014 1 Ontologia e alterità Indice Ontologia e alterità: percorsi Furia Valori, Marco Casucci p. 4 Dall’essere al dono. Paul Ricœur e le sfide dell’ontoteologia Annalisa Caputo Università di Bari p. 10 Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre Gianluca Cavallo Università di Torino p. 24 Il sorriso di Caligola. Una riflessione sul tragico in Camus Giuseppe Crivella Università di Perugia p. 35 Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele Federico Croci Università Vita-Salute San Raffaele – Milano p. 46 Della Noluntas come Überwindung. Ontologia e differenza in Arthur Schopenhauer Giampaolo Loffredo Scuola Superiore di Polizia – Ministero dell’Interno p. 54

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Ontologia e alterità

Indice Ontologia e alterità: percorsi Furia Valori, Marco Casucci p. 4

Dall’essere al dono. Paul Ricœur e le sfide dell’ontoteologia Annalisa Caputo Università di Bari p. 10 Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre Gianluca Cavallo Università di Torino p. 24 Il sorriso di Caligola. Una riflessione sul tragico in Camus Giuseppe Crivella Università di Perugia p. 35 Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele Federico Croci Università Vita-Salute San Raffaele – Milano p. 46

Della Noluntas come Überwindung. Ontologia e differenza in Arthur Schopenhauer Giampaolo Loffredo Scuola Superiore di Polizia – Ministero dell’Interno p. 54

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Sguardo fenomenologico e alterità. Riflessioni a partire dalle Medita-zioni cartesiane di Husserl Federica Malfatti Ruprecht-Karl Universität – Heidelberg p. 67 Vladimir Jankélévitch: il presagire di un Altrove Giulia Maniezzi Università Cattolica del Sacro Cuore – Milano p. 80 Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse” Andrea Sacconi Università di Siena p. 92 La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”. Alcuni aspetti della metafisica di Karl Jaspers Danijel Tolvajčić Università di Zagabria p. 105 Esistenza, alterità, identità in Pantaleo Carabellese Furia Valori Università di Perugia p. 135

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Editore

Osservatorio su “Ontologia, persona, linguaggi. Per una nuova antropologia” Associazione Centro Culturale “Leone XIII” www.LeoneXIII.org Sede: Piazza 4 novembre, 6 – 06121 Perugia

Direttore

Furia Valori

Comitato scientifico

Daniel Arasa, Mariano Bianca, Marco Casucci, Luigi Cimmino, Gianfranco Dalmasso, Markus Krienke, Massimiliano Marianelli, Letterio Mauro, Edoardo Mirri, Marco Moschini, Giuseppe Nicolaci, Paolo Piccari, Silvano Zucal.

Redazione

Marco Casucci, Samy Abu Eideh, Pavao Žitko.

Periodicità

Annuale Prima uscita: 2012.

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Ontologia e alterità: percorsi La riflessione sul tema dell’“alterità” interroga da sempre la filosofia e il pensiero con-

temporaneo l’ha ripreso con particolare attenzione declinandolo, in particolare, nell’ambito di un’articolata indagine ontologica, spesso anche critica nei confronti della sua storia. Alte-rità e ontologia si presentano, quindi, come due termini in relazione dialogica e dialettica tra di loro, in grado di raccogliere significazioni sempre diverse e di suggerire sviluppi spe-culativi inediti ad una riflessione che sempre più si interroga sul senso dell’essere nella sua dimensione relazionale con l’altro/Altro. Proprio in questo senso l’alterità come alter-ego e l’alterità come trascendenza costituiscono i due poli di riferimento che si sono intrecciati nei saggi che presentiamo. La questione dell’alterità si articola così su di un duplice livello ed esplica una tensione sempre viva per il pensare. Tensione “interna” ed “esterna” al pensare medesimo che lo interroga e lo interpella verso un al di là di se stesso radicato in quel sé che costituisce il centro non egologico ma relazionale che chiede di essere portato ad espli-cazione.

La domanda sull’alterità diviene così il luogo in cui la dottrina dell’essere, sin da i suoi albori, conosce il suo scacco e la sua riconferma, andando a sostenere l’interrogativo leibni-ziano sull’essere e il nulla. Da sempre, ponendo la questione dell’essere, inevitabilmente si pone anche la questione del non-essere, dell’altro, del non-identico che rende più complessa e articolata la questione ontologica medesima.

Ciò in effetti era già noto alla metafisica antica come questione che, ad esempio, costrin-gerà Platone ad una revisione radicale della sua dottrina dell’idea in un progetto che fosse in grado di comprendere anche i grandi generi dell’άλλον e dell’έτερον. E non c’è quindi da stupirsi se a più di venti secoli di distanza un grande pensatore come Ricœur abbia cercato, sulla “via lunga” di una riflessione antropologica ai limiti della “terra promessa” dell’ontologia, di dare ancora una risposta a questo interrogativo platonico che si è riverbe-rato su tutto il tessuto del pensiero filosofico occidentale. Il tema dell’“altro” è insomma

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estremamente problematico per la nostra tradizione ontologica, proprio perché conduce sulla via di un pensare “alternativo” che rifiuta il darsi dell’identità immediata di riflessione, per mettersi in cammino verso una complessità del dire e del pensare che si manifesta inte-ramente nella ricchezza di percorsi e articolazioni.

Ed è stato senz’altro così anche per questo numero della nostra rivista, su cui sono con-fluiti interventi di diversa ispirazione che hanno toccato aspetti di volta in volta differenti della medesima questione. Da questo punto di vista, è stato possibile notare come la rela-zione tra la questione dell’essere e la questione dell’altro è stata articolata secondo due di-rettrici fondamentali: una di carattere “orizzontale”, incentrata prevalentemente sul-l’esigenza di “giustificare” o “dare ragione” dell’altro come “altro-da-me” sul piano delle re-lazioni intramondane; e un’altra di carattere “verticale” intesa a cogliere l’“Altro” nella sua dimensione di trascendenza sulla linea di un distacco e di una differenza che costringono il pensare ad un “salto”. Rispetto a queste due macro categorie, in cui crediamo si possano co-gliere gli aspetti salienti dei saggi qui presentati, ovviamente ciascun autore ha presentato la sua specifica sfumatura e combinazione di temi che spesso si articolano in una doppia dire-zione tanto “orizzontale” che “verticale”.

Così, nel suo lavoro incentrato sul percorso filosofico di Paul Ricoeur, Annalisa Caputo pone attenzione al tema del dono come punto di fuga della riflessione ricoeuriana. In parti-colare il saggio sottolinea come nel percorso del pensatore francese si assista ad una evolu-zione significativa che passa attraverso tre fasi fondamentali in cui si intersecano in maniera differente il tema ontologico dell’origine e quello del limite, entrambi caratterizzanti la spe-culazione ricoeuriana. L’autrice evidenzia una prima fase, sviluppatasi negli anni ’50-’60: si tratta della cosiddetta “filosofia della volontà” in cui la riflessione sul tema dell’origine si ca-ratterizza come tentativo di elaborazione di una “poetica”; una seconda fase del pensiero ri-coeuriano, che attraversa gli anni ’70-’80, si caratterizza invece per una maggiore attenzione al tema ermeneutico e che arriva fino a Sé come un altro; a partire da quest’opera, che può essere considerata uno spartiacque nel pensiero ricoeuriano, si sviluppa una riflessione che verte maggiormente sul limite e si fonda su un agnosticismo di base che si rifiuta definiti-vamente di sovrapporre la dimensione ontologica a quella teologica, sancendo definitiva-mente l’impossibilità per la filosofia di dire in Dio la totalità dell’essere, così come aveva tentato di fare l’onto-teologia. La Caputo evidenzia l’esigenza di dialogo fra i due aspetti, che da Ricoeur viene sempre mantenuta, in particolare nella sua prosecuzione parallela dei sen-tieri dell’“ermeneutica filosofica” e dell’“ermeneutica biblica”. Forse nella sua ultima opera Percorsi del riconoscimento si può assistere ad un potenziale ricongiungimento delle vie fi-no a quel momento separate, nella paradossale “economia del dono”: qui le tematiche dell’alterità e del Principio trovano altresì una loro esplicazione essenziale nell’ontologia re-lazionale del pensatore francese.

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Con il saggio di Gianluca Cavallo ci ritroviamo invece in un ambito strettamente politico che tuttavia non intende rinunciare ad una analisi di tipo ontologico per quel che riguarda il tema del riconoscimento dei diritti all’interno della comunità umana. Infatti l’autore affron-ta criticamente le riflessioni di MacIntyre sul tema dei diritti umani per vedere se, a partire dalla rilettura della filosofia aristotelico-tomistica operata dal pensatore, sia possibile una fondazione ontologica degli stessi. In particolare l’autore sottolinea come i diritti umani sia-no criticabili da un punto di vista strettamente liberal-proceduralistico, giungendo a rivalu-tare positivamente in particolare la “regola d’oro” come principio etico-teleologico in grado di dare un contenuto costituente una sorta di “legge naturale” alla base dei diritti formulabi-li storicamente. Da questo punto di vista è quindi importante il contributo aristotelico-tomista, nella misura in cui è in grado di mettere al centro la dimensione relazionale in di-rezione del bene comune. Cavallo propone a fondamento di una rinnovata teleologia in poli-tica l’“ontologia relazionale” di MacIntyre.

Il contributo di Crivella propone all’attenzione un elemento fondamentale che entra a condizionare l’“essere” dell’“altro”: ovvero il “tragico”. Come già aveva avuto modo di evi-denziare P. Ricoeur nel suo capolavoro Sé come un altro il “tragico dell’azione” costituisce un momento fondamentale nell’analisi del sé alla ricerca drammatica di un radicamento on-tologico. Da questo punto di vista il saggio di Crivella dedicato al Caligola camusiano costi-tuisce un importante punto di riflessione che intercetta l’esigenza di considerare una rela-zione impossibile che si inscrive nella dinamica tragica del potere come cancellazione nichi-listica di ogni alterità. Così l’autore mette in relazione il dramma di Caligola con altre due opere fondamentali del pensatore francese: Il mito di Sisifo e L’uomo in rivolta sottolinean-do come la dimensione dell’“uomo assurdo”, tipica dell’esistenzialismo di Camus, prenda forma nelle vesti del tirannico imperatore romano.

Il saggio di Federico Croci procede ad una serrata analisi in particolare del Sofista plato-nico con l’intenzione di enucleare la dinamica aporetica che qui viene ad esprimersi nel rapporto tra identità e differenza. L’autore fa notare come il difficile rapporto tra ente e non-ente, così come si presentava problematicamente a partire da Parmenide, venga letto platonicamente in maniera rinnovata, all’interno di una dinamica in cui “identità” e “diffe-renza” si intrecciano in modo indissolubile, creando così una trama metafisica all’interno della quale la negazione gioca un ruolo mai meramente “negativo” quanto piuttosto coes-senziale alla trama dell’essere. nel saggio la questione sul tema dell’identità e della differen-za viene affrontata anche negli esiti dell’ontologia aristotelica, che nel tentativo di risolverle, rinnova le aporie platoniche.

Il lavoro di Giampaolo Loffredo affronta il tema della “differenza ontologica” nel pensie-ro schopenhaueriano, riprendendo una prospettiva heideggeriana che fa da sfondo a tutto il saggio e che costituisce una chiave di lettura importante, in grado di restituire al pensatore di Danzica quello spessore ontologico che troppo spesso un lettura “esistenzialista” tende ad

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occultare. L’autore così intende mettere in evidenza come la dimensione della Noluntas piuttosto che quella della “volontà di vivere” costituisca il vero nucleo tematico dell’opera schopenhaueriana. Solo a partire da questa dimensione che si palesa nel finale del capola-voro schopenhaueriano è possibile, anzi doveroso, rileggere tutta la sua dottrina sulla soglia di una Überwindung radicale in cui tutta la metafisica del Wille si trasvaluta. La Noluntas schopenhaueriana è quindi ciò che pone, a detta dell’autore, sulla soglia di questo oltrepas-samento a partire da cui si dischiude una radicale “differenza ontologica” che, sola, permet-te una rilettura sensata del Mondo, oltre le numerose contraddizioni che vi si possono trop-po facilmente rinvenire, laddove si riducesse Schopenhauer a “pensatore della volontà”.

Con il saggio di Federica Malfatti abbiamo invece un approccio puramente fenomenolo-gico al problema dell’alterità. L’autrice infatti prende spunto dalle considerazioni cartesiane sul tema del Cogito così come vengono presentate nelle Meditazioni cartesiane. L’analisi si incentra in particolar modo sul significato del darsi del mondo come alterità in Husserl, in-terrogandosi sul senso radicale di questa alterità a partire dall’epochè fenomenologica. Il saggio sviluppa la critica husserliana alla soggettività tradizionalmente intesa per giungere al significato della costituzione fenomenologica come termine di riferimento dell’analisi. È quindi a partire da questo punto che viene presentato problematicamente il tema dell’“alterità” e il suo significato per il soggetto. La stessa problematica della relazione inter-soggettiva propriamente scaturisce dall’esigenza di mostrare come non si dia mai un rap-porto singolare e solipsistico tra io e mondo, quanto piuttosto una relazione condivisa tra più soggetti. L’alterità diviene quindi una modalità essenziale inscritta nel soggetto mede-simo ma che si presenta sempre problematicamente ad un soggetto sempre centrato nel suo ego. Proprio per questo l’autrice sottolinea come l’alterità nella prospettiva della fenomeno-logia husserliana non si dia mai tematicamente, ma sempre come una zona d’ombra, come un’assenza che permane al di là della presentazione dell’oggetto.

Su altri sentieri ancora ci conduce il saggio di Giulia Maniezzi che scandaglia il senso dell’alterità in Valdimir Jankélévitch. Il filosofo francese di origini russe viene qui preso in considerazione facendo particolare attenzione al rapporto sussistente tra la sua ontologia e il senso dell’alterità di cui essa si fa portatrice. Per l’autrice, infatti, la filosofia di Jankélévitch è incentrata sull’evento come luogo di rottura della continuità definitoria tipica della metafisica occidentale, la quale ha nella maggior parte dei casi operato in direzione di una “determinazione” definitoria dell’essere, ignorando quell’eccedenza che all’essere stesso appartiene come quel di più che misteriosamente lo “fa” essere e lo mette in opera. In que-sto senso la cosiddetta “filosofia prima” di cui la metafisica si attribuisce il titolo, in realtà è sempre “seconda”, perché cercando di attingere l’essere in maniera concet-tualmente defi-nitoria, tralascia “il fatto” che esso sia, ovvero quello stupore riguardante l’interrogazione fondamentale circa l’essere e il nulla. Una “ontologia dell’alterità”, costituisce per l’autrice la più intima essenza della filosofia di Jankélévitch.

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Col saggio di Andrea Sacconi, poi, si rimane in ambito francese, sviluppando una analisi della interpretazione derridiana di Nietzsche. In particolare, l’autore mette in evidenza co-me l’attenzione riservata da Derrida al pensatore tedesco conduca ad una caratterizzazione di Nietzsche come pensatore dell’alterità, in netta contrapposizione con l’interpretazione heideggeriana che vedeva nel filosofo di Röcken l’ultimo canto della metafisica occidentale e del suo “oblio della differenza ontologica”. Secondo la lettura offertaci da Sacconi, infatti, Derrida ha messo in evidenza come il pensiero di Nietzsche, nel suo stesso incedere fram-mentario e aforismatico, costituisca un via di accesso a quell’Altro che non ha dimora nella filosofia occidentale, ma che ne costituisce l’inevitabile presupposto. Da questo punto di vi-sta per Derrida, Nietzsche sarebbe il pensatore che prima di tutti ha tentato di andare oltre la “presenza”, riuscendo a pensare ciò che è in grado di irrompere oltre il linguaggio metafi-sico e a guardare oltre di esso. Il “pensiero del forse” diviene così l’elemento che per l’autore del saggio permette a Derrida di cogliere in Nietzsche l’iniziatore della critica della presenza e l’iniziatore di un pensiero dell’alterità.

Un altro aspetto del rapporto essere-altro è poi affrontato con differente impostazione nell’ampio saggio di Danijel Tolvajčić, che affronta il concetto di trascendenza in Jaspers a partire dal tema della “fede filosofica” e della questione teologica che nel pensatore tedesco risulta essere problematica. L’argomento affrontato risulta di particolare importanza, nella misura in cui tenta di portare in luce l’attualità speculativa del pensiero jaspersiano e la sua impostazione prettamente metafisica. L’autore sottolinea come la lettura che Jaspers dà di Kant non concluda nell’agnosticismo, quanto piuttosto in una metafisica di carattere esi-stenziale, incentrata su quella che viene appunto definita “fede filosofica”. Da questo punto di vista l’autore del saggio pone in evidenza il carattere profondamente metafisico della spe-culazione jaspersiana, facendo riferimento soprattutto agli ultimi testi della produzione del pensatore tedesco, evidenziando come la questione teologica stessa trovi in Jaspers un im-portante centro di riflessione, a partire dall’intendimento della “cifra” “Dio”. Tale teologici-tà del pensiero jaspersiano può essere quindi ritrovata, oltre i limiti del dire umano, caratte-rizzato dalla dimensione apodittica e definitoria, in un linguaggio in grado di accennare ad una alterità irriducibile e inoggettivabile, autenticamente trascendente, che si lascia cogliere solo all’interno di una domanda esistenziale radicale che intende confrontarsi col tema “Dio”.

Il saggio di Furia Valori, infine, affronta criticamente la particolare riflessione riguardo all’alterità elaborata nell’ontologismo critico di Pantaleo Carabellese. A questo scopo l’autrice focalizza l’attenzione sulla seconda parte dell’ultimo sistema L’Essere e la sua ma-nifestazione, intitolata significativamente Io, che costituisce la più ampia e matura tratta-zione della soggettività molteplice condotta dal filosofo. Qui è contenuto un interessante sviluppo del concetto di alterità che riceve luce all’interno della concezione carabellesiana dell’“Essere di coscienza puro” che “esige”, per esser tale, il nesso fra Oggetto puro, ossia

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Dio, e soggettività molteplice. Il soggetto, in quanto esistente necessariamente – il Carabel-lese ripensa la lezione cartesiana – implica per lui altrettanto necessariamente l’altro, che è sempre un altro io. In questa riflessione diviene stringente il suo confronto critico con Fi-chte il cui io assoluto si identifica in toto con la coscienza, riducendo l’oggettività a nega-zione; così l’io fichtiano è in realtà il solo che cade nel nulla del non pensare. Il Carabellese rivendica l’immaterialità dei soggetti nella loro purezza apriori, la loro infinita penetratività e identità, senza però indicare come possano differenziarsi l’uno dall’altro. La Valori pone in evidenza il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto; nello stesso tempo os-serva che il Carabellese si involge in una sorta di circolo vizioso fra Dio e io molteplice, in quanto se da un lato Dio nell’Essere coscienziale è la qualità infinita di cui l’io è terminazio-ne, moltiplicazione/alterazione, dall’altro a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.

Nel complesso, quindi, i percorsi dell’intreccio fra alterità e discorso ontologico presenta-ti possono costituire un valido contributo alla discussione e il punto di partenza per ulteriori sviluppi. In ogni caso la dimensione della relazionalità così come si pone all’interno della questione ontologica costituisce un nucleo tematico ricco di declinazioni a cui si spera que-sto numero della rivista possa aver dato un contributo significativo.

M. C., F. V.

Dall’essere al dono Annalisa Caputo

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Dall’essere al dono. Paul Ricœur e le sfide dell’ontoteologia Annalisa Caputo

From Being to Gift. Paul Ricœur and the Challenges of the Ontotheology Abstract Can we consider Paul Ricoeur as exponent of the history of ontology? As we known, ricoeurian Scho-lars are divided regarding this issue. In the past they have taken seriously Ricoeur's idea of ontology as “promised land” that you can only “see before you die”. However, there are scholars who, recently, have considered “ontology as guide of his adventure”. The aim of this essay is to reconcile this “her-meneutic conflict” through a historical contextualization and to analyze the last Ricoeur’s phase, in which – we believe – the classical onto-theology is rethought in the direction of an ontology of gift.

Keywords: Ricœur; Ontology; Metaphysics; Otherness; Gift. ***

Premessa: Ricœur e l’ontologia Se «ontologia vuol dire dottrina o teoria dell’essere»1, possiamo considerare P.

Ricœur come un esponente dell’ontologia? Possiamo rintracciare, se non proprio una dottrina, per lo meno una questione ontologica in Ricœur?

Si tratta di domande non retoriche, se è vero che, nelle risposte, la critica è divisa su fronti diversi. Tradizionalmente si è presa sul serio l’affermazione ricœuriana dell’ontologia come “terra promessa” che si può solo «scorgere prima di morire»2; in questa prospettiva, la filosofia di Ricœur si mostra coerentemente “solo” come un’antropologia ermeneutica (al di là, o al di qua, delle questioni ontologiche).

                                                                                                                         1 P. Ricœur, Ontologie, in Encyclopedia Universalis, Paris, 1972 (XII), p. 94. 2 P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni (1969), tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Ja-ca Book, Milano 1977, p. 37. Per una sintesi sulla letteratura secondaria, cfr. F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma-Bari 2007 e D. Iervolino, Introduzione a Ricœur, Morcelliana, Brescia 2003.

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Dall’altro lato, di recente, non mancano studiosi che, scavando al di sotto delle tra-dizionali categorie storico-filosofiche e lavorando negli interstizi del pensiero ricœuriano, giungono a considerare l’«ontologia come guida fedele dell’avventura di Ricœur»3.

Le interpretazioni sono per certi versi tutte legittime, legittimate dal fatto che il pensiero di Ricœur non è sistematico né tantomeno monolitico. Il che, però, non vuol dire contraddittorio. A nostro avviso è possibile, infatti, conciliare questo “con-flitto” ermeneutico, attraverso un’opportuna contestualizzazione storica. Dati i limiti di questo lavoro, ci limiteremo ad assumere e proporre, in maniera schematica, una suddivisione orientativa del pensiero ricœuriano in tre fasi: la prima che possiamo far culminare con la trilogia (incompiuta) sulla filosofia della volontà (anni ’50 e ’60); la seconda (fase propriamente ermeneutica: anni ’70 e ’80), che possiamo far arrivare fino a Sé come un altro: opera di soglia, rispetto all’ultima fase, che – a no-stro avviso – può corrispondere agli anni ’90 del Novecento e arrivare fino a Percor-si del riconoscimento (2004) 4 . In ognuna di queste fasi abbiamo un’auto-comprensione diversa del compito della filosofia, un’attenzione ad ambiti e temati-che differenti, e, di fatto, anche un modo diverso di intendere il rapporto tra “pen-siero”, “essere”, “alterità”.

Il nostro obiettivo è arrivare all’ultima fase, in cui la proposta di Ricœur ci appare maggiormente originale, sia pur nell’anti-sistematicità della ricerca: la proposta di un ripensamento dell’onto/teologia classica, nella direzione di un’ontologia del do-

                                                                                                                         3 L. Herrerías Guerra, Espero estar en la verdad. La búsqueda ontológica de P. Ricœur, Gregoriana, Roma 1996, p. 5. Ma cfr. anche, tra quelli che sottolineano la presenza di un’ontologia in Ricœur, O. Aime, Senso e essere. La filosofia riflessiva di P. Ricœur, Cittadella ed., Assisi 2007; V. Brugiatelli, La relazione tra linguaggio ed essere in Ricœur, Uniservice, Trento 2009; J. M. Heleno, Her-menêutica e ontologia em P. Ricoeur, Instituto Piaget, Lisbona 2001; D. Iannotta, Frammenti di let-tura. Percorsi dell’altrimenti con P. Ricœur, Aracne, Roma 1998 (p. 10 : «un’ontologia spezzata: […] ontologia ermeneutica in senso proprio»); F. Sarcinelli, L’ontologia del non-ancora in P. Ricœur e in E. Bloch, in «Lo sguardo», 2013 (II, 12), pp. 179-193; J.P. Skúlason, Le cercle du sujet dans la philo-sophie de Paul Ricœur, L’Harmattan, Paris 2001 (p. 319: un’ontologia indiretta e spezzata). 4 La scansione che scegliamo nasce come mediazione tra le diverse proposte critiche. È nota la scelta di J. Greisch, che nel suo P. Ricœur: l’itinérance du sens, Millon, Grenoble 2001, distingueva la fase “Ermeneutica I” (1960-1970) e “Ermeneutica II” (1975-1990); a cui, oggi, sappiamo di poter aggiun-gere una Ermeneutica III. D’altra parte, per confermare questa ipotesi, sarà sufficiente richiamare i testi “autobiografici” di P. Ricœur, Riflession fatta (1995), tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1998; La critica e la convinzione (1995), tr. it. di D. Iannotta, Jaca Book, Milano 1997. Su questo ci permettiamo di rinviare al nostro A. Caputo, Io e tu. Una dialettica fragile e spezzata. Percorsi con P. Ricœur, Stilo, Bari 2009.

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no, sulla soglia della quale, paradossalmente, tornano ad incrociarsi la questione dell’essere umano e la questione dell’essere Primo.

Ma per comprendere la fecondità del lascito ricœuriano è indispensabile com-prendere che cosa il pensatore francese intenda per ontologia nelle diverse fasi del suo percorso.

1. La questione dell’essere nella “Filosofia della volontà”: tra ontologia e Poetica L’avventura de La filosofia della volontà termina là dove l’ermeneutica del sim-

bolo doveva “volgersi” verso l’essere.

«Fingiamo di credere che il “conosci te stesso” sia puramente riflessivo, mentre è anzitut-to un appello attraverso il quale ciascuno è invitato a situarsi meglio nell’essere. […] Il sim-bolo ci parla in fondo come indizio della situazione dell’uomo al centro dell’essere nel quale si muove, esiste e vuole. Il compito del filosofo guidato dal simbolo sarà allora quello di spezzare il recinto incantato della coscienza di sé, infrangendo il privilegio della riflessione. Il simbolo “dà da pensare” che il Cogito è all’interno dell’essere e non l’inverso»5. L’ontologia è la meta di quella che Ricœur chiama una «seconda rivoluzione coper-nicana»6. Se la modernità, da Copernico in poi, mettendo al centro il soggetto, ha dimenticato di pensare l’essere, l’ermeneutica dovrà porre nuovamente il soggetto nell’essere. Là dove “l’essere” qui è evidentemente la pre-condizione ontologica di ogni realtà. Con echi heideggeriani, Ricœur ricorda come «la filosofia senza presup-posti» sia una «chimera». Ogni nostro iniziare è posto in un’origine che ci precede. E questa origine non è tale solo dal punto di vista temporale, ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’arché fondativo. L’ermeneutica, infatti, «installa l’uomo a ti-tolo preliminare all’interno del suo fondamento: e a partire da qui incarica la rifles-sione di scoprire la razionalità del suo fondamento»7.

Lo studio di questo “essere” (Pre-dato, Origine, Fondamento), però, Ricœur non lo chiama nella Filosofia della volontà né ontologia, né teologia, né metafisica, bensì “Poetica”.

                                                                                                                         5 P. Ricœur, Finitudine e colpa (1960), tr. it. M. Girardet, Il mulino, Bologna 1970, pp. 632-633. 6 Id., Filosofia della volontà I: Il volontario e l’involontario (1950), tr. it. Di M. Bonato Marietti, Ge-nova 1990, p. 35. 7 P. Ricœur, , Il simbolo dà a pensare (1959), tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2002, p. 39; ma, in termini simili, cfr. anche Id., Finitudine e colpa, cit., p. 634.

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«Il compimento dell’ontologia del soggetto esige un nuovo cambiamento di metodo, l’accesso ad una sorta di “Poetica” della volontà in accordo con le nuove realtà da scoprire. Nel senso più radicale del termine, la poesia è l’arte di ammaliare il mondo della creazione. In realtà l’ordine della creazione è ciò che viene tenuto in sospeso dalla descrizione. […] In rapporto alla prima rivoluzione copernicana, la poetica della volontà deve apparire come una seconda rivoluzione copernicana che decentra l’essere, senza tuttavia ritornare ad un regno dell’oggetto»8.

La scelta del termine è eloquente. Parlare di “ontologia” significherebbe “oggetti-

vare” l’essere, sostanzializzarlo, concettualizzarlo, razionalizzarlo: e dunque perder-lo. La poesia, invece, e dunque il metodo della poetica, si limita ad “evocare”; e la-scia intatto, nella sua inattingibilità, quel Pre-dato, quell’Origine, che, in fondo, se-condo Ricœur, è “mistero” 9.

Forse, proprio per questo, la ricerca di Ricœur naufraga. Con uno scacco parago-nabile all’interruzione heideggeriana di Essere e tempo, la ricerca ontologica ricœuriana si arresta – nella Filosofia della volontà – proprio lì dove avrebbe dovu-to iniziare il suo “discorso”10. Le parole vengono meno. «La Poetica della Trascen-denza non l’ho mai scritta se, sotto questo titolo, ci si aspetta qualcosa come una fi-losofia della religione, in mancanza di una filosofia teologica. La mia cura, mai atte-nuata, di non mescolare i generi, mi ha piuttosto avvicinato alla concezione di una filosofia senza assoluto»11.

Una svolta: la scelta di un filosofare agnostico, che porterà Ricœur sempre più a distinguere il “polo biblico” da quello “razionale-critico”, l’ambito religioso da quello filosofico. Una sorta di «divieto di soggiorno di Dio in filosofia»12, che, in qualche maniera, diventa anche un divieto di soggiorno del tema dell’Essere nella filosofia, divieto posto proprio per superare i limiti della ontoteologia tradizionale.

Secondo Ricœur, infatti, l’ontologia e la teologia (metafisiche) sono cadute nello stesso errore: pretendere di dire l’origine, il fondamento: ipostatizzarlo; l’ontologia

                                                                                                                         8 P. Ricœur, Filosofia della volontà I, Il volontario e l’involontario, cit., pp. 33; 35. 9 In questo, il primo Ricœur fa sua la lezione di Marcel e Jaspers: cfr. G. Marcel et K. Jaspers. Philo-sophie du mystère et philosophie du paradoxe, Temps présent, Paris 1948. 10 P. Ricœur, Finitudine e colpa, cit., p. 604. La Poetica, intorno alla quale doveva essere intessuto il terzo volume della Filosofia della volontà, Ricœur non la scriverà mai. 11 P. Ricœur, Riflession fatta, cit., p. 37. «La terza parte doveva trattare del rapporto del volere uma-no con la Trascendenza, termine evidentemente jaspersiano, che designava pudicamente il dio dei filosofi; […] doveva allargarsi in una poetica delle esperienze di creazione e ri-creazione miranti ad una seconda innocenza» (ibidem). 12 P. Ricœur, La critica e la convinzione, cit., pp. 25, 210.

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sostanzializzandolo in un Essere trascendente; la teologia razionale immaginando Dio come questo Essere, afferrabile dalla ragione, mero oggetto di riflessione.

L’agnosticismo dell’ermeneutica ricœuriana, rispetto ad esse, si pone come epo-ché: come soglia di auto-censura. In questo senso comprendiamo la famosa espres-sione presente ne Il conflitto delle interpretazioni: «l’ontologia è una terra promes-sa per una filosofia che comincia col linguaggio e con la riflessione; ma, come Mosè, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»13.

Non è un rifiuto della questione dell’Essere/Principio (da un lato) o di Dio (dall’altro lato), ma è un silenzio di rispetto: rispetto dei limiti del pensiero e dell’eccedenza dell’Origine.

Il “professor” Ricœur, dunque, sceglie di dedicarsi a questa ermeneutica del limi-te: nel deserto dell’esodo. È questa la fase più nota del suo pensiero: il ripensamento della fenomenologia, la scoperta della via lunga dell’interpretazione, il dialogo con le scienze, l’attenzione al tema del linguaggio. Come si pone in questo contesto il pro-blema dell’essere?

2. Dalla Ontologie del 1972 a Soi-même comme un autre: nella storia della meta-fisica, l’irruzione dell’ontologia dell’alterità Acquista un valore decisivo, a riguardo, l’articolo scritto da Ricœur nel 1972 per

l’Encyclopedia Universalis. Si tratta proprio della voce Ontologia. Interessante per una serie di ragioni. Primo: perché “costringe” Ricœur a ricollocare la questione dell’essere “dentro” la filosofia e non ai suoi margini ineffabili; secondo: perché – trattandosi di una voce da enciclopedia – offre una sintesi chiara ed efficace del pen-siero di Ricœur sull’ontologia negli anni ’70.

Ma, a queste ragioni più interne al pensiero ricœuriano, possiamo aggiungerne un’altra, più esterna, che riguarda il valore in sé delle riflessioni ricœuriane. Ci sem-bra infatti di poter cogliere già in questo articolo una forma di originalità, che rende le pagine ricœuriane, non tanto una voce compilativa, ma uno squarcio interrogati-vo: profondamente teoretico.

Quale, infatti, la posta in gioco dell’articolo? Ricœur la dichiara subito, già nella “colonna” introduttiva: è il rapporto tra storia dell’ontologia e storia della metafisica e, dunque, la possibilità di «dare un senso non metafisico alla questione dell’essere»14.                                                                                                                          13 P. Ricœur, Il conflitto delle interpretazioni, cit., p. 37. 14 P. Ricœur, Voce Ontologie, in Encyclopedia Universalis, vol. XII, p. 94.

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È sufficiente anche solo una banale giustapposizione tra la posizione di Ricœur e quella del “secondo” Heidegger, per rendersi conto dello scarto. La storia della me-tafisica è solo una parte della storia dell’ontologia. L’ontologia non coincide con la metafisica.

Ma questo è già “altro” anche rispetto alla Filosofia della volontà. Il Ricœur er-meneutico, liberatosi dal timore di far coincidere “Principio”, “Essere” e “Dio”, è ora in grado di distinguere tra l’ontoteologia (che per lui coincide con metafisica) e l’ontologia.

Lo schema dell’articolo è molto chiaro in questo. Nella prima sezione (Metafisica e ontologia), Ricœur ripercorre la storia di questa sovrapposizione, che trova la sua origine nell’Antichità (Parmenide, Platone, Aristotele15) e il suo sugello in Kant16. Nelle tre sezioni seguenti, invece, vengono presentati tre ambiti in cui la questione ontologica si (ri)propone nel Novecento, in maniera non metafisica: Scienza e onto-logia; Linguaggio e ontologia; Fenomenologia e ontologia. Non è difficile ricono-scere in questi tre ambiti gli interessi dell’ermeneutica ricœuriana: che quindi pro-pone se stessa come modello di ontologia, un’ontologia che si dice al plurale, come ontologia regionale, ossia come la questione

- della realtà degli oggetti scientifici, - del pre-linguistico nel linguaggio, - dell’alterità al-di-là dell’essere. Quest’ultima è l’esperienza della fenomenologia francese, che si annuncia in E.

Levinas, M. Henry e J. Derrida; ed è questa la “linea” sulla quale Ricœur conclude l’articolo, evidentemente ponendo in questo solco la propria ricerca e le proprie domande.

È spalancata qui, in germe, l’ontologia di Sé come un altro. Un’onto/antropologia più che un’onto/teologia. Un’ontologia del Sé che trova il suo fondamento nell’alterità: e, in questa maniera e in questa misura, supera la metafisica della me-desimezza, che aveva schiacciato l’essere sull’identità.

                                                                                                                         15 Per la ricostruzione dell’ontologia antica da parte di Ricœur è imprescindibile il riferimento al cor-so tenuto da Ricœur nel 1953-54: Essere, essenza e sostanza in Platone e Aristotele, tr. it. di L. M. Possati, Mimesis, Milano 2014. 16 Secondo Ricœur, è Kant che, ripensando la storia della filosofia nella logica di una coincidenza tra storia dell’essere e storia della metafisica (e ponendosi al di là di questa coincidenza), apre il proble-ma di capire «se sia possibile un’ontologia senza metafisica».

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È sin troppo nota la posizione ricœuriana di questa fase; ci sarà sufficiente ri-chiamarla brevemente. Nell’opera del 1990, il tema dell’alterità viene declinato – possiamo dire schematicamente – in una triplice direzione:

- “il sé come altro in sé”: la passività che abita nel cuore dell’io, il corpo pro-prio, limitato, sofferente, fragile;

- “l’altro come altro-sé”: i tu, gli amici, i vicini con cui condividiamo la vita; ma anche i ‘ciascuno’, gli sconosciuti, gli altri che, come noi, condividono il mon-do e la storia;

- e infine l’“Altro come il totalmente Altro”: fonte di un’ingiunzione che ci pre-cede (sia essa semplicemente quella degli antenati, sia essa lo sguardo di un Dio, sia essa un posto vuoto).

L’intreccio di questi livelli d’alterità ci consegna la proposta di un’ontologia della persona decisamente originale: al di là dell’idem (il soggetto tradizionale, in cui l’essere è medesimezza invariabile, perennemente uguale a se stessa, sottratta al tempo e alla finitezza), al di là dell’anti/idem (la morte del soggetto, annunciata dai maestri del sospetto, in cui l’essere è fumo che svapora, e l’unica invariante è la pe-renne dissoluzione, l’impossibilità di un’identità e dunque di un’ontologia), “tra” idem e anti-idem, si colloca la promessa dell’“ipseità”: il tentativo, che ognuno di noi fa, di costruire se stesso in un’identità narrativa, fragile e spezzata, con la consape-volezza di non essere un tutto, ma nemmeno un niente. E che quello che sarò, sarò io a deciderlo: a partire da ciò che posso e da ciò che non posso: nella mia responsa-bilità ma anche in tutto ciò che non dipende da me: e che comunque sarò io ad as-sumere e a rendere mia “storia”.

«La dialettica della medesimezza e dell’ipseità risulta immanente alla costituzione onto-logica della persona. […] Lo strumento di questa dialettica è la costruzione dell’intreccio che, da un pulviscolo di eventi ed episodi, ricava l’unità di una storia. […] Il concetto di identità narrativa, con il quale definisco la coesione di una persona nella concatenazione di una vita umana, […] si sottrae all’aut-aut del sostanzialismo: o l’immutabilità di un nocciolo intemporale, o la dispersione nelle impressioni, come si può notare in Hume e Nietzsche»17.

C’è un’ontologia, dunque, in Sé come un altro. Certo. Ma un’ontologia del Sé. Re-gionale e non metafisica. Onto-antropologica e non onto-teologica. In questo senso, la conclusione del testo del ’90 resta coerente con le premesse di questa seconda fa-                                                                                                                          17 P. Ricœur, La persona (1990), tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 66-68. Su questi temi cfr. M. Buzzoni, P. Ricœur: persona e ontologia, Studium, Roma 1998.

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se. Infatti, sulla terza forma di alterità (l’Altro come origine, come fonte di ingiun-zione), Ricœur sospende il giudizio.

«Forse il filosofo in quanto filosofo, deve confessare che egli non sa e non può dire se

questo Altro, fonte dell’ingiunzione, è un altro che io possa guadare in faccia o che mi possa squadrare, o i miei antenati di cui non c’è punto rappresentazione, tanto il mio debito nei loro confronti è costitutivo di me stesso, o Dio – Dio vivente, Dio assente – o un posto vuo-to. Su questa aporia dell’Altro si arresta il discorso filosofico»18.

Riteniamo, però, come detto all’inizio, che sia possibile scandire una terza fase del pensiero ricœuriano, che si snoda proprio a partire dalla fine degli anni ’80 e sempre più chiaramente negli ultimi quindici anni della sua esistenza. Una fase che ci piace ripensare come il compimento (fragile e spezzato) di quella seconda rivolu-zione copernicana, annunciata e non portata a termine dalla Filosofia della volon-tà19, una fase Poetica, in cui il ripensamento del tema dell’Origine e del “Fondamen-tale” passa attraverso il ripensamento delle tematiche del dono e della sovrabbon-danza. Un ripensamento che rimette in gioco le barriere concettuali e disciplinari, e dunque anche la questione dell’ontologia e dell’Alterità.

3. L’ontologia del dono come soglia “tra” antropologia e teologia Se il rischio dell’ontoteologia metafisica era quello di identificare l’essere con Dio

(e ipostatizzare entrambi), la Filosofia della volontà – con il suo desiderio di scrive-re sul Trascendente – aveva sfiorato questo rischio. E solo il silenzio e l’interruzione del progetto avevano schivato il pericolo.

Il cammino nel deserto dell’ermeneutica ha liberato, però, Ricœur dai timori dell’idolatria. L’articolazione delle ontologie regionali ha consentito di distinguere, senza mescolare, i molteplici significati dell’essere.

Ora, al termine del percorso, la terra promessa non è più un miraggio, bensì una possibilità. La filosofia può non soltanto scorgerla, ma tornare a scrivere di essa: tornare a scrivere sull’Origine, tornare a scrivere di ontologia e di teologia: non uni-ficandole nell’analisi metafisica di un Essere trascendente; non escludendole per principio l’una rispetto all’altra, ma rimanendo sulla soglia: là dove i linguaggi si                                                                                                                          18 È il noto finale di Sé come un altro (1990), tr. it. di D. Iannotta Jaca Book, Milano 1993, p. 473. 19 Ci permettiamo su questo di rimandare al nostro A. Caputo, A Second Copernican Revolution. Phenomenology of the Mutuality and Poetics of the Gift in the Last Ricœur, in «Studia Phaenome-nologica», 2013 (XIII): On the Propter Use of Phenomenology – P. Ricœur Centenary, ed. by O. Abel and P. Marinescu, pp. 231-256.

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fanno “traducibili”, là dove gli orizzonti possono dialogare, là dove il «già-sempre-esistente» è “prima” per entrambe, là dove «il dato si svela dono» per entrambe, là dove «l’origine è miracolo» per entrambe: nella loro alterità.

Ci sia consentita, per chiarire questa proposta interpretativa, una lunga citazione da La critica e la convinzione (1995):

«Tengo ad affermare un duplice riferimento, che è assolutamente primario per me […]: il rapporto tra convizione e critica. […] In un certo momento della mia vita, una trentina di anni or sono [la metà degli anni ’60 – n.d.A.], sotto l’influenza di K. Barth, ho spinto molto avanti il dualismo, fino a promulgare una sorta di divieto di soggiorno di Dio in filosofia. In-fatti sono sempre stato diffidente nei confronti della speculazione che si chiama ontoteolo-gica, e ho reagito in maniera critica a qualsiasi fusione tra il verbo essere greco e Dio, mal-grado Es 3,14. La diffidenza rispetto alle prove dell’esistenza di Dio mi aveva spinto a tratta-re sempre la filosofia come un’antropologia – è ancora il termine che ho utilizzato in Sé come un altro […]. Forse avevo anche altre ragioni per proteggermi dalle intrusioni, dalle infiltrazioni troppo dirette, troppo immediate del religioso nel filosofico; erano ragioni cul-turali, direi perfino istituzionali: tenevo molto ad essere riconosciuto come professore di fi-losofia, che insegna la filosofia in un’istituzione pubblica e parla il discorso comune. […] Ma si possono trovare nei due registri delle analogie che possono diventare affinità, e io le as-sumo, poiché non credo di essere il maestro del gioco, e nemmeno il maestro del senso. Le due mie dipendenze mi sfuggono sempre, anche se talvolta si fanno reciprocamente cenno. Ci troviamo a questo punto di intersezione [il filosofico e il religioso] senza averlo scelto. E per noi è un compito dato il far comunicare registri distinti […]. È ciò che oggi direi, dopo aver difeso per decine di anni, talvolta astiosamente, la distinzione dei due registri. Credo di essere sufficientemente avanzato nella vita e nell’interpretazione di ciascuna di queste due tradizioni, per arrischiarmi sui luoghi della loro intersezione. Uno di questi è […] l’economia del dono»20.

Non si tratta dunque di tornare a confondere ontologia e teologia nell’ontoteologia, ma di far dialogare ermeneutica filosofica ed ermeneutica biblica, sulla soglia di ciò che le accomuna. Perché «non siamo i maestri del gioco»: e così come non possiamo forzare metafisicamente la loro sovrapposizione, non possiamo forzare razionalisti-camente la loro contrapposizione.

E negli interstizi emerge una tematica: quella del dono21. Tematica che ci sembra possa andare ad indicare un nuovo modello di ontologia: al confine tra antropologia e Poetica.

                                                                                                                         20 P. Ricœur, La critica e la convinzione, cit., pp. 197; pp. 210-11; p. 223. 21 Cfr. ivi, p. 223.

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Che cosa significa, dal punto di vista antropologico, ripensare l’uomo nella logica del dono? Significa acquisire la consapevolezza che “il nostro essere” prima e più che medesimezza e ipseità, «è originariamente un essere dato/donato».

In Percorsi del riconoscimento (2004), reinterpretando alcune pagine hegeliane alla luce delle suggestioni di J. Taminaux e A. Honneth, l’ultimo Ricœur approfondi-sce in questa direzione la tematica della “filiazione”. “Siamo” perché “siamo nati”; siamo nati perché “altri” ci hanno preceduti e fatti nascere. «Maschile e femminile sono tra le invarianti che strutturano il nostro essere-al-mondo secondo il modello familiare: ciascuno di noi è nato dall’unione di un uomo e una donna»22. L’essere umano è innanzitutto un figlio. La “filiazione” è la figura fondamentale e primaria del riconoscimento di sé. Simbolo efficace di questo dono d’essere, di questa discen-denza d’essere è l’albero genealogico. Possiamo immaginarlo con le radici verso l’alto; con una doppia radice, un doppio ramo: la linea materna e quella paterna. Li-nee che risalgono la catena delle generazioni, fino al primo uomo e alla prima don-na. Un albero con origini che si perdono nella storia stessa dell’umanità. E, in quest’albero, come frutto e come eventuale nuovo ramo, il nome di ciascuno di noi; e, prima ancora, il nostro cognome, la nostra identità, istituita anche “civilmente”, che ci ricorda che siamo “figli di”.

Questa è la nostra prima e indiscutibile forma di identità. Possiamo non essere padri, non essere madri, non essere fratelli o sorelle. Ma mai nessuno potrà toglierci il nostro essere figli: «inestimabile oggetti di trasmissione»23. L’essere dell’uomo non è innanzitutto un “io penso”, “io percepisco”, “io agisco”, “io ho diritti e doveri”. Ma è un essere-trasmesso. Il mio essere è il dono di una trasmissione di desideri. Sono un dono, senza prezzo: al di là di ogni prezzo e ogni valore: inestimabile24.

«Il venire al mondo di un essere nuovo è in tal senso senza precedenti: questo, che sono io». Ricœur, citando Hannah Arendt, lo chiama “miracolo”. «Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane dalla sua normale, “naturale” rovina è in definitiva il fatto della natalità»25.

In questo senso, esistenzialmente, il primo dono (e il primo riconoscimento) è quello dei genitori; ed è decisivo. Questo ovviamente, potremmo dire, vale anche i

                                                                                                                         22 P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento (2004), tr. it. di F. Polidori Cortina, Milano 2005, p. 216. 23 Cfr. P. Legendre, L’inestimable objec de la transmission, Fayard, Paris 1985, testo di cui Ricœur si dichiara debitore in queste pagine di Percorsi del riconoscimento (pp. 217 sgg.). 24 Qui il riferimento di Ricœur è a M. Hénaff, Le prìx de la vérité. Le don, l’argent, la philosophie, Ed. Le Seuil, Paris 2002; cit. in Percorsi del riconoscimento, pp. 262 sgg. 25 Ivi, p. 219 (cfr. il testo arendtiano Vita activa, tr. it. di S. Finzi, Bompiani, Milano 1989).

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per figli adottati. Ricœur ricorda come i Romani avessero una particolare cerimonia di “adozione” dei propri figli naturali, quasi a sottolineare che, in ogni caso, la ma-ternità e la paternità non si giocano tanto o solo nella generazione fisica. In realtà «ogni nascita accettata è un’adozione, dal momento che […] il padre, la madre […] ha accettato o scelto di tenere “quel” feto diventato “suo” figlio e di farlo nascere»26.

Ma, ovviamente, già Hegel sapeva che la logica del dono non è solo quella che si gioca tra genitori e figli. In senso lato e ampio, infatti, ogni forma d’amore è una forma di dono. «Gli individui sono l’amore. […] Il loro essere l’uno per l’altro è l’inizio di ciò. […] Il riconosciuto è riconosciuto come avente immediatamente valo-re, mediante il suo essere […]. Nell’amore l’uomo viene necessariamente riconosciu-to ed è necessariamente riconoscente»27.

Per essere, per esistere è decisivo sentirsi riconosciuti, sentirsi amati. È dunque l’amore dell’altro (non necessariamente e solo quello dei genitori: l’amore degli ami-ci, l’amore dell’amante, del compagno, della compagna) che mi fa riconoscere come un io: amato, e perciò inestimabile oggetto di valore.

L’uomo è un essere “bisognoso”. Ma di cosa ha bisogno primariamente? Dell’altro. Di un altro che gli dica: tu. Intuiamo come, nell’interpretazione ricœuria-na di Hegel, ci sia un ripensamento radicale del rapporto tra ontologia e alterità: “essere se stessi in un estraneo” (Hegel); non poter esistere senza l’altro (Ricœur). E questo lo comprendiamo bene se pensiamo alle situazioni di misconoscimento, non-riconoscimento. Se l’altro (l’amico, l’amante) mi “umilia”, si “ritrae”, mi “rifiuta”, mi nega l’“approvazione”, colpisce il mio essere. «Privato di approvazione è come se non esistessi»28. In questo senso, il nostro essere dipende non solo dal dono dell’alterità dei nostri genitori, ma anche dal dono di tutti quelli che ci hanno rico-nosciuti e amati.

Infine, ma in maniera decisiva, Ricœur sottolinea come la costituzione del nostro essere dipenda anche dalla possibilità/capacità di non rimanere solo oggetti passivi, semplici destinatari del dono altrui: ma soggetti amanti a nostra volta, soggetti ca-paci di esperienze di dono, di amore.

L’esperienza più alta che la vita può concedere ad un uomo è, in questo senso, quella della mutualità: mutuo riconoscimento, incontro di due doni, dissimmetria di

                                                                                                                         26 Ivi, p. 218. 27 G. W. F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, citato da Ricœur in Percorsi del riconoscimento, pp. 205-206. 28 Ivi, p. 216.

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una duplice gratuità. L’amore come dono gratuito, infatti, secondo Ricœur, non si scambia mai sullo stesso livello, ma ogni volta cade da un dislivello, dall’Altezza del senza prezzo29.

Infatti, se l’amore è dono, ogni dono autentico è un dono “primo”, un “primo do-no”. Quindi, chi risponde mutualmente all’amore non fa una specie di “restituzio-ne”, di “ricambio” del dono. Il dono di chi risponde autenticamente e mutualmente all’amore non è “secondo” al primo, ma sovrabbondante come ogni origine. Non è legato, vincolato, al primo; ma libero, come ogni gesto gratuito. Può essere “secon-do” dal punto di vista temporale: ma dal punto di vista qualitativo, se autentico, è originario come il primo. Perciò Ricœur parla di un «secondo primo dono»: raro, come l’amore autentico; desiderato e desiderabile come un ottativo mai pre-garantito30.

Per questo, ogni autentico dono è un “rischio”. Si assume il rischio di essere rifiu-tato, di non essere riconosciuto, di non essere accettato, apprezzato. Si consegna alla possibilità della misconoscenza e dell’ingratitudine. Per questo, ogni autentico dono è un’attesa. Un’attesa che resta sempre aperta alla possibilità di una “sorpresa”: la sorpresa di un «secondo primo dono»31. Per questo, ogni autentico dono è gratuità che evoca gratitudine. E gratitudine che chiama nuova gratuità.

“Gratitudine”. Nella lingua francese si usa uno stesso termine (reconnaissance) per dire sia la gratitudine/riconoscenza, che il riconoscimento. Il riconoscimento desta riconoscenza. E solo perché qualcuno “prima” ci ha fatto il dono di essere amati, riconosciuti, ecco che “dopo” anche noi possiamo diventare capaci – a nostra volta – di gratuità.

Si dà, allora, un colpo di scena. Un risvolto paradossale della logica del dono. Che non va (come sarebbe potuto sembrare ad un primo livello) dalla gratuità alla grati-tudine, ma dalla gratitudine alla gratuità. Ma perché tutto questo è importante per il nostro discorso? Perché si tratta di un colpo di scena? Perché, se viene prima la gra-titudine (se prima devo poter dire “grazie” per essere stato amato, e solo di conse-                                                                                                                          29 Su questo, oltre il cap. finale di Percorsi del riconoscimento è da vedere Amore e giustizia (1990), tr. it. di I. Bertoletti, Morcelliana, Brescia 2000. 30 «La generosità del dono suscita non una restituzione che, in senso proprio, annullerebbe il primo dono, ma qualcosa come la risposta ad un’offerta. Al limite, occorre considerare il primo dono quale modello del secondo dono e pensare il secondo dono come una sorta di, se così si può dire, “secondo primo dono”» (Percorsi del riconoscimento, cit., p. 270). «Questi comportamenti riconducono il primo dono al centro del quadro, e questo perché il primo dono diventa il modello del secondo dono» (ivi, p. 259). 31 Ivi, pp. 271 ss.

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guenza posso imparare a mia volta donare e amare), allora questo significa che io non posso mai essere “primo” a riconoscere ed amare. Significa che io sono sempre secondo. C’è sempre una gratuità che “prima” mi ha riempito e preceduto. Io non sono mai un primo donatore, un primo essere. C’è sempre qualcuno che mi precede, c’è sempre un dono che mi precede. Ogni essere, ogni dono, ogni desiderio d’amore è sempre solo risposta, sempre un “secondo primo dono”.

Nel cuore della logica paradossale del dono, ecco, allora che rinasce una domanda dal sapore “metafisico”: qual è l’Origine del dono? Come è possibile che nasca (o che si sia nato, originariamente) un essere, un dono, un desiderio d’amore, se è vero che siamo sempre secondi? Se nessuno di noi può mai essere primo nel dare e nell’amare, da dove proviene l’essere come dono? Esiste un Primo donatore? Oltre l’economia del dono umana, esiste un’economia del dono dell’Origine, nell’Origine? C’è un’Alterità assoluta del dono?

Qui le domande dell’antropologia e quelle dell’esegesi biblica vengono ad interse-carsi. E qui a nostro avviso, anche al di là di Ricœur, sul tema dell’essere come dono si aprano spazi affascinanti e inediti di un nuovo, possibile dialogo tra filosofia e teo-logia.

Forse è possibile rileggere la Genesi come donazione originaria di esistenza. Forse è possibile rileggere la kenosis del Figlio e il comandamento dell’amore verso i ne-mici come il vertice discendente di questo dono d’amore, nell’agape. Forse è possi-bile rileggere l’intera storia come redenzione, come dono di libertà e liberazione; e l’escatologia come la possibilità di risveglio delle promesse incompiute della storia32. «In tal modo, il Dio della speranza e quello della creazione sono, alle due estremità dell’economia del dono, il medesimo Dio»33.

Ma la poetica di questo Dio non è ontoteologia. E perciò non è mai ultimamente dicibile nella prosa umana. Appena afferrabile dai balbetti dell’esegesi e della teolo-gia ermeneutica. Assolutamente impensabile per le e nelle fragili maglie della ricer-ca filosofica.

Qui le risposte dell’antropologia e quelle della teologia tornano a divergere: e la filosofia si mostra ancora più fragile e spezzata: incapace di dire l’Essere come Altro.

                                                                                                                         32 Su questi temi cfr. in particolare A. LaCocque-P. Ricœur, Come pensa la Bibbia (1998), tr. it. Di F. Bassani, Paideia, Brescia 2002; e P. Ricœur, Vivo fino alla morte (2007), tr. it. di D. Iannotta, Effatà, Torino 2008. 33 P. Ricœur, Amore e giustizia, cit., p. 34.

Dall’essere al dono Annalisa Caputo

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Un percorso inutile, allora, il nostro? Forse no. Perché la soglia è guadagnata. E rimanendo su di essa si mostra, comunque, l’originalità di questo ripensamento dell’essere come dono, donato da “altri”. E se la domanda relativa al Primo donato-re, in ogni caso, dal punto di vista filosofico, resta in sospeso34, ora, però, nella logi-ca dell’ultimo Ricœur, quella dell’Altro non è più solo una “aporia”: è una “nuova” ontologia. L’ontologia di un “essere secondo”. L’ontologia di un “essere dato”. L’ontologia di un “essere dono”. Perché… che all’origine ci sia altro è un dato onto-logico. Che io non mi sia fatto da me è un dato ontologico. Che io sia figlio è un dato ontologico. Che io sia perché mi riconosco come desiderato, amato, destinatario di un dono è un dato ontologico. Che l’uomo non sia soggetto autocentrato e autofon-dato ma “inestimabile oggetto di trasmissione” è un dato ontologico. Il dato ontolo-gico è: che siamo una provenienza di desideri, il risultato di una sovrabbondante di-scendenza d’amore, il dono di una trasmissione di vita (data dai genitori, segnata nell’albero genealogico, radicata della storia degli avi). Oltre questo dato, si apre l’enigma dell’origine, enigma che è quello stesso della dono della nascita e della vita.

Miracolo della natalità che, nella sua insondabilità e indicibilità, rende comunque ogni uomo un ‘senza prezzo’ degno di lode.

Una nuova onto-teologia? Forse no. Forse solo il tentativo di ripensare il “tratti-no” che congiunge ontologia e teologia: il tratto di una soglia: tra l’essere umano e l’essere di Dio: in una nuova paradossale analogia: non analogia entis, ma analogia doni. Mai dicibile perché sempre già iniziata.

                                                                                                                         34 Infatti, filosoficamente non è possibile comunque sapere, per riprendere la conclusione di Sé come un altro, se il Primo donatore sia «un altro che io possa guadare in faccia, o i miei antenati, […] o Dio – Dio vivente, Dio assente – o un posto vuoto».

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Legge e diritto naturale in Alasdair MacIntyre Gianluca Cavallo

Alasdair MacIntyre on Natural Rights and Law Abstract This paper focuses on the theme of natural rights, as it emerges from the works of Alasdair Mac-Intyre. In After Virtue he argues that «there are no such rights, and belief in them is one with belief in witches and in unicorns», but in later works he endorsed a thomistic view on natural law, which is compatible with the acknowledgment of universal human rights. MacIntyre’s writ-ings contain the premises for an ontological foundation of natural rights, despite his rejection of any formulation of them. Keywords: Human Rights; Natural Law; Philosophical Antropology; Communitarianism; Mac-Intyre. ***

In questo articolo intendo ripercorrere un tratto dell’itinerario intellettuale di

Alasdair MacIntyre, concentrandomi sul tema dei diritti umani e di una loro possibile fondazione ontologica. Se in Dopo la virtù (1981) egli scriveva che «non esistono diritti del genere, e credere in essi è come credere nelle streghe e negli unicorni»1, in scritti successivi ha sostenuto una concezione tomista della legge naturale, la quale è compatibile con il riconoscimento di diritti umani uni-versali. La ripetuta presa di posizione, da parte di MacIntyre, contro di essi2 è basata implicitamente sull’assunto che «il linguaggio dei diritti non può essere                                                                                                                          1 A. MacIntyre, Dopo la virtù, tr. it. rivista da M. D’Avenia, Armando, Roma 2007, p. 104 (prima edizione italiana: Feltrinelli, Milano 1988). 2 A. MacIntyre, Are There Any Natural Rights?, Bowdoin College, Brunswick (Maine) 1983; Id. Community, Law and the Idiom and Rhetoric of Rights , in «Listening», XXVI, 1991, pp. 96-110. Per una critica a MacIntyre sul tema dei diritti si veda K. Shrader-Frechette, Natural Rights and Human Vulnerability: Aquinas, MacIntyre, and Rawls, in «Public Affairs Quarterly», XVI, 2, 2002, pp. 99-124.

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separato dal contesto liberale in cui è nato»3. Tuttavia, gli scritti stessi del filoso-fo forniscono le premesse per un diverso approccio alla questione, che fornisce maggiore coerenza e forza all’etica che egli ha proposto nel corso degli anni.

1. La negazione dei diritti umani in Dopo la virtù Una delle principali tesi del testo del 1981 è che la modernità si caratterizza

come un susseguirsi di tentativi di fondare la morale, i quali si sono rivelati fal-limentari in quanto basati su premesse non valide perché: 1) astratte (la ragione di Kant); 2) contingenti (le passioni di Hume e Diderot); o 3) soggettive (il pia-cere degli utilitaristi, la scelta esistenziale di Kierkegaard).

Sullo sfondo di queste considerazioni, MacIntyre polemizza con il tentativo di Alan Gewirth di fondare i diritti umani4. La tesi centrale di Gewirth è che un soggetto razionale, individuati i mezzi necessari per portare a termine con suc-cesso un’azione, riterrà di avere diritto a questi mezzi e, per non cadere in con-traddizione con sé stesso, dovrà riconoscere questi diritti anche ai suoi simili. Ciò non significa che ogni individuo possa avanzare una pretesa in termini di di-ritto per qualsiasi mezzo in vista di qualsiasi scopo, ma che vanno riconosciuti come diritti quei mezzi che costituiscono “necessariamente” una condizione di possibilità per lo sviluppo libero dell’agente: ad esempio, la libertà e il ben-essere.

La critica di MacIntyre si articola in più punti, la maggioranza dei quali non è però efficace5. Il più interessante rilievo critico, che mi sembra l’unico sostenibi-le, nota come un diritto universale sia un principio astratto che non si traduce in alcun «genere intelligibile di azione umana»6. Detto altrimenti, l’enunciazione di un diritto non dice nulla, in termini positivi, su quali conseguenze esso debba avere per l’azione morale dell’uomo. Soltanto «particolari tipi di istituzioni o pratiche sociali»7 possono legittimare l’interpretazione di un’azione come coe-rente con il principio enunciato. Ma poiché le istituzioni hanno un carattere                                                                                                                          3 D. Wallace, Jacques Maritain and Alasdair MacIntyre: The Person, the Common Good and Human Rights, in B. Sweetman (ed.), The Failure of Modernism: The Cartesian Legacy and Contemporary Pluralism, The Catholic University of America Press, Washington D.C. 1999, p. 134. 4 A. Gewirth, Reason and Morality, University of Chicago Press, Chicago 1978. 5 Cfr. la risposta di A. Gewirth, Rights and Virtues, in «The Review of Metaphisics», XXXVIII, 4, 1985, pp. 739-62. Per un’analisi e una discussione di questo dibattito (non proseguito oltre l’articolo appena citato), cfr. G. J. Walters, MacIntyre or Gewirth? Virtue, Rights, and the Prob-lem of Moral Indeterminacy, in W. Sweet (ed.), Philosophical Theory and the Universal Decla-ration of Human Rights, University of Ottawa Press, Ottawa 2003, pp. 183-200. 6 A. MacIntyre, Dopo la virtù, cit., p. 103. 7 Ibidem.

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contingente, storicamente determinato e sorretto da rapporti di forza, non è possibile ritenere che i diritti riconosciuti in una determinata epoca e paese ab-biano una validità universale8.

Benché non lo espliciti, qui MacIntyre si mantiene fedele al suo marxismo giovanile e in particolare al testo marxiano su La questione ebraica, in cui è sve-lato il carattere ideologico delle dichiarazioni dei diritti, essendo esse nient’altro che la codificazione dell’individualismo proprietario borghese. Il concetto astratto di libertà, infatti, si presta ad essere inteso secondo una sua specifica accezione, che nei Grundrisse Marx caratterizza come “indipendenza persona-le”, contrapponendola alla “dipendenza personale” che caratterizzava i modi di produzione schiavistico e feudale9. Si tratta di un concetto negativo, che potreb-be essere riformulato nei termini di una “non-dipendenza personale” o, meglio ancora, di una “dipendenza non-personale”, in quanto essa non implica affatto la libertà, come vorrebbe l’ideologia liberale, bensì una nuova forma di dipen-denza, cioè quella “materiale”. Autentica libertà sarebbe piuttosto il regno delle “libere individualità”, in cui ogni forma di dipendenza (personale e materiale) è superata dalla libera associazione comunitaria dei lavoratori, secondo un tema già presente nell’Ideologia tedesca.

Il tentativo di Gewirth di fondare razionalmente i diritti dell’uomo, perciò, fallisce, secondo MacIntyre, insieme a qualsiasi forma di kantismo. Nella sua replica, in effetti, Gewirth sembra aver frainteso questa critica di MacIntyre, ammesso che la nostra interpretazione sia corretta10. Coerentemente con la sua impostazione kantiana, egli sostiene che il riconoscimento dei diritti è la condi-zione trascendentale della libertà d’azione che dev’essere riconosciuta ad ogni essere razionale. L’esistenza stessa del diritto, poi, comporta la consapevolezza, da parte dell’individuo, di essere situato in un contesto sociale, ma, essendo an-che questa una condizione trascendentale (cioè conoscibile a priori), non vi è al-cuna necessità di prendere in considerazione il carattere specifico di ogni istitu-zione storica.

Il problema è che tale concezione si basa su un concetto “noumenico” di indi-viduo, incapace di garantire un’applicazione morale concreta. Parafrasando la settima Tesi su Feuerbach, potremmo dire che Gewirth (come già Kant) non ve-

                                                                                                                         8 Circa l’importanza di questa critica all’interno del dibattito fra liberali e comunitaristi, cfr. C. S. Nino, The Communitarian Challenge to Liberal Rights, «Law and Philosophy», VIII, 1, 1989, pp. 37-52. 9 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, tr. it. di G. Backhaus, Ei-naudi, Torino 1975, vol. I, p. 89. 10 Cfr. A. Gewirth, Rights and Virtues cit., pp. 746-47.

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de che l’idea di libertà è anch’essa un prodotto sociale e che l’individuo astratto, che egli considera, in realtà appartiene a una determinata forma sociale.

Come ha argomentato meglio altrove11, MacIntyre ritiene che il discorso libe-rale sui diritti umani si fondi su un’idea non ben definita, la quale ignora la na-tura teleologica dell’essere umano, la cui dignità è una realtà dinamica da inten-dersi sempre in relazione a determinate “pratiche”12. La teoria dei diritti univer-sali, che privilegia l’individuo rispetto alla società, è emersa nel contesto del fal-fallimento del progetto illuminista, con il moltiplicarsi di opzioni morali fra loro in competizione e il declino di una concezione unitaria del bene comune. Ma è esattamente in relazione al bene comune che la dignità umana può essere cor-rettamente intesa, come vedremo meglio in seguito.

Tuttavia, MacIntyre compie l’errore di rifiutare, insieme al discorso liberale, qualsiasi aspirazione all’universalità e, in ciò, si rivela non ancora pienamente tomista. Infatti, «secondo una prospettiva tomista il problema con i diritti uma-ni universali non è né l’appello alla verità universale, né la generalità di norme morali universali, bensì l’enfasi sui diritti umani come possesso individuale, se-parati dai doveri che sono più importanti per la società umana»13.

L’aspirazione di MacIntyre è quella di rifondare un’etica sostanziale di stam-po aristotelico, contrapposta a ogni proceduralismo liberale. A ben vedere, tut-tavia, è possibile anche una sostanzializzazione del discorso sui diritti, che passa attraverso la definizione di un più preciso significato del termine “umani”, ossia attraverso una più attenta considerazione di che cosa significhi per l’individuo essere un agente libero14.

2. Legge naturale o diritto naturale? Con la modernità il discorso giusnaturalistico ha subito uno slittamento con-

cettuale dall’idea (presente già in Aristotele) di “legge naturale” a quella di “di-

                                                                                                                         11 A. MacIntyre, Community, Law and the Idiom and Rhetoric of Rights, cit. 12 Il termine “pratica” assume in MacIntyre un significato specifico: «[p]er “pratica” intend[o] qualsiasi forma coerente e complessa di attività umana cooperativa socialmente stabilita, me-diante la quale valori insiti in tale forma di attività vengono realizzati nel corso del tentativo di raggiungere quei modelli che pertengono ad essa e parzialmente la definiscono. […] [A]rti, scienze, giochi, la politica in senso aristotelico, la costruzione e la conservazione della vita dome-stica, cadono tutti sotto questo concetto» (Dopo la virtù cit., p. 232). 13 D. Wallace, Jacques Maritain and Alasdair MacIntyre cit., p. 135. 14 Cfr. B. Bowring, Misunderstanding MacIntyre on Human Rights, in «Analyse & Kritik», XXX, 2008, pp. 205-214; B. S. Turner, Alasdair MacIntyre on morality, community and natu-ral law, in «Journal of Classical Sociology», XIII, 2, 2013, pp. 239-253.

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ritto naturale”15. La legge naturale era per gli stoici il comando, valido univer-salmente, del logos cosmico; questa dottrina, che passò mediante Cicerone alla cultura latina, venne poi ripresa ed elaborata dalla teologia cristiana cattolica, anche in funzione di commento a quei passi di San Paolo in cui si sostiene, ad esempio, che «quando i gentili che non hanno la legge fanno per natura le cose della legge, costoro, non aventi legge, son legge a se stessi» (Rm 4, 15). La legge naturale viene spesso espressa, nella riflessione cristiana, mediante la formula della Regola d’oro, che si trova sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento (Tb 4, 16; Mt 7,12). La trattazione più compiuta della dottrina giusnaturalistica cristia-na si trova in Tommaso d’Aquino16.

Secondo l’Aquinate, ogni legge avente ad oggetto casi particolari è valida solo se sussunta sotto la legge più generale, che ha per fine il bene comune. Quest’ultima è stabilita direttamente da Dio, inteso come logos, e ogni natura razionale finita è capace di conoscerla. Infatti, «in essa [scil. la natura razionale finita] si ha una partecipazione della ragione eterna, da cui deriva una inclina-zione naturale verso l’atto e il fine dovuto. E codesta partecipazione della legge eterna nella creatura ragionevole si denomina legge naturale»17. Il bene comune cui tende la legge è la “comune felicità” di una “comunità perfetta” intesa come luogo in cui è possibile realizzare la “beatitudine” terrena18.

In una simile prospettiva la legge naturale è strettamente intrecciata alla mo-ralità; la libertà non può essere disgiunta dal bene. Di conseguenza, la legge na-turale, prima di implicare il riconoscimento di diritti, implica un preciso obbli-go: citando Graziano, Tommaso afferma che «il diritto naturale è ciò che è con-tenuto nella Legge e nel Vangelo […] in forza del quale ciascuno è obbligato a fare agli altri ciò che vorrebbe fosse fatto a lui»19. Come ha sostenuto Novella Varisco, per intendere correttamente questo precetto occorre ricordare che per Tommaso «l’oggetto proprio della volontà è il bene, mentre il desiderio, la cupi-ditas, è rivolta al male», sicché «la Regola d’oro che impone di trasferire ad altri il bene che voglio per me, impone, allo stesso tempo, che tale bene, per essere

                                                                                                                         15 Cfr. A. MacIntyre, Enciclopedia, geneaologia e tradizione. Tre versioni rivali di ricerca mo-rale, tr. it. di A. Bochese e M. D’Avenia, Editrice Massimo, Milano 1993, pp. 120-121. 16 Diamo qui alcuni riferimenti esemplificativi del percorso sinteticamente tracciato: Aristotele, Etica Nicomachea, 1134b; Cicerone, De legibus, I, 12, 33; Id., De Re publica, III, 22, 33; Agosti-no d’Ippona, In psalmum 57 enarratio; Id., In eumdem psalmum 118, sermo 15; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ia - IIae q. 90 e ss. 17 Summa theologiae, Iª-IIae q. 91 (http://www.fulvionapoli.it/sommateologica/somma.htm) 18 Ivi, Iª-IIae q. 90. 19 Ivi, Iª-IIae q. 94. Tuttavia, «quanto è contenuto nella Legge e nel Vangelo [non] è tutto di leg-ge naturale, poiché molte cose ivi insegnate son superiori alla natura» (ibidem).

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veramente tale, sia adatto ad altri e ne permetta la fioritura»20. Il diritto indivi-duale è subordinato a questo obbligo morale; cioè non può esistere alcun diritto che sia incompatibile con il bene comune.

Con l’emancipazione dell’uomo moderno da qualsiasi ordine si pretendesse fondato sull’autorità divina, i principali teorici del giusnaturalismo del XVII se-colo hanno misconosciuto il valore vincolante della legge naturale, affermando piuttosto il diritto individuale alla libertà, da far valere contro ogni pretesa del potere pubblico di limitare gli spazi d’azione. L’individuo è ontologicamente prioritario rispetto al collettivo, sicché il compito della legge naturale è di tutela-re un diritto che gli uomini già posseggono in quanto tali.

Hobbes concepisce esplicitamente l’individuo come atomo egoista, che entra in società soltanto perché il potere lo difenda dal «pericolo di morte violenta»21 che caratterizza lo stato di natura. La società non è volta al perseguimento di al-cun bene comune, ma unicamente alla difesa della libertà dei singoli, in un ten-tativo di armonizzazione degli egoismi, in modo che non si danneggino a vicen-da. Secondo John Locke ogni individuo ha un diritto originario alla proprietà (compresa «la proprietà della sua persona»22), da far valere contro il potere pubblico qualora esso venga meno allo scopo per il quale è stato istituito, cioè la difesa della proprietà stessa. Com’è noto, questa impostazione è alla base del li-beralismo, e ha la sua massima espressione nel cosiddetto harm principle for-mulato da John Stuart Mill nel suo saggio On Liberty (1859), secondo il quale il solo scopo per cui è lecito l’esercizio del potere su un membro della società è prevenire il danno che egli potrebbe recare ad altri.

L’elemento principale che differenzia la prospettiva moderna da quella antica è, come ha notato MacIntyre, la diversa concezione della natura umana. Secon-do l’ontologia aristotelica il fine (telos) di ogni individuo è di portare a compi-mento l’essenza che caratterizza la specie cui appartiene, muovendo dalla po-tenza (dynamis) all’atto (energheia). Quest’ultimo, essendo lo scopo intrinseco di ogni movimento, “secondo la sostanza” è “anteriore” rispetto alla potenza23.

Per Aristotele è la razionalità la cifra specifica dell’anima umana, ma si tratta di una forma di razionalità che egli concepisce come tale da non potersi svilup-                                                                                                                          20 N. Varisco, La Regola d’oro in Tommaso d’Aquino, in C. Vigna, S. Zanardo (a cura di), La re-gola d’oro come etica universale, Vita e Pensiero, Milano 2005, pp. 147-148. 21 T. Hobbes, Leviatano, tr. it. di G. Micheli, Rizzoli, Milano 2011, p. 131. 22 J. Locke, Trattato sul governo, tr. it. di L. Formigari, Editori Riuniti, Roma 2006, p. 23 (si tratta della traduzione del Second Treatise). 23 «Tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)» (Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9).

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pare al di fuori della comunità, dove la figura del saggio funge da criterio per la determinazione di quale azione sia conforme a virtù24. Al contrario delle caratte-ristiche meramente fisiche o biologiche, che molto spesso possono giungere all’atto «per virtù propria», le virtù razionali (teoretiche e pratiche) possono svi-lupparsi solo «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori»25, cioè quando vi sia un contesto adeguato al loro sviluppo. Questo, naturalmente, è quello che Tommaso d’Aquino ha sostenuto doversi basare sulla legge natura-le, cioè sul bene comune.

Il rifiuto moderno dell’ontologia aristotelica è espresso senza mezzi termini da Hobbes: «io credo che difficilmente si può dire qualcosa di più assurdo in fi-losofia naturale di ciò che si chiama ora Metafisica di Aristotele, o di più ripu-gnante al governo di quanto ha detto nella sua Politica, o di più ignorante di una gran parte della sua Etica»26. Per il filosofo inglese la natura umana è caratteriz-zata da tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio27. Vi è, poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La “somma” del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili»28 e questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può forzare il suddito a subire il male senza difesa.

Chiaramente Hobbes rappresenta un caso limite di pessimismo antropologi-co, ma è accomunato agli altri pensatori moderni dall’idea che l’individuo sia già perfettamente realizzato al di fuori (e prima) della società. Usando la terminolo-gia aristotelica, secondo i moderni la natura umana è già sempre in atto e il compito dello stato è unicamente quello di limitare la libertà dei singoli quando questa si faccia prevaricatrice rispetto a quella dei loro simili.

La credenza nell’esistenza dei diritti umani, formulati a partire da queste premesse, è un “errore ontologico”29, non perché essi sono finzioni come le stre-ghe e gli unicorni, ma perché si basano su un’ontologia insostenibile.

3. L’ontologia relazionale di MacIntyre Con il libro Dependent Rational Animals: Why Human Beings Need the Vir-

tues (1999) MacIntyre propone una sua propria ontologia, riprendendo la tradi-                                                                                                                          24 Etica Nicomachea II, 6, 1107a 1. 25 Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17. 26 T. Hobbes, Leviatano cit., p. 708. 27 Ivi, p. 129. 28 Ivi, p. 135. 29 Così si è espresso, criticando la posizione di MacIntyre, M. Freeman, The Philosophical Foun-dations of Human Rights, in «Human Rights Quarterly», IV, 3, 1994, p. 500.

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zione aristotelica e tomista, ma aggiungendovi considerazioni di carattere biolo-gico che derivano dalle conoscenze scientifiche più recenti30. A dire il vero, il le-game che egli cerca di istituire tra l’animalità umana e le forme di vita a essa più vicine (ad esempio i delfini) non è dirimente; sembra, piuttosto, che il suo di-scorso starebbe in piedi perfettamente anche senza tali riferimenti, ed è così che qui lo presentiamo.

Fin dalla nascita l’uomo è inserito in un contesto intersoggettivo: la sua edu-cazione e crescita dipendono dai genitori, parenti e insegnanti; nel corso degli anni la rete di relazioni si allarga agli amici, ai colleghi e in generale a tutti colo-ro che partecipano con lui a qualche “pratica”. Mediante queste relazioni, l’individuo diviene in grado di sviluppare quelle che MacIntyre chiama le «virtù della razionalità pratica indipendente». Esse permettono all’individuo di com-prendere cosa significhi impegnarsi in una pratica e perseguire i beni interni ad essa, nonché di imparare a ordinare ogni sua attività in vista di un bene ultimo.

Una volta divenuti adulti questo rapporto di dipendenza nei confronti degli altri non viene meno, perché siamo sempre esposti all’errore nel giudizio relati-vo sia alla bontà dei fini che ci proponiamo di perseguire, sia a quella dei mezzi, sia al comportamento altrui (e la fonte di questi errori può essere sia morale che intellettuale). Inoltre il percorso complessivo della nostra vita è tale per cui in ogni momento ci troviamo, senza poterlo prevedere, a un diverso gradino di una «scala di disabilità nella quale tutti noi siamo collocati»31. Con questo MacIntyre intende una cosa semplicissima, cioè che nessun individuo è indipendente, in quanto ci sono cose che egli non capisce o non sa fare o, più gravemente, può trovarsi a dover affrontare malattie e disabilità fisiche di diverso grado, transito-rie o anche permanenti (magari fin dalla nascita). Questo richiede che in una comunità buona gli individui sviluppino anche le «virtù della dipendenza rico-nosciuta», che sono alla base di quei comportamenti di cura dell’altro, senza i quali non potrebbero fiorire nemmeno le virtù del ragionamento pratico.

La comunità buona si dovrebbe configurare, perciò, come «una rete di rela-zioni di dare e ricevere»32. Ciascuno di noi, infatti, è quello che è perché ha “ri-cevuto” la cura degli altri: genitori, educatori, amici, conoscenti che hanno non solo aiutato lo sviluppo delle nostre capacità pratiche e intellettuali, ma che ci sono a fianco nei momenti più tragici, rappresentati dalle varie forme di disabi-lità, accordandoci quel riconoscimento che ci permette di comprendere che, no-                                                                                                                          30 A. MacIntyre, Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, tr. it. di M. D’Avenia, Vita e Pensiero, Milano 2001. 31 Ivi, p. 73. 32 Ivi, p. 97.

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nostante la disabilità, noi siamo sempre la stessa persona e abbiamo sempre la stessa dignità. Questa dipendenza ci impone un obbligo morale a “dare” agli al-tri la stessa cura che noi abbiamo ricevuto, o sappiamo dovremmo o potremmo voler ricevere un giorno in futuro.

Questo tipo di reciprocità va oltre la giustizia comunemente intesa, poiché implica la disponibilità a dare senza tener conto di “quanto” noi abbiamo già ri-cevuto o riceveremo e, inoltre, a dare senza riguardo a chi si dona, poiché nella rete di relazioni in cui siamo inseriti capita spesso che si riceva da qualcuno e si debba donare a un altro, per poi magari ricevere ancora da un terzo, e così via. La «virtù della dipendenza riconosciuta» per eccellenza è quella che Tommaso d’Aquino chiama “misericordia”, che è «afflizione o dispiacere per la sofferenza di qualcun altro»33 e che ci muove ad aiutarlo. In altre parole, una buona comu-nità dovrà essere retta dal riconoscimento che ciascuno è il “prossimo” di ogni altro.

Anche se nell’opera cui stiamo facendo riferimento MacIntyre non parla di diritti umani, possiamo affermare, in base a quanto da lui stesso sostenuto, che gli individui, partecipando alla vita comunitaria, si trovano ad essere reciproca-mente dipendenti dai loro simili; perciò essi riconoscono che ciascuno ha diritto al riconoscimento e alla cura e, di conseguenza, che vi è una legge naturale che impone un obbligo morale di reciprocità. Questo discorso è perfettamente uni-versalizzabile: astraendo dall’esperienza concreta, si può affermare che ogni in-dividuo, essendo ontologicamente dipendente da altri, è titolare di un diritto inalienabile al riconoscimento e alla cura, e quindi al tipo di comunità politica che permette all’uomo di realizzare la vita buona (l’aristotelica eu zen).

Non si tratta semplicemente di riaffermare la dottrina di Tommaso: a ben ve-dere, esiste una differenza di prospettiva. Per l’Aquinate il diritto derivava dalla legge e quest’ultima implicava un comando morale proveniente direttamente da Dio. Al contrario, il discorso qui condotto sulla scia di MacIntyre parte da una base antropologica: il diritto è affermato a partire da precisi bisogni umani.

I diritti umani sono perciò rifiutati nella loro formulazione moderna perché essi non riconoscono adeguatamente la natura dell’uomo, dando per scontato che esso sia un essere razionale e autonomo e dimenticando la sua animalità, che è portatrice di disabilità, malattia, necessità di cura.                                                                                                                          33 Ivi, p. 123.

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4. Legge naturale e comunità politica Poiché la cura reciproca passa anche attraverso le istituzioni comunitarie e il

pari riconoscimento di tutti i soggetti implica che essi debbono essere conside-rati su un piano di parità, una comunità che rispetti i diritti umani così intesi dovrà prevedere spazi per la deliberazione razionale e collettiva in vista del bene comune, garantendo a ciascuno il diritto di influenzare la decisione finale. Que-sto impone di riconoscere che uno dei beni comuni del gruppo sociale, anzi, quello fondante, sarà la verità, intesa quale scopo della deliberazione stessa34 (in questo senso, la verità e il bene vengono a coincidere). Perché la verità possa es-sere perseguita, la sua ricerca deve trovare «qualche posto continuativo e signi-ficativo nelle nostre vite». Occorre, inoltre, che essa sia anteposta a qualsiasi in-teresse che potrebbe indurre la deliberazione a stagnare su una posizione di co-modo. Ogni persona impegnata nella deliberazione deve perciò essere il più possibile priva di desideri, pregiudizi o interessi personali che potrebbero indur-la a prediligere il proprio tornaconto rispetto al bene comune. Ma la razionalità della ricerca richiede anche che ogni agente abbia buoni motivi per fidarsi dell’altro e per non averne paura: la mancanza di fiducia potrebbe creare delle divisioni e delle fratture, mentre la paura potrebbe indurre un soggetto a sotto-mettersi al volere di un altro. Perciò sarà necessario che tutti i partecipanti alla deliberazione si impegnino ad essere onesti e veritieri, a mantenere le promesse fatte e a seguire una norma che vieti di danneggiare gratuitamente la vita, la li-bertà o la proprietà altrui35. Da questa ricerca, pertanto, dovranno essere esclusi coloro che violano queste leggi, cioè coloro che non hanno alcun interesse al

                                                                                                                         34 Cfr. A. MacIntyre, Aquinas and the extent of moral disagreement, in Id., Ethics and Politics. Selected essays. Volume 2, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 64-82. Le consid-erazioni che seguono fanno riferimento a questo testo. Per completezza, si rimanda anche a Id., Natural law as subversive: the case of Aquinas, in Id., Ethics and Politics cit., pp. 41-63. 35 Sarebbe forse meglio dire la “dimensione privata”, in quanto è noto come per Tommaso d’Aquino (sulla cui dottrina della legge naturale tutto questo discorso si basa) non tutta la pro-prietà sia legittima, ma sia anzi lecito ricorrere all’esproprio quando ci si trovi in stato di neces-sità e si manchi delle risorse possedute da altri in sovrappiù. Come ha scritto MacIntyre stesso nella sua trattazione della teoria tomista della giustizia: «la proprietà è limitata dalle necessità del bisogno umano» (Id., Giustizia e razionalità, tr. it. di C. Calabi, Anabasi, Milano 1995, vol. 1, p. 243). Si confronti anche quanto scritto da Paolo VI nella Populorum progressio: «Nessuno è giustificato a tenere per suo uso esclusivo ciò di cui non ha bisogno, mentre altri mancano del necessario […] il diritto di proprietà non deve mai essere esercitato a detrimento del bene co-mune […]» (cit. in A. MacIntyre, Where We Were, Where We Are, Where We Need to Be, in P. Blackledge, K. Knight (eds.), Virtue and Politics. Alasdair MacIntyre’s Revolutionary Aristote-lianism, University of Notre Dame Press, Notre Dame 2011, pp. 307-334. La citazione è tratta da p. 324).

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conseguimento del bene comune, ma il cui scopo è palesemente quello di in-fluenzare l’esito della decisione per poter realizzare i propri interessi36.

Proseguendo su questa linea, secondo MacIntyre, si scopre che le condizioni necessarie, i “principi primi”37 della ricerca razionale sono esattamente quei precetti della legge naturale individuati da Tommaso d’Aquino38. Anche per questa via, dunque, si vede come l’attribuzione dei diritti sia logicamente ante-cedente alla conoscenza della legge naturale.

Secondo il grande filosofo medievale la legge naturale è qualcosa che tutti gli uomini, in quanto esseri razionali, possono riconoscere; la legge positiva, il cui compito è dare attuazione ai principi generali di quella naturale, è razionale sol-tanto se non si discosta da essa. Ogni individuo, perciò, ha il diritto di non ri-spettare la legge positiva che violi i precetti della ragione, a meno che il non ri-spettarla implichi azioni anch’esse contrarie alla legge naturale. Ora, è chiaro come le leggi su cui si regge il nostro ordinamento sociale siano ben lontane dall’essere un’applicazione di tali precetti. Perciò MacIntyre ritiene che essi sia-no la base di una rinnovata concezione della pratica politica, che rifiuti il model-lo dominante39.

Una comunità che possa essere gestita democraticamente dai frutti di una de-liberazione comune non può che essere di piccole dimensioni, di modo che le persone che ne fanno parte possano incontrarsi in uno spazio fisico. Ma ciò che più conta è che questo luogo deliberativo sia regolato dalla “legge naturale”. In altre parole, la comunità deve permettere lo sviluppo delle virtù, condizione per perseguire la vita buona per l’uomo. Soltanto in una simile comunità la politica può essere intesa come una pratica cooperativa, partecipando alla quale ogni persona può imparare a definire che cosa è bene per sé e qual è il bene comune40.

                                                                                                                         36 Cfr. A. MacIntyre, Toleration and the goods of conflict, in A. MacIntyre, Ethics and Politics cit., pp. 205-223. 37 I principi primi si scoprono, ma non si dimostrano. Essi possono essere difesi soltanto me-diante la confutazione di chi intende negarli, mostrando come questi sia impossibilitato a soste-nere una reale ricerca della verità. 38 La legge è trattata da Tommaso in Summa Theologiae, Ia-IIae, 90-108. I precetti della legge naturale emergono poi nella discussione delle virtù, ivi, IIa-IIae, 1-170. 39 Cfr. S. Maletta, MacIntyre and the Subversion of Natural Law, in P. Blackledge, K. Knight (eds.), Virtue and Politics, cit., pp. 177-194. 40 Si rimanda, in conclusione, a A. MacIntyre, Politica, filosofia e bene comune, in «Studi peru-gini», II, 3, 1997, pp. 9-29.

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Il sorriso di Caligola. Una riflessione sul tragico in Camus Giuseppe Crivella The Smile of Caligula. A Reflection on Camu’s Tragic Abstract: The subject of this study is the play Caligula by Albert Camus, analyzed according to an intersection of critical perspectives in order to see the transition from Le mythe de Sisyphe to L’homme révolté.

Keywords: Camus, Caligula, Absurd, Tragic, Sisyphe/Homme Révolté. ***

«Tout est sur le même pied: la grandeur de Rome et tes crises d'arthritisme» (Caligula, I, 7)

Una sorte alquanto controversa è toccata al Caligula, pièce scritta nel ’38 ma

pubblicata dopo vari rimaneggiamenti per la prima volta solo nel ’44, lo stesso anno della sartriana Huis clos. Sebbene infatti in essa appaia probabilmente per la prima volta un “esemplare” ben delineato di homme révolté con una ricchezza di tratti psicologici e sfumature che pochi altri personaggi camusiani possono vantare in modo così marcato, quest'opera forse non ha mai goduto di un’attenzione critica rilevante, finendo spesso con l’essere trascurata o derubrica-ta come testo secondario, di transizione, in ogni caso messo in ombra dalla pre-senza del saggio più corposo della seconda fase del pensiero di Camus, L’homme révolté.

Eppure, in seno alla produzione del filosofo franco-algerino, il Caligula sem-pre più splende con un fulgore sinistramente affascinante: la fredda crudeltà immotivata dell’imperatore, seppure – o, forse, proprio perché – dedotta dalla

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ferma ottemperanza a postulati logici che non ammettono deroghe in quanto ele-vati assurdamente a norme assolute, appare all’interno dell’iter speculativo di Camus coi connotati di ciò che qualche decennio prima Nietzsche aveva definito «forma di esistenza catilinaria», ovvero appartenente al novero di quelle

«nature alle quali, per un qualche motivo, manchi il comune consenso, le quali sap-

piano di non essere ritenute benefiche, utili, – quel sentimento-ciandala di non essere considerate come uguali, ma come reiette, indegne, contaminatrici. Tutte le nature di questo genere hanno nei loro pensieri e nelle loro azioni il colore del sottosuolo. [Esse stesse] sentono il tremendo abisso che [le] separa da tutto ciò che è sancito dall’uso e che viene onorato»1.

Ma, alla luce delle tesi esposte in seguito dall’autore del Sisyphe nel saggio del

’51, il Caligula può apparire anche come il risultato maturo di quel cruciale pro-cesso di ibridazione attuatosi in quegli stessi anni tra l’homme absurde e l’homme révolté.

È per questa serie di motivi che il Caligula va considerato quale testo impre-scindibile: in esso abbiamo infatti il feroce ritratto di un uomo assurdo costretto a mimare la parte del regnante assoluto, del sovrano onnipotente, dell’imperatore (semi)divino proprio nel momento in cui ogni spessore di senso si è ritratto per-versamente e oscuramente dal mondo, in un vacillamento di immagini brutali e brucianti, la cui soffusa e radicale illusorietà rimanda ad una fantasmagoria di raffigurazioni sfocate, di pantomime tanto grottesche quanto apparentemente necessarie e ineliminabili.

Non v'è origine identificabile per questa deriva. Vi sono però dei fenomeni, degli eventi che ne costellano lo sviluppo, ne accelerano l’evoluzione, ne facilitano oscenamente l’avanzata: dapprima l’amore torbido ma sincero per Drusilla, og-getto di una passione incestuosa, vorace, malata, dinanzi a una corte accondi-scendente ma solerte nel mascherare l’insano sentimento; in seguito, la morte violenta e inaspettata di Drusilla stessa, l’uscita di scena dalla vita del sovrano dell’unica cosa che sembrava ai suoi occhi concreta, reale, consistente, veritiera. È a questo punto che Caligola diventa un nome intriso di follia e spettralità; il so-lo nominarlo significa evocare la forma assoluta, il distillato puro di una sventura capillare e tortuosa, che dal cuore stesso del potere filtra e si ramifica in tutto l’impero, infetta Roma riverberandosi in essa come una inavvertita ma flagrante epidemia. Il dramma allora si spalanca su di una sorta di allucinato cerchio vuo-to: quello delle parole dei dignitari che si interrogano senza costrutto intorno alla                                                                                                                          1 F. W. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, ed. it a cura di F. Masini e R. Calasso, Adelphi, Milano 1970, p. 231.

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fuga di Caligola, e quello delle varie presenze umbratili che affollano vanamente il palcoscenico, figuranti inconsistenti, sagome schiacciate dalla assenza stessa del sovrano, voci affioranti da una palude metafisica, nella quale esse si consu-mano in attesa del protagonista.

L’assurdo qui è avvertibile sotto forma di una livida Stimmung che intride ogni gesto, ogni parola, ogni sguardo; sebbene esso sia incarnato e rappresentato in senso pieno da Caligola, l’escamotage di aprire la pièce sulla lacuna fisica di quest'ultimo, sul suo ostinato sottrarsi alla vista, fa sì che la sua vischiosa presen-za coincida in realtà esattamente col senso di vana attesa, di spasmodica incon-cludenza, di attonita vacuità in cui tutti i comprimari vengono risucchiati e dalla quale emergono come legnosi manichini mossi e tenuti in vita da una mano tanto più invisibile quanto più potente e consistente.

Seppur fuori scena, la presenza di Caligola è perentoria e irrefutabile, circonda tutto e tutto compenetra, proprio come l’assurdo di cui egli è compiuta espres-sione, strisciante e letale, irreperibile tabe. Da qui una prima e decisiva conse-guenza: Caligola non è Mersault. L’assurdità in quest'ultimo cresce dall’interno, ma egli non la vive, non la affronta, non la incarna direttamente; piuttosto scivola sulla sua vita lasciandovi le dure tracce di una devastazione sottile che terzi devo-no riscontrare e ratificare, in una completa e astratta impersonalità.

Caligola di contro rappresenta una tipologia di assurdo che rispecchia i proto-colli emersi con Le mythe de Sisyphe: in esso lo splendore e la crudeltà di un mondo refrattario agli assalti della ragione onniesplicativa – chiuso pertanto in quella irragionevolezza certosina e pertinace che deve essere mantenuta sempre vigile per opporsi simultaneamente ad una metafisica della consolazione ultrater-rena e alla recisa deliberazione della morte volontaria – si acuiscono sempre più in un crescendo di orrore disumano e raggelato stupore omicida, i quali però rie-scono ad eludere ogni esito tragico proprio perché l’assurdo camusiano non pre-vede lo scontro diretto e fatale con un principio trascendente – se vogliamo rifar-ci al noto assunto goethiano riportato da Jaspers nel suo magistrale lavoro sul tragico2 – ma piuttosto si radica in un difficile compromesso che non deve essere mai spezzato o messo in dubbio. Dice in proposito Camus ne Le mythe de Si-syphe:

«Le premier de ses caractères à cet égard est qu'elle [la nozione di assurdo] ne peut se

diviser. Détruire un de ses termes, c’est la détruire tout en-tière. Il ne peut y avoir d'ab-surde hors d'un esprit humain. Ainsi l’absurde finit comme toutes choses avec la mort. Mais il ne peut non plus y avoir d'absurde hors de ce monde. Et c’est à ce critérium

                                                                                                                         2 K. Jaspers, Del tragico, trad. di I. A. Chiusano, SE, Milano 1987, p. 67.

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élémentaire que je juge que la notion d'absurde est essentielle et qu'elle peut figurer la première des [...] vérités»3.

In tale situazione le controparti che danno vita all’assurdo non devono mai

venire meno, le polarità in tensione devono in ogni istante conservarsi in uno strenuo antagonismo, tenuto desto grazie a una dialettica che assicuri un vitale e morboso attrarsi delle forze antagoniste, segnando in tal modo davvero il perime-tro di quel campo del possibile che Camus evoca in esergo al saggio del ’42, ci-tando la III Pitica di Pindaro.

L’assurdo allora si delinea qui con i caratteri di un equilibrio precario ma in-frangibile, perché esso non scade in illusioni e infingimenti trascendenti (o esi-stenziali): il confronto, la lotta, la sproporzione tra l’uomo e il silenzio irragione-vole del mondo – sproporzione che tuttavia indica l’unica misura comune tra i due termini in gioco – devono essere elevati a metodo assoluto; l’assurdità qui non è la rinuncia a comprendere, ma lo sforzo a sfidare sempre da capo i limiti di ogni comprensione, è cioè l’accanimento sulla soglia di baratri che si rivelano es-sere immense muraglie prive di spiragli.

L’evidenza spinosa a cui l’assurdo conduce, a cui esso dà luogo e in cui esso al tempo stesso si radica – in un movimento dolorosamente circolare del pensiero che finisce con lo strangolarsi nel tentativo disperato di liberarsi d'ogni contrad-dizione – non è un dato assumibile o desumibile una volta per sempre; recepirlo e leggerlo in questo senso vorrebbe dire trasformare l’assurdo in una presupposi-zione che permea il quotidiano senza tuttavia metterlo in scacco, accogliere una sorta di palmare certezza che però non ha la forza di modificare la vita dell’uomo sradicandola dalle fondamenta.

La perversa fecondità dell’assurdo nasce invece da quell’informe ragnatela di rapporti e reazioni, iniziative e contrasti che il soggetto è chiamato a mettere in campo e ad affrontare sempre oscillando tra l’accettazione la rivolta. Afferma Camus, sempre nel Sisyphe:

«Conscience et révolte, ces refus sont le contraire du renoncement. Tout ce qu’il y a

d'irréductible et de passionné dans un coeur humain les anime au contraire de sa vie. Il s’agit de mourir irréconcilié et non pas de plein gré. Le suicide est une méconnaissance. L’homme absurde ne peut que tout épuiser, et s’épuiser. L’absurde est sa tension la plus extrême, celle qu'il maintient constamment d'un effort solitaire, car il sait que dans cette conscience et dans cette révolte au jour le jour, il témoigne de sa seule vérité qui est le défi»4.

                                                                                                                         3 A. Camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942, p. 43. 4 Ivi, p. 62.

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Dalla sua prima apparizione pertanto Caligola brilla come una creatura solita-ria avvolta da una luce selvaggiamente cruda, affine nelle fattezze al monologante titanismo del Tamerlano di Marlowe e, nella sua scultorea imponenza, possente come un personaggio sofocleo, così che da oscure latebre mentali la sua voce è una straziata isola di dolore umano – troppo umano – che trafigge e scheggia i gessosi profili dei dignitari di corte: Drusilla è il nome che improvvisamente vibra nel silenzio della reggia, simile a una protesta barbaricamente metafisica, be-stemmia rivolta contro ogni assoluto, condanna inesprimibile comminata ad un divino assente, confessione di una colpa terrena per cui non è prevista sanzione o espiazione, ma solo la dura macerazione nell’affermare la propria compiaciuta e inutile innocenza. Proprio per questa serie di motivi Caligola appare da subito sdoppiato: nella sala che accoglie il suo inopinato ma atteso – e forse anche te-muto – ritorno campeggia uno specchio in cui con un aspetto di selvaggia spossa-tezza l’imperatore non solo si contempla, ma si presenta ai nostri occhi. Ecco co-me la didascalia introduce la sua prima entrata in scena:

«La scène reste vide quelques secondes. Caligula entre furtivement par la gauche. Il a

l’air égaré, il est sale, il a les cheveux pleins d'eau et les jambes souillées. Il porte plu-sieurs fois la main à sa bouche. Il avance vers le miroir et s'arrête dès qu'il aperçoit sa propre image»5.

Ed in effetti è proprio in questo riflesso fedele e alienato – è emblematico il

passo indietro compiuto da Caligola nello scorgersi riflesso – che a noi è dato ve-dere la vera scena dello spettacolo, dal momento che la superficie riflettente non raddoppia ma piuttosto inghiotte le figure che vi si pongono davanti, essa rappre-senta il varco entro cui Caligola penetra con tutta la sua figura, la sua corte e il suo impero nell’attimo estremo e fatale in cui egli delibera di regnare applicando una logica inversa ad ogni ratio propria del comando. Egli si impone per lo squarcio logico che porta con sé: non più regnante, ma deforme penombra di un potere che sapendosi illimitato aspira all’impossibile sovvertendo le leggi stesse in base alle quali Roma si regge. Il suo è un dominio cannibalico, divora cioè bra-ni del proprio corpo, perseguendo con minuta perizia una sorta di lucido smem-bramento delle forze che regolano, consolidano e salvaguardano il potere.

Agli occhi di Caligola tutto converge e collassa in un astratto furore di ano-malo spettacolo epurato d'ogni finzione, in cui il grido dell’uomo assassinato per

                                                                                                                         5 A. Camus, Caligula, Gallimard, Paris 1944, p. 25. Molto interessante è lo studio di Nancey de Gromard sulle didascalie nel Caligula. Cfr. AA.VV., La passion du théâtre, Rodopi, Amsterdam-New York 1994, pp. 49-63. Atto I, Scena 3.

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sbaglio o per gioco – come ben illustra l’episodio dell’uccisione di Mereia6 – è tanto vero quanto la lama del coltello che gli lacera le carni, in una forma d'accu-mulazione barocca di dolore gratuito e sibillina crudeltà in seno a cui ogni atto ha un causa tanto chiara e lampante, lucidamente deducibile, quanto misteriosa e inspiegabile, perché privata di ogni movente effettivamente esplicabile. Caligola non è solo l’uomo assurdo, ma è in primis colui che opta per una logica assoluta, ferrea, indefettibile, lugubremente perseguita nei suoi effetti spietati e in-esorabili.

Ma la logica qui non funziona come mezzo di chiarificazione, non ammette dimostrazioni; essa opera come un macabro sortilegio che prescrive una condot-ta di allucinata ed estrema consequenzialità: incorrere in essa significa rimanere invischiati a morte in quella inumana palus putredinis, la quale non rappresenta altro che il decomposto residuo della vera ragione umana. Non è allora un caso che, appena rientrato a palazzo, Caligola ad Hélicon che gli consiglia di non por-tare il suo ragionamento fino al punto estremo risponda con gelida secchezza: «Il suffit peut-être de rester logique jusqu'à la fin»7.

Ciò che mette in scena – e al tempo stesso in scacco – Camus attraverso Cali-gola è una creazione senza domani, un dramma anchilosante dell’intelligenza che riflette perfettamente quella ascesa assurda in cui lentamente e in modo efferato tutti diventano consapevoli della gratuità di ogni atto, di ogni atteggiamento, di ogni scelta, di ogni condotta. Il divorzio dal mondo e la rivolta contro questo non devono in alcun modo condurre però a nuovi fantasmi metafisici, non devono su-scitare nuove illusioni di trascendenza, non devono più invitare alla speranza in un domani. Idoli di fango e immagini slegate sono ciò che il pensiero e la realtà si comunicano, gesti bruciati nell’istante stesso in cui vengono compiuti, parole che trovano riscontro immediato solo nelle carni martoriate degli uomini, e una iro-nica distanza verso ogni forma di progetto, compresa la congiura che i patriciens ordiscono ai danni di Caligola e di cui egli è perfettamente consapevole.

In tal senso Camus mette a punto una sorta di figura grottescamente tragica che però non riesce a reggere i toni propri della tragedia. Imbevendolo di assur-do, Camus non può non (tra)sfigurare – forse sarebbe corretto anche (tra)svalutare – la tragedia del suo personaggio in una farsesca pantomima di un sovrano assoluto, detentore di un potere totale e, proprio per questo, autofagoci-tantesi, ipertrofico, dunque goffamente scomposto, il quale arriva a sovvertire le regole stesse su cui quel potere si regge allestendo quale culmine comico di que-sta immonda farsa uno spettacolo teatrale – poderosissima qui risulta                                                                                                                          6 Ivi, atto II, scena 10, p. 97 7 Ivi, p. 30.

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l’evocazione dell’Amleto attraverso il ricorso ad un meta-teatro che travalica ad-dirittura la soglia dell’umano – in cui è Venere stessa ad essere recitata e imper-sonata da Caligola8. Camus nel saggio del '51 così affronta questa forma di “tra-scendenza negativa” perseguita e ottenuta tramite un esercizio illimitato del cri-mine:

«Ici […] le maximum de la jouissance coincide avec le maximum de la destruction.

Posséder ce qu'on tue, s'accoupler avec la souffrance, voilà l’instant de la liberté totale vers lequel s'oriente toute l’organisation. Mais dès l’instant où le crime […] supprime l’objet de volupté, il supprime la volupté, qui n'existe qu'au moment précis de la suppres-sion. Il faut alors se soumettre un autre objet et le tuer à nouveau, un autre encore, et après lui l’infinité de tous les objets possibles»9.

Caligola allora incarna perfettamente questa consapevolezza: egli è un tragico

commediante, un fanciullo malato diventato adulto prima del tempo e forse sen-za volerlo, il quale ha già rinunciato con torva sicurezza ad ogni futuro, in nome di un amore perduto elevato però a cifra metafisica di un dolore ineluttabile, esito di uno scacco casuale assimilato, assorbito e amplificato su dimensioni cosmiche. Per lui oramai l’istante e l’eterno collimano in un tempo immobile, senza durata o progressione, in uno spazio perfettamente totalizzato dagli ambienti ciechi del palazzo10: non vi è esterno, da essi non si esce – se non cadaveri –, non vi è un al-trove rispetto a quei luoghi, quasi a suggerire che non vi è “alibi” per la sua vita – «je suis sans alibi»11, dice a chiare lettere Caligola prima di uccidere Caesonia –, vissuta come una colpa involontaria ma irredimibile nel momento in cui si è tro-vato a dover sopravvivere a Drusilla, intrappolato così in un gioco delle parti soli-tario ed amaro, in cui l’esistenza è l’ardente ferita attraverso cui insinuarsi nel mondo pur con l’arida certezza d'avervi già rinunciato:

«Je vis, je tue, j'exerce le pouvoir délirant du destructeur, auprès de quoi celui du cré-

ateur paraît une singerie. C’est cela, être heureux. C’est cela le bonheur, cette insuppor-table déli-vrance, cet universel mépris, le sang, la haine autour de moi, cet isolement non pareil de l’homme qui tient toute sa vie sous son regard, la joie démesurée de l’assassin

                                                                                                                         8 Ivi, atto III, scena 1, p. 118-122. 9 A. Camus, L’homme révolté, Gallimard, Paris, 1965, p. 63: la sezione, non a caso, è quella de La révolte métaphysique: «Je viens de comprendre enfin l’utilité du pouvoir. Il donne ses chances à l’impossible. Aujourd'hui, et pour tout le temps qui va venir, ma liberté n'a plus de frontières» [Atto I, scena 9]. Sottolineature nostre. 10 A questo proposito sono illuminanti le pagine de L’homme révolté dedicate a ciò che Camus chiama casemates de la débauche, nella sezione dedicata a Sade e, in particolre, ai «lieux clos, […] dont il est impossible de s'évader», cit., p. 61. 11 Caligula, atto IV, scena 13, p. 203.

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impuni, cette logique implacable qui broie des vies humaines [il rit], qui te broie, Caeso-nia, pour parfaire enfin la solitude éternelle que je désire»12.

Un universo stagnante e senza sviluppo, inebetito e asciuttamente ripetitivo

nella propria vacua smania di capillare e consapevole autodistruzione è quello in cui Caligola coltiva e lascia che si dischiuda il vitreo e venefico fiore dell’assurdo, un universo in cui, come già visto, il tragico e il quotidiano emettono ininterrot-tamente risonanze affini, assurgendo entrambi a simboli di uno stesso squadrato significato inoppugnabile che appiattisce ogni inquietudine soprannaturale su di un lessico angusto, frammentario, circoscritto ad un hic et nunc in cui lo scacco di ogni speranza è l’unica certezza in cui riporre fiducia: ecco allora che Caligola non può non essere sedotto da un vuoto che coincide esattamente con la pietrifi-cata pienezza di un mondo ove tutto è significato da segni certi ma nulla ha senso.

Alla luce di ciò vi è pertanto una considerazione da fare: lo spazio scenico in cui prende corpo il dramma non coincide mai fattualmente col perimetro fisico del palco che calca l’attore, ma piuttosto si dilata, si espande e si moltiplica frat-turandosi in un convulso non-luogo verbale tanto immateriale quanto concreto, dal seno del quale si dipana una stremata e disorientante concatenazione di ar-gomenti incongrui che finiscono col cingere d'assedio il pensiero e la persona stessa di Caligola, tenendo in scacco tutta la corte. Se l’assurdo pertanto consiste nello svelare la turpe e sorda fatuità di tutte le illusioni forgiate dagli uomini per schermare la vivace brutalità del mondo, obbedire senza capire e senza porsi do-mande è ciò che rimane alle – e forse anche delle – loro vite, temprate alla dura fiamma di un raziocinio che conduce direttamente tra le fauci della notte, una notte in cui la veglia dello spirito – torturante ma inevitabile – non ha altro scopo che quello di consumarsi e disperdersi in un chiaroscuro più penetrante della lu-ce del giorno.

Spazio polifonico e al tempo stesso angusto è quello del proscenio, inghiottito dal riflesso densamente “irrealizzante” dello specchio, ma anche amplificato da una parola che, come visto, pur eludendo ogni coralità, ha senza dubbio uno sta-tuto plurale, monomaniacalmente plurale, avvitata cioè senza requie attorno allo strisciante frastuono dei silenzi, degli “a parte”, dei monologhi di Caligola. Per quanto infatti i personaggi, i deuteragonisti del dramma si oppongano e cerchino di resistere al vorace cupio dissolvi incarnato dell’imperatore, essi in realtà cado-no pienamente nel suo gioco, animato da una dialettica distruttiva, finalizzato al-lo smembramento e non alla ricomposizione superiore degli opposti. In tal senso                                                                                                                          12 Ivi, Atto V, scena 13, p. 204.

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il programma di illimitata violenza, di lirismo inumano attuato da Caligola sem-bra puntare deliberatamente al raggiungimento di quel caos primordiale e origi-nario, in cui le forze antagoniste vengono portate ad unità, in una magmatica fu-sione dei contrari sfociante in quella divina equivalenza grazie alla quale l’imperatore riesce a «mêler le ciel à la mer, confondre laideur et beauté, faire jaillir le rire de la souffrance»13.

Ambivalente, sdoppiato, bifronte, egli impersona simultaneamente il boia universale e la vittima ideale, l’esecutore materiale di un rito sacrificale assoluto e il capro espiatorio di un esercizio estremo dell’assurdo, al quale è necessario ade-rire integralmente – e, per forza di cose, volontariamente – scegliendo di dissol-versi in esso. Già nel Sisyphe Camus aveva esposto questo stato di cose:

«partie d'une conscience angoissée de l’inhumain, la méditation sur l’absurde revient

à la fin de son itinéraire au sein même des flammes passionnées de la révolte humai-ne»14.

Da qui deriva senza dubbio il sorriso luciferino e al tempo stesso angelico –

quasi di liberazione – con cui egli si prepara all’irruzione finale nel palazzo dei congiurati venuti a trucidarlo. È in questo perfetto frangente di pienezza e purez-za razionale che Caligola arriva a compiere in modo impeccabile il suo “suicidio superiore”15 e senza misura alcuna con la dimensione umana. Proclamata così l’esistenza di un assoluto in cui creazione e distruzione sono le frammentarie ma-nifestazioni di una metafisica della finitudine e dello scacco, qui declino e trionfo, catastrofe e salvezza ostentano oscenamente gli stessi tratti nel ghigno grottesco di chi, amaramente ironico e dolorosamente compiaciuto, sa di aver portato fino al culmine del possibile la propria sfida a tutto ciò che è umano, soccombendo e dunque attestandone l’ineffabile riuscita.

Sulla scorta di quanto fin qui detto non risultano allora improprie le analisi che Fernande Bartfeld16 ha dedicato all’opera di Camus, mettendo in risalto la stretta correlazione tematica e concettuale tra tre nuclei di riflessione che nel Ca-ligula si strutturano secondo una verticalità di coerenza isotopica particolarmen-te netta. L’eccesso, l’assurdo, il tragico non solo si incardinano in una traiettoria di collimazione piena, ma reciprocamente quelle tre nozioni si influenzano, si contaminano e si sfocano, facendo del tragico una sorta di metafisica terrena, ove la parossistica furia deliberativa di Caligola tiene il posto del destino imperscru-                                                                                                                          13 Ivi, atto I, scena 11, p. 53. 14 A. Camus, Sisyphe, cit., p. 60. 15 Ivi, p. 97 16 F. Bartfeld, L’effet tragique, Champion-Slatkine, Paris-Génève 1988, pp. 46-60.

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tabile imposto agli uomini senza possibilità di replica, l’eccesso diviene una sorta di raffinatissimo congegno drammatico sfruttato fino allo sfinimento per esibire la mostruosa inanità di ogni sforzo umano per uscire dal cerchio dell’assurdo e l’assurdo stesso viene riletto a postulato fondativo della sanguinaria ambizione pedagogica – la stessa che l’imperatore aveva esposto all’inizio del dramma17 – che spinge Caligola ad insegnare agli uomini la bruciante necessità di optare per una vita interamente votata alla dispersione. Forse proprio per questo motivo verso la fine della pièce Caligola, di nuovo davanti ad uno specchio – lo stesso specchio che lo aveva accolto al suo ritorno dopo la fuga improvvisa seguita alla morte di Drusilla e nel quale era comparso ai nostri occhi per la prima volta –, pronuncia con la recisa fermezza di epigramma funebre queste parole:

«La logique, Caligula, il faut poursuivre la logique. Le pouvoir jusqu'au bout,

l’abandon jusqu'au bout. Non, on ne revient pas en arrière et il faut aller jusqu'à la con-sommation!»18.

Alla luce di quanto detto finora è forse possibile inquadrare ancora meglio la

figura di Caligola, mettendo in frizione questo passo della pièce con la domanda che apre il primo capitolo del saggio del ’51, in cui Camus esordisce chiedendosi «che cos’è l’uomo in rivolta»19, e rispondendo con le note parole: «un uomo che dice no, che rifiuta ma non rinuncia»20, e in tal modo trasvaluta la sua negazione trasformandola in un sì reciso a possibilità ancora inattuate.

Ma, se le nostre analisi sono esatte, Caligola incarna l’esatto contrario di una condotta scandita da questi assunti, assurgendo a paradossale controfigura dell’homme révolté, o forse rappresentando il passaggio obbligato che ogni uomo in rivolta deve attraversare per potersi definire effettivamente tale. Caligola infat-ti è affermazione pura, espressione asseverativa di tutto ciò che può e dunque de-ve essere attuato nella breve e bruciante parabola del suo regno. Egli pertanto non rifiuta ma, proprio non rifiutando nulla, rinuncia a tutto ciò che potrebbe ga-rantirgli durata, stabilità, sopravvivenza. Ecco perché il suo totale – forse sarebbe giusto dire “totalitario” – dir sì è in realtà una negazione ostinata e feroce.

                                                                                                                         17 A. Camus, Caligula, «Alors, c’est que tout, autour de moi, est mensonge, et moi, je veux qu’on vive dans la vérité. Et justement, j’ai les moyens de les faire vivre dans la vérité. Car je sais ce qui leur manque, Hélicon. Ils sont privés de la connaissance et il leur manque un professeur qui sache ce dont il parle». Atto I, scena 4. 18 Ivi, atto III, scena 5, p. 145. 19 A. Camus, L’homme révolté, cit., p. 25. 20 Ibid.

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Se per l’uomo in rivolta è il contenuto del suo no a dar senso all’azione ri-voluzionaria 21 , fatta di sovversione e progetto, infrazione e ricostruzione, l’affermazione pura di Caligola non ha altro oggetto che la messa in opera cieca e incontenibile del proprio potere, a cui è necessario dar fondo senza alcuna istan-za di controllo e senza alcun principio di finalità. Se la rivolta infatti – come nota ancora Camus – può dirsi tale è perché riconosce ancora un limite da cui muove-re e su cui poggiare, Caligola di contro campeggia al centro di una scena tanto sconfinata22 quanto angusta23 con la sfingea fisionomia di un prometeo in rovina, che nell’esercitare senza remore le proprie insaziabili facoltà e volontà di distru-zione non fa altro che macerarsi nell’arida gratuità che infetta tutti i suoi gesti.

Ma il limite estremo della consumazione, come sappiamo, segna agli occhi di Camus uno scacco inammissibile. Ed è a questo punto che le strade dell’autore e del suo personaggio iniziano a divergere risolutamente e, ben consapevole del fatto che non si possa tornare indietro, Camus sentirà il bisogno di procedere se-condo un altro cammino, orientandosi risolutamente verso la ricerca di una via d'uscita che consenta di eludere il vicolo cieco della compiaciuta auto-dissoluzione.

                                                                                                                         21 Ibidem. 22 Il suo regno è Roma e Roma è il mondo intero. 23 Come visto poco sopra, non si esce dagli ambienti del palazzo, in tal modo la reggia esaurisce tutto l’orizzonte mentale, esistenziale e drammatico dei personaggi.

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Logiche dell’alterità. L’aporetica dell’identità in Platone e Aristotele. Federico Croci

Logics of Otherness. The Aporetic Dimension of the Identity in Plato and Ari-stotle Abstract The article analyzes the most important aspects in Platonic discussion about the problem of iden-tity and difference, particularly in reference to Theaetetus and Sophist. The first part is dedicated to show the aporias in the central passages of Platonic discourse (especially in reference to Ari-stotle’s criticism against the logic of πρ�ς �λλα), while the second section is focused on Aristotle (it is shown that the logic of κα�'α�τό adopted by Aristotle does not prevent the development of aporias similar to those already found in Plato). Keywords: Plato, Aristotle, identity, difference, ontology. ***

Fin dal suo albore, la filosofia si interroga intorno al mondo: la costituzione del cosmo (di ciò che appare in una forma ordinata e armonica come totalità delle re-lazioni tra gli enti) è indagata nella forma del principio di non contraddizione, va-le a dire secondo il nesso di identità e alterità.

La dialettica che intercorre tra questi due termini è ciò che di massimamente problematico il pensiero greco consegna alla modernità: non solo perché l’intendimento dei primi filosofi pare rimandare a un pensiero dell’identità che non è realmente differente dalla differenza (si pensi, ad esempio, alla coinciden-tia oppositorum eraclitea), ma, anche, perché è sulla comprensione del rapporto tra i due termini che si gioca la rottura tra la logica platonica del ���� ���� e quel-la aristotelica del ���’����.

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Il Sofista si apre a partire dalle conclusioni aporetiche del Teeteto relativamen-te alla definizione di cosa sia ��������1: in particolare, in questo dialogo era risul-tato problematico esibire una esaustiva indicazione di cosa sia �����, stante la de-finizione di �������� come retta opinione fornita di �����. Le tre ipotesi socratiche (����� è espressione vocale di un pensiero, ����� è analisi delle parti di un tutto, ����� è indicazione della differenza specifica) si erano mostrate fallaci. Platone, assumendo senza problematizzarlo il metodo diairetico, suggerisce che l’identità dell’ente è riscontrabile a partire dal progressivo determinarsi dei concetti per mezzo della discriminazione analitica delle differenze: tuttavia, lungi dal farsi catturare tramite le sei definizioni che lo Straniero elabora, il sofista dalle molte teste (�����������)2 trascina l’intero processo diairetico nella sua oscura tana, nel non-luogo inaccessibile (������ �����)3 dove nulla lo può toccare. Nella discus-sione relativa alla sei definizioni si ripresenta una duplice aporia affrontata e la-sciata irrisolta nel Teeteto: se il sofista possiede una scienza di apparenze, allora detiene un sapere del falso, una conoscenza del non-ente in quanto è, in quanto ente4; inoltre, l’arte del sofista, essendo produzione, è passaggio dall’essere al non-essere5.

È il filosofo, incarnato nella maschera dello Straniero, ad esser caduto nella re-te dell’uomo stupefacente-terribile (���������)6. Come sciogliere il nodo e rituf-farsi nella caccia?

Lo Straniero sottolinea, in prima battuta, che il non-ente non va attribuito né all’ente, né al qualcosa, giacché entrambi sono uno e ciò che è uno di conseguen-za è, e, dunque, chi dice il non-ente dice il non-uno, cioè non dice nulla, non dice simpliciter7: il sofista non dice, tuttavia, non nel senso che tace o che non dice nulla di sensato (����� ������), bensì in quanto ciò che dice non ha un significato, è pura profusione fonetica senza coerenza (���� ������). Eppure, incalza lo Stra-niero, questa prima risposta è buona solo per bambini: se, infatti, dire il non-ente coincide con il non-dire, non si formula alcuna proposizione né si palesa alcuna struttura predicativa.

Questa conclusione contraddice quella per cui si rileva che chi afferma il non-ente asserisce il non-uno, in quanto in questa seconda conclusione si attribuisco-

                                                                                                                         1 Platone, Teeteto, 206C-210D, in Platone, Tutti gli scritti, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 20054, pp. 252-256. 2 Platone, Sofista, 240C, cit., p. 285. 3 Ivi, 239C, p. 284. 4 Ivi, 237A, p. 282. 5 Ivi, 219B, p. 266. 6 Ivi, 236D, p. 281. 7 Platone, Teeteto, 189A, cit., p. 236. Cfr. anche Sofista, 237E, cit., p. 282.

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no dei predicati (l’essere non-uno) a ciò che per definizione non li ha (il non-ente). Questo tipo di confutazione è autoconfutazione, perché si riferisce un si-gnificato (il dire il non-uno) all’assoluta insignificanza. Perciò, l’assunzione im-plicita è duplice e duplice l’autocontraddizione: si sostiene che il non-ente “dica” il non-uno (struttura predicativa), ma, pure, che “il” non-ente dica il non-uno, cioè che il non-ente sia e con ciò sia un uno8.

Lo Straniero rileva a questo punto un secondo nodo problematico, già toccato fuggevolmente nel Teeteto: il problema del non-ente, su cui si è iniziato a dibatte-re ed indagare, non è astratto dal problema dell’ente, ma, anzi, è profondamente intessuto con esso. Se indicibile è il non-ente, se il significato del non-ente è il contraddittorio rimando alla pura insignificanza, impronunciabile è pure l’ente.

Per poter superare l’impasse, Platone introduce surrettiziamente un’iden-tificazione impropria che assumerà un ruolo decisivo nel procedere del dialogo, inficiandone l’intero sviluppo: egli, che in precedenza aveva sempre discusso del non-ente determinato (�� ��), passa ora a parlare del non-essere (�� �����/�� �����), identificandolo con l’assolutamente non-ente (������� ��), l’opposto dell’ente-in-totalità (����� ��, �������� ��)9, per poi ricominciare a discorrere del non-ente; l’Ateniese gioca, inoltre, sull’ambiguità dell’espressione �������� ��, che rimanda sia alla totalità di ciò che è, sia a ciò che è in maniera compiuta. Con questa operazione Platone presuppone come evidente quella differenza tra non-essere come assoluto non-ente e non-ente relativo, la quale, tuttavia, dovrebbe essere resa evidente solo dalla conclusione dell’indagine.

La domanda diviene, a questo punto, quale sia l’identità dell’ente (come, cioè, sia possibile distinguere l’ente dal non-ente, fondandone la reciproca alterità). Platone pone identità e differenza tra i generi sommi: il loro rapporto non è né quello della totale esclusione, né tantomeno quello della confusione. Identità e differenza si partecipano tra di loro e partecipano a ogni ente, ma è la differenza a possedere priorità logica: l’identico è identico in quanto è differente da tutti i suoi differenti, o, in altri termini, l’ente è quel che è a partire dal suo non essere la to-talità dell’altro da sé. Il fiore è fiore in quanto è non-erba, non-albero e così via.

La conclusione, pertanto, ha dello straordinario: l’identità dell’ente è data non dal suo distinguersi dal non-ente, così come pensava Parmenide (il quale assu-meva un significato univoco del non-ente), bensì dal suo essere identico al non-ente, o, meglio, dal suo esprimersi strutturalmente come non-ente. L’ente è in-trinsecamente differenziantesi, poiché il non-ente non significa mai l’assoluto non essere, bensì solo l’esser-altro: l’ente è l’ente in quanto è altro dal proprio al-                                                                                                                          8 Ivi, 238D-E, p. 283. 9 Ivi, 248A-249D, pp. 291-292.

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tro, cioè dai suoi non-enti e, rispetto a ciascuno di essi, è anch’esso un non-ente, un altro. L’identico è tale sempre e solo a partire dall’alterità, in cui e da cui sol-tanto può costituirsi: l’ente è altro non solo rispetto agli altri enti, ma, pure, ri-spetto a sé, poiché costantemente diviene l’intreccio di relazioni a partire da cui si costituisce la sua identità. L’ente è relazione: la totalità dell’ente è relazione.

La soluzione platonica, che si sforza di pensare il costituirsi dell’essere all’interno della �������� originaria dei generi, non è, tuttavia, esente da numero-se aporie. La prima è quella che l’essere, lungi dal palesarsi come il genere su-premo, ricomprendente tutti gli altri, è in realtà un concetto ambiguo: da una parte esso è ciò che è intrinsecamente autodifferenziantesi in tutti gli altri generi (l’ente si dice ��������, dirà Aristotele)10, ma d’altro canto l’essere come essere si costituisce solo a partire dalla ��������. L’essere si instaura precedendo se stesso, poiché esso è fonte-frutto della �������� dei generi, ma questa stessa �������� ap-pare come ciò che si manifesta in virtù dell’essere. La �������� precede e non pre-cede l’essere, così come questo precede e non precede se stesso. L’aporia è inevi-tabile: se l’essere si costituisce solo a partire dalla relazione, domandarsi se tale relazione è significa applicare una categoria a ciò che precede e fonda tutte le ca-tegorie. Se un ente avesse la propria natura prima della partecipazione all’altro da sé, allora sarebbe prima del suo essere, giacché il suo essere, la sua natura, sorge solo in tale relazionarsi. Il dinamismo è interno a ciascun ente e lo rende potenza aperta a infinite possibilità di relazione con gli altri enti. Non a caso, l’idea è un che di vivente11: ecco rinvenuta, quasi inconsciamente, l’essenza della dialettica, il filosofico �������12, fondato sulla �������� ��� �����. Il pensare è il relazionare in giudizi secondo il partecipare (��������): la negazione non indica mai il contra-rio dell’ente, ma sempre e solo un diverso (������)13. Il diverso è l’idea del non-ente, la sua natura14: una stessa cosa può essere e non essere, se intesa secondo rispetti diversi (��� ������ ���������)15.

L’idea onniabbracciante non è, pertanto, quella di essere, né quella di non-ente nel senso di diverso, su cui ogni identità in sé si fonda, bensì l’originaria relazione e il divino intreccio dell’essere e del diverso. La natura del diverso è frammentata in tutte le cose che intrattengono rapporti reciproci16: l’essere e il diverso, disciol-

                                                                                                                         10 Aristotele, Metafisica, Γ, 1003a, tr. it. di G. Reale, Bompiani, Milano 2004, p. 131. 11 Platone, Timeo, 30B-D e 39E, cit., p. 1363 e p. 1368. 12 Platone, Sofista, 216C, cit., p. 264. Cfr. anche 253C-254B, pp. 296-297. 13 Ivi, 258E-259A, p. 302. 14 Ivi, 258B-D, p. 301. 15 Ivi, 256A, p. 299. 16 Ivi, 258D-E, pp. 299-300.

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ti in tutti gli enti, sono reciprocamente, l’uno attraverso l’altro, poiché si compe-netrano17.

Anche per Aristotele (che, a differenza di Platone, distingue nettamente il sen-so terminologico di ente ed essere)18 l’ente è intrinsecamente differente nei suoi significati: tuttavia, l’identità dell’ente è qualcosa che gli appartiene in virtù delle sua natura, non a partire dalle relazioni che esso intrattiene con altri enti; per lo Stagirita, affermare che la relazione precede la cosa in relazione è una pura e semplice follia, giacché implica che questa relazione sfugga di necessità alla defi-nizione, cioè al logo19. Aristotele sottopone a Platone proprio l’unica domanda che, per l’Ateniese, è insensato porre: l’essere si partecipa a se stesso, la �������� è? La partecipazione è per partecipazione, la partecipazione si partecipa a se me-desima, la partecipazione è prima di se stessa? L’aporia, in cui Platone incappa, è chiara: l’identità, di cui egli discorre a proposito di ciascun ente, è data sempre e solo negativamente. Cosa è la nuvola? Non-cielo, non-stella, non-pioggia. Altro non può rispondere.

Per Aristotele, l’impiego platonico della differenza specifica come struttura epistemica conduce all’assurdo di un ente che non è mai definito positivamente: si indica la differenza specifica e questa, lungi dall’esprimere ed esaurire l’ente nel giudizio e nella definizione predicativa, rimanda sempre ad altro, secondo un gioco infinito di alterità che è formalmente tutto esplicitato nella seconda ipotesi del Parmenide. Per Aristotele, ciò equivale ad affermare che la conoscenza che si dischiude nel discorso è ombra vana, infinito esercizio di rimandi, in cui la cosa toccata è detta nell’infinito esercizio-sforzo di dirla ri-dicendola continuamente. Platone mostra che pensare non è identico a giudicare e che il giudizio, come re-lazionarsi dei generi, si fonda sull’attingere quel Quinto che è prima di ogni de-terminare conoscitivo. L’identità della cosa è sempre detta e definita ex negativo, poiché l’unica positività che di essa si offre è quella dell’esperienza pre-logica, del                                                                                                                          17 Ivi, 259A, p. 302. 18 L’ambiguità che accompagna tutta la trattazione platonica è il continuo oscillare tra un uso esi-stenziale del verbo essere e un uso predicativo che significa partecipazione e relazione. Entrambi gli usi verbali, tuttavia, si richiamano reciprocamente, poiché essere / esistere, per Platone, vuol sempre dire esser-qualcosa: nei termini di Aristotele (Elenchi sofistici 166B-167A, in Aristotele, Organon, tr. it. di G. Colli, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 1970), ����� ����� è sempre per questo il ������� �� rappresenta un nemico che lo Straniero non sconfigge: proprio in di esso si continua a parlare come se fosse un qualcosa, pur non esistendo. Per Platone, non si può dire che qualcosa esiste senza affermare che cosa esso sia e viceversa, laddove per Aristotele si può parlare di qualcosa senza che esso debba necessariamente esistere, poiché si posseggono concetti anche di enti non esistenti: all’Ateniese è aliena ogni distinzione tra logica e metafisica, per cui deve concludere che ogni oggetto del pensiero ha un suo fondamento reale nelle cose. 19 V. Vitiello, Grammatiche del pensiero. Dalla kenosi dell’io alla logica della seconda persona, II, 2, 2 e 6, ETS, Pisa 2009.

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silenzioso ������, in cui l’ente appare nella sua assoluta semplicità che è, al con-tempo, inesauribile illimitatezza, infinità irriducibile al gioco relazionale del tutto e delle parti.

Per Platone il diverso stesso non è mai definibile in sé, ma sempre per altro20: il diverso è diverso in quanto è l’alterità di qualcos’altro e non perché possegga una sua essenza. Insolubile è, per l’Ateniese, l’aporia del nesso originario tra es-sere e diverso: ogni genere, anche l’essere, è se stesso in quanto è differente da tutti gli altri e, al contempo, il diverso si partecipa a tutto in quanto è.

Al contrario, per Aristotele, se l’essere è se stesso in quanto partecipa del di-verso e il diverso si partecipa ad ogni cosa in quanto è, allora l’essere è prima di essere. Per Platone, invece, pensare il diverso implica un continuo rimando ad al-tro: l’impossibilità di pensare il diverso in sé va di pari passo con quella di pensa-re ciascuna cosa in sé, poiché l’identità di ogni ente, per essere pensata, rimanda alla totalità dell’altro da sé. Ogni definizione d’identità, in virtù di questo riman-do infinito ed aperto, si mostra strutturalmente imperfetta: la finitudine del dire e la limitatezza del pensare non sono che un vago riflesso, perennemente can-giante, dell’infinità del Quinto. Il movimento, in cui si costituisce l’identità di cia-scuna cosa, è strutturalmente aporetico e contraddittorio: muovendosi nel conti-nuo rimando all’altro, ogni identità è un qualcosa di dinamico, fluido, pro-cessuale.

Ogni identità è, pertanto, non-identica, sempre in fieri in virtù dell’imper-fezione di ogni �������. Ecco perché Platone introduce la definizione, poi lasciata indiscussa, per cui la cosa è ������� ��� ������ ��� �������: il termine non indica una capacità o una possibilità legate ad una certa funzione, come sarà per Aristo-tele, bensì la struttura stessa di ogni cosa come relazione e processo. Per l’Ateniese, l’ente è logicamente e realmente movimento incessante.

Da ciò consegue anche che, definito l’ente come �������, i generi del movimen-to e della quiete vengano immediatamente dedotti dal concetto dell’essere e non introdotti estrinsecamente: il termine ������� rimanda sia all’ente come movi-mento, sia all’apertura che gli è strutturale per la partecipazione con gli altri ge-neri ed enti. L’essere come �������, originariamente aperto alla diversità, è privo di un contenuto fisso e immutabile: l’in-sé si dà solo nella forma del per-altro. L’originario intreccio tra essere e diverso è ciò che è eternamente dato all’anima, la mescolanza solo miticamente cantabile da cui essa nasce, il dato-donum origi-nario, relazione che è presupposto, irrisolvibile logicamente, di ogni pensabilità e

                                                                                                                         20 Cfr. G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Lof-fredo, Napoli 1996 e Il Teeteto di Platone: struttura e problematiche, Loffredo, Napoli 2002.

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dicibilità: pensare l’in-sé è pensarlo e dirlo sempre e solo nella forma del per-altro21.

La dialettica dei generi non è, pertanto, solo legge logica del reale, ma, pure, fenomenologica e linguistica22. Mai la cosa sarà colta dal nome, dall’immagine, dalla definizione o dalla scienza: il Quinto illumina l’uomo dedito al sapere, ina-spettatamente, balenando nell’istante23.

A questo punto è necessario evidenziare un particolare assai curioso: è degno di nota che Platone abbia aperto la discussione del Sofista introducendo un per-sonaggio, lo Straniero di Elea, che non ha assistito al dibattito del giorno prima tra Socrate e Teeteto e che non sa nulla dei suoi esiti: egli, del tutto ignaro delle aporie discusse da Socrate, aveva ingenuamente fissato il compito di individuare il sofista indicandone la differenza specifica per mezzo del procedimento diaireti-co. Fin dall’inizio, Platone avverte il lettore attento che l’intera trattazione del dialogo, al di là del suo esito aporetico o meno, è viziata alla radice dal-l’assunzione di un procedimento conoscitivo del tutto infondato: immediatamen-te, pertanto, il lettore è implicitamente invitato a fare attenzione a come sia pos-sibile dare la “parvenza” di una trattazione compiuta su un determinato argo-mento, assumendo un presupposto problematico e sviluppandone a fondo le con-seguenze. Il dialogo più filosoficamente rilevante di Platone si rileva, per chiara indicazione dello stesso autore, un magistrale gioco ironico.

Rimane da vedere se l’ontologia aristotelica sfugga, in virtù della sua logica dell’inerenza, all’aporeticità che critica a Platone.

Tre sono i punti salienti dell’argomentazione aristotelica. In primo luogo, lo Stagirita assegna alla filosofia prima il compito di vedere (������)24 l’ente in quan-to ente nel suo esplicitarsi strutturalmente autodifferenziantesi. L’ente è l’originario, la natura che precede ogni relazione: eppure, il principio di non con-traddizione non presuppone nella sua stessa definizione-essenza la relazione tra diverso e identico, cioè la comunanza dei generi del Sofista25? Inoltre, l’argo-

                                                                                                                         21 M. Heidegger, Identità e differenza, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009, pp. 28-29. Ri-chiamando il passo 254D del Sofista, il filosofo tedesco fissa l’attenzione sull’espressione utilizza-ta da Platone per designare l’“identità”: ������ ����� ������� ���� ��� ����� ������� ������. «Di essi, ciascuno dei due [scil. stasi e movimento] è un altro, esso stesso a se stesso»: l’impiego del dativo ����� è indizio che l’identità di ciascun ente è frutto di una mediazione interna alla cosa stessa, per cui la cosa è relazione a se stessa e si costituisce solo pro-cessualmente in connessione all’alterità. A è A nella forma di A = A: ogni ente non è esso stesso lo stesso (������� ���� ������), bensì è se stesso con se stesso. 22 Platone, Sofista, 259E, cit., p. 302. 23 Platone, Lettera VII, 341A-344D, cit., pp. 1819-1822. 24 Aristotele, Metafisica, Γ, 1003a, cit., p. 131. 25 V. Vitiello, Il Dio possibile. Esperienze di cristianesimo, I, 2, 3, Città Nuova, Roma 2002, p. 46.

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mentazione aristotelica vacilla qualora, invece di considerare il singolo ente de-terminato, si prenda in esame la totalità degli enti: nella definizione di ciò che è totalità concorrono tutti i predicati, cioè tutto ciò che è.

Nel caso della totalità ��������� �� e ��������� ���’���� coincidono: poiché il rapporto tra la totalità e un ente determinato precede logicamente quello tra sin-gole determinatezze, ne consegue, quindi, che tale distinzione non possa essere applicata nemmeno ad esse. L’essenza di Socrate, pertanto, non è l’esser-uomo come animale razionale, bensì la totalità degli accidenti che gli competono: già si mostra la conclusione a cui Aristotele arriverà per altra via, ovvero l’indefinibilità dell’individuo, la quale si fonda sull’indefinibilità della totalità.

Ciò che Aristotele sottace è che questa conclusione, derivando dall’ impossibi-lità di fondare la distinzione tra ��������� ���’���� e ��������� ��, faccia cadere anche quella tra totalità e singolo: ogni singolo è quel che è, in base al suo rela-zionarsi alla totalità dei predicati; ogni ente è, platonicamente, una determinata prospettiva sull’Uno26. La totalità non è che l’infinito rimandarsi in atto di pro-spettive, in cui tutto è in tutto.

Infine, nella Metafisica27, distinguendo differenza da diversità, lo Stagirita precisa che la prima implica un riferimento a un medesimo (questo A non è que-sto B), al contrario della seconda (questo A non è B, C, D ecc.). Aristotele dice che ������� e �������� sono ����: tale ����, non essendo né differenza né diversità, né rinvia né non rinvia a un medesimo; è l’alterità come distinzione, che è e non è diversità e differenza.

In Aristotele vi è un’affermazione che non è riducibile all’affermazione legata alla negazione. Il principio di non contraddizione, per il quale A non è B, presup-pone un essere al di là della contraddizione, che permette ad A come a B di esse-re28.

È possibile, dunque, risolvere l’arcana gigantomachia tra l’Ateniese e lo Stagi-rita? Le strade che percorrono, parallele, conducono entrambe a bivi, a vicoli cie-chi e, talvolta, paiono paradossalmente incrociarsi. Destinale è, per la filosofia di costoro, il peregrinare nella selva dei concetti, nel disperato tentativo di mostrare l’aureo volto della cosa nel logo.

                                                                                                                         26 V. Vitiello, Grammatiche del pensiero, II, 2, 4, cit. 27 Aristotele, Metafisica, I, 1054b, cit., p. 449. 28 V. Vitiello, Incontro sul Parmenide e il Sofista, in M. Bianchetti – E. S. Storace (a cura di), Pla-tone e l’ontologia. Il Parmenide e il Sofista, Milano 2004, pp. 112-113.

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Della Noluntas come Überwindung. Ontologia e differenza in Arthur Schopenhauer Giampaolo Loffredo Noluntas as Überwindung. Ontology and Difference in Arthur Schopenhauer  Abstract The present paper intends to be a small contribution to the study of Arthur Schopenhauer’s ontology of the Will and its inner Otherness. First and foremost, the concept of Noluntas is maintained to lie at the very heart of schopenhauerian philosophy, from the beginning to the end. Furthermore, the Denial of the Will-to-live is interpreted as a way to disclose groundbreaking Überwindung perspectives, moving off the beaten track, towards Martin Heidegger’s understanding of Truth. Keywords: Schopenhauer; Noluntas; Ontology; Will-to-live; Überwindung ***

Si sollevi lo sguardo, è notte. D’una oscurità avvolgente, cupa. Siamo in quello che ci appare come il fondo di un abisso – dell’abisso nel quale siamo precipitati. O forse non è neanche il fondo. Invero, non riusciamo a comprendere la nostra posizione nello spazio, ma al contempo dobbiamo riconoscere di non aver inte-ramente messo da parte la forma conoscitiva del tempo – di non aver potuto in nessun modo lasciarla cadere. Avvolti dall’oscurità, solleviamo nondimeno lo sguardo. Un cielo trapunto di stelle si disvela. Fori, squarci luminosi, che pos-siamo contemplare proprio perché siamo avvolti dalla notte più fonda. Era sem-pre stato lì ciò che solo ora siamo posti in condizione di vedere. Neanche com-prendiamo perché lo slancio dello sguardo verso tali presagi di luce ci sia di con-solazione. E dimentichiamo d’essere avvolti dall’ombra.

Non già manipolazione del senso della ricerca attraverso il gioco del linguag-gio, non già filosofia d’accademia, accecata dalla polvere dei refusi, né anelito d’un possibile riparo dal naufragio delle contraddizioni, ma un salto nel baratro della radicalità del pensiero è nel cominciamento della filosofia di Schopenhauer.

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Un presentimento abissale appare inscindibilmente correlato al bisogno metafisico, scaturigine d’ogni filosofare. Per Schopenhauer, sgomento ed afflizione è lo stupore filosofico: è «la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l’impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo»1. Come l’ouverture del Don Giovanni, la filosofia incomincia con un accordo in re minore2.

Come è noto, i primi e mai rinnegati sentieri speculativi percorsi da Schopenhauer sono compenetrati dal convincimento che soltanto la coscienza individuale sia l’immediatamente dato3 e che la filosofia non debba compiacersi di vuote astrazioni, bensì trarre la propria materia, enucleandola dal groviglio della coscienza4. Tale groviglio, teatro d’abisso, assume forma radicalmente dualistica nella metafisica giovanile schopenhaueriana, nella contrapposizione dicotomica tra “coscienza empirica” e “coscienza migliore”, lasciando poi il posto alla successiva dottrina del Wille, che rivendica discutibili e storicamente segnate esigenze di sistema ed esprime insoddisfatti propositi di monismo.

Nell’enigmatico concetto di coscienza migliore è già esplicata una più elevata visione del pensare, ben distante dal cogitare calcolante del paradigma rappresentativo, che nel porsi innanzi il Mondo come oggetto per il soggetto, vuol ridurre ogni volto del Vero alla sua cosalità, imprigionandolo per esercitarne il totalizzante possesso. La coscienza migliore s’impone quale riviera immobile di là del paradigma rappresentativo, sicuro presagio d’un senso morale, che pure non può non essere scorto nel groviglio nostro5, e che si oppone recisamente al                                                                                                                          1 A. Schopenhauer, Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. a cura di N. Palanga e A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989, §17, p. 939. 2 Ivi, pp. 953-54. 3 Riceviamo perdurante conferma di tale incrollabile persuasione così nel cominciamento come nei successivi sviluppi del pensiero di Schopenhauer: «Non v’è dubbio, infatti, che mai nessun in-dividuo è potuto uscire da se stesso per identificarsi senza mediazione con le cose distinte da lui: al contrario, ciò di cui egli ha conoscenza sicura e quindi immediata si trova all’interno della sua coscienza» (A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §1, p. 739). 4 A. Schopenhauer, Scritti Postumi, vol. I, I frammenti giovanili (1804-1818), ed. it. diretta da F. Volpi, Adelphi, Milano 1996, p. 166: «Nella sua natura più intima la mia filosofia deve distinguer-si da tutte quelle che ci sono state fino a ora (esclusa in una certa misura quella platonica) perché non è, come tutte, una mera applicazione del principio di ragione sufficiente e non ne segue quin-di il filo, come debbono fare tutte le scienze, perciò non deve neanche essere una scienza, ma un’arte. Non si atterrà tanto a ciò che deve essere in conseguenza di una dimostrazione, ma uni-camente a ciò che è: dall’intrico della nostra coscienza metterà in risalto, delineerà e denominerà ogni fatto particolare, così come lo scultore fa venire fuori determinate forme dal blocco di mar-mo informe; procederà quindi di necessità separando e scindendo, dal momento che non vuole creare nulla di nuovo, ma solo insegnare a distinguere quel che c’è; le spetterà pertanto il nome di criticismo nel senso originario della parola». 5 Ivi, p. 19: «Vi è una consolazione, una sicura speranza, e ce la fa sentire il sentimento morale. Quando ci parla così chiaramente, quando nell’intimo sentiamo una motivazione anche verso il

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mondo: «La coscienza migliore non appartiene appunto al mondo, ma gli è contrapposta, non lo vuole»6.

L’opinione di chi scrive è nel senso di ritenere che la Noluntas sia tanto nell’esito quanto nel principio della filosofia schopenhaueriana: il giovane Scho-penhauer sembra infatti formulare una prima embrionale concezione di Nolun-tas proprio attraverso la via della coscienza migliore. Ciò è tanto più evidente, ove si consideri che anche alcune tra le prime tracce di “volere” nella filosofia scho-penhaueriana sono contrassegnate dalla negazione. Nel 1813, in margine al Sy-stem der Sittenlehre di Fichte, Schopenhauer scrive (prima della svolta di Dre-sda, allorché viene intrapresa la chiara direzione della dottrina del Wille) parole che assumono indubitabile centralità teleologica nell’ambito del proprio pensie-ro: «La libertà del volere si potrebbe chiamare una libertà di non volere [Nicht-wollens]»7. Molti anni dopo ritroveremo nell’approdo dell’Epifilosofia lo slancio verso la possibilità di «volere eventualiter altrimenti»8, cui la negazione del Wille mette capo. Prima saremo, tuttavia, chiamati a misurarci con l’ontologia della Volontà e a valutarne le condizioni d’oltrepassamento.

«Lo scopo che mi sono qui proposto è quello di indicare come questo libro debba essere letto per riuscire facilmente comprensibile»9: è il notissimo incipit della prefazione alla prima edizione de Il mondo come volontà e rappresentazio-ne. Nonostante il libro fosse volto a comunicare “un unico pensiero”, doveva sembrare opportuno a Schopenhauer indicare immediatamente al lettore una prima indefettibile via per la comprensione del medesimo: «per chi voglia pene-trare a fondo il pensiero qui esposto, non resta che leggere questo libro due vol-te»10. La prima lettura richiede pazienza, «attinta alla fiducia che, nella seconda lettura, tutto o quasi tutto possa essere visto in ben altra luce»11.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         sacrificio più grande, che contraddice del tutto il nostro apparente benessere, allora vediamo in modo vivido che il nostro è un altro benessere e che in conformità a esso dobbiamo agire in dire-zione opposta a tutte le motivazioni terrene; e che il grave dovere ci rimanda a una felicità supe-riore, a esso corrispondente; che la voce che udiamo nel buio viene da un luogo luminoso». 6 Ivi, p. 159. 7 A. Schopenhauer, Der handschriftliche Nachlass, Bd. II, Kritische Auseinandersetzungen (1809-1818), hrsg. von A. Hübscher, Deutscher Taschenbuch Verlag, München 1985, p. 349. Nondimeno, si tratta ancora di un embrione di Noluntas, poiché il “volere” cui Schopenhauer fa riferimento nei manoscritti del 1813 non può essere ritenuto corrispondente alla Volontà di vivere teorizzata a partire dal 1814. La Vernichtung della volontà individuale evocata nel 1813 non è per-tanto da considerarsi del tutto sovrapponibile alla negazione del Wille di cui al IV libro del Mondo come volontà e rappresentazione: il Du sollst nichts wollen avrebbe dovuto ricevere specificazio-ni ulteriori, attraverso l’elaborazione dell’ontologia della Volontà, che nuovi elementi teorici avrebbe introdotto nel pensiero schopenhaueriano. 8 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §50, p. 1582. 9 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., p. 5. 10 Ivi, p. 6. 11 Ivi, p. 7.

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Infine, Schopenhauer chiede al lettore di soddisfare anche altre due condizio-ni: la lettura degli scritti di Kant e, in guisa di premessa, della Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente.

L’Autore si spinge fino al punto di precisare che la lettura del libro senza l’adempimento delle richieste fatte non potrebbe dar frutto ed è quindi assoluta-mente da tralasciare12.

L’ostinata insistenza di Schopenhauer sulla necessità di una doppia lettura della propria opera non può e non deve essere trascurata, se è vero – come a pa-rere di chi scrive – che dalla seconda lettura si scorge davvero tutto in tutt’altra luce, allorché il cammino sia rischiarato dall’approdo alla Noluntas, Aliud non Aliud dell’ontologia del Wille. Potrebbe nondimeno essere necessario domandar-si quale sia il senso d’una metafisica della Volontà così posta, il cui destino è d’essere “rinnegata”, così come appare necessario chiedersi se l’indubitabile pri-mato assiologico della Noluntas non si risolva altresì in un primato ontologico.

Invero, la scaturigine dell’ontologia della Volontà non deve esser disgiunta dall’esigenza di conferire al sistema filosofico in divenire un evidente fondamento esperienziale, ché nell’orizzonte schopenhaueriano la filosofia dev’essere intesa, innanzi tutto, quale «comprensione del senso e del contenuto dell’esperienza»13. Esperienza di ciò che scorgiamo in noi stessi, di ciò che si rende presente nella nostra coscienza, l’immediatamente dato, oggetto d’originaria intuizione, non già astrazioni mere, che nel mondo dei concetti trovano dimora. Il presentimento del Wille sorge da ciò che scorgiamo essere, gettandoci nella profondità di noi stessi, (apparentemente) senza mediazione alcuna.

La necessità d’essere fedele all’impostazione filosofica kantiana ed al suo lin-guaggio costringe Schopenhauer a misurare ogni proprio sforzo definitorio all’interno del rapporto fenomeno-noumeno. In tal modo, tuttavia, è stato fin troppo semplice fraintendere il senso profondo del suo pensiero, attraverso la mera identificazione della Volontà con la cosa in sé e traendo da tale proposizio-ne le più erronee conseguenze, senza tener conto dell’accezione affatto peculiare che tale espressione assume nel sistema filosofico schopenhaueriano.

                                                                                                                         12 Ivi, p. 11. 13 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §17, p. 971. Così anche A. Schopenhauer, Critica della filo-sofia kantiana, appendice a Il Mondo, cit., pp. 595-96: «Il compito della metafisica non è di sor-volare l’esperienza, in cui è questo mondo, ma penetrarla a fondo, in quanto l’esperienza interna ed esterna è veramente la fonte principale di ogni conoscenza; che dunque la soluzione dell’enigma del mondo è possibile solo attraverso il collegamento dovuto e compiuto al giusto punto dell’esperienza interna e dell’esperienza esterna, e attraverso l’unione in tal modo realizza-ta di queste due così eterogenee fonti di conoscenza: sebbene anche così solo all’interno di certi limiti, che sono inseparabili dalla nostra natura finita, per cui noi giungiamo ad una giusta com-prensione del mondo stesso senza raggiungere una spiegazione conchiusa e che non lasci più ulte-riori problemi della sua esistenza».

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Come è noto, al Wille perveniamo come attraverso un passaggio segreto:

«Per raggiungere l’essenza propriamente intrinseca delle cose, cui non possiamo arrivare partendo dall’esterno, c’è per noi, dall’interno, una via aperta, per così dire un cammino sotterraneo, un passaggio segreto che, come a seguito di un tradimento, ci porta di colpo su quella rocca che ci era impossibile conquistare, assaltandola dall’esterno. La cosa in sé, proprio in quanto tale, può arrivare alla coscienza solo in modo assolutamente immediato, solo quando essa stessa acquista coscienza di sé: volerla conoscere oggettivamente significa pretendere qualcosa di contraddittorio. Ogni conoscenza oggettiva è rappresentazione, quindi apparenza fenomenica, nient’altro che un mero fenomeno cerebrale»14.

Nemmeno la percezione interna, tuttavia, quella che giunge alla percezione in noi del Wille, fornisce un adeguato disvelamento della cosa in sé. Conserva il mo-do di conoscenza fondato sulla scissione tra soggetto e oggetto, né può dismettere la forma conoscitiva del tempo (il riconoscere la propria volontà in singoli atti di volizione)15, sì da non consentirci d’essere integralmente al di fuori del paradigma rappresentativo. E la consistenza del velo del tempo è tale da non permetterci d’afferrare l’universalità del Volere. Entra nella nostra coscienza solo una se-quenza d’atti di volontà: nel fondo di noi stessi si agita, senza posa, un cieco im-pulso alla vita, una tensione alla vita, che percepiamo nella sequenza dei singoli atti del volere. La consistenza ontologica della Volontà universale, nella percezio-ne della sua affermazione, si attenua, sfuma, proprio in virtù del distendersi nel tempo della successione in atti. Anzi, può cogliersi l’essenza di tale (aspetto, volto della) Volontà solo ove la si consideri nel suo distendersi temporale, nel suo le-game col fenomeno, col decettivo divenire.

Scorgiamo e riconosciamo in noi stessi singoli atti del volere e desumiamo che tali atti partecipino di un’unica tensione alla vita. Tale tensione scorgiamo e rico-nosciamo, per analogia, con procedimento schellinghiano, anche negli altri fe-nomeni. Negarne il rilievo sarebbe egoismo teoretico. La tensione appare come in sé dei fenomeni, i quali ne costituiscono obiettivazione, sì da farci ritenere possi-bile il proporsi d’una risoluzione al problema della relazione tra uno e molteplice.

                                                                                                                         14 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §18, p. 986; A. Schopenhauer, La Volontà nella Natura, tr. it. a cura di I. Vecchiotti, Laterza, Bari 2000, p. 140: «Ora però, come uno entrando nella grotta di Posillipo si addentra sempre di più nell’oscurità, finché, dopo aver superato la metà, la luce del giorno proveniente dall’altra estremità comincia a rischiarare il cammino, proprio così qui; là do-ve la luce dell’intelletto, rivolta verso l’esterno, con la sua forma della causalità, essendo stata progressivamente sopraffatta dalle tenebre, diffondeva alla fine soltanto un debole ed incerto chiarore, proprio allora le viene incontro una illuminazione di tipo completamente diverso, dalla nostra propria interiorità, per la circostanza fortuita che noi che giudichiamo siamo qui proprio gli oggetti da giudicare». 15 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §18, p. 987.

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In tale orizzonte di senso è l’ambito dell’ontologia e della metafisica della Volon-tà, prima facie.

L’astrazione che induce ad ipotizzare una Volontà universale è invero solo provvisoria, poiché il destino di tale astrazione è d’essere negata, per far posto ad una visione più alta. Nondimeno il primo passaggio – quello della prima astra-zione – appare a Schopenhauer necessario, perché soltanto riconoscendo, attra-verso il fenomeno, la natura dell’atto della volontà che costituisce il volto interno del mondo come rappresentazione è possibile volere eventualiter altrimenti.

La Volontà come “cosa in sé” è dunque intesa in un’accezione affatto peculiare ed è pertanto da considerarsi come l’aspetto, il volto del noumeno che – soltanto – può esser definito e riconosciuto “in positivo” dal nostro modo di conoscenza. Ciò che invece è posto fuori dal paradigma rappresentativo non può che ricevere formulazione in termini puramente negativi – negazione della Volontà.

Schopenhauer sembra volersi spingere fino all’estrema provocazione, nel lam-bire esigenze d’auto-oltrepassamento del sistema, suscitando dal medesimo la più accecante delle contraddizioni, quasi a voler suggerire al lettore che la Verità può porsi solo in termini contraddittori alla coscienza dell’uomo. Siamo quindi chiamati a riconoscere il carattere paradossale della Verità, che dimora nel sov-vertimento della rappresentazione, della relazione tra soggetto e oggetto, suscita-ta dalla lacerazione del modo di conoscenza: apertura al totalmente Altro.

Oziosi appaiono gli argomenti in ordine alla presunta aporeticità della feno-menizzazione del Wille, rispetto al concetto di cosa in sé16. Siano le parole di

                                                                                                                         16 P. Martinetti, Schopenhauer (1941), a cura di M. Fontemaggi, Il Melangolo, Genova 2005, pp. 79-80: «La coscienza di noi stessi come Volontà implica sempre ancora, come già si è detto, l’opposizione col soggetto conoscente, che la conosce attraverso il tempo. La coscienza della Vo-lontà in noi è il punto in cui conosciamo più immediatamente la cosa in sé: ma è una conoscenza ancora imperfetta ed opaca. In numerosi passi Schopenhauer riconosce che lì noi non abbiamo ancora la cosa in sé assoluta. Questo sembra essere in contraddizione con la sua esplicita afferma-zione che la cosa in sé è la Volontà. Ma quest’apparente contraddizione riposa solo sul duplice senso di “cosa in sé”. La cosa in sé gnoseologica, cioè l’essere che si rivela a noi come il fondamen-to immediato delle apparenze sensibili, è bene la Volontà quale noi l’apprendiamo, nel tempo, immediatamente nel nostro interno. Ma quest’interpretazione gnoseologica non ci dà ancora la cosa in sé metafisica: non ci fa pervenire a quel fondamento ultimo che lo spirito nostro esige e che deve essere pensato come indipendente dalle forme della conoscenza e perciò straniero alla molteplicità ed al mutamento». In senso conforme, G. Riconda, Schopenhauer interprete del-l’Occidente, Mursia, Milano 1969, p. 136: «la coscienza empirica, o meglio il mondo empirico che ad essa appartiene e a cui essa appartiene, è visto come l’apparenza di una cosa in sé (la volontà di vivere), e l’opposizione non è più fra l’apparenza e la cosa in sé, ma fra la cosa in sé dell’apparenza – la volontà di vivere che nel mondo delle apparenze trova appunto la sua manifestazione e della quale è possibile una determinazione completa nella cosmologia di cui abbiamo detto – e la cosa in sé quale rimane, quando si sia negata la volontà di vivere e il mondo delle apparenze che essa trae seco»; G. Riconda, Tradizione e avventura, Società Editrice Internazionale, Torino 2001, p. 71: «La cosa in sé, che stando al primo libro del Mondo è la volontà di vivere, si sdoppia alla fine dell’opera nella cosa in sé come volontà di vivere, di per sé conoscibile ma assiologicamente nega-

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Schopenhauer a dirimere ogni controversia. Nel § 22 della sua opera fondamen-tale è già chiaramente sottolineato che:

«La cosa in sé, per essere pensata obiettivamente, dovrà pure assumere un nome, un

concetto, da un oggetto, da un qualcosa di oggettivamente dato, cioè da un suo fenome-no: ma questo, perché serva di tramite alla comprensione della cosa in sé, dev’essere il più perfetto tra i fenomeni, cioè il più evidente, il più sviluppato, il più rischiarato dall’intelligenza. Tali condizioni sono quelle in cui si trova la volontà umana»17.

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         tiva, e quel Nulla cui mette capo la negazione della volontà di vivere, che dal punto di vista assio-logico si configura come positivo, ma sfugge alla conoscenza filosofica che trova qui il supplemen-to nella mistica». Si veda altresì E. Mirri, Volontà e Idea nel giovane Schopenhauer, saggio intro-duttivo a A. Schopenhauer, La dottrina dell’Idea. Dai frammenti giovanili a Il mondo come vo-lontà e rappresentazione, a cura di E. Mirri, Armando, Roma 1999, p. 27: «A meno che la volontà stessa – ed è questo il non-detto di Schopenhauer che va messo in chiaro – non si dimostrasse in-fine “fenomeno”, come il “vivere” di cui si costituisce totalmente […] un che di relativo, insomma, in nessun modo un “in sé”, un’assolutezza». Cfr. anche A. Vigorelli, Il riso e il pianto. Introduzio-ne a Schopenhauer, Guerini Studio, Milano 1998, p. 74. 17 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §22, p. 176. Così anche A. Schopenhauer, Scritti postumi, vol. III, I manoscritti berlinesi (1818-1830), ed. it. diretta da F. Volpi, Adelphi, Milano 2004, pp. 578-79: «È vero in effetti che ognuno possiede l’assoluta certezza di recare in sé qualcosa di affatto imperituro e indistruttibile, ma rimane la domanda: che cos’è? Non è la coscienza, né tanto meno il corpo su cui essa palesemente si fonda. Si tratta piuttosto di ciò su cui corpo e coscienza insieme si fondano, ossia ciò che, entrando nella coscienza, si presenta come volontà. Al di là di questa sua apparenza non possiamo andare, dato che non possiamo uscire dalla coscienza, e quindi non ci è consentito chiedere che cosa mai sia esso quando non cade nella coscienza. Resta dunque ve-ro che anche la volontà la conosciamo sempre solo come apparenza e non secondo ciò che po-trebbe essere interamente in sé e per sé. Nondimeno essa rimane l’apparenza in assoluto più im-mediata dell’essenza in sé tanto da poter valere come la cosa in sé, cioè come il dato ultimo cui perveniamo quando inseguiamo l’apparenza e, abbandonandone ogni altra dataci in modo solo esteriore ed immediato, teniamo stretta quell’unica al cui interno ci è concesso di guardare, il no-stro stesso io. Conoscere qualcosa secondo ciò che è del tutto in sé e per sé non sarà mai possibile perché è contraddittorio. Infatti, non appena conosco ho una rappresentazione, ma questa, proprio [corsivo dell’Autore] perché è la mia rappresentazione, dev’essere diversa dal conosciuto e non può identificarsi con esso: è sempre l’ektypos di un prototypos. Di conseguenza la rappre-sentazione rimane sempre solo l’apparenza del conosciuto per una coscienza e, quindi, quale che sia la natura di tale conosciuto, esso offre soltanto apparenze. Ciò vale anche nel caso in cui il co-nosciuto è la mia propria essenza, dal momento che, cadendo nella mia coscienza, essendo cioè conosciuta, è già apparenza, ossia qualcosa di diverso da quella essenza – un altro. In quanto so-no un conoscente, la mia stessa essenza è per me solo un’apparenza. In quanto però sono una tale essenza originaria, non sono conoscente, poiché la conoscenza è secondaria». Nel medesimo sen-so, ivi, pp. 186-87: «Se per noi stessi siamo un enigma, o se, come dice Kant, l’io si conosce solo quale apparenza e non secondo ciò che può essere in sé, lo dobbiamo al fatto che anche l’autocoscienza ha un soggetto e un oggetto, e quindi l’io non si limita semplicemente ad essere (come se fosse interamente intimo a se stesso), bensì si scinde in un conoscente (intelletto) e in un conosciuto (volontà). Anche all’interno, quindi, come all’esterno, l’oggetto è dato al soggetto solo in modo condizionato, sicché tra l’essere in sé dell’oggetto (in questo caso la volontà) e la rappresentazione di esso nel soggetto (cioè nell’intelletto) si ha una differenza dovuta alle forme o alle funzioni specifiche del soggetto. Nel caso della conoscenza interna, tuttavia, vengono a ca-dere le forme di spazio e causalità, e rimangono solo quelle di tempo e di oggetto per un essere-soggetto in generale: nella conoscenza interna la cosa in sé si presenta dunque assai meno velata

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Molti anni dopo, nel celebre supplemento Della conoscibilità della cosa in sé,

la riflessione sul tema perviene ad una compiutezza mai raggiunta prima:

«È vero quindi che l’atto volontario è soltanto la manifestazione fenomenica più diretta e più chiara della cosa in sé, ma da questa verità risulta che, se noi potessimo conoscere tutti gli altri fenomeni altrettanto direttamente e intimamente, dovremmo ritenerli uguali a ciò che in noi è la volontà. In questo senso io sostengo dunque che l’intima essenza di ogni cosa è volontà e chiamo la volontà cosa in sé. In tal modo la dottrina kantiana dell’inconoscibilità della cosa in sé viene ad assumere una trasformazione, secondo la quale è soltanto e in assoluto e a fondo che la cosa in sé non può essere conosciuta: per noi, invece, essa viene sostituita da quello che è di gran lunga il più immediato tra i suoi fenomeni e che, per questa immediatezza, si distingue toto genere da tutti gli altri; dobbiamo quindi ricondurre l’intero mondo dei fenomeni a quel fenomeno nel quale la cosa in sé si presenta coperta dai suoi veli più sottili e che resta ancora tale solamente in quanto il mio intelletto, che solo è dotato della facoltà conoscitiva, rimane ancora e sempre diverso da me, nella mia qualità di essere dotato di volontà, e non depone, nemmeno per la percezione interna, la forma conoscitiva del tempo. / Pertanto, anche dopo quest’ultimo ed estremo passo, ci si può ancora domandare che cosa sia mai in definitiva quella volontà che si presenta nel mondo e come fosse il mondo, quando la si consideri assolutamente in sé; che cosa sia dunque la volontà, prescindendo completamente dal fatto che essa si presenti come tale, oppure dalla circostanza che, in generale, essa si manifesti fenomenicamente, che venga cioè conosciuta. Questa domanda non troverà mai una risposta, perché, come si è detto, l’essere conosciuto è già, di per sé, in contraddizione con l’essere in sé e perché ogni essere conosciuto è, in quanto tale, soltanto fenomeno. Ma la possibilità di porre questa domanda ci indica che la cosa in sé, che noi conosciamo con la massima immediatezza nella volontà, può avere, interamente al di fuori di ogni possibile fenomeno, determinazioni, proprietà, modi d’essere che sono per noi assolutamente inconoscibili e inconcepibili e che resteranno, quale essenza della cosa in sé, proprio quando la cosa in sé, come vedremo nel quarto libro, si sarà liberamente annullata in quanto volontà, si sarà perciò completamente staccata dal fenomeno e, per la nostra conoscenza, ossia in riferimento al mondo dei fenomeni, si sarà trasformata nel puro nulla. Se la volontà fosse semplicemente e assolutamente la cosa in sé, anche questo nulla sarebbe assoluto: invece, proprio in quella sede, noi dimostreremo espressamente che esso è soltanto relativo»18.

La Volontà, coi suoi fenomeni, sprofonda nel nulla; quel nulla, la cui tetra figura si pone innanzi quale invalicabile limite al nostro sentiero. Ne siamo atterriti, come i fanciulli temono le tenebre, ed invano tentiamo di scacciarne la lugubre impressione. Nondimeno deve pur trattarsi d’un nihil privativum, ché invero ogni nulla può essere tale solo in relazione a qualcos’altro. Se il nulla è inteso nel presupporre tale relazione, non v’è spazio per una concezione del nihil                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          che in quella esterna, ragione per cui io l’ho definita in base a questa che ne è la manifestazione più immediata». 18 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §18, pp. 988-89.

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negativum – che neanche sarebbe pensabile19. Il Nulla relativo rispetto alla Volontà lascia così aperto uno spazio, che la filosofia schopenhaueriana può solo indicare, kantianamente pervasa di criticismo20, in termini negativi – come negazione della Volontà. Donde il celebre ribaltamento conclusivo del Mondo come volontà e rappresentazione, dal quale la seconda lettura deve ripartire:

«Di fronte a noi non resta, dunque, che il nulla. Ma, non ce ne dimentichiamo: ciò che

si ribella contro un simile annientamento, cioè la nostra natura, non è che la volontà di vivere, quella volontà di vivere che noi stessi siamo e che è il nostro mondo. […] Lo rico-nosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero e assoluto nulla. Ma, viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, è proprio questo mondo, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, ad essere il nulla»21.

Il disvelamento in noi del Wille ci ha accompagnato nella definizione di ciò che la nostra facoltà conoscitiva può formulare solo “in negativo” – come negazione della Volontà. Siamo ora interamente fuori dal fenomeno. Mentre la Noluntas trova dimora al di fuori del fenomeno, la Volontà può essere riconosciuta e colta solo nella dimensione temporale – nella dimensione di singoli atti di volontà, di una volontà particolare/individuale. Se la volontà di vivere non è propriamente il noumeno, ma conserva un inscindibile legame col fenomeno, ebbene, non esauri-sce la totalità del nostro essere ed il suo destino di annullamento deve indurci a rimeditarne il volto alla luce di una visione più alta. E riceviamo conforto nel no-stro cammino dalle splendide pagine dell’opera di Piero Martinetti:

«Se noi consideriamo la Volontà nella sua totalità, dobbiamo riconoscere che essa ha

la sua unità, il suo vero senso e il suo fine nella liberazione; e che in fondo, al di là della Volontà di vivere discorde, vana e dolorosa, si leva, come vera essenza delle cose, una Volontà morale, che anzi è, al suo limite, una Noluntas. Perciò quando Schopenhauer ci mette dinanzi, per una specie di anticipazione, all’unità ed alla perfezione della Volontà, egli ha dinanzi a sé la Volontà quale dovrà apparire nell’esperienza ideale superiore dell’uomo geniale e del santo, non quale essa appare a noi nell’esperienza ordinaria»22.

V’è una profondità ulteriore rispetto a ciò che avevamo inteso essere il fondo.

Avevamo scorto una potenza cieca, abisso inattingibile, necessitante il nostro agi-re, volontà di vivere, Volontà: così l’avevamo chiamata. Pure, ancorché incono-

                                                                                                                         19 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §71, pp. 571-72. 20 Per una attenta riflessione sul rapporto tra lo sviluppo sistematico della metafisica della Volon-tà nell’epoca dei grandi sistemi postkantiani e l’esigenza di fedeltà all’autentico criticismo kantia-no, cfr. M. Segala, Schopenhauer, la filosofia, le scienze, Edizioni della Normale, Pisa 2009, pp. 122-26. 21 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §71, pp. 575-76. 22 P. Martinetti, Schopenhauer, cit., p. 80.

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scibile, ne avevamo scorto un volto, riconosciuto in noi e nell’oggettivarsi in ogni fenomeno. Cosa in sé: così l’avevamo chiamata, ancorché in un senso affatto par-ticolare, legato al nostro modo di conoscenza. Eppure, in guisa di presagio, ab-biamo scorto in noi stessi, innanzi tutto, e nell’osservare gli altri, che cosa può ac-cadere quando ci sembra che la volontà si rinneghi, quando avviene o sembra di-svelarsi nell’umana coscienza la libertà di non volere, allorché sorga in noi il pensiero o il presagio – sì, deve essere un presagio – della negazione. Nondimeno comprendiamo che tale pensiero, tale presagio – ché non è certo conoscenza – at-tinge a qualcosa che non corrisponde sensu proprio ad un’oggettivazione. Ché non abbiamo dinanzi un fenomeno. Nell’esperire in noi e nello sguardo dell’Altro ciò che la ragione ed il linguaggio possono esprimere solo negativamente come negazione della Volontà – o filosoficamente non esprimere affatto, ma quale ri-nuncia! – noi non affermiamo più l’essere come oggetto. Rileviamo invece la drammaticità di uno scarto tra ciò che abbiamo riconosciuto essere e ciò che sia-mo chiamati ad essere nella parte più remota di noi stessi.

Schopenhauer ravvisa in tale ulteriore profondità l’essenza della cosa in sé. Nell’ammettere che l’essenza (Wesen) è nella negazione della “cosa” scorgiamo altresì una prospettiva di oltrepassamento della metafisica. Emerge una conce-zione alla cui stregua l’essenza non può essere entificata, ridotta alla sua cosalità – scardinamento autentico del paradigma rappresentativo. E ci sentiamo persino sospinti dall’anelito di poter respingere ogni esplicita ricusazione heideggeriana, mentre muoviamo i nostri passi nel fitto dei medesimi sentieri:

«Visto a partire dalla metafisica (cioè a partire dal problema dell’essere [Seinfrage]

nella forma: che cos’è l’ente?), l’essenza nascosta dell’essere (il rifiuto) si rivela come il mero non-essente, il nulla. Ma il nulla come nulla [Nichthafte] dell’ente è la più radicale controparte del semplice niente [Nichtige]. Il nulla non è mai un mero niente, come non è affatto qualcosa, alla stregua di un oggetto; il nulla è l’essere stesso, la cui verità so-pravverrà all’uomo quando si sarà oltrepassato come soggetto, cioè quando non si rap-presenterà più l’ente come oggetto»23.

Nel rimeditare l’essenza, siamo nondimeno ancora percorsi in ciascuna parte

di noi stessi da un invincibile terrore per la soppressione del fenomeno nostro, ancorché persuasi che l’annullamento della Volontà non possa implicare la deriva nell’assoluto Nulla. Teodorico Moretti-Costanzi sottolinea, con ineguagliabile profondità, come

                                                                                                                         23 M. Heidegger, Sentieri Interrotti, tr. it. a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 101 nota 14. Per un’ampia riflessione sullo schopenhauerismo heideggeriano, cfr. T. Moretti-Costanzi, L’ascetica di Heidegger (1949), in Id., Opere, a cura di E. Mirri e M. Moschini, Bompiani, Milano 2009, p. 2581 ss.

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«Schopenhauer raccomanda di discacciarne la sinistra impressione, di vincere in noi il fanciullo timoroso della tenebra; mentre però, suo malgrado, non può esimersi dal guardare atterrito la nebbia funerea che ondeggia come ultimo termine in fondo alla vir-tù, con la luce di questa, ancora una volta, la squarcia, e la dissipa. Come il Petrarca nell’ultimo canto, vede allora distendersi nei cieli liberati dall’universo che va in frantu-mi e si dissolve per tutto il giro dei suoi astri, lo splendore di Dio “…diese unsere so sehr reale Welt mit allen ihren Sonnen und Milchstrassen – Nichts”»24.

Attraverso l’esempio dei santi, ci perviene da lontano una luminosità rischiara-

trice, custodita in fondo all’essenza nostra, alla cui stregua è possibile ritrovar di-schiusi il senso e la pienezza dell’esistenza, di là delle miserie di questo mondo: «Giacché è il mondo delle cose finite, del dolore e della morte. Ciò che è in esso e viene da esso deve finire e morire. Ma ciò che non è e non vuol essere di questo mondo lo attraversa con onnipotenza facendolo fremere, come un fulmine che esplode verso l’alto e non conosce tempo né morte»25.

Il dolore, la miseria, il male si rendono drammaticamente presenti nel nostro stato, nella nostra condizione di avvolgente necessità. Nondimeno tale necessità non esaurisce la totalità dell’essere. Vi è uno scarto incommensurabile tra affer-mazione e negazione della volontà, che si esprime nel problema, serio concreto profondo, della libertà. È il problema dello scarto tra necessità e libertà. L’affermazione della Volontà, in quanto apparente libertà di volere, ha una con-notazione relativa. Pertanto, ove sia intesa come totalità assolutizzante, si presen-ta in tutta la sua miseria. Necessità è orizzonte di relatività:

«La necessità è il regno della natura, la libertà è il regno della grazia. […] la negazione

del volere, la presa di possesso della libertà, non si può raggiungere a forza e di proposito deliberato. Scaturisce dall’intima relazione della conoscenza con la volontà nell’uomo e quindi si produce repentinamente quasi per ispirazione venuta dal di fuori. Perciò la Chiesa la chiama effetto della grazia. Ma come, secondo la Chiesa, la grazia non riesce efficace, se non cooperiamo a riceverla, così anche l’effetto del quietivo si risolve in un atto di libera volontà. L’azione della grazia muta e trasforma dal profondo la natura dell’uomo, il quale ormai disdegna ciò che ha finora desiderato con ardente bramosia; è davvero un uomo nuovo che si sostituisce all’antico»26.

La libertà di non volere è un modo di formulare – per quanto difetti d’adeguatezza – il vero senso della libertà, che trova il proprio cominciamento                                                                                                                          24 T. Moretti-Costanzi, Schopenhauer (1942), in Id., Opere, cit, p. 2316, ove si sostiene che Scho-penhauer avrebbe tratto ispirazione, per le ultime parole della sua opera fondamentale, dal Trion-fo dell’Eternità del Petrarca: «Questo pensava: e mentre più s’interna / la mente mia, veder mi parve un mondo / novo, in etade immobile ed eterna. / E l’ sole e tutto l’ciel disfare a tondo / con le sue stelle; ancor la terra e l’mare; / e rifarne un più bello e più giocondo». 25 A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, vol. II, tr. it. a cura di M. Carpitella, Adelphi, Mila-no 1998, pp. 365-66. 26 A. Schopenhauer, Il Mondo, cit., §70, pp. 565-66.

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nella negazione della necessità, del relativo, del finito in cui consistiamo: possibilità dell’essere, possibilità del superamento della relatività necessitante. Tale è il primo fondamento del problema della libertà, in quanto superamento del finito, del relativo, della necessità. Non già dell’apparenza mera, bensì di ciò che non deve essere inteso come assoluto. Sulla responsabilità dell’individuo nello scenario dell’abisso della tensione della libertà, Schopenhauer avrebbe dovuto “dire” di più, ma non ha osato. Nondimeno ha preferito evitare il completo silenzio ed anche ai suoi interlocutori – non solo nelle sue opere – ha mostrato autentica commozione nel trasmettere i propri presagi di libertà, sorti dal fondo della coscienza migliore.

La Noluntas è indubitabilmente legata all’insufficienza del linguaggio, che ten-ta di scorgere e pronunciare l’oltrepassamento. L’abissale pensiero del volere eventualiter altrimenti è reso ora possibile: ciò che vi è di più profondo nella no-stra essenza, interamente fuori d’ogni fenomeno, non assolutamente un’incognita, una X, bensì la negazione di ciò che abbiamo riconosciuto essere, in relazione al nostro modo di conoscenza. Se non-volere significa negazione di ciò che abbiamo riconosciuto essere, dobbiamo confrontarci col Morire. Non già soppressione del fenomeno del Wille, è il Morire, bensì conseguenza del ripensa-re radicalmente l’uomo, come “uomo nuovo”, colui che rinuncia alla volontà e la nega: «solo lui infatti vuole morire davvero e non soltanto in apparenza: lui solo quindi non ha bisogno né chiede di sopravvivere. Egli rinuncia di buon grado all’esistenza, come noi la conosciamo: ciò che ottiene in cambio è nulla ai nostri occhi, poiché nulla è la nostra esistenza in rapporto a quell’altra»27.

Nel più remoto angolo della più remota parte di noi stessi è il luogo ove si ren-de possibile il pensiero dell’autentica libertà; il luogo ove risiede la possibilità della rimeditazione di noi stessi; ove s’apre il minuscolo uscio del non più essere questo. Di tale libertà scorgiamo soltanto un lontano presagio, eppure ne sentia-mo quasi la nostalgia, come se vi appartenessimo, da sempre.

Vorremmo affrancarci, ma non siamo liberi di farlo. Dovremmo farci intera-mente da parte, per divenire libertà.

E non possiamo certo sorprenderci d’essere stati ricondotti al principio del no-stro sentiero, a quel livello di (migliore) coscienza, che nella libertà di non volere lascia riposare l’essente nel suo proprio essere28. E nel contemplare quei luminosi squarci del cielo, che, sorti dalla Noluntas, indicano la via che conduce ad un nuovo fondamento29, avvertiamo suggestioni di heideggeriana Gelassenheit, ove

                                                                                                                         27 A. Schopenhauer, Supplementi, cit., §41, pp. 1402-03. 28 Si leggano, sul punto, le considerazioni di Edoardo Mirri in A. Schopenhauer, La dottrina dell’Idea, cit., p. 78. 29 M. Heidegger, L’abbandono, tr. it. a cura di A. Fabris, Il Melangolo, Genova 2012, p. 44.

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il luogo dell’abbandono è dal “Non Volere”30 compenetrato, quale dischiudimen-to all’apertura dell’essere31.

Sullo sfondo è il Vero, che non dimora nella giustezza della visione, che non si fa comprendere dal cogitare calcolante: «l’essere si sottrae ritraendosi nella pro-pria verità. Esso custodisce se stesso e si nasconde in questo custodirsi. In questo nascondente custodimento della propria essenza da parte dell’essere, si intravede forse l’essenza del mistero in cui la verità dell’essere è [west]»32.

Oltrepassata l’ontologia della Volontà, scardinato definitivamente il paradigma rappresentativo, riconosciamo infine il primato ontologico della Noluntas. Il li-mite del linguaggio, che ci costringe alla negazione, all’impossibilità di pronun-ciare il mistero, non può impedirci di affermare che il nascondimento del pensie-ro nello sguardo dell’Altro è il rifugio ultimo della filosofia, dove è, al contempo, silenzio e fragore.

                                                                                                                         30 Ivi, p. 52. 31 E. Mirri, Il pensare poetante in Martin Heidegger, Armando, Roma 2000, pp. 105-106. 32 M. Heidegger, Sentieri Interrotti, cit., p. 243.

Sguardo fenomenologico e alterità Federica Malfatti

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Sguardo fenomenologico e alterità. Riflessioni a partire dalle Meditazioni cartesiane di Husserl Federica Malfatti Phaenomenological Perspective and Otherness. Reflections upon Husserl’s Cartesian Meditations Abstract What does Husserl have to say about the relations between the self, the other (the not-self) and the world? Which problems arise from the concept of “other”, from a wider, phenomenological point of view? What does it mean, phenomenologically speaking, having to do with an Otherness? How can the phenomenological subject meaningfully think about the other as another subject, but different from himself? What kind of presence has the other, in the world of a subject - ab-sence, presence, or present assence? What cognitive aim serves the Otherness, in the constitution of the objectivity of the world? Keywords: Husserl, Phenomenology, Otherness, World, Objectivity.

1. Il senso di un’indagine fenomenologica 1.1 Agli albori di un nuovo sguardo Fenomenologia è esercizio di sguardo, sguardo chiamato a mutare e sguardo

che muta. Attitudine fenomenologica è maturazione di un nuovo modo di porsi al cospetto della realtà1. È uno sforzo peculiare, quello fenomenologico, da un certo punto di vista privo di oggetto in senso tradizionale – è un richiamo dello sguar-do a volgersi non tanto ad un dass (il mondo) quanto ad un wie (il darsi, del mondo). Guardare il mondo con occhi fenomenologicamente orientati significa, primariamente, problematizzarsi, fare problema del proprio aprirsi alla realtà; significa, in altri termini, trovarsi a dover rivolgere l’attenzione verso se stessi, re-flectere nel senso etimologico di ripiegarsi su di sé2, indagare se stessi e le pro-

                                                                                                                         1 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secondo, p. 143 e L. Vanzago, Coscienza e alterità, Mimesis, Milano 2008, p. 49. 2 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 4.

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prio strutture come presupposto della loro applicazione. Nel far ciò, a rigore, non si intacca mai il mondo in quanto tale, o meglio non si agisce su di esso per via di-retta. Non è il mondo a mutare, da un punto di vista fenomenologico – a cambia-re sono se mai il modo (il wie) del suo darsi, il modo in cui ad esso ci si riferisce e il modo in cui ad esso ci si relaziona. In linea generale è proprio in tale interesse per la modalità (per il come, per il wie) e nello speculare disinteresse per il dass che si comprende il senso dello sguardo fenomenologico. La questione, da un punto di vista fenomenologico, non è mai, allora, tematico-ontica (non è realisti-ca); cioè: non è mai “se” qualcosa si dia, ma “come” quella cosa si dia (e, in ciò, quale sia il “senso” di tale suo darsi)3.

1.2 Un passo indietro: mondo sospeso, riduzione e limiti del linguaggio Il mondo, per un Io che abbia preso le distanze dalla natürliche Einstellung di

cui parla Husserl, cessa di essere un mondo dato4. Detto altrimenti: esso cessa di essere assunto implicitamente come tale e come esistente. Preme sottolineare, qui, come il problema non riguardi mai l’esistenza o la non esistenza tematica di qualcosa, quanto se mai, e più radicalmente, l’esistenza stessa – la tesi sull’esistenza5. Abbandonare l’atteggiamento naturale significa, in generale, ri-nunciare a qualsiasi presa di posizione (priva di fondamento auto-evidente); si-gnifica, in particolare, porsi da un punto di vista neutrale rispetto alla positività o alla negatività dell’esistenza – nella misura in cui è l’esistenza stessa, se mai, co-me modalità concettuale di interpretazione del reale, ad essere messa in discus-sione. Negare l’esistenza come reazione all’esercizio del dubbio non può essere la soluzione (dato che non-p è pur sempre correlativo di p, si dà come rovescio di p stesso, lo mantiene per così dire in vita, per quanto negato, mentre qui è proprio il suo statuto ad essere in questione) e anzi un dubbio che vada a poggiare su di una negazione non è un dubbio abbastanza radicale. È la tesi sul mondo generi-camente intesa (di esistenza o di non esistenza che sia), da un punto di vista fe-nomenologico, a dover essere messa in discussione, ad essere neutralizzata, posta in Klammern, ausgeschalten (e questo è il senso dell’epoché fenomenologica)6. Lo sguardo ingenuo, o naturale, si immagina come uno sguardo che va in avanti, che muove quasi inconsciamente verso un mondo che è già lì; uno sguardo in-somma che vive in un mondo dato, che in qualche modo si relaziona ad una stati-                                                                                                                          3 Ivi, p. 20. 4 Cfr. S. Luft, Husserl’s phenomenological discovery of the natural attitude, in «Continental Phi-losophy Review», 1998 (31), pp. 153-170. 5 Cfr. P. Ricoeur, Etudes sur les «Méditations Cartésiennes» de Husserl, in «Revue philosophique de Louvain», 1954 (92), pp. 75-109. 6 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 7 e ivi, p. 13.

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cità preesistente. Di contro, lo sguardo fenomenologico è uno sguardo che regre-disce, che muove un passo all’indietro e non in avanti al cospetto del mondo, che ne pone in parentesi l’immediatezza – e che ciò facendo ne pone in parentesi an-che la staticità. Il mondo del nuovo soggetto non è più mondo dato, e perciò mondo fermo; è mondo che è colto nella misura in cui si dà, nel suo darsi ad un soggetto o, detto altrimenti, nella misura in cui viene ad essere, si fa evento, fe-nomeno d’essere per quella soggettività guardante. Il mondo di un soggetto fe-nomenologico non è più mera collezione di cose isolate e determinate, ma si fa struttura, acquista complessità e dinamicità. La cosa (l’oggetto) ottiene il suo senso nella misura in cui è tolta dall’isolamento ed è posta all’interno di una di-mensione relazionale (anche se non oppositiva), nel momento in cui è in nesso con altro. Questo non per dire che non si dia nulla che non sia relativo ad un sog-getto, e neppure che il soggetto crei o costituisca il proprio oggetto – quanto per svuotare di senso la stessa concezione che opponga un soggetto conoscente ad un oggetto conosciuto (o da conoscersi) al di fuori di esso7. Qui non si tratta di far prevalere sull’altro uno dei due corni della relazione oppositiva, ma di mostrare (perché di zeigen, forse, e non di sagen si tratta) l’inconsistenza intrinseca di questa stessa opposizione. È questo un tentativo audace, perché in qualche modo innesca, a partire dal linguaggio, un tentativo di auto-superamento del linguaggio stesso. Se si assume quest’ultimo come dato, se ci si ferma agli strumenti espres-sivi da questo forniti, ci si ritrova costretti a pensare la relazione conoscitiva in termini relazionali e in termini oppositivi8. Ma allora rigettare tale concezione, e manifestare tale insoddisfazione dall’interno (linguisticamente), equivale a met-tere il linguaggio contro se stesso. Il linguaggio scopre da sé e mostra la propria inadeguatezza, parla dei propri limiti, assiste ad uno slittamento semantico nei suoi strumenti concettuali. Non ha più senso, da un punto di vista fenomenologi-co, “parlare” di soggetto e oggetto. La radicalità dell’attitudine fenomenologica ha come riflesso una problematizzazione onnipervasiva che, come tale, non rispar-mia nulla – neppure il linguaggio in cui viene espressa.

1.3 Ego cogito cogitata. Il mondo qua cogitatum L’esito di un mutamento di sguardo in senso fenomenologico è un mondo ri-

dotto, nel senso etimologico di re-ductus, ossia ricondotto al suo darsi ad un sog-getto percipiente9. Detto in altri termini: l’esito della riduzione è un mondo che si                                                                                                                          7 Cfr. K. Tharakan, Husserl’s notion of objectivity: a phenomenological analysis, in «Indian Phi-losophical Quarterly», 1998 (25), pp. 215-225. 8 Si pensi a Gegen-stand, lett. “la cosa che sta di contro”. 9 La problematica della riduzione è delineata in E. Husserl, Zur Phänomenologischen Reduktion. Texte aus dem Nachlass (1926-1935), Kluwer, Dodrecht-Boston-London 2002. Per un’analisi cri-

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dà come cogitatum correlativo di un cogito (di un atto di cogitare, di una cogita-tio). Ma la triade che sembra sottesa a tale discorso è solo apparente: non sono vissuti da un lato l’Io cogitante, dall’altro l’oggetto cogitato ed infine l’atto di cogi-tare a porre tali due elementi in correlazione10. Non solo l’oggetto cogitato si dà, si costituisce nel suo darsi come oggetto di una cogitatio11; lo stesso Io è tale nella misura in cui cogita, nel momento in cui si dà un mondo (oppure, detto in altri termini, nella misura in cui lo “intenziona” – nel senso che è punto di partenza di atti intenzionati o intenzionali). Cogito e cogitata, atti intenzionali e oggetti in-tenzionati non si danno gli uni senza gli altri, sono due volti dello stesso gesto, sono due modalità di cogliere e di descrivere la medesima e unica realtà. Ma dire che il mondo ridotto è mondo “per un” soggetto equivale a dire che tale mondo trova in tale soggetto il proprio senso, che è esso stesso la struttura di senso che lo accompagna e lo giustifica come soggetto. Perché se l’essere del mondo è esse-re per un soggetto, ossia se il mondo ridotto si scopre mondo non semplicemente dato, ma costituito o da costituirsi, si ha come immediato riflesso il darsi a vedere di qualcosa (e tale è l’Io trascendentale, o trascendentalmente ridotto) che sia l’elemento costituente, che sia condizione del darsi del dato, che sia presupposto di ogni oggettivazione e di ogni manifestarsi. L’Io, allora, va concepito come fonte del senso, come condizione di apertura di un discorso di senso12.

1.4 Un passo in avanti: l’Io e la costituzione La questione relativa alla costituzione è il risvolto propositivo dell’attitudine

fenomenologica. Si è visto come il primo movimento auspicato dalla fenomeno-logia sia un passo all’indietro, un regredire di fronte al mondo dopo averlo posto in parentesi. Ma tale sforzo regressivo è significativo nella misura in cui fa appel-lo ad un ritorno, nel senso in cui esige un nuovo passo in avanti13. Si tratta, a que-sto punto, di tentare di parlare di ciò che si era escluso, di fare ritorno a quella realtà che si era sospesa. Lo sguardo fenomenologico, dopo il ripiegamento su di

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         tica della questione, cfr. D. Lohmar, Die Idee der Reduktion Husserls Reduktionen – und ihr ge-meinsamer, methodischer Sinn, in H. Hüni-P. Trawny (a cura di), Die erscheinende Welt. Fes-tschrift für Klaus Held, Duncker & Humblot, Berlin 2002. 10 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secon-do, p. 163 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 15. 11 Ivi, p. 201. 12 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secon-do, p. 144 e ivi, p. 150. 13 R. Bernet, L’idéalisme husserlien: les objects possibile ou réels et la conscience transcendenta-le, in R. Bernet, Conscience et existence, PUF, Paris 2004, pp. 143-168. Cfr. E. Husserl, Medita-zioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 33 e ivi, p. 172.

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sé (sull’immanenza), torna allora a quella realtà (alla trascendenza) da cui aveva preso le distanze. Tale ritorno è un’esigenza che s’impone al soggetto conoscente, nella misura in cui la scoperta del mondo come correlato di un’intenzione, del mondo come mondo per un soggetto, lungi dall’essere la risposta alle domande, è se mai la scaturigine delle stesse. L’essenza fenomenica del mondo, e dell’Io, non può essere assunta come tale – va indagata e problematizzata. Il mondo fenome-nico è variegato, poroso, non unitario; è misto di attualità e potenzialità, imme-diatezza e mediatezza, scorrimento e fissazione, parzialità e unità, mutevolezza e permanenza14, molteplicità e identità, luci e ombre, presentazioni e presentifica-zioni, presenze e assenze (e in questo, forse, assenze presenti o, il che è lo stesso, presenze di assenze). Si può dar sì il caso di fenomeni che si diano immediata-mente e non problematicamente in quanto tali, ma si può dare anche il caso di fenomeni che invochino di essere trascesi, che in quanto tali si diano non di per sé ma come mezzo per qualcosa di ulteriore, che nel loro essere lì sono lì per al-tro, che sono in qualche modo la base di partenza per un salto, per operare un’inferenza (presuntiva o analogica) che proietti al di là degli stessi. Quello dell’Io, poi, è un caso particolare: l’Io che nella riduzione si è scoperto monade (ossia apertura di senso e presupposto di ogni oggettivazione), si trova a fare i conti con la propria “gettatezza” in quel mondo di cui lui stesso ha permesso e ga-rantito la costituzione. L’Io fenomenologico, nel momento in cui pretende di sta-gliarsi all’origine del senso, si scopre essere primariamente un Io che è corpo, una coscienza incarnata che deve fare i conti con la propria condanna all’esteriorità. L’Io deve poter pensare la propria stessa esteriorità, di fatto, mentre vorrebbe precedere ogni esteriorità, deve riuscire cioè a pensarsi come oggetto, come costi-tuito15. Già si intuisce, qui, la possibile rilevanza dell’alterità nel processo di costi-tuzione dell’Io: l’alterità è un’alterità guardante e oggettivante, è un’alterità che è colta come oggetto ma che è essa stessa soggetto; è qualcosa, perciò, in cui il sog-

                                                                                                                         14 La permanenza dell’oggetto ha in generale come presupposto la permanenza della coscienza (il suo mantenersi identica in tempi diversi); di più: la coscienza può cogliere l’oggetto come inva-riante solo dopo aver colto la propria invarianza nel fluire temporale (e qui si inserirebbe la com-plessa questione concernente la temporalità, avente come correlato un’idea di coscienza il cui es-sere sia essere temporalizzato, che è nella misura in cui “è presente”, nella misura cioè in cui è in bilico tra due regioni di indeterminatezza, che si staglia all’intersecarsi di due zone d’ombra – passato e futuro, mantenute in contatto con il presente, e anzi in qualche modo presenti, median-te ritenzioni e protenzioni). Cfr. D. Lohmar, What does Protention “protend”?, in «Philosophy Today», 2002 (46), pp. 154-167. 15 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secon-do, p. 150 e ivi, p. 153 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 27.

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getto si può calare immaginativamente e che gli permette di pensarsi come costi-tuito16.

2. Il mondo per un Io. Alterità emergente 2.1 Ego e oggettività Ciò che si dà all’esperienza di un Ego non è mera molteplicità caotica. L’Io

opera per sintesi, e anzi il suo mondo è tale nel momento in cui è sintetizzato, nella misura in cui è ricondotto al suo essere correlato di un atto sintetico (inten-zionale). L’Io, nel suo essere fonte di atti sintetici e intenzionali, è garanzia di uni-tà nella molteplicità; è, si è visto, polo di riferimento della manifestazione, condi-zione di ogni darsi del mondo. Tale sua interpretazione in senso trascendentale, questo suo essere condizione di apertura di un discorso di senso sembrano porre un problema di fondo. La riconduzione del mondo all’essere mondo per un sog-getto potrebbe essere interpretata come un collassare dell’in sé sul per sé. Sem-brerebbe aprirsi qui la questione di come possa darsi un mondo oggettivo o, detto altrimenti, di dove risieda la validità di quel per sé, di quel mondo che vale per un soggetto guardante. La soluzione, da un punto di vista fenomenologico, consiste in una specie di sospensione del problema stesso: se l’unico oggetto che conta è oggetto intenzionato, se non c’è oggetto al di fuori di quello che si dà come corre-lato di un’intenzione, se anzi gli stessi concetti di soggetto e oggetto vanno ripen-sati, non ha senso porsi una questione che come oggetto abbia l’oggettività (l’oggettività, di per sé). Non a caso, quando Husserl nella «V Meditazione Carte-siana» si pone il problema di oggettività e validità, egli sceglie di affrontarlo indi-rettamente, mediatamente, come riflesso di un problema diverso – ossia come correlato della questione dell’altro e dell’alterità. Husserl non va alla ricerca dell’oggettività e dei suoi fondamenti tematicamente, non si pone il problema dell’oggettività in quanto oggettività, ma lascia che il problema dell’oggettività emerga e si risolva nel suo parlare di alterità17. Postulando l’intersoggettività, parlando di mondo come mondo intersoggettivo, troverà l’essenza dell’oggettività. Scoprirà cioè non solo o non tanto come l’oggettività vada a fon-darsi sull’intersoggettività – scoprirà, piuttosto, come l’oggettività “sia” intersog-gettività. Come l’intersoggettività sia, in altri termini, il modo adeguato di inten-dere (e di pensare) l’oggettività, come il mondo sia oggettivo nel suo essere inter-

                                                                                                                         16 Cfr. ivi, p. 30. 17 Cfr. ivi, p. 117: «Si tratta ora della costituzione trascendentale e perciò del senso trascendentale dei soggetti esterni e, per una conseguenza ulteriore, d’una storia universale del senso che, ema-nando dall’interno, rende per me possibile in assoluta originarietà il mondo oggettivo».

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soggettivo – nel suo darsi come correlato non tanto di un’intenzione, quanto di una co-intenzione18.

2.2 Ego solus ipse e Ego nella sfera appartentiva Accanto al problema dell’oggettività sembra però stagliarsi, per l’Ego fenome-

nologicamente ridotto, la questione del solipsismo («E la fenomenologia, che vo-leva risolvere i problemi dell’essere oggettivo e darsi già come filosofia, non sa-rebbe allora da stigmatizzare come solipsimo trascendentale?»19). Come reazione anticipante un’eventuale obiezione in tal senso (che è obiezione a doppio taglio, che mentre fa problema dell’essere dell’Io fa problema anche dell’essere degli al-tri, e dell’essere degli altri per se stessi oltre che dell’essere degli altri per l’Io), Husserl reagisce con apparente e voluta paradossalità, radicalizzando il ripiega-mento dell’Io sull’Io, dell’Io su di sé. Quella che Husserl mette in atto (e che chiama riconduzione alla sfera appartentiva, alla Eigenheitlichkeit20) è un’ope-razione, astrattiva, di delimitazione in qualche modo dall’interno. È come se l’Io tracciasse, a partire da sé e dalla proprietà di sé, una linea discriminatoria tra il proprio e il non proprio. Ma tale linea avrebbe non tanto il senso di Schranke, quanto di Grenze nel senso di Kant e di Wittgenstein. Schranke è confine nel sen-so di barriera, limite tracciato da un punto di vista esterno (che come tale pre-suppone di poter cogliere, visivamente, entrambe le regioni d’essere coinvolte dalla separazione); Grenze invece è più orizzonte che confine, è linea tracciata dall’interno e a partire da qualcosa di dato, confine in qualche modo dal volto bi-fronte, che ha un lato positivo e uno negativo (positivo perché parte da una pre-senza, negativo perché fornisce ciò che manca mediatamente, mediante un rifles-so, come qualcosa che non si dà ma che in tale suo non darsi non è vuota negati-vità – come assenza che è presenza, come presenza di un’assenza). Circoscrivere (nel senso di tracciare la linea d’orizzonte attorno al) lo spazio della sfera del sé diviene allora la modalità di individuazione di ciò che come tale non si dà temati-camente, di ciò che (il non proprio, l’altro) si staglierà come assenza, ma come as-senza presente21 e come tale non ignorabile, al di là dell’orizzonte stesso.

2.3 Alterità che s’intravvede L’orizzonte di esperienza dell’Io, quell’orizzonte che si dà già come fenomeni-

co, è astrattivamente purificato da ogni traccia di estraneità. Tale ripiegamento

                                                                                                                         18 Cfr. ivi, pp. 114-115. 19 Ivi, p. 113. 20 Ivi, p. 119. 21 Cfr. R. Sokolowsi, Presence and Absence, Indiana University Press, Bloomington and London 1978.

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drastico e artificiale sull’Io prevede il tentativo di esclusione metodica, da quel mondo che si dà al soggetto conoscente, di ogni traccia di elemento non ricondu-cibile all’Io cogitante. Ciò implica l’esclusione, dall’orizzonte, di quanto non si dia come noema di un soggetto intenzionante22 – o, il che è lo stesso, di tutto quello che è intuito essere punto di partenza di una noesi, almeno potenziale (dunque, di quanto sia soggettività altra rispetto al soggetto o di quanto sia anche solo in-dice di quella soggettività). Tale sforzo di circoscrizione e di esclusione è partico-larmente fecondo nel suo risvolto negativo, ossia se si volge lo sguardo agli esclu-si (a ciò che nel proprio non può essere fatto rientrare), ed è particolarmente in-teressante ai fini della comprensione non tanto dell’alterità (di cosa sia, alterità), quanto del senso-alterità23. Ne emergerà un’alterità che è strumento dell’Io, che forse da un certo punto di vista ne è il presupposto; ma ne emergerà anche un’alterità silente, un’estraneità celata e implicita nella familiarità24.

2.4 Duplicità dell’Ego Da un punto di vista appartentivo, l’Io si coglie nella propria peculiarità. Men-

tre il mondo fenomenico gli si dà (almeno ad un primo sguardo) univocamente e non problematicamente, nell’esperire se stesso egli fa esperienza di una comples-sità sconosciuta. Nel percepirsi sperimenta una duplicità costitutiva (o, il che for-se è lo stesso, nel percepirsi si scinde – quasi che l’assunzione di una consapevo-lezza di sé come unitario possa avvenire soltanto scindendosi, facendo esperienza di un doppio). Il soggetto è carne e corpo, Leib e Körper25; è carne nel senso di qualcosa che muove e può muovere, è corpo nel senso di qualcosa che è mosso; è carne che muove un corpo, e al tempo stesso è corpo mosso da una carne. Leib e Körper si danno in interconnessione, dipendono l’uno dall’altro – il Leib non solo muove e può muovere il Körper, ma il primo “è” la stessa possibilità di agire con e grazie al secondo (e ha tale possibilità come forma d’essere26). Nell’essere corpo e carne insieme, nell’essere cioè coscienza condannata ad un’esteriorità e ad una                                                                                                                          22 Cfr. J. Drummond-L. Embree (a cura di), The phenomenology of the Noema, Kluwer-Dodrecht-London 1992. 23 Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 164. 24 È interessante notare come una traccia di estraneità si riscontri: 1) a livello di oggettualità, in oggetti particolari che come tali portano l’orma di una soggettività altra, di un’intenzione altrui (che come tali si danno ad un soggetto ma non sono totalmente riconducibili al soggetto stesso); 2) a livello di soggettività, da un punto di vista interno rispetto alla stessa (Io che si coglie come altro di un altro, che ha intrinsecamente un’alterità costitutiva). 25 Cfr. F. Didier, Chair et corps. Sur la phénoménologie de Husserl, Editions de Minuit, Paris 1981. 26 Cfr. Io sono = Io posso, E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigi-ni, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 119.

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corporeità, il soggetto scopre se stesso costituente e costituito insieme. È proprio a partire da tale duplicità costitutiva che si dà un’esperienza di paradossalità in relazione a sé, per cui ciò che è all’origine di ogni costituzione (il soggetto) deve divenire, per se stesso, oggetto costituito e da costituirsi. Altrove Husserl tenta di superare la paradossalità (e il rischio di incoerenza) ricorrendo al concetto di temporalità (la coscienza si può sì cogliere, ma può farlo in ritardo rispetto alla sua manifestazione; può cioè oggettivare qualcosa che da un certo punto di vista non è più sé, o almeno non è più sé presente, sé attuale – che è sé trascorso ma trattenuto). Nella «V Meditazione Cartesiana» pare invece suggerire che l’essere costituente e l’essere costituito (le due mani che si toccano, l’orecchio che sente la propria voce) possano coesistere, siano compossibili, possano darsi insieme al medesimo istante. Sarebbe interessante riuscire a far dire a questo punto a Hus-serl come già qui, in questa coesistenza paradossale di due esperienze che solo problematicamente possono coesistere, si celi, implicita, un’alterità; si dia in-somma una forma di estraneità, seppure su un piano diverso, forse di natura immaginativa. Un’alterità, ma un’alterità immaginata, sarebbe allora strumento di salvataggio della coerenza: la percezione di sé come oggetto avverrebbe sì dal punto di vista di un Io (e fin qui la paradossalità permane), ma di un Io che si immagina altro, che si cala immaginativamente nei panni di un’alterità perci-piente (e qui la paradossalità sarebbe esclusa) – detto altrimenti: di un “qui” che assuma immaginativamente la prospettiva di un “là”27. Ma al di là dei termini in cui viene intesa, vero è che proprio tale duplicità si rivelerà strumento e canone interpretativo dell’alterità altra, dell’alterità in quanto tale – che è alterità vera, diversa da quella che si dà ad un soggetto e che per definizione sarà sempre alte-rità non altra, alterità “per quel” soggetto (nel duplice senso di valida soggettiva-mente, ma anche di funzionale al soggetto, di specchio, di superficie riflettente mediante la quale cogliersi, innescando un ritorno di sguardo a partire da quel soggetto28).

3. Il mondo per Io molteplici. Alterità compiuta 3.1 Alterità dell’altro. Altro come assenza L’alterità come alterità altra, ossia l’alterità come soggettività non potrà mai

darsi all’Io tematicamente, in forma diretta. L’alterità è per definizione qualcosa che si sottrae al soggetto, è una zona d’ombra, una regione opaca nel suo mondo                                                                                                                          27 Qui i termini “qui” e “là” non si riferiscono ad una spazialità oggettiva, ma sono “qui” e “là” as-soluti (il “qui” è sempre relativo ad un Io, è sempre dove l’Io sta, è punto astratto che si dà come correlativo ideale di un “là” – che come tale non può mai darsi se non in opposizione ad un “qui”). Cfr. E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Stu-di Bompiani, Milano 2009, pp. 136-137. 28 Cfr. ivi, pp. 116-117.

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fenomenologico. Anche qui, e radicalmente: c’è qualcosa che si sottrae, che rifug-ge i tentativi di essere fatto oggetto; eppure accanto a ciò, ma correlativamente, si dà il fatto di tale sottrazione – si dà l’esserci di un non esserci (e pare quasi che quell’ombra non sia tanto l’indice di un’alterità presente, quanto che l’ombra “sia” l’alterità stessa; che l’alterità abbia l’assenza, e quella precisa assenza, come particolare forma d’essere). In generale la negatività (intesa però più precisamen-te come parzialità, come darsi parziale piuttosto che come impossibilità) è costi-tutiva di ogni modalità intenzionale – ma al di sopra di ogni altra è peculiare del-la modalità percettiva.

In Georges Braque (1882-1963), come in Tony Cragg (1949), si può notare il tentati-vo di cogliere artisticamente la coesistenza, ad uno sguardo, di molteplici prospettive di percezione (una sorta di rap-presentazione in forma pre-sentativa di quanto per defini-zione si dà solo appresentati-vamente). Il punto di vista del fruitore è come soggetto ad una moltiplicazione fittizia; da un punto di vista unico si finge la percezione simultanea di più punti di vista. In Cragg si ha, nelle sue stesse parole, un divenire che si stabilizza, il condensarsi di un fluire, una sorta di presente con tanto di protenzioni e ritenzioni mate-rializzate.

L’oggetto percepito mi si dà per profili parziali. Ciò significa che l’oggetto non

mi si dà mai nella sua interezza, che l’identità è oscuramente consaputa, che l’unità mi si dà per costituzione a partire da una prospettiva limitata – insomma, che l’essere dell’oggetto sia il suo darsi in forma parziale, il suo rimandare ad un’unità nella parzialità. È come se il profilo fosse lì non per sé ma per altro; co-me se con il suo esserci rimandasse a qualcosa di ulteriore e di cui è parte (e che come tale non potrà mai darsi). L’oggetto è sempre oggetto unitario, ma tale sua unità è unità non data immediatamente, eppure consaputa, presunta e inferita a

Georges Braque, Mandola, 1910. Olio su canvas, 72 x 58.2 cmcm,The Tate Gallery, London.

Tony Cragg, Current Version, 2010. Bronzo, Col-lezione Lilian Johannsson.

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partire da una sua manifestazione parziale (colta insomma in veste “appresenta-tiva” a partire da un suo profilo “presentatosi”). È pur vero che attorno all’oggetto si può ruotare, a scoprirne presentativamente i lati nascosti; ma è anche vero che ciò che è rilevante, qui, è il fatto che qualsiasi lato presentato rimandi automati-camente ad un’unità sottesa, con tutti i suoi lati celati, e che tale unità relativa all’oggetto non possa essere fatta oggetto a sua volta, non possa darsi tematica-mente29. Detto in altri termini, più vicini ai nostri scopi: l’unità dell’oggetto si dà in forma mediata, come esito di un’inferenza. E l’altro, così come l’unità, è qual-cosa che per definizione non mi si può dare immediatamente. Detto altrimenti: l’altro come altro, ossia l’altro come soggetto, non può (pena l’incoerenza) essere ridotto ad oggetto per un soggetto. L’alterità (l’alterità come soggetto) va in qual-che modo svincolata dall’oggettualità, mentre è oggetto per un soggetto. La situa-zione sembra disperata, ma c’è in realtà un modo, ci dice Husserl, in cui l’altro come altro si può dare – ed esso è suggerito da un lato dall’esperienza della per-cezione, dall’altro dall’esperienza di sé.

3.2 Assenza come presenza. Duplicità per analogia La lezione che si trae dalla percezione è che la negatività non è mero vuoto, ma

soprattutto che quello che si dà non si dà necessariamente in forma immediata (“presentativa”). Ciò che invece deriva dalla consapevolezza di sé è l’esperienza di coesistenza e compossibilità di Leib e Körper. Quel fenomeno peculiare che è il fenomeno altro (qualcosa che è oggetto/non-oggetto, che ha esistenza diversa ri-spetto alle cose, che è con me nel mio mondo, che si preannuncia soggetto che vede me30) può allora essere ricompreso alla luce di una comprensione di sé. La presenza di un Io (di un Leib) è intuita, inferita a partire dalla presenza di un Körper. Si dà, nel mondo, come oggetto (ossia presentativamente) un corpo “co-me il mio”. Ma tale corpo, a partire dall’esperienza che si ha di sé, chiama un an-dare oltre, un trascendere il livello “presentativo” e un accedere, però tramite lo stesso, a quello “appresentativo”. Detto altrimenti: la duplicità costitutitiva dell’Io è posta in relazione all’altro, è proiettata nell’altro per via analogica a partire da sé, è nell’altro trasposta e presunta.

3.3 L’altro come l’immagine, l’immagine come l’altro Al di là della percezione, c’è un’altra modalità intenzionale che prevede un li-

vello “appresentativo”, che prevede cioè il darsi di un’assenza, il non esserci come

                                                                                                                         29 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secon-do, p. 172 e E. Husserl, Meditazioni Cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 15 e ivi, p. 17. 30 E attraverso il quale mi vedo veduto – il che però equivale a vedersi vedente.

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modalità di apparizione: tale è la modalità di immaginazione o, detto altrimenti, della coscienza di immagine31. Ciò che fa di un’immagine se stessa è la sua capaci-tà raffigurativa, rappresentativa, direi evocativa. L’immagine (materiale) è tale nella misura in cui è superficie da attraversare, da trascendere in quanto tale, nel-la misura in cui rimanda ad altro, è lì, ma nel suo essere lì è lì per altro. Esperire un’immagine vuol dire porsi in relazione a qualcosa che come tale non si dà. È pur vero, si obietterà, che può darsi: ma nel momento in cui si desse, e si desse realmente, non sarebbe più immagine (sarebbe il significato dell’immagine – non il Bildding né il Bildobjekt, ma il Bildsubjekt). Cogliere qualcosa come immagine significa non soltanto prescindere dalla cosa, dal suo esserci come Bildding (co-me oggetto che rappresenta, che offre una rappresentazione, che crea un ponte tra due mondi), ma significa proprio elevare tale suo esserci, vederlo non in quanto tale ma in quanto mezzo per altro. Una volta scoperto il Bildobjekt (ciò che nell’oggetto vuole essere rappresentato), ecco che l’immagine in carne ed os-sa (Bildding) non conta più, è lasciata adagiata e silente e inerme sullo sfondo, abbandonata nella sua cosalità, mentre nell’orizzonte di assenza va delineandosi la sagoma di una presenza – per quanto tale apparizione non possa per definizio-ne essere diretta (esattamente come era nel caso del Leib altrui, di una soggettivi-tà altra), ma necessariamente mediata. Il Bildobjekt, così come l’alterità come soggetto, non può mai darsi come presente – è sempre compresenza (Mit-da), presenza inferita, presenza secondaria, oggetto di un’intenzionalità indiretta (e in ciò eccedenza, sovrappiù percettivo e, da un certo punto di vista, ad-ombramento)32.

3.4 Oggettività e intersoggettività. Altro come strumento cognitivo L’alterità inserita nel mio mondo, ossia nel mondo di un Io, porta con sé, ha

come risvolto positivo una sorta di contaminazione a doppio taglio – che se da un lato interessa l’Io stesso, dall’altro interessa il mondo in senso generale. Mediante una soggettività altra, dotata per definizione di potere costitutivo alla stregua di qualsiasi Io, l’Io di partenza si scopre oggetto intenzionale (è Io guardato). Ma qui non si tratta di porre un’alterità all’origine di una soggettività (che si colga come soggettività una volta ricondotta alla sua oggettualità). Di fatto è pur sem-pre a partire da un soggetto che si comprende l’attività costituente di un soggetto                                                                                                                          31 C. Calì, Husserl e l’immagine, Aesthetica Preprint Supplementa, Centro Internazionale di Studi di Estetica, Palermo 2002, E. Franzini, Fenomenologia dell’invisibile. Al di là dell’immagine, Unicopli, Cortina, Milano 2001 e L. Vanzago, Husserl e la doppia vita dell’immaginazione, in «Paradigmi», 2009 (3), pp. 1-16. 32 Cfr. E. Husserl, Ricerche Logiche, tr. it. di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 2005, volume secon-do, Appendice ai §§ 11 e 20 della V Ricerca Logica, pp. 206-209 e E. Husserl, Meditazioni Carte-siane con l’aggiunta dei discorsi parigini, tr. it. di F. Costa, Studi Bompiani, Milano 2009, p. 129.

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altro (il soggetto altro mi dà un’esteriorità, mi riconduce al mio essere Essere e non solo Nulla, ma sono sempre Io a cogliermi come costituito da un altro – sono pur sempre io ad essere consapevole di vedere l’Io che mi guarda, e questo equi-vale a dire di vedersi guardante oltre che guardato). D’altro canto, un mondo po-polato di Io (che lo guardano e che si riguardano in un gioco di rimandi specula-ri) è un mondo trasformato, che si scopre mondo di soggetti molteplici, che è luo-go unico di convergenza di prospettive distinte. È un mondo, quello che emerge dalla scoperta dell’alterità altra, che si dà all’uno nella misura in cui può darsi a ciascuno; un mondo, detto altrimenti, che è oggettivo nella misura in cui è inter-soggettivo, che è intenzionato nella misura in cui è co-intenzionato, che acquista realtà (e validità) mediante l’intersoggettività. È un mondo, detto altrimenti, che cessa di essere correlato di una monade e che viene ad essere correlato di un sog-getto nuovo e complesso – di una comunità di monadi in correlazione. Intersog-gettività, dunque, viene ad essere una modalità di interpretazione dell’oggettività; l’intersoggettività è garanzia di oggettività, anzi l’oggettività “è” intersoggettività – l’oggettività consiste in un darsi concomitante del mondo a soggetti molteplici, aventi ciascuno la propria prospettiva irriducibile sull’unica realtà. L’oggettività, dunque, in qualche modo invoca una pluralità per il suo stesso esistere, nel senso che è per definizione convergenza di prospettive plurali su un unico punto. L’estraneità, allora, si rivela una specie di esigenza cognitiva, è funzione dell’oggettività, è presupposto della validità del darsi del mondo. Ed è interessan-te, in conclusione, notare come si abbia bisogno di un’estraneità, di un non darsi, di una forma di resistenza alla percezione, di un sottrarsi alla vista (di un’assenza presente), perché il mondo si dia realmente come tale; come cioè si debba poter pensare il mondo come parziale, come mondo poroso e costellato di zone d’ombra (perché tale è un mondo popolato da alterità altre), per acquisire certez-za, come Io, della sua realtà33.

                                                                                                                         33 Ivi, pp. 148-149 e ivi, p. 159.

Vladimir Jankélévitch: il presagire di un altrove Giulia Maniezzi

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Vladimir Jankélévitch: il presagire di un Altrove Giulia Maniezzi Vladimir Jankélévitch: the Prediction of an Elsewhere Abstract This paper intends to explore the metaphysical discourse elaborated by Vladimir Jankélévitch, through the notions of Je-ne-sais-quoi and Presque-rien, with the aim of showing that the French philosopher has developed, in effect, a form of ontology of the otherness. In contrast with the classical way of understanding metaphysics as the science of being as being, Jankélévitch thought that first philosophy was, first and foremost, called to wonder and to ascertain the existence of reality. According to Jankélévitch, this reality is paradoxically based on a non-foundation, that he proposed to call mystery. Keywords: Metaphysics, Ontology, Otherness, Je-ne-sais-quoi, Presque-rien. ***

1. Introduzione «Il lucore timido e fugace, l’istante-lampo, i segni evasivi – è questa la forma

che le cose più importanti della vita scelgono per farsi riconoscere»1. Nessun altro incipit potrebbe esprimere la sensibilità filosofica di Vladimir Jankélévitch me-glio di queste poche parole, che racchiudono il senso profondo di tutta la sua pa-rabola intellettuale e umana.

Filosofo russo naturalizzato francese fin da quando i genitori Schmul Jankélévitch e Anna Ryss, ebrei russi nati rispettivamente a Odessa e Rostov, de-cidono di trasferirsi in Francia con i tre figli, Vladimir Jankélévitch rappresenta una personalità complessa ed eclettica, difficilmente collocabile definitivamente nelle grandi tradizioni filosofiche contemporanee. Vissuto tra il 1903 e il 1985, ha avuto modo di osservare da vicino l’andamento della filosofia nel Novecento, va-

                                                                                                                         1 V. Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, P.U.F, Paris 1957; tr. it. di C. Bonadies Il non-so-che e il quasi niente, Marietti, Genova 1987, p. 229.

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lorizzandone motivi e prendendone le distanze, per dar vita a una riflessione che già la critica coeva non ha esitato a definire “aérienne”2.

Quello jankélévitchiano pare da subito un pensiero costruito a partire da un vasto campo di suggestioni provenienti dai più disparati contesti: il romantici-smo, l’idealismo tedesco, la mistica russa, lo spiritualismo francese, la riflessione di Bergson, ma anche quella di classici come Platone, Aristotele, Plotino, i padri della Chiesa, Pascal e Kierkegaard, Francesco di Sales, Fénelon, Giovanni della Croce3.

Tuttavia, la pluralità di referenti non deve trarre in inganno: gli autori citati accompagnano, come in controluce, la filosofia jankélévitchiana che, lungi dal ri-dursi a una collazione sincretica di motivi eterogenei, si staglia con una propria specificità sull’orizzonte delineato dall’intersecarsi di diverse tradizioni. Già le prime due opere pubblicate da Jankélévitch permettono di intravedere chiara-mente la direzione in cui egli costruisce, lungo cinquant’anni di riflessione, la propria individualità filosofica: del 1931 è lo studio dedicato a Henri Bergson4 e al 1933 risale la pubblicazione della tesi di dottorato consacrata a L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling5. Come si può facilmente intuire dai soggetti di questi due lavori, qui nominati emblematicamente tra i numerosi che si potrebbero evidentemente rievocare, la filosofia di Jankélévitch è «completa»6, senza frazionamenti: è una filosofia che affronta problemi specifi-catamente metafisici ma anche distintamente estetici e morali, in un orizzonte di pensiero in cui pare impossibile scindere cammini che, solo nella loro simultanei-tà, finiranno per indicare una destinazione.

In questo intrecciarsi di percorsi e di significati consiste l’essenza stessa della filosofia che, se vuole conservare la portata veritativa del termine greco sophìa, non può rinunciare a pensarsi come «interrogazione infinita»7 e «infinita posi-zione della questione»8 mediante cui si cerca di «dare nome a ciò che non ha no-

                                                                                                                         2 G. Suarès, Vladimir Jankélévitch (Qui suis-je?), La Manufacture, Lyon 1986, p. 14. 3 Un’approfondita analisi delle fonti del pensiero di Jankélévitch si ritrova nel testo di Isabelle De Montmollin, La philosophie de Vladimir Jankélévitch. Sources, sens, enjeux, P.U.F., Paris 2000, pp. 13-84. 4 V. Jankélévitch, Henri Bergson, Alcan, Paris 1931. 5 V. Jankélévitch, L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling, Alcan, Paris 1933. 6 L. Jerphagnon, Vladimir Jankélévitch ou de l’Effectivité. Présentation, choix de textes, biblio-graphie, Editions Seghers, Paris 1969, p. 11. 7 V. Jankélévitch, Philosophie première, introduction à une philosophie du «Presque», Presses Universitaires de France, Paris 1953, p. 178. Tutti i passi di Philosophie première qui citati sono stati tradotti in italiano da chi scrive, in quanto l’opera è attualmente disponibile solo in lingua francese. 8 Ibidem.

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me, a ciò che c’è di impalpabile»9. Per dire anche una sola cosa, la filosofia non può che parlare una vita intera: questo è l’insegnamento che Jankélévitch tenta continuamente di veicolare ai suoi lettori e di tenere lui stesso a mente, nella pro-fonda convinzione che ciò che di fondamentale c’è da dire è, in fondo, sempre da ridire. L’impegno con cui il filosofo cerca di dar voce all’essenziale non sarà mai abbastanza, perché esso, l’essenziale, è tutto ciò che deve essere detto in filosofia, almeno nella misura in cui essa si pone come filosofia prima.

Ed è proprio questa suggestione, allora, che occorre tenere sullo sfondo, lad-dove si voglia provare a ricostruire il discorso ontologico-metafisico di Jankélévitch che, proteso a cogliere per tangenza non ciò che costituisce un pro-blema, ma il problema del problema, il problema con esponente per così dire, è definitivamente convinto che gli oggetti privilegiati della filosofia siano «diffusi e diffluenti più di ogni altro»10.

Per questo, dunque, l’Autore guarda con insoddisfazione a quelli che gli paiono meri esercizi di retorica, mediante cui la filosofia passa il tempo a mettersi in questione e a cercare una propria definizione, dimenticando il compito fonda-mentale: stupirsi che ci sia qualcosa piuttosto che il nulla e che questo qualcosa sia un mistero inattingibile, sempre proiettato altrove.

Sullo sfondo di questa concezione della filosofia come interrogazione perpetua, emerge la scelta stilistica di Jankélévitch in direzione di un linguaggio per così di-re musicale e allusivo, ricco di neologismi ma anche di parole antiche, un lin-guaggio capace di articolarsi in figure e forme che non rinviano ad altro che a se stesse, secondo il significato più fecondo che questa circolarità può assumere. Jankélévitch ama utilizzare termini che si stagliano nel silenzio e restano come sospesi sul nulla. Anche laddove si ponga alla ricerca della bella forma, non lo fa mai per un mero gusto letterario, ma perché mosso dalla convinzione che «biso-gnerebbe poter creare da sé le parole, modellarle ogni volta secondo la sfumatura che si cerca di suggerire»11.

2. La filosofia prima: l’essere come mistero

Per tentare una ricostruzione ragionata del discorso metafisico elaborato da Jankélévitch pare inevitabile addentrarsi nelle impegnative pagine di Philosophie

                                                                                                                         9 Ibidem. 10 E. Lisciani Petrini (a cura di), Vladimir Jankélévitch, Béatrice Berlowitz, Da qualche parte nell’incompiuto, Einaudi, Torino 2012, p. 76. 11 Ivi, p. 37.

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première, testo del 1953 ormai considerato dalla letteratura critica come il punto focale12 della riflessione jankélévitchiana intorno al fondamento ultimo del reale.

In un dialogo critico e dialettico con i grandi temi dell’ontologia del Novecento e con le eterne questioni con cui la filosofia ha avuto a che fare dall’istante stesso in cui è sorta, l’Autore intende riformulare la domanda che da sempre i filosofi hanno ritenuto di importanza primaria: quella sull’essere.

Emblematicamente, il testo jankélévitchiano si apre con una definizione, ex parte negationis, della metafisica, che, correttamente intesa, non è affatto «una fisica estremamente ragguardevole»13 o, come sembra credere una certa parte della filosofia contemporanea, «una sorta di trans-fisica che non differirebbe dal-la fisica che per l’essenza particolarmente elevata del suo oggetto»14. Al contrario, svolgere un autentico discorso metafisico vuol dire «prendere sul serio tutto ciò che rappresenta l’avverbio di luogo infinito Al di là, cioè nel rendere onore al di-slivello vertiginoso che separa il Quaggiù e l’Ulteriore»15.

Ciò vuol dire, innanzitutto, ripensare la modalità con cui classicamente la do-manda metafisica è stata posta. Ossessionati dal problema del nulla che circonda l’essere e l’esistenza come terminus a quo e ad quem, Parmenide, Platone, Ari-stotele e la cultura greca in generale avrebbero, a dire di Jankélévitch, mancato il punto decisivo, preoccupati principalmente di indagare i rapporti, di esclusione in Parmenide e di interazione dialettica in Platone e Aristotele, tra essere e nulla. Tutta la difficoltà di cui questa tradizione di pensiero sarebbe intrinsecamente portatrice è ravvisabile in quella che Jankélévitch evidenzia come la principale incertezza del discorso aristotelico circa lo statuto epistemologico della metafisi-ca. Da un lato, infatti, lo Stagirita riconosce la superiorità e la primarietà della scienza dell’essere in quanto essere in generale, scienza che è chiamata a rispon-dere alla domanda “perché” vi sia essere anziché nulla16; dall’altro, tuttavia, Ari-stotele non avrebbe mai abbandonato il piano che, in termini jankélévitchiani, si potrebbe definire del Déjà-là17. In altri termini, pur avendo il merito di compren-dere che la metafisica in quanto scienza dell’essere puramente e semplicemente                                                                                                                          12 Cfr. L. Jerphagnon, Vladimir Jankélévitch ou de l’Effectivité. Présentation, choix de textes, bi-bliographie, cit., p. 15. Dello stesso parere è anche F. Pittau, Il volere umano nel pensiero di Vla-dimir Jankélévitch, Università Gregoriana, Roma 1972, p. 39. 13 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 1. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 2. 16 A proposito dell’alternativa tra essere e non-essere su cui si è costruita classicamente la metafi-sica, Jankélévitch chiarisce che in realtà si tratta di una finta alternativa, perché in ogni momento in cui lo si consideri, l’essere è ciò che si continua. Come a dire, che il nulla non è mai dato e l’alternativa è del tutto “zoppa”. Quanto invece al poter essere altrimenti, anch’esso considerato dalla metafisica classica, esso appare una «semplice possibilità metafisica sempre esclusa dall’attualità non lacerabile del fatto» (Cfr. ivi, p. 177). 17 Cfr. ivi, pp. 1-2.

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non è una scienza come le altre, Aristotele si è concentrato su questioni che, per Jankélévitch, sono definitivamente secondarie: interrogandosi sull’essere in quanto tale, sull’�ν come universale predicato e sull’ο�σία di questo essere, la-sciando da parte la domanda sull’ε�ναι, cioè su quello che l’Autore ama chiamare «le fait d’Être»18, Aristotele avrebbe dato luogo a una filosofia solo apparente-mente «première»19. Sintomo di ciò sarebbe la tendenza definitoria riscontrabile nelle opere dello Stagirita, laddove per l’Autore francese «definire non è porre ma semplicemente enunciare l’ο�σία di un essere già-essente»20.

A prendere sul serio il dislivello ontologico che separa il piano del quaggiù (Ici-bas) dal piano specificatamente metafisico dell’ulteriore (Ultérieur) sono, invece, i filosofi alessandrini e in particolare Plotino che, nelle Enneadi, avrebbe costrui-to una complessa trama ontologica in cui il “laggiù”21 assume effettivamente il senso di un “al di là”22, cioè di un piano autenticamente trans-mondano rispetto all’empiria. Il riferimento alle opere plotiniane, frequentemente citate da Jankélévitch accanto a quelle tradizionalmente considerate come i fondamenti della metafisica occidentale, dice di come interrogarsi circa l’essere significhi, per il filosofo francese, interrogarsi su qualcosa di radicalmente differente rispetto a quei piani della realtà che solo una riflessione ingenua23 potrebbe considerare ul-timativi.

La prima ingenuità metafisica di cui sarebbe vittima parte della filosofia occi-dentale consisterebbe nella pretesa di cogliere il fondamento del reale a partire dall’esperienza, come se l’orizzonte propriamente metempirico fosse raggiungibi-le tramite un mero processo di «sublimazione o estenuazione progressiva della realtà concreta, palpabile e ponderabile»24. Richiamando una distinzione già tracciata da Aristotele e poi ampiamente ripresa e risemantizzata da Schelling, Jankélévitch ricorda che intercorre una distanza infinita tra il sapere che cosa una cosa è e sapere che una cosa è, esattamente come esiste un vuoto incolmabile tra «tutto ciò che si vede, palpa, percepisce positivamente»25 e che è «empiri-co»26 e il fatto dell’empiria, il puro darsi della realtà, che è invece «un profondo mistero»27.

                                                                                                                         18 Ivi, p. 1. 19 Cfr. ibidem. 20 Ibidem. 21 Ivi, p. 2. 22 Ibidem. 23 Cfr. ivi, p. 3. 24 Ibidem. 25 Ivi, p. 29. 26 Ibidem. 27 Ibidem.

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Altrettanto illusoria è la pretesa di cogliere il reale nella sua costituzione onto-logica attraverso una conoscenza di tipo eidetico e concettuale: anche una volta raggiunto cognitivamente il livello delle essenze, ancora non si saprebbe nulla di quella metempiria ultima che è fondamento del reale. Le verità eterne, infatti, non sono autosufficienti e lo dimostra il fatto che la storia della filosofia, davanti alla constatazione che tali verità avrebbero potuto essere diverse da quelle che sono, si è tanto affannata per trovarne un ancoramento. Anche le essenze, dun-que, fondandosi sull’oscurità di un’effettività radicale, non sono in grado di appa-gare la ricerca metafisica.

A questo proposito, dunque, occorre distinguere tre modalità con cui è possibi-le porre la domanda circa il problema dell’essere: due di esse sono modalità quidditative e categoriali, mentre una sola è l’autentica modalità metafisica.

Quidditative sono le domande che, dice Jankélévitch, nel processo conoscitivo umano si pongono come primaria e secondaria: esse sono, rispettivamente, la domanda per così dire qualitativa, mediante cui l’uomo si interroga circa il reale così come viene colto percettivamente a livello sensoriale, e la domanda volta a individuare l’essenza concettuale di qualcosa mediante un procedimento raziona-le che culmina nella definizione. Recuperando uno dei principi chiave della filo-sofia positiva di Schelling, già presente in Kant, Jankélévitch ricorda come l’esistenza sia estranea all’essenza e conclude, per questo, che la questione di che cosa sia l’essere in generale è una questione assurda, generatrice di mere verità lapalissiane28 del tipo «l’essere è ciò che è» e di tautologie in cui l’essere da defi-nire compare, viziosamente, tre volte: «come soggetto, come copula e come attri-buto»29.

Completamente diversa da questi due approcci ed effettivamente primaria in sé, benché terziaria dal punto di vista dell’uomo, se non addirittura sconosciuta ai più30, è la domanda che riguarda il fatto stesso che «c’è un essere, le cui maniere di essere ci sono sconosciute»31, ossia quella domanda che «non domanda ciò che un essere è, o qual è (di che natura), non descrive il suo contenuto, non elenca i suoi caratteri, non fa l’inventario delle sue proprietà o predicati, ma dichiara semplicemente che esso è, o non è»32.

Dunque, a dichiarare che l’unico approccio fecondo per la metafisica è la mera constatazione quodditativa e a determinare l’impossibilità di ogni concettualizza-zione è la natura stessa dell’essere.

                                                                                                                         28 Cfr. ivi, p. 232. 29 Ibidem. 30 Ivi, p. 103. 31 V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 40. 32 Ivi, p. 111.

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Così come viene concepito da Jankélévitch, lungi dall’essere ens generalissi-mum, l’esse è piuttosto nominabile attraverso un termine per lo più marginale nella metafisica occidentale: mistero.

Pensato come una sorta di luce crepuscolare che rende luminose le ombre e umbratili le luci, l’essere è costitutivamente misterioso non nel senso che il mi-stero è qualche cosa di rinchiuso nei «nascondigli dell’empiria»33 o qualche cosa da afferrare «spalancando gli occhi»34. Piuttosto, il mistero è inerente al «fatto dell’empiria in generale»35, cioè alla globalità dell’esperienza, che testimonia o depone in favore dell’al-di-là attraverso la sua effettività e la sua totalità, cioè at-traverso la sua «Quoddità radicale»36. A essere autenticamente metafisico è il fat-to gratuito dell’empiria, come evenienza di una totalità che interroga e zittisce al tempo stesso. Se l’essere-sostantivo37, per usare un’espressione dell’Autore, può legittimamente essere fatto oggetto di riflessione da parte di una delle tante scienze quidditative e categoriali che si dividono il campo dello scibile umano, l’esse come avvento continuo, dunque come avvenimento e darsi nell’esistenza, è radicalmente trans-categoriale. Ecco perché, allora, l’interrogazione autentica-mente metafisica è quella che inizia davanti al semplice fatto che c’è dell’essere e che, al contempo, davanti a tale soglia si arresta: la domanda sul quod, cioè sull’emergenza di ciò che si dà, è tanto interrogativa quanto puramente constata-tiva e quello della metafisica è, di fatto, un discorso breve. L’essere, infatti, come continuo emergere da e ricadere nel nulla, per poi riemergerne di nuovo, è «un’eterna domanda alla quale si è risposto dall’eternità: è la totalità parados-salmente problematica, in altri termini il mistero, il quale è risposta a se stesso; e questa risposta, essendo un immemorabile già-là e un fatto eternamente compiu-to, risponde di fatto, non di diritto»38.

Quella di Jankélévitch, dunque, più che una filosofia dell’essere nel senso clas-sico del termine è una filosofia dell’evento che opera su una presenza: è una me-tafisica che è, di fatto, un «approfondimento»39 dell’esperienza. Non certo nel senso che si può cogliere il fondamento del reale risolvendo gli indovinelli di cui l’empiria sarebbe cripticamente custode, ma nel senso che è solo attraverso lo sguardo istantaneo di chi si meraviglia e prende coscienza dell’empiria in quanto totalità che si guadagna quello stato di grazia che consiste nell’intravedere anche nelle cose più banali il mistero dell’esistenza.                                                                                                                          33 Ivi, p. 29. 34 Ibidem. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37 Cfr. V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 18. 38 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 232. 39 Ivi, p. 28.

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3. Realtà diafane : le Je-ne-sais-quoi e le Presque-rien

Se questa è la concezione dell’essere così come viene formulata sistematica-mente dall’Autore in Philosophie première, è anche vero che la ricostruzione del suo discorso ontologico-metafisico non può prescindere dal considerare una serie di nozioni inusuali per la tradizione occidentale che, abbozzate nel testo del 1954, sono poi oggetto primario di riflessione nel volume del 1957 Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien.

Se l’essere del reale è qualcosa di sfuggevole a ogni definizione, in virtù del suo essere un soffio evanescente di cui si può tutt’al più costatare la presenza, Jankélévitch sente la necessità di introdurre termini allusivi, espressioni che, più che descrivere compiutamente, rimandano intuitivamente a ciò che nominano.

Questo è propriamente il caso delle due espressioni “il non-so-che” e il “quasi niente”, espressioni che l’Autore sa essere portatrici di una profonda problemati-cità se guardate dall’angolo visuale della tradizione occidentale moderna che ha fatto della chiarezza e della concettualizzazione i propri principi metodologici. Da qui allora l’esigenza di spendere molte parole, nel tentativo di dissipare possibili equivoci e fraintendimenti.

Richiamandosi ancora una volta a quella linea della filosofia occidentale i cui motivi hanno sotterraneamente attraversato varie epoche, Jankélévitch predilige termini utilizzati da pensatori come Giovanni della Croce e Baltasar Gracián40 e parla di “non-so-che” per riferirsi all’essere, inteso come quel surplus a cui la ra-gione è impossibilitata a dar voce, come quel mistero insondabile che fa essere il reale nella sua individualità e che non è una cosa, ma semplicemente un nescio-quid di cui si ignorano il nome, la qualità e la natura.

Il non-so-che, come struttura ontologica, è ciò che segna la differenza, tanto impercettibile, eppure tanto essenziale, tra l’esserci effettivo di una cosa e la sua essenza immutabile e atemporale41. Pura effettività che rende esistente tutto ciò che lo circonda42, efficacia che rende effettive tutte le altre proprietà, da cui si di-stingue radicalmente, il nescioquid può essere solo presagito, senza mai essere compiutamente saputo, può essere appena intravisto ma mai conosciuto nella sua natura essenziale. Il verbo che meglio si addice a questo mistero che «fa esse-

                                                                                                                         40 Proprio Gracián è stato il primo a nominare il “non-so-che”, benché non abbia usato sempre questa espressione, preferendo parlare di “el despejo”. Cfr. B. Gracián, Obras completas, éd. Ar-turo de Hoyo, Aguilar, Madrid 1960. 41 Cfr. V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 176. Cfr. anche V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 70: «Il quod aggiunge in più al quid una clausola assolutamente essenzia-le senza la quale la quiddità rimane ipotetica, senza la quale le qualità di questa quiddità riman-gono indifferenti, oniriche, fantasmatiche». 42 Cfr. V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, p. 63.

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re senza essere esso stesso»43, in virtù del fatto che «ciò che fa essere è una certa specie di essere e anzi infinitamente più di un essere»44, è “avvenire”. Tale miste-ro, tale non-so-che, infatti, è, puramente e semplicemente, in un moto auto-tetico che l’Autore paragona al sorgere o al lampeggiare del fulmine ridotto al fatto di accadere45, cioè, si potrebbe dire, alla folgorazione stessa.

Se per la metafisica classica il non-so-che è motivo di inquietudini e perplessi-tà inesauribili, data la sua costitutiva inconoscibilità, se per conoscibilità si in-tende l’apprensione razionale secondo categorie, per Jankélévitch esso è l’unico nome che si può dare a quella grazia che, pur senza essere niente in se stessa, è diffusa e riversata ovunque e fa essere il reale nella sua effettività. Così concepito, dunque, il non-so-che non è un elemento in una totalità aperta, ma è propria-mente ciò che «mantiene l’apertura»46: si tratta di costatare, con meraviglia e stupore, che c’è qualche cosa che non è niente, qualche cosa di appena intravisto nella sua quoddità ma non conosciuto, che si può dunque chiamare il mistero del non-so-che47.

Parlando dell’essere come non-so-che l’Autore intende sfiorare il mistero dell’esistenza, del darsi di qualcosa a partire da un fondamento infondato o me-glio da un non-fondamento, per nominare il quale Jankélévitch trova appropriato il nome boehmista di Ungrund48. Un mistero che l’Autore descrive anche con un’altra espressione: il nescioquid è, in sé, un presque-rien, cioè letteralmente un quasi-niente, dove l’avverbio francese presque deve essere inteso non nel senso volgare per cui un’unica mancanza impedirebbe a qualcosa di essere completo, ma nel senso impegnativo per cui il non-so-che ha un’identità intrinsecamente liminare.

Per comprendere adeguatamente il significato profondo di tale nozione, occor-re passare attraverso il discorso che Jankélévitch svolge intorno al divenire. As-similando la lezione bersgoniana per cui l’essere è del tutto diveniente, l’Autore intende dire che l’essere, in quanto mistero, è continuamente in procinto di esse-re, che esso non è mai, ma che, piuttosto, compie incessantemente il proprio av-vento all’esistenza.

Viene così istituita quella che si potrebbe chiamare una coincidentia opposito-rum tra essere e divenire: l’essere è completamente operazione e maniera di di-venire e, viceversa, il divenire non è nient’altro che essere sempre nascente. Ri-

                                                                                                                         43 Ivi, p. 45. 44 Ibidem. 45 Cfr. ibidem. 46 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 148. 47 Cfr. ivi, p. 240. 48 Cfr. ivi, p. 102.

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prendendo ancora una volta il maestro Bergson49, Jankélévitch ritiene che non ci sia un «essere prima, un essere dopo, e uno zoccolo o supporto del cambiamen-to»50 e che l’unica “sostanza”51, per usare un termine caro alla tradizione occiden-tale, sia da individuare nell’“avvento-all’-altro”52. Ciò vuol dire, allora, che non c’è altro essere che il divenire stesso e che l’essere non è mai il complemento deter-minante di un’apparizione che rivelerebbe secondariamente un essere preesisten-te. Così come il divenire non è mai il divenire di un diveniente, cioè di qualcosa che diviene e che, quindi, potrebbe non essere e non divenire, l’essere è tale solo «nel mutamento che gli fa lasciare il suo essere, in sé inesistente, per un altro es-sere che non sarà meno inesistente» 53 , in modo tale che è solo in virtù dell’alterazione che l’essere esiste. Pensato come la particolare modalità che l’essere ha di essere non essendo, il divenire rappresenta l’indivisibile orizzonte in cui accade l’emergenza continua dell’essere e per questo Jankélévitch gli attri-buisce l’appellativo di “ontogonico”54. Da questo punto di vista, allora, non si può non concludere che essere e divenire siano identici ed è esattamente in questo orizzonte di pensiero che si inserisce l’utilizzo dell’espressione “quasi-niente”.

Pensato come «qualcosa che non è niente»55 e, dunque, come un terzo tra es-sere e non essere, il quasi-niente, infatti, è un appena qualche cosa, è la totalità nascente e la promessa esaltante che qualcosa è sul punto di essere. Jankélévitch sta parlando dell’«infaticabile ritorno di ogni primavera»56, di quei piccoli avve-nimenti della vita quotidiana che, nella misteriosa semplicità della loro esistenza, parlano di un assoluto che si può appena nominare. Quasi-niente, insomma, è il nome proprio di quell’impercettibile soglia che separa, secondo una misura infi-nitesimale, essere e non-essere nel flusso inarrestabile del divenire, in quell’emergenza improvvisa e miracolosamente continuata che si suole chiamare “evento” e che è l’unica modalità con cui «l’essere insipido, inodore e incolore fa effettivamente prova di sé»57.

Ricordare tutto questo vuol dire aver presente, in ogni istante, che il quasi-niente non è la semplice differenza aritmetica tra il tutto e il quasi tutto, ma è quell’incanto dell’essere che, pur essendo niente per il ragionamento discorsivo, è tutto per la contemplazione leggera e delicata della metafisica.

                                                                                                                         49 Jankélévitch cita a questo proposito il testo di Bergson La Pensée et le Mouvant del 1934. 50 V. Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente, cit., p. 21. 51 Ibidem. 52 Ibidem. 53 Ivi, pp. 21-22. 54 Ivi, p. 21. 55 Ivi, p. 70. 56 Ivi, p. 39. 57 Ivi, p. 18.

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In fondo, se si volessero intrecciare le nozioni di mistero, je-ne-sais-quoi e presque-rien si potrebbe dire, con Jankélévitch, che l’essere non è altro che «quel non-so-che di dubbio ed equivoco»58, «quell’ibrido di essere e non-essere»59, «quel quasi-niente che è il fuggevole divenire»60, in cui ogni realtà continuamen-te si disfa, si riforma e si trasforma, secondo un dinamismo incessante che è mo-dificazione continua e continua configurazione di un Altrove.

4. Conclusioni Al termine di questa breve ricostruzione dell’articolato discorso metafisico di

Jankélévitch, si potrebbe concludere dicendo che quella elaborata dall’Autore di Philosophie première è una vera e propria ontologia dell’alterità.

Considerando i termini che permeano costantemente le analisi jankélévitchia-ne e che, direttamente o indirettamente, illuminano in maniera trasversale le no-zioni ontologiche fondamentali, si può costatare che si tratta di avverbi, aggettivi, sostantivi, ma anche di complesse locuzioni, che rimandano al campo semantico dell’alterità. Alla luce di quanto dice Jankélévitch circa il linguaggio come vero e proprio supporto per il pensiero, pare ragionevole pensare che la scelta di tali vo-caboli non sia dovuta solo a una precisa scelta stilistica ma anche a una chiara posizione teoretica61.

Nel plasmare il proprio linguaggio a partire da parole provenienti dal greco, dal latino, ma anche dal russo e dal tedesco, Jankélévitch opta per espressioni in grado di far presagire, attraverso il loro significato sfuggente, l’infinita distanza tra piano empirico e piano metempirico, tra il piano del Quaggiù e il piano dell’Ulteriore. Questo perché non ci può essere serio argomentare metafisico lad-dove si rifiuti la differenza radicale, scandalosa e non meramente scalare, tra em-piria e metempiria.

Dunque, tramite espressioni come non-so-che e quasi-niente, l’Autore intende ricordare che l’oggetto proprio della filosofia prima, ammesso che di oggetto si possa parlare senza tradire la radicale trans-categorialità dell’essere, è costitui-vamente un “tout-autre”62. Il piano metafisico, infatti, è intrascendibilmente ul-

                                                                                                                         58 Ivi, p. 17. 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 A questo proposito, è utile ricordare quanto dice Jankélévitch circa le parole: essendo un sup-porto al pensiero, esse devono essere soppesate, auscultate nella loro sonorità, per percepire il se-greto del loro senso e, attraverso esse, poter così pensare tutto ciò che in una questione è pensabile. 62 Moltissimi i luoghi in cui Jankélévitch impiega questo termine: cfr. Philosophie première, cit., pp. 22, 30, 54-57, 83, 87-88, 97, 107-111, 123-124, 159-160, 183, 188, 210-212, 252-255, 265.

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teriore63 e la metempiria non è mai il semplice opposto dell’empiria. Essa ne è piuttosto il contraddittorio e, dunque, non è tramite il prolungamento delle quali-tà e delle realtà empiriche che si può accedere al tutt’altro ordine della metafisica, la cui soglia si può varcare solo tramite ciò che l’Autore chiama «mutazione iper-bolica»64, tramite quella radicale metastrophé di cui già Platone parlava nel libro VII della Repubblica.

Concependo come margine misterioso e non tematizzabile il puro darsi del mondo empirico in quanto totalità che, improvvisamente e continuamente, ripete il miracolo dell’uscita dal niente e della metamorfosi, l’Autore, da un lato, salva-guarda l’alterità di un orizzonte trascendente essenzialmente differente dall’universo del quaggiù e, dall’altro, salvaguarda la positività dell’empirico, pensato come unica dimensione che, nel suo esserci, può dare impulso a quel sal-to acrobatico mediante cui l’uomo può intercettare l’ordine del totalmente altro.

Dunque, non un’ulteriorità separata dall’empiria in nome di ciò che si potreb-be chiamare con Simmel la «fobia del contatto»65, secondo una riproposizione più o meno classica dello schema platonico, ma nemmeno un’ulteriorità da ricer-care nei segreti dell’empiria, con una totale chiusura nel regno dell’immanenza, ma piuttosto quello che si vorrebbe qui chiamare il presagire, nell’empirico, di un Altrove, che affonda le radici del suo mistero nella semplicità dell’ordinario.

                                                                                                                         63 Interessante notare, a questo riguardo, che nel lessico jankélévitchiano “ulteriorità” non è sem-plicemente sinonimo di “alterità”, ma, insieme a questo secondo termine, costituisce una locuzio-ne iperbolica: “alterità ulteriore” è il termine che meglio indica il rapporto di tangenza e di radica-le distinzione che sussiste tra empirico e metempirico. 64 V. Jankélévitch, Philosophie première, cit., p. 54. 65 Cfr. G. Simmel, Philosophie des Geldes, Verlag von Duncker & Humblot, Leipzig 1900; tr. it. a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Filosofia del denaro, UTET, Torino 1984, pp. 668-669.

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Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse” Andrea Sacconi Derrida, Nietzsche and the Thought of the “Maybe” Abstract In Politics of Friendship Derrida interprets Nietzsche’s philosophy. What emerges by this inter-pretation is that Nietzsche can be seen as the thinker of an extreme and irreconcilable otherness. Nietzsche’s philosophy, for the french thinker, could teach a way of thinking different from those of the metaphysical and ontological tradition based on the ontological dimension of the presence. Keywords: Presence, Otherness, Virtuality, Event.

In Politiche dell’amicizia1 Derrida concentra la sua attenzione sull’opera di Nietzsche, fornendone un’interpretazione che non solo può essere inserita nelle ricerche tipiche della cosiddetta “Nietzsche renaissance”, ma che diviene anche l’occasione per determinare il senso della filosofia derridiana nel suo complesso. Nonostante infatti sia errato sistematizzare la filosofia di Derrida per il fatto che, per il filosofo francese, è impossibile fissare un fondamento originario sul quale erigere un sistema filosofico, e questo a causa di una non-presenza che abita, pre-cede e determina la purezza e la pienezza di qualsivoglia origine2, tuttavia è pos-sibile rintracciare un continuo ed insistente ritornare delle stesse tematiche lungo tutta la sua produzione; tematiche che rivelano l’interesse di Derrida per quella

                                                                                                                         1 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it. di G. Chiurazzi, Raffaello Cortina Editore, Milano 1995. 2 Ci si riferisce qui al tema della traccia intesa come supplemento d'origine. Per quanto tale tema percorra tutta l’opera derridiana, è ne La voce e il fenomeno (J. Derrida, La voce e il fenomeno, tr. it. di G. Dalmasso, Jaca Book, Milano 2010) che forse mostra maggiormente tutta la sua radi-calità. Qui Derrida, confrontandosi con la filosofia di Husserl, denuncia il primato che il filosofo tedesco assegna alla voce interna della coscienza intesa come manifestazione originaria della pre-senza a sé, mostrando come tale primato sia frutto di pregiudizi storici e metafisici e come tale originarietà supposta sia in verità intaccata da sempre da una supplementarità che ne inficia i suoi caratteri di purezza e pienezza. Già qui è evidente la portata estrema del pensiero derridiano: la dimensione della presenza, che nella filosofia di Husserl assume forse, per mezzo della centrali-tà data alla coscienza trascendentale, la sua forma più radicale e compiuta, ha dei limiti “struttu-rali”, metafisici, che impediscono di pensare la supplementarità della traccia per quella che “è” e per come essa opera. Per l’impensabilità della traccia attraverso gli strumenti metafisici e a parti-re dalla dimensione della presenza si veda anche l’articolo La différance (J. Derrida, La différan-ce, in J. Derrida, Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997).

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dimensione dell’essere, corrispondente allo spazio fondamentale su cui si svilup-pa ogni sapere di stampo metafisico-occidentale, che è la presenza; tematiche il cui sviluppo dunque può essere considerato come il tentativo di dare risposta alla domanda ontologico-metafisica che chiede: “Che cos'è la presenza?”.

Tale domandare però, come affiora da molte opere di Derrida, non è innocuo, anzi presuppone un certo modo di determinare il senso del suo domandato3; un modo che, nel caso della presenza presa ad oggetto ed interrogata circa la sua es-senza, risulta essere inadatto. Infatti, la domanda ontologico-metafisica che chie-de l’essenza della presenza si situa già all’interno di ciò che domanda, di quella dimensione della presenza cioè di cui chiede l’essenza e dalla quale riceve stru-menti e modalità di procedere.

L’indagine su “che cos'è la presenza” non può essere fatta attraverso quegli strumenti che dalla presenza emergono, alimentandosene, e che alla presenza conducono, determinandola. Per poter chiedere della presenza c’è bisogno di un modo d'indagare l’essere che si ponga in alternativa rispetto al procedere razio-nale caratteristico del pensiero della tradizione occidentale. Per fare questo Der-rida si rifà a Nietzsche, o almeno ad una certa interpretazione del pensiero niet-zscheano, quella che vede nel filosofo tedesco colui che inaugura un nuovo modo di pensare.                                                                                                                          3 Si vedano ad esempio le pagine introduttive del lungo articolo sul pensiero di Emmanuel Levi-nas (J. Derrida, Violenza e metafisica, in J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it. di G. Pozzi, Einaudi, Torino 1990). Qui Derrida evidenzia quella differenza che intercorre tra l’interrogazione “pre-metafisica” (o “oltre-metafisica”, dato che non si tratta di ritrovare un’origine perduta nel tempo, magari ripercorrendo a ritroso le tappe essenziali della storia della filosofia per riafferrare una verità nascosta nel sapere preplatonico o presocratico che sia) e l’interrogazione propriamen-te metafisica. Se questa è, per la sua vocazione a ricercare l’origine fondativa, interrogazione sulle possibilità stesse dell’interrogazione, quella (l’interrogazione “pre-metafisica” o “oltre-meta-fisica”) corrisponde a tali possibilità. Solo che l’interrogazione metafisica, pur ricercando le ragio-ni della sua possibilità, non può trovarle che come già determinate dal suo stesso domandare. La domanda metafisica (e quella ontologica in particolare) predetermina con il suo stesso domanda-re le sue possibili risposte, impone il modo attraverso il quale dare forma a tali risposte. La do-manda ontologico-metafisica insomma non può non avere come risposta qualcosa che è, che è presente. Ecco come Derrida esprime questo pensiero, parlando di come si svolgerebbe l’interrogazione in una comunità dell’interrogazione (“pre-metafisica”): «Comunità dell’interrogazione, dunque, in quella fragile istanza in cui l’interrogazione non è ancora abba-stanza determinata perché l’ipocrisia di una risposta si sia già introdotta sotto la maschera dell’interrogazione, perché la sua voce si sia già lasciata ingannevolmente articolare nella sintassi stessa dell’interrogazione.» (J. Derrida, Violenza e metafisica, cit., p. 100). Ed ecco come il filoso-fo francese descrive la differenza tra l’interrogazione “pre-metafisica” e quella metafisica: «Ha al-lora inizio una battaglia che si colloca nella differenza tra l’interrogazione in generale e la “filoso-fia” come momento e modo determinati – finiti o mortali – della interrogazione stessa. Differenza tra la filosofia come potere o avventura della interrogazionme stessa e la filosofia come avveni-mento o svolta determinati nell’avventura» (J. Derrida, Violenza e metafisica, cit., p. 101).

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1. Heidegger e Derrida interpreti di Nietzsche In linea con le interpretazioni della “Nietzsche renaissance”, Derrida vede nel

nome di Nietzsche il segno di un evento irrimediabile per la storia del pensiero. La sua opera avrebbe prodotto una crepa nell’edificio metafisico e, allo stesso tempo, starebbe ancora oggi lì ad indicarne un’apertura che impone al pensiero di pensare il suo impossibile. Nietzsche sarebbe il primo filosofo dell’estrema e inconciliabile Alterità.

A tal proposito la distanza dall’interpretazione heideggeriana di Nietzsche è evidente e profonda. Se Heidegger, infatti, ripensa la filosofia di Nietzsche in re-lazione alla storia della filosofia, arrivando a conclusioni che includono il pensie-ro della volontà di potenza in quella stessa storia (di cui tra l’altro sarebbe il cul-mine e la conclusione4), Derrida invece vede nella filosofia nietzscheana il tenta-tivo di pensare secondo modalità che trasgrediscono le norme del pensiero tradizionale, proponendosi così come alternativa al pensiero ontologico-metafisico. La differenza tra le due interpretazioni corrisponde alla differenza tra un’operazione normalizzatrice, che fa di Nietzsche un filosofo della tradizione, tanto che risulta possibile rintracciare nel suo pensiero eredità e filiazioni, e un’operazione che è ricerca del nuovo, un’operazione che rintraccia nei testi nie-tzscheani un’apertura verso tematiche che non possono essere affrontate attra-verso gli strumenti della logica tradizionale. Se nell’interpretazione heideggeriana si arriva a ridare coerenza e continuità ad un pensiero radicale e ambiguo come quello di Nietzsche, in quella derridiana si assiste ad una frattura tra ciò che Nie-tzsche dice esplicitamente, e che può anche essere inserito nel profondo solco che la storia della filosofia ha tracciato, seppur in una posizione di opposizione e di sua critica radicale, e ciò che nei suoi testi rimane implicito ma che rappresenta il vero nucleo di novità del pensiero di Nietzsche.

Tanto la ricerca genealogica, che per la prima volta mette in questione la natu-ra retta del pensiero e la struttura irriflessa dei suoi presupposti, quanto la sen-tenza sulla morte di Dio e la missione, dichiarata a più riprese e quasi ossessiva-mente, di rovesciare il platonismo, entrambi aspetti di una ricerca che vede nella verità, ideale e trascendente, una «specie di errore senza la quale una determina-ta specie di esseri viventi non potrebbe vivere»5, sarebbero allora solo teorizza-zioni esplicite formulate nel linguaggio della tradizione (peraltro non senza con-traddizioni e ambiguità) la cui faccia nascosta ed implicita indicherebbe un nuovo compito per il pensiero e un nuovo ambito del pensare. Ogni riflessione nie-tzscheana, ogni suo aforisma e ogni suo pensiero, pur parlando nel linguaggio della tradizione, indicherebbero quindi, allo stesso tempo, seppur implicitamen-                                                                                                                          4 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994. 5 F. Nietzsche, La volontà di potenza, cit. in M. Heidegger, Nietzsche, cit. p. 43.

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te, un luogo Altro, impensabile attraverso gli strumenti della metafisica, ma pro-prio per questo necessario alla comprensione filosofica di quel luogo (comune) della presenza da cui tutti parliamo e nel quale tutti viviamo. È per questo che ogni riflessione di Nietzsche, ogni suo aforisma, ogni suo pensiero, sarebbero, più che delle teorizzazioni, dei dispositivi di senso in grado di mettere in comunica-zione la filosofia e il suo Altro6. Attraverso questi dispositivi Nietzsche svolgereb-be la duplice operazione di attaccare esplicitamente la tradizione servendosi (del linguaggio) della tradizione e, contemporaneamente, di indicare una possibilità di senso Altra, un luogo Altro considerato impossibile (perché impensabile attra-verso le modalità di pensiero tradizionali), ma necessario per spiegare (e fondare) l’ente, quell’ente che la tradizione filosofica, soprattutto nella sua riflessione on-tologica, vuole comprendere.

Nietzsche, pensando l’impensabile della tradizione, introdurrebbe nella storia del pensiero quella modalità di pensiero (che prima di tutto nelle intenzioni di Nietzsche è modalità di rottura e di stravolgimento) indispensabile per poter de-terminare pienamente che cos'è la ragione, che cos'è la tradizione metafisica che di essa si serve, che cos'è infine il vivere in un luogo comune, riconosciuto e rico-noscibile, che si regge su fondamenta logiche e ontologiche condivise7. Sembra                                                                                                                          6 Derrida mostra tale modo peculiare di produrre senso dell’aforisma nietzscheano sempre in Po-litiche dell’amicizia dove viene analizzato il paragrafo 214 di Al di là del bene e del male intitolato Le nostre virtù. Questo paragrafo, che si rivolge agli “Europei del dopodomani” chiamandoli con il pronome personale “noi”, nonostante parli delle virtù di tali europei in maniera ancora tradi-zionale (e specificatamente, come nota Derrida, rifacendosi al senso machiavelliano di virtù), si conclude con una subordinata incompleta, che è anche un’esortazione, una speranza, un invito, quasi una profezia: «– Ah, se sapeste quanto presto, quanto presto ormai tutto sta per cambiare – e dài, dài!» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. in J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 45); subordinata che Derrida definisce teleiopoetica in una duplice accezione del termine composto: Teleiopoiós come quel che fa giungere al termine, che compie qualcosa; e tele, prefisso greco che richiama la distanza, il lontano. Queste due accezioni (il compimento e la lontananza) operano insieme per determinare, per quanto possibile, l’avvento di un evento che è lì lì per arri-vare ma che è anche incalcolabile, imprevedibile, così come è allo stesso tempo già giunto per il fatto stesso di essere nominato. Si assiste qui, in questa mescolanza di significati anche in conflit-to tra loro, al tentativo di dire l’indicibile dell’evento (il quale, per essere tale, non può essere pro-gettato attraverso il calcolare metafisico). 7 La domanda che chiede “che cos'è la ragione” non può che indagare il suo domandato per mezzo del domandato stesso. Ciò significa che l’essenza della ragione è determinata ricorrendo alla ra-gione stessa. L’operazione nietzcheana invece consisterebbe nel tentare la determinazione di tale essenza a partire dalla messa in rapporto della ragione con il suo Altro. Come fa notare Deleuze tale messa in rapporto non è espressione di una ragione che ritornerebbe instancabilmente (que-sta volta nella sua forma dialettica) a manifestare il suo dominio nella determinazione dell’essente. «Tutto dipende dal ruolo che il negativo viene ad assumere» (G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, tr. it. di F. Polidori, Einaudi, Torino 2002, p. 13): non più un negativo normalizzato, sottomesso o ad un genere superiore capace di accomunare positivo e negativo (ragione “tradi-zionale” e modo “comune” di pensare la differenza) oppure al rapporto (razionale) tra esso e il suo opposto (ragione dialettica); ma un negativo capace di affermare la sua propria singolarità prima ed oltre la determinazione che si imporrebbe per mezzo del rapporto dialettico. L’affermazione

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dunque che la domanda ontologica, che chiede che cos'è l’ente (l’essente-presente), per poter essere sviluppata nella sua pienezza non possa prescindere dal pensare il rapporto che intercorre tra se stessa, in quanto massima manife-stazione del pensare metafisico, ed il suo Altro, ciò che mai potrà essere ricondot-to a quella presenza intesa come dimensione di arrivo ma anche di partenza dello stesso domandare ontologico-metafisico.

2. Derrida e la “critica della presenza” Derrida vede dunque in Nietzsche il precursore di un pensiero che chiede, so-

spettando della stessa domanda, che cos'è la razionalità senza ricorrere agli strumenti della razionalità stessa, indicando con ciò un modo Altro attraverso cui il mondo può essere interpretato.

La dimensione che la razionalità apre e dalla quale sorge è la presenza. Non estranea nemmeno alle riflessioni nietzscheane, la questione della pre-

senza può essere vista come quel filo rosso che percorre tutta la produzione der-ridiana, donandole coerenza e radicalità. Ma interrogarsi sulla presenza significa mettere inevitabilmente sotto critica gli stessi strumenti razionali con cui la me-tafisica ha costruito la sua storia e, allo stesso tempo e proprio per questo, pro-porre un’alternativa d'indagine, con propri strumenti, proprie domande, propri modi di procedere. Situandosi all’interno dell’edificio metafisico e della sua trama concettuale, Der-rida prende a tema “concetti” che destrutturano l’intera costruzione; anzi, che producono insicurezza sul modo stesso di costruire. Questi “concetti” presi a te-ma (il cui elenco, pur mostrando inizialmente una sorta di parentela tra i suoi elementi, sembra proseguire in maniera indefinita, tanto da coinvolgere anche concetti che apparentemente sembrano pacifici e certi, concetti su cui la metafisi-ca sembra non aver più nulla da dire e che invece, proprio perché messi a con-fronto con gli altri “concetti”, risultano non più così ovvi) sono l’espediente che Derrida usa per mostrare i limiti del pensiero razionale occidentale. Tematiche quali l’altro, l’evento, l’invenzione, l’esemplarità, la testimonianza, il nome pro-prio, la metafora, il rappresentare e la rappresentazione, la lettera, il singolare, il                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          del “negativo” (che è tale solo nel rapporto dialettico) diviene allora manifestazione dell’intento nietzscheano di trasvalutare tutti i valori, di dare cioè voce ad una differenza Altra rispetto a quel-la dell’opposizione e della contraddizione. È qui che entra in gioco la decostruzione derridiana del pensiero di Nietzsche: Derrida, più di Deleuze che vede in Nietzsche soltanto il profeta della “dif-ferenza prima dell’identità”, e più di Heidegger che invece determina la filosofia della volontà di potenza come il compimento della “metafisica della soggettività” i cui primi segnali vanno rin-tracciati nel Cogito cartesiano, combina i due aspetti, utilizza cioè il testo nietzscheano per mo-strarne appartenenza e alterità rispetto alla tradizione. Egli (Derrida) si serve di Nietzsche per porsi sulla soglia del dominio metafisico al fine di rimarcare i suoi stessi limiti da ambo i lati: quello del “luogo comune metafisico” e quello di un Altrove “anti-metafisico”.

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simulacro, ma anche il dono, il debito, la responsabilità, la morte, la giustizia, l’eredità, ecc., hanno il preciso scopo di mostrare come l’indagare proprio del pensiero razionale, trovandosi di fronte questi “concetti”, non possa far altro che normalizzarli, impedendo loro di manifestarsi per quello che sono essenzialmen-te (se di essenza in questi casi si può parlare). Questa normalizzazione operata dall’indagine razionale dunque, allo stesso, tempo fa emergere i limiti dell’indagine stessa, ciò che essa non può in nessun modo pensare.

Da ciò risulta che l’impensabile della razionalità svolge una funzione indispen-sabile per la fondazione della razionalità stessa. Infatti, sia che l’insistenza del “concetto” derridiano all’interno dell’edificio metafisico denoti un’imperfezione della modalità razionale tradizionale che va migliorata, sia che “esso” segnali il confine da non travalicare che divide il vero razionale dal falso del sogno e della follia, il suo carattere di impensabilità fa risaltare i limiti del sistema che lo pen-sa, mettendo così in comunicazione il sistema metafisico stesso con il suo Altro.

Nell’analizzare questi “concetti” Derrida si trova quindi di fronte ad una scelta: o utilizzare il linguaggio della tradizione, con la conseguenza di trasformare ine-vitabilmente l’analizzato, impedendo così di manifestarsi per quello che “è”; op-pure rompere con la tradizione attraverso l’uso di una modalità di pensiero che forse non può produrre più alcun sapere. Derrida risolve il dilemma proponendo una modalità d'indagine, la quale inevitabilmente è anche una modalità di uso del linguaggio, che consiste nell’abitare il sistema di pensiero tradizionale deco-struendone allo stesso tempo i suoi modi di operare. Ecco come sintetizza Derri-da il suo modo di procedere:

«Questa [la “strategia generale della decostruzione”] dovrebbe evitare di neutralizzare

semplicemente le opposizioni binarie della metafisica e insieme di rimanere semplice-mente, confermandolo, entro il campo chiuso di quelle opposizioni. Bisogna dunque compiere un doppio gesto, secondo un’unità sistematica e al contempo distanziata da sé, una scrittura sdoppiata, e cioè automoltiplicata: è quanto in “La double séance” ho chiamato doppia scienza»8.

Decostruire cioè significa: porsi nel sistema ontologico-metafisico rimarcan-

done i dualismi e le antinomie che caratterizzano il suo modo di dare forma all’essere; svelare genealogicamente l’uso che la tradizione fa di questi dualismi, mostrando come sia irriflessa e ingiustificata la preminenza di un polo antinomi-co sull’altro, eventualmente rovesciando il loro rapporto gerarchico; a tale fase di rovesciamento (che, come dice esplicitamente Derrida, implica una continua e in-terminabile analisi in quanto la gerarchia tra gli opposti si ricostituisce sempre da capo, almeno finché si è nel sistema di pensiero della metafisica), si aggiunge                                                                                                                          8 J. Derrida, Posizioni, tr. it. a cura di G. Sertoli, Bertani Editore, Verona 1975.

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contemporaneamente l’operazione di una scrittura doppia che, oltre a invertire la gerarchia, marchi l’emergenza di un “concetto” nuovo e ribelle alle classificazioni metafisiche, capace anzi di evidenziarne i limiti; di quel “concetto” che risulta cioè impossibile da spiegare finché ci si situa all’interno della dimensione della presenza.

Da ciò trova giustificazione anche lo stesso linguaggio che Derrida usa; un lin-guaggio ambiguo, innaturale, volutamente e necessariamente complicato; un lin-guaggio fatto di elementi indecidibili e destrutturanti l’intera composizione te-stuale; un linguaggio che procede in maniera obliqua non trattando mai diretta-mente il proprio oggetto d’indagine. Stile linguistico e contenuto concettuale si formano e si determinano reciprocamente al fine di far intuire quel luogo Altro, quella dimensione dell’Altrove irriducibilmente diversa dalla dimensione della presenza ma che tuttavia risulta essere necessaria alla fondazione di quest’ultima.

Come per tutti i grandi filosofi, il merito di Derrida sta dunque anche nell’aver inventato un linguaggio capace di adeguarsi al suo contenuto. Tuttavia il suo re-sta un linguaggio che parla nella e della tradizione. I dualismi ontologico-metafisici non sono affatto superati, anzi risultano essere la materia più feconda con cui egli dà forma alle sue riflessioni. Il linguaggio derridiano non riesce del tutto cioè a descrivere quel luogo Altro che pure, attraverso le sue analisi, vuole far intuire.

Nietzsche invece, stando all’interpretazione derridiana, riesce a sfondare il muro metafisico della presenza per mezzo di un peculiare uso del linguaggio. E ci riesce servendosi di un’unica parola: “forse”.

3. Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse” Politiche dell’amicizia si apre con l’analisi della celebre apostrofe aristotelica

sul tema dell’amicizia («O miei amici, non c’è nessun amico»9). Pur nella sua contraddizione performativa, cioè nel fatto che risulta contraddittorio rivolgersi agli amici per dir loro che di amici non ce ne sono, questa apostrofe è fatta pro-pria dalla tradizione filosofica che se ne serve, citandola come caso esemplare ogni qual volta che c’è da mostrare la totale supremazia gerarchica del sapere sull’oggetto saputo. Se l’amicizia infatti è un modo dell’amare, e se si vuole de-terminare cos'è l’amare stesso, la philìa, soltanto chi ama (e quindi contempora-neamente sa di amare) può a buon diritto tentare la comprensione dell’amare; bi-sogna cioè che qualcuno ami per sapere cosa significa amare. Questa supremazia del soggetto attivo, che sa cosa fa mentre lo fa, sull’oggetto passivo è uno dei pila-stri su cui si basa l’intera conoscenza razionale-occidentale:

                                                                                                                         9 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 4.

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«Questa differenza irriducibile […] giustifica la gerarchia intrinseca: conoscere non

significherà mai, per un essere finito, essere conosciuto; né amare essere amato. La struttura dell’uno deve restare quella che è, eterogenea a quella dell’altro, e la prima, quella dell’amore per l’amante, dice insomma Aristotele, sarà sempre preferibile all’essere amato, come l’agire al patire, l’atto alla potenza, l’essenza all’accidente, il sape-re al non sapere»10.

Nietzsche interrompe la lunga filiazione della citazione aristotelica, apparen-

temente ribaltandola, ma in realtà proponendo un’alternativa al procedere meta-fisico e alle gerarchie che esso stabilisce.

Ecco cosa dice Nietzsche in Umano troppo umano, l’opera che, come ci indica Derrida, forse più di ogni altra tenta di ripiegare l’eccesso dell’al di là nell’immanenza priva delle false illusioni della trascendenza: «E forse verrà per ognuno anche un’ora più lieta in cui dirà: “Amici, non ci sono amici!” così gridò il saggio morente; “Nemici, non ci sono nemici!” grido io, il folle vivente»11. Qui la saggezza viene contrapposta alla follia; modo questo di far intendere che è l’Altro della tradizione che parla, ciò che la razionalità mai potrà comprendere a pieno.

Tuttavia, come spesso accade in Nietzsche, per intendere l’affermazione nella sua portata radicale e rivoluzionaria, bisogna vederla non come semplice ribal-tamento delle gerarchie della tradizione che però continua a servirsi del linguag-gio della tradizione, ma come dispositivo di senso che parla già un linguaggio al-tro, un linguaggio che apre verso una dimensione diversa dell’essere, che non sia quella della presenza. È per questo che Derrida sottolinea il “forse” con cui l’affermazione inizia. Questo “forse” parla di qualcosa che (forse) succederà, dell’evento che porterà dal morente al vivente.

Il passaggio che porta dalle teorie del saggio morente all’affermazione del folle vivente è quello che (forse) aprirà la venuta di un nuovo genere di filosofi. Derri-da prova a darcene una descrizione:

«Questi filosofi di un genere nuovo accetteranno la contraddizione, l’opposizione e la

coesistenza di valori incompatibili. Non cercheranno né di dissimularla, né di dimenti-carla, né di superarla. Ed è qui che la follia sta in agguato, ma è pure qui che la sua ur-genza chiama davvero il pensiero. […] Che ci dice infatti Al di là del bene e del male? Che bisogna essere folli agli occhi dei “metafisici di ogni tempo” a chiedersi come una cosa potrebbe sorgere dal suo contrario, e se per esempio la verità potrebbe nascere dall’errore, la volontà di verità dalla volontà di illusione, l’azione disinteressata dall’egoismo ecc. Come addirittura porsi una simile questione senza diventare folle?»12.

                                                                                                                         10 Ivi, p. 21. 11 F. Nietzsche, Umano troppo umano, cit. in Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 42. 12 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 48-49.

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Il processo nietzscheano alla metafisica è iniziato e dà voce all’Altro della tra-dizione razionale-occidentale, la follia. I filosofi dell’avvenire, portatori di una nuova prospettiva d'interpretazione che apre ad una dimensione Altra dell’essere, non possono che essere dichiarati folli dal pensiero metafisico. Il pensiero di que-sta nuova stirpe di filosofi dubita sull’esistenza delle antitesi su cui si regge il pensiero tradizionale, vedendo in esse soltanto che pregiudizi. Il cosiddetto senso comune, nato dalla decisione, anch'essa pregiudiziale, di una gerarchia tra i ter-mini antitetici, nasconde per i nuovi filosofi un’astuzia dogmatica, quella che ve-de l’universalizzazione come la forma stessa della verità, che fa della verità un qualcosa che deve essere universale, per tutti la stessa, una messa in comune che fa ragionare, ma per irregimentare.

È ciò che ha di mira Nietzsche in Umano troppo umano: fare una “storia della ragione” per mostrare a coloro che sapranno vedere (i filosofi dell’avvenire) che essa (la ragione “universalizzante” e “intersoggettiva”) è tutt'altro che ovvia, evi-dente e pacifica; che ciò che essa apre e rende possibile (la dimensione della pre-senza) è frutto di operazioni irriflesse, violente e pregiudiziali e che l’esistenza di tale dimensione rimane il massimo enigma, in realtà mai messo a tema dal pen-siero (razionale) che la produce; che, infine, la ragione deve essere “riportata alla ragione”, deve divenire cioè ciò che avrebbe dovuto essere.

Riportare la ragione “alla ragione” è operazione fattibile solo se si inizia a per-correre quel modo alternativo di pensiero che Derrida rintraccia nelle riflessioni nietzscheane e che chiama “pensiero del forse”, quel pensiero cioè che i filosofi dell’avvenire dovranno imparare a seguire.

Dice infatti Nietzsche: «Forse! – Ma chi vorrà preoccuparsi di siffatti pericolo-si “forse”! Per questo occorre aspettare l’arrivo di un nuovo genere di filosofi, tali che abbiano gusti e inclinazioni diverse e opposte rispetto a quelle fino a oggi esi-stite – filosofi del pericoloso “forse” in ogni senso. – E per dirla con tutta serietà: io vedo che si stanno avvicinando questi nuovi filosofi»13.

È in questo veder-arrivare che si apre quel modo alternativo di pensiero che è il “pensiero del forse” e che si lega indissolubilmente al tema dell’evento, di uno di quei “concetti” cioè che la metafisica non può pensare perché non sa farlo.

«E siccome questo pensiero a venire non è una filosofia, quantomeno una filosofia

speculativa, teorica o metafisica, non un’ontologia né una teologia, né una rappresenta-zione né una coscienza filosofica, si tratterebbe di un’altra esperienza del forse: del pen-siero come un’altra esperienza del forse. Un’altra maniera, quindi, di rivolgere, di rivol-gersi al possibile. Tale possibile non apparterrebbe più allo spazio del possibile, alla pos-

                                                                                                                         13 F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit. in Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., p. 49.

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sibilità del possibile il cui concetto avrebbe assicurato la sua costanza, attraverso così tante mutazioni, da Aristotele a Hegel e a Bergson»14.

Di quale possibile parla Derrida? Per rispondere bisogna affrontare il “concetto” di evento e vedere in che modo

esso è legato al “pensiero del forse”.

4. Il forse e l’evento Che cos'è un evento? Con questa domanda Derrida tenta la filosofia tentando

di interrogare l’impossibile della filosofia (e con essa di tutto il sapere occidenta-le). In questa domanda, più che volontà di sapere, più che volontà di avere per sé, possedere, normalizzare, risolvere al fine di riutilizzare il proprio domandato, c’è intenzione, anche ironica, di ritorcere la domanda su se stessa, di ritorcerla con-tro colui che domanda. C’è qui molta consapevolezza del luogo (comune) del do-mandare, tanto che l’interrogazione che vuole sapere l’essenza dell’evento diviene l’occasione per riflettere sui limiti e sulle possibilità del domandare (ontologico-metafisico) stesso. L’evento, in quanto domandato, sarebbe allora l’espediente per mostrare i limiti di un sistema di pensiero che crede di poter assimilare qua-lunque cosa gli si può porre davanti inserendola pacificamente in una qualche ca-tegoria preesistente fissata dai pochi principi logici su cui il sistema tutto si regge. Non siamo ancora alla determinazione di una “logica” alternativa (se così si po-trebbe ancora chiamare), ma nell’operazione derridiana già si intravede il tenta-tivo di indicare l’apertura nel sistema logico e ontologico tradizionale.

Tra tutti i “concetti” presi a tema nelle sue ricerche, infatti, l’evento esemplifica più di ogni altro qual è il modo di procedere di Derrida: l’evento, “concetto” emi-nente e impossibile, svolgerebbe la duplice funzione di indicare l’essenza dell’interpretazione razionale per mezzo della sua capacità di rimarcarne i limi-ti15. Presenza e calcolo sono i termini che caratterizzano questa essenza, la prima come sua (unica) dimensione d'essere e d'agire, il secondo come mezzo che apre ogni prospettiva e ogni progettazione. Per questo presenza e calcolo non deter-minano soltanto il tempo presente dell’esperienza, l’esser-presente della coscien-za e delle sue esperienze, ma costituiscono, se così si può dire, il filtro del sistema che allo stesso tempo fa vedere e dà forma sia al passato, ripresentandolo, sia al futuro, anticipandolo.

L’evento, per essere tale, non può appartenere a questo regime d'interpreta-zione, non può cioè essere possibile al modo del progetto e del calcolo anticipato-rio. «Poiché – dice Derrida – un possibile che fosse solo possibile (non impossi-

                                                                                                                         14 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 84-85. 15 Questo almeno è il senso della decostruzione soggiacente al presente lavoro.

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bile), un possibile sicuramente e certamente possibile, anticipatamente accessibi-le, sarebbe un cattivo possibile, un possibile senza avvenire, un possibile già scar-tato, per dir così, sicuro della sua vita. Sarebbe un programma e una causalità, uno sviluppo, uno svolgimento senza evento»16. L’evento, invece, sarebbe ciò che non può essere sicuro, certo, programmabile. Sarebbe quindi l’instabile e l’impensabile di un sistema di pensiero che affonda le sue fondamenta nella di-mensione della presenza, anche quando ricorda, anche quando progetta. Conti-nua perciò Derrida: «Sia pure nella sua forma ultima e minimale, l’instabilità dell’inaffidabile consiste sempre nel non consistere, nel sottrarsi alla consistenza e alla costanza, alla presenza, alla permanenza o alla sostanza, all’essenza o all’esistenza, come ad ogni concetto di verità che sarebbe loro associato»17.

Ecco dunque: l’evento non può essere ricondotto alle categorie di cui la tradi-zione si serve per spiegare il mondo. Esso rappresenta semmai quel quasi-concetto che, se pensato per quello che “è”, mostra al sistema metafisico i limiti del suo sguardo, in un’operazione che produce instabilità ed incertezza nel siste-ma. La pura possibilità che l’evento indica, la possibilità non prevista e non pre-vedibile, irrazionale, indecidibile, terrificante perché incalcolabile, sarebbe neces-saria per fondare il calcolare metafisico stesso, ovvero il dominio della razionalità umana sull’ente.

Che cosa sia questa inconsistenza che non potrà mai essere-presente, che si sottrarrà sempre ad ogni categoria di verità, non può essere chiesto direttamente, specie attraverso il domandare ontologico-metafisico. È a tal proposito che Der-rida riprende Nietzsche, individuando il lui quella modalità di pensiero, in grado di gettar luce conoscitiva anche laddove la metafisica non può arrivare, che chia-ma, appunto, “pensiero del forse”.

Se l’evento rappresenta quell’impensabile della tradizione che però va pensato, l’elemento necessario (anche se estraneo) di ogni indagine che vuole essere filo-sofica e che, per essere tale, deve saper pensare anche se stessa, il suo dominio e i suoi limiti, il “forse” è il mezzo per riuscire nell’impresa impossibile, il modo d'es-sere grazie al quale ci si può abbandonare all’imprevedibile della pura possibilità. È ovvia a questo punto l’Alterità tra i due modi di pensiero. Non si passa cioè dal modo razionale al “modo del forse” senza produrre cambiamenti catastrofici nell’interpretazione che si dà del mondo.

Al futuro progettato, programmato, anticipato, si contrappone, diverso e irri-ducibile, la figura dell’evento, di quell’arrivante cioè la cui venuta non può essere mai certa, che “forse” mai potrà davvero venire all’esistenza, ma che, allo stesso tempo, insiste nei pressi dei territori conquistati della presenza, condizionandoli.                                                                                                                          16 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, cit., pp. 42-43. 17 Ivi, p. 43.

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Derrida ci descrive così quale “sapere” circa l’essere si produce per mezzo del pensiero del forse:

«Esiteremmo, tuttavia, sul bordo di una finzione. Il mondo sarebbe come sospeso a

una sorta di ipotesi elementare e senza confini, una condizionalità generale che vince-rebbe su ogni certezza. Lo spazio e il tempo virtuali del “forse” starebbero per aspirare la forza dei nostri desideri, la carne dei nostri eventi, ciò che c’è di più vivo nella nostra vi-ta. No, non starebbero neanche per farlo, poiché la presenza stessa di un tale processo sarebbe rassicurante e ancora troppo effettiva; no, starebbero lì lì per giungervi, e questa imminenza basterebbe alla loro vittoria. Essa basterebbe, non a opporsi a questa forza e a questa vita, né a contraddirle, neanche a nutrirle, ma, peggio ancora, a renderle possi-bili, rendendole con ciò solo virtualità, di una virtualità che non le abbandonerebbe mai, neanche dopo la loro effettuazione; rendendole perciò ancora impossibili, come soltanto possibili, fin nella loro presunta realtà. La modalità del possibile, l’insaziabile forse di-struggerebbe tutto, implacabilmente, con una sorta di auto-immunità da cui non sarebbe esente nessuna regione dell’essere, della physis o della storia»18.

L’esperienza del forse, della virtualità del quasi-presente, dell’imminente con-

dizionalità, non fa preferenze. La dimensione privilegiata della presenza, su cui si fonda l’edificio metafisico, risulta essere una tra le tante. Meglio: essa perderebbe la sua determinazione, la sua marca distintiva, la “sua” verità. Essa diverrebbe virtuale proprio come ogni altra dimensione e, proprio per questo, risulterebbe indistinguibile per una qualche istanza analitica (se ancora potesse esistere) che volesse discernere il “vero” dal “falso”.

Fare propria questa modalità di pensiero significa sgretolare ogni determina-zione chiara e distinta e, di conseguenza, perdere la possibilità di fissare qualsi-voglia certezza.

D'un solo colpo l’edificio metafisico è distrutto. Con esso perde efficacia cono-scitiva lo stesso Ego soggettivo, fondamento di ogni sapere, il quale diviene in-granaggio di sistema, elemento di giuntura prodotto da delle virtualità (siano es-se di matrice storico-sociale, economica, inconscia) allo scopo di legare altre vir-tualità e dare così ulteriore sviluppo a quel grande meccanismo che è l’essere.

Essendo l’essere costituito di sole virtualità, la domanda ontologica perde il suo potere. Non si può più cioè determinare qualcosa come un’essenza, essendo quest'ultima possibile soltanto se vi è una dimensione conoscitiva privilegiata (quella della presenza) che apre un campo di verità universali.

Inoltre, non essendoci più dimensione privilegiata, tutto diviene immanente, di un’immanenza priva di scopo, meccanismo fatto di virtualità che eternamente

                                                                                                                         18 Ivi, pp. 93-94.

Derrida, Nietzsche e il pensiero del “forse” Andrea Sacconi

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ritorna, dove l’uomo non occupa più il posto centrale ma risulta essere ingranag-gio tra altri ingranaggi19.

In questa immanenza e in questa virtualità totali nessun sapere può più essere, sia esso di stampo teoretico o pratico. O meglio: la determinazione (parziale, illu-soria) di un qualche sapere non avrebbe più a che fare con la verità, ma sarebbe solamente produzione di significati da collegare ad altri significati all’unico scopo di far funzionare il sistema.

                                                                                                                         19 A questo proposito l’orizzonte aperto dal “pensiero del forse” non è distante da ciò che mostra-no le teorizzazioni di Deleuze e Guattari sulle molteplicità esposte prima ne L’anti-Edipo (G. De-leuze, F. Guattari, L’anti-Edipo, tr. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002) e poi in Mille piani. (G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, tr. it. di G. Passerone, Cooper&Castelvecchi, Roma 2003).

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La trascendenza, la fede filosofica e la cifra “Dio”. Alcuni aspetti della metafisica di Karl Jaspers Danijel Tolvajčić (Tr. it. a cura di Pavao Žitko) Transcendence, Philosophical Faith and Cypher “God”. Some Aspects of Karl Jasper’s Metaphysics Abstract In this paper, its author, Danijel Tolvajčić, professor of Philosophical Anthropology, Ethics and Philosophy of Religion at the Catholic-Theological Faculty of the University of Zagreb (Croatia), examines the particular characteristics of Karl Jaspers' metaphysics. For the philosophy of exist-ence, the metaphysics is intended as a research method of transcendence, through the existence considered as a gift. The main topic of Jaspers' metaphysics and of this paper is the theoretical meaning of the Chiffer “God” and this leads to the analysis that Tolvajčić makes of the relation-ship between philosophical faith and religion. The particular attention in this paper Tolvajčić ded-icates to the mode in which should be intended the metaphysics in Jaspers, determined by the speculative context of his philosophical thought. Keywords: Metaphysics, Transcendence, Jaspers, Existence, Method, Faith, Religion.

Nota del traduttore Il presente contributo è stato originariamente scritto in lingua croata e pubblicato per conto

della Società croata “Karl Jaspers” in quanto parte integrante del volume collettaneo Filozofija egzistencije Karla Jaspersa, a cura di Boško Pešić e Danijel Tolvajčić, Zagabria 2013, pp. 103-130.

L’autorizzazione per la pubblicazione della presente traduzione è stata rilasciata dalla Socie-tà e dall’autore dell’articolo, D. Tolvajčić, docente di Antropologia filosofica, Etica e Filosofia della religione presso la Facoltà Cattolico-teologica dell’Università degli Studi di Zagabria, Croazia.

L’importanza dell’argomento affrontato in questo scritto riguarda innanzitutto l’attualità della portata speculativa del pensiero jaspersiano e la sua essenziale metafisicità. L’Autore rin-traccia in Kant il punto di partenza del filosofare jaspersiano e afferma l’impossibilità di una metafisica del sapere, ma evidenzia la possibilità di una metafisica esistenziale del credo.

L’articolo contiene una significativa analisi teoretica dei testi dell’ultimo Jaspers con la quale Tolvajčić legittima e giustifica le posizioni sostenute in questo scritto, volte a sottolineare il ca-rattere metafisico dell’autentico pensiero filosofico e le possibilità di un suo esplicarsi, assieme

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ai limiti che il pensiero incontra nella riflessione su ciò che, jaspersianamente, non rientra nell’ambito della γν�σις, ma che comunque la fonda, standone fuori.

L’Autore affronta, infine, le ragioni che rendono impossibile un sistema filosofico in Jaspers a partire dai postulati teoretici dell’Existenzphilosophie e mette in evidenza anche le cause del difficile rapporto che Jaspers ha avuto, da una parte, con la teologia e dall’altra, invece, con il rifiuto del pensiero su Dio, radicato nelle posizioni speculative di matrice atea.

La traduzione è stata eseguita integralmente sul testo pubblicato in lingua croata, assieme alle citazioni in essa contenute. Le convergenze e le similitudini con le traduzioni italiane dei te-sti di Jaspers, originariamente scritti in lingua tedesca, sono comunque possibili, ma non neces-sarie.

1. Introduzione La filosofia contemporanea sembra essere allergica alla metafisica; una delle

sue caratteristiche fondamentali è proprio la sua non-metafisicità. È, quindi, giu-stificato il discorso dei molti studiosi della filosofia contemporanea sul carattere postmetafisico della filosofia odierna. Anche Jürgen Habermas nella sua omoni-ma opera – Il pensiero postmetafisico1 – riporta una simile diagnosi: la filosofia contemporanea considera la problematica metafisica – insensata. La filosofia ha – afferma Habermas – abbandonando la metafisica, abbandonato il profondo bisogno umano della ricerca del senso della vita. Chi è chiamato, però, se non la filosofia, a rispondere a tali domande? Con il suo non volersi occupare di questi argomenti, pensa Habermas, la filosofia si priva di un suo campo significativo, perdendo, così, il proprio ruolo nella vita umana. Rimangono, perciò, “soltanto” la religione e l’arte con le proprie visioni della metafisica.

La metafisica evidentemente non risulta più interessante alla filosofia contem-poranea; ma possiamo dire che, con ciò, il pensiero metafisico sia davvero scom-parso dalla vita dell’uomo? Possiamo seppellirlo in maniera definitiva?

In quanto opposizione ad un tale modo di pensare emerge Karl Jaspers con la propria filosofia di cui una parte significante rappresenta ciò che potremmo chiamare – la problematica metafisica. Anche se non è l’unico metafisico del suo                                                                                                                          1 Per illustrare la tesi di Habermas vedere: J. Habermas, Postmetafizičko mišljenje. Filozofski članci, Beograd 2002, pg. 63-64: «Dopo la metafisica, la teoria filosofica ha perduto il suo statuto extra-quotidiano. I contenuti esplosivi dell’esperienza di ciò che supera la quotidianità si sono trasferiti nell’arte diventata autonoma. […] La religione, privata dalle funzionalità della creazione delle immagini del mondo, osservata dall’esterno, rimane, come prima, insostituibile per un rap-porto normalizzante con ciò che si trova al di fuori del dominio del quotidiano. A causa di ciò, an-che il pensiero postmetafisico coesiste con la prassi religiosa. […] Finché il linguaggio religioso porta con sé il contenuto semantico ispirativo, al quale non possiamo rinunciare e il quale (per ora?) sfugge alle capacità espressive del linguaggio filosofico, aspettando ancora la sua traduzione nei discorsi speculativi, la filosofia, nemmeno in quanto postmetafisica, potrà mai sostituire e re-spingere la religione».

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tempo, egli non esita ad esprimersi sulla propria filosofia nel seguente modo: «La filosofia dell’esistenza è, in realtà, metafisica. Essa crede in ciò da cui proviene»2. Jaspers evidentemente pensa che la metafisica non riguarda soltanto la storia del pensiero. Però, come si articola in lui la metafisica e come le approccia? Queste sono le questioni che si propone di analizzare il presente elaborato, in modo par-ticolare con l’analisi dei tre concetti metafisici chiave: la “trascendenza”, la “fede filosofica” e la “cifra Dio”.

La nostra tesi è che la filosofia di Jaspers rimane aperta alle questioni metafi-siche, però senza seguire le vie della metafisica tradizionale e senza offrire una concreta cognizione metafisica dal valore universale; la filosofia di Jaspers rima-ne ancorata alla persona e alla sua possibile autorealizzazione. Essa non può di-ventare un sistema compiuto di conoscenze, dal momento in cui «il pensiero me-tafisico non è possibile completare e non si può fissare in un unico vero»3.

Si tratta del pensiero che non rinuncia all’introspezione “obbligatoria ed obbli-gante” dei suoi contenuti e oggetti; esso è, in Jaspers, pensato come una fede filo-sofica in modo da evitare la sua fissazione in concetti. La fede filosofica non ha alcuna “prova” delle proprie affermazioni e non vuole affatto provarle; essa crede nei propri presupposti metafisici, sempre storici ed individuali.

2. L’esistenza come “dono” e trascendenza Se tutti i modi dell’essere Omnicomprensivo sono fondati in uno solo – pro-

clama Jaspers ne “La fede filosofica”, allora diventa evidente che la “trascenden-za” è “l’essere vero”4. In direzione di una trascendenza così pensata è indirizzato il pensiero dello Jaspers “maturo”; ancor di più, in un passaggio egli afferma: «Non credo che si possa, almeno nella speculazione, essere ancorati alla trascen-denza più di quanto io lo abbia fatto nei miei scritti»5. Ma che cos'è la trascen-denza e da dove ci proviene la consapevolezza che di essa abbiamo?

L’uomo, secondo Jaspers, non si può comprendere soltanto da se stesso; in quanto esistenza possibile egli arriva alla fondamentale consapevolezza di non essere stato, da se stesso, creato:

                                                                                                                         2 K. Jaspers, Philosophie: I Philosophische Weltorientierung, II Existenzerhellung, III Metaphy-sik. (in avanti Philosophie, alcuni volumi si riportano in ordine – Philosophische Weltorinetie-rung come I, Existenzerhellung come II, Metaphysik come III), Berlin-Heidelberg-New York (4° edizione invariata) 1973, I, p. 27: «Existenzphilosophie ist im Wesen Metapysik. Sie glaubt, woraus sie entspringt». 3 Ivi, p. 35. 4 Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube, München 1963, p. 31. 5 K. Jaspers/R. Bultmann, Pitanje demitologiziranja, Zagreb 2004, p. 87.

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«Laddove io sono veramente me stesso, so di essere stato, a me stesso, donato. Lad-dove io sono veramente me stesso, so che non lo sono per me stesso.”6 “Non ci siamo creati da soli. Ognuno può pensare, per se stesso, che sia esistita la possibilità che gli non ci fosse. Questo ci accomuna agli animali. Noi ci troviamo, però, liberi; la condizione per la quale non obbediamo alle leggi naturali in modo automatico, ma ci troviamo ad essere, non per noi stessi, ma per la nostra libertà, donati a noi stessi. […] Al culmine della liber-tà, quando il nostro parere ci sembra necessario, non per mezzo di una costrizione ester-na di un accadere inevitabile secondo le leggi naturali, bensì per un concordare interno che altrimenti non si vuole, nella nostra libertà noi diventiamo consapevoli di essere ciò che la trascendenza ci ha dato»7.

Anche se l’esistenza è “la fonte dalla quale io penso e agisco”, si mostra co-

munque che essa non è l’essere in sé; non è sufficiente a se stessa, ma è indirizza-ta all’Assolutamente Altro – vale a dire, alla trascendenza che è la sua fonte.8 Sull’“essere dono” dell’esistenza dalla trascendenza nella libertà – afferma Ja-spers - “si discute in quasi tutti i miei scritti”9. Anzi, la consapevolezza della “li-bertà come dono” è «l’elemento inevitabile della verità nella chiarificazione filo-sofica dell’esistenza; l’elemento che senza San Paolo, Sant'Agostino e Lutero forse non sarebbe entrato in modo così chiaro nella nostra coscienza»10.

La Trascendenza è, in realtà, «il potere grazie al quale io sono, in realtà, me stesso»11. Si può, dunque, dire che l’uomo è stato «creato all’immagine della tra-scendenza»12. Ciò significa che, in fin dei conti, non è possibile identificare l’esistenza con la sua trascendenza: «L’identificazione della trascendenza con

                                                                                                                         6 K. Jaspers, Von der Wahrheit. Philosophische Logik. Erster Band, München 1947, p. 110. 7 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, München 1953, p. 63. 8 Paul Ricoeur parla di un “paradosso kierkegaardiano” (kierkegaardian paradox) dell’esistenza pensata jaspersianamente: il pensiero che l’esistenza può essere, in quanto libertà, è il rialzamen-to originario di ciò che chiamo “me stesso”, però è anche un dono radicale della misericordia della divinità nascosta”, Paul Ricoeur, The Relation of Jaspers' Philosophy to Religion, in Paul Arthur Schlipp (a cura di), The Philosophy of Karl Jaspers, pp. 611-642, qui p. 619. Anche Kurt Salamun considera l’esperienza della “gratuità” in quanto essenziale per la corretta comprensione del con-cetto d'esistenza: «Nell’esistenzialismo di Jaspers emerge una questione di cruciale importanza: In che modo risulta possibile la realizzazione di una personale autonomia ed esistenza? La rispo-sta di Jaspers è che l’esistenza non può affatto essere pianificata o gestita perché è, infine, un do-no dell’essere inoggettivante che lui chiama “trascendenza”. […] Nel processo del divenire un’esistenza, il singolo sente che l’autorealizzazione esistenziale non è né il risultato di una piani-ficazione razionale né il prodotto dell’autogestione (self-managment): l’esistenza è esperita come un dono dalla fonte trascendente» (K. Salamun, Karl Jaspers on Human Self-Realisation. Exi-stenz in Boundary Situations and Communication, in K. Salamun - G. J. Walters (a cura di), Karl Jaspers' Philosophy. Expositions and Interpretations, New York 2008, pp. 243-262, qui p. 247. Cfr. Id., Karl Jaspers, München, pp. 39; 46-64. 9 K. Jaspers, Reply to my Critics, in P. A. Schlipp (a cura di), The Philosophy of Karl Jaspers, New York 1957, pp. 749-869, p. 780. 10 Ibidem. 11 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 79. 12 Ivi, p. 108.

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l’esistenza è impossibile, perché l’esistenza sa di stare di fronte alla divinità»13. La trascendenza non soltanto non si esaurisce nell’esistenza, ma non è nemmeno la totalità del mondo. Jaspers mette in evidenza l’ovvietà del fatto che il mondo – precisamente come l’esistenza - «non è da se stesso, né tantomeno causa sui. […] Detto usando il linguaggio del mito: il mondo è l’essere creato»14. L’«esistenza possibile», «consapevole di non essere stata la propria causa», fa esperienza del mondo come “creato”, “aperto” e «impossibile da comprendere soltanto da se stesso»15. Ciò significa che, per via della trascendenza, io sono libero e indipen-dente in relazione alla totalità dell’essere del mondo; non sono riconducibile alla mera sopravvivenza ed immanenza.

La Trascendenza appare soltanto nell’esistenza e soltanto nel momento in cui il mondo non viene concepito come totalità di tutto l’esistente. Tuttavia, ciò non induce al rifiuto del mondo; tutto ciò che c’è nel mondo e il mondo stesso diven-tano chiari, diventano «il linguaggio della trascendenza». Nel suo scritto La fede filosofica, Jaspers definisce la trascendenza nel seguente modo:

«La Trascendenza è […] l’essere totalmente diverso da noi, sul quale noi non esercitiamo alcun

diritto, però sul quale siamo fondati e al quale ci rapportiamo. […] La Trascendenza è l’essere che non è mai il mondo, ma che si manifesta tramite l’essere nel mondo. La Trascendenza è soltanto quando il mondo non è esclusivamente per se stesso, quando non è fondato in se stesso, ma ri-manda sia fuori che oltre se stesso. Se il mondo viene concepito come un tutto – la Trascendenza scompare. Però, se la Trascendenza 'è', allora nell’essere del mondo soggiorna ciò che ad essa rin-via»16.

La Trascendenza è l’essere in sé, inoggettivato ed assoluto – «eterno, indistrut-

tibile, invariabile, la fonte»17. Essa è il fondamento di tutto ciò che c’è; in quanto tale, essa è «l’Omnicomprensivo di tutti gli omnicomprensivi»18. La Trascenden-za non può essere raggiunta in alcun pensiero, rappresentazione, realtà empirica, speculazione o qualsiasi altra forma finita. Essa è “al di là” di tutto il pensabile. La regola fondamentale del pensiero volto alla Trascendenza e che Jaspers, as-                                                                                                                          13 K. Jaspers, Philosophie III, p. 65. Secondo Richard Wisser «la vera trascendenza per Jaspers […] è ciò he indipendentemente dall’uomo “è”» ed è ciò «che media la consapevolezza umana sul-la propria creazione ed è ciò con cui non viene propriamente abolita, ma lacerata la finitezza che lo definisce» (R. Wisser, Karl Jaspers. Filozofija u obistinjenju, Zagreb 2000, p. 43.) La stessa traccia segue anche Bernard O'Connor, secondo cui non è possibile pensare la trascendenza sol-tanto come una «dinamica all’interno della coscienza, ma come una realtà indipendente dalla co-scienza, la quale funge da fondamento a questa stessa coscienza. La Trascendenza è allo stesso tempo la fonte dell’esistenza e del mondo». (B. O'Connor, A Dialogue Between Philosophy and Religion. The Perspective of Karl Jaspers, Landham 1988, p. 15). 14 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 90. 15 Cfr. ivi, p. 104. 16 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., pp. 18-19. 17 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, München 1963, p. 385. 18 Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 109.

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sieme a Kant, riprende dalla Bibbia è: «Non ti farai idolo né immagine alcuna»19. Tuttavia, queste “immagini”, “rappresentazioni” e “forme” possono, sempre se non vengono concepite come realtà “fissate” e compiute della trascendenza, esse-re intese come un modo per “esperire” la trascendenza in quanto l’”essere vero”. Accanto a ciò, secondo Jaspers, anche le denominazioni e i nomi della trascen-denza «possono ammassarsi all’infinito»20. Nell’Occidente si sono, comunque, stabilizzati alcuni “nomi autorevoli” i quali sono, presi isolatamente, non definiti, ma secondo la tradizione, essi sono «infinitamente carichi di significato». Questi nomi sono: “Essere” (Sein), “Realtà” (Wirklichkeit), “Divinità” (Gottheit) e “Dio” (Gott). A ciascuno di questi “nomi autorevoli” Jaspers ha attribuito una funzione propria; ciascuno di essi afferra la realtà della trascendenza sotto un aspetto di-verso:

«Se la trascendenza viene pensata come l’Omnicomprensivo, la chiamiamo l’Essere. […] Se

con la trascendenza viviamo, essa è la Realtà vera. […] Se in una tale Realtà, ci parla qualcosa di richiedente, governante, avvolgente, chiamiamo la trascendenza Divinità. Se, in quanto individui ci troviamo ad essere personalmente colpiti e se, in quanto persona, incontriamo la trascendenza come persona, la chiamiamo Dio»21.

Anche se possiamo legittimamente “nominare” la Trascendenza “Essere”,

“Realtà”, “Divinità” e “Dio”, nessuno di questi nomi fa della Trascendenza un og-getto né la comprende interamente. Nessun nome, da solo, è sufficiente, anche se in grado di rappresentare la cifra decisiva per la quale all’uomo sia data la possi-bilità di diventare ciò che è. Essi indicano il modo in cui la trascendenza è stata attivamente presente nella storia, permettendo così l’indipendenza dell’uomo singolo dall’oppressione schiavizzante dell’immanenza. Questi nomi indicano l’“esperienza” grazie alla quale risulta possibile “afferrare”22 la trascendenza. Essi non sono niente di fisso, ma vanno concepiti come “cifre”.

Nel momento in cui uno di questi “nomi autorevoli” dovesse essere concepito in senso assoluto, non accadrebbe altro che la fissazione e l’eliminazione della trascendenza.

3. La metafisica come metodo di ricerca della trascendenza Come pensare ciò che non è pensabile? Esistono davvero le vie filosofiche sulle

quali la trascendenza ci appare? Per Jaspers la metafisica indaga e descrive le vie del pensiero volto alla tra-

scendenza. Soltanto il pensiero metafisico, in grado di trascendere, permette                                                                                                                          19 Es. 20, 4; Deut. 5, 8. 20 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 111. 21 Ivi, p. 111. 22 Cfr. ibidem.

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l’avvicinamento alla suddetta realtà; la realtà altrimenti impensabile a causa della sua irriducibilità alle categorie. Il pensiero metafisico ha la funzione annunciato-ria, ovvero linguistica per la quale la realtà della trascendenza si rende compren-sibile alla possibile esistenza nella sua storicità.

Come deve essere, allora, la metafisica? Nonostante l’irriducibilità della tra-scendenza a ciò che si dà come “oggetto”, il pensiero ha bisogno degli “oggetti”. Jaspers introduce, perciò, la nozione di “oggetti metafisici”. Certo, non si tratta affatto di oggetti nel senso empirico. Il pensiero, metafisico o non, senza oggetti non si dà. Però, gli oggetti definiti come metafisici sono privi di univocità. Essi sono plurisignificanti e ogni esistenza li legge e comprende in quanto “cifre”. L’oggettività metafisica non è mai una realtà universalmente obbligante, bensì, se partiamo da ciò che Jaspers chiama «la chiarificazione d'esistenza», la realtà em-pirica che ci circonda parla di un’”altra” realtà – quella della trascendenza. La Trascendenza comincia a parlare tramite l’essere del mondo. La sola ragione, pri-vata dalla sua testimonianza esistenziale, è condannata alla sterilità; quest'ogget-tività, dunque, risulta imprigionata nell’inconciliabile contraddittorietà. Però, al pensiero metafisico, concepito nel senso jaspersiano, risulta possibile testimonia-re che il finito sia fondato nell’infinito, di cui intuizione abbiamo dall’infinito por-si domande. Si tratta del filosofare metafisico che si svolge nel cerchio, nelle tau-tologie e nelle contraddizioni. Ogni oggetto metafisico viene abolito nella sua contraddizione. Soltanto in questo modo esso può salvarsi dalla “pietrificazione” e dalla perdita della trascendenza: perciò la trascendenza sta «al confine dei due mondi che si rapportano a vicenda come l’essere e il non essere»; la visione empi-rica e generalizzante cede il posto alla visione esistenziale della trascendenza: si cambia l’essenza dell’oggetto, il quale, nella visione esistenziale, non è a se stante, bensì indica la trascendenza.

Il pensiero che tende, dunque, ad esprimere l’essere dell’inafferrabile trascen-denza, ruota principalmente intorno alle tre sfere in cui si forma l’oggettività me-tafisica: la mitologia, la teologia e la filosofia23. Queste tre sfere sono, malgrado la loro costante reciprocità, in lotta continua, perché la lotta è la necessità della libertà autentica; l’assenza della lotta indurrebbe soltanto «al silenzio tombale della non-libertà».

La metafisica jaspersiana accetta gli enunciati del mito e della teologia, ma non nel modo in cui questi spesso vengono compresi nei loro ambiti, in quanto, dun-que, una reale presenza della trascendenza, bensì in essi riconosce le cifre che si sono storicamente stabilite, diventando assolute, e perciò universalmente obbli-ganti.

                                                                                                                         23 Cfr. K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 26.

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La metafisica filosofica è possibile soltanto come gioco (das Spiel). Essa non ha una dimensione obbligante, dal momento in cui l’uomo, in quanto esistenza singola e storica, legge autonomamente le cifre della trascendenza. Il suo aspetto importante è la libertà del pensiero e il tono apolemico: Jaspers non va contro le nozioni diversamente poste, ma cerca di comprenderle e leggere in esse la scrit-tura cifrata della trascendenza. Questo gioco metafisico è caratterizzato da tre metodi con i quali l’esistenza filosofica cerca la trascendenza:

1. «Il trascendere formale» (Das formale Transzendieren) tende a superare le categorie, partendo dal definito e definibile, e avviandosi verso l’indeterminato. Si tratta di diversi tentativi filosofico-speculativi che nella storia hanno cercato di afferrare l’Ultimo. Tutti i pensieri sulla trascendenza, che provengono dal tra-scendere formale, si rivelano o come tautologie o come contraddizioni interne. Tutti gli enunciati sono il “non-sapere”. In quanto metodo razionale, esso non riesce, perché la domanda filosofica sull’essere qui arriva alla sua fine e non alla sua risposta ultima. La Trascendenza nel trascendere formale non è un pensiero compiuto e riconducibile alle categorie determinate, bensì è un pensiero non riu-scito nell’impensabile. Esso è necessariamente non-pensabile (risulta pensabile soltanto come impensabile). Quindi, anche tutti gli enunciati storici sulla tra-scendenza (nella storia della filosofia spesso pensata tramite la cifra “Dio”), in realtà, non sono un effettivo sapere, anche se vengono concepiti «quasi come un pensiero matematico». Essi non hanno un carattere obbligante, ma «sono indi-rizzati all’esistenza nella sua storicità»24. Tutte le immagini, i simboli, le rappre-sentazioni e i pensieri oggettivanti in generale, raggiungono, se intesi come “sa-pere”, l’assoluto insuccesso. Quello che si mostra sono le contraddizioni che, in effetti, non dicono nulla sull’inafferrabile. Tutto ciò che si può dire sulla trascen-denza è riconducibile alla tautologia: è ciò che è. Però, l’insuccesso del pensiero non è la sconfitta, ma il risveglio dell’esistenza. Il trascendere formale è esisten-zialmente pieno, anche se infruttuoso e sterile nel contesto della conoscenza em-pirica. La sua forza esistenziale si manifesta soltanto nel trascendere l’oggettività, perché il “rappresentabile”, assieme al “pensabile”, altro non è che un altro e “particolare modo d'essere”. L’“impensabile” (undenkbar), anche se si svela, co-munque non si rende raggiungibile da questo metodo. «Il naufragio nell’abisso», al quale è condannata la ragione nel suo pensare la trascendenza, parla all’esistenza. Il trascendere formale, se concepito correttamente, previene la ma-terializzazione, ovvero l’immanentizzazione della trascendenza e apre lo spazio alle cifre.

                                                                                                                         24 K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 66.

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2. «I legami esistenziali con la trascendenza» (Existentielle Bezüge zur Tra-scendenz) è il metodo della metafisica con il quale si pensano i modi della co-scienza esistenziale sulla trascendenza. Anche qui è presente la consapevolezza dell’insuccesso di una conoscenza rigida della trascendenza; con questo metodo non si può affatto pensare la trascendenza, ma soltanto i modi del suo apparire all’essere dell’esistenza. Questo metodo ha più successo del “trascendere forma-le”, visto che, a differenza dell’assoluto insuccesso degli aspetti formali del tra-scendere nella speculazione filosofica, l’attenzione viene indirizzata ai, molto più efficaci, modi del rapportarsi esistenziale a ciò in cui essa riconosce la propria fonte. Emerge, dunque, la struttura antinomica dell’uomo in quanto esistenza possibile e, da ciò deriva anche la plurisignificatività dell’apparire della trascen-denza all’uomo.

Jaspers arriva, così, ad individuare le quattro relazioni esistenziali che si rap-portano a vicenda, indicando la trascendenza e «non permettendo all’esistenza di calmarsi nella sopravvivenza»25. Il rapporto esistenziale tra la sfida e la devozio-ne (Trotz und Hingabe) è stato preso da Kierkegaard. Si tematizza la questione della disperazione per arrivare a se stessi. La disperazione porta alla sfida. Nella sua opera La malattia mortale Kierkegaard afferma: «Noi sfidiamo proprio per-ché il disperato vuole stare con se stesso»26. Il presupposto della sfida è l’apertura alla trascendenza. In questo contesto si tematizza anche la questione della teodi-cea: essa è o la giustificazione della trascendenza o la sua negazione. La caduta e l’ascesa (Abfall und Aufstieg) indicano la dinamicità dell’esistenza: essa o si ele-va verso la trascendenza o sprofonda di fronte ad essa. La trascendenza si mani-festa nelle tensioni tra la positività e la negatività; tra il passaggio al non-essere e la salita verso il vero essere. Ne La legge del giorno e la passione per la notte (Das Gesetz des Tages und die Leidenschaft zur Nacht) Jaspers descrive gli stati psichici e gli istinti fondamentali dell’uomo, specialmente le sue potenzialità creative, da una, e quelle distruttive dall’altra parte, notando in entrambe le pos-sibilità di una presenza trascendente. “La legge del giorno” ordina la realizzazione della nostra permanenza nel mondo sulla via dell’infinito. Il suo confine è la mor-te. Ai confini della legge del giorno appare il rifiuto – ovvero, “la passione per la notte” che distrugge tutto ciò che è stato edificato nel tempo. Trascinando tutto ciò che c’è e abbattendo l’ordine stabilito, essa precipita verso “l’abisso del nulla”. In questo modo, anche lo stare sul confine della passione per la notte diventa «la condizione dell’esperienza della trascendenza». Entrambi gli “stati” si trovano in un rapporto dialettico. La sintesi di questi due mondi non è possibile, ogni esi-stenza si decide da sola nelle proprie crisi; questi mondi sono in una polarità irri-                                                                                                                          25 Ivi, p. 69. 26 S. Kierkegaard, Bolest na smrt, Beograd 1980, p. 52.

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solvibile, mentre il loro essere rimane nascosto. E infine, la ricchezza dei molti e dell’Uno (Der Richtum des Vielen und das Eine) è il riferimento alla tradizione filosofica in cui si rimanda all’Uno trascendente che appare in tutta la storia del pensare metafisico. Jaspers si riferisce principalmente all’Uno della tradizione neoplatonica. L’accento cade sul significato dell’Uno per la singola esistenza: esso ha la sua fonte nell’esistenza che trascende l’unità del mondo e del pensiero logi-co, rendendo, così, possibile l’incontro dell’esistenza e dell’Uno nella concretezza storica della propria vita.

3. La lettura della scrittura cifrata (Lesen der Chiffreschrift) è il metodo prin-cipale della chiarificazione filosofica della trascendenza. La teoria delle cifre rap-presenta il contributo jaspersiano più originale al pensiero metafisico. Le cifre sono «il pensiero filosofico originario» 27 e, in quanto tali, esse sono per l’esistenza l’unico mezzo della presenza di ciò che, pur sempre, rimane trascen-dente. Esse possono essere tutto ciò che ci appare nella coscienza in generale e, perciò, esse designano «i confini assoluti della coscienza umana»; al di fuori di essi il pensiero non può andare. Essi sono gli “oggetti” presi da tutti gli aspetti della realtà e indicano all’esistenza l’unico possibile “al di là” - si parli di filosofia, religione, natura, cultura, arte – e dei quali, perciò, cambia il significato. Non so-no più autonome, ma in esse la trascendenza diventa presente in modo specifico, inoggettivabile. Il loro “ruolo” è la mediazione tra l’esistenza e la trascendenza. «La lettura delle cifre» è un atto individuale, possibile soltanto tramite l’essere se stesso dell’uomo. Che cos'è la cifra (e come qualcosa diventa una cifra), l’esistenza deve indovinare da sola nella propria libertà. Anche se la trascendenza risulta indipendente da essa, il suo “essere in sé” non risulta raggiungibile all’esistenza se non in modo mediato, tramite la plurisignificatività delle cifre. Nelle cifre l’esistenza “dimora”, si approfondisce in esse in un unica, irripetibile osservazione storica. Il pensiero speculativo cerca di dimorare nella cifra e di in-contrarsi con l’essere assoluto; in quanto tale, esso è “annunciabile”. Ma, questa annunciabilità è specifica ed è paradossale; essa è, nella comprensione, il tocco dell’incomprensibile. In questo “essere incomprensibile” trovo la fonte di ciò che sono. Al di là della comprensione possibile o impossibile, appare l’essere sfuggen-te della trascendenza. Ma, che cosa sono le cifre? In che modo determinarle? Tut-to ciò che c’è può essere visto come cifra28 a causa dell’effettiva impossibilità del-la loro determinazione. Tutto ciò che c’è può indurci, in quanto esistenze, a cerca-re la trascendenza; in questo modo, la trascendenza, in un certo senso, ci risulta “presente”. La cifra è, perciò, sempre plurisignificante e mai del tutto dispiegata. Le cifre hanno, dunque, un carattere indeterminato; sono la scrittura «impossibi-                                                                                                                          27 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 1038. 28 Cfr. K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 170.

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le da leggere in modo universale», la scrittura che parla al singolo nella sua inte-riorità mentre egli trascende. La metafisica è, perciò, il pensiero che trasforma il vivere nella cifra.

Anche se la “lettura delle cifre”, detto comunque con riserva, risulta il metodo principale della metafisica jaspersiana, non si deve mai pensare che, al posto del-la cifra, afferiamo la trascendenza in sé. Le cifre, da sole, non sono mai la tra-scendenza, ma soltanto la sua presenza. Esse sono, nel loro significato, molteplici e, nella forma del mito, della rivelazione, delle speculazioni razionali e di tutte le altre forme, indicano all’esistenza la trascendenza nascosta. Essa non è imprigio-nata in alcuna cifra. Nessun apparire dell’essere diventa la trascendenza. Quando si cerca di afferrare la trascendenza, essa scompare. L’esito è sempre la sua “pre-senza infinita”.

Ciò significa anche che la vera essenza delle cifre è la loro plurisignificatività. «È sempre possibile leggere la cifra in modo diverso. In essa non c’è mai alcuna conclusione sulla trascendenza, che altrimenti sarebbe, per così dire, calcolata»29. La “lettura delle cifre” è l’atto individuale che si svolge nell’“agire interiore” con-templativo. Il “luogo” della lettura della scrittura cifrata è soltanto l’esistenza sin-golare. L’esistenza si approfondisce nei simboli e in essi riconosce le traccie dell’”essere assoluto”.

Il metodo di «lettura di tutto l’esistente in quanto cifra», precisamente come i metodi precedentemente descritti, non arriva mai agli enunciati obbliganti sulla trascendenza, ma si avvicina di più alla possibilità di afferrare la sua realtà sfug-gente. La metafisica è possibile soltanto come chiarificazione della necessità di una ricerca delle vie verso la trascendenza, ovvero in quanto ricerca e ritrova-mento dei sempre nuovi metodi di trascendere. Da ciò anche il suo carattere co-stantemente tendente all’ulteriorità. Qualsiasi altro sarebbe falso. Non afferriamo mai la trascendenza in sé, ma sempre e soltanto la sua cifra. Precisamente come nei precedenti metodi metafisici, il pensiero deve sempre essere consapevole del proprio insuccesso.

Anzi, l’insuccesso (Scheitern) è ciò con cui si compie il domandare filosofico: è l’ultimo30 - molteplice e onnipresente. Con esso si compie anche «l’orientazione filosofica nel mondo» – non esiste il mondo in quanto totalità, esso non riesce in quanto esistenza e non si può comprendere da se stesso né in se stesso; con esso finisce anche «la chiarificazione dell’esistenza» – l’essere-in-se dell’esistenza, in quanto tale, non si verifica, naufraga e non si può reggere da solo. Né il mondo né l’uomo risultano approcciabili come afferrabili oggetti.

                                                                                                                         29 Ivi, p. 149. 30 Cfr. ivi, pp. 220, 222.

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Ciò vale ancor di più per la trascendenza. Il pensiero finisce con il “non-poter-pensare”, precisamente come nel “trascendere formale”. Questo pensiero non è mai la razionalizzazione della trascendenza per via dei ragionamenti fondati su ciò che chiamiamo “causa-effetto”, bensì il pensiero metafisico in grado di tra-scendere, consapevole dell’impossibilità di una risposta ultima. In questo modo si viene a creare il filosofare metafisico in grado di concepire l’irriducibilità della trascendenza alle categorie e la nullità di una siffatta gnosi. Il pensiero speculati-vo è la scrittura cifrata manifestatasi nel suo darsi. Il medium, invece, del lin-guaggio speculativo non è la conoscenza, ma la contemplazione: «L’immersione contemplativa volta a toccare la trascendenza nella scrittura cifrata autocompre-sa, saggiamente presa e formata che pone questa stessa trascendenza, in quanto oggettività metafisica, di fronte allo spirito»31. La conoscenza scientifica cede il proprio posto alla contemplazione che proviene dalla fede filosofica, visto che si tratta di una “testimonianza della trascendenza” non proveniente dalla cono-scenza: «Il sapere sulla trascendenza esiste in quanto autoimmersione contem-plativa nella scrittura cifrata labile e plurisignificante»32. Il pensiero speculativo, qui presente, deve sempre essere consapevole del carattere fuggitivo del proprio oggetto. La trascendenza, in quanto scopo della metafisica, non diventa mai im-mediatamente presente. Ogni pensiero naufraga sull’impensabile. Niente può evitare l’insuccesso. E comunque, l’insuccesso non è un semplice fallimento o la sterile decadenza. Secondo Jaspers, anche nell’insuccesso si può manifestare l’essere. L’insuccesso diventa, in questo modo, un fertile insuccesso: anche se non sappiamo nulla sulla trascendenza, osiamo vivere della sua realtà sempre sfug-gente. L’insuccesso dimostra come il pensiero metafisico (se articolato come una ricerca sterile e razionale delle vie che inducono alla trascendenza) di per sé, dunque, non è sufficiente, ma è necessaria la “fede”; tuttavia, in Jaspers, la fede non è, come dice lui, religiosa, bensì – filosofica.

4. L’idea della “fede filosofica” Karl Jaspers di solito viene percepito come “il filosofo dell’esistenza”; ciò no-

nostante che dopo la Seconda guerra mondiale egli ha preferito chiamare la pro-pria filosofia “la fede filosofica” (der philosophische Glaube). Si tratta di uno dei concetti fondamentali della sua filosofia matura; è certamente il concetto al quale Jaspers ha dedicato anche l’omonimo scritto programmatico33. Anche se ha for-                                                                                                                          31 K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 135. 32 Ivi, p. 160. 33 Cfr. su ciò R. Wisser, Karl Jaspers. Filozofija u obistinjenju, cit., pp. 6-7: «Lo scritto program-matico di Jaspers nella nota pubblicazione dal titolo La fede filosofica […] non ha mostrato sol-tanto “il concetto della fede filosofica” – afferma Wisser – ma ha dato anche una panoramica di ciò che egli chiama “i contenuti filosofici della fede”, l’enunciato: “Dio è” – Permane un appello

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mulato l’idea della “fede filosofica” soltanto nel dopoguerra, l’aveva difesa già do-po la pubblicazione della sua opera principale, portante il titolo Filosofia: «Dal momento in cui è stata pubblicata la mia Filosofia (1931.), ho professato pubbli-camente la fede filosofica come senso dell’insegnamento filosofico. Nello scritto La fede filosofica /1947.) l’ho formulata in modo chiaro»34.

Di cosa si tratta? La fede filosofica parte dalla consapevolezza dell’inaccessibilità della verità al “sapere”, ma esige lo sforzo della persona intera. In accordo con ciò e secondo la nostra opinione, essa rappresenta la “conclusio-ne” necessaria della metafisica delle cifre. La fede filosofica «non è il sapere su ciò che possiedo, ma la certezza (Gewißheit) che mi guida»35.

Pensata in questo modo, la fede filosofica diventa l’atto dell’esistenza filosofi-ca in cui essa – a causa dell’insuccesso di ogni enunciato finito e pensiero conclu-so – diventa consapevole della trascendenza 36 . Il suo contenuto è meta-oggettivo; in quanto oggetto, esso stesso continuamente perisce: «Soggettiva-mente, la fede è il modo in cui l’anima si chiarisce nei confronti del suo essere, della sua fonte e della sua meta. Oggettivamente, la fede si esprime come conte-nuto che, in quanto tale, rimane in se stesso incomprensibile, anzi, scompare nuovamente in quanto soltanto oggettivo»37. Jaspers è del parere che nella fede filosofica la filosofia non abbandona il proprio campo. Anche se notevolmente di-versa dalla religione, anch'essa ha le sue “positività” grazie alle quali è possibile progettare la propria esistenza e, in quanto tale, la fede filosofica può diventare il fondamento, la “sostanza” della vita personale. Nell’intento di salvare il senso del filosofare, essa non si può sottomettere alla “religione rivelata”, né tanto meno abbandonarsi all’“ateismo”. Contrariamente all’ateismo, che porta all’adorazione degli idoli e delle guide e, a differenza della “religione rivelata” che considera la filosofia o come una scienza o come il pensiero senza dio, la fede filosofica «af-ferma la propria ricerca di Dio dalla propria fonte»38.

L’innalzamento è la caratteristica principale di questa fede: «Io non so se cre-dere. Però, mi avvolge una tale fede che mi azzardo a vivere per essa»39. Questa frase illustra in modo del tutto chiaro la sua intenzione. Non ci sono delle certez-ze fisse, non c’è un “sapere sicuro” di nessuno di questi contenuti, è necessario azzardarsi a credere.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                          incondizionato. - Il mondo ha una vita temporanea tra Dio e l’esistenza». Sembra che Wisser si riferisca anche agli altri due «contenuti filosofici della fede» ne L’introduzione alla filosofia, l’«uomo è finito e infinito» e «l’uomo può vivere sotto la guida di Dio». 34 K. Jaspers, Filozofijska autobiografija, Novi Sad 1987, cit., p. 136. 35 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, München 1963, p. 49. 36 Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 22. 37 K. Jaspers, Philosophie II, cit., p. 279. 38 K. Jaspers, Vernunft und Existenz. Fünf Vorlesungen, München 1960, p. 140. 39 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, pp. 38-39.

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Con ciò, Jaspers non pensa affatto di aver introdotto qualcosa di nuovo nella filosofia. Si tratta, infatti, «di ereditare la millenaria filosofia e precisamente in quanto conferma dell’indipendenza della fonte del credere filosofico»40. Gli esempi paradigmatici di Jaspers sono Socrate, Boezio e Giordano Bruno, ciascu-no dei quali «è morto per la verità della propria fede». Loro sono «le persone de-gne di massimo rispetto, martiri che hanno professato la fede filosofica»41. Sono morti per la loro verità, con la quale erano “tutt'uno”; l’hanno confermata esi-stenzialmente nella loro vita. Questa è stata, dunque, la verità “esistenziale” che ha guidato tutto il loro essere.

«Seguendo la tradizione di Platone, Bruno, Spinoza, Kant, Lessing e Goethe vorrei […]

mettere l’accento sulla fonte eterna ed indipendente del mio filosofare, la fede filosofica che si afferma da sola nel pensiero della ragione. Questa fede non è né la teologia confes-sionale né la scienza, ne tanto meno il credere della chiesa né l’assenza della fede»42.

In questo senso, tutta la filosofia si rivela una preparazione, una spinta, men-

tre per la fede filosofica risulta necessaria anche la conferma, la realizzazione nel-la singola esistenza, nella sua storicità concreta. E proprio perché è storica, con-cretamente realizzata in un momento, essa è libera da ogni assolutizzazione e dogmatizzazione, non è possibile definirla universalmente a causa della sua stori-cità. La fede filosofica è libera, storica e sempre in divenire.

Proprio perché è libera, la fede filosofica è profondamente individuale; essa è «soltanto nell’autopensiero – nel pensiero di se stesso – di ciascun individuo»43; è la fede della singola esistenza che cerca il proprio senso lottando contro la man-canza del senso che incontra nel mondo privo di umanità. La fede permette alla singola esistenza di raggiungere la propria pace nella trascendenza, ma non a di-scapito della propria libertà e individualità.

È necessario distinguere la fede filosofica dalla scienza e dalla religione. La scienza, intesa in modo assoluto come visione del mondo, necessariamente indu-ce alla delusione esistenziale. Essa non può concepire e dare il senso alla vita. La scienza è particolare, l’Omnicomprensivo esce dal dominio della sua competenza e perciò essa non può dare il senso che, invece, richiede la totalità. Sembra che all’uomo non rimanga altro che la metafisica. Perciò la trascendenza, vista la sua “apparizione” nella fede filosofica, risulta necessaria all’esistenza come sua pro-pria pensabilità, ma anche come pensabilità dell’intera realtà. Il pensiero si completa con l’impensabile, ma esistenzialmente importante. Dall’altra parte, la                                                                                                                          40 K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 777. 41 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 12. 42 K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 777. 43 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 16.

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religione, che in verità professa una fede che comprende la totalità della vita, spesso assolutizza alcune cifre della trascendenza e genera, con ciò, l’intolleranza nei confronti del diverso. La fede religiosa è vista come «l’atto della misericordia divina», ovvero è la divinità che si rivela, permettendo al singolo di credere, men-tre, in filosofia, la “fede” è “l’atto esistenziale” del singolo uomo, «il rapportarsi attivo con la propria vita». Questa è la sua principale differenza dalla fede rivela-ta. «Colui che filosofa, vive dalla propria fede»44. Per il filosofo, Dio non si rivela, ma rimane nascosto. La fede filosofica non conosce la preghiera, il culto o la co-munità dei credenti; essa rimane pur sempre ciò che riguarda il singolo45.

Il commentatore Sören Holm lo ha espresso in modo seguente: «Mentre la fe-de e la rivelazione possono essere descritte, per così dire, “in giù”, da Dio all’uomo, dal sopranaturale al naturale, la fede, per come è stata concepita da Ja-spers, può essere descritta “in sù”, dall’uomo alla trascendenza»46.

La fede filosofica, a differenza di quella religiosa e “scientifica”, non ha una po-sizione ferma, ma si “innalza” e non insiste sulla fissazione dei propri presup-posti:

«La fede filosofica dev'essere determinata negativamente: essa non può diventare una

confessione. Il suo pensiero non diventa mai un dogma. La fede filosofica non ha una po-sizione ferma di fronte ad un qualcosa che è oggettivamente finito nel mondo; essa usa i propri punti di vista, i concetti e i metodi, senza alcuna sottomissione»47.

E comunque, non si tratta di un qualcosa di riconducibile alla mera sensazione

o all’evidenza diretta, ma di un “qualcosa” che può essere determinato come ciò che «coglie l’essere, tramite la storia ed il pensiero»48. Non si deve, di certo, di-menticare che Jaspers individua nella scienza il retroterra concettuale delle pro-pria filosofia, anche perché egli stesso proviene da un contesto scientifico-medico. La filosofia non è né “ascientifica” né “antiscientifica”, però mette in evi-denza il fatto che la scienza, in quanto un afferrare l’essere in modo parziale, non è in grado di rispondere alla domanda sul senso. La visione del mondo e i valori esistenziali della vita trascendono il dominio dell’esperienza, che è quello della scienza. Entrano nel campo della filosofia e della sua fede, non negando, affatto, la legittimità della scienza in quanto tale.

La fede filosofica rappresenta la risposta filosofica all’essenziale bisogno uma-no di credere. Essa è, già da sempre, presente nei singoli individui pronti a filoso-                                                                                                                          44 K. Jaspers, Vernunft und Existenz, cit., p. 142. 45 Cfr. W. Schüßler, Jaspers zur Einführung, Hamburg 1995, p. 49. 46 S. Holm, Jaspers' Philosophy of Religion, in P. A. Schilpp (a cura di), The Philosophy of Karl Jaspers, pp. 667-692, qui p. 669. 47 Ivi, p. 16. 48 Ibidem.

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fare; è la fede dell’individuo pensante in grado di trasportare l’intera esistenza e vive della consapevolezza della trascendenza in quanto fondamento. Essa è, an-cor di più, l’appello per la realizzazione dell’essere di ciò che già da sempre l’uomo è.

È la fede e non il sapere ciò che dà le significanti risposte esistenziali alle do-mande che si pone il nostro ente. Il sapere è limitato; esso non è mai la totalità e non può offrire delle risposte esistenzialmente significanti. Esso è finito e si muo-ve entro le categorie del finito; è l’insoddisfazione della mera sopravvivenza ciò che ci incita a porci delle domande su ciò che “oltrepassa” la finitezza dell’oggetto conosciuto. Questa è la premessa fondamentale a partire dalla quale Jaspers svi-luppa la sua fede filosofica che si pone come un continuo compito e che emerge di fronte alla minaccia nichilistica, da una parte, e dell’eccessivo razionalismo, dall’altra. La soluzione è, secondo Jaspers, l’accettazione della tradizione filosofi-ca, ovvero il ritorno alle «fonti dell’eterno filosofare, philosophie perennis»49.

Come già ribadito, la fede filosofica è libera e vede se stessa come l’appello alla libertà dell’uomo. Non è possibile, dunque, confessarla. Anzi, essa non vuole af-fatto essere un pensiero confessionale, bensì realizzata nell’autopensiero (Selbst-denken) del singolo. A ciascuno è stata donata la possibilità di autorealizzarsi. La fede filosofica, dunque, ha un carattere universale; è presente in tutti i singoli in-dividui dagli inizi del mondo e dell’uomo. Questo credere è “eterno”, afferma Ja-spers.

Questo è il motivo per il quale, nell’Origine e il senso della storia, Jaspers fa riferimento alle «tre categorie del credere eterno»: la fede in Dio, la fede nell’uomo e la fede nelle possibilità del mondo50.

Anche se non sono i contenuti dottrinali obbligatori, “la fede in Dio”, “la fede nell’uomo” e “la fede nelle possibilità del mondo” possono prendere forma dei «contenuti della fede filosofica» (philosophische Glaubensgehalte). Questi non sono i contenuti che provengono dalla conoscenza, ma sono quelli che “portano” l’esistenza filosoficamente credente. Jaspers ha elaborato i contenuti filosofici della fede nelle seguenti opere: La fede filosofica e L’introduzione alla filosofia. Ne enumera cinque:

1. «Dio è»; 2. «Permane l’appello incondizionato»; 3. «L’uomo è finito e infinito»; 4. «L’uomo può vivere sotto la guida di Dio», e 5. «Il mondo ha una vita temporanea tra Dio e l’esistenza».

                                                                                                                         49 K. Jaspers, Vernunft und Existenz, cit., p. 137. 50 Cfr. Karl Jaspers, Vom Ursprung und Ziel der Geschichte, München 1950, pp. 212-220.

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Da ciò risulta evidente che «i contenuti della fede filosofica» si muovono all’interno della triade filosofica “Dio-uomo-mondo”. Qui non si tratta, però, di quel tipo di metafisica prekantiana che, in alcune delle sue accezioni, aspirava ad una “gnosi” su Dio, uomo e mondo; «i cinque postulati della fede filosofica non possono essere approvati come tesi scientifiche. Non è possibile razionalmente costringere nessuno a credere in essi, né con la filosofia né con la scienza»51.

La speculazione jaspersiana su Dio, uomo e mondo si svolge all’interno della cornice teoretica prestabilita dai due pensatori, fondamentali per la comprensio-ne del suo filosofare, vale a dire Kierkegaard e Kant, anche se Jaspers abbraccia, ciononostante, la millenaria tradizione filosofica. L’influenza kierkegaardiana sui contenuti della fede filosofica è visibile dalla ripresa jaspersiana del principale postulato kierkegaardiano, incentrato sul singolo che esiste di fronte a Dio. Allo stesso tempo, Jaspers rispetta anche la restrizione kantiana del sapere su ciò che è trascendente. Nella fede filosofica, dunque, “Dio” non è l’oggetto del sapere, ma del “non-sapere sapido”. Jaspers è molto chiaro su questo punto: «Non c’è alcun sapere su Dio e sull’esistenza. C’è soltanto la fede»52. Non è, certamente, meno significante nemmeno lo scritto kantiano La religione entro i limiti della sola ra-gione53 in cui egli ha cercato di rielaborare, in modo razionale, la rivelazione, alla quale si richiama, a sua volta, la religione. La fede rivelata diventa qui la fede ra-zionale. Tra l’altro, nell’antologia di Schilpp, lo stesso Jaspers afferma che la fede filosofica, nonostante l’indipendenza della sua fonte, trae una parte dei propri contenuti dalla fede che è raggiungibile «entro i limiti della sola ragione», però quel tipo di fede che comunque sta «in una polarità necessaria e voluta con la fe-de specificatamente religiosa»54.

Tuttavia, accanto a Kierkegaard e Kant, la fonte essenziale per l’articolazione dei contenuti della fede filosofica per Jaspers è stata la Bibbia, interpretata, come già più volte ribadito, in maniera non affine alla dottrina cristiana. Jaspers rico-nosce il ruolo fondante della Bibbia per la cultura occidentale fino ai giorni no-stri. «I contenuti filosofici del filosofare occidentale hanno la loro fonte storica […] anche nel pensiero biblico. Chi non può credere in alcuna rivelazione, può comunque accettare la fonte biblica; può permettere, anche senza la rivelazione, di essere pervaso dalla sua verità in quanto – uomo»55. Jaspers parla anche delle «caratteristiche fondamentali della religione biblica» di cui egli si appropria per la sua fede filosofica: “un solo Dio”, “la trascendenza di Dio creatore”, “l’incontro

                                                                                                                         51 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 91. 52 Ivi, p. 81. 53 Cfr. I. Kant, Religija unutar granica pukog uma, Zagreb 2012. 54 K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 756. 55 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 39.

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dell’uomo con Dio”, “i comandamenti”, “la coscienza storica”, “la sofferenza” e «l’apertura all’irrisolutezza»56.

5. “È sufficiente che Dio sia” – la cifra “Dio” e il suo significato per la fede filosofica Nella sua Introduzione alla filosofia, Jaspers espone una tesi coraggiosa sulla

necessità, non soltanto di domandare, ma anche di rispondere alla questione se Dio è: «Sembra che i filosofi del nostro tempo evitino volentieri la domanda sull’esistenza di Dio. Né affermano il suo essere, né lo negano. Tuttavia, chi filo-sofa, deve trovare il fondamento di se stesso»57. La sua risposta è chiaramente positiva, visto il primato e l’essenzialità del postulato “Dio è” (Gott ist)58 per la fede filosofica. Che Dio è, Jaspers non dubita. Per la fede filosofica vale che «sol-tanto colui che parte da Dio, può ricercarlo»59. Il commentatore Sören Holm giu-stamente nota che Dio è, in un certo senso, un “a priori” della fede filosofica: «Dietro il nostro filosofare e in quanto il suo fondamento, c’è sempre l’ovvietà dell’esistenza di Dio, nonostante la sua velatezza. […] Che Dio è, dev'essere una condizione posta dall’inizio»60. In questo senso, a Jaspers risulta estranea qual-siasi forma di ateismo. Per lui vale: «Che cosa c’è, se Dio non è?»61. In quasi tut-ti i suoi scritti maturi62, Jaspers mette in evidenza «l’ovvietà che Dio è». Che “Dio è”, afferma Jan Milič Lochman, studente di Jaspers a Basilea, non è un aforisma isolato, ma rappresenta il «cantus firmus nella polifonia del pensiero jaspersia-no»63. Ciò risulta molto evidente nelle opere in cui si esplicita la “fede filosofica” (La fede filosofica, Introduzione alla filosofia e La fede filosofica di fronte alla rivelazione). Jaspers arriva anche ad affermare la necessità della fede in Dio: «Il pensiero su Dio è necessario affinché l’uomo possa arrivare a se stesso, affinché possa diventare libero dal mondo»64. In questa cifra fondamentale, l’esistenza

                                                                                                                         56 Cfr. ivi, pp. 39-41. 57 Ivi, p. 40. 58 Ivi, p. 33. 59 Ivi, p. 35. 60 S. Holm, Jaspers' Philosophy of Religion, cit., p. 676. 61 K. Jaspers, Chiffren der Transzendenz, München 1977, p. 37. 62 Cfr. per es., le opere di Jaspers: Der philosophische Glaube, cit., pp. 33, 129; Der philosophi-sche Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 360; Von der Wahrheit, cit., pp. 897-898; Einführung in die Philosophie, cit., pp. 38-39; Chiffren der Transzendenz, cit., p. 37. 63 J. M. Lohman, Transzendenz und Gottesname. Freiheit in der Perspektive der Philosophie von Karl Jaspers und in biblischer Sicht, in Jeanne Hirsch e altri (a cura di), Karl Jaspers. Philosoph, Artzt, politischer Denker. Symposium zum 100. Geburtstag in Basel und Heidelberg, München 1986, pp. 11-30, qui p. 11. 64 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 1053.

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“giace”. Il diventare se stesso dell’uomo dipende da come egli pensa la cifra “Dio”65.

Infatti, egli vede «la certezza dell’esistenza di Dio» non soltanto come un pre-supposto, ma come un compito permanente del filosofare (die bleibende aufgabe des Philosophierens). Nello scritto La fede filosofica egli afferma: «Il compito permanente del filosofare […] è diventare se stessi in modo da avere chiara l’evidenza di Dio»66. Perché, però, «il compito permanente» della fede filosofica dovrebbe essere «la ricerca della risposta sulla questione “Dio”? Perché essa insi-ste soprattutto sulla continuità della ricerca umana di se stessi. Ciononostante, in questa ricerca l’uomo non si basta. La sua esperienza autentica è proprio quella di notare, nei momenti e nelle situazioni in cui si egli trova da solo, che in quanto tale si trova a se stesso “donato” da ciò che egli non è. In questo senso, si può dire che il “pensiero su Dio (Gottesgedanke) risulta necessario affinché l’uomo possa giungere a se stesso, affinché possa liberarsi dal mondo»67. Secondo la nostra opinione, è precisamente qui che bisogna cercare il nucleo del discorso jaspersia-no su Dio68. È ovvio che uno dei nomi della trascendenza è “Dio”; si tratta, però, della cifra direttamente riferita a ciò che pur sempre rimane trascendente69: «Donato a se stesso, non sapendo da dove, l’uomo sente il bisogno della trascen-denza in quanto persona, trovando, per essa, la cifra: “Dio”»70. La cifra “Dio”, nelle sue diverse varietà, si è sempre riferita, in modo esplicito, alla realtà della trascendenza: «Per l’esistenza, consapevole di non essere stata la propria causa, è necessario pensare Dio in quanto trascendenza anche senza l’uomo; bisogna, dunque, pensare in negativo ciò che non trova, nel positivo, alcun compimen-to» 71 . “Dio come trascendenza” diventa così la “forma inevitabile” del-l’apparizione dell’essere assoluto, trascendente e nascosto, ma nello stesso tem-po, anche la fonte della libertà umana. “Dio” è, in quanto cifra, sia il nome mitico per la realtà della trascendenza72 sia il “nome” per la trascendenza in quanto per-sona, quando abbiamo bisogno, dunque, di incontrarla in forma di persona73: «La trascendenza che sovrasta il mondo o che viene prima del mondo si chiama

                                                                                                                         65 Cfr. le opere jaspersiane, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 248; Der philosophsiche Glaube, cit., p. 146. 66 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 144. 67 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 1053. 68 In questo senso anche Ricoeur – anche se consapevole del fatto che Jaspers esplicitamente ri-fiuta la religione rivelata – afferma che la metafisica delle cifre “è una filosofia religiosa di Ja-spers”. P. Ricoeur, The Relation of Jaspers' Philosophy to Religion, cit., p. 619. 69 Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 212. 70 Ibidem. 71 K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 164. 72 Cfr. K. Jaspers, Philosophie II, cit., p. 1. 73 Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 111.

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Dio»74. Questo aspetto del pensiero jaspersiano è stato esplicitato da molti com-mentatori rilevanti. Tra i primi che se ne sono occupati è stato Helmuth Pfeiffer nel suo lavoro L’esperienza di Dio e la fede (Gotteserfahrung und Glaube) dove esplicita «che nel dopoguerra, Jaspers tende ad utilizzare il nome Dio per la tra-scendenza»75; anche l’allieva di Jaspers, Jeanne Hirsch afferma che «Jaspers di volta in volta (e più spesso nei lavori maturi) chiama la trascendenza Dio»76. Tra gli studiosi più giovani, vanno indicate le monografie di Kurt Salamun77 e Werner Schüßler78. Secondo la nostra opinione, comunque, questa “svolta” è stata esplici-tata al meglio da Frederic Copleston il quale afferma che «nella più tarda filosofia di Jaspers possiamo vedere la svolta versa una posizione teistica più chiara»79.

Tuttavia, qui mancano le accezioni religiose di “Dio”: «La fede rivelata sa che cosa ha fatto Dio quando si è rivelato per la salvezza dell’uomo; quando ha agito nel mondo, legandosi al tempo e allo spazio»80, a differenza della «fede filosofica che non possiede un sapere su Dio, ma ascolta il linguaggio cifrato. Dio stesso è una cifra»81. “Dio” della fede filosofica non è un Dio rivelato, in alcuni momenti e in alcune religioni visto anche come legislatore e giudice; Jaspers non vuole affat-to vedere in esso un ente sul quale fondare una conoscenza compiuta né tanto-meno un qualcosa da oggettivizzare e da sottoporre ai giudizi in generale82. In quanto cifra, “Dio” è sempre un deus absconditus83.

La tematizzazione jaspersiana di Dio è al di là di ogni sapere su Dio. Egli rifiuta qualsiasi discorso su Dio che si renderebbe approvabile tramite il pensiero filoso-fico. Questo è il punto dal quale Jaspers, in quanto seguace di Kant, parte. Le prove, in quanto giudizi obbliganti, trasformano Dio in “un mero oggetto” di na-tura empirica e, così facendo, fissano la realtà della trascendenza, annullandola                                                                                                                          74 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 33. 75 H. Pfeiffer, Gotteserfahrung und Glaube. Interpretation und theologische Aneignung der Phi-losophie Karl Jaspers', Trier 1975, p. 132. 76 J. Hirsch, Karl Jaspers. Eine Einführung in sein Werk, München 1980, p. 36. 77 Cfr. K. Salamun, Karl Jaspers, München 1985, pp. 139-146. 78 Cfr. W. Schüßler, Jaspers zur Einführung, cit., pp. 83-84; 85-99. 79 F. Copleston, Contemporary Philosophy. Studies of Logical Positivism and Existentialism, London 1956, p. 164. Anche se qui, certamente, non si può parlare di un teismo teologico o cri-stiano. 80 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 196. 81 Ibidem. 82 Cfr. J. N. Hartt, God, Transcendence and Freedom in the Philosophy of Karl Jaspers, in «The Review of Metaphysics», 4 (1950), pp. 247-258, qui p. 252. 83 È interessante notare la critica di Leszek Kolakowski all’utilizzo jaspersiano della nozione deus absconditus, visto che nel suo contesto originario e biblico essa assume una connotazione diversa. All’idea jaspersiana della trascendenza, nemmeno «l’espressione biblica “deus absconditus” risul-ta adeguata, afferma Kolakowski, dal momento in cui il nascondimento del Dio cristiano non sva-luta né la rivelazione né l’approccio mistico» (L. Kolakowski, Der philosophische Glaube angesi-chts der Offenbarung, in J. Hersch e altri (a cura di), Karl Jaspers. Philosoph, Artzt, politischer Denker. Symposium zum 100. Geburstag in Basel und Heidelberg, cit., pp. 31-46, qui p. 36.

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del tutto. Dio non è mai uguale agli “oggetti” che indagano le scienze, proprio perché sovrasta l’empiria in quanto tale. Risulta impossibile conoscerlo nel mon-do. Su ciò che è trascendente non ci possono essere delle conclusioni e delle “pro-ve” sicure e obbliganti. Però, anche se le “prove” – come tra l’altro aveva già di-mostrato Kant – nella loro accezione obbligante risultano poco convincenti, ciò non vuol dire affatto che la trascendenza sia una bugia. La confutazione di tutte le prove dell’esistenza di Dio non significa che Dio non ci sia. Una deduzione di questo tipo sarebbe falsa, visto che «così come non si può dare la prova dell’esistenza di Dio, non si può dare una prova nemmeno della sua non esisten-za. Le prove e le loro confutazioni dimostrano un sola cosa: “Dio di cui si è data la prova non è Dio, ma soltanto una cosa nel mondo»84.

Che cosa significa, allora, la definizione jaspersiana di Dio in quanto “cifra”? Prima di tutto, ciò significa, per Jaspers, che nessuna istituzione nel mondo può pretendere di avere il primato sull’argomento “Dio”; ovvero, ogni singolo indivi-duo ha la strada libera verso Dio, senza alcun intermediario. Giorgio Penzo lo ha espresso in modo alquanto sintetico: «Che Dio sia cifra significa che non è sotto-messo al potere dell’uomo, anche se può essere svelato soltanto all’uomo in quan-to singolo. Non è possibile comandare la cifra, ma soltanto lasciarsi prendere da essa»85. Secondo Jaspers, la fede filosofica è la via giusta verso Dio. In questo senso va compresa la tesi esposta da Jaspers ne L’introduzione alla filosofia; la tesi, dunque, incentrata sul «pensiero intorno a Dio in quanto chiarificazione del-la fede»86, non religiosa, ma filosofica che si muove nelle cifre.

* * *

Come si inserisce l’argomento “Dio” nella metafisica e nella fede filosofica? In-

nanzitutto e prima di tutto, grazie all’esperienza del fallimento! Il fallimento, in quanto “cifra ultima”, con la quale si conclude la “Metafisica” jaspersiana e inco-mincia la fede filosofica diventa il luogo in cui è possibile “esperire” la realtà di Dio. Questo è anche l’insegnamento che ci dà l’esperienza biblica del popolo ebraico (specialmente il profeta Geremia), assieme alle altre istituzioni del pen-siero filosofico. In queste situazioni limite, in cui facciamo esperienza del naufra-gio, del fallimento, dello scacco possiamo provare l’ovvietà di ciò che “Dio è”. Ne L’introduzione alla filosofia, Jaspers scrive:

                                                                                                                         84 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 35. 85 G. Penzo, The Adventure of the Ciphers. Jaspers and Christian Thought, in R. Wisser – L. H. Ehrlich (a cura di), Karl Jaspers Philosophie. Gegenwärtigkeit und Zukunft/Karl Jaspers Philo-sophy. Rooted in the Present, Paradigm for the Future, Würzburg 2003, pp. 165-171, qui p. 167. 86 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 49.

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«In una situazione di questo tipo, le seguenti parole hanno un solo significato: che

Dio è, è sufficiente. Se ci sia 'l’immortalità', ciò non si chiede più; questa domanda non sta più in primo piano. Non si parte più dall’uomo, la sua testardaggine è spenta ormai, e anche la sua preoccupazione inerente alla beatitudine e all’eternità. Però, nello stesso modo, si è arrivati alla conclusione che è impossibile avere un senso della totalità del mondo, un senso ancora da perfezionare e in grado di mantenersi, in qualsivoglia forma. E ciò perché Dio ha creato il tutto dal niente e tutto è nelle sue mani. Nella perdita del tutto, rimane soltanto: Dio è»87.

“Dio è” rimane, dunque, la tesi essenziale di cui l’uomo può avere certezza. In

ciò che è contingente, corruttibile e distruttibile si fa l’esperienza di ciò che è eterno e indistruttibile di per sé. F. Copleston lo commenta nel seguente modo:

«Ogni catastrofe e ogni decadenza storica può, per la fede (filosofica), diventare un

segno o un indicatore di Dio. Il fallimento degli ideali umani e delle sue speranze svela la finitezza, la contingenza e la natura transitoria di tutti gli oggetti; il fallimento diventa così il segno della fede basata sul fatto che, anche se tutto dovesse scomparire, Dio ri-marrebbe»88.

Il fallimento indica «la coscienza abbracciante di Dio»89. Kantianamente par-

lando, laddove è paralizzata ogni possibilità del sapere, si apre lo spazio per la fe-de. “La coscienza abbracciante di Dio” e non il “sapere” è esperibile col trascende-re, ovvero con l’uscita dalla realtà grazie a questa stessa Realtà. Nel momento in cui diventiamo indipendenti dalla realtà del mondo e, dunque, liberi, ci si mostra la “realtà vera”, compresa nell’espressione “Dio è”.

* * *

La fede in Dio, che risulta accettabile al singolo individuo filosofante, è soltan-

to quella che è, in modo più intimo, legata alla possibilità dell’umana libertà. «L’ovvietà della libertà include in se l’ovvietà dell’essere di Dio»90. Jaspers te-matizza il legame 'libertà – Dio' in molti dei suoi scritti91. Il commentatore Julian Hartt non erra quando dice: «Su questo Jaspers insiste: Dio si svela come fonte e come meta della nostra libertà»92.                                                                                                                          87 Ivi, p. 38. 88 F. Copleston, Contemporary Philosophy. Studies of Logical Positivism and Existentialism, cit., p. 164. 89 Cfr. K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 45. 90 Ivi, p. 44. 91 Cfr. le opere jaspersiane: Einführung in die Philosophie, cit., pp. 44-50; Von der Wahrheit, cit., pp. 216-217; Chiffren der Transzendenz, cit., p. 48. 92 J. N. Hartt, God, Transcendence and Freedom in the Philosophy of Karl Jaspers, cit., p. 254.

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La sola libertà si esperisce soltanto in quanto “donata da Dio” e qui diventa chiaro che “Dio” è il nome per la trascendenza:

«A colui che è veramente consapevole della propria libertà, anche Dio, nello stesso

momento, gli si rende ovvio. La libertà e Dio sono inseparabili. Perché? Io so di certo: nella mia libertà, non sono libero grazie a me stesso, ma sono donato, in essa, a me stes-so; io mi posso anche eliminare, ma non posso farlo con la mia libertà. Laddove io sono veramente me stesso, so di essere stato, a me stesso, donato. Laddove io sono veramente me stesso, so che non lo sono per me stesso. La libertà più grande sa che essere liberi ri-spetto al mondo significa essere profondamente legati alla trascendenza. Dio è per me evidente assieme alla determinazione nella quale esisto. Egli mi è evidente, non in quan-to il contenuto del sapere, bensì in quanto la presenza per l’esistenza»93.

In modo simile Jaspers si esprime anche nell’opera Sulla verità: «Egli

(l’uomo) ha soltanto una fonte nella quale testimonia se stesso nella sua libertà. Questa fonte è la divinità. Soltanto in essa c’è la sorgente (Quelle) della sua liber-tà, soltanto da essa proviene la sua sincerità e la sua intima verità; il suo amore più profondo e la sua conquista più alta»94. La cifra “Dio” indica la trascendenza in quanto «il fondamento della mia libertà»95. In questo senso, secondo la nostra opinione, va compresa la, spesso citata, tesi jaspersiana: «La libertà e Dio sono insperabili»96.

A che cosa si riferisce la libertà nel pensiero di Jaspers? La libertà è pensata come il signum dell’esistenza97: «Il libero essere dell’uomo

chiamiamo anche la sua esistenza»98. La nostra esistenza si chiarisce in quanto libertà. Noi possiamo formare la nostra vita grazie a questa libertà, scegliendo tra le diverse possibilità e, allo stesso tempo, non essere schiavi né del mondo né dell’esistenza. Egli non è automaticamente sottomesso alla legge naturale come lo sono gli animali, «la vita privata dell’esistenza»99. Si tratta della libertà che è pos-sibile provare «nell’attività nella quale l’uomo diventa 'libero' dalle circostanze che lo determinano: egli agisce grazie a ciò che supera la determinazione delle si-tuazioni particolari»100. «La più alta libertà sa che essere liberi rispetto al mondo significa essere legati alla trascendenza in modo più profondo»101. La libertà, an-che se non è un oggetto sottoponibile alla verifica, è ciò che, in noi, è presente in                                                                                                                          93 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43-44. 94 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., pp. 216-217. 95 K. Jaspers, Chiffren der Transzendenz, cit., p. 50. 96 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43. 97 Cfr. K. Jaspers, Philosophie II, cit., p. 176. 98 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43, 99 Cfr. K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 76. 100 E. B. Koeneker, God and the Ambiguities of Freedom in the Thought of Karl Jaspers, in «Pro-ceedings of the American Catholic Philosophical Asociation», n. 50 (1976), pp. 90-98; qui p. 93. 101 K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 43.

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quanto «un’inevitabile possibilità»102. Soltanto in quanto libero e proprio in quanto me stesso, io veramente posso scegliere – la libertà è la possibilità di sce-gliere. Per Jaspers, «Dio agisce tramite le libere decisioni del singolo ed è possibi-le scoprirlo in ogni processo in cui divento consapevole della mia personale liber-tà»103.

Inoltre, ciò significa che nella libertà ci si pongono anche delle condizioni: non possiamo seriamente negare il fatto che ci risulta sempre possibile la decisione in quanto tale e che, con ciò, decidiamo anche di noi stessi, essendo responsabili104. E quando la nostra libertà è al suo culmine, quando agiamo non a causa di un condizionamento esterno o di una necessità, diventiamo consapevoli della nostra libertà come dono della trascendenza. Nella libertà, di certo, Dio non si prova, però diventa possibile che Egli è. Nella presenza dell’esistenza in quanto libertà, l’unica evidenza certa è Dio: «Dio è, per me, in quanto nella libertà veramente di-vento me stesso»105. Questa è una delle differenze più evidenti tra Jaspers e l’esistenzialismo francese (specialmente quello sartriano) il quale – quando tratta della libertà – mette in risalto una componente significante della propria posi-zione; vale a dire, il suo ateismo. A questo punto, correttamente conclude Werner Schüßler quando dice che «la libertà delle persone – l’argomento, dunque, del quale si serve l’esistenzialismo sartriano per negare la possibilità dell’esistenza di Dio – per Jaspers è stata veramente la testimonianza intensa che Dio è»106.

6. La fede filosofica e la religione È ovvio che i contenuti della metafisica jaspersiana e della sua fede filosofica

combacino, in parte, con i contenuti della religione e della teologia107. Ciò ha in-dotto alcuni commentatori, come per es. Golo Mann, ad affermare che «la fede filosofica è sostanzialmente – se non formalmente e dogmaticamente – la fede cristiana» 108 . Alcuni, però, come Wilhelm Weischedel, hanno parlato

                                                                                                                         102 Ivi, p. 62. 103 E. B. Koeneker, God and the Ambiguities of Freedom in the Thought of Karl Jaspers, cit., p. 93. 104 Cfr. K. Jaspers, Einführung in die Philosophie, cit., p. 63. 105 Ivi, p. 44. 106 W. Schüßler, Jaspers zur Einführung, cit., p. 84. 107 Lo afferma Jaspers stesso nella sua Autobiografia filosofica: «Dopo un corso sulla metafisica (1927-1928) mi si è avvicinato un prete cattolico per ringraziarmi in quanto ascoltatore e per esprimere il suo consenso con ciò che dicevo: “Avrei soltanto una cosa da ridire – la maggior par-te di ciò di cui Lei ha parlato, secondo noi fa parte della teologia”. Queste parole, dette da un uo-mo giovane, intelligente e convincente, mi hanno sorpreso. Era ovvio: io parlo di cose che gli altri considerano appartenenti alla teologia, ma parlo di esse non come teologo, bensì come filosofo» (K. Jaspers, Filozofijska autobiografija, cit., p. 130). 108 G. Mann, Freedom and the Social Sciences in Jaspers' Thought, in P. A. Schlipp (a cura di), The Philosophy of Karl Jaspers, cit., pp. 551-564, qui p. 563.

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«dell’orientamento teologico del concetto della fede filosofica»109, mentre alcuni, come Jörg Salaquarda vanno così lontano da parlare della fede filosofica in ter-mini di «un’esplicita teologia filosofica»110, o ancor di più, come Johannes Ries di una «teologia filosoficamente tradotta» (philosophische übersetzte Theologie)111.

Tuttavia, secondo il nostro punto di vista, queste sono interpretazioni sbaglia-te. Lo stesso Jaspers ha sempre cercato di mettere in evidenza il fatto che si par-lava di un qualcosa che, certamente, appartiene alla tradizione del pensiero filo-sofico, ma con la consapevolezza che il suo «pensiero su Dio è originariamente fi-losofico»112. A noi sembra che bisogna concordare con Paul Ricoeur e con la sua affermazione «che Karl Jaspers […] è uno dei rari filosofi che cercano di mante-nere la posizione difficile tra le religioni positive, il loro credo e le strutture con-fessionali e l’umanismo ateo derivato da Auguste Comte, Karl Marx o Nie-tzsche»113. Per Jaspers, la religione non ha il monopolio sull’argomento “Dio”, mentre la fede filosofica «apre gli spazi aperti nei quali Dio può parlare»114. In questo senso e sempre secondo la nostra opinione, la fede filosofica si può legge-re anche come una critica alla religione.

Come già esplicitato, la fede filosofica è “un innalzamento”, in cui si esperisce la certezza del Fondamento, nell’ignorantia e con il coraggio, come certezza dell’esistere, mentre la fede rivelata, secondo Jaspers, concepisce la rivelazione di Dio come compiuta; essa, in alcuni casi, pretende di possedere una gnosi su ciò che è la “volontà di Dio”. Contrariamente ad una tale concezione, Jaspers dichia-ra: «non c’è la Realtà diretta di Dio nel mondo, ovvero non c’è Dio che nel mondo parlerebbe tramite le autorità rappresentative, come riti, parole e sacramenti e al quale dovremmo sottometterci, sottomettendoci a tali autorità»115. Certamente, ciò non significa affatto che Dio non ci sia. Per la fede filosofica, Dio è nascosto e non si rivela mai. Il suo nascondimento è necessario, perché Egli ci ha «creati per la libertà e per la mente grazie alle quali noi accettiamo ciò che siamo»116. Se Dio non fosse nascosto – afferma Jaspers richiamandosi a Kant – e se «fosse possibi-le che appaia in tutto il suo splendore, diventeremmo dei manichini obbedienti e

                                                                                                                         109 W. Weischedel, Der Gott der Philosophen. Grundlegung einer Philosophischen Theologie im Zeitalter des Nihilismus, Darmstadt 1961, tomo II, p. 127. 110 J. Salaquarda, Einleitung, in Id. (a cura di) Philosophische Theologie im Schatten des Nihili-smus, Berlin 1971, p. 3. 111 J. Ries, Philosophische Glaube? (I), in «Die neue Ordnung», n. 6 (1952), pp. 396-402, qui p. 401. 112 K. Jaspers, Chiffren der Transzendenz, cit., p. 42. 113 P. Ricoeur, The Relation of Jaspers' Philosophy of Religion, cit., p. 611. 114 K. Jaspers, Von der Wahrheit, cit., p. 187. 115 K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, cit., p. 481. 116 Ibidem.

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smetteremmo di essere liberi, contrariamente, invece, a come Dio ci voleva»117. Di conseguenza, la lotta tra la fede filosofica e la fede rivelata è la “lotta” tra il Dio nascosto e il Dio rivelato.

«Dio che si mostra nella realtà della rivelazione, di fronte a Dio nascosto, per noi non

può essere un Dio. Qui non si tratta affatto di negare Dio (Gottesleugnung) o di andare contro la fede in Dio, ma di Dio nascosto contro quello rivelato. Questa è la coscienza fi-losofica sulla Realtà (Wirklicheit) della trascendenza contro la realtà (Realität) della ri-velazione»118.

La filosofia, dunque, non può accettare, in modo unilaterale, né la religione né

la sua teologia a causa del loro legame con la rivelazione. In questo legame Ja-spers vede, giustamente o non, la pietrificazione di una visione storica della pre-senza di ciò che è trascendente. La rivelazione fissa un momento della presenza trascendente nella storia, immanentizzandolo e facendolo diventare universal-mente valido, comune a tutti. Si perde la libertà del singolo esistente. Dunque, secondo Jaspers, qualsiasi pretesa alla rivelazione universalmente valida è da sot-toporre alla critica di ogni singola esistenza119. Dall’altra parte, invece, laddove è rimasta presente la coscienza storica, laddove non ci sono le “fissazioni” estreme della trascendenza per via di una rivelazione che esclude le altre possibilità, la fi-losofia si avvicina di nuovo alla religione. Per la filosofia dell’esistenza, la rivela-zione deve diventare soltanto un’altra cifra. Perciò, l’annullamento della “rivela-zione fissata” è una richiesta permanente che si fa alla religione, visto che alla fi-losofia risulta inaccessibile il concetto della rivelazione filosoficamente mediata. Jaspers non trova, nella storia, una rivelazione universalmente valida per tutti.

Contrariamente alla fede rivelata, Dio si avvicina al singolo individuo in modo particolare secondo Jaspers e senza la rivelazione che si potrebbe fissare in un annuncio finito e auto-rivelante della trascendenza. Jaspers propone, perciò, un’altra concezione della religione: la rivelazione non è un rivolgersi concluso di Dio all’uomo, l’annuncio, dunque, diretto della trascendenza, ma è una di tante cifre storicamente valide. Il Dio personale della religione, il Dio dunque che si ri-vela come persona, per la filosofia dell’esistenza è una cifra e, se viene concepita come un qualcosa di più di questo, rischia di diventare la fonte dell’intolleranza. Quando rinuncia alla “fissazione della rivelazione” e all’esclusività da ciò prove-niente, la religione diventa, allora, per la filosofia, «la verità che si rivolge ad essa, anche senza l’universalità»120.

                                                                                                                         117 Ibidem. 118 Ibidem. 119 Cfr. ivi, pp. 479-481. 120 K. Jaspers, Philosophie III, cit., p. 26.

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Filosofia ha, dunque, un rapporto duplice con la religione – la accetta in quan-to fonte delle “cifre” e della ricchezza dell’“oggettività metafisica”, la religione tie-ne la filosofia costantemente in una specie di “tensione”, ma non esita di rifiutar-la nel momento in cui si cerca di “fissare” l’universalità di alcune cifre storiche. In questo passaggio va vista la critica jaspersiana alla religione. La filosofia e la reli-gione hanno un qualcosa in comune: esse rimandano a “ciò” che è al di là di loro – alla trascendenza, dunque, ma la filosofia, a causa della sua natura e del suo presupposto fondamentale, vale a dire, della libertà, deve fare resistenza alla reli-gione nel suo intento di assolutizzarsi e di innalzarsi al di sopra di tutte le altre forme dell’approccio alla realtà trascendente.

La religione, di certo, contrasta l’interpretazione che le toglie il valore assoluto. Essa interpreta diversamente la verità della trascendenza. Qui incomincia la lotta dei campi d'argomentazione, pretendenti di aver il diritto su ciò che intendiamo metafisico. Paradossalmente, Jaspers pensa che la lotta, in quanto modello di rapporto, sia necessaria, visto che il suo venir meno porterebbe ad una nuova fis-sazione di alcune forme storicamente determinate. Perciò, anche se questo rap-porto risulta necessario, la lotta tra il pensiero filosofico e quello religioso non è mai una lotta tra due nemici; la religione rimane ciò che «riguarda [la filosofia] e non le permette di colmarsi»121. La loro lotta è sempre una “lotta nell’amore”. La filosofia deve dialogare con la religione e non può definirla falsa, almeno finché la religione rimane fedele alle sue origini, ovvero quando la filosofia si viene a tro-vare di fronte a ciò che nella religione risulta incompreso e incomprensibile, ma, allo stesso tempo, di fondamentale importanza. Ed è proprio questo «incompren-sibile, ma di fondamentale importanza» il terreno in comune della fede filosofica e della fede rivelata – ciò per il quale ciascuna esistenza giunge a se stessa. La fede filosofica e la religione sono alleate contro le forze intenzionate a ridurre l’uomo alla mera immanenza; sono «alleate nella lotta contro le forze devastanti e distruttive, contro le rappresentazioni razionalistiche e nichilistiche»122 e ciò perché entrambe sono consapevoli che l’uomo può diventare se stesso soltanto in rapporto con la trascendenza. Permane sempre la possibilità della comu-nicazione.

7. Conclusione: in che modo comprendere la metafisica di Jaspers? Anche se, in Jaspers, non si può affatto parlare di una metafisica tradizionale,

la sua filosofia è comunque metafisicamente alquanto determinata. Si tratta di una metafisica esistenziale; i suoi metodi non sono un qualcosa da “imparare” o ereditare come, per es. quelli della fenomenologia. Tuttavia, la filosofia jaspersia-                                                                                                                          121 K. Jaspers, Der philosophische Glaube, cit., p. 71. 122 K. Jaspers, Reply to my Critics, cit., p. 778.

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na, nel suo insieme e secondo la nostra opinione, non è riconducibile soltanto a ciò che di essa si oppone alla metafisica tradizionale (come, invece, pensa Danilo Pejović123), ma dev'essere concepita come un intento di salvare la metafisica, un intento che accetta il criticismo kantiano e, ancor di più, in esso vede il proprio fondamento. Una “metafisica della conoscenza” dopo Kant non è più possibile. Al posto di essa, Jaspers ha offerto una “metafisica esistenziale della fede”. Al posto del sapere (che non è possibile) arriva, così, l’esperienza personale, ovvero – co-me lo chiama Jaspers – l’immersione speculativa nelle cifre, nelle quali “brilla” la trascendenza. L’elemento razionale cade nel secondo piano e indica il non-pensabile, dunque l’irrazionale. L’irrazionalità è il campo dello svelamento della trascendenza all’esistenza. Tuttavia, nemmeno in quel momento risulta possibile esprimerci su di essa in modo compiuto, a causa del suo immediato nascondi-mento.

La metafisica deve essere salvata, vista la sua importanza per la vita dell’uomo, e non abolita. In questo contesto Jaspers legge e comprende Kant. La metafisica jaspersiana, nonostante la sua continua ricerca, non arriva mai ad un sapere cer-to e sicuro sul proprio “oggetto”. Nessun metodo, infine, induce al sapere defini-tivo sulla trascendenza. Non è possibile determinare la plurisignificatività delle cifre in modo univoco. Nessuna cifra ammette degli enunciati obbliganti. Ciò che rimane è “l’immersione speculativa” e soggettiva nella lettura cifrata, la quale, in quanto tale, non è comunicabile all’altro e non è mantenibile come sistema. Non è possibile determinare le modalità generali dell’applicazione del suo metodo. Dopo Kant, ciò non è più possibile. La filosofia non deve limitarsi alla pretesa di essere una scienza, il suo campo è molto più vasto, dal momento in cui – e qui diamo a Jaspers la nostra assoluta approvazione – le domande fondamentali dell’uomo non si possono appiattire a ciò che offrono le conclusioni scientifiche. Tuttavia, la metafisica è, afferma Jaspers, necessaria a ciascun uomo, ma soltanto in forma della fede filosofica. La filosofia diventa così il “compito” di ciascun in-dividuo, scontento del mondo degli oggetti e intenzionato a riconoscerci la pre-senza della cifra. Non è possibile edificare un sistema, è possibile soltanto partire per la propria strada del filosofare. In Jaspers, a quanto pare, la metafisica diven-ta una personale confessione filosofica. Secondo noi qui emerge l’importanza del postulato più significativo del suo pensiero: la metafisica non cerca affatto di di-ventare un sistema compiuto; Jaspers non intende convincerci nelle validità delle sue tesi, la sua filosofia è un invito a vivere la fede filosofica, un invito alla ricer-ca della propria strada. Essa diventa, così, la realtà in grado di dare la forma alla                                                                                                                          123 D. Pejović, Suvremena filozofija Zapada, Zagreb 1999, p. 122. «Dal punto di vista rigorosa-mente filosofico, occorre dire che il suo pensiero, nel suo insieme, è un rifiuto categorico e l’opposizione netta alla metafisica tradizionale».

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nostra vita. La filosofia assume, dunque, in Jaspers, il ruolo che prima ha avuto la religione. Secondo la nostra opinione, questo è il senso della sua metafisica, specialmente della fede filosofica. La filosofia nasce dall’intento di “salvare lo spi-rito”. La domanda su quanto Jaspers effettivamente ci riesca diventa, per così di-re, ridicola, avendo già chiarito che la cifra dell’insuccesso «rimane l’ultima istanza possibile».

Ciò non significa, affatto, che dobbiamo smettere di cercare le vie filosofiche verso la realtà trascendente, anche se costantemente testimoniamo il loro falli-mento. Proprio grazie all’impossibilità di una conoscenza compiuta nasce la possibilità della libertà. La metafisica (assieme alla fede filosofica) rimane nell’incertezza essendo l’oltrepassamento dell’oggettività molteplice nel pensiero oggettivante verso ciò che è radicalmente non oggettivato e, in quanto tale, è un appello alla libertà.

L’insuccesso diventa, così, “un salto verso la libertà” nella quale Dio ci si mo-stra in quanto cifra fondamentale senza la quale l’esistenza non si dà. Pensato in questi termini, l’insuccesso implica, dunque, il rifiuto dell’unilateralità di quel-le concezioni metafisiche e teologiche che si sono “pietrificate”, dal teismo (inteso nel senso stretto, la fede in un Dio personale), passando per il pantesimo e arri-vando all’ateismo (l’eliminazione della trascendenza e la “caduta” nell’immanenza). Non sorprende, dunque, il rifiuto della filosofia jaspersiana da parte dei molti teologi (cristiani), anche se Jaspers, come appunto afferma anche Sreten Marić, «tutto il tempo parla di Dio»124.

La speculazione sulla trascendenza per il pensiero religioso e per la teologia può rappresentare un certo stimolo, però, in misura ancor più significante, essa incita alla polemica e al chiarimento. Secondo noi, Karl Barth ha chiarito al me-glio le differenze tra la trascendenza religiosa (specialmente nella sua accezione cristiana) e la trascendenza jaspersiana, eliminando l’ultima come vuota e, infine, irrilevante per l’uomo religioso. Quest'affermazione è certamente vera, dal mo-mento in cui la trascendenza, di cui parla Jaspers, risulta “pallida” di fronte alla concezione religioso-salvifica di Dio.

Jaspers non cerca, affatto, di fare altrimenti; consapevole dei limiti della filo-sofia egli non cerca di offrire delle risposte definitive e dei metodi già verificati in grado di generare diversi epigoni. Se lo teniamo ben presente, diventa chiaro che non è possibile seguire Jaspers nello stesso modo in cui lo facciamo con le sue due fonti speculative: Kierkegaard e Nietzsche. Egli stesso ne era consapevole;

                                                                                                                         124 Cfr. S. Marić, Povodom Jaspersa in (la traduzione serba dell’opera) Philosophie – Filozofija: Filozofska orijentacija u svijetu, Rasvjetljavanje egzistencije, Metafizika, Sremski Karlovci 1989, p. 20: «[...] anche se Jaspers continuamente tratta l’argomento “Dio” e anche se tutto il suo pen-siero riguarda la divinità, esso tuttavia non risulta tanto attraente ai teologi cristiani».

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non ha cercato, come Hegel, i seguaci del proprio filosofare. Non è possibile alcun “jaspersismo”. Al posto di cercare delle scuole di pensiero o degli eredi, secondo la nostra opinione, la metafisica di Jaspers, ma anche la sua intera filosofia, va concepita come uno stimolo dei modi personali per la “chiarificazione dell’esistenza” o, detto altrimenti, per la ricerca di un autentico “io”. Stare sulla strada della “chiarificazione dell’esistenza” e riconoscere la trascendenza in quan-to «il fondamento sul quale l’esistenza si radica e nel quale riconosce la propria fonte», rimane sempre nella sfera del personale. Cercare di arrivare ad edificare, partendo da questi stimoli jaspersiani, un sistema, significherebbe fraintenderlo del tutto. Anzi, ciò indurrebbe, secondo la nostra opinione, ad una violenza estrema nei confronti della sua filosofia. La metafisica, articolata nella fede filo-sofica e al di là sia di un certo teismo religioso sia dell’immanentizzazione voluta dall’ateismo, è il percorso del singolo filosofante, e non un’imitazione di Jaspers o una ripetizione delle sue conclusioni.

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Esistenza, alterità, identità in Pantaleo Carabellese Furia Valori                Existence, Otherness, Identity in Pantaleo Carabellese’s Thought Abstract This paper intends to investigate the relatioship between existence, identity and otherness in Pan-taleo Carabellese’s thought. In particular the auctor focuses on the second part of the last syste-matic development of Carabellese’s work titled The Being and Its Manifestation, in which there is a wide part dedicate to the “I”. Here, as Furia valori argues, it’s possible to find the deepest and mature dissertation of Carabellese’s thought about the multiple subjectivity, within the horizon of the theory of the “pure being of consciousness” which represents the most important element in the philosophy of the Italian thinker. Keywords: Existence, Otherness, Identity, Being, Subjectivity, God.

1. L’io, uno esistente La filosofia ci indirizza a pensare l’alterità coniugandola in molti modi con

l’ontologia, spesso con l’onto-teologia. Infatti, Altro è il deus ora misteriosa-mente absconditus, ora «più interiore a me di me stesso», ora Essere come fondamento dell’ente perché differente ontologicamente; oppure l’alterità viene declinata ora con la “differenza”, il “margine”, ora con l’“evasione” all’interno di un contesto argomentativo critico nei confronti dell’ontologia basata sulla categoria dell’ identità, ora con l’altro visto nella dinamica sincronica e diacronica del riconoscimento di sé come un altro. Si potrebbe continuare nell’elenco con ulteriori esempi, e ogni interruzione sarebbe arbitraria. Qui intendiamo dis-cutere criticamente la particolare riflessione riguardo all’alterità elaborata dall’ontologismo critico del Carabellese.

La seconda parte del sistema L’Essere e la sua manifestazione è intitolata dal Carabellese semplicemente e significativamente Io e costituisce la sua più ampia

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e matura trattazione della soggettività molteplice 1 . Qui è contenuto un interessante sviluppo del concetto di alterità, secondo una particolare accezione concettuale che riceve luce all’interno della concezione carabellesiana dell’“essere di coscienza”. Ineludibile il riferimento anche alla prima parte del sistema, dedicata allo sviluppo della dialettica interna, non oppositiva, dell’Oggetto puro, espressione non felice per indicare Dio, o l’Essere in sé, o l’Unico, per restare nel lessico carabellesiano.

Nella maturità del filosofo il nesso di Dio e molteplicità soggettiva, i due “distinti”, costituisce la concretezza de “l’essere di coscienza” puro, apriori, fondamento della manifestazione spazio-temporale, aposteriori. Per il Carabellese il pensare che non sia anche essere sarebbe contraddittorio; l’essere è del pensare, costituisce la sua essenza: da qui l’essere coscienziale di cui la molteplicità dei pensanti e l’Oggetto puro, l’universale, costituiscono le condizioni necessarie per esser tale.

In Io, dopo aver ripreso sinteticamente i concetti fondamentali dell’essere di coscienza, il Carabellese sviluppa il discorso sull’io mettendo in discussione in primo luogo “l’esclusione filosofica di me dall’essere”, sostenuta in maniera diversa dall’eleatismo, dal realismo e dall’idealismo. Tali orientamenti filosofici avrebbero concepito l’io come soggetto spirituale, contrapposto all’oggetto, essere non spirituale, perciò estraneo e inconoscibile. Quindi, il Carabellese dibatte le determinazioni ontologiche che ritiene proprie dell’io: esistenza, unità, interezza e alterità, evidenziando i problemi inerenti alla concezione predicativa dell’alterità, all’interno di una più ampia trattazione del concetto giudicativo dell’essere.

L’essere di coscienza richiede, oltre all’universale, Dio, anche l’io come soggetto esistente, molteplice: «Io, dunque, sono non la coscienza, ma bensì soltanto una distinta esigenza della coscienza, o meglio un distinto dell’essere di coscienza, uno esistente»2.

Nell’ontocoscienzialismo 3 l’esistenza, né pura, né empirica, appartiene all’Oggetto puro, Dio, che, come universale qualità, sostanzia i pensanti ed è caratterizzata dall’inseità; l’esistenza è dei soggetti, i chi in cui si individua, o anche termina, il che, la qualità universale. La caratteristica del soggetto è quella di essere singolare, perciò uno, esistente. L’essere di coscienza “esige” l’esistenza pura, non empirica; come tale l’io, uno esistente, non è limitato né è limitante                                                                                                                          1 P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione, Parte I, Dialettica delle forme, ed. critica a cura di F. Valori, ESI, Napoli, 2003; Parte II, Io, ed. critica a cura di F. Valori, ESI, Napoli, 1998. D’ora innanzi verrà citata semplicemente come Io. 2 Ivi, p. 223. 3 Così il Carabellese definisce anche il suo ontologismo critico nell’articolo La coscienza, in Filosofi italiani contemporanei, a cura di M. F. Sciacca, Marzorati, Como 1944, pp. 205 ss.

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l’essere coscienziale: «Questo mio essere uno esistente è certo un distinguere me in tale essere, ma non per questo è limitarlo (negarlo con qualcosa): la distinzione non significa limitazione, anzi è propria di quell’essere di coscienza che non ha limiti: di tale essere io sono uno esistente»4.

Senza l’io singolare esistente non si dà essere coscienziale: «Se non ci sono io – precisa il Carabellese – proprio come uno esistente dell’essere di coscienza, la coscienza non c’è: ci sarà forse Dio, ci sarà forse la materia, ma non c’è la coscienza pura dell’uno, la coscienza empirica dell’altra, non c’è l’attività consapevole»5. Senza coscienza non sarebbero né Dio, né la natura.

Cartesio ha posto in evidenza che l’io, in quanto pensante, è innegabile; e per pensare, esige di essere un ente pensante, in atto. Il merito del filosofo francese è quello di aver scoperto la spiritualità della sostanza e di averla vista nell’io pensante; da ciò è derivata sia la dimostrazione cartesiana circa l’esistenza dell’io come sostanza pensante, spirituale e quindi immortale, sia il ricondurre la “certezza” nella soggettività, radicando tuttavia, in definitiva, l’origine della verità in Dio, non nell’autoevidenza del soggetto. Ma Cartesio non avrebbe sviluppato la sua scoperta che richiede che nel pensare come tale ci sia la “sostanzialità”, in quanto concepisce riduttivamente il singolo soggetto pensante/esistente come portatore passivo di idee innate fatte da Dio, pensato a sua volta come altro del soggetto, quindi come un altro soggetto, pur se infinito.

In Da Cartesio a Rosmini, rivendicando che la spiritualità della sostanza comporta la sua attività, il Carabellese pone in evidenza la passività insita nell’innatismo: «Se l’attività spirituale è fare o creare idee vere, e questa attività risulta estranea al pensare del quale io sono certo, è chiaro che la scoperta cartesiana è tolta in entrambi i suoi aspetti: il pensare, del quale ho certezza, non ha sostanzialità spirituale»6 . Perciò la sostanzialità ritorna ad avere quella connotazione passiva e neutra della “cosa qualificata aristotelica” che il cogito aveva posto in discussione.

All’incoerenza nella concezione della sostanzialità si unisce in Cartesio l’altra incoerenza relativa al «realismo inconsapevolmente professato», riguardante da un lato la res extensa che non appartiene alla coscienza, come del resto la stes- sa res cogitans infinita. L’esistenza in tal modo si coniuga anche e inconseguentemente con la concezione della sostanza come indipendente dal pensiero. Il Carabellese fa derivare dalle due incoerenze cartesiane il circolo vizioso «tra me in quanto affermo la spiritualità in me e quindi mi pongo come la sostanza unica» da cui viene a dipendere Dio e «Dio in quanto l’unica sostanza                                                                                                                          4 Io, p. 223. 5 Ivi, p. 229. 6 P. Carabellese, Da Cartesio a Rosmini, Sansoni, Firenze 1946, p. 19.

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attiva spirituale, da cui dipende quella mia sostanzialità, dalla quale invece facevo dipendere Dio»7. Al fine di annullare tale circolo vizioso fra io e Dio, Cartesio avrebbe dovuto eliminare il residuo di realismo ancora presente nella concezione della sostanza.

Il Carabellese non condivide la concezione realistica che vede il soggetto contrapposto e passivo nei confronti dell’oggetto; soggetto che nello stesso tempo è chiuso in se stesso e distinto dagli altri soggetti, con la difficoltà di pensare la relazione e la comunicazione intersoggettiva. Al realismo consegue la passività e quindi l’annullamento del soggetto rispetto all’oggetto. Invece l’idealismo post-kantiano assolutizza il soggetto e concepisce l’oggetto come non-io, negazione; non solo, ma trascina nella negazione anche l’altro soggetto; la soluzione fichtiana del problema degli altri, o dell’altro, sfocia nella loro negazione. Entrambe le concezioni non colgono la concretezza della coscienza e conservano un dualismo che le rende astratte.

2. Alterità e non assolutezza dell’io L’Essere di coscienza richiede la compattezza non la relazione fra Oggetto

universale, Dio, e soggettività molteplice. La relazione è fra i soggetti: infatti, l’io come uno esistente, implica necessariamente l’altro, che è sempre un altro io, sottolinea il Carabellese. Diversamente l’io assoluto fichtiano, dilaga nella coscienza, identificandosi con essa, riducendo l’oggettività a negazione; ma resta così l’io nella sua solitudine e, senza l’altro, cade nel nulla del non pensare. L’io fichtiano, nell’interpretazione del Carabellese, elimina gli altri io dalla coscienza, assolutizzandosi, ma in tal modo perde la meità, approdando all’Unico, che egli vede come una nuova forma di eleatismo8.

Il Carabellese sottolinea che se non è da percorrere l’identificazione dell’io con la coscienza, tuttavia questo non conduce alla cancellazione della meità; in- vece, pensare l’immediata appartenenza del me all’essere di coscienza, non assolutizzando il me, apre ad intendere gli altri. Non l’annullamento del me costituisce la base per la relazione responsabile in sede etica (Lévinas), ma proprio partendo dal me, per il Carabellese si giunge agli altri come altri “di” me, esistenti nella loro singolarità, non si giunge agli altri “da” me9.

Il me esistente nella purezza dell’Essere di coscienza apriori di cui parla il Carabellese, in primo luogo non si identifica con il corpo, in quanto quest’ultimo trova il suo limite nell’altro corpo e, più in generale nell’altra cosa: «Io, come innegabile esigenza di coscienza non sono, o se volete, non sono affatto corpo,                                                                                                                          7 Ivi, pp. 25-26. 8 Io, pp. 209 ss. 9 Ivi, p. 222.

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pur mio. Ora la differenza fra me, che pur sono uno esistente, e il mio corpo, che anch’esso è uno, sta proprio (non se ne può trovar altra) nel limite, che il mio corpo trova negli altri corpi, e che io non trovo, se non voglio cadere nell’as- surdo di ritenere me il mio corpo»10. Il Carabellese rifiuta l’ipotesi materialistica, perché se l’io si identificasse con il corpo non potrebbe affermare nemmeno la propria corporeità, ossia che il corpo è suo. Nella concezione materialistica l’io si identifica con il corpo che diventa la radice dell’opposizione con gli altri. Se si realizzasse questa identificazione in realtà si avrebbe la soppressione dell’io come uno di coscienza, e anche gli altri non sarebbero più altri uno di coscienza. Il nulla del non pensare si porrebbe contraddittoriamente come l’essere.

Anche la concezione spiritualistica che intende l’io come spirito finito, ha come esito la riduzione dell’io a corpo, perché sostenere la limitatezza dello spirito implica sottoporlo al limite, come il corpo, eliminando così il me. Anche se Fichte ha evitato la riduzione dell’io al corpo, non ha tuttavia salvato la meità identificando l’io con la coscienza. Infatti nell’io empirico il me è sostanzialmente ridotto a corpo, a non-io. Solo l’Io, unico, assoluto pone se stesso. In Hegel, poi, ogni residuo di meità è tolta nel Soggetto assoluto.

L’io perciò è spirito infinito, ma da questo non deriva per il Carabellese che venga eliminata la distinzione dell’io dal tu nella coscienza, ossia che vengano tolti gli altri, con il rischio di tornare a Fichte. Per il filosofo italiano «togliere il limite è affermare gli altri», non annullarli; infatti, per giungere alla negazione dell’altro, o degli altri,

«bisogna prima ammettere – osserva il Carabellese – che gli altri, in quanto tali, escludano l’uno di tale essere, e che l’uno esclude gli altri; bisogna cioè cominciare proprio con l’opporre ad uno gli altri dall’uno, ritenendoli diversi ed opposti a questo e cioè col presupporre che uno (io) sia la coscienza, e gli altri no, e perciò siano non io, non coscienza. Cioè bisogna cominciare col presupporre la empirica limitazione dei corpi, la quale appunto, nella identificazione di me col corpo mio, fa ritenere me, col mio corpo, coscienza e gli altri, che col loro corpo limitano il corpo mio, non coscienza»11.

Già ne Il problema teologico come filosofia il Carabellese afferma, polemiz-zando con Fichte, che la molteplicità soggettiva non è semplicemente empirica, ma pura, condizione trascendentale della “concretezza”; la singolarità non è solitudine, ma relazione reciproca nel pensare, sentire, agire l’Universale/Dio12.

L’io esistente, singolare, è uno, e come tale è ciascuno, essenzialmente altro:                                                                                                                          10 Ivi, p. 224. 11 Ivi, pp. 229-230. 12 P. Carabellese, Il problema teologico come filosofia, rist. an. a cura e con Introduzione di E. Mirri, ESI, Napoli, 1994, pp. 56 ss.

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«Il singolare è quell’uno, di cui si sa l’alterità, ed è perciò ogni uno, ciascuno, unusquisque. Uno che non sia ciascuno, non è uno» 13 . E, ancora più incisivamente: «Io sono altro: solo così “sum qui sum”»14.

L’altro, spirito infinito come l’io, per il Carabellese non è esteriore, né eterogeneo rispetto al me, non si risolve in una identificazione con l’oggetto realisticamente inteso. Nell’ultimo sistema il Carabellese sostiene l’“identità” dei soggetti pensanti, portando alle estreme conseguenze la determinazione del-l’omogeneità, senza però indicare come possano differenziarsi i soggetti l’uno dall’altro. Il rischio dell’annullamento dell’alterità, pur se non voluto, è evidente; infatti per spiegare il darsi della molteplicità soggettiva egli parla di alterazione, come moltiplicazione infinita riferendola però non all’uno, al soggetto, ma all’Unico, ossia all’essenza divina, al che. Tuttavia, se la moltiplicazione-alterazione è riferita dal Carabellese all’Unico, non all’uno: allora l’altro, è un altro uno, ossia un altro soggetto, oppure un impossibile altro Unico? Ed essendo l’Unico non soggettivo, come possono derivarne i soggetti? In realtà possiamo muovere anche al Carabellese l’osservazione di involgersi in una sorta di circolo fra Dio e io, in quanto se da un lato Dio è la qualità infinita di cui l’io è terminazione, moltiplicazione/alterazione, nello stesso tempo a Dio, in quanto non soggettivo, sono necessari i soggetti pensanti.

L’uno di cui parla il Carabellese è l’io che immediatamente si intuisce singolare, e che altrettanto immediatamente avverte l’alterità: «Uno che non sia ciascuno, non è uno», afferma eloquentemente. Egli sente il pericolo di ricondurre e ridurre la meità ad una ciascunità di identici, perdendo l’originalità e l’inconfondibilità di ciascuno nei confronti degli altri. Tuttavia per il Carabellese invece proprio il recupero dell’altro consente la realizzazione di sé:

«Ma, se si andasse più profondo in questo amor di me spirituale, che è, o dovrebbe

essere, l’amor proprio, se si sviluppasse ciò a cui esso mi costringe, si vedrebbe, che, se io veramente voglio dare una positività a questa negazione del “non tu”, se non voglio divenire un puro e semplice “non” devo considerare me come uno tale che possa e debba riversare l’amor di me uno in altro uno, che è uno come me, cioè devo riconoscere l’unità, che sono io, nell’alterità. L’amor mio proprio, che non voglia essere soltanto amor del mio corpo, è proprio amor dell’altro. L’amor proprio spirituale non mi costringe alla assolutezza (unicità e incondizionatezza) della mia unità, ma proprio alla sua alterità: l’amore è sempre amore di altro: è la grande scoperta di Cristo»15.

La struttura dell’essere di coscienza apriori richiede l’alterità e Dio o, in altri

                                                                                                                         13 Io, p. 230. 14 Ivi, p. 237. 15 Ivi, p. 231.

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termini, l’uno molteplice e l’Unico: in tal modo è la stessa struttura coscienziale a dare fondamento alla carità. L’amor proprio e l’originalità di ciascuno si afferma e realizza nella relazione e nel riconoscimento degli altri: «Io facendo dagli altri riconoscere me tra essi, e riconoscendo me come altro, non tolgo ma affermo la mia originalità»16. Per il Carabellese l’amor di sé ha insita l’esigenza della rela-zione con l’altro; solamente chi concepisce l’io come l’Unico chiuso in se stesso, privo di meità e di relazione, il solo, parla di offesa dell’amor proprio, ma in realtà non si avvede che quell’Unico non è più nemmeno soggetto.

Tuttavia i problemi restano: la relazione con l’altro identico rischia di essere più un narcisistico rispecchiamento, che una vera relazione, più una sorta di moltiplicazione dell’Unico, un suo reiterarsi che il faticoso cammino del ricono-scersi. Fra i soggetti nella loro purezza, per cui sono infinitamente penetrativi e interi nella loro relazione, l’identità è già data immediatamente: ma allora non si comprendono gli erramenti, le lotte e gli scontri a livello empirico.

L’altro per il Carabellese è un altro me, non la negazione del me. Ineludibile il riferimento al Parmenide platonico e all’opposizione che Platone pone tra uno e altri. Per il Carabellese, sulla base dell’essere di coscienza, tale opposizione non si dà; alla domanda del Socrate platonico su quel che siano gli altri, quando io sia, si può rispondere, che essi, non sono altri dall’uno ma altri uno, sono perciò altri “me”.

Il Carabellese individua la causa della “cacciata” degli altri dalla coscienza nella erronea identificazione della coscienza concreta con l’io: per tale scambio l’io annulla la “qualità” di cui insieme agli altri è individuazione senza esaurirla. Nello stesso tempo si annulla la “quantità” pura, restando il solo, che cade nel-l’assurdo di non essere né soggetto, né oggetto.

L’io infinitamente aperto, illimitato, identico, intero pur se nell’essenziale relazione, di cui parla il Carabellese è apriori, non si identifica con il singolo uomo vivente, limitato nello spazio e nel tempo: essere condizionato e limitata persona dell’esperienza, presuppone essere soggetto incondizionato e illimitato nell’essere di coscienza puro. Sembra presentarsi una scissione fra il soggetto in quanto pensante e l’uomo vivente spazio-temporalmente, fra “miglior coscienza” e “coscienza empirica”, per utilizzare in chiave euristica espressioni del giovane Schopenhauer, che riflette sulla duplicità della coscienza, non facendo ancora riferimento alla volontà come principio metafisico17. Però proprio il pensare, da lui inteso in senso ampio come intendere, sentire e volere che si esplicano nell’attività spirituale umana, esige il livello della purezza coscienziale. Come abbiamo visto in precedenza, per il Carabellese l’assolutizzazione della                                                                                                                          16 Ibidem. 17 Cfr. A. Schopenhauer, La dottrina dell’idea, antologia a cura di E. Mirri, Armando, Roma 1999.

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dimensione spazio-temporale, ossia del limite, condurrebbe all’annullamento dell’attività spirituale umana.

Il Carabellese non intende semplicemente opporre la propria concezione a quella fichtiana, ma intende condurne all’estremo le conseguenze, ipotizzando una sorta di esperimento mentale. Infatti, se l’Io si ritenesse assoluto e si arrogasse il diritto di sopprimere il tu, riducendolo soltanto a sua esperienza, allora «rimarrebbe sì, solo Io, ma solo in quanto avrebbe soppresso il tu e quindi anche l’esperienza, che egli ne ha: non ci sarebbero più i tu, che egli dovrebbe dimostrare essere soltanto io empirici: gli altri non sarebbero empirici, non ci sarebbero. Or senza i tu (altri) ci sarei ancora io (uno)?»18. In realtà, per il Cara-bellese c’è un'unica soluzione, che esclude la fine tragica della disputa:

«Non c’è dunque altra via d’uscita da esso, se non quella che io non mi contenti di

ricambiare la tuità, ma gli ricambi proprio la meità, riconosca in lui non un tu posto da me (Fichte) ma un altro io, e perciò mentre gli riconosco la meità, che egli non mi rico-nosce, gli contesto il diritto di trasformarsi in Io assoluto, mostrandogli che così egli sopprime se stesso come io, e nega l’assoluto facendolo, lui, sapere e parlare come Io»19.

Dio, ossia l’Unico, non è soggetto, ma come qualità infinita, costituisce l’es-senza di cui i molti soggetti sono individuazione o moltiplicazione, con tutti i pro-blemi che ne conseguono20, compreso il possibile l’esito fichtiano.

Secondo il Carabellese si può dire che «sono l’identico io proprio perché siamo due»: se fosse eliminato il tu come altro me, riducendolo ad esperienza, sarebbe eliminato anche quel consentire in cui consiste la stessa esperienza. Non solo l’esperienza richiede la dimensione comunitaria, ma in generale il pensare, che è essenzialmente un convenire, un cum-sapere21 l’Universale, Dio. Quel cum non è un'aggiunta irrilevante, in quanto la dimensione intersoggettiva, comunitaria, è essenziale a tutte le forma dell’attività spirituale umana.

«Ci sarà – afferma il Carabellese –, anzi c’è senza dubbio, quella empirica alterità, nella quale ciascuno di noi presenta all’altro un insondabile residuo di meità intradu-cibile in esperienza dell’altro, ma questa intraducibilità, che è il limite che la meità ha nella esperienza, non prova che l’alterità sia soltanto di esperienza e non pura, ma prova precisamente, il contrario, e cioè che, a fondamento dell’alterità empirica, c’è l’alterità pura come schietta egoità, prova che il limite empirico, che separa me da te, persone viventi, non è la stessa alterazione pura di noi altri due, ciascuno singolare; io, alterazione pura, per la quale ciascuno, con la propria unità è immesso nell’altro uno,

                                                                                                                         18 Io, p. 234. 19 Ibidem. 20 Cfr. F. Valori, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese, ESI, Napoli 1996, pp. 81 ss. 21 Cfr. in proposito P. Carabellese, La coscienza, cit., pp. 221 ss.

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immissione, senza della quale è assurdo non solo l’innegabile consentimento ma anche la divergenza di noi nell’alterità nostra; consentimento, e divergenza, per i quali noi, ciascuno come altro, siamo tanti soggetti dell’Unico, che è immanente a noi molti»22.

La differenza fra le egoità si dà solo a livello empirico, a livello trascendentale

e metafisico i soggetti sono identici, interi23 e, nello stesso tempo infinitamente penetrativi24.

3. Critica dell’alterità come “esse in alio” Nelle sue riflessioni sull’alterità il Carabellese affronta la questione per cui

l’alterità possa essere ancora concepita come “essere in altro”, ossia qualità, “modo” della sostanza, intesa aristotelicamente o anche spinozianamente. A questo proposito si chiede se possa ritenersi valido l’assioma di Spinoza secondo il quale: «omnia quae sunt, vel in se vel in alio sunt». Se così fosse l’io sarebbe modo, predicato, qualità della sostanza, e quindi quest’ultima sarebbe intesa come altro, inerendo al quale l’io assumerebbe l’esistenza. Ma in tal modo per il Carabellese l’io perderebbe l’esistenza che consiste, abbiamo visto, nell’intuirsi insieme in Dio; inoltre l’alterità sarebbe della sostanza, di cui l’io costituirebbe solo un’affezione. La concezione dell’altro come affezione, o modo, o qualità della sostanza è alla base della concezione giudicativa dell’essere.

Nella concezione carabellesiana l’alterità dell’io non sta ad indicare che l’io inerisce in altro: la concezione giudicativa dell’essere genera confusione riguardo ai concetti di qualità, predicazione e alterità: «Io che sono altro, non posso essere in altro»25.

Per superare gli errori della concezione giudicativa dell’essere è necessario, secondo il Carabellese, abbandonare come punto di partenza il divenire per approdare all’essere metafisico, in cui l’io molteplice non è espulso e in cui la qualità infinita è caratterizzata dall’“inseità”.

L’alterità è esigenza insopprimibile dell’essere puro di coscienza: «L’alterità dell’essere, per la quale io sono, non è l’essere in altro, a cui è stato ridotto

il predicato, essere in altro che sopprime me come uno e come ente a vantaggio di quell’uno e di quell’ente, del quale dovrei ritrovarmi qualità predicativa, ma è, invece, schiettamente, l’essere altro, quell’altro che sono io come uno di noi altri in rapporto reciproco tra noi»26.

                                                                                                                         22 Io, p. 235. 23 Ivi, p. 281 ss. 24 Ivi, p. 268 ss. 25 Ivi, p. 243. 26 Ivi, p. 245.

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Partendo dalla sua concezione dei distinti dell’essere puro di coscienza il Carabellese sottolinea la contraddittorietà della concezione dell’alterità come essere in altro, in quanto proprio l’essere in sé diventa l’altro: «Concludendo – afferma il Carabellese – la sostanza non è soggetto ma qualità (oggetto, diremmo) dell’essere di coscienza, nel quale io pure son presente come soggetto. E così l’altro, che appunto sono io, non sono predicato ma soggetto di tale essere»27. Di contro a Hegel che sostiene la soggettività della sostanza, il Carabellese ne sottolinea la non soggettività, il suo essere essenza, qualità infinita che “si ter-mina” – altra espressione che egli usa – nei soggetti. Ma, appunto, sorge il grave problema di come il non-soggettivo possa principiare il soggettivo. Distinguendo l’io dal qualitativo Unico, afferma: «Non per questo a) nego l’Unico o b) sono l’altro dell’Unico»28; infatti, per il Carabellese «Io non sono l’altro di Dio, cioè l’altro Dio», in quanto ponendo la diversità come alterità, Dio diventerebbe un altro io. La relazione è fra i molti soggetti, non fra l’io e Dio che, se fosse possibile, comporterebbe l’annullamento dell’essere di coscienza; la relazione è alla base della concezione personale di Dio che il Carabellese vede viziata dall’antropomorfismo.

Sulla base dell’essere di coscienza puro, che è in sé “diversità” e “alterità”, nel senso prima illustrato, egli corregge l’assioma spinoziano in precedenza citato, in modo da esprimere la concretezza dell’essere coscienziale: «Quod est, in se et aliud est»29.

La concezione carabellesiana dei soggetti non è scevra di problemi, come del resto la sua concezione di Dio o Oggetto puro. Qual è la consistenza ontologica dei soggetti? Nella piena maturità del suo pensiero, a partire dalla seconda navi-gazione dalla fine degli anni Venti e quindi da Il problema teologico come filosofia (1931), il Carabellese approda, dall’iniziale fenomenismo30, all’essere coscienziale apriori; ciò comporta anche una mutazione nel rapporto fra i due distinti, ossia fra l’Oggetto puro, universale e i molti soggetti; infatti l’Oggetto puro viene concepito anche come Dio, Principio, fondamento dei molti soggetti; e ancora egli concepisce l’Unico come attività che costituisce in una infinita moltiplicazione-alterazione la molteplicità soggettiva. Ma questo comporta che i soggetti non abbiano quella valenza e autonomia ontologica che la correzione carabellesiana del detto spinoziano sottolinea. Nell’assioma proposto dal Cara-                                                                                                                          27 Ivi, p. 246. 28 Ibidem. 29 Ivi, p. 248. 30 Per l’iniziale fenomenismo si vedano in particolare le opere P. Carabellese, L’Essere e il problema religioso. A proposito del Conosci te stesso del Varisco, Bari Laterza, 1914; Id., La coscienza morale, I ed. Tip. Mod., La Spezia, 1914-15; II ed. con saggio introduttivo di F. Valori, Carabba, Lanciano, 2014; Id., La critica del concreto, Pagnini, Pistoia 1921.

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bellese c’è la eco dell’impostazione gnoseologica iniziale dell’ontologismo critico, in cui i due distinti erano pensati kantianamente come condizioni trascendentali dell’essere coscienziale, ancora inteso fenomenisticamente, e quindi erano ritenuti astratti in se stessi e concreti nella loro compattezza, comunque di pari dignità. L’evoluzione in chiave metafisico-teologica31 delle riflessioni carabel-lesiane ha portato a concepire come Dio, il distinto dell’universale Oggetto, pur permanendo l’originale impianto trascendentale, che risulta perciò inadeguato; il circolo vizioso fra Dio e io32, che abbiamo evidenziato, ne è testimonianza. Ma nelle variazioni e nelle difficoltà teoretiche resta sempre potente il richiamo alla dimensione intersoggettiva, comunitaria, del pensare come cum-sapere, che è fondamentalmente sentire, intendere e volere Dio, un “indiarsi” 33 , da cui scaturisce ciò che è perenne nell’attività spirituale umana, tutto il testo è transeunte.

                                                                                                                         31 Sugli esiti del pensiero carabellesiano maturo cfr. E. Mirri, Considerazioni sul rapporto fra filosofia, metafisica e teologia in Carabellese, in Pantaleo Carabellese, il “tarlo” del filosofare, Dedalo, Bari 1979, pp.89 ss.; Id., Pantaleo Carabellese: l’ontologismo critico, in Filosofie “minoritarie” in Italia tra le due guerre, Roma 1982, pp. 87-114. 32 Cfr. in proposito F. Valori, Saggio introduttivo in P. Carabellese, L’Essere e la sua manifestazione, Parte II, Io, cit., pp. 147 ss. 33 Cfr. P. Carabellese, L’attività spirituale umana, a cura di E. Mirri, ESI, Napoli 1991, p. 213.