Ogra XI / Il matto

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L’ALTER ARGO Undicesimo Territorio 2 EURO

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Rivista d'esplorazione

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Page 1: Ogra XI / Il matto

L’ALTER ARGO

Undicesimo Territorio

2 EURO

Page 2: Ogra XI / Il matto

Territori esplorati:ovvero abbiamo finora navigato, tentando di esplorare:

BOLZANO Mardi Grass-Fumetti, Libri e RivisteVia A. Hofer N.4TRIESTELibreria Pendragon Piazza Carlo Goldoni N.10 TORINOLa Feltrinelli Musica e Libri Piazza CLN N.251CONEGLIANO Libreria CanovaTREVISO Libreria CanovaVia Ca’ Maggiore N.31VERONA Libreria Gheduzzi Corso Sant’Anastasia N.7PADOVALa FeltrinelliVia San Francesco N.7MESTRE (VENEZIA) Feltrinelli Store c/o Centro Commerciale Le BarchePiazza XXVII Ottobre N.1MANTOVALibreria Nautilus Piazza Ottantesima Fanteria N.19REGGIO EMILIA Libreria La CompagniaVia Migliorati N.1 /A –BFERRARALa FeltrinelliVia Garibaldi N.30/ABOLOGNA Feltrinelli InternationalVia Zamboni N.7BOLOGNA Libreria Il PorticoVia Rizzoli N.9BOLOGNA La Feltrinelli Piazza di Porta Ravegnana N.1/A-HBOLOGNAVilla SerenaVia della Barca N.1 (al bookshop)BOLOGNA Libreria delle MolineVia delle Moline N.3BOLOGNA Edicola Samarcanda Via Castiglione N.44/CBOLOGNA Libreria IrnerioVia Irnerio N.27BOLOGNA Libreria Modo Info ShopVia Mascarella N.24/BBOLOGNA Edicola del Comunale Via Zamboni N.26BOLOGNA La Feltrinelli Via dei Mille N.12 /A-CBOLOGNA Libreria PendragonVia Aurelio Saffi N.15/2°S. LAZZARO DI SAVENA (BOLOGNA) Edicola Jussi Via Jussi N.77/BLUGO (RAVENNA) Cartolibreria Nuti Corso Mazzini N.3/1RAVENNALa Feltrinelli Via IV Novembre N.7FANO (PESARO-URBINO) Libreria del TeatroVia del Teatro N4-6 eVia Montevecchio N.106FANO (PESARO-URBINO) Libreria Il Libro Corso Matteotti N.134SENIGALLIA Libreria SapereCorso II Giugno N.54-56

FALCONARA M.MA (ANCONA) Libreria Fagnani Pza. Garibaldi N.5ANCONA Libreria Metrò Galleria DoricaANCONA Libreria FogolaPiazza Cavour N.4-6ANCONA La Feltrinelli Corso Garibaldi N.35MACERATA Libreria Mondadori Corso Repubblica N.25TERNI Libreria LaurentianaVia Garofoli N. 6ROMA La Feltrinelli Libri e MusicaLargo Torre Argentina N.11ROMA Libreria OdradekVia dei Banchi Vecchi N.57 ROMALibreria Tra le righeViale Gorizia N.29ROMALibreria LithosVia Vigevano N.15 VITERBO Libreria dei SaliciVia Cairoli N.35GHISSI (CHIETI)Cartolibreria –Edicola Farina Antonio Corso VittorioEmanuele N. 51SANTA MARIA CAPUA VETERE (CASERTA) Libreria Nuova PaginaCorsoGaribaldi N. 33NAPOLI La Feltrinelli via Tommaso d’Aquino N.70 CATANZARO Ricevitoria del Lotto – Emy’S BarViale Tommaso CampanellaN.90ACRI (COSENZA) Edicola SiscaVia Jungi N.10ACRI (COSENZA) Libreria GerminalVia Padula N.249ALGHERO (SASSARI) Libreria VademecumVia Ferret N. 43e in altri luoghi. Per sapere più esattamente dove, www.argonline.it/distribuzione

«Argo» è anche in consultazione presso le biblioteche in Italia a Bologna, SanLazzaro di Savena, Imola, Conselice, Ancona, in Europa a Parigi (FRANCIA), Turku (FIN-LANDIA), Glasgow (REGNO UNITO), Berlino (GERMANIA), Amsterdam (OLANDA), nelresto del mondo a Montrèal (CANADA), Bloomington (INDIANA- U.S.A); per saperepiù esattamente dove, www.argonline.it/consultazione

È possibile riprodurre parti della rivista, senza scopi di lucro (salvo diversi accordi), contattando la redazione. Delle opinioni manifestate nei testi sono responsabili gliautori, dei quali i direttori intendono rispettare e ribadire la piena libertà di opinione, giudizio ed espressione. Le scelte editoriali sono di responsabilità della redazio-ne, dei curatori e coordinatori delle singole rubriche e di entrambi i direttori.

Numeri arretrati:In Territori esplorati sono riprodotti titoli e copertine della piccola storia di «Argo». I numeri arretrati sono tutti disponibili: è possibile con-

sultarli in versione elettronica su www.argonline.it/territori oppure richiederli, inviando un’e-mail a [email protected], specificando ititoli dei numeri desiderati e il numero delle copie richieste. In alternativa, potete scrivere alla redazione di «Argo», presso

Nuove Argonautiche, Via Bellacosta N. 34/3 CAP 40137 Bologna.

Abbonamenti:Stanchi di esaurire il vostro libraio di fiducia devastandolo di richieste su quando arriva il nuovo numero di «Argo»? Bypassatelo tranquil-lamente, e abbonatevi ad «Argo»! Riceverete a casa i nuovi numeri ancora odoranti d’inchiostro. L’ abbonamento vale per quattro numeri

(Numeri 12-15), al costo di 12 Euro.

Mappa argonautica:«Argo» la trovate un po’ dappertutto, ma sicuramente qua:

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p. 79 Daniel Agami (Inter)Nato M(ent)ale La buona novellap. 76 Paolo Nori Con stivali di occhi neri sui fiori del mio cuorep. 73 Sara Pasquino Lei sente che lui lamap. 70 Gabriele Falco Pesci Rossip. 68 Lorenzo Franceschini Il kamikazep. 67 Marco Benedettelli Conchigliep. 66 Angelo Nanni Pazzi di casa nostra

p. 63 Giulia Ferrandi Vedere dove siamo Sfumandop. 62 Poesie di Matteo Fantuzzi, Loris Ferri, Lara Lucaccioni, Pezzi di vetro

Giosuè Renato Vinay

p. 58 Dr. HammPappaBuona Rimedio omeopatico contro la follia Extravaganti

Recensioni L. Canali, Spezzare l’assedio (di Federico Cinti), E. Carnevali, Il primo Dio (di Jonathan Sebastian Procaccini),R. Calasso, La follia delle ninfe (di Daniela Shalom Vagata), V. Andreoli, Follia e santità (di Andrea Panzavolta), A. Konc̆alovskij, La Casa dei Matti (di Daniel Agami), F. Ozpetek, Cuore sacro (di Roy Menarini),

C. Zavattini, La veritàaaa (di Alessandro Mainini), R. Faenza, Prendimi l’anima (di Giulia Ferrandi),A. Rezza, Fotofinish (di Valerio Cuccaroni),A. Celestini, La pecora nera (di Daniela Shalom Vagata) p. 53

Giacomo Bottà Manchester/ madchester: la follia di una città p. 51L’Isola del Pop Daniel Agami Eutanasia di un amore antropofagico p. 50

Annabella Losco Cronaca di una catarsi p. 48Francesca Blesio & Valerio Cuccaroni Lo sguardo svelato p. 46Filippo Furri Etnopsichiatria: disordini a confronto p. 44

Panorami Filippo Furri featuring Ernesto De Martino Balla che ti passa p. 43e spedizioni Francesca Blesio Ascoltare le voci dell’anima – Intervista a Eugenio Borgna p. 40

Tracce Geraldina Colotti Testimoniare l’orrore e combatterloIntervista a Maria Grazia Giannichedda p. 37

Iperuranio impoverito Alessandro Chalambalakis Nietzsche c’est moi p. 34

Claire Lahuerta David Nebreda: il corpo mutilato come apertura al mondo p. 32David Leblanc Sulle rovine fumanti dell’arte p. 30

(soqquadri) Mascetti Ingegni rari e asini vetturini p. 28

Alessandra Prandin Mussorgsky: dissonanze tra demoni e follia p. 27Johnson&co. Chronic Schizophrenia p. 26

Beat Holes Chiara Paganini featuring Johnson Charlie 'Bird' Parker p. 24

Mario Sorrentino Da Sade al Marat/Sade p. 23Francesco Filippi Dissociazioni animate p. 22Daniel Agami (Televisione e) Cinema De-Mente (e non demenziale) p. 21Giovanni Andria Il corridoio della paura - lo sguardo di un folle raccontato da un genio p. 19Giacomo Manzoli Dal cuculo alla luna p. 18mAgia «È triste morire senza figli» p. 16

Vincenzo Mollica Daniel Agami Non è l’amore che porta alla follia, direbbe ma la sua assenza o impossibilità p. 15

Chiara Frezzotti Conoscere attraverso la follia: Don Chisciotte della Mancia p. 14Valerio Cuccaroni Lo sguardo stigmatizzato. Tre poeti da laboratorio? p. 13Annabella Losco Quel sottile confine tra arte e nevrosi p. 11Rossella Renzi La doppia immagine di Anne Sexton p. 10Daniel Agami Il Complesso di Eracle - l’attacco - l’esplosione - la fine p. 7Valerio Cuccaroni Un principio di sovversione totale p. 7Marco Benedettelli L’animale piumato p. 6

Alfabeti Daniela Shalom Vagata Storia di una poesia diventata canzone p. 4

L’ospite Antorio Rezza e Flavia Mastrella Il pazzo è un’invenzione degli altri p. 2

Diario di bordo Daniel Agami liberato daValerio Cuccaroni IL MATTO p. 1

ItinerarioTerritori esplorati:

ovvero abbiamo finora navigato, tentando di esplorare:

BOLZANO Mardi Grass-Fumetti, Libri e RivisteVia A. Hofer N.4TRIESTELibreria Pendragon Piazza Carlo Goldoni N.10 TORINOLa Feltrinelli Musica e Libri Piazza CLN N.251CONEGLIANO Libreria CanovaTREVISO Libreria CanovaVia Ca’ Maggiore N.31VERONA Libreria Gheduzzi Corso Sant’Anastasia N.7PADOVALa FeltrinelliVia San Francesco N.7MESTRE (VENEZIA) Feltrinelli Store c/o Centro Commerciale Le BarchePiazza XXVII Ottobre N.1MANTOVALibreria Nautilus Piazza Ottantesima Fanteria N.19REGGIO EMILIA Libreria La CompagniaVia Migliorati N.1 /A –BFERRARALa FeltrinelliVia Garibaldi N.30/ABOLOGNA Feltrinelli InternationalVia Zamboni N.7BOLOGNA Libreria Il PorticoVia Rizzoli N.9BOLOGNA La Feltrinelli Piazza di Porta Ravegnana N.1/A-HBOLOGNAVilla SerenaVia della Barca N.1 (al bookshop)BOLOGNA Libreria delle MolineVia delle Moline N.3BOLOGNA Edicola Samarcanda Via Castiglione N.44/CBOLOGNA Libreria IrnerioVia Irnerio N.27BOLOGNA Libreria Modo Info ShopVia Mascarella N.24/BBOLOGNA Edicola del Comunale Via Zamboni N.26BOLOGNA La Feltrinelli Via dei Mille N.12 /A-CBOLOGNA Libreria PendragonVia Aurelio Saffi N.15/2°S. LAZZARO DI SAVENA (BOLOGNA) Edicola Jussi Via Jussi N.77/BLUGO (RAVENNA) Cartolibreria Nuti Corso Mazzini N.3/1RAVENNALa Feltrinelli Via IV Novembre N.7FANO (PESARO-URBINO) Libreria del TeatroVia del Teatro N4-6 eVia Montevecchio N.106FANO (PESARO-URBINO) Libreria Il Libro Corso Matteotti N.134SENIGALLIA Libreria SapereCorso II Giugno N.54-56

FALCONARA M.MA (ANCONA) Libreria Fagnani Pza. Garibaldi N.5ANCONA Libreria Metrò Galleria DoricaANCONA Libreria FogolaPiazza Cavour N.4-6ANCONA La Feltrinelli Corso Garibaldi N.35MACERATA Libreria Mondadori Corso Repubblica N.25TERNI Libreria LaurentianaVia Garofoli N. 6ROMA La Feltrinelli Libri e MusicaLargo Torre Argentina N.11ROMA Libreria OdradekVia dei Banchi Vecchi N.57 ROMALibreria Tra le righeViale Gorizia N.29ROMALibreria LithosVia Vigevano N.15 VITERBO Libreria dei SaliciVia Cairoli N.35GHISSI (CHIETI)Cartolibreria –Edicola Farina Antonio Corso VittorioEmanuele N. 51SANTA MARIA CAPUA VETERE (CASERTA) Libreria Nuova PaginaCorsoGaribaldi N. 33NAPOLI La Feltrinelli via Tommaso d’Aquino N.70 CATANZARO Ricevitoria del Lotto – Emy’S BarViale Tommaso CampanellaN.90ACRI (COSENZA) Edicola SiscaVia Jungi N.10ACRI (COSENZA) Libreria GerminalVia Padula N.249ALGHERO (SASSARI) Libreria VademecumVia Ferret N. 43e in altri luoghi. Per sapere più esattamente dove, www.argonline.it/distribuzione

«Argo» è anche in consultazione presso le biblioteche in Italia a Bologna, SanLazzaro di Savena, Imola, Conselice, Ancona, in Europa a Parigi (FRANCIA), Turku (FIN-LANDIA), Glasgow (REGNO UNITO), Berlino (GERMANIA), Amsterdam (OLANDA), nelresto del mondo a Montrèal (CANADA), Bloomington (INDIANA- U.S.A); per saperepiù esattamente dove, www.argonline.it/consultazione

È possibile riprodurre parti della rivista, senza scopi di lucro (salvo diversi accordi), contattando la redazione. Delle opinioni manifestate nei testi sono responsabili gliautori, dei quali i direttori intendono rispettare e ribadire la piena libertà di opinione, giudizio ed espressione. Le scelte editoriali sono di responsabilità della redazio-ne, dei curatori e coordinatori delle singole rubriche e di entrambi i direttori.

Numeri arretrati:In Territori esplorati sono riprodotti titoli e copertine della piccola storia di «Argo». I numeri arretrati sono tutti disponibili: è possibile con-

sultarli in versione elettronica su www.argonline.it/territori oppure richiederli, inviando un’e-mail a [email protected], specificando ititoli dei numeri desiderati e il numero delle copie richieste. In alternativa, potete scrivere alla redazione di «Argo», presso

Nuove Argonautiche, Via Bellacosta N. 34/3 CAP 40137 Bologna.

Abbonamenti:Stanchi di esaurire il vostro libraio di fiducia devastandolo di richieste su quando arriva il nuovo numero di «Argo»? Bypassatelo tranquil-lamente, e abbonatevi ad «Argo»! Riceverete a casa i nuovi numeri ancora odoranti d’inchiostro. L’ abbonamento vale per quattro numeri

(Numeri 12-15), al costo di 12 Euro.

Mappa argonautica:«Argo» la trovate un po’ dappertutto, ma sicuramente qua:

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La buona novella - Rubrica di racconti, prose poetiche e sperimentazioni narrative

A chi fu il principio di tutte le cose(e la fine di tutte le altre)

Non ho ancora 22 annie sono già stanco di vivere.

Asclepiade

Le piastrelle.Azzurre. Le piastrelle sono azzurre.Le piastrelle azzurre sono tante.Le piastrelle azzurre, sono troppe.Le piastrelle azzurre sono troppo perfette, così antipa-

ticamente perfette, così geometricamente precise, cosìprecisamente antipatiche. Le piastrelle sono molte, trop-pe per il senso comune della gente, e ti guardano con ariadi sfida, quasi a provocarti. Stanno fisse a fissarti, sonoguardate per guardarti, sono miriadi di piastrelle, il mon-do è invaso dalle pareti, a loro volta invase da milioni dipiastrelle. (e moriremo dunque piastrellati?)

L’acqua, le chiare fresche e dolci acque ora sono im-bottigliate in eleganti, essenziali e nudi contenitori di ve-tro con etichette azzurre o bianche, talvolta rosa, e sonoliquidi oligominerali, effervescenti ma naturali, gassati emai aeriformi, prodotte in massa da una serie di scim-mioni specializzati in un tappo, nel peso netto di un’eti-chetta, nel colore del tessuto vetrato, riprodotte e spedi-te nelle aree più in là del mondo, o al di là del mondo(l’immondo mondo) in pianeti sconosciuti oltre la Luna.Oppure sono rapidamente sgorganti da quei rubinettiantichi, in cui basta ruotare l’ingranaggio per mirare ungetto potentissimo, o in quelli più moderni, in cui vi sonoquelle precise leve che sollevi con la mano, prodotte darubinetterie magari povere, ma piene di quei bei profes-sionisti che lavorano ore e ore dietro una scrivania, arti-giani del rubinetto, li chiamano, magari un po’canzonan-doli, per scherzo, o per scherno.

E poi le belle tavolate dei viaggi organizzati, in queigelidi alberghi illuminati, illuminanti, elegantissimi, e contutte quelle televisioni accese, e dove il cameriere col pa-pillon nero e la giacca bianca, ti indica il buffet, o ti portadella carne bollita con tante, tante patate di contorno: for-se fritte, per accattivare i bambini e i golosi senza moglie(nel cibo trovano l’elisir per le loro doglie), e i gelosi conmoglie, ed un cappello da cow-boy per gioco; o magari ar-

rosto per contentare i padri dal frastuono in riposo, senzacravatta, o lesse, per accontentare le vecchie ottuagenarieperennemente (e, lo sappiamo benissimo, falsamente) indieta e le mamme con un filo di trucco e un filo di rimmel(e un filo del discorso continuamente perso, e un figlio deldì scorso temporaneamente, e per sempre, perso) per sot-tolineare la splendida forma dei loro 40 anni…

E le parolacce, urlate da giovani bruciati e divorati dal-l’adolescenza, con l’arroganza di chi si sente grande, e lamascolinità di chi si sente il glande, sfogliandosi soave-mente tra le mutande. E i loro riti di iniziazione, malinco-niche suzioni e maldestre (alcoliche) erezioni nell’ombradi un quadriciclomotore sbandato fuori da una giostra,sopra al selciato, la sera al dì di festa sui colli (prenderan-no fuoco, moriranno conigli, fabbricheremo col machetenuove caserme e più ipermercati di telefonia), paradisi or-monali e interminabili code dentro il reggipetto al cesso onel bidet, del privé, dove la luce blu al neon ti impediscedi trovare la vena, ma ti mette in vena. Di attaccarti a unaliana, di togliere la clava dalla naftalina, di invocare il pea-na se ti avranno beccato con la coca in frigo, di sacrificareil sangue inguinale di una vergine al tuo bel idolo mino-taurino. E il culto delle automobili, veloci, mono, grandi,velocissime, e il cancan dei clacson strombazzanti e urlan-ti, e chi si cambia tranquillamente la mercedesbenz comese fosse normale, e i loro dannati pizzetti di chi è (ancora?)giovane, e i loro visi sbarbati ancora più dannati.

Gli onorevoli massoni si nascondono dietro le rego-le di una democrazia, le onorevoli giocano a fare le fem-ministe, come se il femminismo fosse ruba-bandiera.Ma il problema vero è che non c’è più verde, è finito inuna gabbia costruita nello zoo dall’urbanista, buonosolo per andarci a pisciare.

O a consumarti solitudini, cercando scintillii.Nelle radio delle ragazzine la morte non esiste, nei

saldi ai supermercati la morte non esiste, nel risveglio af-fannoso dei fornai la morte non esiste, col sudoku lamorte non esiste, nelle insonnie a Formentera la mortenon esiste, nei collettivi alle manifestazioni la morte nonesiste, nel tempo dell’aperitivo la morte non esiste, ai ci-neforum la solitudine non esiste, alle feste di laurea, nel-le foto di classe la morte non esiste, con il festivalbar lasolitudine non insiste (la canzone per l’estate è già nota,sarà la colonna sonora di un’estate caldissima, nei falò al

DANIEL AGAMI

(Inter)Nato M(ent)ale - scritto tutta la vita, in particolare il 19/12/2002 e al tramonto del sole nel 2005 -

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mare, in disco, dentro l’armadio, ci sarà sempre e solo lei,chissà quante follie, quanti bagni di mezzanotte, quantetrasgressioni dentro una camera, quanti baci sopra altraghetto, che capodanno sarà questo ferragosto?, cisarà da divertirsi).

E chi va a Londra a fare il cameriere felice e beato –poi in Erasmus alla Sorbonne, la tesi discussa a Turku, ildottorato è meglio in Canada, d’altronde Amsterdamnon è più lei dopo l’11/9, in Africa i missionari dormonotutti in hotel col lusso mentre fuori la gente muore difame col sacco a pelo, ma non conosce la depressione,poi si va in Islanda per lostage, U.S.A.? Già dato,overseas all’Università diPalm Beach – “ci sentia-mo presto se non muori,per Natale ritorno in Italiaa casa dai miei genitori,giusto il tempo di scarica-re tutta la posta elettroni-ca dal server”.

Non è più tempo difluorescenze, fluidi, luc-ciole e fuochi fatui.

I motorini dei ragazzi-ni hanno fatto il loro tem-po, ora è tempo del corpolibero (e preservativisgargianti dentro la bor-setta, per ogni evenienza:sono francesi, piaccionoal maschio medio, stimo-lano il piacere e ritardanola diuresi, o forse ritardano il piacere e stimolano la diu-resi), d’altronde l’Hiv è la peste di fine (o inizio?) millen-nio, usando il profilattico debelli l’aids (e fai felice Benet-tòn e Mr. Hatù) mentre un pubblicitario sta per deciderese sterminare una popolazione o no, ma ride perché èuna domanda retorica. E ridiamo anche noi, con i comiciche non fanno ridere, e ci si ricorda di un pomeriggio tri-ste, sui venti anni circa, quando avevamo capito che il

mondo bisognava rifarlo daccapo, magari con un po’ piùdi intelligenza e bontà. Facciamo un bel rutto, dopo aversorseggiato una Heinekeen® ed abbiamo risolto il pro-blema. I sottogiacca, mah.

Ma tanto ci rivedremo tutti, l’Addio non esiste più (lodanno solo le ragazze ai poeti, fumettisti, comici registinovellieri e cantautori che lo scriveranno per soffriremeglio), ci si ribeccherà tutti prima o poi su Messenger:con la webcam, a fissar le stelle cadenti, guardandole ri-flesse nel profondo dei suoi occhi.

Un iPod, dotato di una memoria infinita e incancel-labile, registrerà il tuttoanzi, no, solo i momentimigliori, la perdita dellaverginità, il compleannocon 69 persone (e 1/2), lamorte del padre, il cielosopra Stoccolma, l’emo-zione e l’acquolina, tutti inumeri importa(n)ti, l’im-prevedibile indescrivibilee dio che ti saluta con lamano e ti dà una paccadurante quell’eterna stra-na imprevedibile immen-sa e poetica rivoluziona-ria timida penetrazione.L’animaccia me la sonorivenduta su e-bay.… Equelle biblioteche im-mense, labirintiche, mi-riadi di libri1… ma esisto-no davvero? Ancora?

E quegli orrendi giubbotti odorati di freddo e tabacco,indossati da un tuo affetto lontano, con una cicatrice a for-ma israelitica dentro al cervello. E quei modi buffi con cuisi vestono le sign.ne: maglie a collo alto attillate (magari amezze maniche) o larghissime (maglioni sovrumani), pan-taloni aderenti o scanalati o a zampe d’elefante, slip che siaffacciano curiosi da fuori il pantalone, maglie a manichelunghe col sudore nelle ascelle (ma non ridiate perché è

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daniel di Giulia Montanari (e Marianna Mastroroberto), foto delle inferriate del can-cello di delimitazione del giardino interno al Dipartimento Igiene Mentale, PresidioPsichiatrico di Diagnosi e Cura presso Ospedale Malpighi di Bologna: i degenti pos-sono camminare nel giardino in determinati orari, delimitati dalle cinte di ferro

La buona novella

1 Quali? Melville, Rino Gaetano, Italo Calvino, Pasolini, Zvi Kolitz, Giacomo Leopardi ed Agostino hanno indetto tutti assieme una grandemanifestazione; Cechov, Hawthorne, Stevenson, Voltaire, Pascal, Bram Stoker ed Emilio Salgari non ci vanno, faranno la Nazionale Scrit-tori; Ovidio, Pavese e Silvio D’Arzo verranno al cinema con me, ma prima ho un aperitivo con Tieck, c’è un problema: Hannah Arendt pian-ge il sabato sera, prima di uscire, impiastricciandosi sola tutto il trucco, sempre per Martino, che si abbottona con le sue amiche. Coraz-zini e Gozzano andranno con me, Freud e Catullo questa estate in inter-rail. Giorgio Gaber e Vincenzo Mollica sono uno di noi. Erasmo eBalzac sono seduti in un pub con Svevo, Zola; Don De Lillo gioca a dadi con De Sade, Montale fa mosca cieca con Hoffmànn. Kafka va aun festino (d)a Collodi, farà un salto pure Flaubert, assieme ad Anite di Tegea. Daniel e Giovanni fanno a gara di apocalisse, sotto l’allu-vione; Petronio, Maupassant, Rodari verranno alla mia festa, Tibor Fischer invece si fa in vena tutte le domeniche pentecostali il suo pus-her abita ad Atlantide, si chiama Omero e fa il cieco di mestiere, spaccia eroine ed eroi come se tutto andasse davvero bene. Sorriden-do. Torquato Accetto gioca a nascondino con Mann, Moravia e Poe; Stefano Benni è un mio vicino di casa, nelle scale fa sempre lo sgam-betto ad Archiloco, che convive con Palazzeschi. Saffo, Virginia Woolf, Mary Shelley e Isabella Santacroce sono le mie ex, Tommaso Lan-dolfi mio fratello. Fo, Luciano di Samostata e Buzzati fanno i centralinisti per la Fastwebnèt.Roberto Benigni il 18 gennaio del 206 è inun'Osteria di Gerusalemme, sotto i portici che non ci sono, di fianco agli avanti miei prodi: è uscito con l'etimologia della parola Amore,con cui si accarezzò anni prima, e una losca comparsa; ride, scherza, crede di capire il simbolo, ma poi casca lo Stronzo dal cielo, il suo at-tuale compagno tinto d'azzurro nell'azzurro, si baciano, e Benigni va in malora, perduto. De Gregori era morto, e Asclepiade sta malecome me. Rimbaud, Verlaine, Mallarmè, si presenteranno al Festival di Sanremo quest’anno, la carne è debole e gli imperi alla fine delladecadenza, Baudelaire all’inferno assieme a Don Giovanni e l’aura da poeta caduta nel fango…

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La buona novella - Rubrica di racconti, prose poetiche e sperimentazioni narrative

A chi fu il principio di tutte le cose(e la fine di tutte le altre)

Non ho ancora 22 annie sono già stanco di vivere.

Asclepiade

Le piastrelle.Azzurre. Le piastrelle sono azzurre.Le piastrelle azzurre sono tante.Le piastrelle azzurre, sono troppe.Le piastrelle azzurre sono troppo perfette, così antipa-

ticamente perfette, così geometricamente precise, cosìprecisamente antipatiche. Le piastrelle sono molte, trop-pe per il senso comune della gente, e ti guardano con ariadi sfida, quasi a provocarti. Stanno fisse a fissarti, sonoguardate per guardarti, sono miriadi di piastrelle, il mon-do è invaso dalle pareti, a loro volta invase da milioni dipiastrelle. (e moriremo dunque piastrellati?)

L’acqua, le chiare fresche e dolci acque ora sono im-bottigliate in eleganti, essenziali e nudi contenitori di ve-tro con etichette azzurre o bianche, talvolta rosa, e sonoliquidi oligominerali, effervescenti ma naturali, gassati emai aeriformi, prodotte in massa da una serie di scim-mioni specializzati in un tappo, nel peso netto di un’eti-chetta, nel colore del tessuto vetrato, riprodotte e spedi-te nelle aree più in là del mondo, o al di là del mondo(l’immondo mondo) in pianeti sconosciuti oltre la Luna.Oppure sono rapidamente sgorganti da quei rubinettiantichi, in cui basta ruotare l’ingranaggio per mirare ungetto potentissimo, o in quelli più moderni, in cui vi sonoquelle precise leve che sollevi con la mano, prodotte darubinetterie magari povere, ma piene di quei bei profes-sionisti che lavorano ore e ore dietro una scrivania, arti-giani del rubinetto, li chiamano, magari un po’canzonan-doli, per scherzo, o per scherno.

E poi le belle tavolate dei viaggi organizzati, in queigelidi alberghi illuminati, illuminanti, elegantissimi, e contutte quelle televisioni accese, e dove il cameriere col pa-pillon nero e la giacca bianca, ti indica il buffet, o ti portadella carne bollita con tante, tante patate di contorno: for-se fritte, per accattivare i bambini e i golosi senza moglie(nel cibo trovano l’elisir per le loro doglie), e i gelosi conmoglie, ed un cappello da cow-boy per gioco; o magari ar-

rosto per contentare i padri dal frastuono in riposo, senzacravatta, o lesse, per accontentare le vecchie ottuagenarieperennemente (e, lo sappiamo benissimo, falsamente) indieta e le mamme con un filo di trucco e un filo di rimmel(e un filo del discorso continuamente perso, e un figlio deldì scorso temporaneamente, e per sempre, perso) per sot-tolineare la splendida forma dei loro 40 anni…

E le parolacce, urlate da giovani bruciati e divorati dal-l’adolescenza, con l’arroganza di chi si sente grande, e lamascolinità di chi si sente il glande, sfogliandosi soave-mente tra le mutande. E i loro riti di iniziazione, malinco-niche suzioni e maldestre (alcoliche) erezioni nell’ombradi un quadriciclomotore sbandato fuori da una giostra,sopra al selciato, la sera al dì di festa sui colli (prenderan-no fuoco, moriranno conigli, fabbricheremo col machetenuove caserme e più ipermercati di telefonia), paradisi or-monali e interminabili code dentro il reggipetto al cesso onel bidet, del privé, dove la luce blu al neon ti impediscedi trovare la vena, ma ti mette in vena. Di attaccarti a unaliana, di togliere la clava dalla naftalina, di invocare il pea-na se ti avranno beccato con la coca in frigo, di sacrificareil sangue inguinale di una vergine al tuo bel idolo mino-taurino. E il culto delle automobili, veloci, mono, grandi,velocissime, e il cancan dei clacson strombazzanti e urlan-ti, e chi si cambia tranquillamente la mercedesbenz comese fosse normale, e i loro dannati pizzetti di chi è (ancora?)giovane, e i loro visi sbarbati ancora più dannati.

Gli onorevoli massoni si nascondono dietro le rego-le di una democrazia, le onorevoli giocano a fare le fem-ministe, come se il femminismo fosse ruba-bandiera.Ma il problema vero è che non c’è più verde, è finito inuna gabbia costruita nello zoo dall’urbanista, buonosolo per andarci a pisciare.

O a consumarti solitudini, cercando scintillii.Nelle radio delle ragazzine la morte non esiste, nei

saldi ai supermercati la morte non esiste, nel risveglio af-fannoso dei fornai la morte non esiste, col sudoku lamorte non esiste, nelle insonnie a Formentera la mortenon esiste, nei collettivi alle manifestazioni la morte nonesiste, nel tempo dell’aperitivo la morte non esiste, ai ci-neforum la solitudine non esiste, alle feste di laurea, nel-le foto di classe la morte non esiste, con il festivalbar lasolitudine non insiste (la canzone per l’estate è già nota,sarà la colonna sonora di un’estate caldissima, nei falò al

DANIEL AGAMI

(Inter)Nato M(ent)ale - scritto tutta la vita, in particolare il 19/12/2002 e al tramonto del sole nel 2005 -

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Page 6: Ogra XI / Il matto

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La buona novella

tanto dolce, e voi non lo potete nemmeno sapere il per-ché) e questa moda delle cinture smisurate, gilet col cap-puccio, maglioni a maniche corte, le camicie sbottonatenei primi 2-3 bottoni, rosa, azzurre, bianche, le canotteaderenti da mettere d’estate, col rossore della vergognadella propria femminilità o con l’arroganza di voler piace-re, magari per prendere il sole anzi, certamente per piace-re, per prendere il sole, sole, solo per sé stesse.

Non esistono più, le ragazze con i sandali sportivi,struccate, che portano come niente i pantaloni corti conle tasche e una larga t-shirt di cotone, col walk-man e lecuffie - non gli auricolari-, e compilazioni di amo-re e psiche in musicas-setta, e un libro di poe-sie nella cartella e la ri-voluzione bloccata perun ingorgo ematico trail cuore e la laringe: sonotutte morte. Erano ra-gazze-acqua, nel viso ri-cordavano la gioia e ri-voluzione che si ha dueminuti dopo aver parto-rito, ma avevano 20anni, partorivano pelu-che, anche se negli in-verni particolarmentevispi per le nostre ses-sualità notavano la pan-cia anormalmente cre-sciuta, e si rifugiavano con passione nelle nuove gineco-logie: erano figlie della luna, del cielo e del vento… orasono tutte morte. Avevano la luna in testa e sulla pelle, ilcielo negli occhi e il vento nella mente. Sono tutte mor-te. Dio è morto, è vivo, c’è, non c’e, o c’è ma non si fa tro-vare apposta? Le ha bestemmiate Dio, le ho create io.

Da qui vidi tutto, li ho visti i signorini bambini albeg-giare, le ragazze con la pesca in bocca rosseggiare, uomi-ni infranti nel cuore e nella mente diluviare, ragazzi-om-bra tacere per lunghe maree e successive glaciazioni, epoi all’improvviso bruciarsi a primavera, piromani di lorostessi, nel loro stesso foco (“ti vedo fioco, se non mi inna-mori ora stavolta ti sfoco…”), e gli invecchiati tuonare, egli eterni conoscenti sfumare, e i fighi tramontare. Vedotutti i giorni e più di una volta al giorno coscienze e inco-scienze sospirare, e ragazzi con una voragine nel cervello,e l’Apocalisse in fondo agli occhi, stralunare.

E la mia vita, che ti può portare in posti come questi.Io non sto male, sa? Il rancio qua è buono, anche se percolazione avrei preferito lo zucchero: la cioccolata conla morfina mi resta sullo stomaco. Se piangi, ti danno ilbudino, che trema come te, con te. Però nei pasti troppe

sono le patate, non si può saturare il dolore con le pata-te, gonfiano, i tubi vengono ostruiti dai tuberi, così in-grasso, e per educazione fisica apro e chiudo l’arma-dietto per ore. Spreco il presente, perché non ho futuro.Ho molti impegni nelle giornate, alle 18 faccio su e giùper il corridoio, centinaia di andirivieni senza la cintura,passeggio continuamente oppure circunnavigo la miastanza 1983 volte, in tuta da ginnastica. Colazione, pran-zo e cena sono gli eventi della giornata, l’elettrocardio-gramma, beh, no, quello è solo nei giorni di festa. Alla ra-dio ascolto molto «Pur se l’estate è finita t’amo an-

cor….». Stasera ho unimpegno: mi uccideròleggendo il finale de Lacoscienza di Zeno, cometutti i giorni dispari. Op-pure celebrerò i funera-li per tutti i moscerinimorti dentro le luci alneon intermittenti: seuno guarda attenta-mente, dentro a quellelampade c’è una stragedi moscerini fulminati, èun olocausto del mo-scerino. Bzzz..

Vede, io non lo so per-ché le ho uccise tutte,quelle coppiette, perchépersi gli occhi a guardarleaccarezzarsi soavemente,

dovrei ricordarmi quelle terribili estati al mare forse per ri-sponderle, proprio quelle dove vegetavo burro, giocavo aping pong con l’animaccia mia, quelle in cui mettevo unatesta nel secchio, con i pesci rossi ancora vivi, per trattenereil suicidio, per poter arrossire, e urlare tutta la mia inattitudi-ne nelle olimpiadi del salto in alto e in padella, del salto del-la quaglia, la totale mia impermeabilità agli aperitivi, agliantifecondativi e alle suonerie da scaricare, e nemmenoperché ho divorato la mia *, Giulia End cara, che già nel suocognome aveva il futuro nostro, la descrizione della miaFine, dopo averla bruciata, una volta imbalsamata nel free-zer, perchè non finisse mai, per poterle ancora dare un ba-cio con la lingua tra i suoi capelli in argento.

So, anzi, le dedico una brutta poesia, fa così2. So chevorrei ascoltare una bella canzone, magari, e ballarlacon lei, commissario, professore, dottoressa, le possodare del lei vero?, lei che è una persona così dolce, al-meno lei… ta ……ta…..tta……laralllalà…una musica,così…come questa……..posso?...............

[email protected]

Edward Munch, Vampiro (1893-94), dipinto, Munch Museet, Oslo [Norvegia]

2 Schegge di occhi azzurri che divengono vetroschegge di occhi azzurri che divengono acquaschegge di occhi azzurri che diventano cielo.

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La buona novella

Il testo della (buona) novella seguente è tratto da una ri-scrittura inedita del romanzo Pancetta di Paolo Nori (editoda Feltrinelli nel 2004), rielaborato dallo stesso Paolo per ilteatro, per uno spettacolo, un reading (come l’ha definitodi recente Stefano Benni), o meglio una lettura-concerto(come ce l’ha presentato a noi l’autore), realizzata con Um-berto Petrin, che ha debuttato nell’estate 2005 a Milano. Ti-tolo e adattamento editoriale del racconto inedito per que-sta monografia di Argo sono dello stesso P. Nori. Consi-gliandovi di leggere il romanzo da cui è ispirato e diseguire la sua tournee teatrale, signore e signo-ri, a voi Paolo Nori. Buona Novella. [daniel]

Un poeta e filosofo russo misconosciuto, Pa-vel Filosofov, che a un certo punto della suavita ha abbandonato poesia e filosofia e s’èmesso a fare il poliziotto, negli anni sessanta delnovecento ha pensato che era ora di scrive-re le proprie memorie su come non ri-uscì a diventare poeta, e in questememorie a un bel momento scri-ve: «Fu solo molto tempo dopo,che cominciai ad avere un’ideadi come ci si comporta, mi ci vol-lero anni perché imparassi a reagi-re con calma e con ponderazione ea muovermi in armonia con la terra.Come dice il primo verso di quel poe-ma Come l’autunno cambia il giardino,come lo cambia l’autunno il giardino,velocemente? Lentamente. Io ormaisono anni, scrive Filosofov, che ho misu-rato il mio passo su un passo ancorapiù lento del passo dell’autunnoquando cambia un giardino, iosono vent’anni chesono ossessionatodai critici e questamemoria ho deciso discriverla solo cinque annifa e soltanto adesso, mi sono ri-solto, e prima che mi decida a diffonderla ce ne vorràdel tempo, dovrò riguardare tutto per bene anche certigiudizi, ho lasciato forse andare la mano certi giudizi

non so se passeranno la mia censura lenta e impietosa,mi son forse fatto trascinare dai sentimenti ma contro laforza dell’autunno quando cambia un giardino i senti-menti non hanno potere così come non hanno potere irimorsi ha forse rimorsi, l’autunno, per tutte le cose cheha fatto morire?»

Quel poema che cita Filosofov, quello che cominciaCome l’autunno cambia il giardino, è un poema di

Chlebnikov che si intitola La Rusalka. La cosamigliore che ho scritto, scrive Chlebnikov

nel 1921, è La Rusalka, scritta il 16, il 17 eil 19 ottobre del 1919, 365 righe. La ru-salka è chiamato a volte anche Il poeta,Il carnevale, Il poeta e la rusalka o La fe-

sta di primavera, e è un poema che Chleb-nikov ha scritto per via che lui, Chlebnikov,

tentava di prevedere il futuro.

Per via dello spazio, Chlebnikov avevastudiato matematica all’università diKazan’ e si considerava discepolo di Lo-bac̆evskij.

E se la lingua, viva e autentica sulle lab-bra del popolo, può essere equiparata alla

geometria di Euclide, non può il popolorusso permettersi il lusso, inaccessibileagli altri popoli, di creare una lingua simi-le alla geometria di Lobac̆evskij, a questaombra di altri mondi? Non ha diritto ilpopolo russo a questo lusso?

Per via del tempo, Chlebnikov conosceva ilavori di Einstein e Minkovskij, e come

quest’ultimo consideravail tempo la quarta di-mensione dello spazio.

Uomini! Il cervello degliuomini corre fino ad oggi

su tre gambe (tre assi dello spazio). Noi, che abbiamocoltivato il cervello umano come aratori, attacchiamoa questo cucciolo la quarta zampa, vale a dire l’asse

PAOLO NORI

Con stivali di occhi neri sui fiori del mio cuore

Morto in piedi di Giulia Ferrandi

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La buona novella

tanto dolce, e voi non lo potete nemmeno sapere il per-ché) e questa moda delle cinture smisurate, gilet col cap-puccio, maglioni a maniche corte, le camicie sbottonatenei primi 2-3 bottoni, rosa, azzurre, bianche, le canotteaderenti da mettere d’estate, col rossore della vergognadella propria femminilità o con l’arroganza di voler piace-re, magari per prendere il sole anzi, certamente per piace-re, per prendere il sole, sole, solo per sé stesse.

Non esistono più, le ragazze con i sandali sportivi,struccate, che portano come niente i pantaloni corti conle tasche e una larga t-shirt di cotone, col walk-man e lecuffie - non gli auricolari-, e compilazioni di amo-re e psiche in musicas-setta, e un libro di poe-sie nella cartella e la ri-voluzione bloccata perun ingorgo ematico trail cuore e la laringe: sonotutte morte. Erano ra-gazze-acqua, nel viso ri-cordavano la gioia e ri-voluzione che si ha dueminuti dopo aver parto-rito, ma avevano 20anni, partorivano pelu-che, anche se negli in-verni particolarmentevispi per le nostre ses-sualità notavano la pan-cia anormalmente cre-sciuta, e si rifugiavano con passione nelle nuove gineco-logie: erano figlie della luna, del cielo e del vento… orasono tutte morte. Avevano la luna in testa e sulla pelle, ilcielo negli occhi e il vento nella mente. Sono tutte mor-te. Dio è morto, è vivo, c’è, non c’e, o c’è ma non si fa tro-vare apposta? Le ha bestemmiate Dio, le ho create io.

Da qui vidi tutto, li ho visti i signorini bambini albeg-giare, le ragazze con la pesca in bocca rosseggiare, uomi-ni infranti nel cuore e nella mente diluviare, ragazzi-om-bra tacere per lunghe maree e successive glaciazioni, epoi all’improvviso bruciarsi a primavera, piromani di lorostessi, nel loro stesso foco (“ti vedo fioco, se non mi inna-mori ora stavolta ti sfoco…”), e gli invecchiati tuonare, egli eterni conoscenti sfumare, e i fighi tramontare. Vedotutti i giorni e più di una volta al giorno coscienze e inco-scienze sospirare, e ragazzi con una voragine nel cervello,e l’Apocalisse in fondo agli occhi, stralunare.

E la mia vita, che ti può portare in posti come questi.Io non sto male, sa? Il rancio qua è buono, anche se percolazione avrei preferito lo zucchero: la cioccolata conla morfina mi resta sullo stomaco. Se piangi, ti danno ilbudino, che trema come te, con te. Però nei pasti troppe

sono le patate, non si può saturare il dolore con le pata-te, gonfiano, i tubi vengono ostruiti dai tuberi, così in-grasso, e per educazione fisica apro e chiudo l’arma-dietto per ore. Spreco il presente, perché non ho futuro.Ho molti impegni nelle giornate, alle 18 faccio su e giùper il corridoio, centinaia di andirivieni senza la cintura,passeggio continuamente oppure circunnavigo la miastanza 1983 volte, in tuta da ginnastica. Colazione, pran-zo e cena sono gli eventi della giornata, l’elettrocardio-gramma, beh, no, quello è solo nei giorni di festa. Alla ra-dio ascolto molto «Pur se l’estate è finita t’amo an-

cor….». Stasera ho unimpegno: mi uccideròleggendo il finale de Lacoscienza di Zeno, cometutti i giorni dispari. Op-pure celebrerò i funera-li per tutti i moscerinimorti dentro le luci alneon intermittenti: seuno guarda attenta-mente, dentro a quellelampade c’è una stragedi moscerini fulminati, èun olocausto del mo-scerino. Bzzz..

Vede, io non lo so per-ché le ho uccise tutte,quelle coppiette, perchépersi gli occhi a guardarleaccarezzarsi soavemente,

dovrei ricordarmi quelle terribili estati al mare forse per ri-sponderle, proprio quelle dove vegetavo burro, giocavo aping pong con l’animaccia mia, quelle in cui mettevo unatesta nel secchio, con i pesci rossi ancora vivi, per trattenereil suicidio, per poter arrossire, e urlare tutta la mia inattitudi-ne nelle olimpiadi del salto in alto e in padella, del salto del-la quaglia, la totale mia impermeabilità agli aperitivi, agliantifecondativi e alle suonerie da scaricare, e nemmenoperché ho divorato la mia *, Giulia End cara, che già nel suocognome aveva il futuro nostro, la descrizione della miaFine, dopo averla bruciata, una volta imbalsamata nel free-zer, perchè non finisse mai, per poterle ancora dare un ba-cio con la lingua tra i suoi capelli in argento.

So, anzi, le dedico una brutta poesia, fa così2. So chevorrei ascoltare una bella canzone, magari, e ballarlacon lei, commissario, professore, dottoressa, le possodare del lei vero?, lei che è una persona così dolce, al-meno lei… ta ……ta…..tta……laralllalà…una musica,così…come questa……..posso?...............

[email protected]

Edward Munch, Vampiro (1893-94), dipinto, Munch Museet, Oslo [Norvegia]

2 Schegge di occhi azzurri che divengono vetroschegge di occhi azzurri che divengono acquaschegge di occhi azzurri che diventano cielo.

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del tempo. Cucciolo sciancato! Non strazierai più ilnostro udito con i tuoi brutti latrati.

Il passato il presente e il futuro, secondo Chlebnikov,esistevano contemporaneamente, era come se fosse-ro adagiati in una quarta dimensione che si allargavain una direzione diversa da lunghezza larghezza eprofondità, una direzione che noi non eravamo anco-ra capaci di percepire ma che esisteva come esistonole altre tre, a dispetto di Kant, che aveva cercato sen-za riuscirci, di dimostrare che la tridimensionalità del-lo spazio era un concetto a priori che aveva a che farecon la natura dell’uomo e che non c’era da discutereche era così e basta.

Kant, che voleva determinare i limiti dell’intellettoumano, ha determinato i limiti dell’intelletto tedesco.S’è confuso.

Chlebnikov si sforzerà per tutta la vita di misurare iltempo, di renderlo con formule matematiche, di vede-re, secondo il paradosso di Mommsen, gli effetti del fu-turo nel passato e di prevedere, attraverso lo studiodel passato, il futuro. Vladimir Markov si meraviglia chenei suoi calcoli Chlebnikov delle volte ci prende. E ineffetti Chlebnikov, nella seconda metà del 1911 preve-de che c’è da aspettarsi, per il 1917, la caduta dell’im-pero russo. È una previsione, va detto, che non muoveda un’idea dialettica della storia, la rivoluzione perChlebnikov non è la conseguenza di una particolarearretratezza dello stato russo o delle terribili condizio-ni di vita delle masse operaie e contadine, è la conse-guenza del fatto che nel 534 fu assoggettato il regnodei vandali. Nel 534 fu assoggettato il regno dei van-dali, scrive Chlebnikov, non dovremmo dunque aspet-tarci, per il 1917, la caduta di uno stato? SecondoChlebnikov gli eventi storici si susseguono seguendoleggi che sono simili a quelle che regolano la diffusio-ne della luce, e sono, come quelle, calcolabili, se si tie-ne presente che l’angolo di rifrazione è uguale all’an-golo di incidenza e che a un evento storico di una de-terminata portata corrisponde, dopo un preciso inter-vallo di tempo, un evento uguale e contrario. Nell’au-tunno del 1911 Chlebnikov spedisce il suo Saggio sul

significato delle cifre e sui modi di prevedere il futuroa Aleksandr Alekseeviã Nary‰kin, che reggeva il mini-stero dell’agricoltura e del demanio statale, accompa-gnandolo con una lettera: Desiderando verificare, perquestioni connesse al mio lavoro, la possibilità di pre-vedere il futuro, ho realizzato una previsione che ri-guarda i non tanto lontani 1917 e 1919, e glieLa man-do, sperando nella Sua illuminata attenzione. Dal mo-mento che né Aleksandr Alekseeviã Nary‰kin, né nes-sun altro del ministero dell’agricoltura e del demaniostatale gli risponde, Chlebnikov tra il 1912 e il 1913 lasua previsione la pubblica tre volte. Majakovskij, unpaio d’anni dopo, nel 1915, nella sua celeberrima Nu-vola in calzoni scriveva: Vedo venire attraverso le mon-tagne del tempo / qualcuno che nessun altro vede. /Dove l’occhio degli uomini frana monco, / là, testa diorde affamate, / con la corona di spine delle rivoluzio-ni / s’avanza l’anno sedici. È vero che sbaglia, ma dipoco, solo di un anno.

Chlebnikov continua anche dopo la rivoluzione, a farle sue previsioni e per un certo giorno del 1919 preve-de che nella città ucraina di Char’kov ci sarà un colpodi mano, e va a Char’kov a verificare i suoi calcoli. Qual-che giorno dopo scrive una lettera a un poeta che erastato a suo tempo egofuturista, Gnedov, Avevo ragio-ne, gli scrive, la città è stata presa dalle truppe bianchedi Denikin. Solo che purtroppo, mi vogliono arruolareper forza nell’esercito volontario. L’unico modo perevitare l’arruolamento era avere un certificato medicoche testimoniasse che non si era adatti al servizio mi-litare, e fu così che Chlebnikov finì in manicomio. Nel1935, nel primo numero degli Atti della terza clinicaospedaliera di Krasnodar, viene pubblicata una me-moria del professor Vladimir Jakovleviã Anfimov inti-tolata Sul problema della psicopatologia nell’arte. An-fimov ricorda che nel rigoroso inverno del 1919, nelleenormi e mal riscaldate corsie dell’ospedale psichiatri-co panrusso del governatorato di Char’kov, attirò lasua attenzione l’originale personalità di un malato. Adire il vero, scrive Anfimov, non era un vero e propriomalato, si trovava tra quelli per i quali gli specialisti do-vevano decidere se il loro stato di salute psichico-ner-vosa permetteva la partecipazione alle operazioni mi-

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Nevrotica2 di Luca Martignani

La buona novella

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La buona novella

litari, e si chiamava Viktor Vladimiroviã Chlebnikov.Alto, con arti lunghi e sottili, un viso oblungo e tran-quilli occhi grigi, scrive Anfimov, era avvolto in un leg-gera coperta demaniale, e vi raccoglieva sotto i grandipiedi, che sembravan coperti da qualcosa di simile adelle scarpe. Pensieroso, non si lamentava mai delledisgrazie di quel duro periodo, era come se non no-tasse le privazioni, e fu rallegrato dall’apparizione diuna persona che aveva con lui interessi comuni, epronto a sottoporsi all’analisi medica e psicologico-sperimentale. Credo di non sbagliare, scrive Anfimov,se dico che per lui fu un’esperienza interessante. Traaltri esami che fece fare a Chlebnikov, per verificare l’e-stensione della sua fantasia Anfimov gli chiese di scri-vere qualcosa sui temi della caccia, della luce lunare edel carnevale. Chlebnikov, scrive Anfimov, cominciò acoprire con grafia minuta dei fogli di carta che a pocoa poco si accumularono intorno a lui in mucchi. A pro-posito della caccia e della luce lunare scrisse il raccon-to La caccia, pubblicato per la prima volta nell’articolodi Anfimov e poi incluso nella raccolta degli ineditiche uscì nel 1940, e il poema La luce lunare, che sareb-be poi entrato a far parte delle Tavole del destino. Ilterzo tema, scrive Anfimov, provocò la nascita di unpiccolo poema di 365 versi, poi pubblicato nella rac-colta delle opere del poeta uscita nel 1923 con il tito-lo La rusalka. L’originale, che conservo, è intitolato Ilcarnevale, e termina con una dedica che mi è cara, scri-ve Anfimov nel 1935 nel primo numero degli Atti del-la terza clinica ospedaliera di Krasnodar. Chlebnikovapparteneva, nelle conclusioni di Anfimov, al tipo de-gli impulsivi, originali e strambi, e non era adatto alservizio militare.

Come l’autunno cambia il giardino,Porta la porpora, color blu del rame,E una cascata di pietre non preziose

Precede la vittoria delle nevi,E col calore del più chiaro sognoSon decorati i tronchi di betullaE a salutare il verde dell’estate

Vola l’uccello, araldo dell’inverno,Dove di un fine scialle d’oro

Si veste il ripido pendio delle collineE solo la pianura e i fossi

Sono spettrali e nudi,E l’azzurro silenzio

Chiamava le parole del profeta,Così la festa del carnevale dell’anima

Eterna con gioia spensierataNasconde il giorno poco duraturo

Nasconde il corto camminar del soleGetta per terra il panno dell’inverno

E, per imbrogliare il tempo,Corre là, veloce più del daino.

Occhio filosofico di Giulia Ferrandi

del tempo. Cucciolo sciancato! Non strazierai più ilnostro udito con i tuoi brutti latrati.

Il passato il presente e il futuro, secondo Chlebnikov,esistevano contemporaneamente, era come se fosse-ro adagiati in una quarta dimensione che si allargavain una direzione diversa da lunghezza larghezza eprofondità, una direzione che noi non eravamo anco-ra capaci di percepire ma che esisteva come esistonole altre tre, a dispetto di Kant, che aveva cercato sen-za riuscirci, di dimostrare che la tridimensionalità del-lo spazio era un concetto a priori che aveva a che farecon la natura dell’uomo e che non c’era da discutereche era così e basta.

Kant, che voleva determinare i limiti dell’intellettoumano, ha determinato i limiti dell’intelletto tedesco.S’è confuso.

Chlebnikov si sforzerà per tutta la vita di misurare iltempo, di renderlo con formule matematiche, di vede-re, secondo il paradosso di Mommsen, gli effetti del fu-turo nel passato e di prevedere, attraverso lo studiodel passato, il futuro. Vladimir Markov si meraviglia chenei suoi calcoli Chlebnikov delle volte ci prende. E ineffetti Chlebnikov, nella seconda metà del 1911 preve-de che c’è da aspettarsi, per il 1917, la caduta dell’im-pero russo. È una previsione, va detto, che non muoveda un’idea dialettica della storia, la rivoluzione perChlebnikov non è la conseguenza di una particolarearretratezza dello stato russo o delle terribili condizio-ni di vita delle masse operaie e contadine, è la conse-guenza del fatto che nel 534 fu assoggettato il regnodei vandali. Nel 534 fu assoggettato il regno dei van-dali, scrive Chlebnikov, non dovremmo dunque aspet-tarci, per il 1917, la caduta di uno stato? SecondoChlebnikov gli eventi storici si susseguono seguendoleggi che sono simili a quelle che regolano la diffusio-ne della luce, e sono, come quelle, calcolabili, se si tie-ne presente che l’angolo di rifrazione è uguale all’an-golo di incidenza e che a un evento storico di una de-terminata portata corrisponde, dopo un preciso inter-vallo di tempo, un evento uguale e contrario. Nell’au-tunno del 1911 Chlebnikov spedisce il suo Saggio sul

significato delle cifre e sui modi di prevedere il futuroa Aleksandr Alekseeviã Nary‰kin, che reggeva il mini-stero dell’agricoltura e del demanio statale, accompa-gnandolo con una lettera: Desiderando verificare, perquestioni connesse al mio lavoro, la possibilità di pre-vedere il futuro, ho realizzato una previsione che ri-guarda i non tanto lontani 1917 e 1919, e glieLa man-do, sperando nella Sua illuminata attenzione. Dal mo-mento che né Aleksandr Alekseeviã Nary‰kin, né nes-sun altro del ministero dell’agricoltura e del demaniostatale gli risponde, Chlebnikov tra il 1912 e il 1913 lasua previsione la pubblica tre volte. Majakovskij, unpaio d’anni dopo, nel 1915, nella sua celeberrima Nu-vola in calzoni scriveva: Vedo venire attraverso le mon-tagne del tempo / qualcuno che nessun altro vede. /Dove l’occhio degli uomini frana monco, / là, testa diorde affamate, / con la corona di spine delle rivoluzio-ni / s’avanza l’anno sedici. È vero che sbaglia, ma dipoco, solo di un anno.

Chlebnikov continua anche dopo la rivoluzione, a farle sue previsioni e per un certo giorno del 1919 preve-de che nella città ucraina di Char’kov ci sarà un colpodi mano, e va a Char’kov a verificare i suoi calcoli. Qual-che giorno dopo scrive una lettera a un poeta che erastato a suo tempo egofuturista, Gnedov, Avevo ragio-ne, gli scrive, la città è stata presa dalle truppe bianchedi Denikin. Solo che purtroppo, mi vogliono arruolareper forza nell’esercito volontario. L’unico modo perevitare l’arruolamento era avere un certificato medicoche testimoniasse che non si era adatti al servizio mi-litare, e fu così che Chlebnikov finì in manicomio. Nel1935, nel primo numero degli Atti della terza clinicaospedaliera di Krasnodar, viene pubblicata una me-moria del professor Vladimir Jakovleviã Anfimov inti-tolata Sul problema della psicopatologia nell’arte. An-fimov ricorda che nel rigoroso inverno del 1919, nelleenormi e mal riscaldate corsie dell’ospedale psichiatri-co panrusso del governatorato di Char’kov, attirò lasua attenzione l’originale personalità di un malato. Adire il vero, scrive Anfimov, non era un vero e propriomalato, si trovava tra quelli per i quali gli specialisti do-vevano decidere se il loro stato di salute psichico-ner-vosa permetteva la partecipazione alle operazioni mi-

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Nevrotica2 di Luca Martignani

La buona novella

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La buona novella

La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toc-cano il pavimento gelido della stanzetta in cui dormetutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna.Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campa-gna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lenta-mente le scale di legno che scricchiolano non-ostante la bambina sia magramagra. Spe-ro che i nonni non mi sentano spero che inonni non mi sentano…

Sara si sveglia di colpo in un bagnodi sudore. Le lenzuola sono arrotolateintorno al suo corpo. Le ombre si rin-corrono sulle pareti silenziose, appe-na rischiarate dalla luna. Le finestresono spalancate, ma l’aria è densa epesante. Sara allunga il braccio ver-so l’interruttore e una pacata luceazzurrognola illumina la stanza. Sul-le lenzuola, tracce di sangue rap-preso. I tagli sulle braccia e sullegambe sembrano fare fatica arimarginarsi. Sara ha unbrivido ripensandoalla sera prima, alcoltello tra le manidi Thomas, al modoin cui lui la guarda dopoaverla legata. Ha sete. Sialza e va in bagno. Laluce al neon le ri-manda nello spec-chio l’immagine diuna donna stravolta.Sul collo i due segnidel coltello a doppia punta.Sara si inginocchia davanti alla tazza del water e vomitaanche l’anima. Poi sviene sul pavimento.

Terzo mese di terapia con Thomas. L’esimio Dott.Thomas Friedberg, della scuola freudiana di Vienna. Daanni in Italia. Sara ha cominciato ad andare da lui dopoun mese che faceva ogni notte lo stesso sogno. La bam-bina e le scale che scricchiolano. E una lama nel buio.Thomas continua a chiederle chi è quella bambina econtinua a dirle che quella lama nel sogno lei non la

vede. Ma Sara la sente. C’è. Thomas e Sara fanno terapiatre volte a settimana e alcune notti l’esimio Dottore sidimentica della deontologia professionale. Thomas leha detto che quel sogno è sicuramente legato ad unepisodio della sua infanzia ben rimosso dalla sua me-moria. E poi ha voluto sapere tutto delle storie di Saracon gli uomini. Lei gli ha raccontato con calma di rap-porti malati, come se fosse l’unico modo che lei cono-

sce. Storie di ordinaria e

s o t t i -lissima vio-

lenza psicologi-ca, accompagnate

sempre da venature sado-maso. E lei era certa che

quello fosse amore. Tho-mas si era subito ac-

corto della stranafascinazione che il

suo tagliacarte d’ar-gento esercitava su

Sara e cominciò a giocarcimentre la ascoltava. Le lasciò il numero di

cellulare dicendole di chiamarlo anche di notte dopo ilsogno che ormai la svegliava ripetutamente. Dopo laprima telefonata, circa un paio di settimane dall’iniziodella terapia, tutto precipitò. E ora, quando lui arriva acasa sua in piena notte e la trova sconvolta, mentre lalega al letto, le spiega che quella lama che lei sente bi-sogna farla apparire, chiamarla. È necessario che quellalama riaffiori dal suo inconscio per poi distruggerla.

La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toc-cano il pavimento gelido della stanzetta in cui dormetutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna.Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campa-gna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lenta-mente le scale di legno che scricchiolano nonostante labambina sia magramagra. Spero che i nonni non mi sen-

SARA PASQUINO

Lei sente che lui lama

Lama di Giulia Ferrandi

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tano spero che i nonni non mi sentano…La bambina ar-riva alla fine delle scale, apre lentamente la porta del ca-solare ed esce nella pungente aria mattutina. Ora il be-lato si sente più forte. È straziante. Lei lo segue. I piedinipestano l’erba ancora bagnata dal temporale della not-te. La bambina si stringe nella sua camiciola leggera perproteggersi dal freddo. I rami spogli degli alberi si al-lungano nel chiarore del cielo come zampe di ragni im-mensi. Il belato proviene da dietro la casa. Forse dallestalle. Ho paura ho paura ho paura…

Thomas sa come tranquillizzarla dopo il sogno. Letiene la testa sulle ginocchia e le racconta di come la te-rapia stia funzionando. Sara lo sente. La ama. Nessun al-tro si era mai preso cura di lei come fa lui. Il freddo del-le lame sul corpo e poi il calore dei baci di Thomas. E poilui la rispetta. Non la vuole mai possedere. Thomas traeil suo massimo godimento dal piacere che prova leiquando lui le incide la pelle. Tagli netti, sottili, precisi. Undolore così vicino all’estasi. Thomas le ha spiegato cheper svelare tutto ciò che il suo inconscio nasconde, pri-ma Sara deve riprendere coscienza totale del suo corpo.E il dolore è l’unico modo. Mai prima d’ora Sara avevasentito così pienamente il suo corpo. I coltelli e i taglie-rini che usa Thomas stimolano i sensi di Sara. E lei siguarda, mentre il sangue scorre in sottili e brevi rivolisulla sua pelle bianca e si vede bellissima. Per la primavolta. Il copione è sempre lo stesso. I taglierini comin-ciano sulle caviglie e risalgono lungo l’interno coscia.Ma Thomas esercita solo una leggera pressione sullelame. Poi, incide la pelle all’altezza delle creste iliache,due taglietti veloci che portano Sara ad inarcare il baci-no. Thomas poi afferra un coltello da caccia, seghettato,e lo fa scorrere dal ventre verso la gola, lentamente, rac-contandole di antiche battute di caccia. Il belato si sentepiù forte. Tra i due seni, incide la pelle, fermandosi poi adosservare il sangue che scivola verso l’ombelico. È lavolta poi di un normale coltello da tavola, d’argento,che Thomas passa di piatto dai polsi alle spalle, taglian-do qua e là la pelle morbida dell’interno delle braccia.Arrivato al massimo dell’eccitazione, l’esimio Dottoreafferra il coltello da arrosto con la doppia punta e sci-volando con il suo corpo su quello di Sara le ferisce ilcollo, lasciandole un segno che sembra il bacio di unvampiro. In quel momento Sara di solito lo prega di pe-netrarla. Glielo urla. Lui le dà piacere. E’ giusto che lei fac-cia lo stesso. Questo è vero amore. Lui lo fa raramente. Larispetta tanto che spesso non ci riesce.

La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toc-cano il pavimento gelido della stanzetta in cui dorme tut-te le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna. Fuo-ri sta albeggiando nel silenzio irreale della campagna, malei sente quel belato straziante. Scende lentamente lescale di legno che scricchiolano nonostante la bambinasia magramagra. Spero che i nonni non mi sentano speroche i nonni non mi sentano…La bambina arriva alla finedelle scale, apre lentamente la porta del casolare ed escenella pungente aria mattutina. Ora il belato si sente piùforte. E’ straziante. Lei lo segue. I piedini pestano l’erba an-cora bagnata dal temporale della notte. La bambina sistringe nella sua camiciola leggera per proteggersi dalfreddo. I rami spogli degli alberi si allungano nel chiaroredel cielo come zampe di ragni immensi. Il belato provie-ne da dietro la casa. Forse dalle stalle. Ho paura ho pauraho paura…La bambina costeggia il muro della vecchiacasa che puzza di umido. La sterpaglia le graffia le cavi-glie. Il vento scuote l’aria. Il belato è più vicino. La portadella stalla è aperta. La bambina non ha il coraggio di var-care quella soglia. Il belato riempie ogni spazio di ciò cherimane della notte. Ma questo è Neve il mio agnellino maquesto è Neve il mio agnellino…

Sara si sveglia di botto. Ha un sapore dolciastro inbocca. Ieri sera Thomas le ha tagliato un labbro. Sta al-beggiando. Ieri sera lei ha sentito dolore quando lui letagliava il labbro. Le stava raccontando che una voltaera così che si segnavano i capi di bestiame, soprattut-to gli agnelli. In quel momento, Sara ha avuto uno scat-to e ha cercato di divincolarsi, ma i legacci erano benstretti. Per la prima volta Sara ha provato fastidio mistoa rabbia. Soprattutto gli agnelli. Thomas si è arrabbiatoquando lei gli ha chiesto di slegarla. Le ha detto, con dis-appunto malcelato, che la terapia doveva continuare,ma lei gli ha risposto che non si stava divertendo. Forseera solo stanca. E lui l’ha penetrata con rabbia. Lei nonha sentito nulla, se non pena per sé stessa. Per la primavolta. Thomas l’ha slegata e se n’è andata in malo modo.Non va bene. Sara respira a fondo e ripensa al sogno. E’stranamente lucida. Quella bambina, l’agnello e i nonnie la lama. Dov’è? Sente prurito ad una spalla e si gratta.È umida. Si è riaperta una ferita con l’unghia. Sara si alzae si abbandona sotto ad una doccia calda.

La bambina si avvicina lentamente all’ingresso dellastalla e si affaccia, mentre il belato le squarcia la mente.E vede il lavorante dei nonni, di schiena, e un baluginionella sua mano destra, mentre con la sinistra tiene qual-

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La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toc-cano il pavimento gelido della stanzetta in cui dormetutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna.Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campa-gna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lenta-mente le scale di legno che scricchiolano non-ostante la bambina sia magramagra. Spe-ro che i nonni non mi sentano spero che inonni non mi sentano…

Sara si sveglia di colpo in un bagnodi sudore. Le lenzuola sono arrotolateintorno al suo corpo. Le ombre si rin-corrono sulle pareti silenziose, appe-na rischiarate dalla luna. Le finestresono spalancate, ma l’aria è densa epesante. Sara allunga il braccio ver-so l’interruttore e una pacata luceazzurrognola illumina la stanza. Sul-le lenzuola, tracce di sangue rap-preso. I tagli sulle braccia e sullegambe sembrano fare fatica arimarginarsi. Sara ha unbrivido ripensandoalla sera prima, alcoltello tra le manidi Thomas, al modoin cui lui la guarda dopoaverla legata. Ha sete. Sialza e va in bagno. Laluce al neon le ri-manda nello spec-chio l’immagine diuna donna stravolta.Sul collo i due segnidel coltello a doppia punta.Sara si inginocchia davanti alla tazza del water e vomitaanche l’anima. Poi sviene sul pavimento.

Terzo mese di terapia con Thomas. L’esimio Dott.Thomas Friedberg, della scuola freudiana di Vienna. Daanni in Italia. Sara ha cominciato ad andare da lui dopoun mese che faceva ogni notte lo stesso sogno. La bam-bina e le scale che scricchiolano. E una lama nel buio.Thomas continua a chiederle chi è quella bambina econtinua a dirle che quella lama nel sogno lei non la

vede. Ma Sara la sente. C’è. Thomas e Sara fanno terapiatre volte a settimana e alcune notti l’esimio Dottore sidimentica della deontologia professionale. Thomas leha detto che quel sogno è sicuramente legato ad unepisodio della sua infanzia ben rimosso dalla sua me-moria. E poi ha voluto sapere tutto delle storie di Saracon gli uomini. Lei gli ha raccontato con calma di rap-porti malati, come se fosse l’unico modo che lei cono-

sce. Storie di ordinaria e

s o t t i -lissima vio-

lenza psicologi-ca, accompagnate

sempre da venature sado-maso. E lei era certa che

quello fosse amore. Tho-mas si era subito ac-

corto della stranafascinazione che il

suo tagliacarte d’ar-gento esercitava su

Sara e cominciò a giocarcimentre la ascoltava. Le lasciò il numero di

cellulare dicendole di chiamarlo anche di notte dopo ilsogno che ormai la svegliava ripetutamente. Dopo laprima telefonata, circa un paio di settimane dall’iniziodella terapia, tutto precipitò. E ora, quando lui arriva acasa sua in piena notte e la trova sconvolta, mentre lalega al letto, le spiega che quella lama che lei sente bi-sogna farla apparire, chiamarla. È necessario che quellalama riaffiori dal suo inconscio per poi distruggerla.

La bambina ha un brivido quando i suoi piedini toc-cano il pavimento gelido della stanzetta in cui dormetutte le volte che va a trovare i suoi nonni in campagna.Fuori sta albeggiando nel silenzio irreale della campa-gna, ma lei sente quel belato straziante. Scende lenta-mente le scale di legno che scricchiolano nonostante labambina sia magramagra. Spero che i nonni non mi sen-

SARA PASQUINO

Lei sente che lui lama

Lama di Giulia Ferrandi

Page 12: Ogra XI / Il matto

cosa che la bambina non riesce a vedere. La bambina in-ciampa in un secchio e l’uomo si gira e la vede. «Cosa faigià alzata a quest’ora? Mettiti lì nell’angolo e stai buona.Ho quasi finito e oggi la tua nonna ce lo cucina con lepatatine croccanti.» La mano destra dell’uomo stringeun coltello, la mano sinistra è serrata intorno al collo diNeve, il suo agnellino. La bambina si rannicchia in un an-golo, le ginocchia raccolte a sé. Vorrebbe urlare, ma l’u-

nica cosa che riesce a fare èspalancare la bocca dalla

quale non esce alcunsuono. Il coltello del-

l’uomo affonda nellagola dell’agnello. Il

belato cessa. Il si-lenzio piombacome un maci-gno sulle lacri-me che riganole guance dellabambina. L’uo-mo si mette apulire e non siaccorge dello

sguardo dellabambina che tra-

suda odio e orro-re. Il coltello sporco

di sangue riluce nelbagliore della lam-

pada. Io mi fidavo dilui. La bambina si

alza. Sente unaforza quasi da

grande. Si av-vicina al ta-volo dovel’uomo ha

appoggia-to il col-

t e l l o .

L’uomo sbuffa di fatica mentre pulisce l’agnello. Io mi fi-davo di te e tu hai ucciso il mio amico io mi fidavo di te e tuhai ucciso il mio amico…

“Thomas ti prego vieni qui. Ora è tutto chiaro. Sai la te-rapia ha funzionato. Ho visto tutto. No ti prometto che micomporterò bene. Te lo giuro. Ti prego. Grazie. Ti aspetto.”

Thomas le accarezza la testa, poi, senza una parola,comincia a legarla. Il taglierino scorre sulle gambe. Lapiccola Sara è accucciata in un angolo che guarda laSara grande. La bocca silenziosa spalancata. Il coltelloda caccia scorre dal ventre alla gola. Le lacrime solcanoil viso della piccola Sara. La Sara grande sente dolore. Iomi fidavo di te. Thomas continua il suo lavoro. Afferra ilcoltello con la doppia punta. La Sara grande piange. Lapiccola Sara si copre gli occhi. Ma poi si alza e fissa laSara grande negli occhi mentre Thomas la penetra e leincide il collo come un vampiro. La piccola Sara afferra ilcoltello dal tavolo di fianco al lavorante dei nonni. La Saragrande estrae con facilità i polsi dai legacci, mentre Tho-mas si stende nel dormiveglia dell’orgasmo. La piccolaSara si avvicina alla schiena dell’uomo che non si accorgedi nulla. La Sara grande cerca con la mano il coltello adoppia punta. Il petto di Thomas va su e giù ritmica-mente, ansimante. La piccola Sara affonda il coltello nelfianco dell’uomo, con una forza sovrumana. L’uomo presodi sorpresa non riesce a reagire e allora lei affonda ancorae ancora. La Sara grande spinge la doppia punta nelcuore di Thomas che non capisce cosa succede. Alloralei continua. L’uomo si accascia e la piccola Sara ridementre il corpo senza vita piomba a terra con gli occhispalancati. La Sara grande continua a crivellare il corpodi Thomas che sussulta e urla incredulo e inutilmentesotto quei colpi di una furia inaudita. Poi tutto tace. LaSara grande ride. La piccola Sara torna in fretta in casa.Tanto la nonna mi laverà la camiciola. L’ho sporcata tutta.Speriamo che non si arrabbi. La Sara grande non ama piùThomas.

La piccola Sara non venne neanche chiamata in cau-sa. Si parlò di un pazzo che si aggirava per le campagne.

La Sara grande unisce i puntini sul petto di Thomascon un dito intinto nel sangue.

[email protected]

La buona novella

Sanguinaria di Giulia Ferrandi

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La prima volta che metto i pesci rossi nel freezer, suldavanzale schizzano proiettili di grandine.

Dalla sala da pranzo, percepisco perfettamente papàfare la voce grossa con Dio. E lo immagino, con gli occhisbarrati e il collo della bottiglia appeso alle lab-bra. Una protesi a forma di proboscide.

Mamma entra in cucina urtan-do la ciotola del latte per il gat-to che ho appena spostatovicino alla credenza. Nep-pure si accorge del la-ghetto bianco sul pavi-mento. Le sue manitremanti afferrano afatica pillola e bic-chiere, prima di in-trecciarsi fra loro. Alposto degli occhi hadue batuffoli di pol-vere sudati puntativerso l’alto. Voltataverso la finestra, a con-templare i campi di me-loni devastati dalla tem-pesta che non accenna aplacarsi, non bada a me.

Apro il freezer e prendo inmano la boccia di vetro. Tom e Jerry,seppur a fatica, ancora muovono lepinne. Li ho chiamati così nel mo-mento stesso in cui li ho vinti sullegiostre. Tom è il più grosso, quello che si muove più lenta-mente. L’altro è un missile. A volte mi siedo a spiarli perminuti interi e alla fine mi gira la testa. Se stessero fermipotrei finalmente vederli bene.

Ripongo la boccia nel freezer, incastrandola fra i sur-gelati e la bottiglia di vodka al limone. Jerry nuota ra-dente alla superficie, se fosse uno squalo il minacciosotriangolo scuro avrebbe già fatto il vuoto attorno a sé.

Chiudo l’anta, mi avvicino a mamma e tiro il grem-biule. Lei si fa il segno della croce e mi prende in brac-cio. Il suo collo odora di miele.

In lontananza, tuoni e il rumore di una bottiglia divetro in frantumi.

La prima volta che risorgo dai morti ho un ago infila-

to in ogni braccio e due vistose fasciature ai polsi. Jennyè coricata accanto a me e mi tiene la mano. Dice che ledispiace, ma non ha potuto fare di più. È stata lei a intru-folarsi fra le latrine del secondo piano, quelle proibite, e

a rubare il rasoio. Ed è stata lei a recidere lavena, mentre io fissavo il muro di cinta

in fondo al cortile e masturbavo lelabbra con una smorfia.

Jenny.Da dieci anni la mia

unica amica. Sorella,amante, madre e figlia.

La prima voltache incontro Jennylei compare dalnulla, portata forsedal vento insiemealla grandine.

Papà mi rincorrecon in mano la cin-

ghia e bestemmia. Hadecine di piccole

schegge conficcate sulviso e dagli zigomi scorro-

no rivoli di sangue.Sul pavimento, le pinne di

Tom e Jerry, sbiadite e immobili e labottiglia di vodka al limone.

Affondo le ciabatte nel prato edai talloni si alzano zollette di fango.

Sposto nelle gambe tutta la mia flebile forza e mifaccio strada fra i meloni bucherellati, già condannati amarcire sotto i primi raggi del sole che filtrano in mez-zo a nuvole tornate a colorarsi di latte. In lontananza, lavoce di mamma lo implora di lasciar perdere. In nomedi Dio, della sua misericordia e delle troppe sfortuneche già ho avuto. Non colpa sua, lui non capisce, urlamescolando la saliva alle lacrime. Ma è inutile. Dietro dime, gli ansimi di papà sono sempre più vicini. Corre,sbuffa e bestemmia. La cinghia gli cala dalle dita comefosse un’estensione naturale del suo braccio.

Entro nella stalla accolto da muggiti scomposti simili aun presagio. Inciampo fra gli attrezzi, ma a fatica rimangoin piedi, finché sento la stoffa della maglietta allungarsi edue macigni calarmi sulle spalle e sbattermi a terra.

GABRIELE FALCO

Pesci rossi - scritto il 21/6/2005 -

Pesci rossi di Giulia Ferrandi

La buona novella

cosa che la bambina non riesce a vedere. La bambina in-ciampa in un secchio e l’uomo si gira e la vede. «Cosa faigià alzata a quest’ora? Mettiti lì nell’angolo e stai buona.Ho quasi finito e oggi la tua nonna ce lo cucina con lepatatine croccanti.» La mano destra dell’uomo stringeun coltello, la mano sinistra è serrata intorno al collo diNeve, il suo agnellino. La bambina si rannicchia in un an-golo, le ginocchia raccolte a sé. Vorrebbe urlare, ma l’u-

nica cosa che riesce a fare èspalancare la bocca dalla

quale non esce alcunsuono. Il coltello del-

l’uomo affonda nellagola dell’agnello. Il

belato cessa. Il si-lenzio piombacome un maci-gno sulle lacri-me che riganole guance dellabambina. L’uo-mo si mette apulire e non siaccorge dello

sguardo dellabambina che tra-

suda odio e orro-re. Il coltello sporco

di sangue riluce nelbagliore della lam-

pada. Io mi fidavo dilui. La bambina si

alza. Sente unaforza quasi da

grande. Si av-vicina al ta-volo dovel’uomo ha

appoggia-to il col-

t e l l o .

L’uomo sbuffa di fatica mentre pulisce l’agnello. Io mi fi-davo di te e tu hai ucciso il mio amico io mi fidavo di te e tuhai ucciso il mio amico…

“Thomas ti prego vieni qui. Ora è tutto chiaro. Sai la te-rapia ha funzionato. Ho visto tutto. No ti prometto che micomporterò bene. Te lo giuro. Ti prego. Grazie. Ti aspetto.”

Thomas le accarezza la testa, poi, senza una parola,comincia a legarla. Il taglierino scorre sulle gambe. Lapiccola Sara è accucciata in un angolo che guarda laSara grande. La bocca silenziosa spalancata. Il coltelloda caccia scorre dal ventre alla gola. Le lacrime solcanoil viso della piccola Sara. La Sara grande sente dolore. Iomi fidavo di te. Thomas continua il suo lavoro. Afferra ilcoltello con la doppia punta. La Sara grande piange. Lapiccola Sara si copre gli occhi. Ma poi si alza e fissa laSara grande negli occhi mentre Thomas la penetra e leincide il collo come un vampiro. La piccola Sara afferra ilcoltello dal tavolo di fianco al lavorante dei nonni. La Saragrande estrae con facilità i polsi dai legacci, mentre Tho-mas si stende nel dormiveglia dell’orgasmo. La piccolaSara si avvicina alla schiena dell’uomo che non si accorgedi nulla. La Sara grande cerca con la mano il coltello adoppia punta. Il petto di Thomas va su e giù ritmica-mente, ansimante. La piccola Sara affonda il coltello nelfianco dell’uomo, con una forza sovrumana. L’uomo presodi sorpresa non riesce a reagire e allora lei affonda ancorae ancora. La Sara grande spinge la doppia punta nelcuore di Thomas che non capisce cosa succede. Alloralei continua. L’uomo si accascia e la piccola Sara ridementre il corpo senza vita piomba a terra con gli occhispalancati. La Sara grande continua a crivellare il corpodi Thomas che sussulta e urla incredulo e inutilmentesotto quei colpi di una furia inaudita. Poi tutto tace. LaSara grande ride. La piccola Sara torna in fretta in casa.Tanto la nonna mi laverà la camiciola. L’ho sporcata tutta.Speriamo che non si arrabbi. La Sara grande non ama piùThomas.

La piccola Sara non venne neanche chiamata in cau-sa. Si parlò di un pazzo che si aggirava per le campagne.

La Sara grande unisce i puntini sul petto di Thomascon un dito intinto nel sangue.

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La buona novella

Sul viso di papà i cocci sugli zigomi e gli occhi spiritati fan-no a gara per luccicare più intensamente. Io sbavo dal labbro edemetto una lunga sequenza di suoni gutturali. Se la mia boccasapesse parlare chiederebbe pietà.

Mi riempie la guancia di sberle e si rialza in piedi, caricandoverso l’alto il braccio con la cinghia.

È in quel momento che Jenny arriva a salvarmi. Mi gira suun fianco, facendo mancare al primo colpo il bersaglio. Dalloslancio, papà perde l’equilibrio, Jenny gli dà il colpo di grazia conun calcio alla caviglia che lo fa rotolare a terra. Atterra con il visosulle punte di un rastrello steso in un angolo, cinicamente in at-tesa della vittima predestinata. Mi piace pensare che anchequesta sia opera di Jenny.

L’ultima volta che metto i pesci nel freezer Jennyraccomanda attenzione. Siamo nella cucina del pia-no proibito, stasera Jenny è riuscita a rubare le chiaviall’infermiere coi baffi. Glieli ha sfilate silenziosamen-te dalla tasca, mentre io contorcevo le gambe e lebraccia e fingevo di colare schiuma dalle labbra.

Le chiedo perché non farlo nel modo più semplice.Con un coltello, ad esempio. Ma appena vede la boccia conTom e Jerry, lei sogghigna. Se ha funzionato per papà, funzio-nerà anche per me.

L’ultima volta che vedo mamma, lei piange a dirotto e mibatte forte le nocche sul petto. Dice che mi odia. Mai quanto ioodiavo lui, penso guardando gli occhi di papà fissare strabuz-zati lo sciame di insetti che gli succhiano il sangue. Se la miabocca sapesse tradurre i pensieri in parole lo urlerebbe fino aprosciugarmi i polmoni. Invece, si accontenta di grugnire e sba-vare schiuma.

I muggiti rimbombano e la mangiatoia di fronte ame incomincia a girare, finché Jenny mi abbraccia e milascia cadere a terra.

Buio.Mi accarezza le tempie, sussurra parole dolci e si incolla alla

mia pancia. Un canguro e il suo cucciolo.Da allora siamo una cosa sola.È lei che mi sorregge quando i miei muscoli sobbalzano

sotto i colpi degli elettrodi.È lei che mi tiene compagnia durante le ore nello

stanzino buio, senza più la percezione del giorno e del-la notte.

È sulla sua spalla che piango e sbavo schiuma quando ca-pisco che mamma non vuole più vedermi.

Ed è lei a insegnare al mio corpo a contorcersi a co-mando, l’unico modo per spaventare gli spettri in cami-ce bianco che ogni giorno mi ronzano attorno come av-voltoi.

È lei ad aiutarmi a scappare. E quando mi riprendono, è lei aspiegarmi il modo per fuggire per sempre.

L’ultima volta che vedo Jenny lei mi abbraccia e mibacia le guance.

Il suo collo odora di miele.Fuori dalla finestra proiettili di grandine si abbattono sul

muro di cinta e raffiche di vento trasformano i rami negli alberiin piccole altalene.

Apro il freezer e Tom e Jerry muovono le pinne a fa-tica. Per l’ultima volta la mia bocca prova a trasformarei miei pensieri confusi in parole, ma inutilmente. Al loroposto, cola schiuma dalle mie labbra. Per fortuna conJenny non serve parlare. E mi convince a non avere pau-ra.

Mi metto in posizione, a torso nudo, col mento ap-poggiato davanti al freezer aperto, come papà tantianni prima. L’aria gelida mi riempie la pelle di centinaiadi piccoli puntini rosa. Tremo senza sapere bene se peril freddo o per la paura.

Neppure Jenny sa bene perché a un certo punto la bocciascoppia, ma ha funzionato con papà e funziona anche per me.

Le piccole schegge di vetro si infilano nella pellecome lame nella corteccia. Il mio corpo si anima pianpiano di rivoli di sangue, ma tutto sembra ancora nonvoler finire. Mi lascio cadere per terra e rotolo. Sento laschiena e il petto bruciare e godo al pensiero di mio pa-dre sotto le medesime sofferenze. Con un grugnito im-ploro a Jenny pietà. Lei apre il cassetto e prende il col-tello più grosso. È abile con la lama. Le basta un colpoper ognuna delle bende che coprono i polsi.

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pesci rotti di Giulia Ferrandi

Page 15: Ogra XI / Il matto

Un giorno, poco tempo fa, mi trovai in una situazione molto

sconveniente.

Ero sul treno, andavo verso nord. Già la casetta abbandona-

ta che apre alla vista del mare svaniva all’orizzonte, quando mi

accorsi che un terrorista di Al Qaeda era seduto poco lontano

dal mio posto, proprio in uno dei sedili centrali del vagone.

Appena vidi quell’uomo, capii subito che si trattava un fon-

damentalista islamico, in viaggio con l’unico scopo di fare un at-

tentato su quel treno, non appena si fosse fermato in una sta-

zione importante. I tratti somatici erano inconfondibili: era bion-

do, slanciato e molto magro, due occhi blu scuro erano coronati

da lunghe ciglia che bene si sposavano con la fine eleganza del-

la bocca. Portava il pizzetto, e i capelli rasati – ma il taglio era di

qualche settimana. Pensai: “Quale travestimento migliore di

questo, per un terrorista arabo!”. Inoltre, altri fattori concorrevano

allo smascheramento dello sciagurato: si trovava proprio nel

mezzo del vagone centrale, dove un’esplosione avrebbe spez-

zato a metà il convoglio, con le conseguenze più devastanti. Ma

la cosa che più mi persuase circa la sua identità, fu il constatare

che egli non aveva con sé nessun bagaglio. “E per forza!”, consi-

derai, “con valige o zainetti, facilmente desterebbe qualche so-

spetto, mentre senza, passerà certamente inosservato. E poi, i ka-

mikaze non hanno bisogno di valige per compiere la loro mis-

sione: l’esplosivo lo portano nascosto sotto i vestiti o allacciato

alla cintura”. Alla stazione seguente salì un gruppo considerevo-

le di giovani, forse una scolaresca, e il vagone, da vuoto che era,

presto si riempì. La situazione era grave. I ragazzi ridevano, scher-

zavano e non si rendevano minimamente conto del pericolo

che incombeva su di noi; nemmeno gli accompagnatori sem-

bravano curarsene. Allora presi a pensare a quale fosse la cosa

migliore da fare: dovevo avvertire tutti della minaccia incom-

bente? Questo avrebbe di certo allarmato la scolaresca, peggio-

rando soltanto le cose. Dovevo scendere alla stazione successi-

va senza dire nulla? Il rimorso per quelle piccole vittime inno-

centi mi avrebbe travagliato per tutta la vita.

Forse la cosa migliore da fare era quella più avventata: un’a-

zione di eroismo, di quelle da film. Risolsi che avrei aspettato il

momento buono per bloccare le mani del kamikaze, in modo da

impedirgli di azionare il detonatore, per poi immobilizzarlo, in

attesa dei soccorsi.

La prospettiva di questa impresa era insopportabile; il solo

pensare all’enorme fatica che avrei dovuto sostenere e al rischio

che stavo correndo mi faceva sudare copiosamente, già provato

dal caldo del viaggio in treno intrapreso in piena estate. La mia

agitazione non passò inosservata sotto gli occhi degli sventura-

ti compagni di viaggio, le bambine mi guardavano ridevano par-

lavano tra di loro e ancora mi guardavano e ancora ridevano. An-

che i giovani accompagnatori erano incuriositi dal mio stato. Ma

come era possibile che non capissero? Erano anche loro – quel-

le menti vergini – sorde a quanto succedeva? Anche loro aveva-

no disastrosamente esorcizzato la diuturna presa di coscienza a

cui ci chiama il Medio Oriente, quella della nostra precarietà, sot-

to i motti mendaci del “continuiamo a vivere, fermarci a riflettere

sarebbe darla vinta a chi vuole rovinarci l’esistenza”?

Solo l’arabo non si era accorto della mia trasfigurazione, lui

guardava fisso il mare – e sono sicuro che, tra sé, pregava Allah.

L’occasione per agire non si fece attendere. Proprio come un

viaggiatore stanco di stare per lungo tempo nella scomoda po-

sizione a cui costringono i nostri interregionali (egli riuscì ad imi-

tare perfettamente questa condizione), l’attentatore si alzò in

piedi: aveva di certo deciso che quello era il momento buono

per compiere la propria missione. Mi sembrava di sentire propa-

garsi dalla sua testa i versi del Corano che sicuramente stava re-

citando prima del sacrificio estremo, e rimbombavano dentro il

mio cervello. Raggiunse il corridoio del vagone, “la posizione

centrale darà più efficacia alla sua azione di morte”, pensai – la

tensione era al massimo, i bambini continuavano a fare rumore,

lui era a pochi centimetri da me, sentivo gli occhi gonfi, non bat-

tevo più le ciglia – in quell’istante avvicinò la mano destra alla

cintura: era il momento! Da seduto, con un colpo di reni slanciai

il tronco verso di lui, gli afferrai le mani, mi alzai – i bambini, at-

toniti, avevano smesso di fare chiasso – lo immobilizzai contro

un sedile e, preso dalla concitazione, premendo la pancia sulla

sua schiena, lo riempii di botte sulla nuca. Quando le mani, im-

pegnate a bloccare le sue, non mi bastavano, lo prendevo a mor-

si, a testate… tutti ci guardavano confusi – ancora non capiva-

no, non capivano! Continuai a battermi valorosamente per alcu-

ni istanti, ma il mio gesto di eroismo fu inutile: con un guizzo si

liberò il braccio sinistro, portò la mano alla cintura e… tutto si

spense. Mi svegliai in un letto bianco. Non capii subito di essere

vivo, e ancora oggi che scrivo queste righe non mi capacito di

come sia potuto uscire incolume da quella vicenda. Ero in un let-

to bianco, dicevo, e ogni cosa intorno era bianca, anche le per-

sone, anche i vasi, anche i fiori. Ero vivo! Avevo riportato solo

qualche graffio a seguito della lotta. Mi ero salvato dall’esplosio-

ne. Miracolosamente! Nel volto di tutti i presenti lessi compas-

sione e pietà quando, costernato, li feci partecipi della triste sor-

te che era toccata alla comitiva.

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La buona novella

LORENZO FRANCESCHINI

Il kamikaze

Senza titolo dal catalogo mostra Fra muri di gomma, Persiceto 1990

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La buona novella

Sul viso di papà i cocci sugli zigomi e gli occhi spiritati fan-no a gara per luccicare più intensamente. Io sbavo dal labbro edemetto una lunga sequenza di suoni gutturali. Se la mia boccasapesse parlare chiederebbe pietà.

Mi riempie la guancia di sberle e si rialza in piedi, caricandoverso l’alto il braccio con la cinghia.

È in quel momento che Jenny arriva a salvarmi. Mi gira suun fianco, facendo mancare al primo colpo il bersaglio. Dalloslancio, papà perde l’equilibrio, Jenny gli dà il colpo di grazia conun calcio alla caviglia che lo fa rotolare a terra. Atterra con il visosulle punte di un rastrello steso in un angolo, cinicamente in at-tesa della vittima predestinata. Mi piace pensare che anchequesta sia opera di Jenny.

L’ultima volta che metto i pesci nel freezer Jennyraccomanda attenzione. Siamo nella cucina del pia-no proibito, stasera Jenny è riuscita a rubare le chiaviall’infermiere coi baffi. Glieli ha sfilate silenziosamen-te dalla tasca, mentre io contorcevo le gambe e lebraccia e fingevo di colare schiuma dalle labbra.

Le chiedo perché non farlo nel modo più semplice.Con un coltello, ad esempio. Ma appena vede la boccia conTom e Jerry, lei sogghigna. Se ha funzionato per papà, funzio-nerà anche per me.

L’ultima volta che vedo mamma, lei piange a dirotto e mibatte forte le nocche sul petto. Dice che mi odia. Mai quanto ioodiavo lui, penso guardando gli occhi di papà fissare strabuz-zati lo sciame di insetti che gli succhiano il sangue. Se la miabocca sapesse tradurre i pensieri in parole lo urlerebbe fino aprosciugarmi i polmoni. Invece, si accontenta di grugnire e sba-vare schiuma.

I muggiti rimbombano e la mangiatoia di fronte ame incomincia a girare, finché Jenny mi abbraccia e milascia cadere a terra.

Buio.Mi accarezza le tempie, sussurra parole dolci e si incolla alla

mia pancia. Un canguro e il suo cucciolo.Da allora siamo una cosa sola.È lei che mi sorregge quando i miei muscoli sobbalzano

sotto i colpi degli elettrodi.È lei che mi tiene compagnia durante le ore nello

stanzino buio, senza più la percezione del giorno e del-la notte.

È sulla sua spalla che piango e sbavo schiuma quando ca-pisco che mamma non vuole più vedermi.

Ed è lei a insegnare al mio corpo a contorcersi a co-mando, l’unico modo per spaventare gli spettri in cami-ce bianco che ogni giorno mi ronzano attorno come av-voltoi.

È lei ad aiutarmi a scappare. E quando mi riprendono, è lei aspiegarmi il modo per fuggire per sempre.

L’ultima volta che vedo Jenny lei mi abbraccia e mibacia le guance.

Il suo collo odora di miele.Fuori dalla finestra proiettili di grandine si abbattono sul

muro di cinta e raffiche di vento trasformano i rami negli alberiin piccole altalene.

Apro il freezer e Tom e Jerry muovono le pinne a fa-tica. Per l’ultima volta la mia bocca prova a trasformarei miei pensieri confusi in parole, ma inutilmente. Al loroposto, cola schiuma dalle mie labbra. Per fortuna conJenny non serve parlare. E mi convince a non avere pau-ra.

Mi metto in posizione, a torso nudo, col mento ap-poggiato davanti al freezer aperto, come papà tantianni prima. L’aria gelida mi riempie la pelle di centinaiadi piccoli puntini rosa. Tremo senza sapere bene se peril freddo o per la paura.

Neppure Jenny sa bene perché a un certo punto la bocciascoppia, ma ha funzionato con papà e funziona anche per me.

Le piccole schegge di vetro si infilano nella pellecome lame nella corteccia. Il mio corpo si anima pianpiano di rivoli di sangue, ma tutto sembra ancora nonvoler finire. Mi lascio cadere per terra e rotolo. Sento laschiena e il petto bruciare e godo al pensiero di mio pa-dre sotto le medesime sofferenze. Con un grugnito im-ploro a Jenny pietà. Lei apre il cassetto e prende il col-tello più grosso. È abile con la lama. Le basta un colpoper ognuna delle bende che coprono i polsi.

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pesci rotti di Giulia Ferrandi

Page 16: Ogra XI / Il matto

Ci sono tanti sassi bianchi vicino alla spuma del mare.Tante uova pesanti accatastate. Gli altri dormono ancorae stanno distesi per terra negli angoli dove c’è più ombra,perché il sole è già alto e rovente e fuori da qui ha disin-tegrato ogni riparo, per questo è tutto bianco e gli altristanno qui a dormire, fuori sarebbe impossibile, con tuttiquei sassi per terra che puntano sul corpo abbandonatoe il caldo con i vestiti della notte ancora indosso, perchéstanotte era freddo e non si vedeva niente di quello chec’era, c’è qui intorno. Eppure qui il mare è lucente e leonde calme del mattino sono risucchiate attraverso i sas-si da un motore profondo. Ho provato a mettere tre pa-role in fila per aprire la cassaforte tutta la notte, mentregli altri erano già crollati. Ero lì accanto ai pali fradici delpontile, dove adesso è rimasta una cassetta di plastica.Tutta la notte sono rimasto seduto lì, cercavo la combi-nazione per aprire le sue orecchie e rimpicciolirmi fino acamminare nelle conche e nelle dune delle sue cartilagi-ni bianchissime e calde. Oppure con la lingua, avrei ap-poggiato la mia lingua al suo padiglione per sentirne iltepore sprofondato. Ma i sassi bianchi non si sono aperti,non sono sbocciati, al massimo hanno iniziato a pulsarevicino ai miei piedi ma questo solo perché il mare è sem-pre un po’ agitato prima dell’alba, e il suo rumore è l’uni-ca cosa che si sente. Eppure ieri camminavamo in mezzoagli scogli che nel buio erano latte. Perché gli altri dor-mono ancora? Doveva già essere finito tutto con la nottetrascorsa, ma adesso tutto s’è prolungato sotto la luce del

sole. Sono dilatate le sue ore, e i suoi passi di stambeccocontinuano ancora, hanno attraversato il ponte d’orodell’alba e adesso evaporano al sole e sono sospesi nel-l’aria, per questo penetrano dalle narici, dagli occhi, daitimpani fin dentro al cervello. Non ho trovato le tre paro-le da mettere in fila e la porta si è mostrata, ma non si èaperta e i sassi sono rimasti accatastati; ho intravisto solouna magrezza eccessiva e una foglia di lattuga appog-giata sulla sua testa come un cappello, come una corona,ma che era sott’acqua e scivolava verso il fondo del marebasso. C’è bisogno di una trama e di un manipolo di per-sonaggi per dare forma al suono delle campane, al suo-no di questo canto incuneato tra le foglie e tra i sassi nel-la piccola falce di spiaggia chiusa in un mantello di roc-cia. Chi l’ha detto che si sta male senza ombra per terra,non è questa la solitudine che mi spaventa, l’azzeramen-to provocato dal sole che ha denudato anche la risacca dicespugli dove ieri ci siamo spinti a parlare, dove adessoc’è una capanna di pietra forse di un pescatore, per la-sciare i suoi attrezzi. Voglio stringere le sue orecchie neipugni, e spremerle come due datteri, mia dolce amicache hai conosciuto la solitudine della clinica nella mon-tagna, con le sue stanze quasi d’albergo, nel trambusto digente che andava e veniva. E adesso che ci sono tuttequeste conchiglie per terra io le raccolgo e le metto den-tro ad un secchio, finché gli altri non si sveglieranno. Èpieno di conchiglie, è pieno di gusci mischiati ai sassi, esono gusci calcarei, riccioluti, che incorniciano piccoli an-tri di madreperla. Sono le sue orecchie, piccole, che il soleha sparso in giro, i suoi gusci di cartilagine abbandonatiche parlano. Un secchio ne colmerò, un orecchio dopol’altro accatastati, finché il secchio non sarà pieno comeun pozzo d’acqua. Ne raccoglierò dei secchi di teste dicammelli, di gigli del mare, mentre gli altri dormono an-cora. Sono un palmo di spuma ossificata tutte questeconchiglie nel secchio, che muovono la coda muovono iloro midolli attorcigliati sotto l’abbaglio del sole, con lenicchie smaltate di madreperla come gli incavi degli oc-chi nido di luce. Ti ricordo sempre bella, solo te che miguardi dal fondo del secchio. Un bocciolo interrogativoche si dirama come una ragnatela dalle tue tempie. Nonhanno mai quiete le tue piccole spirali sul letto del miopassato. Tu possiedi il dono della lontananza. Le ciocchedei capelli attorcigliati, le mani chiuse e le orecchie dise-gnate nello squilibrio e nel veleggiare delle linee che ir-rompono dal fondo del cervello.

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La buona novella

MARCO BENEDETTELLI

Conchiglie

Conchiglia di Marco Benedettelli

Page 17: Ogra XI / Il matto

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La buona novella

Il diciotto agosto di questo anno duemilacinque ècapitato che tragicamente mio zio morisse schiacciatosotto un trattore, rovesciatosi il cingolato mentre si la-vorava la campagna. Lui sul mezzo, poco distanti nonnoe zia traversavano il maggese per raggiungere un cioc-co d’orto. Mamma se n’era da poco andata.

Mi avvisano istantaneamente della tragedia. Ecco: iomi ritrovo a dover comprendere la notizia da Bologna –tra le cinque e le sette di sera: non ricordo – prendere untreno, un maledetto treno e fare la faccia inguardabile diquello che va da un morto. Alla stazione di Vasto – matti-no seguente – mi vengono a prendere che non mi bacianessuno, piangono e mi afferrano stretto, sono mio pa-dre e un nostro caro, ci dirigiamo verso la casa di un mor-to. A un morto nulla si può fare che gli giovi, non è; ai viviintorno, a quel momento della morte sdraiata in un let-tuccio di legno, men che meno si può fare qualcosa.

Il mio cervello ingarbugliato, ripetendosi tanto, sra-giona dunque su ciò che c’è al di qua della morte, i vivie la vita a cui si può; c’è una pazza viva della mia fami-glia – lo sapevo e a lei sempre ho guardato come a unpersonaggio romanzesco; da bambino le disegnavol’ombra vicino a quegli altri della famiglia che ritraevoper la scuola – adesso la subitanea velocità con cui zioera scomparso, così: senza preavviso, mi faceva pensarea quel momento prossimo o vicino in cui lei sarebbemorta senza che io…

Io, mia nonna pazza cattiva, non l’avevo mai cono-sciuta prima. Sapevo che è alcolizzata però. Quando eropiccolo ricordo che a volte a casa telefonava, risponde-vo che mamma non c’era. Si capiva niente del suo bia-scicato saluto, pezzi di parole vomitate come pezzi di fe-gato. Questo mi avevano sempre detto mamma nonno

e le zie: è una pazza alcolizzata, pericolosa! E io sempreci ho creduto. E anche perché ho visto il segno sul pie-de di mamma: un coccio di vetro di birra da quella sca-gliato su questa prima figlia che accusava di perfidia,forse d’incesto – sì anche di questo, di tutto. Altri segniho visto sul corpo di mamma, ma è bellissima comun-que, non so pensare a quelli. Penso a lei.

Il diciannove agosto – giorno della sepoltura – ave-vo da poco terminato di scrivere il mio primo libro fini-to. Mie fotocopie. Su quell’altro incompiuto pochissimaera stata la voglia nei giorni precedenti al lutto di tor-narvi a lavorare. Però avevo un nuovo semi progetto,confuso e alternativo.

Il diciannove agosto, zio morto, decido di andare atrovare mia nonna pazza. Distacco, freddezza, l’antipate-tico per eccellenza – mi sono detto – porteranno me incasa sua a dirgli non: ecco tuo nipote, ma: a te una perso-na che oggi e non so se un’ altra volta futura vuole par-larti perché… perché, cazzo! Là dentro quelle fogne divene che hai corre roba che è pure del mio sangue. Ti vo-glio guardare negli occhi, scorgere nelle tue diottrie sfa-sate se c’è pure una fase delle mie lune. Voglio dirti chenon vengo a dirti nonna ma: fattrice di mia mamma, ciaocome stai, ecco io sono tuo nipote. Che dici: un po’ t’as-somiglio? Come cazzo hai fatto a rinunciare a tanto?!

Per quel giorno non mi mancava il coraggio: avreiscritto di zio parole di terra e d’incenso, e di vermi, eavrei bestemmiato tanto! Nella testa mi frulla e mi frul-lava il cervello. A ogni cosa che vedo, se non vedo lasento, scrivo. Scrivo di tutto quello che accade e dunqueavrei infranto anche quel mito, anche per scriverlo: mianonna fuori dal suo e finalmente nel mio romanzo. Tro-vato il perfetto tipo pazzoide che cercavo: per me? Peril libro nuovo?

Vado. Parcheggio che ho la radio spenta, capita raro.Mi preparo come per una di quelle interviste che persta roba che frulla e che scrivo sono solito fare – ognitanto mi caccio sempre nei guai e l’ultima volta le hoprese talmente di brutto tanto che nella mia vita maipiù tornerò a roma, tanto che per esorcismo ho dovutoscrivere una filippica contro il papa che poi sono quellefotocopie che vi dicevo. Questa non era da meno: lapazza nonna è una pericolosa, mi avevano detto.

Suono dalla pazza: non ha un campanello, allora hobattuto il portone di vetro forte e più forte che potevo,

Famiglia di Giulia Ferrandi

ANGELO NANNI

Pazzi di casa nostra

Ci sono tanti sassi bianchi vicino alla spuma del mare.Tante uova pesanti accatastate. Gli altri dormono ancorae stanno distesi per terra negli angoli dove c’è più ombra,perché il sole è già alto e rovente e fuori da qui ha disin-tegrato ogni riparo, per questo è tutto bianco e gli altristanno qui a dormire, fuori sarebbe impossibile, con tuttiquei sassi per terra che puntano sul corpo abbandonatoe il caldo con i vestiti della notte ancora indosso, perchéstanotte era freddo e non si vedeva niente di quello chec’era, c’è qui intorno. Eppure qui il mare è lucente e leonde calme del mattino sono risucchiate attraverso i sas-si da un motore profondo. Ho provato a mettere tre pa-role in fila per aprire la cassaforte tutta la notte, mentregli altri erano già crollati. Ero lì accanto ai pali fradici delpontile, dove adesso è rimasta una cassetta di plastica.Tutta la notte sono rimasto seduto lì, cercavo la combi-nazione per aprire le sue orecchie e rimpicciolirmi fino acamminare nelle conche e nelle dune delle sue cartilagi-ni bianchissime e calde. Oppure con la lingua, avrei ap-poggiato la mia lingua al suo padiglione per sentirne iltepore sprofondato. Ma i sassi bianchi non si sono aperti,non sono sbocciati, al massimo hanno iniziato a pulsarevicino ai miei piedi ma questo solo perché il mare è sem-pre un po’ agitato prima dell’alba, e il suo rumore è l’uni-ca cosa che si sente. Eppure ieri camminavamo in mezzoagli scogli che nel buio erano latte. Perché gli altri dor-mono ancora? Doveva già essere finito tutto con la nottetrascorsa, ma adesso tutto s’è prolungato sotto la luce del

sole. Sono dilatate le sue ore, e i suoi passi di stambeccocontinuano ancora, hanno attraversato il ponte d’orodell’alba e adesso evaporano al sole e sono sospesi nel-l’aria, per questo penetrano dalle narici, dagli occhi, daitimpani fin dentro al cervello. Non ho trovato le tre paro-le da mettere in fila e la porta si è mostrata, ma non si èaperta e i sassi sono rimasti accatastati; ho intravisto solouna magrezza eccessiva e una foglia di lattuga appog-giata sulla sua testa come un cappello, come una corona,ma che era sott’acqua e scivolava verso il fondo del marebasso. C’è bisogno di una trama e di un manipolo di per-sonaggi per dare forma al suono delle campane, al suo-no di questo canto incuneato tra le foglie e tra i sassi nel-la piccola falce di spiaggia chiusa in un mantello di roc-cia. Chi l’ha detto che si sta male senza ombra per terra,non è questa la solitudine che mi spaventa, l’azzeramen-to provocato dal sole che ha denudato anche la risacca dicespugli dove ieri ci siamo spinti a parlare, dove adessoc’è una capanna di pietra forse di un pescatore, per la-sciare i suoi attrezzi. Voglio stringere le sue orecchie neipugni, e spremerle come due datteri, mia dolce amicache hai conosciuto la solitudine della clinica nella mon-tagna, con le sue stanze quasi d’albergo, nel trambusto digente che andava e veniva. E adesso che ci sono tuttequeste conchiglie per terra io le raccolgo e le metto den-tro ad un secchio, finché gli altri non si sveglieranno. Èpieno di conchiglie, è pieno di gusci mischiati ai sassi, esono gusci calcarei, riccioluti, che incorniciano piccoli an-tri di madreperla. Sono le sue orecchie, piccole, che il soleha sparso in giro, i suoi gusci di cartilagine abbandonatiche parlano. Un secchio ne colmerò, un orecchio dopol’altro accatastati, finché il secchio non sarà pieno comeun pozzo d’acqua. Ne raccoglierò dei secchi di teste dicammelli, di gigli del mare, mentre gli altri dormono an-cora. Sono un palmo di spuma ossificata tutte questeconchiglie nel secchio, che muovono la coda muovono iloro midolli attorcigliati sotto l’abbaglio del sole, con lenicchie smaltate di madreperla come gli incavi degli oc-chi nido di luce. Ti ricordo sempre bella, solo te che miguardi dal fondo del secchio. Un bocciolo interrogativoche si dirama come una ragnatela dalle tue tempie. Nonhanno mai quiete le tue piccole spirali sul letto del miopassato. Tu possiedi il dono della lontananza. Le ciocchedei capelli attorcigliati, le mani chiuse e le orecchie dise-gnate nello squilibrio e nel veleggiare delle linee che ir-rompono dal fondo del cervello.

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La buona novella

MARCO BENEDETTELLI

Conchiglie

Conchiglia di Marco Benedettelli

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La buona novella

forte come lei quando batteva le figlie. Non c’era altro dafare. Non mi apre ma io non me ne vado: batto batto bat-to che sembro un muratore effrattore di mura. ‘Dorme lasignora Luisa’, mi dicono due vicini dalla loro finestra chesembrano infastiditi, ‘dorme se non risponde. Ma tu chisei?’ A domanda non rispondo neppure io, continuo abattere fino a quando dal balcone al piano superiore, unastanza da letto illuminata appena da mezzo lucore, d’untratto si affaccia un virano di circa una sessantina, togatodi sottana, che mi urla: ‘Che cazzo volete ancora?! Anda-tevene! Un altro dottore di merda! Oggi mi avete… pun-ture…. punture del cazzo! Vattene!’

La riconosco, è lei, mia nonna pazza: ‘Signora… ’ –‘Vattene!’ – ‘Signora … ’ – ‘Vattene!’ – ‘Signora… ’Tento disedarla, interromperla, ma lei la donna, le sue urla, piùforte ancora: ‘Vattene, te nedevi andare!’ e tutte le im-precazioni in fila contro tut-to e contro di me dottore ocos’altro che fossi. ‘Mi stia asentire’ grido io oltre la suavoce, deciso, ‘non sono undottore né uno che vuolefarle del male’. Sembra pla-carsi, respiro. ‘Chi cazzo seiallora, stiamo a sentire…’ lavoce pessima tra il tragico el’ironico. ‘Mi faccia entrareche glielo dico, la prego’.‘Chi cazzo sei???’ fortissimoadesso sporta dal balconequasi volesse afferrarmi perla strozza come un collo dibottiglia.

‘Suo nipote, il figlio diLucia, la prima...’

Silenzio. Mi guarda, ciguardiamo. Lei: ‘Scendo traun attimo, mi devo metterequalcosa addosso che dor-mivo’. Non sembra felice diquesta cosa nuova: né om-bra, né fastidio, solo tedio inquello sguardo, nella perso-na sua tutta. Passa del tem-po, poi mi apre la porta unadonnona compita che miinvita a sedere e si dice me-ravigliata di vedermi, con lostesso nauseato sguardocon cui avrebbe condottol’intera conversazione mi ri-volge un: ‘Prego’ e mi indicaa sedere. Dunque mi mani-festo; da subito lei sembra ignorarmi, mi offre da beresucchi, mi chiama tesoro e quando si accorge che a un

bicchiere di roba qualsiasi preferirei una sigaretta miporge una Futura che io accetto e accendo contempo-raneamente alla sua.

In seguito mi sarei sentito in imbarazzo, ma nontroppo, devo dire. ‘Non sono qui a conoscere e ricono-scere mia nonna’, le faccio accidiato, ‘ma lei signora, unasconosciuta che è mia nonna, sì, ma non la conosco, eprobabilmente non so nemmeno se ho tanta voglia diconoscerla. Sono qui perché si può morire da un mo-mento all’altro e sempre si è perso comunque qualcheoccasione. Sono qui per non perdere questa di saperese… di vedere se… ’

‘Bene tesoro, potrei morire io domani come pure tu.Vedi quanti incidenti’ mi interrompe. Non capivo: lapazza capiva e non si scomponeva d’un trattino, rispet-

tava perfettamente le rego-le della conversazione enon sembrava affatto paz-za, gli occhi erano peròstanchi, la deriva di un pian-to o di un fiume sporco, ab-bavati come fossero passa-te di lì lumache giganti.

‘Mi hanno riempita dimerda oggi, quattro cinquepunture di quel fottuto tran-quillante tesoro. Ma chi ti hamandato, tua madre? Quellami odia!’

‘No, gliel’ho detto, la ne-cessità è stata la mia.’

‘Che fai nella vita?’‘Studio!’‘Menomale che non sei

come tua madre, ha fatto laterza media tre volte, e laprima elementare sette’.

Tracce d’alcool nessunain quella casa, né pezzi di ve-tro franti, oggetti contun-denti a riposo. La pazza nonera pazza – ovvero: un po’squilibrata lo era, stando aisuoi racconti scolastici mam-ma dovrebbe andare ancoraa scuola adesso, comunquemi seguiva, non era comple-tamente fuordisenno comeme l’ero immaginata, parlavaun italiano non da schifotentando di sopire il dialettopiù prepotente. Usava buonemaniere, mi stupiva in fred-dezza, distacco e soprattuttoper il totale antipatetismo.

Oltre le aspettative non era né pericolosa né vuota, anziintelligente. Tentavo di scorgere in me qualcheduno dei

Otto Dix, La Pazza, (1925), tempera su legno, Kunsthallen Mann-heim, Manheim

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La buona novella

suoi tratti, ad uno che ne intuivo ho ucciso subito la col-pa. La conversazione nelle mie parole procedeva al suoattento silenzio, dico quanto la morte mi spaventi: ‘Sonoqui proprio oggi, o meglio, è tanto che mi dicevo di veni-re ma… oggi, sa la morte, l’imprevedibilità della vita scrit-ta sulla lapide di zio, mi ha detto vai. E io sono venuto’. ‘Seiun ragazzo intelligente, non come tua madre, la vipera.Quella a cinque anni mi teneva segregata in una camerabuia. Tuo nonno con il suo aiuto mi ha tagliato tre dita, miteneva fermo il polso su un tronco dove con l’accetta micolpì la mano: zac! Mi ha lasciato così – mi mostra l’am-putazione che io ho sempre saputo essersi praticata dasè – monca, viva per grazia di Dio’. Una settimana chiusain cantina con la mano in cancrena mi tenne, spuh!, quel-la merda, a lui si doveva riprendere il grande segnatore einvece si è ripreso a quell’altro poveruomo di mio gene-ro. L’erba cattiva non muore mai. Spuh!’.

Poi si sarebbe messa a cercare tutte le carte del pro-cesso di affidamento, riguardanti la sua interdizione:non le trova: non ci sono; la casa è sottosopra: tutti i ti-retti aperti, letti sbandellati, lei delirante ripete di aversopportato per amore materno, di aver taciuto, quelgiuda con i miei soldi si è comprato il mondo, giudici,maresciallo, lui e tua madre matricida che mi odia.

Nessun accenno alle mie zie sue figlie minori. Mi par-la però ancora di carte, lettere anonime che neppure letrova, prove incontrastabili della sua sanità le definisce.

Non l’ho creduta ma, dopo aver conosciuto mianonna, ne è venuto che il semiprogetto confuso e alter-nativo a quell’altro è diventato il mio secondo libroquasi finito, le mie seconde fotocopie. È un manuale sul-la follia, depressione, ascesi… dir che si voglia. Innega-bilmente è lei che mi ha suggerito la trama.

In seguito alla sua estenuante ricerca dei documen-ti or detti, qualcuno avrebbe suonato alla porta. Entrauna donna sulla cinquantina, tarchiatella con il visopiatto inespressivo. Chiede chi sono. Tento di spiegare

la sua inopportunità in quel momento sì intimo ma…colpo di scena: la pazza fa la pazza e dice di non saperechi io sia, forse un dottore dice. Quella chiatta con il visopiatto a chiedermi i documenti e a minacciare il ricorsoalla legge. ‘Sono suo nipote, se ne vada!’ intervengo vi-sibilmente alterato, ma non basta. Il clima di ostilità au-menta, mia nonna è furente, allora fuori la patente.

‘Primo maggio ottantadue, Atessa.’ Legge la data dinascita l’intrusa. Mia nonna annuisce, dice: ‘Telefonaiquel giorno, nessuno mi volle’. Quella brutta viene dame cacciata e la pazza come nulla fosse accaduto siededi nuovo al tavolo, incrocia le braccia, ne accende una,mi guarda e mi dice che quelli nonno e mamma vole-vano far passare che lei beveva: ‘Non sono alcolizzata!’Con la casa priva di alcolici si sentiva inequivocabil-mente sincera, infatti penso abbia smesso adesso, ma ri-mane pazza, comunque pazza. Lo so di mio ora.

Tuttavia a casa si dice solo che bevesse, dire pazzanon si dice a una che tiene per forza pezzi di sangue deifigli delle figlie.

‘La odi tu mia madre?’‘Lei sì a me’‘Che ne sai, guarda che questa stessa domanda

[prima a lei l’ho rivolta’‘E cosa ti ha risposto, che mi odia? ’‘No, mi ha risposto di no’‘Nemmeno io la odio allora’

Quando esco di casa non mi accompagna allamacchina – rispetta le distanze richieste e non un ab-braccio, mi mostra la sua auto, tesoro mi chiama e midice che posso farne uso a bisogno. Mi offre cento sol-di che io con tutti i vizi che ho accetto di buon grado,ma scanso gli equivoci e le dico: ‘Grazie, ma non so setornerò signora Luisa’. Lei mi saluta bonariamente, iopure e addio.

La sua deviata intelligenza, tuttavia, il genio di aver-mi saputo raccontare una storia diversa da quella checredo, tutto ricostruito particolare per particolare nelsuo grande romanzo, i cavilli giudiziari perfettamentericavati e resi a suo vantaggio in base a una legge inesi-stente per gli altri ma essere per lei l’unica vigente, il fu-rore letterario con cui tutti i buoni ha saputo tramutarein mostri cattivi, tutto ciò mi ha detto forse qualcosa cir-ca le sue diottrie sfasate, intorno ad alcune fasi dellemie lune. Ma ho ucciso subito la colpa.

I pazzi conoscono sempre storie diverse, alcuni diloro le vivono, altri le scrivono o le raccontano per nonimpazzire vivendo nell’incomprensibile mistero dellaverità assoluta. Sono forse un’espressione matematicadi riconosciuto valore intuitivo, ma irrisolvibile, poichéla loro seppur possibile risoluzione non è utile a nulla.

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pazzia 1 di G. Ferrandi

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La buona novella

forte come lei quando batteva le figlie. Non c’era altro dafare. Non mi apre ma io non me ne vado: batto batto bat-to che sembro un muratore effrattore di mura. ‘Dorme lasignora Luisa’, mi dicono due vicini dalla loro finestra chesembrano infastiditi, ‘dorme se non risponde. Ma tu chisei?’ A domanda non rispondo neppure io, continuo abattere fino a quando dal balcone al piano superiore, unastanza da letto illuminata appena da mezzo lucore, d’untratto si affaccia un virano di circa una sessantina, togatodi sottana, che mi urla: ‘Che cazzo volete ancora?! Anda-tevene! Un altro dottore di merda! Oggi mi avete… pun-ture…. punture del cazzo! Vattene!’

La riconosco, è lei, mia nonna pazza: ‘Signora… ’ –‘Vattene!’ – ‘Signora … ’ – ‘Vattene!’ – ‘Signora… ’Tento disedarla, interromperla, ma lei la donna, le sue urla, piùforte ancora: ‘Vattene, te nedevi andare!’ e tutte le im-precazioni in fila contro tut-to e contro di me dottore ocos’altro che fossi. ‘Mi stia asentire’ grido io oltre la suavoce, deciso, ‘non sono undottore né uno che vuolefarle del male’. Sembra pla-carsi, respiro. ‘Chi cazzo seiallora, stiamo a sentire…’ lavoce pessima tra il tragico el’ironico. ‘Mi faccia entrareche glielo dico, la prego’.‘Chi cazzo sei???’ fortissimoadesso sporta dal balconequasi volesse afferrarmi perla strozza come un collo dibottiglia.

‘Suo nipote, il figlio diLucia, la prima...’

Silenzio. Mi guarda, ciguardiamo. Lei: ‘Scendo traun attimo, mi devo metterequalcosa addosso che dor-mivo’. Non sembra felice diquesta cosa nuova: né om-bra, né fastidio, solo tedio inquello sguardo, nella perso-na sua tutta. Passa del tem-po, poi mi apre la porta unadonnona compita che miinvita a sedere e si dice me-ravigliata di vedermi, con lostesso nauseato sguardocon cui avrebbe condottol’intera conversazione mi ri-volge un: ‘Prego’ e mi indicaa sedere. Dunque mi mani-festo; da subito lei sembra ignorarmi, mi offre da beresucchi, mi chiama tesoro e quando si accorge che a un

bicchiere di roba qualsiasi preferirei una sigaretta miporge una Futura che io accetto e accendo contempo-raneamente alla sua.

In seguito mi sarei sentito in imbarazzo, ma nontroppo, devo dire. ‘Non sono qui a conoscere e ricono-scere mia nonna’, le faccio accidiato, ‘ma lei signora, unasconosciuta che è mia nonna, sì, ma non la conosco, eprobabilmente non so nemmeno se ho tanta voglia diconoscerla. Sono qui perché si può morire da un mo-mento all’altro e sempre si è perso comunque qualcheoccasione. Sono qui per non perdere questa di saperese… di vedere se… ’

‘Bene tesoro, potrei morire io domani come pure tu.Vedi quanti incidenti’ mi interrompe. Non capivo: lapazza capiva e non si scomponeva d’un trattino, rispet-

tava perfettamente le rego-le della conversazione enon sembrava affatto paz-za, gli occhi erano peròstanchi, la deriva di un pian-to o di un fiume sporco, ab-bavati come fossero passa-te di lì lumache giganti.

‘Mi hanno riempita dimerda oggi, quattro cinquepunture di quel fottuto tran-quillante tesoro. Ma chi ti hamandato, tua madre? Quellami odia!’

‘No, gliel’ho detto, la ne-cessità è stata la mia.’

‘Che fai nella vita?’‘Studio!’‘Menomale che non sei

come tua madre, ha fatto laterza media tre volte, e laprima elementare sette’.

Tracce d’alcool nessunain quella casa, né pezzi di ve-tro franti, oggetti contun-denti a riposo. La pazza nonera pazza – ovvero: un po’squilibrata lo era, stando aisuoi racconti scolastici mam-ma dovrebbe andare ancoraa scuola adesso, comunquemi seguiva, non era comple-tamente fuordisenno comeme l’ero immaginata, parlavaun italiano non da schifotentando di sopire il dialettopiù prepotente. Usava buonemaniere, mi stupiva in fred-dezza, distacco e soprattuttoper il totale antipatetismo.

Oltre le aspettative non era né pericolosa né vuota, anziintelligente. Tentavo di scorgere in me qualcheduno dei

Otto Dix, La Pazza, (1925), tempera su legno, Kunsthallen Mann-heim, Manheim

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Sfumando - Rubrica di fumetti

[email protected]

GIULIA FERRANDI

Testi e disegni di G. Ferrandi

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Pezzi di vetro - Rubrica di versi

Matteo Fantuzzi

Devo prendere gli antipsicotici,è quello che ha detto Nazzoli alla clinica.I motivi già li conoscete:ho reazioni scomposte ed attacchi di panico.Alle volte mi pare qualcuno mi fissisull’autobus, è a quel punto che cerco di sfondare il vetro scappando per strada.

Fingo d’essere un terrorista due volte ogni anno,minaccio l’autista con il tagliaunghie,gli dico di portarmi in Piazza dei Servi:lui ormai mi ha presente (è lo stesso da anni)in fretta mi lascia nel luogo richiesto,chiede scusa alla gente sul mezzo

e riparte. Ridendo.

[email protected] Il folle gioco

Nella strofa iniziale della poesia di Matteo Fantuzzi, ilsoggetto parla in prima persona, confessando con fred-dezza e lucidità il suo stato psichico. Si rivolge con rasse-gnazione al lettore che già conosce la sua condizione:palese, quasi scontata, come se fosse comune a tutti gliuomini, provocando non poco sgomento. Poi l’attacco dipanico, la mania di persecuzione, la fuga. La secondaparte è una scena teatrale che si ripete nel tempo, puraazione che si svolge veloce, tra l’eco di drammatiche si-tuazioni attuali, attori e luoghi noti. La conclusione «ri-dendo» rivela che è tutto un folle gioco, una beffa, lacompleta illusione. (Rossella)

Dalle oscure voragini del sognoPoesie scelte da Rossella Renzi, Lorenzo Franceschini e Valerio Cuccaroni

Manicomio è parola assai più grandedelle oscure voragini del sogno

Alda Merini

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Sfumando - Rubrica di fumetti

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GIULIA FERRANDI

Testi e disegni di G. Ferrandi

Page 22: Ogra XI / Il matto

Pezzi di vetro

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Loris Ferri

ho sognato uomini, lavorare nella nottecattedrali di segni, nel magma di un tempo obliquopossedere mani sporche, come una torba ignominiosae al crollare della prima foglia, ergere

l’etimo uragano, come un’artiglieria di zanne,nell’ombra confitte dell’aria.che come macchine d’argilla, riposanole loro menti avare, nelle folle dei grattacieli.

ho sognato nei paesi occidentali, come elefanti geografici,l’Arte creare le sue palingenesi, fuori dalle inquadrature accademiche, trovando le sue cittàproibite,nelle camere oscure del Prado!

ho sognato uomini che non avessero memoria bellica;folare per le strade, come una fibra di libeccio,inseguire il pensiero nelle taumaturgiedei supermercati, oziare come grandi maestri

Izvor e gli altri, nel grandioso tramonto di Korcula,nel corvo solare degli altipiani sordi;questa nube ho sognato, che scivoli oscurasul petto a brandelli delle strade

nella spazzatura delle città moderne,confondere l’anima, come un urlo che non ha corde,le tempie lavarsi nella semplice marea, come un sassobaltico.ho sognato truppe, avere l’insolenza delle scodelle!

ho sognato dalle stanze impervie della notte,<< nostra sorella la vita >>, in risciacquo,serpeggiare come un sole metrico, lungo la scia polverosa d’ogni tempesta!

[email protected]

Lo sguardo allucinato

La poesia è lo sguardo del folle fatto poesia, un folle chevede la realtà in tutta la sua complessità, «come dovreb-be essere, senza sovrastrutture, ma come in realtà nonè!», secondo quanto ci dice l’autore. Complessità questache nella scrittura poetica si traduce in un linguaggio de-cisamente difficile, ma affascinante, pieno di simboli cheil lettore è invitato a decifrare in un viaggio di fantasiache appena accenna alle sue mete. Per dare solo qualcheindicazione, Izvor Oreb è un pittore croato dell’accade-mia di Zagabria, le cui opere il poeta conobbe a Korcula,un’isola sull’Adriatico. Il Prado è il famoso museo, doveLoris vede l’arte confinata, come in una quarantena a cuil’uomo l’ha costretta e da cui non può uscire. (Lorenzo)

Chi

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suo

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Pezzi di vetro

Lara Lucaccioni

Serena la scena scompare

Serena la scena scompare.Saetta veloce nel cielola rete di vene bluastre alle gambe.Oggi ho i capelli dipinti, più neridi ieri; il naso così, schiacciato sul vetro gelato; la testaun po’ rossa di sangue.

Diventerò altro che schizofrenica

Il rosso paletto restringe la strada. L’ho preso, balbetto.Statua di pietra, mi ghiaccio. Rintrono,campana stonata, di rancido fastidio, dissono.

Diventerò altro che schizofrenica

Un punto asimmetrico, un peso sganciatola sete perpetua di fiumi, di mare da amare.

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La vita interrotta

La scena messa in versi da Lara Lucaccioni è carica di sti-moli visivi, tattili, sonori: dai colori più forti e simbolici (ros-so, nero, bluastro), alle sensazioni corporee (gelo, ghiac-cio), ai segnali sonori (stonato, dissono); sono presenti per-sino elementi olfattivi, con quel «rancido fastidio». Tali vi-vide sensazioni esprimono l’idea di una esistenza in movi-mento, che si svolge al ritmo cantilenante della poesia.Questa si presenta gremita di figure retoriche, echi, suoniche ridondanti si ripetono. Ma il fluire dei versi è interrottoda quel motivo così discorde e dissonante che spezza il ve-loce scorrere delle parole: «diventerò altro che schizofreni-ca». Come un ostacolo, quel verso interrompe bruscamen-te una ruota che gira, l’ingranaggio che procede, la mac-china-cervello che elabora ed opera. Il suono della voce,insieme all’effetto sulla pagina stampata, dà il senso diuna dolorosa rottura, della malattia che spezza la vita.(Rossella)

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Loris Ferri

ho sognato uomini, lavorare nella nottecattedrali di segni, nel magma di un tempo obliquopossedere mani sporche, come una torba ignominiosae al crollare della prima foglia, ergere

l’etimo uragano, come un’artiglieria di zanne,nell’ombra confitte dell’aria.che come macchine d’argilla, riposanole loro menti avare, nelle folle dei grattacieli.

ho sognato nei paesi occidentali, come elefanti geografici,l’Arte creare le sue palingenesi, fuori dalle inquadrature accademiche, trovando le sue cittàproibite,nelle camere oscure del Prado!

ho sognato uomini che non avessero memoria bellica;folare per le strade, come una fibra di libeccio,inseguire il pensiero nelle taumaturgiedei supermercati, oziare come grandi maestri

Izvor e gli altri, nel grandioso tramonto di Korcula,nel corvo solare degli altipiani sordi;questa nube ho sognato, che scivoli oscurasul petto a brandelli delle strade

nella spazzatura delle città moderne,confondere l’anima, come un urlo che non ha corde,le tempie lavarsi nella semplice marea, come un sassobaltico.ho sognato truppe, avere l’insolenza delle scodelle!

ho sognato dalle stanze impervie della notte,<< nostra sorella la vita >>, in risciacquo,serpeggiare come un sole metrico, lungo la scia polverosa d’ogni tempesta!

[email protected]

Lo sguardo allucinato

La poesia è lo sguardo del folle fatto poesia, un folle chevede la realtà in tutta la sua complessità, «come dovreb-be essere, senza sovrastrutture, ma come in realtà nonè!», secondo quanto ci dice l’autore. Complessità questache nella scrittura poetica si traduce in un linguaggio de-cisamente difficile, ma affascinante, pieno di simboli cheil lettore è invitato a decifrare in un viaggio di fantasiache appena accenna alle sue mete. Per dare solo qualcheindicazione, Izvor Oreb è un pittore croato dell’accade-mia di Zagabria, le cui opere il poeta conobbe a Korcula,un’isola sull’Adriatico. Il Prado è il famoso museo, doveLoris vede l’arte confinata, come in una quarantena a cuil’uomo l’ha costretta e da cui non può uscire. (Lorenzo)

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Pezzi di vetro

Giosuè Renato Vinay

7-9-69

Dovrebbe pioveresette secoliper lavarmidel tutto.

L’ultima rosa appassitapende al centro dell’arcoe cede i suoi petali all’acqua.È stata per giorni e giornila mia rosa.È durata a lungo,tra bocciuolo e fioritura,sola al centro dell’arcoriempiva quel piccolo spaziodi cielo che appartiene, ancora.Ora gli ultimi petali deformicadono pesanti a terracome coppe dilatateincapaci di contenere la rugiada.Della rosa non rimane cheun duro pugno,sconcio e spogliocome uno scheletro lavatoda interminabili secolidi pioggia.

Dovrebbe pioveresette secoliper lavarmidel tutto.

Piove.

I giorni della rosa

La poesia di Giosuè Renato Vinay è incentrata sulla figuradella rosa, protagonista della lunga strofa centrale, che sicontrappone alla disperata invocazione del poeta, corni-ce del componimento. Quel fiore tanto tenue e delicato èin grado di colmare un vuoto, quel piccolo spazio di cieloche accompagna l’angoscia quotidiana. L’animo soffe-rente trova in lei consolazione, trasmette tenerezza evo-cando l’immagine del Piccolo principe che parla della suarosa. Ai suoi occhi quel fiore, simbolo di purezza, cede altempo, si secca, perisce, si fa «scheletro lavato» di frontealla condizione di chi si sente impuro, al punto che neppu-re secoli di pioggia potranno cancellarne il dolore. O forse,per un momento, è bastata la rugiada contenuta nei pe-tali di rosa. (Rossella)

Page 25: Ogra XI / Il matto

FOLLIA: condizione che non ha bisogno di molte spiega-zioni, tanto è diffusa oggigiorno. Eccessiva familiarità con ladimensione sociale, assenza di difficoltà nel mondo scola-stico e lavorativo, interesse per televisione, radio e giornalisono i sintomi che devono allarmare. Spesso questa è lavera causa dei malesseri che affliggono parecchie persone.E a sua volta, naturalmente, il disturbo mentale è causatodalla soddisfazione profonda con cui molti fruiscono deimezzi di comunicazione, vivono il proprio lavoro, la propriavita...

OMEOPATIA: Insonnia 8CH; Libido 8CH; Alcol 6CH

3 granuli di ogni rimedio al giorno per tre giorni fino allascomparsa dell’Io

Al calare del sole, meglio se quello del venerdì ma non ne-cessariamente, recarsi in un locale affollato. Ordinare dabere, offrire da bere, possibilmente al sesso opposto ma an-che allo stesso sesso ma di qualcun altro; prima di esseretroppo ubriaco scegliere con chi passare la serata. Sceltamolto importante perché come vedremo determinerà ilsuccesso o il fallimento della terapia. Continuare a bere, se-conda questione essenziale: non smettere mai di bere. Ri-cordarsi di comporre sempre periodi brevi e possibilmentedivertenti, scandendoli bene e a ogni modo sorridendo.Entrare in un locale da ballo solo se è possibile farlo con unbicchiere in mano. Lasciarsi cadere assieme alla compa-gna/o, cadere in pista, cadere al bancone, cadere dal ban-cone, cadere nel locale vuoto, cadere uscendo dal locale efinalmente sedersi al volante.Recarsi velocemente a mangiare qualcosa di pesante pertrattenere in sé il demone dell’alcol. Assicurarsi di esserecon la stessa compagnia che era stata scelta all’inizio dellaserata, unico modo per riuscire a proseguire la cura. Difattisenza la tensione dell’energia libidica non sarà possibileevitare di addormentarsi. Superato il punto critico cercareun bar già aperto con una sala priva di finestre in modo dapoter ignorare la nascita del nuovo giorno. Uscirne solodopo aver rovesciato almeno tre drink e non prima di mez-zogiorno, così non si correrà il rischio di essere tentati dalbuon senso e si fuggirà il sonno ristoratore.Se questo passaggio sarà effettuato con abilità ci si ritrove-rà completamente sfasati nel cuore della giornata avendol’impressione di trovarsi ancora in quella precedente. Così siperderà un venerdì, tecnica omeopatica infallibile. Se ti sen-tirai da schifo dopo la notte passata a bere come un/a mat-to/a concediti un paio d’ore di sonno, due, ma solo dopo ilpranzo. Ti gioverà se riuscirai a consumarlo con personeche hanno dormito, ti faranno notare di quanto ti sei allon-tanato dal pensiero comune, la differenza tra te e loro saràun passo verso la completa guarigione.Al risveglio sarai un altro, la realtà che dovrebbe apparire fa-

miliare ti lascerà a bocca aperta. A causa della privazione disonno il tuo punto di vista abituale non esisterà più, tuttoapparirà inusuale. Una parte di te se ne starà sempre in dis-parte sorridendo di quello che tutti fanno e dicono, l’altraparteciperà al fare e al dire e verrà accettata normalmentedagli altri; sarai tu a iniziare a distaccarti da te stesso fino anon riconoscerti più.Di buon ora, non più tardi delle cinque, recati a consumareun aperitivo con amici festaioli, meglio se si tratta di uno opiù compleanni. Seguili. Non dimenticare mai di non smet-tere di bere, bevi e se ti dovessi ritrovare a cena in una bai-ta a duemila metri prova la grappa di genziana. Ormai nonsei più ubriaco, diffondi la calma di chi non sente più nien-te, sei folle, il tuo pensiero è incoerente e ti sembrerà di es-sere così da sempre.Alle sette del mattino puoi finalmente buttarti a letto madovrai assicurarti che qualcuno ti sveglierà per un pranzocon forti bevitori della domenica in questo caso, abituali,per gli altri giorni della settimana. Con loro bevi più chepuoi, questa disciplina ti darà la forza per non dormire. Sel’alcol non dovesse bastare ricordati dell’energia libidica, tiappoggerà fino alla fine della procedura di “alleggerimen-to” dell’Io e se ti andrà bene ti darà un motivo per fermartiprima del precipizio, se ti andrà male, ti costerà la vita.Recati nel locale dove conosci i gestori, ti offriranno i cock-tail che ti piacciono tanto, poi per sdebitarti con loro berraibirra che se sceglierai bene potrà sostituire la cena. Infine,lasciati consigliare una buona nottata di sonno dal/la com-pagno/a che ha dato origine a queste settantadue ore diveglia.Quando lunedì mattina ti sveglierai alle otto senza la mini-ma fatica, capirai di non essere più te. Hai consumato laconsapevolezza del tuo Io per tre giorni di fila. Sarai vuoto,dovrai ripensare le cose più banali, la tua vita, la tua realtàquotidiana dovranno essere ricostruite pezzo per pezzo. Iponti che avevi innalzato con fatica per riuscire a raggiun-gere gli altri sono crollati. Dovrai ricostruire tutte le abitudi-ni che ti permettevano di vivere.Capirai che una notte di sonno non ti è bastata, capirai chela ricostruzione sarà dura e che per rimettere assieme il tuoIo come minimo dovrai scrivere. Scrivi per issarti a bordo,per ritrovare l’equilibrio che tanto ti è caro e che per segui-re la libido non ti sei posto il problema di conservare.Scrivi per capire meglio cosa è successo, scrivi per comuni-care come ti è apparsa la strada che ti avrebbe allontanatodai sentieri battuti. E adesso che sai da dove sei arrivatopuoi anche tornare indietro, se ti è andata bene, altrimentiti costerà la vita.

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Rimedio omeopatico contro la folliaEstratto da: Il Grosso Libro delle Terapie Naturali

Sguardod

i Giu

lia Ferrand

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Extravaganti

Dr. HAMMPAPPABUONA

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Pezzi di vetro

Giosuè Renato Vinay

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Dovrebbe pioveresette secoliper lavarmidel tutto.

L’ultima rosa appassitapende al centro dell’arcoe cede i suoi petali all’acqua.È stata per giorni e giornila mia rosa.È durata a lungo,tra bocciuolo e fioritura,sola al centro dell’arcoriempiva quel piccolo spaziodi cielo che appartiene, ancora.Ora gli ultimi petali deformicadono pesanti a terracome coppe dilatateincapaci di contenere la rugiada.Della rosa non rimane cheun duro pugno,sconcio e spogliocome uno scheletro lavatoda interminabili secolidi pioggia.

Dovrebbe pioveresette secoliper lavarmidel tutto.

Piove.

I giorni della rosa

La poesia di Giosuè Renato Vinay è incentrata sulla figuradella rosa, protagonista della lunga strofa centrale, che sicontrappone alla disperata invocazione del poeta, corni-ce del componimento. Quel fiore tanto tenue e delicato èin grado di colmare un vuoto, quel piccolo spazio di cieloche accompagna l’angoscia quotidiana. L’animo soffe-rente trova in lei consolazione, trasmette tenerezza evo-cando l’immagine del Piccolo principe che parla della suarosa. Ai suoi occhi quel fiore, simbolo di purezza, cede altempo, si secca, perisce, si fa «scheletro lavato» di frontealla condizione di chi si sente impuro, al punto che neppu-re secoli di pioggia potranno cancellarne il dolore. O forse,per un momento, è bastata la rugiada contenuta nei pe-tali di rosa. (Rossella)