Leaflet Jacopa de' Settesoli realizzato con l'Istituto Sandro Pertini di Marino
OME ALLA - Universita' degli Studi di Napoli Federico II · sull’encefalo presso l'Istituto di...
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COME ALLA CORTE DI FEDERICO II OVVERO
PARLANDO E RIPARLANDO DI SCIENZA
FRAGILITÀ E CONDIZIONE UMANA 9 di Vittorino Andreoli L’ETICA DELLA SITUAZIONE E DELLA LIBERA RESPONSABILITÀ 11 di Fabrizio Lomonaco FRAGILITÀ [E POTENZIALITÀ] IN ADOLESCENZA 13 di Paolo Valerio SI PUÒ ESSERE FRAGILI, SE NON SI È CADUCHI? 15 di Marisa Tortorelli Ghidini QUEI LUOGHI DI... FRAGILITÀ 17 di Giovanni Villone
Vittorino Andreoli, laureato in Medicina e Chirurgia
all'Università di Padova, si dedica alla ricerca sperimentale
sull’encefalo presso l'Istituto di Farmacologia dell'Università di
Milano, e in particolare alla correlazione tra biologia dell'ence-
falo e comportamento animale e umano.
Lavora in Inghilterra a Cambridge e negli Stati Uniti prima alla
Cornell Medical College di New York poi alla Harvard
University.
Al suo rientro in Italia si dedica alla psichiatria e si specializza
in Psichiatria, poi in Neurologia. Intanto consegue la Libera docenza in Farmacologia e
Tossicologia.
Primario di psichiatria dal 1972, esercita la professione nell'ambito delle strutture pubbliche
fino al 1999. E' co-fondatore e primo Segretario della Società Italiana di Psichiatria Biologica e
fondatore dei Quaderni Italiani di Psichiatria.
Tra gli innumerevoli incarichi, è stato docente di "Psicologia generale" e di "Psicologia della
crescita" presso l'Università degli Studi del Molise e ha presieduto la Session on
Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association di cui attualmente è
President of Honour; è membro della New York Academy of Sciences.
È autore di numerose opere tra le quali: “La terza via della psichiatria”, “L’uomo folle”, “Il
linguaggio grafico della follia”, “Un secolo di Follia”, “I miei matti”, “L’uomo di vetro: la forza
della fragilità”, “Il lato oscuro”, “Silenzi”, “La fatica di crescere” e, l’ultimo pubblicato, “Il
denaro in testa”. Ha pubblicato anche numerose opere di narrativa.
COME ALLA CORTE DI FEDERICO II IL SENSO DELLA FRAGILITÀ UMANA
Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
FRAGILITÀ E CONDIZIONE UMANA Vittorino Andreoli Psichiatra e scrittore
Sento forte il desiderio di svelare la mia
fragilità, di mostrarla a tutti coloro che mi
incontrano, che mi vedono, come fosse la mia
principale identificazione di uomo, di uomo in
questo mondo. Un tempo mi insegnavano a
nascondere le debolezze, a non far emergere i
difetti, che avrebbero impedito di far risaltare i
miei pregi e di farmi stimare. Adesso voglio
parlare della mia fragilità, non mascherarla,
convinto che sia una forza che aiuta a vivere.
‘Fragilità’ ha la stessa radice di frangere,
che significa rompere.
La fragilità di un vetro pregiato di
Murano o di un cristallo di Boemia: bello,
elegante ma basta poco perché si frantumi e si
trasformi in frammenti inservibili. Conoscendone
la natura, si deve stare attenti a come lo si usa,
a come lo si conserva: occorre tenerlo lontano
da luoghi in cui si compiono azioni d’impeto,
perché altrimenti quel vetro pregiato si fa nulla,
solo ricordo.
“Fragile” significa anche delicato, gracile.
Come un fiore: basta un colpo di vento e un
petalo si stacca e perde il suo profumo, divelto
dalla sua funzione, muore.
Il contrario di fragile è resistente,
tetragono, indistruttibile. Si pensa agli oggetti in
acciaio, alle rocce di una montagna. All’uomo di
roccia non di vetro, all’uomo potente non fragile:
c’è e tra un attimo potrebbe svanire, pezzi di
un’unità defunta, come non fosse mai stato.
Si sente dire che l’educazione deve
edificare un bambino forte, un uomo di coraggio
che affronta le lotte e le vince.
La timidezza, invece, va curata e prima
ancora nascosta: la paura va dimenticata e
sostituita con la potenza e per questo ci si allena
a battere un nemico, prima immaginario e poi di
carne; e l’abilità sta proprio nel romperlo e non
nel venire rotti.
Ecco la differenza tra i due opposti: la
fragilità e la forza.
‘Grandi’ si crede siano coloro che hanno
sempre vinto, mentre i ‘gracili’ in un attimo si
incrinano, si frantumano in tanti piccoli pezzi che
non permettono di venire ricomposti.
Io sono fragile e, paradossalmente, sono
portato a parlare di forza della fragilità: di forza,
anche se lontano dalla stabilità, dalla
infrangibilità… La fragilità richiama il tempo e la
caducità del tempo, del tempo che passa.
Ebbene, se sono stato, e sono, un buon
psichiatra, se ho aiutato i miei matti, ciò è
avvenuto per la mia fragilità, per la paura di una
follia che si annida dentro di me, per la fragilità
che avverto capace di sdoppiarmi, di togliermi la
voglia i vivere e di rendermi simile a un
depresso che chiede soltanto di scomparire per
cancellare il dolore di cui si sente plasmato…. La
mia fragilità significa che ho bisogno dell’altro: di
lei che si faccia parte di me senza confini e
distinzioni, di chi mi possa aiutare con la voglia
di mostrarsi amico poiché sa che io sento la
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voglia di esserlo per lui… La mia fragilità mi
porta ad amare, dunque l’amore è la risposta a
un bisogno, nato dalla fragilità, dalla percezione
che senza l’altro il mio essere nel mondo è vota-
to solo alla morte, al non esserci; e la solitudine
dell’uomo di vetro è la peggiore delle malattie,
della malattie del vivere.
(da L’uomo di vetro: la forza della fragilità. Rizzoli, 2008)
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L’ETICA DELLA SITUAZIONE E DELLA LIBERA RESPONSABILITÀ Fabrizio Lomonaco Professore di Storia della filosofia moderna Università degli Studi di Napoli Federico II
Fragilità deriva da frangere che significa
rompere bruscamente; è una condizione limite
della materia che anche l’uomo può vivere.
Quello della ricerca di senso del proprio
io è un tema tipico della modernità e il nome del
grande moralista francese di fine Cinquecento,
Michel de Montaigne, è il primo a venire in
mente, in un mondo dai contorni già in
estensione ma ben saldi nei loro contenuti e
valori. Uscito dalla modernità, dalle certezze di
un io pensante in costante progresso, fondato
sugli Stati nazionali dai ben delimitati confini
culturali, economici e politici, l’io contemporaneo
ha scoperto che può precipitare nel non essere e
prima nel male di esistere, sospeso tra
contraddizioni e dubbi.
Con l’«uomo senza qualità» di Musil e
l’«uno, nessuno, centomila» del nostro Pirandello
è prima di tutto la letteratura a esprimere tale
sospensione che anche la poesia di Eliot ha bene
rappresentato nelle immagini di un io vuoto in
un mondo vuoto. La fragilità del nostro tempo
ha ereditato questo disagio esistenziale,
rivivendolo nella complessità del nuovo individuo
«spettatore» e «consumatore» dentro quella che
un sociologo tedesco, Gerhard Schulze, ha
definito, nel 1992, la «società della gratificazione
istantanea». In essa si scopre che non si dà un
ordine naturale dato e l’ancoraggio all’istante
può soddisfare il calcolo utilitario, senza
procurare, però, un’etica. La tecnologia del
nostro tempo non esita a riproporre il modello
"metafisico" della perfezione, non più per una
realtà esterna ma per l'«umano troppo umano»
da ricostruire in laboratorio. Nell’epoca dei Social
Networks sperimentiamo la “perfezione” della
nostra continua comunicazione in ogni luogo e in
ogni parte del globo, senza entrare in relazione
con gli altri corpi, perché contano i soggetti
virtuali di un presente occasionale e mutevole,
l'unica durata non durevole che esista. Dalla
fragilità esistenziale alla disarticolazione
identitaria di oggi, quando la tecnologia può
indurre a situazioni di comodo e di
irresponsabilità per il suo portato di liquidità,
come ci ha detto Bauman. Se Kant ammoniva a
uscire fuori dalla «minorità» per un uso pubblico
della ragione, riconosceva la dolce età
dell’irresponsabilità che l’uomo per essere tale
deve abbandonare.
Perciò occorre un'etica della situazione e
della libera responsabilità proprio nel nostro
tempo che è quello dell'antropologia del perfetto
riproducibile, tesa a considerare la fragilità un
disvalore, una variabile dipendente da altre
variabili mutevoli e plurali (gli altri, stranieri o
solo in apparenza “diversi” da noi). Del resto già
un filosofo francese del Seicento, Blaise Pascal,
insoddisfatto del primato della ragione
cartesiana, aveva coniato un’immagine molto
efficace: quella dell’uomo «canna» sempre
oscillante tra l’infinitamente piccolo e
l’infinitamente grande, eppure pensante e,
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perciò, partecipe del sempre possibile riscatto
nel «vasto mare» del suo esistere. Ed è un
divenire fatto anche di fragilità, perché non ne
apprendiamo l'origine ma solo la fine: in mezzo
ci sono le forme di un essere che può riscattare
il non senso dell’origine dell’esistenza con
oggettivazioni etico-politiche degne della sua
ragione e della sua azione.
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FRAGILITÀ [E POTENZIALITÀ] IN ADOLESCENZA Paolo Valerio Direttore SInAPSi Centro Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti Università degli Studi di Napoli Federico II
Se la fragilità si pone quale carattere
proprio dell’esistenza, in virtù delle dimensioni di
finitudine che connotano quest’ultima, i colori, le
forme che essa viene ad assumere variano
ovviamente in funzione della specifica fase del
ciclo della vita che ciascuno di noi si trova ad
attraversare. Se il crepuscolo dell’esistenza di un
individuo viene, così, ad essere articolato intorno
al progressivo restringimento delle possibilità ed
al confronto con il carattere mortale della
propria condizione, l’adolescenza si dispiega,
invece, su quella fragile linea di confine che,
nella piena apertura dei possibili, dispiega
dinanzi a sé orizzonti diversi. È un vero e proprio
vacillamento della presenza, teso tra un “non
più” e un “non ancora”, dove il soggetto si trova
costretto, forse per la prima volta, a “dover dar
conto di sé”, a “decidere di sé”. Fase
sicuramente delicata, l’adolescenza può, così
comportare momenti di crisi, di impasse e di
turbamento emozionale. I compiti evolutivi che
l’adolescente deve realizzare per transitare dalla
fanciullezza all’età adulta possono turbarlo, farlo
sentire impotente, fragile, indifeso, in balia
d’intensi stati emotivi. Può sentirsi in difficoltà
soprattutto perché in questo periodo le
turbolenze emozionali lo costringono ad agire, a
“fare qualcosa” per affrontare le emozioni che lo
inondano e, prima ancora di poterle elaborare, lo
spingono spesso a liberarsene. In questo sempre
possibile cortocircuito della ragione, in questo
“agire” comportamenti che prendono il posto
della parola o che talvolta si manifestano,
invece, attraverso immobilità, inibizione, ritiro, si
celano i rischi ma anche le potenzialità di questa
fase della vita. Rischi, perché nell’agire, nel fare
i conti con l’impetuosità delle sue emozioni,
l’adolescente può incorrere in “incidenti di
percorso” di vario genere che possono mettere a
dura prova il suo già delicato equilibrio;
potenzialità, perché in questo agire, sperimenta
il suo “nuovo” corpo, la sua “nuova” mente, il
suo “nuovo” modo di entrare in relazione con
l’altro (famiglia, scuola, compagni). In questo
continuo barcamenarsi tra emozioni e bisogni,
talvolta contrapposti, tra rischi e potenzialità si
scopre, si conosce, cerca di dare una, tante,
risposte agli imperiosi interrogativi che
assalgono la sua mente. “Io?… ma Io chi sono?
Cosa voglio? Cosa mi piace?”.
Le risposte possono celare maldestri
tentativi di definizione della propria identità.
Soprattutto perché per molti adolescenti darsi il
tempo per “conoscersi”, per comprendersi e
definirsi può risultare molto difficile. E la spinta
ad agire, a fare, aumenta! È quello che può, ad
esempio, accadere quando l’adolescente cerca di
definire il proprio orientamento sessuale: sotto il
comando delle pulsioni sessuali, che premono
per il soddisfacimento, può sentirsi confuso e
disorientato.
Nella letteratura scientifica si ritrova il
termine questioning per indicare proprio quei
ragazzi che s’interrogano sul proprio
orientamento sessuale e per i quali la
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sperimentazione e la definizione di sé può
risultare molto dolorosa e talvolta anche
rischiosa. È quello che accade, anche, quando
l’adolescente sente che deve separarsi dai propri
genitori per realizzare nuovi investimenti
affettivi. Talvolta la spinta ad agire può essere
molto forte e la separazione può assumere le
vesti di una rottura cruenta e violenta (“non lo
riconosco più”, dicono i genitori in tali casi).
È quello che frequentemente accade a
molti adolescenti che, nel tentativo di affermarsi,
aderiscono a identità fittizie, prese a prestito dal
gruppo di appartenenza o dall’idolo del
momento, fanno uso di sostanze, bevono consi-
derevoli quantità di bevande alcoliche, spendono
grosse quantità di danaro nel gioco d’azzardo,
assumono comportamenti dirompenti, diventano
oppositivi e provocatori o trascorrono intere
giornate collegati ad internet.
Ma in fondo tutto questo non può
accadere o è già accaduto a ciascuno di noi, in
qualunque altra fase della vita? Quante volte,
per non sentirci fragili, impotenti, chiudiamo la
porta del nostro cuore e della nostra mente e,
facendo finta che quella turbolenza emotiva non
sia mai esistita, rimaniamo impotenti ad
aspettare che torni magicamente il sereno?
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SI PUÒ ESSERE FRAGILI, SE NON SI È CADUCHI? Marisa Tortorelli Ghidini Professoressa di Storia delle religioni Università degli Studi di Napoli Federico II
Nella Grecia antica la frontiera tra uomini
e dèi è segnata - anche linguisticamente - dalla
morte, thanatos, un dio che insieme con le dèe
del destino, Moirai, ha dominio sul tempo.
L’uomo è mortale, thnetos, e gli dèi sono a-
thanatoi, non mortali. Ma pur essendo immortali,
gli dèi nascono, perché “hanno la stessa origine”
degli uomini, dice Esiodo. Eppure questi dèi
potenti e immortali soggiacciono, come i mortali,
alle decisioni della Moira. Il privilegio di non
morire, tipico degli dèi, non li rende invulnerabili
alle ferite né infrangibili alle passioni.
Tra gli esseri viventi sulla terra, l’uomo,
dichiara Omero, è il più fragile. Rassegnato,
accetta tutto ciò che di bene e di male gli viene
dagli dèi, e la sua mente si adegua al volere di
Zeus. “L’uomo è simile a una foglia che cresce a
primavera”, si legge in un’elegia di Mimnermo.
“La vita dell’uno è breve come quella dell’altra”.
Assediato dalle nere Parche della vecchiaia e
della morte, Mimnermo gode la gioia effimera
del fiore di giovinezza, ignaro del bene e del
male, e al decadimento della vecchiaia preferisce
la morte.
Il paragone uomini-foglie è un topos
antico: compare già in Omero, ma Mimnermo va
oltre la similitudine. Cerca la causa della fragilità
umana. Malattia, Vecchiaia, Morte sono i mali
che minano la vita dell’uomo, gli stessi
messaggeri divini che incontra Buddha e che
saranno determinanti nel suo percorso verso il
risveglio. L’ineluttabilità di vecchiaia e morte,
descritta nella parabola della montagna, è una
necessità che non risparmia nessuno. Non può
essere sconfitta, corrotta o sviata. Coloro che,
avvisati dai messaggeri divini, non restano
indifferenti a questa verità, praticheranno il
Dharma imperituro e saranno liberi dall’illusorio
condizionamento della fragilità.
Nelle antiche culture mediterranee e
mediorientali l’uomo sa che la morte, in cui si
riassumono tutte le paure, non può essere
abolita, e usa la religione come strumento per
gestirla e rimuoverla. Ansia, paura, terrore non
sono solo emozioni incontrollate suscitate da
fantasie psicopatologiche, ma istinti primordiali
positivi con chiare funzioni protettive. Così
spiega Burkert ne La creazione del sacro. La
religione interagisce con l’invisibile avendo la
morte come fondale. Se la morte personale è
un’incognita, l’esperienza delle morti altrui
agisce da surrogato provocando uno shock
indelebile, volta a volta lenito o riacceso.
Questa funzione primaria della religione
mette in luce ciò che è realmente in gioco: il
desiderio di vita. Ahura, nella religione
zoroastriana, significa Signore della vita; il nome
di Zeus è spiegato dai Greci con zen, vivere; il
Dio Vivente è un concetto fondamentale
nell’Antico e nel Nuovo Testamento. Se la realtà
appare pericolosa o decisamente ostile alla vita,
la religione invoca qualcosa al di là
dell’esperienza capace di ristabilire l’equilibrio.
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“Le catastrofi (di ieri e di oggi) avvengono, nota
Burkert, ma nei diffusi miti del diluvio si parla
sempre di superstiti. La religione è fondamen-
talmente ottimistica”.
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QUEI LUOGHI DI... FRAGILITÀ Giovanni Villone Professore di Storia della medicina e bioetica Università degli Studi del Molise
Un esempio di fragilità: un medico che
lavora tutta una vita per liberare le persone dalla
reclusione manicomiale e muore a 56 anni per
tumore al cervello. La rivoluzione francese aveva
fatto assurgere la pazzia alla dignità di malattia
ed aveva trasferito i pazzi dai serragli ai
manicomi, ma ancora i pazzi non erano assurti
alla dignità di persone. Con il medico filosofo
Franco Basaglia non solo si realizza questo
storico passaggio ma viene costruito per il
bisogno psichico un nuovo modello di assistenza,
che tenga conto che "La follia è una condizione
umana. In noi la follia esiste ed è presente come
lo è la ragione. Il problema è che la società, per
dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione
quanto la follia, invece incarica una scienza, la
psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo
scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua
ragion d’essere». Quindi, dopo aver abolito - con
la legge stralcio del 1968 - la trascrizione
obbligatoria del ricovero in manicomio nel
casellario giudiziario (quasi il ‘pazzo’ fosse un
delinquente), con la legge n. 180 del 1978 si
stabilisce di chiudere i manicomi e di organizzare
sul territorio la risposta ai bisogni di natura
psichica anche quando diventino patologici. Le
leggi della nostra Repubblica sono identificate
con un numero, una data ed un titolo; a volte
vengono indicate con il nome del primo
proponente o del referente politico di questa o
quella riforma, ma ben di rado rimangono
universalmente note con il nome di uno che
neppure era parlamentare, come appunto nel
caso della Legge Basaglia. Assolutamente di
recente l’Argentina ha approvato una riforma
dell’assistenza psichiatrica che ricalca in pieno
tale nostra legge e per l’occasione si sono recati
in quel Paese nostri cultori del diritto per
sottolineare quanto continui alto per il mondo
quel primo volo che il 16 settembre 1975 portò
Franco Basaglia ed un centinaio di ospiti del
Manicomio di Trieste su Venezia, l’Istria ed il
litorale adriatico a testimonianza dell’apertura di
quel reclusorio manicomiale. Oggi, in Italia,
invece, assistiamo non di rado ad attacchi a
quella legge, vista come un ulteriore portato del
vento del Sessantotto piuttosto che come una
conquista di civiltà condivisa dalla nazione
intera; si noti come in calce alla legge Basaglia si
leggano le firme di quattro esponenti di rango
della Democrazia Cristiana: il Presidente della
Repubblica Giovanni Leone, il Presidente del
Consiglio dei Ministri Giulio Andreotti, il
Guardasigilli Francesco Paolo Bonifacio ed il
Ministro della Sanità Tina Anselmi. Ulteriori
esempi di fragilità sono le persone che, nel
tempo, sono state ricoverate / recluse in
manicomio: quante erano inizialmente davvero
portatrici di patologie psichiatriche e quante di
più, invece, erano solo distoniche rispetto a
quanto ritenuto accettabile come normalità?
Quanti erano così poveri da non potersi
permettere neppure la frutta (scorbutici,
pellagrosi)? Quante donne ricoverate con la
diagnosi di “mal d’amore” erano solo ragazze
che rifiutavano di accettare il marito scelto per
loro dal padre? Quanti oppositori politici? Quanti
bambini difficili o sordomuti? Oggi, grazie alla
realizzazione degli inventari dei fondi
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Centro di Ateneo per la Comunicazione e l’Innovazione Organizzativa Università degli Studi di Napoli Federico II
documentari, alla schedatura delle cartelle
cliniche degli ex ospedali psichiatrici e alla
raccolta dei racconti delle persone ospitate,
possiamo recuperare la memoria di cosa davvero
sia stata la realtà manicomiale così da avviarci,
con serietà e spirito critico, verso la costruzione
di una storia della psichiatria come realmente
agita nel corso del XIX e del XX secolo.
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