Occasioni di letteratura digitaledrm.ebook.telecomitalia.com/free/Pretesti-2012-Numero2.pdf · Il...

49
| Febbraio 2012 pretesti 1 L'acquedotto di Cervia di Gene Gnocchi L'incantesimo di Dickens di Edoardo Rialti Il miracolo della parola di Marek Halter Messico e nuvole di Gianni Biondillo Occasioni di letteratura digitale pretesti Febbraio 2012 • Numero 2

Transcript of Occasioni di letteratura digitaledrm.ebook.telecomitalia.com/free/Pretesti-2012-Numero2.pdf · Il...

| Febbraio 2012pretesti1

L'acquedotto di Cerviadi Gene Gnocchi

L'incantesimo di Dickens di Edoardo Rialti

Il miracolo della parola di Marek Halter

Messico e nuvoledi Gianni Biondillo

Occasioni di letteratura digitale

pretesti

Febbraio 2012 • Numero 2

I TUOI LIBRI SEMPRE CON TE E UN’INTERA LIBRERIA A DISPOSIZIONE

www.biblet.it

APERTA 24 ORE SU 24!

| Febbraio 2012pretesti3

Sono trascorsi duecento anni dalla nascita di Charles Dickens e Alessandro Mari propone un romanzo digitale a puntate. Roberto Saviano riscuote uno straordinario successo con un rac­conto ebook. Sono passati più di cinquecento anni dall’invenzione della stampa e nel 2015 si celebreranno i quarant’anni dal primo Olivetti da tavolo con floppy disk incorporato. Nel valutare la contrazione del tempo di impatto di una nuova tecnologia sicuramente biso­gnerà tenere presente che, affinché il romanzo si affermasse, sarebbero dovuti passare almeno tre secoli dall’invenzione della stampa a caratteri mobili, mentre nel mondo contemporaneo invece bastano poco meno di quarant’anni dall’invenzione di un elaboratore da tavolo alla formazione di una nuova letteratura. Che già mostra in nuce quanto potrà essere radioso il suo futuro. Si attende infatti un’esplosione del mercato degli ebook. Ma ci si dimentica che il successo economico è dato dalla risposta adeguata a un bisogno reale. Come potranno affer­marsi nuovi canali di intrattenimento se non si adegueranno i messaggi da trasmettere?Gene Gnocchi si misura allora con la scrittura digitale e dal mondo dello spettacolo e del teatro traghetta una simpatia amara e un dolore inaspettato. Il suo racconto è forte come un pugno nello stomaco e la storia appare veloce e intensa nella mente di chi la legge tra una fermata e l’altra del metrò. Gianni Biondillo ci fa sognare il Messico e con Edoardo Rialti viag­geremo nei sogni di Dickens. Con Il cabalista di Praga scopriremo invece il destino del figlio di un tipografo, l’autore Marek Halter: sarà bestseller?Roberto Dessì e Daniela De Pasquale per Il mondo dell’ebook fanno luce sui nuovi mezzi e le fortune tecnologiche della letteratura tra social reading e feuilleton. In Buona la prima France­sco Baucia ricorda un capolavoro della letteratura fantastica curato da Carlo Fruttero (recen­temente scomparso) e Sergio Solmi per Einaudi mentre con Lorenzo Coveri dell’Accademia della Crusca entreremo nei testi delle canzoni del Festival di Sanremo 2012. Sulla punta della lingua celebra così chi già da tempo è stato costretto a confrontarsi con il cambio delle tec­nologie per la diffusione dei propri contenuti. In Anima del mondo e in Alta cucina sentiremo Berlino e mangeremo New York.“Entertainment” dicono gli inglesi, e “intrattenimento” possiamo tradurre in italiano: ecco quello che da sempre cercano gli uomini, in ogni forma. Risiede qui la forza della letteratura, nella risposta a questa domanda di “compagnia” che da sempre abita la solitudine dell’uma­nità. Per questo sogniamo, per questo viviamo, per questo amiamo.

Buoni PreTesti a tutti.Roberto Murgia

Editoriale

| Febbraio 2012pretesti4

32-34Buona la primaLe meraviglie del possibile (1959)di Francesco Baucia35-37Sulla punta della linguaL'italiano canterinodi Lorenzo Coveri38-40Anima del mondoLa città invisibiledi Luca Bisin41-44Alta cucina A Roman Punch in New Yorkdi Francesco Baucia45 Recensioni

46Appuntamenti

47 Tweets / Bookbugs

RubRIChETEsTI

05-07RaccontoL'acquedotto di Cerviadi Gene Gnocchi8-13SaggioL'incantesimo di Dickensdi Edoardo Rialti14-18AnticipazioneIl miracolo della parola di Marek Halter 19-23Racconto Messico e Nuvoledi Gianni Biondillo

IL MONDO DELL’EBOOk

24-27Quattro passi nel fenomeno del social readingdi Roberto Dessì28-31Feuilleton 2.0:il nuovo formato del libro è l'ebook in progressdi Daniela De Pasquale

Indice

| Febbraio 2012pretesti5

di Gene Gnocchi

Racconto

L'ACQUEDOTTO DI CERVIA

| Febbraio 2012pretesti6

na settimana fa ho tentato il sui­cidio. Erano le 19,30 e sono salito in cima all'acquedotto di Cervia a circa ventisette metri d'altez­

za, anzi a ventiquattro, perché proprio sot­to c'è il perlinato della pizzeria "L'origano", un perlinato abusivo, non ancora sanato. Era una giornata fredda e umida, se ben ri­cordo era il giorno che avevano trovato An­tonio Di Pietro schiacciato dal suo trattore a Montenero di Bisaccia, forse aveva cer­cato di dissodare un ca­lanco troppo scosceso, e se ne sono accorti perché non aveva ancora ‒ era­no quasi le 18 ‒ rilascia­to nessuna dichiarazione contro il malaffare. L'a­vevano trovato proprio sotto il trattore, in ma­niche di camicia, sotto il peso, come succede sem­pre ai morti da trattore. Ricordo anche che nes­suno aveva pensato all'o­micidio, neanche l'Italia dei Valori tranne Dona­di che, testuali parole, "aspettava le risultanze del rapporto della poli­zia anche se a un primo esame gli interrogativi erano parecchi". Comunque sia io ero lì per tentare il suicidio dall'acquedotto di Cervia; in quel momen­to, in quel preciso momento non sapevo neanche che Di Pietro era rimasto schiac­ciato sotto il suo trattore perdendo la vita. L'ho saputo dopo, quando è finito tutto.

Sono stato sull'acquedotto di Cervia per quasi otto ore. Siccome non ho minacciato di buttarmi per avere del lavoro o per delle pene amorose, ma per una normalissima cri­si esistenziale che mi ha portato a conclude­re che non volevo più niente dalla vita, una ventina, forse diciotto persone sono salite, e per cercare di convincermi a non buttarmi sul perlinato della pizzeria "L'origano" mi hanno dovuto parlare di quanto sia bello vivere e di quante cose belle potesse anco­

ra riservarmi l'esistenza. Io avevo spiegato fin da subito che mi buttavo di sotto perché non mi in­teressava più niente del mondo, non vedevo nes­suna luce, solo buio più altro buio e ancora buio, e i giorni mi passavano via lentissimi e non aspetta­vo niente. Ma tutti questi non se ne sono dati per inteso e ognuno a turno si è sentito in dovere di dirmi che la vita doveva essere vissuta tutta fino all'ultimo giorno, e an­che se io gli rispondevo che per me l'ultimo gior­no era quello, loro hanno insistito tutti così tanto

che sono rimasto ad ascoltarli. È arrivato anche uno con un cappotto scu­ro, uno magrino senza occhiali che per con­vincermi a non farla finita mi ha detto che se mi fossi buttato avrei perso i benefici del ridursi della spinta inflattiva e i vantaggi che sarebbero venuti dalla manovra bis e

U

Io mi sono ricordato in quel momento che

quando ero felice mangiavo dei biscotti, oppure andavo al Gran

sasso con un mio amico che ha le chiavi

del telescopio del Gran sasso

| Febbraio 2012pretesti7

dalle liberalizzazioni, oltre al fatto che con gli sgravi fiscali e gli incentivi alle aziende sarebbero ripartiti i consumi, anche non te­nendo aperti i negozi tutta la notte. Io mi sono ricordato in quel momento che quando ero felice mangiavo dei biscotti, oppure andavo al Gran Sasso con un mio amico che ha le chiavi del telescopio del Gran Sasso. Arrivavamo lì, finito l'orario di lavoro, entravamo in questo salone dove c'era l'enorme aggeggio e mettevamo fuo­ri fuoco le lenti del telescopio per fare un scherzo, così che la mattina dopo arrivava­no gli astrofisici, puntavano il telescopio, che so, su Marte o su Plutone o su Saturno e li vedevano tutti sfuocati; così dovevano chiamare il tecnico, che era un nostro amico ‒ uno che lavorava all'Euronics di Chieti e che montava anche le lavatrici e le lavasto­viglie, e non era sempre disponibile ‒ e lui ci dava la percentuale. Così il telescopio del Gran Sasso stava fuori fuoco anche due o tre giorni e si era tutti, dico tutti in Italia,

ignari delle cose che succedevano su Pluto­ne o Saturno o Marte, sapendo poi che là ne succedevano di tutti i colori. Ecco, quando la gente saliva sull'acquedotto di Cervia e mi parlava, io ascoltavo un po' poi mi veni­vano in mente questi momenti che non tor­neranno più. Così, ridisceso anche l'ultimo che era venuto su per convincermi, si è for­mato in cima all'acquedotto un bel silenzio rotondo, pieno, lo stesso silenzio di poche notti piene di grilli che cantano tutti insie­me e dopo un po' smettono per rifiatare, e in quel momento si sente solo il respiro as­sente dei grilli. Era venuto dunque un silen­zio ottuso, senza speranza, pieno di silenzi singoli confluenti in quell'unico grande, un bel silenzio buono per decidere.Così mi sono lanciato e posso dire che dopo non c'è niente, neanche il rimpianto di non esserci più. Non c'è paradiso, non c'è l'in­ferno, non c'è il purgatorio, e questo ve lo voglio dire: tutte le volte che ricevete posta dall'aldilà, diffidate. •

Eugenio Ghiozzi, in arte Gene Gnocchi, è autore di Una lieve imprecisione (Garzanti 1991), Stati di famiglia (Einaudi 1993), Il signor Leprotti è sensibile (Einaudi 1995), La casa di chi (Il Melangolo 1996, insieme a Mauro Bellei), Sistemazione provvisoria del buio (Einaudi 2001), Sai che la Ventura dal vivo è quasi il doppio? (Einaudi 2002) e Il mondo senza un filo di grasso (Bompiani 2004). Il suo ultimo libro L'invenzione del balcone (Bompiani 2011) è disponibile in ebook da Biblet.

Gene Gnocchi

Disponibile su www.biblet.it

| Febbraio 2012pretesti8

saggio

di Edoardo Rialti

L'INCANTESIMO DI DICKENSProdigi e portenti dell'esistenza quotidiana nei capolavori del maestro inglese

v

| Febbraio 2012pretesti9

n mezzo a quel gran mare spu­meggiante d'allegria che è Il circolo Pickwick, con le sue farse e le sue av­venture picaresche, dove, come nel

Don Chisciotte, la ridicola goffaggine dei protagonisti si carica pagina dopo pagina d'un aureola di gioiosa santità, d'un tratto il lettore si trova esposto alla gelida corrente di un racconto del tutto diverso, e rabbrivi­disce: si racconta la storia di una famiglio­la imprigionata per debiti. La madre ed il bambino muoiono di stenti, e l'uomo rima­ne solo. Ed ecco che il narratore fa un pas­so avanti, come incapace a trattenersi dal ribadire qualcosa di decisivo: “Non sa, chi definisce freddamente la morte dei poveri come una benefica liberazione dal dolore per chi se ne va, e una provvidenziale dimi­nuzione delle spese per chi gli sopravvive, non sa, dicevo, quale sia l'angoscia di que­sti lutti. Uno sguardo affettuoso e premuro­so scambiato in silenzio quando tutti hanno distolto freddamente il loro, la sicurezza di aver conservato la simpatia e l'affetto di un essere umano quando tutti ci hanno volta­to le spalle, sono un'àncora, un sostegno, un conforto nella più profonda afflizione, e nessuna ricchezza può comprarli, nessuna potenza può renderli obbligatori”.Tanta parte della forza artistica di Dickens costituisce proprio una vasta cassa di riso­nanza a quel “non sa”: la sua forza nell'ad­ditare ancora e ancora la glaciale indiffe­renza di chi (come lo Scrooge che vedrebbe di buon grado la morte dei senza tetto, se questo può abbassare l'eccesso di popola­zione) riposa nello stato attuale delle cose, ben disposto a conservarlo se ciò comporta il proprio benessere e la propria sicurezza, ma anche dell'altrettanto gelida astrazione

dei cosiddetti riformatori sociali, così inna­morati delle proprie buone intenzioni e dal proprio amore per l'umanità intera per la­sciarsi davvero commuovere e coinvolgere dalle vite di coloro che incontrano. Se Man­zoni ci ha regalato Donna Prassede e il suo stolido moralismo, i romanzi di Dickens pullulano di figure simili, la cui apparente benevolenza si è fatta indistinguibile dalla crudeltà. Basti pensare al grottesco ritratto in Casa desolata della Signora Pardiggle, che si pavoneggia nel presentare alle amiche i figli che ha coinvolto a forza nelle sue atti­vità benefiche: “Egbert, il maggiore (dodici anni), è il ragazzino che spedì tutto quello che aveva in tasca, ossia cinque scellini e tre pence, agli Indiani Tockahoopo. Oswald, il secondogenito (dieci anni e mezzo) è il bam­

I

| Febbraio 2012pretesti10

bino che ha donato due scellini e nove pence al monumento dei Grandi Frammenti Na­zionali. Francis, il terzo (nove), uno scelli­no, sei pence e mezzo; Felix, il quarto (sette) otto pence alle Vedove Decrepite; Alfred, il più giovane (cinque anni) si è iscritto di sua volontà nelle Alleanze Infantili della Gioia, e ha giurato di non far mai uso di tabacco in vita sua”. Il laconico commento della voce narrante è che “non avevamo mai visto bambini così scontenti”. La signora trasci­na le ospiti in una delle sue ronde nei quar­tieri poveri, entrando in una casa dove il marito ha da poco battuto la moglie e che all'ingresso della pia donna le vomi­ta addosso bestemmie e volgarità: “Se ho letto il libretto che mi ave­te lasciato? No, non ho letto il libretto che mi avete lasciato”, sbotta esasperato, ma la donna non demorde: “prese un buon libro, come fosse la mazza di una guar­dia, e dichiarò in arresto tutta la famiglia. Intendo naturalmente in arresto religioso; ma in realtà così fece, come se fosse un ine­sorabile poliziotto morale pronto a traspor­tarla tutta in guardina”. Non si potrebbe immaginare una distanza più abissale di questo totale scarto di immedesimazione. Certo, ciò che manca ai miserabili è anche un alleviarsi delle indigenze (quel “Ne vor­rei ancora, signore” di Oliver Twist) ma dentro e oltre tale bisogno, prima e aldilà di qualsiasi riforma, è proprio la mancanza di quello “sguardo premuroso” ciò che strazia

più a fondo. Lo sa bene lo Smike di Nicho-las Nickelby, lo zoppo che tutti ritengono un idiota buono solo per le staffilate del sadico Squeers; lo afferma chiaramente il galeotto Magwitch, sorpreso dal Pip di Grandi spe-ranze ad aggirarsi braccato nelle fetide pa­ludi. Non occorre molto, alle persone come lui, per raccontare la propria storia: “In pri­gione e fuori, in prigione e fuori, in prigio­ne e fuori. Ecco fatto... Per quel che ricordo, non ci fu mai anima viva che guardasse il giovane Abel Magwitch, con quel poco che

aveva dentro di lui e su di lui, se non con pau­ra o per cacciarlo via o per arrestarlo”. Ma l'ar­te di Dickens ci ram­menta che tale ferita è possibile in qualsiasi contesto e condizione; si può essere somma­mente ricchi e potenti, invidiati e temuti, ep­pure soffrire la stessa fondamentale mancan­za, come testimonia la Signorina Havisham di

Grandi speranze che ha trasformato i propri beni favolosi in un museo delle cere, rag­gelato al giorno, all'ora e al momento pre­ciso in cui il suo promesso sposo l'aveva abbandonata per profitto. Ed è ciò che, con un sorprendente colpo di scena, Dickens fa vivere al lettore nelle ultime ore di vita per­fino del perfido Fagin: l'ebreo criminale che strisciava come una vipera e aveva rapito e acconsentito alla morte di Oliver, al mo­mento del processo finale ci viene presen­tato inerme dinanzi a una foresta di occhi ostili, e sull'ombra dell'untuoso malvivente

"Fermati, tu che leggi, e medita per un

momento sulla lunga catena di bronzo e

d'oro, di spine o di fiori, che mai ti avrebbe

soggiogato se in un solo memorabile

giorno non si fosse formato e chiuso il

primo anello"

| Febbraio 2012pretesti11

si sovrappone quella di un altro Ebreo pro­cessato nella riprovazione generale, mille e ottocento anni prima.Ma quello sguardo, di cui Dickens esprime la mancanza in una così vasta gamma di sfumature e conseguenze, è anche l'unica forza, l'unico “incantesimo” capace di ri­baltare qualsiasi situazione, qualsiasi per­corso, gettando una luce diversa su ciò che pareva determina­to senza speranza.Jill Kriegel la defi­nì “la paradossa­le combinazione in Dickens di una critica insistente dell'ordine sociale ed una persistente fede nell'indivi­duo”. Dickens era convinto che “così accade a tutti gli esseri umani. Cer­cate col pensiero di eliminare un dato giorno speciale della vostra vita e pensate a come di­verso potrebbe esser stato il suo corso! Fer­mati, tu che leggi, e medita per un momen­to sulla lunga catena di bronzo e d'oro, di spine o di fiori, che mai ti avrebbe soggio­gato se in un solo memorabile giorno non si fosse formato e chiuso il primo anello”. E le sue opere traboccano non solo di momenti in cui, in silenzio o con clamore, si forgiano le ferree catene dell'odio e della solitudi­ne, ma anche di come basti un solo istan­te nel quale si faccia strada uno sguardo di vera, reale compassione e commozione, per

schiudere una possibilità del tutto diversa, un “salto” che non è appunto determina­to dalla “quantità” dei vantaggi elargibili, ma dalla “qualità” della disposizione di chi decide di coinvolgere la sua vita con quella dell'altro. In Casa desolata la Signora Pardig­gle, col suo sermoneggiare, non si sofferma davvero a guardare chi le sta intorno, ma l'amica che ha trascinato con sé si accosta in

silenzio alla donna battuta e si accorge che costei stringe al seno un bambi­no morto: “la com­passione, la pura bontà con la quale si curvò piangendo per poi mettere la sua mano su quella della madre” han­no un solo effetto, per cui “la donna dapprima la fissò stupita, e poi scop­piò in lacrime”. Non si è potuto fare niente, eppure tutto è cambiato, e

persino il marito violento e bestemmiatore “si era alzato, continuando a fumare la pipa con aria di sfida, ma in silenzio”. Un simile sguardo si fa largo in qualsiasi situazione, ed è possibile non solo a eroi limpidi e ca­vallereschi come il giovane Nicklebly che ritorce su Squeers la frusta con cui questi flagellava Smike o la dignitosa e silenziosa bontà del fabbro Joe che in Grandi speranze è pronto a scomparire pur di non far sfigura­re l'amico Pip nella sua nuova vita da gran signore, ma traluce anche nelle eccentriche

Dickens coi suoi romanzi e personaggi ci ha ricordato la divina dignità per cui “tutti gli uomini sono tragici, e tutti gli

uomini sono comici”

| Febbraio 2012pretesti12

bizzarrie della zia Betsy in David Copperfield e nella compassione con cui la prostituta Nell cerca di aiutare Oliver Twist, ma an­che nell'affetto che il tenebroso Steerforth ha sempre conservato per David Copper­field, fin da quando lo proteggeva a scuola, e persino nel contorto affetto con cui Fagin ha accolto lo stesso Oliver, insegnandogli a rubare perché è l'unica arma con cui crede si possa sopravvivere in un mondo di belve feroci. È lo sguardo che Pip rivolge al for­zato Magwitch mentre lo trascinano via in catene, senza sapere che quell'occhiata ne cambierà per sempre l'esistenza, ed è sem­pre così che il ragazzo alla fine guarderà anche alla infernale Signorina Havisham, cogliendone tutta la segreta miseria: “al ve­derla così con i capelli bianchi e il volto di­strutto in ginocchio ai miei piedi, fui scosso da un brivido che mi penetrò fino alle ossa. Le scongiurai di alzarsi e le tesi le mani”. Tutto può restare quantitativamente im­mutato, eppure si è aperta la breccia di un mondo nuovo, e lo storpio Smike, alla do­manda se abbia una casa da qualche parte, può ribattere a Nicholas Nickelby che “La mia casa sei tu.” È così che una pietra di sel­ce, sgradevole e gelido come una pioggia invernale, come lo strozzino Scrooge, che scopre di aver già addosso le invisibili ca­tene dell'inferno, può vederle spezzarsi per la pietà che il suo cuore rivolge in silenzio al figlio malato del suo dipendente, prima ancora di poter fare alcunché per miglio­rarne la sorte. Per il critico Anthony Esolen in Dickens sono proprio i bambini a essere spesso “gli araldi” di questo mondo diver­so, sebbene sia “facile per il cinico spazzar via la resa dickensiana dei bambini come sentimentalismo. Ma i cinici hanno poco

da insegnarci sulla profondità di qualsia­si cosa, figuriamoci dei bambini”. La loro unica forza sta nella possibilità di risveglia­re in chi li incontra il riconoscimento della propria medesima indigenza, esistenziale e non sociale. Ma questa commozione in Di­ckens è ben lontana dall'essere solo tragi­ca, e ancor più distante dall'essere seriosa. Come ha notato quello che resta il suo cri­tico migliore, G.K. Chesterton, Dickens coi suoi romanzi e personaggi ci ha ricordato la divina dignità per cui “tutti gli uomini sono tragici, e tutti gli uomini sono comici”. La stessa commossa attenzione, che può dare speranza alla circostanza più doloro­sa, è all'origine della inesauribile simpatia

Il circolo Pickwick

| Febbraio 2012pretesti13

con cui Dickens si rivolge a qualsiasi tipo umano, come dinanzi a un evento unico e irripetibile nella sua immensità; ecco, per Chesterton, “la lezione conclusiva e più profonda di Dickens: è nella nostra vita di tutti i giorni che dobbiamo guardare in cer­ca di portenti e di prodigi”, giacché questo è in effetti “il vero vangelo di Dickens, le inesauribili opportunità offerte dalla liber­tà e dalla varietà dell'uomo. A paragone con una vita simile, tutta la cosa pubblica, tutta la fama, tutta la sapienza è per sua natura un affare rattrappito, freddo e piccolo”.Ecco perché, secondo Mario Praz, egli risul­ta secondo solo a Shakespeare nel tratteg­giare una galleria di personaggi così vasti e indimenticabili (Micawber e la sua ine­sauribile riserva di allegria, Picwick e Sam Weller, la zia Betsy o l'attorucolo Crumm­les...), che il lettore lascia a libro concluso con l'affetto e la nostalgia che si riserva ad un amico, o a un parente conosciuto da

sempre, e caro persino nei suoi difetti e nei suoi tic; C.S. Lewis ha definito Dickens il cantore di quello che i Greci chiamavano storghé, l'affetto, parola che nell'originale antico è tutt'altro che sdolcinata, e possie­de anzi una strana forza: solo l'affetto può sorridere senza sarcasmo, godendo, per così dire, dell'altro, proprio perché capace di vedere dentro di lui, cogliendo qualcosa del “cuore del suo mistero”, come notava l'Amleto di Shakespeare. Per Chesterton “c'è il grand'uomo che fa sentire tutti picco­li. Ma l'uomo davvero grande è colui che fa sentire grande ciascuno” e Dickens è stato grande proprio in tal senso: lo sguardo ago­gnato dal prigioniero in Pickwick è anzitutto lo sguardo dell'autore stesso, che attraverso i suoi personaggi raggiunge e contagia i let­tori, palesando ancora una volta la dignità dell'esistenza quotidiana, donandoci occhi rinnovati a cogliere la grandezza di chi ci sta attorno, e perfino di noi stessi. •

Edoardo Rialti insegna Letteratura presso l'Istituto teologico di Assisi. È collaboratore del quotidiano "Il Foglio". Studioso e traduttore di letteratura inglese, ha curato opere di C.S. Lewis, M.D. O' Brien, T. Howard, G.K. Chesterton per Rizzoli, Marietti, San Paolo. Ha pubblicato per Cantagalli L'uomo che ride, biografia letteraria di G.K. Chesterton che raccoglie il ciclo di articoli "Chestertoniana" comparsi settimanalmente su "Il Foglio". Ha curato nel 2011 il volume Una gioia antica e nuova. Scritti su Charles Dickens e la letteratura di G.K. Chesterton (Marietti).

Edoardo Rialti

| Febbraio 2012pretesti14

Pubblichiamo, in esclusiva per i lettori di PreTe­sti, un brano tratto dalle prime pagine del roman-zo di Marek Halter Il cabalista di Praga (Newton Compton) in libreria e in ebook in questi giorni.

i chiamo David Gans. Sono nato a Lippstadt, in Vestfalia, nell’anno 1541 del calenda­rio cristiano, ovvero l’an no

5301 dalla creazione del mondo per opera dell’Onni potente, sempre sia lodato. Sono morto a Praga, settan tadue anni più tardi. Nel vecchio cimitero ebraico una lapide por­

ta il mio nome. Sopra i sei bracci dello scudo di Davide è incisa un’oca. Due piccoli segni, scavati nella roccia, che parlano della mia vita. In tempi remoti, quello scudo, quella stella a sei bracci, era l’emblema degli ebrei di Praga prima an­cora di divenire quello di un popolo intero. Oggi nessuno sa che io fui il primo a incider­la accanto al mio nome. Un oblio che ha una ragion d’essere. I sei bracci così perfetti – il triangolo sulla cima che si rispecchia in uno uguale alla base – avevano per me ancor più valore del ricordo di Salomone. In quei

Anticipazione

Praga 1600. Il racconto di un segreto millenario tra storia e leggenda

di Marek Halter

M

IL MIRACOLO DELLA PAROLA

| Febbraio 2012pretesti15

tratti rivelavo la passione e il pia cere della mia vita, la purezza infinita della geometria, capace di tracciare, nel cuore della scienza astronomica, il cammino del Padreterno.E l’oca, allo stesso modo, apparteneva solo a me. Non era certo l’uccello più grazio­so o coraggioso del Creato, bisogna ammetterlo.Ciò nonostante, portiamo lo stesso nome: gans [Gans significa "oca" sia in tede­sco che in yiddish]. A lun­go questo fatto mi è basta­to per convincermi che ero de stinato a spiccare il volo nel mondo, senza sperare tutta via di regnarvi come un’aquila.In effetti, le aquile le ho fre­quentate da vicino. Si chia­mavano Galileo Galilei, Giordano Bruno, Giovanni Keplero, Tycho Brahe, Isaac Lu­ria, e la più immensa, il re dei saggi e prodi­gio della mia generazione: il rabbino Judah Loew ben Bezalel, Gran Rabbino di Poznań e di Praga, colui che noi tutti chiamiamo MaHaRaL.La grandezza del loro spirito fu per me, loro discepolo appassionato, una costante lezio­ne di umiltà e al tempo stesso una manife­stazione straordinaria della realizzazio ne dell’opera dell’Onnipotente. Perché nessuna bellezza di spirito si compie senza accostarsi alla volontà del Pa dreterno.Devo ammetterlo: a volte, il volo di quei mae­ stri era così elevato, di un’intelligenza così ardente, da rendermi cieco. Mi sono fatto prendere dall’illusione di potermi elevare

alla loro altezza. Il tempo mi ha richiamato alle mie proporzioni. Ho appreso la misura di ciò che devo loro e dell’apertura delle mie ali. Sono diventato, per così dire, un veicola­

tore dei loro pensieri. Un corriere della loro gran­dezza, alla quale tutta la mia vita fu ed è ancora dedicata.Forse per questo la brava gente di Praga ha fatto in­cidere sulla lapide del mio trapasso, sotto i due sim­boli della mia vita, queste parole altisonanti: "qui giace héasid morenu david gans, baal zemach david [Il giusto pio rabbino Da­vid Gans, autore dello Ze-mach David]".La frase suona bene. An­

cora oggi riesce a solleticare la mia vanità. Quella della modestia è una dura scuola. Non basta una vita per apprenderla e non passa giorno senza che io mi ci dedichi...Ah! Sento che la tua pazienza e la tua intelli­genza, let tore, iniziano a vacillare. Ti chiedi se colui che parla in queste pagine sia vivo o morto. Questo Gans che dice di essere pol­vere tra la polvere, oca nel vasto cortile del Padreterno, e che fa discorsi come un vivo mentre da quattrocento lunghi anni il suo corpo è tornato a essere argilla tra l’argilla!Eppure, è così. Il mio corpo non esiste più e la mia parola è viva.L’Onnipotente ci ha concesso il mondo come lo ve diamo. Noi crediamo di riconoscervi l’unica verità. Ci ha donato la materia. Noi conferiamo a essa il potere di un inizio e di

Disponibile su www.biblet.it

| Febbraio 2012pretesti16

una fine. Ciechi e presuntuosi, ecco cosa sia­mo. Ed è perché non si sono accontentati di quest’il lusione che i nostri maestri, il MaHa­RaL, Tycho Brahe, il grande Keplero e pochi altri, hanno raggiunto quel fir mamento del­la Conoscenza che si nega ai comuni esseri umani.Per quel che riguarda me, David Gans, in ve­rità Dio solo sa quando sparirò, poiché abito la Sua dimora, e la Sua dimora è quella del Verbo. Sin dal primo respiro dell’uomo, va così: la parola è la scintilla vitale dell’es sere.

Certo, donne, uomini, bambini o anziani, noi siamo parole di carne, movimenti di car­ne, vite ed emozioni di carne. E il tempo che le attraversa sfugge e, passando, le logora. Riduce la più sublime delle materie, la pelle di seta e l’incarnato di rosa, a un granello di polvere che il respiro di un bambino basta a disperdere.Ma il Verbo sì che è immortale. Non viene sopraffat to dalla furia, non si lascia ridurre in frantumi da alcun maglio. Nessun rogo, neanche tra quelli più insensati di quei seco­li pieni di violenze, l’ha consumato. È giunto con lo spirito dell’uomo, non con la sua car­

ne. E mai, mai sin dal primo giorno, ha ta­ciuto. Ecco: niente si crea al di fuori del Ver­bo, tutto soccom be in sua presenza. Coloro che lo ignorano sono deboli; grandi coloro che sanno inchinarsi di fronte a tale po tere. Esseri umani, semplici esseri umani, noi cre­diamo che solo la carne generi la carne. Ce­cità, ignoranza! Il re spiro, i battiti di un cuo­re colmo di sangue sono anch’es si il frutto delle parole che il Padreterno ha messo nelle nostre bocche. Oh lettori, lo sento, molti di voi mostrano già il sorriso dell’incredulità! Permettetemi, prima di lanciarmi nella no­stra grande storia comune, di narrarvi un piccolo epi sodio, e, prima di entrare nel pie­

no della festa, accenna re insieme a voi amici un passo di danza. Il Talmud (Sanhedrin 65b) racconta che rabbi Chanina e rabbi Oshaya conducevano una vita ritirata e di studio. Durante le veglie dello shabbat, perdevano ogni cognizione della realtà studiando fino alla nausea i rotoli del Sefer Yetsirah, il Libro della Creazione. Ben presto, le ve glie dello shabbat non bastarono più alla loro passio­ne. Dedicarono a essa i giorni comuni. Poi le notti comuni. Leggevano, imparavano, meditavano senza tregua. Can cellando dal­la propria coscienza il peso delle loro carni e ossa, consideravano solo l’esilità della pro­pria istruzio ne. Se dormivano o dedicavano un anche minimo tem po allo svago, doveva­no moltiplicare gli sforzi in seguito. Non si

sin dal primo respiro dell’uomo, va così:

la parola è la scintilla vitale dell’es sere

| Febbraio 2012pretesti17

rendevano conto che l’esilità del loro corpo era ben più grave di quella del loro sapere. La fame iniziò a sfinirli. La pelle del viso e del collo era ridotta a una pergamena più ruvida delle pagine del Sefer Yetsirah. Le loro rughe divennero profonde come un sentiero trac ciato nel deserto. Ancora uno shabbat, e la vita li avreb be abbandonati. Ma né l’uno, né l’altro ave­va la forza di andare in cerca di cibo. Rab­bi Chanina dichiarò: «L’Onnipotente ha detto: “Ho messo le Mie parole nella tua bocca”. Le parole che esco no da lab­bra pure generano la Vita. Ho fame, devo am metterlo. Cosa ri­schiamo a creare un vitello con le nostre parole, che sono il Verbo dell’Eterno, se non scoprire quanta purezza vi sia nelle nostre labbra?». Rabbi Oshaya rispose: «La nostra stupidità e la nostra punizione stanno pro­prio nel fatto di non averci pensato prima!».Tutti e due, con una sola voce, pronunciaro­no le parole necessarie. Ed ecco: un vitello di tre anni, dal pelo folto e lo sguardo stupito, si erse di fronte a loro.Rabbi Oshaya e rabbi Chanina, anche se era ciò che speravano, restarono di stucco. Mal­grado la loro grande debolezza, si alzarono e si avvicinarono al vitello, che sta va tranquil­lo. Gli toccarono il collo, i fianchi, la groppa. Tutto era reale e squisitamente commestibi­

le. Il grande sapere della Cabala li avrebbe saziati. Si presero il tempo di un banchetto.Questa storia l’ho letta tanto tempo fa. Mi fa­ceva sorri dere come ne sorridete voi, lettori. Ci credevo solo in parte.Pensavo che fosse una cosa impossibile nel

nostro mondo, più simile a ciò che i re­tori greci chiama­vano parabola: pa­role con la forza di un’im magine. Paro­le che all’apparen­za racchiudono solo l’om bra del proprio potere.Ignoravo che la vo­lontà dell’Eterno mi avrebbe presto reso testimone di un pro­digio ancor più stu­pefacente, una prova del potere talmente forte del Verbo che

ancor oggi il suo mistero m’incute timore. Un miracolo che ha dato una direzione e un senso a tutta la mia esistenza e che l’ha resa quello che è oggi: l’eternità della parola, che è anche la nostra memoria e la nostra vita futura.Un essere fatto di parole, ecco cos’è oramai David Gans.Alcuni uomini possono sentirsi orgogliosi della pro pria scoperta, della propria crea­zione. La mia unica fie rezza è la vastità della mia memoria. Io sono il testimone. Il messag­gero e il mezzo del ricordo. Porto su di me la grandezza degli altri e a volte faccio in modo che non sprofondi nella vostra indifferenza...

Il MahaRaL era giunto al prodigio dei prodigi.

Aveva eretto la scala che unisce la Terra al Cielo.

Che sgomen to, che terrore!

| Febbraio 2012pretesti18

Marek Halter è nato a Varsavia nel 1936. La madre era una poetessa yiddish e il padre un tipografo. Nel 1940 fugge dal ghetto di Varsavia e trova rifugio in Ucraina, dove una pattuglia di soldati sovietici lo arresta e lo trasferisce a Mosca. Il suo romanzo Abraham, pubblicato in Francia nel 1983, ottiene il premio Livre Inter e resta per otto settima­ne nella lista dei bestseller stilata dal "New York Times". Nel 1994 rea­lizza il film I giusti, che apre nel 1995 il Festival del Cinema di Berlino.Il cabalista di Praga è disponibile in eBook da Biblet.

Ogni giorno mi sembra abbastanza duro da essere l’ultimo, ma poi si leva l’alba succes­siva e le mie palpebre si schiudono, indican­domi che la mia missione non è anco ra com­piuta.

golem !Ecco la parola e il fuoco della mia esistenza!Ecco il mistero che ha fatto di me il gilgul, la metamor fosi, questo ebreo errante senz’al­tra dimora che la paro la, che va e viene in mezzo a voi, invisibile in mezzo alla folla e tuttavia presente nella vostra memoria di se­coli, qualunque siano le vostre credenze, le vostre paure e le vostre conoscenze.Ecco cosa è successo quel giorno di gennaio del 1600 nel cortile della yeshiva del mio mae­ stro il MaHaRaL, luce d’Israele, sia benedet­to il suo nome. Quel giorno, sì, la potenza di Dio si è mostrata nel potere dell’uomo.Il MaHaRaL era giunto al prodigio dei pro­digi. Aveva eretto la scala che unisce la Terra al Cielo. Che sgomen to, che terrore!Quale inaudito sapere!

E, in seguito, le schiere vollero seguirlo uni­camente per accaparrarsi la sua conoscenza.Le schiere dell’innocenza e dell’orgoglio. Le legioni del Male, soprattutto.Invano, invano si sono consacrati al miste­ro del Go lem. Mai con successo. Nessuno, dopo il rabbi Loew, il mio Maestro, ha sa­puto risalire la scala di Giacobbe, quella che unisce la Terra al Cielo.Nessuno è stato in grado di penetrare così a fondo nel le parole, nelle lettere e nella sag­gezza della Cabala. Gli sforzi non sono mancati. Mentre stermi­nava gli ebrei, Hitler, in eterno sia maledet­to il suo nome, ci pro vò. Che amara ironia! Per lo meno, temendo un simile prodigio, le truppe na ziste non osarono distruggere l’imponente statua del cre atore del Golem che veglia sul ghetto di Praga. E poco tempo dopo nemmeno i russi si ar­rischiarono a farlo. Ma ora basta. Ne sapete abbastanza perché possa rac contarvi la vera storia del Golem, io, David Gans, che fui te­stimone di questa stupefacente avventura.•

Marek Halter

© 2012 Newton Compton editori s.r.l.Traduzione dal francese di Federica Romano.

Disponibile su www.biblet.it

19

di Gianni Biondillo

Messicoe nuvole

Racconto

| Febbraio 2012pretesti

Città del Messico vivono gli an­geli. È quello che penso quando guardo Ana Maria, che è venuta a prendermi all'aeroporto. Ana

Maria è una scrittrice messicana, l'ho cono­sciuta a Gijon, durante la Semana Negra, ed è subito nata fra noi quella curiosa solidarie­tà fra scrittori errabondi. Lei ora mi fa salire su un taxi e mi racconta della sua città, che ama appassionatamente, dello stesso amo­re che ritrovo nelle parole che spendo per la mia città, così tanto bistrattata dall'immagi­nario collettivo, Milano.Non che Città del Messico sia da meno.A chiunque dicessi qual era la meta del mio viaggio vedevo gli occhi sbarrarsi: non prendere i taxi per strada, mi dicevano, non bere nulla col ghiaccio, vai in giro con una mascheri­na, non prendere la metropolitana, non mangiare nulla dalle bancarelle im­provvisate per stra­da, muoviti circo­spetto, attento alle rapine. La cosa più inverosimile che mi è stata detta sembra persino divertente tanto è assurda: Cit­tà del Messico è così inquinata che gli uc­celli di passo cado­no a terra tramortiti! Racconto alla spic­ciolata queste cose a Ana Maria che sorride, anche se vedo un velo di amarezza nei suoi occhi. Ovviamente io non credo a nulla di

tutto ciò. È semplicemente una questione di buon senso: chi di noi prenderebbe un taxi abusivo a Milano? Chi salirebbe su un mezzo pubblico con un fascio di cartamo­neta che gli spunta dalla tasca della cami­cia? Chi si aggirerebbe di notte nei vicoli bui della città?Sono un animale metropolitano, le città non mi spaventano, basta entrare in risonanza col battito del cuore urbano e il resto viene da solo. In fondo viaggiare è anche questo: fare a pezzi i luoghi comuni che ci portiamo dentro, smantellare i pregiudizi. Dunque nei pochi giorni che ho vissuto a Città del Messico (perché sì, io vivo le città, non le visito e basta) ho cercato di fare tutto quello che mi era stato sconsigliato. Grazie anche

ad Ana Maria, che, depositati i bagagli in albergo, mi porta subito verso lo Zo­calo, l'enorme piaz­za prospiciente la Cattedrale cittadina. Enorme anch'essa. Tutto è enorme a Cit­tà del Messico. Tutto ha una dimensio­ne quasi favolistica: Avenida des Insur­gentes, per capirci, la strada che taglia da sottinsù la città, è lunga 42 chilometri. È come partire da Milano e arrivare a Como e restare sem­

pre nella stessa città. Neppure sanno quan­ti abitanti faccia, Città del Messico. C'è chi dice venti milioni, chi trenta. Metà della

20

A

sono un animale metropolitano, le città

non mi spaventano, basta entrare in risonanza col battito del cuore urbano e il resto viene da solo

| Febbraio 2012pretesti

popolazione italiana concentrata in un uni­co agglomerato urbano. Sono le persone, il numero sterminato di persone, ovunque, che mi colpisce di più: per strada, nei bar, in metropolitana, nei parchi. Sembrano scatu­rire dalla terra, piovere dal cielo. Sono dap­pertutto. Nel frattempo saltiamo sopra un pesero, uno dei trabiccoli che portano verso il centro (“non prendere i mezzi pubblici!”). Sono sul Paseo de la Reforma, attraversia­mo la Zona Rosa ‒ un quartiere inizio No­vecento, dal gusto europeo ‒ fermandoci

ogni tanto al richiamo di chi vuole salire. Non ci sono fermate stabilite, il mezzo non ha neppure un numero di riconoscimento. Si sale e si scende quando si vuole, o quan­do si può. Io butto gli occhi fuori dal fine­strino e mi faccio puro sguardo. I palazzi crescono di altezza, diventano grattacieli. La città pulsa di vita, sembra un misto fra Berlino e Napoli. Ma è una semplificazione del mio cervello. Sto cercando, con i modelli urbani che conosco, quelli europei, un sen­so a questa città, ma comprendo che Città del Messico è qualcos'altro. È un po' come il figlio di due genitori, che per quanto ci si ossessioni a ritrovare il sorriso del padre

europeo o il taglio d'occhi della madre in­dia, lui, di suo, il bambino cresciuto, la città enorme, è qualcos'altro di autonomo e indi­pendente.Ci fermiamo all'Alameda Central – lo stori­co parco del centro città, quello dipinto dal meraviglioso murales di Diego Rivera – a comprare un po' di chicharones da una ban­carella abusiva (“non comprare nulla per strada!”), li mangio goloso, come un bimbo ad una fiera. Poi, più avanti è la volta di un tacos alla carne. Ana Maria ci aggiunge un po' di guacamole, una salsa piccante all'avo­cado. In prossimità della cattedrale è la vol­ta del dolce: polpa di platano glassata. Bene, se la maledizione di Montezuma non mi colpisce ora, penso, non mi colpirà mai più. La voce del povero Montezuma, invece, la sento soffrire nelle pietre degli scavi archeo­logici a due passi dalla cattedrale. L'ultimo regnante atzeco accolse con tutti gli onori Cortés, mostrando la sua città con orgoglio, pochi anni dopo non ne rimase più nulla. O quasi. Ché la storia non si può cancella­re mai per davvero. Soprattutto quando ha saputo dare luce a civiltà così complesse. È quello che penso andando con Jorge, il mio nuovo angelo custode, il giorno appresso, verso Teotihuacàn. Mi mostra una foto, Jor­ge: è gualcita, in bianco e nero, mostra una valle con dei curiosi montarozzi erbosi, al­cuni bassi, altri più prominenti, alle loro spalle le vette dei vulcani innevati. Ecco com'era Teotihuacàn un secolo fa. Nessuno sapeva che là sotto, ricoperta dalla polve­re della storia, dormivano la Piràmide de la Luna, la Piràmide del Sol, la Calle de los Muertos. Ci arriviamo in macchina e ad ogni rilievo vagamente conico penso che là sotto potrebbe assopirsi chissà quale al­

21

| Febbraio 2012pretesti

tro gioiello millenario. Ma prima beviamo un tequila (“un”, non “una”. Il tequila è maschile in Messico) da Jesus. Niente sale nell'incavo fra pollice e indice, mi dicono, è roba da gringos. Poi Jesus mi mostra tut­ta la procedura: dopo aver riempito alcuni bicchierini, taglia in spicchi alcuni frutti di lime, e li spolvera di sale. Infine addenta lo spicchio salato e risparmiandone la buccia, a bocca piena, ingolla il tequila, d'un fiato. Io, di mio, avevo già assaggiato il liquore e mi sembrava abbastanza forte, ma non oso contraddirlo. Ripeto l'intera operazio­ne, da buon scolaretto che vuole la lode dal suo maestro. Strappo la polpa dell'agrume salato e la faccio seguire dal bicchierino di tequila, che in bocca cambia radicalmente sapore. Il mio palato assiste a una reazio­ne chimica misteriosa, mi sento come una

ampolla di un alchimista che mescola gli ingredienti alla ricerca di una pozione ma­gica. Al terzo tequila Jorge mi rammenta le ragioni del mio viaggio. Lascio dispiaciuto Jesus per inerpicarmi verso la cima della Pi­ràmide del Sol. E finalmente in cima, men­tre attendo che il battito del cuore rallenti dopo la fatica della salita, sotto un sole cal­do e asciutto, una brezza lieve che raffresca le membra, lì, mentre osservo la valle come sul precipizio di un burrone, nella mia per­fetta solitudine, mi rendo conto di essere davvero felice.Nei giorni a seguire girerò spesso da solo la città, e spesso incontrerò persone che por­tano con sé una storia, un mondo da rac­contare: come Rafael, artigiano dell'argen­to, che sotto i miei occhi ha inciso il volto di un guerriero atzeco con una precisione

22

| Febbraio 2012pretesti23

degna dei monili che ho ammirato al me­raviglioso museo Antropologico, come la piccola india che mi ha venduto i due pon-chos che ho acquistato per le mie bambine in uno degli infiniti mercati abusivi della città, come Clara della Libreria Morgana, che vende solo libri in italiano (che cosa cu­riosa ritrovarsi dall'altra parte dell'oceano), come Leonardo, che nel parco di Chapulte­pec – enorme e bellissimo – mi ha racconta­to del suo amore per l'Italia, cercando però poi di vendermi un trattamento per lucida­re le scarpe (e inutile è stato mostrargli le scarpe da ginnastica ai piedi. “Possibile che un uomo non abbia delle scarpe di cuoio a casa?” sembrava pensare...). Ho girato per le undici linee metropolitane (“non prende­re la metro!”), mangiando quello che capi­tava (“non entrare in locali sconosciuti”) e soprattutto ho camminato continuamente, per chilometri e chilometri – San Angel, Coyacàn, Tacubaya, Polanco – come un

folle, quasi cercassi di misurarla tutta, con­scio che era come cercare di contenere in un bicchiere l'oceano. Ci vorrebbe un'intera esistenza per raccontarla tutta questa città. Ché ovunque fossi c'erano persone, facce, corpi, vita che brulicava.Ovunque fossi, ciò che vedevo, ciò che non vedo più da anni in Italia, era il popolo. Da noi, ormai, c'è solo “la gente”, qui, il popolo gremisce ancora le piazze, riempie i parchi, scambia, lavora, corre, sosta, ride, canta, soffre; si distende nelle strade della città, se ne impossessa, la ammanta come fosse un unico drappo multicolore cucito con pa­zienza dalle sapienti mani artigiane delle donne di questo paese. Questo penso mentre sotto di me scorre la città che si perde a vista d'occhio. Ho visto il popolo, penso, mentre l'aereo mi riporta verso casa. Anche se mi sembra, con una punta di tristezza, che in realtà la stia la­sciando, casa mia. •

Gianni Biondillo è nato a Milano, dove vive, nel 1966. Architetto, ha pubblicato saggi su Figini e Pollini, Giovanni Michelucci, Pier Paolo Pasolini, Carlo Levi, Elio Vittorini. Fa parte della redazione di Nazione Indiana. Ha scritto numerosi romanzi tra cui, più recente, I materiali del killer, una nuova indagine della serie che ha per protagonista l'ispettore Ferraro e che è stato vincitore del premio Giorgio Scerbanenco 2011 come miglior romanzo noir italiano del Courmayeur Noir in Festival.

Gianni Biondillo

Ovunque fossi, ciò che vedevo, ciò che non vedo più da anni in Italia, era il popolo.

Da noi, ormai, c'è solo “la gente”

| Febbraio 2012pretesti24

Il mondo dell’ebook

di Roberto Dessì

QUATTRO PASSINEL FENOMENODEL SOCIAL READINGI libri, da sempre fulcro di conversazioni e scambi d’idee, amplificano il loro raggio d’azione grazie ai social network. Da Twitter a Pottermore, ecco i circoli letterari nell’era del web 2.0.

| Febbraio 2012pretesti25

osa c’è di più sociale di un libro? Quante amicizie, amori, discus­sioni e idee sono nate attorno a una storia ben scritta? Quan­

ti volumi abbiamo visto passare di mano, sottolineati o annotati qua e là su margini fino ad allora immacolati? E ora i terribili eBook vorrebbero portarci via questa ma­gia, ingabbiandola in fredde sequenze bi­narie? Non sia mai. Il libro si evolve, ma la sua anima è immortale. Parafrasando Sha­kespeare, cambia la materia di cui sono fat­ti, ma non i sogni che contengono, divenuti liquidi e condivisibili in tempo reale grazie ai social network, declinati nel so-cial reading. Tredici semplici lettere che al loro interno na­scondono un inte­ro universo, gravi­tante attorno ai libri e alla Rete, popola­to di avatar virtuali dietro i quali si ce­lano lettori, scrittori, case editrici e addetti ai lavori, che trovano in Rete un fertile terreno di di­scussione. Nell’era Avanti Web 2.0, per entrare in contatto con un autore o si assisteva alla presentazione del suo ultimo romanzo ‒ cercando di agganciar­lo nella pausa aperitivo ‒ o gli si scriveva un’email, attendendo speranzosi una ri­sposta. Oggi è sufficiente fare un giro tra i social network, ed ecco spuntare come fun­ghi scampoli della quotidianità di chi, fino a poco tempo prima, era un’irraggiungibile

icona letteraria. Twitter è l’emblema dell’a­nima social­letteraria della Rete. Il servi­zio di microblogging, ormai celebre anche nel nostro Paese, offre a tante penne più o meno celebri un rifugio e un podio da cui arringare i propri follower, a patto di rima­nere entro il limite dei 140 caratteri. Tra i più social Paulo Coelho, che dispensa be­nedizioni virtuali e pillole dei suoi celebri aforismi, Patricia Cornwell, che cinguetta per sé e per il proprio alter ego letterario Kay Scarpetta, e William Gibson, papà del cyberpunk e non a caso appassionato di in­

novazioni tecnologi­che. Rimanendo nei pa­tri confini, ecco tra i tan­ti Alessandro Baricco (che posta solo in spagno­lo) , Michela Murgia (che a volte lo fa anche in sardo),

Twitter offre a tante penne più o meno

celebri un rifugio e un podio da cui arringare i

propri follower, a patto di rimanere entro il limite di

140 caratteri

C

| Febbraio 2012pretesti26

v

Roberto Saviano e Beppe Severgnini, at­tivissimi twittatori. La cosa fantastica dei social network è che sanno essere democra­tici, dando a tutti le stesse chance di suc­cesso. Chi è celebre offline non ha difficoltà a farsi degli amici online, ma anche quando si è semisconosciuti, con un po’ di tattica e pazienza si può mettere in vetrina e vender bene il proprio brand. John Locke e Aman-da Hocking, entrambi nel club dei “milio­nari” dell’eBook, hanno costruito le loro for­tune usando i social network come ufficio stampa e marketing. Tralasciando gli aspetti voyeuristici del Web, il social reading è tale quando crea un rapporto paritario e oriz­zontale tra lettori. Condivisione è la parola chiave, che si tratti di una generica recensio­ne sul libro appena letto, o si vada nel detta­glio annotando e integrando note a margine sull’eBook. Senza tirare in ballo l’osannato duo Facebook­Twitter, l’universo sociale dei libri ‒ digitali e non ‒ comincia da Anobii, capostipite dei book social network. Qui si può dar sfogo alle proprie frustrate aspirazioni di critici letterari, rendendo partecipi gli altri iscritti del proprio entusiasmo per la lettura appena conclusa, o spulciare le opinioni dei propri contatti e trovare così ispirazione per il prossimo titolo da acquistare. Parlando di scaffali non si può non citare GoodReads, che emula – in salsa sociale – il meccanismo

di suggerimento dei libri usato da Amazon. Qui però basta votare venti libri per far sì che il sistema intuisca i più adatti al nostro gusto, e ce li segnali. Se poi oltre ad un libro volete cercare anche una dolce metà con cui leggerlo accoccolati sotto le coperte, potete rivolgervi a Alikewise. A metà tra il social network e l’agenzia matrimoniale, il sito offre un singolare modo per conoscere l’a­nima gemella: l’affinità di preferenze lette­rarie. Si aggiungono sul profilo i titoli letti, qualche informazione personale, una bella foto e… si attende che il sistema selezioni per noi dei potenziali partner con i quali, se non altro, non si litigherà sui libri da acqui­stare.Per la categoria degli impazienti, che non sanno resistere alla foga del commento e leggono l’eBook annotandolo immediata­mente con le proprie impressioni, ecco un social network che parla italiano, con spic­cato accento sabaudo: su Bookliners ogni appunto si trasforma in una discussione, ogni sottolineatura in un momento di con­fronto, aggregando gli utenti non più sul libro ma sulla singola frase, rendendo la narrazione teoricamente infinita. Gli spa­gnoli di 24 Symbols strizzano invece l’oc­chio ai bulimici della lettura, e offrono una piattaforma dalla quale leggere e commen­tare a sazietà. Un’integrazione tra recensio­

Condivisione è la parola chiave, che si tratti di una generica recensione sul libro appena letto, o si vada nel dettaglio annotando e integrando note a margine sugli ebook

| Febbraio 2012pretesti27

v

ne e commento in tempo reale è quella di BookGlutton, che ambisce a raccoglie­re l’eredità dei circoli letterari al grido di “books are conversation”, slogan di cluetrai­niana memoria: annotazioni e commenti avvengono all’interno di cerchie di contatti talvolta aperte a tutti, in altre più selettive. Rasenta la genialità (o la follia?) uno degli ultimi arrivati: Small Demons. Così come del maiale non si butta via nulla, anche il libro può essere “tagliato” e catalogato per gruppi musicali, celebrità, prodotti e brand citati nella narrazione, collegati e incrociati con altre letture per creare e tracciare sor­prendenti percorsi tematici.

Fin qui i social network sui libri. Che dire in­vece dei libri che diventano social network? Esiste un solo caso, ma merita una catego­rizzazione a sé: Pottermore è il rifugio vir­tuale di migliaia di aspiranti maghette e ma­ghetti fan di Harry Potter e offre, oltre alla possibilità di leggere in esclusiva gli eBook della fortunata creatura di J.K. Rowling, un’immersiva esperienza di role play tra i corridoi della Scuola di Hogwarts. Non temano, comunque, i nostalgici del profumo di carta, né gli apocalittici che pre­dicano un futuro privo di relazioni sociali vis à vis. Il passo da virtuale e reale è breve, tanto quanto quello da libro a eBook. •

J.K. Rowling

| Febbraio 2012pretesti28

v

ew York 1841. La nave in arri­vo da Londra fu assalita da una folla che chiedeva: “Ma Nell è ancora viva?”. Il più impazien­

te andò incontro alla nave con una barchetta di fortuna. Poco importava se Nell Trent era una bambina di carta e inchiostro. I lettori americani non poteva­no aspettare un’ora di più per conoscere la sua sorte, nell’ul­timo episodio de La bottega dell’antiquario, storia pubblica­ta a puntate sul giornale Master Humphrey's Clock dall’auto­re­editore Charles Dickens. E racconta ancora la critica lette­raria Paola Colaiacomo che Di­ckens ricevette molte lettere dai suoi lettori perché non facesse morire Nell e altrettan­te proteste dopo la lettura della sua triste sorte. Emerge in questo racconto la forza dirompente del feuilleton, forma letteraria

in voga nella Francia e nell’Inghilterra di fine Ottocento, nata da pure logiche com­merciali ma rivelatasi un potente diffusore di cultura popolare e letteratura di massa.

Nel 1836 émilie de Girardin fondò La Presse, quotidiano low cost che ambiva a fidelizzare un ampio pubblico. Ripensando a due casi di successo, il feuille­ton di Louis­François Bertin di fine Settecento ‒ un insieme di rubriche di critica teatrale al­legato al Jounal des débats ‒ e la pubblicazione su un giornale di Honoré de Balzac di alcuni capitoli del suo libro per creare interesse e attesa, de Girardin decise di dedicare lo spazio che

altri giornali riservavano alla critica lettera­ria alla pubblicazione di romanzi a punta­te. Nacque così il feuilleton (foglio, pagina di libro), conosciuto anche come romanzo d’appendice (perché pubblicato in ultima o

Feuilleton 2.0:il nuovo formato del libro è l'eBook in progressun viaggio letterario nel tempo, dai romanzi a puntate dell’Ottocento alle nuove forme narrative seriali in formato digitale, in compagnia di Charles Dickens

Il mondo dell’ebook

di Daniela De Pasquale

N

| Febbraio 2012pretesti29 v

v

penultima pagina), da non considerare solo come letteratura di serie B, dal momento che ha dato vita a grandi classici. Tre su tutti: I tre moschettieri (Alexandre Dumas), I misteri di Parigi (Eugène Sue) e Le avventure di Pinocchio (Carlo Collodi).L’idea fu rivoluzionaria e con effetti a lungo termine: nella seconda metà del XIX secolo la cultura era un lusso e non esistevano al­tri mezzi di informazione se non i giornali. La borghesia leggeva le storie a puntate per svagarsi, le fasce più povere e meno istruite avevano finalmente accesso facile ed eco­nomico alla lettura. In Italia, per lo storico Michele Giocondi fino alla Grande Guerra un bestseller era un libro che in cinque anni vendeva 10.000 copie, col fascismo si salì a 20.000. I romanzi d’appendice potevano su­perare quota 100.000, forte segnale dell’al­fabetizzazione del Paese.Certamente l’iniezione di serialità crea di­pendenza dalle storie, ma quali sono gli in­gredienti magici del siero che trasformava tutti in lettori e che oggi vorremmo tanto ri­scoprire, visti i 723mila lettori italiani persi nel 2011, secondo l’ISTAT? Per Aldo Gras­so sono quattro: l’oleografia, la presenza di stereotipi riconoscibili che permettono al lettore di identificarsi col personaggio per trarne gratificazione; la contrapposizione eroe positivo/eroe negativo e bene/male, in cui i valori borghesi sono perfettamente codificati e difesi con il riscatto finale e il trionfo dei primi sui secondi. Infine l’agni­zione, il colpo di scena: una rivelazione im­provvisa che determina una svolta decisiva nella vicenda.Caratteristiche superbamente e lucidamen­te mixate nella serialità televisiva america­na, tanto che per lo stesso Grasso oggi l’e­

ducazione sentimentale degli adolescenti non si forma più con la grande narrativa ottocentesca ma con i teen-drama. A suppor­to di questa tesi, alcuni critici hanno defi­nito l’autore della serie The Sopranos Da­vid Chase come il Charles Dickens di oggi. Per Jonathan Franzen, le serie tv “stanno rimpiazzando il bisogno che veniva soddi­sfatto da un certo tipo di realismo del XIX secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi”. In realtà, prima di soap-opera e fiction con mafiosi, dottori e

casalinghe, a ereditare le strategie narra­tive del feuilleton sono stati i fotoroman­zi e i fumetti, i radiodrammi e il cinema. E il pensiero torna ancora a Dickens e alla sua incredibile modernità, perché, sostiene John Bowen ‒ tra i suoi massimi studiosi ‒ “è facile da adattare per la tv, il cinema e il teatro e usa tutte le strategie moderne di pubblicità per far conoscere i suoi libri. È multimediale”. E non aveva Facebook. Oggi, grazie alla tecnologia, i meccanismi della serialità si ripresentano in nuove for­me letterarie: sul web e sui blog si molti­plicano i romanzi a puntate e alcune azien­de stanno realizzando storie a episodi per

Oggi, grazie alla tecnologia, gli stilemi della narrazione seriale tipici del feuilleton dell’Ottocento si ripresentano in nuove forme letterarie sul web e altre piattaforme, coinvolgendo anche gli ebook

| Febbraio 2012pretesti30

vv

v

nuove piattaforme, sull’onda del successo dei keitai shosetsu, i romanzi giapponesi per cellulare scaricabili da iTunes una puntata al giorno. E, naturalmente, arriviamo agli eBook. Il processo di convergenza fonde

più media, compaiono nuovi device e le storie non sono più un semplice travaso da un formato all’altro, ma fluidi narrativi che si adattano ai nuovi contenitori. D’altra parte il leit motiv di queste settimane, dopo “If Book Then”, incontro internazionale de­dicato al futuro del libro, è proprio la neces­sità di innovare per costruire nuovi modelli di ricavi e nuove logiche di funzionamento per l'editoria. Lo sa bene Alessandro Mari, che ha abbracciato il nuovo progetto di Fel­trinelli aggiungendo un significativo tassel­lo al concetto di social writer. Banduna è sta­to il primo titolo della collana Zoom inte­ramente digitale: un eBook a puntate setti­manali da € 0,99 con prima uscita gratuita. Lo sforzo creativo autoriale è alto, il rac­conto ha un ritmo sincopato e ogni capi­tolo deve raggiungere un cliffhanger, quel­

la pausa narrativa con cui sul più bello si conclude l’episodio, lasciando il lettore con l’impaziente curiosità di scoprire cosa suc­cederà nel successivo. Tra un’uscita e l’al­tra, c’è il tempo di dialogare con i lettori su

un sito creato ad hoc, per ricevere feedback immediati da inserire “nella centrifuga dell’immaginazione” e, come un attore di teatro che sente l’umore della sala, decidere l’evoluzione della narrazione. Banduna non è dunque una storia già scritta e distribuita un capitolo per volta, ma un eBook in pro­gress. Ci sono poi altri esempi di offerta di contenuti digitali a rate. L’azienda BookRiff offre un servizio di DJ letterario: smembra gli eBook in capitoli vendibili singolarmen­te, e permette di creare nuovi eBook­com­pilation assemblando testi di diversi autori. DripRead è un’applicazione che suddivide eBook e altri file in piccole parti, inviando­ne una ogni giorno tramite email. Nell’at­tesa che altre aziende italiane si lancino in progetti di questo tipo, sul territorio nazio­nale arriva Chichili Agency, editore tedesco

banduna, l’eBook a puntate di Alessandro Mari nella collana Zoom di Feltrinelli, non è una storia già scritta e distribuita

un capitolo per volta, ma un ebook in progress, che si evolve con l’interazione dei lettori

| Febbraio 2012pretesti31

v

La serialità può essere considerata un valido terreno di esplorazione per una nuova concezione di letteratura prêt-à-porter al costo di un caffè

che vanta il maggior numero di vendita di eBook in Germania e già nelle classifiche di Amazon.it con l’horror seriale Chills. La sua mission è stare al passo con un lettore mo­derno hi­tech e sempre in movimento: chi legge in metropolitana probabilmente è un lettore forte che non vuole rinunciare alla lettura durante i suoi spostamenti. L’offerta è quindi un libro digitale di massimo trenta pagine, da leggere in quindici minuti e dal prezzo contenuto. Anche Banduna ha un li­mite di battute tra le 23 e le 26mila a punta­ta, l'equivalente di circa mezz'ora di lettura. L’idea di presentare contenuti, non necessa­riamente seriali, per tempo di lettura non è nuova, basti pensare allo store EmmaBooks o al sito giornalistico Longreads, focaliz­zato su forme di long journalism godibili proprio su tablet e eReader. Aggiungendo il fattore prezzo al tempo di lettura, il pen­siero vola ai Kindle Single che Amazon ha lanciato oltre un anno fa: racconti low cost

di 10­30mila caratteri, lunghezza “perfet­ta per buttar giù una singola idea geniale, ben sviluppata argomentata e illustrata”. La stessa collana Zoom di Feltrinelli contie­ne singoli racconti delle sue firme di punta, estratti da raccolte già pubblicate o inediti digitali. La tecnologia riduce le barriere d’accesso alla pubblicazione dei contenuti tanto che, per David Houle, oggi si pubblicano più libri in una settimana che in tutto il 1950. La serialità può essere allora considerata un valido terreno di esplorazione per una nuova concezione di letteratura prêt­à­por­ter al costo di un caffè: per l’editore 2.0 è un nuovo modello di business; per lo scrittore 2.0 è una nuova sfida creativa; per il letto­re 2.0 è un nuovo prodotto economico che si inserisce nel flusso veloce delle sue gior­nate, e lo aiuta ad acquisire familiarità con nuovi dispositivi e nuovi modi di concepire l’oggetto­libro.•

32 | Febbraio 2012pretesti

essuno è al sicuro, nessuno si salva, la nostra civiltà è fragilissima e può crollare in ogni momento”: chi negli ultimi mesi, leggendo le notizie economiche e politi­che, non ha sussurrato tra sé frasi di questo genere? Chi, pensando al sistema della finanza globale che sembra strangolare i destini di nazioni e individui,

non lo ha immaginato come una sorta di mostro fantascientifico? La frase che abbiamo ci­tato qui in apertura è di Carlo Fruttero, che la scrisse con negli occhi le immagini dell'atten­tato alle Twin Towers. Nel testo da cui è estrapolata, lo scrittore torinese meditava sulla ca­pacità della science-fiction di essere “profetica” nel senso più alto, ossia di mettere la mente

di Francesco Baucia

“N

buona la primastorie di libri ed edizioni

32

(1959)

" LE MERAVIGLIE DEL POSSIBILE"

A CURA DI SERGIO SOLMI E CARLO FRUTTERO

33 | Febbraio 2012pretesti

dell'uomo in assonanza con il proprio tem­po per coglierne quelle linee direttrici che conducono al domani. Una missione, inol­tre, quasi filosofica, se come diceva Hegel la filosofia è "apprendere il proprio tempo con il pensiero". Su questa scia, si potrebbe tentare una definizione della fantascienza dicendo che essa è "apprendere il proprio tempo con la fantasia". I mondi possibili e i futuri immaginari che questo genere ele­va a proprio orizzonte sono infatti solo un modo trasfigurato per parlare di noi, della no­stra vita attuale e di ciò che le può accadere da un momento all'altro.Tra i molti meriti lettera­ri ed editoriali che van­no ascritti a Carlo Frut­tero, morto di recente a 85 anni nella sua casa di Castiglione della Pe­scaia, c'è senza dubbio quello di aver promosso instancabilmente la dif­fusione della science-fic-tion in Italia. Lo ha fatto in due modi: dirigendo dal 1961 al 1986 (per un lungo periodo anche in coppia con Franco Lu­centini) la mitica colla­na mondadoriana Ura­nia e prima ancora curando a quattro mani con Sergio Solmi l'antologia di fantascienza Le meraviglie del possibile, apparsa per Ei­naudi nel 1959. L'intento che soggiaceva a questa operazione editoriale era quello di porre sotto l'egida severa e autorevole dello Struzzo un genere di narrativa che veniva

considerato perlopiù come di puro intratte­nimento, in un periodo in cui l'engagement della letteratura era visto come una priorità assoluta. A questa nobilitazione del genere contribuiva in modo decisivo la dotta intro­duzione al volume firmata da Solmi, in cui tra l'altro si indicavano i lontani ascendenti della fantascienza addirittura in Platone e Luciano di Samosata. Ma ai lettori sarebbe bastato addentrarsi nelle pagine dei rac­conti collezionati nel libro per convincersi,

anche senza articolate arringhe, dell'assolu­ta nobiltà di quei te­sti. Perché sfogliando le pagine si sarebbero imbattuti nel distillato dell'arte dei maestri del genere, partendo dal precursore H.G. Wells per arrivare agli "assi" Ray Bradbury, Philip K. Dick, Isaac Asimov e Robert Heinlein.L'idea programmatica del libro, indica Solmi nell'introduzione, è di mostrare attraverso la narrativa come dopo le numerose crisi filo­sofiche e religiose del­la modernità alla sola scienza è ancora possi­

bile nel presente "riaprire le porte del Me­raviglioso, che l'uomo aveva chiuse da un pezzo". Leggendo i racconti dell'antologia, però, ci si accorge che forse la vista di quel Meraviglioso nuovamente dischiuso è in­sostenibile, presaga com'è di scenari foschi i quali non fanno che ripetere in ingegnose

33

34

v

pretesti| Febbraio 2012

variazioni le oscurità della storia passata. Una vena rigogliosa di pessimismo serpeg­gia nelle pagine di molti racconti, insinuan­do più di un sospetto sulle "magnifiche sorti e progressive" che la scienza sembra spalancare all'umanità. Così, i naufraghi sul piovoso pianeta Venere del racconto Pioggia senza fine di Bradbury ci appaio­no come soldati sull'orlo della follia nella giungla vietnamita; la riscoperta capacità dell'umanità futura di contare senza calcolatrici viene piegata a fini bellici in Nove volte sette di Asimov; l'utilizzo di robot uma­noidi con obiettivi spionistici scardina l'affidamento nell'ami­cizia e negli affetti in Impostore di Philip K. Dick; e la volontà di serafici monaci tibetani di calco­lare tutti i possibili nomi di Dio attraverso un supercomputer nasconde il desiderio di causare la fine del mondo, nel racconto I nove miliardi di nomi di Dio di Arthur C. Clarke. Ma il capolavoro assoluto della rac­colta è forse il racconto più breve, il fulmi­nante Sentinella di Fredric Brown, lungo una pagina scarsa. Vi leggiamo i pensieri di un soldato di trincea in una guerra inter­galattica, lontano cinquantamila anni luce dalla sua patria e piegato alle dinamiche di un conflitto che non comprende. Si trova a compiere quello che è richiesto a ogni buon soldato, ossia uccidere una di quelle schi­fose creature nemiche contro cui combatte. Ma l'identità della sua vittima non è così

scontata come il lettore sarebbe portato a pensare fin dalle prime righe, e non la rive­liamo qui per consentire a chi vorrà cimen­tarsi con Le meraviglie del possibile di godersi in pieno la sorpresa. Basti indicare però che, in consonanza con i suoi "colleghi", l'autore suggerisce che la Storia, e anche la fanta­Storia, obbedisce alla solita eterna logica di prevaricazione e violenza, da qualunque prospettiva la si guardi.

In un intervento di qualche mese fa su "TuttoLibri" della Stampa, Tullio Avoledo (l'autore italiano che si è cimentato con più successo nel genere fanta­scientifico) ha scritto che legge­re testi di science-fiction può ali­mentare la fiducia nel futuro. Di primo acchito sembrerebbe dif­ficile affermarlo visto l'orizzon­te oscuro che tracciano numero­si racconti dell'antologia di Sol­mi e Fruttero. Ma guardando

le cose da un altro versante, ci accorgiamo che in fondo ha perfettamente ragione. Se i maestri­veggenti della fantascienza hanno molte volte espresso vaticini così cupi è per farci comprendere che il futuro è davvero nelle nostre mani, che la fantasia è tutt'u­no con la libertà, e che possiamo inventare sul serio un avvenire differente da quello che gli istinti del genere umano sembrano invariabilmente suggerire. Ci ribadiscono che il "mondo migliore" è alla nostra porta­ta, al pari dei molti altri possibili. E poi c'è chi dice che la fantascienza non è engagée…

34

| Febbraio 2012pretesti35

L'ITALIANO CANTERINOdi Lorenzo Coveri

he italiano è quello della canzo­ne? Che rapporti (di dare e di avere) vi sono tra la lingua usata nei testi delle canzoni e quella

di tutti i giorni? È possibile tracciare una storia linguistica della canzone italiana? Sono interrogativi che si può porre tanto l’appassionato di musica leggera, magari in procinto di seguire, come ogni anno, di questa stagione, il Festival di Sanremo (nato nel 1951 e oggi diventato più un evento te­levisivo che una gara di canzoni), quanto il linguista, che ormai da qualche decennio ha sdoganato il fenomeno, se non altro per il suo rilievo sociale, culturale, economico nel paese del Bel canto.Prima di tutto occorre sgomberare il terreno da un equivoco: il testo della canzone non ha, salvo rarissimi casi, una propria auto­nomia; esiste solo in quanto è destinato ad essere messo in musica, è al servizio della struttura musicale (la cosiddetta mascheri-na), e non viceversa. E ciò dovrebbe essere sufficiente a smentire chi voglia considera­re la canzone come poesia (la quale esauri­sce in sé tutti i sensi, mentre il testo canzo­

nettistico ha bisogno di quell’“aggiunta di senso” che sono le note), i cantautori come i “nuovi poeti” da antologizzare (ma è credi­bile che essi contribuiscano ad instillare un certo gusto della poesia nelle giovani gene­razioni). Se è vero che le parole delle can­zoni sono “parole per musica”, è dunque conseguente che la lingua italiana (adatta alla melodia, meno adatta dell’inglese e del francese al ritmo) venga piegata alle esigen­ze musicali. Altrimenti, come si spieghereb­bero, in fine di verso, tanti monosillabi (te, me, io), tante parole tronche, magari in verbi al futuro (vivrò, lavorerò, piangerò, in Io vivrò di Battisti e Mogol, ma anche in Francesco De Gregori, La donna cannone), tante zeppe (e sai, e poi), tante inversioni sintattiche (“e all’improvviso venivo / dal vento rapito”, Nel blu, dipinto di blu di Modugno e Migliac­ci)? Questo vale certamente per la canzone cosiddetta ancien régime del primo secolo unitario, con le sue radici nel melodramma e nella grande tradizione napoletana, fino alla svolta interpretativa rappresentata, nel 1958, dal teatrale “volo” di Domenico Mo­dugno a Sanremo. Le cose cambiano a partire dagli anni Ses­santa (e poi, più marcatamente, Settanta), con la nascita del fenomeno (tipicamente italiano, ma con modelli Oltralpe e Oltreo­ceano) dei cantautori, che per la prima vol­ta riuniscono in sé le figure, prima distinte,

sulla punta della lingua Come parliamo, come scriviamo

Rubrica a curadell’Accademia della Crusca

C

| Febbraio 2012pretesti36

dell’autore del testo (il paroliere, l’artigia­no delle parole), del musicista, dell’inter­prete. Anche il linguaggio, prima desueto e retorico (“Signorinella pallida / dolce di­rimpettaia del quinto piano”, Signorinella, di Bovio e Valente, 1931) si abbassa decisa­mente di tono, diventa dimesso, più vicino all’italiano quotidiano (“Mi sono innamo­rato di te / perché / non avevo niente da

fare”, Mi sono innamorato di te, di Tenco), se non altro confrontandosi con l’evoluzione del linguaggio poetico e anche con una più ampia diffusione dell’italiano, cui proprio la canzone avrà, almeno in parte, contribu­ito. Dagli anni Ottanta in avanti la canzone italiana conosce una grande varietà di ge­neri (accanto alla canzone d’autore, il rock, il pop, il rap), tra i quali ha particolare rilie­vo il recupero del dialetto (in funzione liri­ca, come nel grande esempio di Fabrizio De André; in funzione polemica e ideologica, come nelle posse). Tale compresenza di ge­

neri, di forme e di modelli (e di tipo di pub­blico) è la chiave della situazione attuale. Basta leggere (ma non senza, per le ragioni che si sono dette, ascoltarli in musica) i testi di Sanremo 2012 per averne conferma. Qui, accanto a moduli tipici della vecchia canzo­netta (“Io non voglio amare / solo libertà / sono chiusa a chiave / e ci resterò / so di farmi male / male non mi fa”, Respirare,

interpretata da Gigi D’Alessio e Loredana Berté; “baci come spine, sulla bocca mia”, Sei tu, dei Matia Bazar; “Se un giorno tu / tornassi da me / dicendo che”, Per sempre, Nina Zilli; ma sparsi qua e là un po’ in tutti i testi), troviamo esempi ed echi dell’espe­rienza cantautorale (“Un pallone rubato / è dovuto passare / dalla noia di un prato all’inglese / a un asfalto che fu Garibaldi a donare, / dalle scarpe di Messi / alle scarpe ignoranti, / a una rabbia calciata di punta che lo / fa volare più in alto dei santi”, Un pallone, di Samuele Bersani; “Seguo l’imma­

| Febbraio 2012pretesti37

v

ginazione / la strada dei passi passati da qui / sento una dolce evasione negli occhi / che mi hanno guardato così”, Al posto del mondo, Chiara Civello). Si nota una ricerca espressiva più sofisti­cata, meno consueta, tendente a liberarsi dalle pastoie della canzone “all’italiana” (si pensi anche alle decisive innovazioni me­triche e sintattiche introdotte dalla “cantan­tessa” Carmen Consoli), come è evidente nella presenza di versi più lunghi e sintatti­camente più complessi (“No questo no, non è l’inferno ma non / comprendo com’è pos­sibile pensare che / sia più facile morire”, Non è l’inferno, Emma; “Avere l’impressio­ne di restare sempre al punto di partenza”, Sono solo parole, Noemi), nella sostituzione di assonanze alle rime baciate (“appena io mi rendo conto / di avere perso la metà del tempo, / e quello che mi resta è di trovare un senso”, E tu lo chiami Dio, Eugenio Fi­nardi), nelle figure retoriche (similitudine: “Come sassi in un torrente / come fanno i nostri sogni”, La tua bellezza, di Francesco Renga), nell’uso di un lessico più quotidia­no (“c’è un camionista da accontentare”, Nanì, di Pierdavide Carone e Lucio Dalla; “per chi ci vuol fregare”, Ci vediamo a casa, di Dolcenera). Paradossalmente, è la pre­senza meno “sanremese” di tutte, quella del gruppo rock dei Marlene Kuntz, a te­ner conto giudiziosamente del contesto (il tipo di pubblico, il supporto di una gran­de orchestra) e a presentare la loro Canzone per un figlio (di ispirazione letteraria, come spesso succede nel repertorio della band) meno trasgressiva di quanto ci si sarebbe atteso (altrove il congiuntivo disperda rima­va provocatoriamente con merda), affidan­do alla musica e soprattutto all’interpreta­

zione la forza di un testo che rivela dime­stichezza con la scrittura poetica, con litoti (“La felicità non è impossibile”), similitu­dini (“come un’ebbrezza effimera che può imbrogliare”), personificazioni (“la felicità che sorride”), e via dicendo. Parole per mu­sica, appunto. E persino a Sanremo, a lungo considerato il tempio inespugnabile della conservazione, si può affacciare alla scena un nuovo italiano. •

| Febbraio 2012pretesti38

Anima del mondo

Paesaggi della letteratura

LA CITTà INVISIBILE

Berlino: immagini in dissolvenzadi Luca Bisin

on c’è più il battipalo a vapore ad Alexanderplatz, sbuffante e strillante mentre al ritmo ca­denzato dei suoi colpi trafig­

ge un suolo scavato, rimestato, squarciato, lacerato, nel frastuono dei cantieri per la metropolitana e nello stridere incessante dei tram. Non c’è più l’umanità variopinta che si aggira per le strade nei dintorni, chi sgobba, chi osserva, chi si affanna, chi sta fermo, chi beve, chi ha freddo, chi esce da un negozio, chi s'infila in una bettola, chi at­traversa la piazza, chi si accalca su un mar­ciapiede, ma allo sferzare indifferente del vento i loro volti sono tutti uguali e “cosa succede in loro? chi potrebbe dirlo?”, a scri­verlo ne verrebbe un libro enorme ma poi

nessuno lo leggerebbe. Se non bastassero già i nomi mutati di certe vie o di certe inse­gne, ci penserebbe la torre della televisione, col suo profilo così sfacciatamente sovieti­co, tanto insolente da riuscire alla fine quasi bello, a raccontarci quanta storia è trascorsa all’Alex da quel 1929 in cui Alfred Döblin, in Berlin Alexanderplatz, ne sanciva la po­tenza simbolica di una città lanciata senza freni alla costruzione della propria identi­tà di metropoli. I turisti ordinatamente in fila, mentre attendono di salire a gettare da 212 metri uno sguardo alla Berlino degli ar­chitetti, delle sperimentazioni, delle nuove tendenze, dei giovani con pochi soldi, della musica elettronica, dell'estro che reinventa gli spazi, non hanno certo più molto del­

N

| Febbraio 2012pretesti39

lo smarrimento che, nel romanzo, provava Franz Biberkopf appena uscito dal carcere di Tegel, mentre col tram 41 s'inoltrava nel­le viscere della città babelica e implacabile, e "dentro di lui qualcosa gridava con terro­re: attenti, attenti, si comincia!". Eppure, non è che Berlino ci parli oggi con meno irruenza. In un certo senso, anzi, la città è divenuta quasi il prodotto viven­te di quel montaggio frenetico che Döblin esercitava nelle pagine del suo romanzo, sgretolandone la for­ ma narrativa in un arruffio di segni, voci, balenii, scheg­ge, mentre da dietro il più piccolo detta­glio (l'insegna di un negozio, lo scorcio di un caffè, il titolo di giornale…) poteva far capolino lo sguardo di un futuro troppo irrefrenabile e incerto per non riuscire mi­naccioso. A chi passeggi oggi per Berlino, quasi ogni batter d'occhio è come un gioco audace di stacchi, dissolvenze, incroci lun­go una narrazione di cui la storia stessa si è incaricata di mescolare i tempi e gli spazi: le linee inflessibili del vecchio aeroporto di Tempelhof, nella cui severità ancora s'indo­vina l'allucinata monumentalità della capi­tale Germania vagheggiata da Hitler, accol­gono senza imbarazzo l'atmosfera svagata e un po' fricchettona di un parco; e sulle facciate solenni degli edifici lungo la Karl-Marx-Allee, réclame architettonica del so­cialismo reale nella Berlino divisa, si apro­no come nulla fosse le vetrine chiassose dei supermercati e dei fast­food. Ma tutto que­sto ci arriva nella figura già rasserenata di una storia che conosciamo, di una città che è proprio quella che ci hanno raccontato e che siamo venuti a vedere.

È forse vero allora, come ha osservato Wim Wenders, che a parlare oggi di Berlino sono soprattutto i suoi spazi vuoti, come gli scor­ci in cui la città dei simboli storici e delle arditezze architettoniche offre al nostro sguardo un varco d'incertezza, il pretesto di uno smarrimento che non avevamo pre­visto e che ci lascia più interdetti di quanto possa mai fare la vista, improvvisa ma non davvero inattesa, di una Trabant. Del resto, proprio Döblin affermava che "Berlino è

per la maggior parte invisibile", a ricor­darci come quel ba­lenare di segni, quel tramestare beffardo della storia sia an­cora niente o quasi: Berlino trapela altro­ve, in un certo nostro sguardo più sottile e

involontario, e nel remoto turbamento che ci procura. Vista da una finestra all'angolo della Tau­benstrasse, come in un racconto di E.T.A. Hoffman, la Berlino del 1822 poteva già produrre "una piccola vertigine che assomi­gliava al delirio non sgradevole di un sogno a venire", solo nell'ondeggiare della folla in una piazza durante un giorno di mercato. E la Berlino guglielmina dei romanzi di Theo­dor Fontane, appena sbozzata negli interni ordinati della case borghesi, nelle passeg­giate lungo la Sprea, nei balconi affacciati sul Tiergarten, sapeva però già pungolare crucci inconfessati e smascherare inquie­tudini a lungo represse: una passeggiata per l'Unter den Linden poteva rivelare alla giovane Effi ciò che la signora von Briest ignorava, compiaciuta della bontà d'animo della propria figlia che viveva senza prete­se, "fra fantasticherie e sogni": il fatto che, nondimeno, in certe questioni Effi aveva

È forse vero, come ha osservato Wim Wenders,

che a parlare oggi di berlino sono soprattutto i suoi

spazi vuoti

| Febbraio 2012pretesti40

delle pretese; e durante l'afflitta monoto­nia del matrimonio con il barone Instetten, è la prospettiva di un trasferimento a Ber­lino ad estorcerle l'involontaria ammissio­ne di un'infelicità che il costume borghese voleva invece inconfessabile: "Dio, ti rin­grazio!", sussurra Effi in tono di preghiera, abbracciata alle ginocchia del marito. Berli­no, in fondo, ha sem­pre avuto la natura sfuggente e un po' scorbutica di una cit­tà che non accoglie, non sorride, non lan­cia seduzioni appari­scenti, ma ci tocca in un modo più miste­rioso e importuno, quasi intimo e per questo inquietante. Come in certi romanzi berlinesi di Nabokov, dove la città può sorprendere con non più che una strada in una notte di pioggia, con "l'opaco luccichio dell'asfalto" sul quale le cose e le persone si rifrangono in un calei­doscopio di riflessi e di colori "sparendo tra le ombre e riemergendo nella luce obli­qua riflessa dalle vetrine" (Re, donna, fante). O come nel fulminante racconto Dettagli di un tramonto, sempre di Nabokov, dove

l'estasi di un uomo che torna a casa dopo l'incontro con la sua promessa sposa, incer­to sulle sue gambe per la troppa felicità e il troppo bere, sembra quasi risplendere nel­le strade e negli edifici trasfigurati alla luce del crepuscolo, fino alla disillusione di un finale agghiacciante. È certo solo a Berlino che il giovane Walter

Benjamin, passeg­giando per il Tier­garten, poteva impa­rare a "smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una fo­resta"; o che Joseph Roth poteva ricono­scere nella vista in­nocua di uno snodo ferroviario l'imma­gine più evocativa e

pregnante di una vita intera, "il cuore di un mondo". E a Berlino, ancora oggi, potreb­be succedere che un dettaglio inoffensivo, uno scorcio apparentemente scialbo o per­fino brutto ci tocchi tanto nel profondo da risvegliare in noi quello sgomento che pro­vava Franz Biberkopf di fronte a un futuro ancora vago, quella smania di "pretendere dalla vita qualcosa di più che il pane quoti­diano". •

È certo solo a berlino che il giovane Walter benjamin,

passeggiando per il Tiergarten, poteva imparare

a "smarrirsi in una città come ci si smarrisce in una

foresta"

| Febbraio 2012pretesti41

di Francesco Baucia

A ROMAN PUNCH IN NEW YORKIl cocktail dei papi nell'Età dell'innocenza di Edith Wharton

Alta cucinaLeggere di gusto

Edith Wharton

| Febbraio 2012pretesti42

iò che stava o non stava 'bene' gio-cava un ruolo nella New York di Newland Archer altrettanto im-portante di quello degli inscrutabili

totemici terrori che avevano governato i destini dei suoi progenitori migliaia di anni fa.” L'età dell'innocenza, romanzo di Edith Wharton vincitore nel 1921 del premio Pulitzer, è uno struggente racconto d'amore e, come molte storie d'amore, è anche una storia spietata. Perlomeno nella misura in cui rappresenta lo scontro di un sentimento con un sistema di rigide regole che ne ostacola la completa maturazione. Dalla vicen­da archetipica di Romeo e Giulietta a quella nar­rata nell'Età dell'innocenza il passo è breve, perché anche qui ci troviamo di fronte al consumarsi di una passione all'ombra di convenzioni sociali tanto radicate e articolate quan­to assurde. E buona parte del libro è dedicata ap­punto al ritratto accurato dell'insieme di dettami in cui sono impigliati, come in una ragnatela, i perso­naggi principali della vicenda. Non è un caso infatti che Martin Scorsese, un cineasta che ha dedicato parte significativa del pro­prio lavoro al racconto delle ferree regole delle comunità criminali (Mean streets, Quei bravi ragazzi, The departed, solo per citarne alcuni), sia stato attratto da questo romanzo tanto da trarne nel 1993 una straordinaria versione cinematografica.Protagonista della vicenda è Newland Ar­cher, giovane esponente dell'alta borghesia

newyorchese di fine Ottocento. All'inizio del libro lo vediamo in un palco dell'Academy of Music di New York, dove si sta rappre­sentando il Faust di Gounod. Più che al me­lodramma, Newland è attento a quanto suc­cede in un palco dirimpetto al suo in cui si trova la giovane promessa sposa May Wel­land insieme al parentado. Nella balconata fa il suo ingresso una figura femminile inat­tesa, una più matura cugina della ragazza, la contessa Ellen Olenska. La donna sta divor­ziando da un nobiluomo europeo, e questo episodio ha suscitato molte chiacchiere nel

milieu da cui provengo­no sia Newland che May. Archer è un individuo il cui animo è conteso da empiti di ribellione e da prepotenti rigurgi­ti di conformismo. Inu­tile dire che l'incontro con l'affascinante Ellen, di cui finirà per inna­morarsi perdutamente, metterà a repentaglio le sue già piuttosto labili certezze riguardo al pro­prio futuro. E il rischio cui va incontro dando

seguito a quella passione è proprio lo spau­racchio più temibile per un animo timoroso come il suo: la messa al bando dall'abbrac­cio confortante ma crudele di quella società che non tollera sbandamenti dai propri mo­delli di riferimento. Il largo della prosa di Edith Wharton segue così lo svilupparsi di questo conflitto nell'a­nimo del protagonista fino a quando, mol­ti anni dopo il primo incontro, Newland e Ellen si ritroveranno, finalmente liberi dai

C“

I modi di imbandire le tavole, i piatti che

vi si consumano abitualmente, l'abilità dei servitori sono un insieme di segni che

rivela le caratteristiche profonde di chi dà i ricevimenti, oltre

l'immagine che essi vogliono offrire di sé

| Febbraio 2012pretesti43

rispettivi legami sociali e matrimoniali, e lontani dall'ambiente di provenienza. Le decisioni dettate nel passato dagli scrupo­li avranno ancora un peso sulle loro scelte? A conclusione della vicenda, nelle ultimis­sime pagine del libro l'autrice saprà rega­larci un esito sconsolato e commovente per questa avventura d'amore "impossibile". Ma ciò che avvince i lettori, forse più che la suspense per l'eventuale co­ronamento del­la passione, è l'affresco detta­gliato che Edith Wharton resti­tuisce di una so­cietà allo stesso tempo opulen­ta e severa, una versione raffina­ta della comunità dei padri fondatori d'A­merica, potentemente ritratta da Nathaniel Hawthorne nella Lettera scarlatta. E un af­fresco così accurato non poteva mancare di soffermarsi sul palcoscenico in cui le regole di comportamento trovano spesso la loro rappresentazione più sontuosa, ossia le riu­nioni conviviali. Nell'Età dell'innocenza sono raccontati infatti numerosi pranzi, feste e rinfreschi: i modi di imbandire le tavole, i piatti che vi si consumano abitualmente, l'a­bilità dei servitori sono un insieme di segni che rivela le caratteristiche profonde di chi dà i ricevimenti, oltre l'immagine che essi vogliono offrire di sé. Ad esempio, quando Sillerton Jackson, un noto pettegolo dell'alta società, viene invitato a pranzo dalla signo­ra Archer, madre del protagonista, sa che è solo perché questa desidera qualche notizia

indiscreta di prima mano. La non perfetta cura della cucina in casa Archer denota d'al­tronde un fatto noto e irrevocabile, quasi una legge, che Jackson così compendia nel suo pensiero: "New York, a memoria d’uo­mo, era sempre stata divisa nei due grandi gruppi fondamentali dei Mingott­Manson e tutto il loro clan, ai quali importava il cibo, i vestiti e il denaro, e degli Archer­Newland­

van der Luyden, tribù dedita ai viaggi, all’orticol­tura e ai migliori romanzi e che di­sdegnava le for­me di piacere più grossolane." Così chi è ospite degli Archer può aspet­tarsi ad accoglier­lo conversazioni

"sui panorami alpini e sul Fauno di marmo", mentre chi va dai Mingott­Manson può go­dere pasti in cui sono serviti "anatra moret­ta, zuppa di tartaruga e vini d'annata". Non è un caso dunque che proprio in uno dei ricercati pranzi organizzati dai Lovell Min­gott (ramo del clan Manson­Mingott di cui fa parte la fidanzata di Newland) faccia capoli­no una pietanza dalla storia curiosa. Si tratta del Roman punch, una sorta di cocktail­dessert che, invece di essere servito a fine pasto, si consumava tra le due portate principali, come si usa a volte fare con i sorbetti. Le sue origini affondano nientemeno che nelle cu­cine vaticane del Settecento, dove la bevan­da era nata per rinfrescare il palato dei papi nei mesi estivi. Pare che la ricetta sia rimasta segreta fintanto che, con la campagna d'Ita­lia di Napoleone, il figlio di un cuoco di Pio

| Febbraio 2012pretesti44

VI decise di unirsi al seguito di Bonaparte, diventando prima servitore di Giuseppina di Beauharnais, poi di altri aristocratici eu­ropei e diffondendo con i suoi viaggi la deli­ziosa bevanda. Chi voglia infrangere l'antica segretezza dei ricettari papali può preparar­si un bicchiere di Roman punch tenendo pre­senti questi ingredienti e proporzioni: 1/5 di succo d'arancia, 2/5 di limonata, 1/5 di champagne, 1/5 di rum, la crema ricavata

da un albume montato a neve con una spol­verata di zucchero a velo e qualche goccia di succo di limone.Si serve mescolando deli­catamente gli ingredienti base del punch in un bicchiere capiente con cubetti di ghiaccio. Poi si guarnisce la bevanda con uno strato della crema di albume, limone e zucchero. È consigliato inserire uno stirrer nel cocktail in modo che si possa mescolare il punch con la crema soffice prima di berlo.•

Ingredienti:1/5 di succo d'arancia2/5 di limonata1/5 di champagne1/5 di rum1 albume montato a neve1 cucchiaino di zucchero a velosucco di limone

ROMAN PUNCH

Il Roman punch, è una sorta di cocktail-dessert che, invece di essere servito a fine pasto, si consumava tra le due portate

principali, come si usa a volte fare con i sorbetti

| Febbraio 2012pretesti45

Roberto Saviano sbarca sul web e sbanca. Fel­trinelli Zoom lancia un’iniziativa a 99 centesi­mi di euro che subito porta l’autore di Gomor-ra a confermarsi scrittore leader anche per il digitale. Eppure il testo è un racconto breve, 55mila caratteri, che riconduce buona parte degli italiani a un’infanzia mai dimenticata e vissuta come nostalgia. Il Super Santos contro il Super Tele, qualità a basso prezzo contro il solo basso prezzo. Il rac­conto è in realtà una ripub­blicazione di un inedito uscito con il Corriere della Sera il 2 giugno del 2011, festa della Repubblica del centocinquantesimo anni­versario dell’Unità d’Italia. L’infanzia degli italiani e l’infanzia dell’Italia, quin­di, sulla carta. Ma la carta è stata scavalcata dal web e allora da questo successo in nuova forma dovremo ripartire, anche per chie­derci se non sia finita la no­stra infanzia di carta e ora vogliamo tutti ri­cordare, ma senza lasciare davanti a noi resti di questa memoria. Quante angherie abbiamo fatto e quante subito da ragazzini per una par­tita vietata a un compagno, per un vetro rot­to, per non arrivare tardi a casa? Dario, Rino, Giovanni e Giuseppe sono le tentazioni che tutti abbiamo vissuto da piccoli, quando c’e­ra da capire cosa fosse il bene e cosa il male e un pallone diventava occasione per un’az­zuffata o per imparare delle regole. I quattro ragazzi di Super Santos imparano anche loro

delle regole, hanno i loro arbitri che interven­gono quando qualcuno le infrange, ma sono regole di boss, di sottomissione e spavento. “Per i ragazzi essere pali significava poter vi­vere giocando a pallone. Per il clan giocare a pallone significava poter vivere mentre i ra­gazzi facevano i pali”, così sintetizza Saviano le due prospettive differenti con le quali veni­vano viste le regole del gioco (del calcio o della

camorra). E proprio nel momento in cui il gioco diventa occasione di formazione per lo stato di diritto, quello sulla carta, la cultura crimi­nale innesta i propri rami. Che bel­lo allora poter leggere Super Santos sul pc o sul tablet o sul telefonino, se possiamo in un istante cancel­lare questa memoria dell’infanzia perduta che si annida in ciascuno di noi. Per questo forse vogliamo leggere Super Santos in ebook: per poterlo cancellare subito dopo. È il rischio più grande della nostra in­fanzia digitale, quello di rimuove­re il male compiuto, ma in fondo

anche il futuro della nostra coscienza colletti­va di giocatori di pallone. “Guagliò, o Super Santos s’è bucato. Guagliò accattamm’ n’ato Super Santos”. La carta non muore mai (“car­ta canta”, si dice) i palloni invece si bucano, i files si perdono o si cancellano, ma quell’ora di curiosità che ci ha fatto ricordare chi siamo ci ha senz’altro lavati dalle impurità e riani­mati di uno spirito nuovo: non ci si ricorda del male compiuto senza la nostalgia per l’inno­cenza perduta. Sta a noi scegliere ogni giorno se essere pali o capocannonieri.

La nostra coscienza digitale

SUPER SANTOSdi Roberto saviano

Recensioni

Disponibile su www.biblet.it

| Febbraio 2012pretesti46

BUk. FESTIVAL DELLA PICCOLA E MEDIA EDITORIAe gli altri eventi del mese

Appuntamenti

BUK. FESTIVAL DELLA PICCOLA E MEDIA EDITORIAProgrammato in origine per il 4 e il 5 febbraio, a causa del maltempo che ha colpito buona parte d'Italia la quinta edizione del Festival di Modena è stata ufficialmente posticipata al 3 e 4 marzo. La manifestazione, che si terrà presso il Foro Boario (via Bono da Nonantola 2), rimane uno dei fiori all'occhiello nell'agenda dei lettori più attenti alle proposte editoriali "di nicchia". Molto intenso il programma della kermesse: tra i numerosi even­ti proposti (presentazioni, reading e conferenze) segnaliamo gli incontri con il giornalista Stefano Feltri del "Fatto Quotidiano" che parlerà del suo libro Il giorno in cui l'euro morì (Aliberti Editore) e con l'ex maresciallo dei Ris Luciano Garofano e la reporter Andrea Vogt, autori del volume Uomini che uccidono le donne (Rizzoli), che dialogheran­no con Rossella Diaz sui casi più scottanti della cronaca italiana recente. All'interno della cornice del festival saranno inoltre annunciati i nomi dei vincitori del premio letterario "Due Vittorie" e del premio di giornalismo scolastico "Prima pagina". 3 e 4 marzo

LIBRI COME. FESTA DEL LIBRO E DELLA LETTURAL'Auditorium Parco della Musica di Roma ospita la terza edizione di "Libri come", un evento che si propone già dal suo titolo di portare i lettori dietro alle quinte dell'officina del libro, sia sul versante degli autori che su quello degli editori. Saranno presenti infatti scrittori big della lettera­tura nazionale (Gianrico Carofiglio, Enzo Bian­chi) e internazionale (John Banville, Carlos Ruíz Zafón, Tzvetan Todorov), e non mancheranno spazi per workshop e laboratori sulla scrittura e le professioni dell'editoria. Molto si parlerà del destino del libro, coinvolgendo gli scenari digi­tali che già ne costituiscono un solido presente. Dall'8 all'11 marzo

INCONTRI LETTERARI DI CASA MELANDRINella sala D'Attorre di Casa Melandri a Raven­na (via Ponte Marino 2), sede del Centro relazioni culturali, è in svolgimento la trentottesima edizio­ne di una fortunata serie di incontri con scrittori, poeti e artisti. A oggi l'iniziativa, nata nel 1975, si pregia di aver presentato nel corso degli anni più di 1250 opere letterarie. Tra gli appuntamen­ti di febbraio segnaliamo, venerdì 17, l'intervento di Francesco Fioretti, autore del recente bestseller targato Newton Compton Il libro segreto di Dante; la settimana successiva sarà invece ospite della rassegna il critico Flavio Caroli (personaggio noto anche al pubblico televisivo per la rubrica sulle vite degli artisti nella trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio) che presenterà il suo volume sulla storia dell'arte edito nel 2011 da Mondadori Electa. Fino al 24 febbraio

TUTTI MATTI PER I GATTI"Dio ha creato il gatto perché l'uomo provasse il piacere di accarezzare la tigre" ha scritto Charles Baudelaire, e il poeta francese non è l'unico lette­rato ad aver tratto ampia ispirazione dalla Musa felina. Da otto anni presso la Libreria Mursia di Milano (Via Galvani 24) si tiene la rassegna "Tutti matti per i gatti", dedicata tanto agli amanti dei libri quanto agli appassionati dei più seducen­ti amici dell'uomo. Il tema di questa edizione è la curiosa predilezione di molti dei potenti della Storia per i felini. Chi non ricorda, ad esempio, la celebre foto di sir Winston Churchill che si inchina per accarezzare il suo inseparabile gatto Jock? Lo spunto per discutere di questo argomento è for­nito dal libro di Marina Alberghini Gatti di potere. I gatti consiglieri dei grandi della terra (Ugo Mursia Editore), che l'autrice presenterà all'interno della manifestazione venerdì 17 febbraio, insieme con lo storico Luca Gallesi. Contestualmente alla ras­segna si potrà visitare, sempre nei locali della li­breria Mursia, la mostra "Gatti famosi" con opere del pittore Franco Bruna. Fino al 17 febbraio

| Febbraio 2012pretesti47

Tweets

Bookbugs

@LACASEBooks

Ebook, il mercato decolla sulle

ali del Tablet e fa nascere

nuovi editori

@pandemiaUna spruzzatina sul

tuo ebook reader e risolvi

l’assenza del profumo della

carta > Smell of Books

@Pianeta_eBookJonathan #Franzen sugli – o meglio contro – gli #eBook: “danneggiano la società”

@la_stampacrescere sul digitale non signi-

fica in alcun modo intaccare la

qualità del giornale di carta.

@FinzioniEccola la domanda da un milione

di euro: ma dopo quanto escono

i libri in ebook? Nessuno ci sa

rispondere?@criboavidasto leggendo editoria digitale sul kindle. Navigo, condivido e non provo nostalgia per il profumo della carta:)

I TUOI LIBRI SEMPRE CON TE E UN’INTERA LIBRERIA A DISPOSIZIONE

www.biblet.it

APERTA 24 ORE SU 24!

PreTesti • Occasioni di letteratura digitaleGennaio 2012 • Numero 2 • Anno II

Telecom Italia S.p.A.

Direttore responsabile:Roberto Murgia

Coordinamento editoriale:Francesco Baucia

Direzione creativa e progetto grafico:Fabio ZaninoAlberto Nicoletta

Redazione:Sergio BassaniLuca BisinFabio FumagalliPatrizia MartinoFrancesco Picconi

Progetto grafico ed editoriale:Hoplo s.r.l. • www.hoplo.comIn copertina: Gene Gnocchi

L’Editore dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito.

Per informazioni [email protected]

Occasioni di letteratura digitale

pretesti

www.biblet.it