"Nugae" n.9

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“Nugae - scritti autografi” ANNO III - N.9 - Aprile/Giugno 2006

Rivista letteraria trimestrale indipendente ed autogestita.

Direttore e Redattore editoriale: Michele Nigro

Direttore responsabile: Alfonso Amato

Direzione, Redazione, Amministrazione:

via G. Guinizelli, 14 Sc. A-22 84091 - Battipaglia (Sa)

e-mail :

Hanno collaborato: Vito Cerullo, Erika Dagnino, Maria Rosaria D’Alfonso, Georges de Canino, Delva Della Rocca, Marcello Fruttini, Annalisa Giancarlo, Enzo Landolfi, Mariano Lizzadro, Angelo Magliano, Rino Malinconico, Elisabetta Marino, Rossella Oricchio, Stefania Pagano, Raffaele Rago, Adolfo Ricci, Rocco Sessa, Michele Ferruccio Tuozzo.

Responsabile Redazione Napoli:

Stefania Pagano cell. 340-9280709

[email protected]

Responsabile Redazione Battipaglia:

Michele Nigro cell. 333-5297260

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Stampa: Centro copie “Duc@s”

via E. De Nicola, 24 - Battipaglia

Pubblicità su “Nugae”: Michele Nigro

cell. 333-5297260

Registrazione del Tribunale di Salerno:

N° 20 del 28/Giugno/2004

Editore: “Edizioni Nugae”

Spedizione in Abbonamento Postale. TABELLA D Autorizzazione DCB/ SA/088/2005 Valida dal 16/05/2005

Chiuso in Redazione: 11 Aprile 2006

Prossima scadenza per l’invio dei lavori scritti:

30 Giugno 2006

Norme per la collaborazione: la collaborazione è gratuita ed aperta a tutti, esordienti e scrittori editi.Gli ela-borati possono essere inviati, al fine di essere valutati ed eventualmente pubblicati, secondo le modalità di se-guito riportate:

1)come allegati, in formato word, tramite e-mail all’in-dirizzo di posta elettronica:

[email protected] 2)utilizzando la posta ordinaria (si consiglia Raccoman-data con ricevuta) inviando i plichi all’indirizzo:

“Redazione Nugae” c/o Michele Nigro

via G. Guinizelli n.14 Sc.A-22 84091 Battipaglia (Sa)

3)consegnando i lavori direttamente ai Responsabili di zona (vedi recapiti). I lavori devono essere nitidamente dattiloscritti e fir-mati, ove non fosse possibile l’invio (decisamente prefe-ribile) di floppy disk o cd-r contenenti i testi in for-mato word (.doc). Non saranno prese in alcuna considera-zione per la pubblicazione, per ovvi motivi pratici e per preservarle da possibili errate interpretazioni, le opere calligrafiche, indipendentemente dal loro indubbio valore umano e letterario. I testi (escluso in casi particolari individuati dalla Redazione) non dovranno superare la lunghezza di 8 cartelle. Le sillogi corpose (previo con-senso dell’Autore) saranno suddivise in “sottosillogi” e queste ultime pubblicate su numeri consecutivi della rivista. La stessa regola verrà applicata ai racconti lunghi, ai romanzi brevi, ai saggi, alle tesi di laurea e agli atti, utilizzando una suddivisione in “puntate” de-gli stessi, concordata con gli Autori e che ne rispetti (nei limiti del possibile) l’eventuale capitolato origi-nario. La Redazione non restituirà il materiale pervenuto presso la sede del periodico. Si avvale, inoltre, della prerogativa di non pubblicare gli elaborati ritenuti ini-donei. Condividere con gli Autori le motivazioni della non pubblicazione dei testi non fa parte degli obblighi redazionali. Tuttavia ogni richiesta di chiarimenti sarà da noi gradita in quanto costituisce reciproca occasione di crescita umana e letteraria. La riproduzione, anche parziale, della presente rivista, è consentita solo ed esclusivamente dietro autorizzazione scritta della Dire-zione e con la citazione della fonte (ciò vale anche per la pubblicazione su supporti tele-informatici quali siti web… ecc.) Gli organizzatori di premi letterari, rassegne o eventi culturali letterari che vorranno pubblicizzare i bandi/programmi, tenendo conto che i mesi di pubblicazio-ne del presente periodico sono Gennaio, Aprile, Luglio, Ottobre, dovranno far pervenire i testi dei ban-di/programmi entro e non oltre l’ultimo giorno del mese precedente al mese d’uscita. La stessa regola vige (l’alternativa è rappresentata dalla posticipazione del-l’eventuale pubblicazione) per quanto riguarda l’invio di scritti in qualità di libero collaboratore (saltuario o continuo). La Redazione si avvale comunque, a prescindere dal rispetto delle suddette scadenze, della prerogativa di rimandare la pubblicazione per motivi differenti: sopraggiunta saturazione del numero; incoerenza dei con-tenuti per i numeri cosiddetti “a tema”; precedenza di pubblicazione per i lavori “a puntate” ecc. La Redazione, dopo attenta e scrupolosa analisi dei testi ricevuti, avvertirà gli Autori prescelti per la pubblicazione tra-mite i canali comunicativi attivati dagli Autori stessi. Gli articoli, i racconti e le liriche riflettono le opi-nioni dei loro Autori, che di essi risponderanno diretta-mente di fronte alla Legge. Gli scritti inviati dovranno essere inediti e accompagnati dalla seguente dichiarazio-ne: “LO SCRITTO INVIATO E’ UN MIO PERSONALE LAVORO E NON E’ MAI STATO PUBBLICATO”. Gli scritti pubblicati e inedi-ti sono di esclusiva proprietà degli Autori e fa fede la data di pubblicazione sul presente periodico. I lavori degli Autori editi, invece, dovranno essere accompagnati da apposita autorizzazione rilasciata dall’Editore di origine. Sono gradite le note bio-bibliografiche (con o senza foto) di chiunque collabori per la prima volta con il periodico. Il Foro di Salerno è competente per even-tuali controversie.

In copertina: “A memoria d’albero” (fotomontaggio di Michele Nigro)

Raffigurante l’ulivo donato da Georges de Canino ad una Scuola Elemen-tare (Plesso Via Cilento) di Battipaglia e una foto del “Giusto” Giovanni Palatucci. Il “gioco” delle immagini sovrapposte ha lo scopo di ricordare a tutti noi che anche un albero può avere una propria responsabilità mnemoni-ca nei confronti della Storia… Perché come ci ricorda de Canino nell’in-tervista pubblicata sul presente numero: “Piantare l’albero significa lasciare un segno che, secondo la tradizione ebraica, rappresenta “la vita” e in particolare l’ulivo simboleggia la fratellanza, l’amicizia, la forza delle radici…”

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Lapidario

"La vera letteratura può esistere solo quando è creata non da ufficiali diligenti e affidabili, ma da folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli e scettici"

Evgenij Zamjatin

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CONTRIBUTO ANNUALE STAMPA

(4 numeri)

Tipologia contributi:

ORDINARIO ————————————————- € 15,00

SOSTENITORE ——–———————————- € 30,00

BENEMERITO ———————————————- € 50,00

ARRETRATI(1 copia)————————- € 5,00

ANNATA ARRETRATA —————————- € 20,00

Il versamento del contributo può essere effettuato:

1) inviando i contanti in busta chiusa (includendo l’indirizzo civico - comprensivo di C.A.P. - presso cui si desidera ricevere il periodico) al seguente indirizzo:

“Redazione Nugae”

c/o Michele Nigro

Via G. Guinizelli n.14 Sc.A-22

84091 Battipaglia (Sa)

2) versando la quota prescelta sul Conto Corrente n.49914047 intestato a Nigro Michele, via Guinizel-li n.14 - 84091 Battipaglia (Sa); specificando nel-la causale: <<contributo annuale stampa NUGAE - SCRITTI AUTOGRAFI>>...

3) inviando un assegno o un vaglia al summenzionato recapito.

Comunicare, al più presto, il tipo di contribuzione scelta (specificando l’INDIRIZZO CIVICO utile per effettuare il servizio di spedizione) utilizzando la seguente e-mail: [email protected] Per informazioni: 333-5297260

LA SCADENZA DELL’ANNUALITA’ VERRA’ COMUNICATA TRA-MITE APPOSITO AVVISO INCLUSO NELLA SPEDIZIONE DEL-L’ULTIMO NUMERO.

PUNTI VENDITA

Edicola “In Piazza”

di Bellissimo e Santomauro s.n.c.

P.zza della Repubblica - Battipaglia (Sa)

Libreria Mondadori

Via Mazzini, 31 — 84091 Battipaglia (Sa)

Edicola Di Benedetto

Piazza Amendola - Battipaglia (Sa)

Libreria Baol

Via Rocco Cocchia,12 (zona Pastena)Salerno

Libreria Treves

Via Toledo, 249/250 - 80132 Napoli

Libreria “Il pavone nero”

di Evelina Pavone

Via Luca Giordano 10/A – 80127 Napoli

SOMMARIO PAG.

L’EDITORIALE Michele Nigro 2

SPAZIO NUGAE 3

APPUNTI DI STORIA Adolfo Ricci 12

Il linguaggio dei fiori nelle poesie di Italo Rocco Annalisa Giancarlo 17

Alfonso Gatto: un ricordo lungo un sogno Rossella Oricchio 19

William Shakespeare: quando l’insostenibile pathos… M. R. D’Alfonso 20

IL LABORATORIO: Anatomia di una prosa Vito Cerullo 28

L’insonne degustatore Erika Dagnino 29

Cent’anni di cappelli Enzo Landolfi 32

LA RECENSIONE: “Le scoperte di Elisabetta” di T.Castellani Marcello Fruttini 34

“Respiri e apnee” di O.B.Terracini Georges de Canino 35

“Oratorio per Lidice” di Rino Malinconico Rocco Sessa 36

SUONI DI LETTERE: I “Carmina burana” e Carl Orff Michele Nigro 39

CONTROEDICOLA 4ª

L’INTERVISTA: Georges de Canino Michele Nigro 5

Emigrazione Raffaele Rago 15

Dietro la porta Stefania Pagano 31

“Parole in fila” vol.2 di Raffaele Rago Angelo Magliano 37

Edgar Allan Poe e l’ “Oriente”: qualche riflessione Elisabetta Marino 21

riVISTE 27

Problemi psicologici di Dino Campana Mariano Lizzadro 22

POESIE AA.VV. 25

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L’intreccio necessario, sperimentato sul numero 8 di Gennaio, tra storia e letteratura, tra memoria e poesia, sembrerebbe aver dato i suoi buoni frutti anche sul pre-sente numero 9, il secondo del terzo anno di esistenza cartacea della nostra piccola fatica periodica. Gestire una rivista è una delle esperienze più frenetiche ed ap-paganti dell’esistenza culturale di un essere umano: si incontrano mondi e personaggi, storie e cammini arti-stici… A volte ci sentiamo stanchi mentre osserviamo la scrivania della redazione ricolma di libri, recensioni, riviste d’ogni tipo, fogli sparsi e le bozze del prossimo numero piene di frecce rosse ad indicare i punti su cui intervenire… Ma la voglia di andare avanti... prevale! E nel peregrinare, dicevo, tipico di chi esplora e vuol portare avidamente sulla carta i fermenti silenzio-si dei numerosi formicai culturali sparsi nella penisola e nel mondo, ecco che c’imbattiamo, un po’ per caso e un po’ perché spinti da un’inconscia esigenza, in una delle tematiche più delicate della storia e della letteratura, che noi presuntuosamente vorremmo concentrare in un unico numero: la Memoria. Ma vi chie-do di non giudicarci come tali, ovvero “presuntuosi”, e di con-siderare le prossime pa-gine semplicemente co-me la voce di chi urla nell’orecchio del vicino durante un concerto rumoroso cominciato anni fa… Siamo solo delle piccole sillabe insignificanti nell’enciclopedia di quell’infinito in cui naviga il transatlantico della Storia (vissuta e scritta)! Memoria di cosa? Di tutto… Dell’Olocausto, di alcuni eroi, di battaglie civili, di giorni vissuti male e di Resistenza, di nuovi e vecchi progetti, di dittatori e di Liberazione, di guerre passate che ci insegnano quelle future, di poeti scomparsi, di gioventù in foto sbiadite, di pazzi viaggiatori, di com-battenti ed emigrati, di alberi piantati e morti e di nuo-ve speranzose foglie verdi… È una memoria, quella di “Nugae”, senza tempo, un po’ strana e disordinata, onnivora e multimediale, pigra e ritardataria, oscillante ed irriverente, che s’insinua tra una poesia ed una re-censione, tra un’intervista e una rubrica apparentemen-te innocua, che non segue le date ufficiali (la Giornata della Memoria è a Gennaio… Siamo in ritardo di tre mesi!) ma che si sveglia tardi la mattina dopo una notte insonne e aprendo la finestra sente in lontananza le parole di una canzone di Venditti:

“Ma che bella giornata di sole Quanta gente per le strade nuove

Quanti treni alla stazione Ma per tornare a casa

E la chiamano liberazione Questa giornata senza morti

Questo profumo di limoni Dalle finestre aperte…”

Come se stessimo vivendo certi eventi, oggi… Qui… Sulla nostra pelle che non profuma di morte e che vive nella nostalgia, strana ma comprensibile, di epoche non vissute, ma solo sentite nominare… Noi, dissociati mentali della storia; disadattati del presente che si ri-cercano nel passato; rabdomanti alla ricerca del verso che insegna; ladri di storie; romantici del dolore… Non chiedeteci di far diventare la Memoria come il giorno della “Festa della Mamma” o come “S. Valenti-no”… Non istituzionalizzateci l’esistenza! Lasciateci camminare, così per caso, lungo quei sentieri storici inesplorati che educano strada facendo… Lasciateci liberi di scoprirci ignoranti, interessati ed appassionati come il primo giorno di scuola, come chi sa in cuor suo

e fa finta che ha ancora tutto da imparare… Alternando informazio-ne e poesia, tecnica e cuore! Per non assuefar-ci, per non morire, im-memori, dinanzi ai “telegiornali con cena”, guardando documentari di storia... per continua-re a credere nella forza della scrittura che lascia il segno e che racconta con immutata passione la vicenda di chi non c’è più, per condividere i passi di chi si impegna nella ricerca storica con tutto se stesso, per se-guire ed imitare chi si

ostina a non dimenticare… Per non dimenticare, cer-to… Anche se sembra una frase usata da tutti e che va di moda… Ma che riprende vigore ogni qualvolta ci fermiamo “a parlare”, lungo i viali della distrazione, con i protagonisti di quelle vite parallele spezzate tanti, tanti anni fa… Che riprende forza quando leggiamo il monito contenuto in un vecchio volantino dei ragazzi e delle ragazze della “Rosa bianca”, movimento di resi-stenza tedesco nato nelle università di Berlino: “...Ovunque ed in ogni tempo, i demoni sono stati in agguato nelle tenebre in attesa dell’ora in cui l’uomo diviene debole, in cui esso abbandona volontariamente la sua posizione fondata sulla libertà donatagli da Dio e cede alle pressioni del Male, si distacca dall'ordine divino: così, dopo aver fatto liberamente il primo pas-so, viene spinto al secondo, al terzo, ed ancora innanzi con sempre più turbinosa velocità. Allora, dovunque e nell'ora estrema del bisogno, sono sorti uomini, profe-ti, santi, che avevano conservato la loro libertà, che hanno richiamato il popolo al Dio unico, e con il suo aiuto lo hanno incitato a tornare indietro…”

L’editoriale di Michele Nigro

BLOCCHI DI MEMORIA: un muratore al lavoro attorno ai blocchi di marmo per il monumento in memoria delle vittime dell'Olocausto,

disegnato dall'architetto di New York Peter Eisenman, eretto nel centro di Berlino.

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“Recuperare il passato progettando il futuro” E’ questo il nome del progetto didattico attuato presso la Scuola Media Statale “G. Marconi” di Battipaglia grazie all’operosità delle responsabili - le prof.sse Gio-vanna De Felice (arte ed immagine), Carmelina Cam-perlingo e Amalia Rocco (storia) - e alla supervisione del Preside Giovanni Di Feo. Obiettivi da raggiungere, cito dal programma: “saper cogliere i nessi interdisci-plinari tra arte, storia e processo comunicativo. Svi-luppo delle capacità critiche. Maturazione delle capa-cità di decodificazione del linguaggio visivo.” I conte-nuti del progetto, invece, sono: “studio sincronico del-le componenti storico-artistiche della civiltà greca, etrusca e romana con particolare riferimento all’evo-luzione del concetto di colonizzazione culturale”. I vicini insediamenti archeologici di Paestum, dunque, sono certamente più che adatti allo scopo… Ma l’illu-strazione “burocratica” del progetto non ci soddisfa…! Chiediamo, quindi, spiegazioni ad una delle responsa-bili di progetto, la prof.ssa Camperlingo, che ci illustra il cammino svolto: “…in qualità di docente ho portato il mio contributo per ciò che riguarda la storia della Magna Graecia, gli usi e costumi dell’antico popolo greco… Scopo principale del progetto è stato quello di avvicinare l’alunno all’opera d’arte, stimolare la sua capacità di lettura dell’opera, consentendo la matura-zione di questi giovani dal punto di vista artistico, su-scitando in loro la capacità di emozionarsi… Il proget-to è stato suddiviso in tre fasi: una fase conoscitiva (la storia delle civiltà succedutesi sul nostro territorio); una fase di produzione (arricchita da una visita guida-ta a Paestum e dall’amichevole accoglienza della Responsabile del Museo di Paestum, la dott.ssa Cipriani); ed una fase finale, caratterizzata dalla mo-stra dei lavori eseguiti dagli studenti, che attesti l’av-venuta interiorizzazione del percorso formativo… Le metodologie didattiche utilizzate sono state molte-plici: visite guidate, lavori di gruppo, proiezione di filmati, brain-storming…” In qualità di esperto esterno, proveniente da Roma, il dott. Georges de Canino: “…abbiamo ritenuto oppor-tuno invitare…” - continua la prof.ssa Camperlingo - “…il Maestro de Canino, per magnificare questo pro-getto… solo un’artista come lui può portare ad alti livelli un percorso didattico già avviato che, al di là delle finalità storico-culturali, prevede anche lo svilup-po della personale capacità di emozionarsi, come ac-cennavamo, davanti alla lettura dell’opera d’arte… Il Maestro ci sta seguendo nel nostro percorso con la sua esperienza, con la sua sensibilità artistica, parlan-do molto con i ragazzi…” Il Maestro de Canino è un personaggio già noto alla cittadinanza di Battipaglia (vedi anche intervista pag.5) sia per trascorse vicissitudini storico-culturali che lo hanno immediatamente legato al nostro territorio, tra

cui la partecipazione alla manifestazione del 14 Aprile 2005, organizzata dalla Scuola Marconi e patrocinata dal Comune di Battipaglia, dal titolo “La Shoah, per non dimenticare”, e sia per il più recente (6 Febbraio 2006) conferimento, da parte dell’ex Sindaco di Batti-paglia Alfredo Liguori, della cittadinanza onoraria con-divisa con il testimone della Shoah e Presidente dell’Associazione Miriam Novitch, il Sig. Adolfo Pe-rugia. Il felice connubio tra de Canino e Battipaglia comincia simbolicamente nell’estate del 1998, piantan-do un albero d’ulivo all’interno del Villaggio della So-lidarietà (la Villa Comunale di Battipaglia) quale coro-namento di un’intensa settimana di incontri e dibattiti sulla tragedia dell’Olocausto che vide anche l’interven-to di altri artisti e testimoni tra cui: Armando Severini, Oreste Bisazza Terracini, Mario Limentani… Il progetto della Scuola Marconi ha ereditato in pieno lo spirito di quei giorni importanti vissuti otto anni fa: recuperare il passato, rielaborare una propria identità territoriale, per affrontare il futuro in maniera libera e consapevole… (m.n.)

Spazio Nugae eventi e proposte

Paestum - Tempio di Nettuno

Paestum - Il tuffatore

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VII Premio Letterario Nazionale di Poesia e Narrativa

“IL SIMPOSIO” Sezione A: narrativa edita

Sezione B: narrativa inedita Sezione C: poesia edita

Sezione D: poesia inedita Sezione E: silloge inedita

Sezione F: poesia in vernacolo Sezione G: teatro, atto unico

Gli elaborati devono pervenire entro il 15 Aprile 2006

all’indirizzo: Segreteria “Il Simposio” c.a. Michele Ferruccio Tuozzo

via Provinciale, 90 – 84021 Buccino (Sa) Contributo: € 10,00 per ogni sezione

La cerimonia di premiazione avverrà a Buccino e sarà suddivisa in due serate:

- Venerdì 23 Giugno 2006 - Sabato 24 Giugno 2006

Per informazioni e per il Bando completo: Tel. 339/7900931

www.ilsimposio.altervista.org

“Oreste B. Terracini premiato in Campidoglio” Il giorno 30 Marzo 2006, presso la Sala della Protomo-teca in Campidoglio a Roma, è stata premiata l’opera del poeta Oreste Bisazza Terracini, noto avvocato, Pre-sidente della sezione italiana dell’Associazione Giuristi Ebrei, governatore dell’Università Ebraica di Gerusa-lemme, componente della Società Europea di Cultura e presidente della Commissione Cultura dell’A.N.R.P. Sono intervenuti, assistiti dalla paterna presenza del rabbino capo di Roma, il prof. Elio Toaff: il prof. An-drea Gareffi, ordinario di Letteratura italiana, Universi-tà di Roma “Tor Vergata”, che ha parlato di una “…poesia rispettosa della metrica ma che non cade mai nella fredda ricerca stilistica…i cui temi, come l’ignoto, la malinconia empirica, quasi ricercata, tro-vano una risposta per mezzo di altre domande dissemi-nate nei versi…” e aggiunge “…i ‘versi facili’ di Ter-racini, definizione che non deve trarci in inganno, die-tro la loro leggerezza (tipica delle cose grandi) na-scondono una straordinaria complessità psicologica e filosofica…”; a seguire l’intervento del maestro Geor-ges de Canino, critico letterario (da cui abbiamo rice-vuto l’apprezzato invito a partecipare in qualità di rivi-sta letteraria), che per mezzo di una dissertazione al-trettanto dotta ma più intima (vedi pag.35) e profonda-mente influenzata dall’antica amicizia con Terracini, ha tracciato un interessante quadro umano e storico del poeta-avvocato; ed infine, a chiudere l’evento, le paro-le della prof.ssa Carmela Lo Giudice Sergi, vicepresi-dente dell’Università di Castel Sant’Angelo, Roma, coadiuvata dall’intervento “fuoriprogramma” del poeta e critico letterario Dante Maffia… Ovviamente non poteva mancare il momento del rea-ding, quasi sempre affidato ad attori o lettori, ma que-sta volta magistralmente autogestito dallo stesso poeta che ha letto un buon numero di liriche tratte principal-mente dalla sua recente raccolta “Respiri e apnee”, catalizzando ulteriormente l’interesse del pubblico nei confronti della sua poetica. (m.n.)

Roma - 30/3/2006 - Campidoglio (Roma) Da sinistra a destra: dott. Georges de Canino; prof.ssa Carmela Lo Giudice Sergi; prof. Elio Toaff; avv. Oreste Bisazza Terraci-ni. (foto Mario Masciullo)

Che si nasconde qui, tra le parole? Tra i versi traboccanti di pensieri tra gli inespressi, assurdi desideri che la mia penna traccia, poi cancella come se la realtà non fosse quella che comparendo va nell’astrattezza dell’irrisolto dubbio delle cose della ricerca vana di certezza delle conquiste inutili e ambiziose? Altro non è che l’umile poesia che si rivela senza farsi avanti seminascosta da civetteria.

Oreste Bisazza Terracini (poesia tratta da “Respiri e apnee” - Vecchiarelli Ed.)

Il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, ha appena consegnato il premio al poeta Oreste Bisazza Terracini. (foto Mario Masciullo)

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Dopo il fugace incontro in occasione del conferimento della cittadinanza battipagliese, avvenuto lo scorso 6 Febbraio, abbiamo avuto il privilegio di incontrare nuovamente Georges de Canino durante la sua ultima visita a Battipaglia in qualità di consulente esterno del progetto didattico delle Scuole Medie “G. Marconi” -“Recuperare il passato progettando il futuro”- e di potergli, così, rivolgere una serie di domande che non rendono certamente giustizia alla complessità del suo operato artistico, ma ci permettono almeno di gettare uno sguardo su un personaggio profondamente legato al nostro territorio… Maestro de Canino, come e perchè è nata la poesia intitolata “L’albero di Battipaglia” dedicata all’anti-fascista Vittorio Foa? L’Assessore alle Politiche Sociali e Culturali del Co-mune di Battipaglia di allora, Loris Facchinetti, mi aveva invitato per un viaggio nella memoria che qui, almeno in parte, è andata perduta. La serie di incontri, nel 1998, che abbiamo organizzato nella Villa Comu-nale di Battipaglia, orbitavano intorno alla scoperta della figura di Giovanni Palatucci, commissario di pub-blica sicurezza a Fiume dal 1937 al 1944, della sua complessa personalità e del suo ruolo durante una fase storica ambigua, come quella fascista, in cui questo giovane approda alla Polizia di Stato un po’ per conve-nienza, un po’ per soddisfare delle esigenze professio-nali; o per dare una svolta alla propria vita. Questo gio-vane intellettualmente libero, formatosi con uno spirito estremamente critico, duro, pur provenendo da una famiglia della borghesia contadina, colta, ricca, con familiari legati alla Chiesa – lo zio vescovo – dimostrò di essere una persona svincolata da un’epoca comples-sa in tutti i sensi. Un giovane che già a Napoli si senti-va soffocato, limitato nei movimenti; aveva compiuto il servizio militare in Piemonte dove aveva avuto una serie di contatti, soprattutto a Torino che è stata la capi-tale dell’antifascismo. Non a caso si laurea in Giuri-sprudenza, nel 1932, sempre a Torino con una tesi di laurea interessante (“Il rapporto di causalità nel diritto penale”) recentemente ripubblicata dal nipote Antonio De Simone Palatucci. Un giovane che era dalla parte degli umili, degli emarginati, di coloro che erano fuori dal sistema fascista. E lui usa la legge per combattere il conformismo. Si comporta sempre rispettando appa-rentemente il regime! Poi, in realtà, usa le leggi contro uno stato liberticida, contro le sue regole assurde, con-tro la mentalità della Chiesa: a quell’epoca “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei Gesuiti, inizia una campagna antiebraica e antisemita prima ancora dei Fascisti. Palatucci, invece, usa il cervello per conto suo, cammi-na con i suoi piedi. Ed era un sistema da cui non si usciva tanto facilmente! Pensiamo all’unica voce che, in maniera molto blanda, banale anche, non tanto edifi-cante - la voce di Benedetto Croce - che si rivoltò con-tro le leggi razziali: fornì un commento da “napoletano da salotto”; ci fu, insomma, un’omertà assoluta. Pala-

tucci, invece, disse: “…abbiamo toccato il fondo!” I Fascisti, in qualche maniera, avrebbero voluto avere Palatucci dalla loro parte ma questo gli si rivolterà con-tro; lui fu scomodo con tutti e anche dopo l’8 settembre ‘43 continua a lavorare nella Questura di Fiume, per salvare gli ebrei perseguitati; malgrado che i Carabinie-ri e i poliziotti siano stati disarmati, opera contro i Fa-scisti, usando i Fascisti per i suoi fini. Le sue relazioni sono estremamente garbate, sempre da uomo di giusti-zia, ma se si legge bene tra le righe, in quelle relazioni a Salò lui è contro tutto il sistema: solo un idiota po-trebbe pensare che Palatucci fosse stato un fascista. Per sette anni, dalla Questura di Fiume, ha sistematicamen-te disatteso i dettami di quel regime e ha scelto di per-correre la via da vero cristiano. Poi, in un secondo mo-mento, lo zio vescovo si amalgamò alle azioni del ni-pote. Esiste una registrazione del 1953 della radio israeliana, quando lo zio vescovo fu invitato in Israele, in cui si sente il grande rammarico del vescovo Pala-tucci; si capisce che Giovanni Palatucci era stato la-sciato solo al suo destino di ribelle e di giusto. Giovanni Palatucci, come tutti i figli del sud, aveva dei rapporti con la propria famiglia estremamente teneri, forti, soprattutto con la madre – Angelina Molinari – ma il padre, Felice, pur amando il figlio, avrebbe volu-to fare di Giovanni un avvocato, un notaio. Ma Gio-vanni mai avrebbe preso del denaro da gente che ne aveva bisogno, non avrebbe mai mercificato il suo rap-porto professionale. Il padre di Giovanni Palatucci era un personaggio singolare, un uomo limitato: quando Angelina Molinari muore di crepacuore, dopo aver ricevuto dalla Croce Rossa Internazionale la notizia della morte del figlio avvenuta a Dachau, nonostante i suoi 70 anni si sposa con una giovane contadina. Da questo matrimonio nascono Giovannino e Angelina. Quindi appare chiaro che il destino del giovane Pala-tucci è stato un destino di solitudine, pur avendo a Campagna questo zio vescovo che a suo modo suppor-tava la volontà del nipote nel salvare gli ebrei persegui-tati. Quello che volevo ottenere, dunque, piantando un ulivo nel 1998 nella Villa Comunale di Battipaglia e scriven-do la poesia “L’albero di Battipaglia”, era restituire Giovanni Palatucci al suo sud, alla sua terra; perché era un figlio del sud, senza avere i difetti del sud: non era un servitore dei più forti; non era un mafioso; non era un camorrista; non era indifferente. Era orgoglioso, temprato da un’etica del coraggio, dalla cultura, grande lavoratore e uomo libero sempre, mai sfiorato dall’om-bra della mentalità borbonica. Piantare l’albero signifi-ca lasciare un segno che, secondo la tradizione ebraica, rappresenta “la vita” e in particolare l’ulivo simboleg-gia la fratellanza, l’amicizia, la forza delle radici, l’uli-vo è sempre verde in tutte le stagioni. Chiesi, all’epoca, la collaborazione dei sacerdoti di Battipaglia; ci fu una bellissima cerimonia; il tutto coronato da una mia mo-stra; fu un periodo molto interessante. Da Campagna, dove c’è il “Comitato Palatucci” molto attivo, giunsero numerosi testimoni; da Roma intervenne Adolfo Peru-gia, presidente dell’Associazione Nazionale “Miriam Novitch”; fu presente anche l’avvocato Oreste Bisazza Terracini, presidente dell’Associazione Internazionale dei Giuristi ebrei.

L’intervista a cura di Michele Nigro

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Seconda Guerra Mondiale e dei suoi atroci eventi. Infatti, se confrontati con i secoli e i millenni della storia umana, sessant’anni corrispondono ad uno “schioccare di dita”. Eppure, nonostante il perdura-re dell’eco di quegli anni orribili e nonostante siano ancora vivi i testimoni oculari della Shoah, c’è chi addirittura nega l’Olocausto: mi riferisco alla re-cente condanna, per apologia del nazismo, dello sto-rico negazionista David Irving e alle affermazioni del Presidente iraniano Ahmadinejad. Lei crede nel “buon senso e buon cuore” dell’umanità futura (volendo citare Cesare Cantù) oppure teme il realiz-zarsi di quei vichiani “corsi e ricorsi storici”? Parlando della Shoah nelle scuole, con i ragazzi, sono sincero e non li illudo mai. Spesso racconto ai giovani non solo la storia conosciuta, ma anche pagine scono-sciute scritte con il sangue, storie di atrocità, di follia, di cattiveria gratuita, di cui trabocca la storia. Ma sono servite queste pagine di storia? La guerra tra cattolici e protestanti in Irlanda; le guerre nei Balcani tra croati e serbi; tutte le guerre tra i cristiani di quell’unico ceppo da cui poi si è sviluppata la cristianità in Europa, popo-lazioni antichissime convertite al cristianesimo da mil-lenni. Quello che è avvenuto nei Balcani in questi ulti-mi anni, a cui è seguita una serie di processi internazio-nali con carnefici colpiti da condanne, perseguibili per crimini contro l’umanità, cosa ci ha insegnato? Tutto questo è avvenuto nel pieno dell’Europa del XX seco-lo, dieci anni fa! Con la compromissione delle nazioni europee: gli italiani vendevano le mine e poi mandava-no gli sminatori per bonificare le aree colpite. Gli stu-pri etnici e le violenze non sono mancati! Sono cose che coprono l’Europa di ignominia, e non sono vicende di cinquanta anni fa! Allora, dico, se tutto questo è av-venuto, può riaccadere! Non ci sono dubbi! Prendiamo, ad esempio, i “Protocolli dei Savi di Sion”, questo libello infame contro il popolo ebraico che rac-conta il progetto di dominazione dell’umanità da parte degli ebrei, voluto e fabbricato dai servizi segreti fran-cesi e russi verso la fine dell’800, ha trovato la sua dif-fusione nei paesi arabi in questi ultimi anni. Ben venti milioni di copie sono state distribuite! Quello che molti paesi islamici fondamentalisti propagandano è l’odio antisemita, l’odio contro l’occidente, contro l’America, contro la Democrazia, contro la nostra civiltà, contro le donne: loro dicono di rispettare le donne e poi le tratta-no come schiave. In quei paesi non è considerato reato l’uccisione della propria moglie! L’uomo è padrone della vita di una donna. Eppure è necessario ricordare che l’Islam ha nel suo tessuto un respiro spirituale che oggi è stato completamente calpestato dai “fondamentalisti” che tradiscono il vero pensiero isla-mico, la filosofia islamica; tradiscono il pensiero abra-mitico, calpestano lo spirito compassionevole che è alla base dell’umanità di Maometto. Allora cosa sta accadendo? Quello che è già accaduto in occidente: sovrani e religiosi hanno usato il potere religioso per scatenare l’odio. La storia dell’occidente è piena di questi esempi: il potere politico, statalista e marxista (falsamente marxista) delle dittature del ‘900, ha portato all’esasperazione un certo tipo di odio, ma questo tipo di odio va contro ogni forma di libertà, ogni

C’è un’altra figura che io sempre esalto ed è quella del Generale Gonzaga del Vodice, che fu il primo ufficiale italiano assassinato dai tedeschi l’8 settembre 1943, il quale si rifiutò di cedere le armi ai tedeschi e per que-sto morì non lontano da Battipaglia, precisamente a Buccoli di Eboli (Sa). Auspico che un giorno possa essere inaugurato un monumento alla sua memoria. E poi sono molto legato alla famiglia Amendola, a Pietro, mio amico che è stato per 25 anni segretario della Fe-derazione del Partito Comunista di Salerno e segretario generale dell’ANPPIA (Associazione Nazionale Perse-guitati Politici Italiani Antifascisti) di cui io sono con-sigliere nazionale. Sono molto legato alla sua famiglia e poi questa terra è ricca di storie di antifascisti, socia-listi, comunisti, sindacalisti; per non parlare della storia dei confinati. Pietro Amendola è figlio di Giovanni Amendola, capo del Partito Liberale assassinato dai fascisti nel 1926. E’ anche fratello di Giorgio Amendo-la, uno dei responsabili del Partito Comunista Italiano e Capo della Resistenza. Pietro ha sposato Lara, un’anti-fascista di Arezzo, militante della sinistra, innamorata dell’arte, sostenitrice di Tano Festa e di Franco Angeli. La loro figlia Antonella è una nota giornalista dalle grandi qualità critiche. Poeta, pittore, scultore, illustratore, storico della Shoah. La poliedricità che caratterizza il suo opera-to, oltre che da personali esigenze artistiche, religio-se e culturali, è sicuramente motivata dal bisogno di tamponare il decadimento mnemonico intorno ad argomenti quali l’Olocausto, le leggi razziali, il nazi-fascismo. Attualmente, secondo Lei, quale è lo stato della Memoria? Oggi penso che ci sia una presa di coscienza maggiore del valore della Memoria. Solo che, come tutte le cose che si conquistano, bisogna stare attenti a non tornare indietro. La Memoria è stata un tabù per molti anni, un tabù non solo in Italia ma dappertutto. Il meccanismo della memoria, però, si è sbloccato definitivamente quando dieci anni fa, durante il 50° anniversario della Resistenza, si verificò un attacco molto forte contro la Resistenza e contro la Memoria da parte di gruppi di revisionisti; il che dimostrò, paradossalmente, la buona salute della Memoria stessa, tramite una serie di pub-blicazioni e di eventi pubblici che vi furono in risposta a tali attacchi. La Giornata della Memoria è stata una grande conquista e nasce da una proposta che facemmo tanti anni fa, noi dell’Associazione Miriam Novitch. Devo dire che, in particolare, con il Presidente Scalfaro siamo tornati molte volte sull’argomento; poi abbiamo sensibilizzato molte associazioni legate alla Resistenza. Però per l’approvazione della Legge, fu determinante il Presidente Scalfaro. Inoltre c’è da dire che molti ave-vano la coscienza sporca. I “fascisti”, escluso Fini che ha una sua personalità ed è dotato di una certa identità critica, pur avendo votato all’unanimità per la Giornata della Memoria, hanno voluto ostentare la vicenda delle Foibe in maniera superficiale, mercanteggiata! Le Foi-be furono la tragica conseguenza dell’orrenda violenza fascista che si scatenò in Croazia e Slovenia durante il regime. Con le Foibe gli italiani hanno pagato la ven-detta di quei popoli offesi. Sono trascorsi “solo” sessant’anni dalla fine della

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forma di autonomia, ogni forma di pensiero libertario e liberale. E purtroppo non possiamo appellarci alla coscienza religiosa dell’occidente perché l’occidente ha provoca-to molti morti in nome della religione. Credo, anzi, che l’Europa sia il più grande cimitero ebraico del mondo: non c’è stata un’epoca in cui, dal Medioevo in poi, tra Inquisizione, persecuzioni varie, ghetti, massacri, non sia stato applicato in modo ossessivo l’odio verso gli ebrei. Da Martin Lutero ai Papi è uscito, dall’interno delle chiese cristiane, un odio tremendo, che non cono-sce fondo, verso il popolo ebraico. C’è stato un periodo durante il quale la Chiesa sembra che produca solo odio. Per questo bisogna ritornare alle radici del pen-siero di Abramo, del padre di tutti i popoli; perché al-trimenti commetteremo gli stessi errori. Anche se ci sono delle responsabilità poli-tiche, il mondo islamico fon-damentalista, tra cui il regime iraniano, ci ricorda le stesse premesse che ebbero i nazisti: dalla costruzione del loro re-gime, alle conseguenze che ebbero sul mondo. Uno scena-rio terribile per il futuro: non solo per gli ebrei e per lo Sta-to d’Israele, ma tutto ciò è un attacco profondo all’occiden-te. Noi ancora non ci rendia-mo conto che l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri Ge-melle di New York non è stata la follia di pochi fanatici reli-giosi, ma è stata la prova ge-nerale di un attacco contro l’occidente nel cuore del- l’America. Pur facendo tutte le critiche agli USA, rimango-no sempre il sistema più de-mocratico del mondo. Sandro Pertini affermava: “…sempre meglio una democrazia piena di difetti, che una dittatura!” Ma quale sarebbe, poi, l’alter-nativa all’America, alla de-mocrazia borghese, europea, alla nostra civiltà…? La loro “civiltà”? Per cui la vita non ha nessun valore? Dove le donne sono considerate delle nullità? Un po’ come nell’Europa cristiana, quan-do fu indetto un Concilio per stabilire se la donna aves-se un’anima o meno…! E’ facile indignarsi nei con-fronti dei fondamentalisti islamici, ma non dimenti-chiamo i condizionamenti socio-politici dell’Europa cattolica. Bisogna lavorare per la salvaguardia delle nostre conquiste senza vergognarci di essere occidenta-li democratici, ma caso mai vergognarci per ciò che abbiamo dimenticato del nostro passato: per aver bru-ciato Giordano Bruno; per aver torturato i nostri pensa-tori; per aver messo da parte i disabili... Certo, oggi la Chiesa offre un volto nuovo: la Chiesa di Giovanni Paolo II ha fatto un salto di qualità sconvolgente, riabi-litando, ad esempio, il ruolo del disabile nella società. Quello stesso papa che ha avuto il coraggio di entrare

in una sinagoga dopo 2000 anni! Io non ero pienamen-te convinto del fatto che un papa entrasse in una sina-goga, sarò sincero! E tuttora, in certi momenti, sono preso da profonde crisi. Tempo fa elaborai un lungo testo, incompiuto, che volevo mandare a Giovanni Pao-lo II. Un testo sull’antisemitismo che poi è rimasto nel cassetto anche a causa della morte del papa che è stata per me motivo di grande dolore. Non credeva nella genuinità di quel gesto? Credevo nel “suo” gesto, nel gesto di Giovanni Paolo II! Non in quello della Chiesa! Non è ancora avvenuto, secondo me, nella Chiesa un cambiamento significati-vo nei confronti degli ebrei. Non è stato realizzato il perdono, il bisogno di riconoscere il male compiuto al popolo ebraico. Perché per 2000 anni sono state auto-rizzate delle cose orrende in nome di idee assurde: la

morte di Dio. Ma come si fa ad uccidere Dio? E la colpevo-lizzazione che ne è seguita? E le calunnie, l’accusa delle ostie profanate dagli ebrei, le bugie accumulate nei secoli? Come si fa a smontare, dopo 2000 anni, tutto ciò? Qualcu-no, però, ha riflettuto: ero mol-to amico, ad esempio, di Mons. Clemente Riva che è stato uno degli organizzatori della visita storica di Giovanni Paolo II alla Sinagoga di Ro-ma. Molta gente ha lavorato per questo dialogo, però la Chiesa è tuttora lenta. Molte volte ci siamo interrogati, con il Cardinale Francesco Mar-chisano, sul significato di que-sto evento. Egli stesso una volta ha affermato: “…2000 anni, quanto ritardo!” Se la Chiesa avesse avuto altri at-teggiamenti ed altre responsa-bilità, se avesse ammesso le sue omertà, quante vite umane si sarebbero salvate! Voglia-mo parlare del ruolo ambiguo di Pio XII durante la seconda

guerra mondiale? E’ vero che è nel DNA dell’uomo ricadere nei vecchi errori, ma dobbiamo essere anche fiduciosi. Il rabbino capo di Roma, Elio Toaff, di cui sono allievo, mi ha sempre insegnato ad essere attento, ma al tempo stesso fiducioso. Ebbi l’onore, in occasio-ne della visita, di disegnare la busta per l’annullo fila-telico di quella giornata! Quando vidi passare accanto a me il Papa mentre entra-va in Sinagoga (avevo sedute dinanzi a me Paola e Rita Levi Montalcini) era come se rivedessi tutte le soffe-renze, tutti gli ebrei bruciati vivi, gli autodafé, le perse-cuzioni, i massacri. Come si possono cancellare 2000 anni di persecuzioni con una visita papale? Ma, ad un certo punto, mentre il Papa cominciava a scandire le parole del suo discorso, la sua voce divenne sempre più calda. Si sentiva, ovviamente, che era un discorso pre-

Georges de Canino fa omaggio a Giovanni Paolo II di un dipinto in ricordo di Palatucci.

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parato, ma nella sua voce c’era la voglia di trasmettere un messaggio profondo e fraterno. E in un punto del discorso pronunziò la celebre frase: “…siete voi i no-stri fratelli maggiori!” La Sinagoga, a quel punto, tre-mò per gli applausi e Rita Levi Montalcini si girò verso di me, mi guardò negli occhi ed insieme pronunciam-mo la stessa identica frase: “…in questo momento ab-biamo voltato una pagina della storia!” Ci fu un lungo abbraccio tra il Papa ed il Rabbino Elio Toaff. E’ vero anche che alcuni cristiani sono morti per aiuta-re gli ebrei e per essersi opposti agli ordini papali. Come già abbiamo ricordato all’inizio dell’intervi-sta, Lei si è occupato e si occupa della rivalutazione, da parte della storiografia ufficiale, della figura di-menticata del questore Giovanni Palatucci, lo “Schindler di Fiume”… Non lo paragonerei a Schindler. Perché Oscar Schin-dler fu un mascalzone, un affarista, un nazista opportu-nista, almeno all’inizio! Poi, grazie alla moglie Elisa, Schindler ebbe salva la dignità. Fu per lei che prese coscienza delle nefandezze da cui era circondato! Fu una donna eccezionale che per molti anni ricevette dal marito molta ingratitudine... ...Insomma, Giovanni Palatucci, che salvò 5.000 ebrei dalla deportazione e morì nel campo di Da-chau, e la ricerca biografica su Palatucci possono considerarsi argomenti conclusi, oppure mancano ancora molti tasselli? C’è un libro che ha pubblicato il già citato avvocato Antonio De Simone Palatucci, nipote del santo eroe, per le Edizioni Dragonetti, nel 2003. Anche se in que-sta grande opera sono pubblicati molti documenti ri-guardanti il Questore Palatucci, sono sicuro che, co-munque, in futuro ne usciranno altri. Ho preparato i giovani della scuola elementare “Vittorio Polacco” di Roma in occasione della terza edizione del “Premio Palatucci” voluto dal Ministero dell’Interno, dal Mini-stro On. Giuseppe Pisanu e dal Capo della Polizia Gio-vanni De Gennaro, per la visita ufficiale che c’è stata alla comunità ebraica il 25 gennaio scorso. E sono stato tre settimane a lavorare presso la scuola ebraica per preparare quest’accoglienza e abbiamo fatto un percor-so della memoria su Palatucci con una mostra docu-mentaria, con opere, testi, interventi degli alunni. Ma la cosa straordinaria è notare come la storia di Palatucci appassioni gli ebrei. La figura di Palatucci giganteggia nella storia ebraica, pur essendo un solo uomo dinanzi all’enormità della Shoah. In confronto ai sei milioni di martiri, sembra nulla: eppure l’uno di Palatucci è un gigante! Ne esce fuori un grande italiano, un grande poliziotto che dovrebbe essere d’esempio per le nuove generazioni contro la corruzione, la degradazione e la violenza. Ne esce fuori un grande cristiano. Un santo. Un profeta. Un rivoluzionario. Un “ribelle per amore”! La trattazione della figura storica di Hitler, spesso, suscita polemiche accese: mi riferisco alla proiezio-ne del film “La caduta” (riguardante gli ultimi gior-ni di Hitler nel bunker di Berlino) e al più recente “scandalo” suscitato dalla professoressa Angela Pel-licciari che ha scelto di adottare il testo scritto da Hitler - “Idee sul destino del mondo” - nel liceo ro-

mano Lucrezio Caro. Lei non crede che, per agevo-lare la crescita di una coscienza storica matura e consapevole da affiancare alla Memoria, si debbano consentire anche la lettura e la visione di tale mate-riale? Anche io da ragazzo ho sentito il bisogno di leggere il “Mein kampf” di Hitler. Però io possedevo già gli stru-menti per capire quel libro, gli stessi strumenti utilizza-ti per leggere, in seguito, i “Protocolli dei Savi di Sion”. Ciò che mi lascia perplesso di questa “professoressa” è la mancanza, da parte sua, della ne-cessaria cultura scientifica nel valutare il testo. Chi insegna sa benissimo che un libro così pericoloso, sen-za un apparato critico, dato in mano a degli innocenti, a persone non consapevoli e non dotate di una cultura tale da poter affrontare la drammaticità di quel testo, può causare grossi danni! Non solo la mancanza di scientificità, mi preoccupa, ma addirittura questa pro-fessoressa ha scelto una versione con l’introduzione di un noto neofascista di Ordine Nuovo, implicato nelle famigerate stragi dell’Italia degli anni ’70: Franco Freda. Questo dimostra la malafede di questa insegnan-te! Oltretutto la scuola presso cui insegna aveva invita-to il mio amico deportato Piero Terracina e la professo-ressa non si è presentata, giustificandosi dicendo che soffre molto quando sente le testimonianze della Shoah e quindi, per non soffrire, ha preferito non esserci! La vicenda si commenta da se! Vuole condividere con i lettori di “Nugae” la storia della rivista “Patria indipendente” (Periodico della resistenza e degli ex combattenti” – Anno LV) con cui collabora e quali sono gli obiettivi storico-culturali di tale periodico? La rivista “Patria indipendente” è nata dalla necessità dei partigiani italiani, comunisti e socialisti, dopo la Resistenza, di trovare un giornale su cui scrivere, su cui documentare le loro storie, le loro vicende epiche, ricostruire la complessità della Resistenza. Ho avuto la fortuna di essere amico di colui che ha fondato “Patria”, la grande mente di questo periodico, che è Alfonso Bartolini, un ufficiale dei Bersaglieri che ha partecipato alla Resistenza italiana all’estero. Ha scritto dei libri interessanti sulla Resistenza dei militari italia-ni che dal trovarsi alleati dei tedeschi, dopo l’8 settem-bre, lasciarono il fronte condiviso con i nazisti e, dopo la resa di Badoglio e di Vittorio Emanuele III, seguito dall’arresto di Mussolini, entrarono a far parte delle varie resistenze locali… E Alfonso Bartolini che era un uomo colto, illuminato, non settario, di grande apertura mentale, ha fatto in modo che “Patria” non fosse solo una rivista di memorie di ex combattenti, ma soprattut-to una rivista storica a tutti gli effetti con il contributo di tutti gli storici delle varie armi. Alfonso Bartolini è stato anche compagno d’armi di un altro partigiano che ha lottato in Grecia e che era un pittore-poeta, di cui ho curato la pubblicazione di una raccolta di poesie, e che si chiamava Vittorio Marocchini: pittore di grande fi-nezza che ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Roma. Era stato in Grecia come ufficiale e dopo l’8 settembre si trovava su una delle tante isole greche…; aveva in consegna un centinaio di partigiani greci pri-gionieri. Stavano per arrivare i tedeschi con l’intenzio-

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ne di fucilarli, ma lui – Marocchini – ebbe il coraggio di aprire le porte del carcere e di liberare quelli che fino a poco tempo prima erano suoi prigionieri. I greci scapparono e con loro anche Vittorio Marocchini si diede alla macchia! Fu Alfonso Bartolini che mi spinse a collaborare con “Patria”. Io ero piuttosto restio a scrivere; ero più por-tato a ricercare la documentazione su questi personaggi storici. Mi sono occupato molto, infatti, di un Generale dell’Aeronautica, nato a Cava dei Tirreni: il Generale Sabato Martelli Castaldi. Su di lui ho realizzato una mostra documentaria. E poi ho organizzato un conve-gno a Roma ed un altro a Cava dei Tirreni con l’Asso-ciazione Miriam Novitch, di cui sono vice-presidente. Come è nata, invece, l’Associazione “Miriam No-vitch”? Sono stato molto amico di Miriam Novitch: lei era so-pravvissuta alla Shoah, anche se gli avevano stermina-to ben 54 membri della famiglia! Era rimasta solo lei al mondo! Lei ha trascorso tutto il resto della sua vita a documentare tutte le forme di persecuzione attuate dal Nazismo, e non solo nei confronti degli ebrei: lei è sta-ta, infatti, la prima storica che ha raccolto informazioni sulla persecuzione nazista nei confronti degli zingari. Informazioni fino ad allora sconosciute! Ha raccolto testimonianze, foto, documenti. E’ stata, inoltre, la fon-datrice e la direttrice del “museo dei combattenti dei ghetti”: un museo che ha voluto dedicare ai bambini ebrei uccisi e che è sorto in una cittadina a nord di Israele (nel kibbutz di Beth Lohamei Haghedaoth) e che, tra l’altro, ospita anche molte mie opere. Fu inau-gurata lì, nel 1977, una mia grande mostra dedicata alla Shoah... Sempre a proposito di mostre dedicate alla Shoah: come è nata, invece, la mostra intitolata “Jamais plus”? “Jamais plus” si è svolta al Vittoriano, nel 2000, l’anno del Giubileo. Fu organizzata dalla Provincia di Roma ed è stata la più grande mostra - c’erano un centinaio di mie opere! - che abbia mai fatto a Roma e in Italia sul tema dell’Olocausto. Mostra a cui, tra l’altro, hanno partecipato in tanti, tra cui Pietro Amendola che la inaugurò. Il 16 Ottobre del 2008, nei pressi di Largo Simon Wiesenthal (recentemente inaugurato), aprirà - aggiungendosi allo Yad Vashem di Gerusalemme e al Memoriale di Berlino - il “Museo della Shoah” di Roma. Che tipo di percorsi prevede il museo e quali sono gli obiettivi pedagogici di tale struttura? (E aggiungo maliziosamente: noi italiani arriviamo per ultimi anche sui fatti che riguardano la Memoria!?) Pesano molto sulle coscienze degli amministratori del-la città di Roma questo silenzio e questo ritardo. Molti hanno detto che sarebbe inutile fare un altro museo e che basta già il memoriale alle Fosse Ardeatine. Ri-spondo che quello delle Fosse Ardeatine non è un mu-seo, ma un grande mausoleo dove riposano i martiri e gli eroi. Affianco al mausoleo vi è una piccola stanza con alcune vetrine contenenti alcuni ricordi e docu-menti, ma non si può parlare certamente di museo. La cosa più ignobile, poi, è che hanno costruito lussuose

villette e palazzine proprio a ridosso delle Fosse Ardeatine! Per quello che riguarda, invece, il Museo di Via Tasso (il museo storico della Liberazione di Roma) che è stato la sede, durante l’occupazione nazista, della prigione, del comando e del luogo di tortura della Ge-stapo (era, tra l’altro, anche l’ufficio di Kappler, il co-mandante delle SS) non ha avuto ancora una sistema-zione adeguata perché una parte dello stabile è abitato da inquilini. Dovrebbe, invece, essere totalmente ed esclusivamente destinato ad una funzione museale. Lo Stato, finora, ha commesso gravi mancanze nei con-fronti del museo di Via Tasso, perché si dovrebbe ri-flettere sul fatto che da lì sono passati tutti i capi della Resistenza e quindi sarebbe dovuto essere, prima di tutto, un museo militare proprio per l’eccezionalità dei personaggi che sono stati lì imprigionati, torturati e, in alcuni casi, uccisi: da Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, il Colonnello, al Generale Martelli Ca-staldi, fino al Generale Simone Simoni e tanti altri! Una delle figure, anzi, a cui vorrei dedicare le mie fu-ture ricerche storiche è proprio quella del Generale Simone Simoni che ha avuto un ruolo principale nella resistenza militare antinazista. Per quanto riguarda il nuovo Museo della Shoah, spe-riamo solo che non sia l’ennesima bellissima idea che andrà a sgonfiarsi strada facendo. E soprattutto speria-mo che non si tratti solo di una “vetrina” che serve per certe occasioni! Anche perché andrebbe creata, paralle-lamente a queste grandi opere, una scuola della memo-ria, una cultura della memoria. Che è più difficile da costruire! La sua poesia si nutre di veloci percezioni, di visioni oniriche ma reali e di rapide pennellate come nel caso delle brevissime liriche intitolate “Gianicolo” (“Il ventre di zolfo della notte/che dal buio mi percorre nei/moti mortali”) e “Ponte Mil-vio” (“Quando avrò mietuto nella mente,/il sonno del fiume e la città/della memoria,/l’acqua si alzerà nel firmamento”). La sintesi poetica rende più fruibili concetti come il dolore, la speranza, l’orrore, l’an-nullamento dell’essere e quindi può essere un’allea-ta della Memoria? Certo, è un’alleata della Memoria: la memoria ha biso-gno di tutto. Della vita, degli ideali, dei sogni, delle esperienze, dei sacrifici, delle lotte, anche della dispe-razione. La memoria non è solo la registrazione dei morti, dei combattenti, dei personaggi storici che si sono opposti ai dittatori. Tutto deve essere letto come un grande affresco della lotta dell’umanità per la sua libertà, altrimenti le varie forme d’arte non avrebbero senso! Ci può spiegare, se vuole, la poesia “Gianicolo”? Gianicolo perché ho vissuto in quella zona di Roma per 20 anni, in via Dandolo 19/a. Sono un animale nottur-no; di notte creo. Di notte ho la massima concentrazio-ne e poi la notte sono libero e non vengo disturbato, aggredito dai rumori. La notte è importante perché è un tempo in cui sono padrone di me stesso. La notte è co-me se fosse un tempo senza tempi! Lo “zolfo” rappre-senta i ricordi, le amarezze, i fallimenti, le delusioni, la fine delle cose, tutto ciò che si brucia. Ma anche ciò che non si brucia, ma che si è perduto per sempre.

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I “moti mortali” sono tutto quello che noi viviamo e per cui combattiamo. Siamo, oltre che i protagonisti, anche i “registratori” di ciò che è stato ed abbiamo per-duto. Le schegge di diamanti della pioggia e delle stel-le, sono i residui dei nostri sogni. Definito “espressionista del dolore”, da più di trent’anni le sue opere, frutto di un’arte totale che non teme di fondere tecniche espressive e linguaggi diversi, rielaborano sulla tela (oltre che sulla carta tramite il disegno a china!) le tematiche dell’ebrai-smo e della deportazione. Azioni pittoriche veloci ed efficaci che qualcuno ha descritto come “… figura-zione “schizzata”, d’ "abbozzo”, ma eloquente e lapi-daria…”. Quali percorsi creativi effettua passando dalle “ereditate esperienze storiche” fino ad arriva-re al segno grafico? La mia opera nasce da un’emozione, dal ricordo, dalla voglia di affermare la vita. Perché io vorrei dare voce, finché vivrò, a coloro i quali non hanno avuto più dirit-to a vivere. Vorrei restituire la vita a chi l’ha avuta strappata. Vorrei ridare colore ai colori che sono stati sciupati, cancellati. Vorrei ascoltare la voce di chi non c’è più. Vorrei, forse, ripetere il nome di coloro che sono stati dimenticati. Vorrei dare ancora un attimo di respiro ai volti, agli occhi, agli sguardi, alle bocche che urlano e che non possono urlare. Vorrei, se fosse possi-bile con l’arte, far rivivere per altri anni ancora questa vita! Suggellare, attraverso la loro tragedia, una vita come speranza. Un grande abbraccio tra la libertà e la speranza, l’amore e la vita e la morte e la vita che rina-scono. Al di là della successiva e pessima evoluzione in sen-so fascista, quali aspetti del Futurismo possono an-cora interessare l’artista moderno? Il Futurismo era partito come movimento rivoluziona-rio. Il Futurismo esaltava la macchina, il progresso tecnologico, la potenza della velocità, del motore, del dinamismo, del volo, dell’elettricità. Tutto nasce da un quadro di Giacomo Balla che fu visto da Marinetti il quale, in seguito, scrisse il famoso manifesto “Uccidiamo il chiaro di luna” andando a dare una pri-ma spallata al romanticismo che era uno degli obiettivi da demolire, l’accademia falsa, ripetitiva e nostalgica. Oggi, invece, siamo sommersi in una società dove i media e la tecnologia hanno preso il sopravvento su tutto uccidendo il linguaggio, la poesia, l’arte, l’emo-zione e tutto diventa meccanico. Tutto è automatico e senza cultura: perciò privato di un’anima! Loro, i futu-risti, pensavano ad una civiltà tecnologica con un’ani-ma. Erano molto ingenui! Esaltavano la guerra, per giunta, come igiene del mon-do! E’ vero che nel Futurismo c’è un’anima internazio-nalista, che è poi l’anima vera del Futurismo, anche perché Marinetti era di cultura francese. Purtroppo la seconda anima di Marinetti era provinciale e questa presto trovò la sua realizzazione nel Fascismo e nelle barbarie della provincia italiana, bigotta, antisocialista, antidemocratica, antiliberale e antimodernista. Infine divenne l’orpello del Fascismo. Nel Futurismo, però, c’è anche un’anima psicologica, un’anima mistica, un interiore magico che si avvicina

al surrealismo. E’ questo il lato affascinante, estrover-so, dirompente di quella corrente, come dirompente fu il teatro “futurista” di Francesco Cangiullo che diede vita ad un teatro dell’assurdo, antiformalistico, anticon-venzionale, contro il perbenismo. Questo è l’aspetto rivoluzionario e geniale del Futurismo, che non morirà mai! E non parlo solo di Cangiullo, ma anche del mio amico Arnaldo Ginna che è stato l’ideatore del Cinema Futurista. Ginna mi donò una litografia che utilizzai per la copertina del mio libro “L’amour absolu”, una tavola futurista risalente ad anni addirittura precedenti al Futurismo stesso! Fu un precursore. Tra l’altro, ho avuto la fortuna di conoscere Aldo Palazzeschi che fu un “futurista libero”, non arruolato secondo la volontà marinettiana. E’ stato, per questa sua libertà, un personaggio straordinario e scrisse uno dei manifesti più belli del Futurismo: il manifesto del “Controdolore”, in cui afferma che i cimiteri devono essere trasformati in sale da ballo, in luoghi di diverti-mento dove non si deve più piangere. La morte deve diventare vita! E poi i suoi romanzi hanno avuto una grande influenza su di me. Dissi a Palazzeschi che ave-va scritto alcuni romanzi, come il “Codice di Perelà” e “L’allegoria di Novembre”, che possedevano una forte influenza wildiana e che hanno un approccio “presurrealista”, addirittura “predadaista”! Lei ha un progetto in mente: vorrebbe donare alla città di Battipaglia una raccolta di 1500 libri sulla storia della Shoah… Premesso che è arduo redigere una classifica e fare una cernita, quali sono stati gli Autori che l’hanno maggiormente avvicinata alla conoscenza dell’Olocausto? Vorrei donare questa biblioteca, facendola diventare un centro studi della Memoria ebraica, alla Città di Batti-paglia, sotto il patrocinio della Provincia di Salerno e con il gemellaggio dell’Università di Salerno. Questo centro dovrebbe essere anche un riconoscimento verso le vittime che Battipaglia ha avuto durante la seconda guerra mondiale. Comunque, devo tutta la mia sensibilità ad Anna Frank. Anna è stata la mia sorellina, la mia guida. Ho letto il suo “Diario” all’età di 12 anni e fu per me una grande emozione: non ho più smesso di leggerlo! Sono d’accordo con Anna Frank: anche nei momenti più bui, bisogna sperare nel miglioramento dell’umanità. E poi l’altra grande voce che mi ha formato è stata quella di Settimia Spizzichino, l’unica sopravvissuta donna della prima deportazione, quella del 16 ottobre 1943, che io chiamavo “zia” perché per me è stata una guida, fino al suo ultimo giorno di vita (2000). Anche Pietro Terracina, Alberto Mieli, Mario Limentani, sono stati i miei maestri della Memoria. Ma in testa a tutti, con Anna Frank, devo mettere il nome di Primo Levi. Ho letto, prima della sua morte “I sommersi e i salva-ti” in cui faceva una riflessione sul revisionismo stori-co e dimostrava di essere ossessionato dalla paura che gli anni passassero e i superstiti della Shoah non fosse-ro più in grado di testimoniare, perché non creduti! Lui aveva avvertito nel mondo le violenze che ritornavano: il Vietnam, il regime di Pol Pot in Cambogia, i lager nell’URSS di Stalin, gli stermini in Africa. Aveva capi-to che tutto era di nuovo possibile.

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Il suo suicidio è stato un atto di… E’ stato un grido, il suo ultimo grido! Un grido nel cuore; un urlo senza fine. La morte di Primo Levi è un urlo senza fine! Alcuni individui affermano, con superficialità, che nel mondo si starebbe molto meglio e si eviterebbe-ro tante guerre se non esistessero più le religioni. Cosa rappresenta per Lei la fede ebraica e cosa significa sentirsi parte dell’universale comunità ebraica? Le religioni sono comunque “cosa buona” finché non diventano politica. La religione deve essere l’espressio-ne di un’etica, di un comportamento, di una scelta, di un rispetto, di un avvicinamento al prossimo, alla di-versità, nel rispetto sempre di se stessi e degli altri at-traverso la compassione, come ci insegnano i grandi profeti e lo stesso Dalai Lama, senza compassione, amore, giustizia e condivisione ci sono l’orrore e la violenza. Io non considero l’ebraismo una religione: l’ebraismo è una civiltà, una cultura, una filosofia, un’edu-cazione, un modo di stare al mon-do, di amare la natura, la vita, un modo di trattare la giustizia senza la quale il mondo sarebbe in preda alla follia e all’egoismo. L’ebrai-smo è “ama il prossimo tuo, come te stesso”, come è scritto nel Levi-tico; l’ebraismo è “…non ti dimen-ticare, oh Gerusalemme!” perché Gerusalemme rappresenta la terra, il luogo, l’amore dei Padri ed il feeling che c’è tra il mondo ed il mondo, tra una parte del mondo ed il mondo intero! Io mi sento, per-tanto, cittadino del mondo! Sono felice di vivere a Roma, perché sono per sempre romano. Ho vis-suto l’esperienza di essere profugo, in quanto provengo dall’Africa: abbiamo perduto tutto; siamo fug-giti perché braccati come se fossimo stati degli appe-stati o dei ladri! Scappammo, io e la mia famiglia, dalla Tunisia con grande dolore: ma a Roma ho trovato la mia identità, perché la comunità ebraica di Roma è una delle più antiche del mondo ed è sopravvissuta alle violenze e alle persecuzioni della Chiesa. Coesistere insieme al gigante della Chiesa di Roma, per noi, pic-cola comunità ebraica, non è stato facile! Ma siamo ancora qui, ebrei italiani. E poi ho avuto un grande maestro che, come ho già ricordato in precedenza, è rav Elio Toaff, capo rabbino emerito della Comunità Ebraica di Roma. Così come un grande maestro è stato per me il Rabbino Nello Pa-voncello, che mi ha avvicinato alla tradizione ebraica italiana ed in particolar modo alla tradizione ebraica romana, e che è stato il più grande storico della comu-nità di Roma. Lui mi ha insegnato ad amare le tradizio-ni ed anche il rito romano. Il mio è comunque un ebrai-smo non conservatore e aperto alla rinascita insieme al popolo di Israele. Mi riconosco molto nell’ebraismo

americano, perché la storia del popolo ebraico è una storia in crescita continua, come è successo al popolo americano. Non a caso l’ebraismo in America ha trova-to le sue espressioni più alte nella scienza, nella cultu-ra, nell’arte, nella letteratura, nel modo di pensare. Se pensiamo a Herbert Marcuse, grande teorico della rivo-luzione degli anni ’60, dello stesso 1968, che deriva dalla scuola del pensiero tedesco. Penso ad Anna Harent, a Walter Benjamin. L’ebraismo è tutto questo: da Kafka a Isaia Berlin ed altro ancora! Sono aperto, per carattere, a tutte le forme di espressio-ne, a tutti i linguaggi dell’ebraismo, che ha vari volti, come le sfaccettature di un diamante. Sono osservante; osservo le Mitzvòt (le osservanze dei precetti fonda-mentali dell’Ebraismo), perché sono una gioia per chi le osserva. Non sono mai un peso! Non vivo in funzio-ne dell’appartenenza fine a se stessa: il mio sentirmi parte della comunità ebraica si manifesta nella vita quotidiana attraverso l’arte, l’insegnamento, il mio modo di rapportarmi agli altri. Amo la vita e trovo nel-

la differenza e nella diversità la nostra ricchezza. Tutti siamo parte dell’umanità e del mono. L’ebraismo ortodosso è interessan-te, perché ha mantenuto la tradizio-ne nei secoli, senza la quale non ci sarebbe storia, memoria e quindi non ci sarebbe futuro. Ma l’ebrai-smo è anche cambiamento, adatta-mento, mutamento. Guai se pensas-simo che l’ebraismo sia una fede cristallizzata come nei villaggi del-l’Ucraina, della Polonia e della Lituania, o di Gerba. Struggente è il profumo della mia infanzia e il ricordo delle piccole sinagoghe di Tunisi che frequentavo da piccolo e che rivivono nelle mie preghiere. La ricchezza della tradizione ebrai-ca europea proviene da loro, da quelle comunità, ed è innegabile la loro importanza storica. Così come importante è l’ebraismo italiano

che è armonico ed ha un respiro straordinario. L’ebrai-smo è movimento e non si formalizza nel dogma: l’uni-co dogma è nell’unicità di Dio. Sempre conservando il simbolismo della “tenda di Abramo” che aveva quattro entrate e quattro uscite. Chiunque entrava nella tenda di Abramo era protagonista, era ricevuto come un ospi-te, come un fratello. Abramo non sceglieva in base ad un calcolo e non faceva differenze. E questo è il modo di vivere e dovrebbe appartenere a tutte le civiltà, a tutti i popoli: “Aprite le tende, aprite le porte”, perché entrando possiamo conoscere e condividere. Quando usciamo, siamo un po’ più ricchi perché abbiamo cono-sciuto qualcosa di nuovo. Nella foto: l’ulivo recentemente donato dal Maestro de Canino alla scuola elementare del IV° circolo - plesso Via Cilento - di Battipaglia (Parco delle Magnolie). Il giovane alberello, succes-sore del glorioso ulivo del ’98, riceverà il battesimo della terra durante la “Festa di Primavera”, dopo le vacanze pasquali…(foto M. Nigro)

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“Campagna e gli ebrei di Monsignor Palatucci”

- Brevi note di un giovane studente - “Si era nell’autunno del 1941 quando, per motivi di famiglia, dovetti trasferirmi anch’io là dove esisteva una scuola simile a quella che avevo frequentato fino ad allora. Fu questo, dunque, il motivo per cui da La-gonegro (Pz) mi ritrovai in quel di Campagna (Sa) ove continuare e completare gli studi avviati. Indubbiamen-te l’avvenimento costituì inizialmente, almeno per me, un grosso disappunto ed un cocente dispiacere sola-mente al pensiero di dovermi allontanare da un am-biente che offriva bellezze naturali incomparabili (montagne superiori ai mille metri con relativi laghetti, nonché immensi castagneti che, al tempo in cui si rac-coglievano i loro frutti, consentivano allegre passeggia-te con amici ed amiche, delle quali, oltre tutto non si era di certo a corto…; oh! Sempre benedetti siano i sedici anni!). Tolto di mezzo il tempo necessario per adempiere i compiti scolastici e per la partecipazione alle “adunate” (1) fasciste dedicate alla “formazione” politica e fisica (e dalle quali non si poteva transigere, visto che le assenze o qualsiasi altra deficienza erano in stretta relazione con ammende e “note” varie che ave-vano la loro influenza sul profitto scolastico), il tempo rimanente era occupato da vari appuntamenti con i compagni e dal semplice divertimento che ne seguiva. Ed ecco che alla fine del Settembre 1941, su di un ca-lesse (a quel tempo le automobili erano pochissime perché requisite a causa degli eventi bellici o perché mancava il permesso per circolare) (2), giunsi nel corti-le del Convitto “Olindo Guerrieri” di Campagna ove fui subito accolto e accompagnato, con il relativo equi-paggiamento, al posto assegnatomi, e aiutato da un paio di baldi giovani che si esprimevano con un lin-guaggio a me ignoto (3). Ma non tardai molto a cono-scere la storia di quei giovani, e degli altri loro amici lì presenti, quasi tutti laureati o universitari: li rividi la sera nel refettorio quando, indossando un camice bian-co, cominciarono a servirci la non lauta cena…(4) E così venni a sapere che quei giovani, il più adulto dei quali si chiamava Abramo, erano ebrei ed erano stati “sistemati” in quel collegio con la funzione di inser-vienti di tavola e non solo, perché addetti anche alle varie incombenze che richiedevano le camerate e gli altri annessi dell’edificio.(5) In seguito capii che quei giovani ebrei si trovavano lì, tra i collegiali di Campa-gna, per sfuggire alle leggi razziali promulgate dal Fa-scismo (6) e col pieno assenso e consenso del proprie-tario del collegio, nonché Podestà (7) di Campagna, il sig. Carlino D’Ambrosio, e di altre autorità politiche ed eminenze religiose del luogo, visto che il convitto era diretto ufficialmente da un ottimo sacerdote - Mons. Alberto Gibboni - facente parte della Curia e parroco della cattedrale.

“Deus ex machina” di tutti i movimenti dentro ed intor-no al convitto di Campagna fu certamente anche il ve-scovo Monsignor Palatucci che con il suo intervento sobrio ma determinante fece sì che quel luogo di studio e di accoglienza divenisse anche “rifugio” per molti perseguitati. Gli ebrei pervenivano a Campagna attra-verso “canali segreti” ed apparentemente regolari, crea-ti all’uopo dal compianto dott. Giovanni Palatucci, questore di Fiume e nipote del vescovo di Campagna.(8) Le persone che, direttamente o indirettamente, consa-pevolmente o inconsapevolmente, facilitarono i disegni salvifici dei Palatucci, furono tutte dotate della massi-ma bontà, intelligenza e responsabilità soprattutto nei confronti di Dio e del prossimo. In alcuni casi, come per il questore Palatucci, questo senso di responsabilità si trasformò in sacrificio: infatti Giovanni Palatucci fu successivamente denunciato e deportato nel campo di Dachau dove trovò la morte a soli 36 anni… Riconosciuto successivamente del titolo di “Giusto” da parte della Comunità ebraica, Giovanni Palatucci viene oggi ricordato con una lapide depositata nel Memoriale di Gerusalemme, lo Yad Vashem, insieme a tanti altri benefattori che durante quel periodo seppero guardare “al di là degli ordini”. Dopo l’8 Settembre 1943 il convitto fu chiuso. (9) Due dei giovani ebrei conosciuti nel convitto, successi-vamente, chiesero ed ottennero il Battesimo (10), secondo il rito cattolico divenendo, così, cristiani. Uno di essi rimase a Campagna dopo l’8 Settembre, sposan-do una ragazza del posto (11) ed esercitando la profes-sione medica del cui titolo era già in possesso, ma che aveva dovuto mettere da parte per i motivi a cui abbia-mo già accennato. (12) In seguito, con il passare degli anni dal termine della guerra e divenuto adulto, non ho mai interrotto la mia amicizia con il Monsignor Palatucci che avevo avuto la fortuna di conoscere durante i miei studi a Campagna e che mi resero, dunque, testimone inconsapevole delle sue azioni umanitarie nei confronti dei fratelli ebrei. Anche quando divenni io stesso insegnante e fui trasfe-rito ad Oliveto Citra per motivi di lavoro presso la lo-cale scuola elementare, ho avuto modo di ricevere la fiducia del vescovo Palatucci. Una di queste dimostra-zioni di stima l’ho avuta quando il Monsignore mi chiese di preparare il discorso ufficiale da pronunciare in occasione di un evento storico-religioso: l’apposi-zione di una targa per ricordare il periodo trascorso da S. Gerardo Maiella ad Oliveto Citra (Sa).(13) Fu un atto di devozione e di omaggio nei confronti di questo santo locale, ed avvenne con grande concorso di popolo e, naturalmente, alla presenza di Monsignor Palatucci. E’ interessante compiere, a distanza di anni, un paralle-lismo tra questi due “angeli”: “l’angelo di Dachau” e “l’angelo di Materdomini”; tra Giovanni Palatucci e Gerardo; tra il “giusto” ed il “santo”, entrambi protetto-ri dei deboli… Entrambi morti in giovane età.”

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Appunti di storia di Adolfo Ricci

(a cura di Michele Nigro)

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NOTE (1) Come, ad esempio, il famigerato “Sabato fascista”. Anche se non mancavano adunate infrasettimanali; chi non partecipava a tali “incontri littoriali” riceveva delle note di demerito su un apposito libretto. A quei tempi i giovani erano inquadrati nella G.I.L. (Gioventù Italiana del Littorio) che era suddivisa in tre principali sottose-zioni a seconda dell’età del ragazzo/a e in base alla funzione a cui era destinato/a per le esigenze della “patria”: i “Balilla” per i più piccoli; gli “Avanguardisti” ed infine i “Premilitari”, una sorta di “gioventù hitleriana” in salsa fascista che avrebbe do-vuto preparare i giovani più grandi d’età, sia dal punto di vista disciplinare, sia dal punto di vista tecnico, alla futura e “gloriosa” vita militare. (2) Le automobili venivano “consegnate” alle autorità (o forse sarebbe meglio dire requisite dalle autorità) per un utilizzo bellico/logistico; le poche rimaste in circolazione dovevano avere un permesso speciale per essere utilizzate. Questa finta rigidità, in realtà, nascon-deva una squallida situazione economica (tra cui la penuria di benzina!) con cui si pretendeva di sostene-re una guerra! (3) Il “linguaggio ignoto”, a cui fa riferi-mento Ricci Adolfo, è in realtà la lingua ebraica usata dai gio-vani “ospiti” ebrei che, durante la permanenza del nostro testimone nel convitto di Campa-gna, erano approssi-mativamente in sei. Gli ebrei che lavora-vano nel convitto, ri-cordati dal Ricci, non devono essere confusi con gli internati veri e propri che si trovavano nelle colonie per confinati di Campagna: il campo di “S. Bartolomeo” e quello del- l’ ”Immacolata Concezione” che erano in effetti due ex conventi, di proprietà del comune. (4) L’alimentazione, durante quei difficili tempi, non era abbondante e variegata come oggi: brodo vegetale e patate costituivano il leitmotiv dei giovani stomaci e solo una volta alla settimana si riceveva un bel piatto di pasta asciutta. La carne, ovviamente, era una rarità. Per sfuggire ai morsi della fame, i giovani del convitto ave-vano studiato un espediente capace di supplire alle ca-renze alimentari: scambiarsi, durante le ricreazioni, quelle poche leccornie ricevute dai parenti ed introdot-te nel convitto. Un biscotto per una fetta di pane, un pezzo di dolce per un bicchiere di acqua “idrolitina” (prima del moderno avvento delle innume-revoli marche di acqua minerale, l’idrolitina costituiva l’unico diversivo all’acqua semplice. Si trattava di una polverina, contenuta in cartelle, che aggiunta all’acqua

le faceva assumere una simpatica ed innaturale efferve-scenza molto gradita dai giovani e da chi aveva proble-mi di digestione… Questi ultimi, a dire il vero, erano in pochi!) (5) Quello di integrare i giovani ebrei nel tessuto logi-stico del collegio, è stato uno dei tanti sottili e diploma-tici espedienti realizzati grazie alla silenziosa ma effi-cace “regia” dell’allora vescovo di Campagna, Monsi-gnor Giuseppe Maria Palatucci, e del nipote, il questo-re Giovanni Palatucci, che già “operava” in quel di Fiume: il giovane funzionario di Polizia, responsabile dell’Ufficio stranieri, infatti, quando la via dell’emigra-zione per gli ebrei di Fiume non era possibile, li invia-va presso il campo di concentramento di Campagna affidandoli alla protezione dello zio Vescovo. Il colle-gio di Campagna, in particolare, costituì, per alcuni, una provvida alternativa alla deportazione in uno dei tanti campi di concentramento nazisti già esistenti in Europa. Ricordiamo, comunque, che già esisteva, per legge, una netta distinzione tra la forma più severa di prigionia, vale a dire l’internamento in "campi di con-

centramento" veri e propri e quella più blanda del soggiorno obbligato in un comu-ne, cioè del cosiddetto "internamento libero". (6) “Aprile 1938, na-sce l’Istituto per la bonifica umana e l’or-togenesi (fra i suoi scopi lo studio del pro-blema della razza); …dal 14 luglio 1938 vie-ne promulgato il deca-logo dei cosiddetti <<studiosi fascisti>> sul tema della “pura razza italiana” e che sfociò nei famigerati provvedimenti antise-

miti: gli Ebrei esclusi da tutte le scuole e gli istituti di cultura statali e legalizzati, nonché dagli uffici pubbli-ci; divieto di matrimonio fra Ebrei ed “Ariani”. Nono-stante la campagna di stampa orchestrata per popolariz-zare lo spirito delle nuove disposizioni (dal 6 agosto esce la rivista “Difesa della razza”), la grande maggio-ranza del popolo italiano accoglie con indifferenza, o con palese riprovazione, il programma antisemi-ta…” (fonti: “Enciclopedia della storia universale” di Johannes Hartmann – edizione CDE spa, Milano). (7) Podestà: durante il regime fascista era il capo dell’amministrazione municipale. (8) E’ interessante notare come la testimonianza di Ricci Adolfo evidenzi una situazione abbastanza curio-sa ma non del tutto estranea al modus vivendi e all’ani-mo di noi italiani. A Campagna, durante gli anni se-guenti alla promulgazione delle leggi razziali, si venne a creare come una sorta di convivenza tra i vari poteri, secolare e religioso, che, pur “assecondando” le assur-

Da sinistra a destra: Mons. Gibboni, il Vescovo Palatucci; quarto da sinistra: Ricci Adolfo.

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de leggi del 1938, fecero in modo di non tradire la su-periore legge della morale individuale. Il Podestà, il Segretario del Fascio ed il Vescovo raggiunsero così a Campagna un tacito accordo per far sì che gli “ospiti” ebrei, pur essendo vittime della deportazione, non su-bissero ulteriori angherie vivendo in un ambiente pro-tetto come può essere quello di un convitto per giovani gestito dalla Chiesa. Ricci Adolfo, in separata sede, ama usare il termine di “fascismo rosa”. Un termine, forse, non condiviso da tutti, ma che lascia intendere come, in alcune zone isolate della penisola italiana, il fascismo non avesse accecato totalmente il buon senso della “gente”. (9) E non solo per l’armi-stizio in sé che smembrò il potere fascista, catapul-tando il paese intero nel più totale disorientamen-to (ci ricorda il Ricci che le scuole riaprirono, al-l’indomani dell’8 settem-bre, solo nell’aprile dell’anno successivo) ma anche perché i tedeschi nel ‘43 avevano fiutato la vera natura del campo di concentramento di Cam-pagna ed erano determi-nati nel bloccare le azioni umanitarie dei Palatucci. La storia ci insegna che i tedeschi, grazie al pre-ventivo intervento delle guardie del campo (definite dagli stessi in-ternati “amici” e mai carnefici) e all’influenza del vescovo Palatucci, trovarono il campo com-pletamente vuoto mentre gli ebrei internati fuggi-vano (in compagnia delle guardie, non più alleate dei tedeschi) tra le mon-tagne vicino Campagna. Evidentemente anche i giovani ebrei del convit-to, anche se il Ricci non ce lo conferma, furono nascosti tra le famiglie di Campagna o fuggirono tra i monti. (10) Le conversioni non erano imposte, ma “consigliate” dallo stesso vescovo Palatucci il quale evidenziava “i benefici ottenuti dalla conversione”. Benefici, ovviamente, non di natura religiosa, bensì pratici e che avrebbero potuto ulteriormente migliorare la condizione di vita nei campi d’internamento di chiunque avesse deciso di diventare cattolico. (11) Molto probabilmente, anche se il Ricci non lo ri-corda e non può confermarcelo, si tratta del dott. Giu-

seppe Lipenholc, di nazionalità polacca, che sposò la signora Teresa Castagno, una cittadina campagnese conosciuta proprio durante il suo periodo di interna-mento a Campagna. (12) Vedi nota 6: tra i tanti divieti, vi era per gli ebrei anche quello di esercitare la libera professione, com-presa quella medica. Divieto che fu, in molte occasioni, ignorato a Campagna per la necessità di medici sia nei campi, sia nel paese stesso. Tra tutti ricordiamo i se-guenti medici ebrei, di varia nazionalità e specializza-zione: David Schwarz, Mosè Rosenzweig, Zezmer

Bruno, Witcowski Kurt, Klein Isacco, Rawitz Kurt, Orbach Ernesto, Max Tanzer, Ladislao Munster. (13) S. Gerardo Maiella durante l’ultima estate della sua vita, poco prima della sua morte (avvenuta per tubercolosi il 16 otto-bre 1755), prevedendo di non farcela a raggiungere Materdomini, a causa dei continui espettorati san-guigni ed emorragie nasa-li, si diresse verso Oliveto Citra, dove poteva contare sull´aiuto di amici e usu-fruire di assistenza medi-ca. Qui vi trascorse un paio di settimane. Circa due secoli dopo la sua morte, fu apposta una “targa-ricordo” ad Oliveto Citra presso il palazzotto in cui S. Gerardo dimorò, di proprietà del Sig. Anto-nio Rufolo ed occasional-mente occupato dalla famiglia Salvatore che all’epoca ospitò il Santo.

Anno 1955: Ricci Adolfo mentre pronuncia, in presenza del Vescovo Palatucci, il discorso in occasione dell’apposizione della

targa - ricordo per il Santo di Materdomini.

Ricci Adolfo è nato a Salerno il 14 Novembre 1927. Insegnante in pensione, padre di tre figli, vive a Batti-paglia con la moglie Rosina. Ha trascorso gran parte della propria vita (42 anni!) nel mondo della scuola ed ha vissuto in prima persona alcune importanti pagine della vita politica e culturale battipagliese. E’ membro, inoltre, della comunità dell’Ordine Francescano Secolare (Ofs).

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(seconda ed ultima parte)

I poveri emigranti scoprirono, a loro spese, che l’Ame-rica non era quella della propaganda, ma “una nazione vorace che inghiotte lavoro ed uomini”, con una paga quasi insignificante. Non bastò ridurre alla miseria il povero emigrante, ma si cercò sempre di ingannarli; ecco cosa ancora si legge su “La stella degli emigran-ti”: “La storia (degli inganni) è vecchia… Un nuovo carrozzone. Sembra che si stia organizzando un gran-de carrozzone, col pretesto di giovare agli emigranti. Sarebbe stato proposto al governo la costituzione di una società con 50 milioni di capitali allo scopo di comprare terreni in tutte le parti del mondo per ren-derli ai nostri emigranti purché il governo garantisse l’interesse annuo del 21,2% da prelevarsi dal fondo dell‘emigrazione. Questo progetto basta annunciarlo perché ne appaia subito 1‘assurdità e il tranello. Gli emigranti sono o non sono poveri come Giobbe? Se non fossero poveri non emigrerebbero. E’ la caccia al fondo dell‘emigrazione che si continua a fare senza misericordia.” Certamente raccontare l’emigrazione, scrive Giuseppe Galzerano, oralmente è una cosa, scrivere è tutt’altra cosa. Ancora oggi, purtroppo, non tutto è stato detto e scritto su questi poveri emigrati, che spesse volte non avevano nemmeno i soldi per spedire una lettera in Italia, nella quale chiedevano aiuto per far ritorno in patria e sono morti da miserabili. Le brutture in quegli anni tristi non furono poche; infatti, si legge ancora su “La stella degli emigranti”: “Poveri emigranti. Giunse a Roma proveniente da Pisa una carovana di immigra-ti dal Brasile, della quale facevano parte i coniugi Nappa e Caputo braccianti meridionali e un loro bam-bino Giovannino di 16 mesi nato in Brasile. Questo fanciullo, alla stazione di Magliano morì per mancan-za di alimenti. La carovana narra cose inaudite contro il commissario dell‘emigrazione specialmente del Bra-sile, e nei porti italiani. Il fanciullo non sarebbe morto d’inedia se il commissario si fosse mostrato più uma-no!” Fra l’indifferenza delle autorità italiane iniziò una di-spersione di popolo, le quali “vedevano di buon occhio la possibilità di liberarsi di quella parte della “Nazione” di cui in realtà provavano vergo-gna” (AA.VV., “La storia proibita”). Epperò è anche da ricordare che molti dei cosiddetti “cafoni” riusciro-no ad affermarsi in queste terre sconosciute ed inviaro-no, per aiutare le loro famiglie in Italia, molti soldi e i loro sacrifici (tanto per cambiare!) sostenuti in terre straniere, “furono sfruttati dai piemontesi che utilizza-rono i loro risparmi”, che ancora una volta salvarono l’Italia dalla bancarotta; infatti, “la valuta pregiata andò a finanziare le industrie del Nord”. Sono, per quel tem-po, cifre da capogiro:

dal 1896 al 1900: 2 miliardi dal 1909 al 1914: più di 4 miliardi;

“oramai le rimesse degli emigranti facevano parte del

quadro economico dell’Italia: servivano a chiudere il bilancio della Stato”. “E’ grazie a questo continuo flusso di denaro”, scrive lo storico Danilo Franco (“Il ferro in Calabria. Vicen-de storico-economiche del trascorso industriale cala-brese”- Kaleidon editrice - Reggio Calabria 2003), “che si ingrandirono e si potenziarono le industrie del nord, sovvenzionate con fondi statali e protette dallo Stato con apposite e mirate leggi doganali. Se a queste risorse finanziarie si aggiungono i fondi prelevati dal Governo piemontese dalle casse del Regno delle Due Sicilie, all’atto dell’unità d’Italia, si può ben capire quale fu il contributo del Sud per la costruzione del nuovo Stato e per la rinascita economica dell’intero paese”. Nella nota 146 (pag. 157) del sopraccitato libro si legge una considerazione interessante sulla nascita dello stato italiano che dovrebbe far pensare e meditare da dove provengono tutti i mali italiani, pagandone ancor’oggi le conseguenze: “Alcuni parlamentari del nuovo Regno, a conoscenza dei misfatti e delle orrende stragi perpetrate nell‘ex Regno delle Due Sicilie dall‘esercito nazionale, fecero sentire la loro voce. Il deputato liberale Ferrari, in una seduta parlamentare del novembre 1862: <<Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale... E’ pos-sibile, come il governo vuol far credere che 1.500 uo-mini comandati da due o tre vagabondi possano tener testa ad un intero Regno sorretto da un esercito di 120.000 regolari?Perché questi 1.500 devono essere semidei, eroi! Ho visto una città di 5.000 abitanti com-pletamente distrutta. Da chi? Non dai ‘briganti’…>> Anche la Camera dei Comuni Britannica, trattò in al-cune sedute le problematiche che investivano il Sud Italia in quegli anni oscuri. Alcuni parlamentari Bri-tannici definirono il così detto “brigantaggio” una vera e propria guerra civile, uno spontaneo movimento popolare contro l’occupazione straniera. Il ministro Disraeli si domandava <<in base a quale principio discutiamo sulle condizioni della Polonia (che si oppo-neva all‘occupazione Russa), e non ci è permesso di discutere su quelle del Meridione Italiano. E’ vero che in un paese gli insorti sono chiamati briganti (meridione d’Italia) e nell’altro (Polonia ) patrioti, ma al di là di questo, non ho appreso da questo dibattito nessuna differenza fra i due movimenti.>> Nino Bixio, il fautore dell’eccidio di Bronte, in un in-tervento nel Parlamento nel 1863: “Un sistema di san-gue è stato stabilito nel mezzogiorno d’Italia..., non è col sangue che i mali esistenti saranno eliminati... C’è l‘Italia, là, o signori, e se vorrete che l‘Italia si compia bisogna farla con la giustizia e non con l’effusione del sangue” (AA. VV. “La storia proibita”). Nel 1868 lo stesso Garibaldi, oramai messo da parte dai politici Piemontesi, ebbe a scrivere ad una cono-scente: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridio-nali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò non rifarei oggi la via dell‘Italia meridionale, temendo di essere preso a sas-sate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscita-to solo odio”. Nella commissione d’inchiesta sul brigantaggio, il Gen. Lamarmora: “...dal mese di maggio 1861 al mese

Emigrazione di Raffaele Rago

STORIA

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di febbraio 1863 noi abbiamo ucciso 7.151 briganti. Non so altro e non posso dire altro.” Ed in tempi più vicini a noi Antonio Gramsci, nel 1920, così scriveva su “Ordine Nuovo”: “Lo stato ita-liano, è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l‘Italia meridionale e le isole, squartando, fuci-lando, seppellendo vivi contadini poveri che scrittori salariati tentarono di infamare col marchio di brigan-ti”. Nel libro curato dallo storico prof. Amedeo La Greca intitolato: “San Mauro La Bruca e San Nazario” - C.P.C.E.P.C. 2005 -, a pagina 118 è riportato un elen-co di espatri complessivi nel comune di San Mauro La Bruca dove si evidenzia che dal 1884 al 1900, risultano “389 emigrati, dei quali solo 14 hanno fatto rientro alla terra d‘origine, mentre 375 sono rimasti definiti-vamente all‘estero”.“Negli anni 1887-1888 le maggio-ri partenze avvennero da San Nazario”. Nel circondario di Campagna (Salerno) gli emigranti, al 1879, furono 2.977, quasi tutti diretti nelle Ameri-che. Il comune di Albanella (Sa), per esempio, che allora contava una popolazione di 2.144 abitanti, aveva contribuito con 24 persone. Nel periodo 1887-1903 il Circondario contribuì con circa il 28% sul totale pro-vinciale. Campagna (1887-1889) il 23% con una media annua di 2.201 espatri. Dei 102.387 abitanti del Cir-condario, censiti nel 1901, ne espatriarono 1.298 nel 1908 e 2.363 nel 1909. Nel 1910-1911 i valori restaro-no quasi costanti e la meta preferita erano gli U.S.A., non più il Brasile e l’Argentina. Una piaga vergognosa fu la vendita dei bambini, che partivano anche dal Nord, in special modo dalla Sa-voia, dalla Riviera Ligure e da alcuni paesi del Piacen-tino e del Parmense. Nel Sud (Basilicata) Corleto Perti-cara, Calvello, Laurenzana, Viggiano ed altri. Dalla Calabria, dalla provincia di Caserta. Questi sfortunati ragazzi giunti a destinazione veniva-no venduti e i più fortunati erano quelli che suonavano o il violino o l’arpa. Molti altri facevano gli spazzaca-mini, i lustrascarpe altri erano destinati all’accattonag-gio o a lavorare la terra, o garzoni (schiavi) in qualche officina. Tra gli elementi negativi va, anche inserito il dramma sociale che vivevano le famiglie di quelli che partivano da soli. L’insegnante Teresa Masullo in un sua comme-dia scrive: “Le giovani spose rimanevano in paese sole con i figli, in trepida attesa, anno dopo anno, del ritor-no dei mariti, che generalmente non accadeva se non dopo moltissimi anni o mai. Furono dette vedove bian-che” (da “ ‘U tiempe re ‘na vota”). La dott.ssa Paola Toriello nella sua tesi di laurea “Le campagne della provincia di Salerno e il regime fasci-sta”, così scrive: “I contadini costituiscono la massa prevalente nella emigrazione, sintomo palese delle gravi condizioni di povertà nelle campagne e spesso anche dall‘assenza della famiglia colonica, come co-munità patriarcale estremamente omogenea e compat-ta, profondamente legata alla terra e alle sue vicende e perciò da esse diffìcilmente sradicabile.”

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BIBLIOGRAFIA 1) ANTONIO MARGARITI, “America!America! Atti e memoria del popolo” - Galzerano - 1979; 2) CESARE BERTOLETTI, “Il Risorgimento visto dall’altra sponda. Verità e giustizia per l’Italia meri-dionale”. Arturo Berisio editore - Napoli 1967; 3) AA.VV., (a cura di Amedeo La Greca), “San Mauro La Bruca e San Nazario”. Appunti per una storia del territorio. Edizioni Centro Promozionale Culturale per il Cilento - 2005; 4) AA.VV., “La storia proibita. Quando i Piemontesi invasero il Sud” Controcorrente – 2001; 5) AA.VV., “Briganti e Partigiani” - Campania Bella - 1997. 6) RENATO DI GIACOMO, “Il Mezzogiorno dinanzi al terzo conflitto mondiale”. Cappelli 1948. 7) “Resoconto Finanziario delle contribuzioni dei Dio-cesani emigrati negli U.S.A. per l’erigendo Seminario Estivo presso il Santuario di Maria SS. d’Avigliano in Campagna (Sa)”. Stabilimento tipografico Spinola-Riviello. Campagna 1926. 8) MICHELE CIOFFI. “Brevi notizie sulle manifatture Sanciprianesi tra la Restaurazione e la fine del Regime Borbonico” - Fogli Picentini - 2 -. 9) GIACOMO MELE, “Colonia Mezzogiorno”. Ed. Europa-Roma. 1978. 10) ANGELO MANNA, “Briganti furono loro. Quegli assassini dei fratelli d’Italia”. Sun Books. 1997. 11) GABRIELE DE ROSA, “Storia contemporanea” - vol. 3° - Minerva Italica. 1971. 12) AA.VV. (a cura di Luigi Rossi), “Albanella - la storia e il territorio”; Centro di Promozione Culturale per il Cilento. 1998. 13) DOMENICO CHIEFFALLO, “Cilento oltre ocea-no - L’emigrazione cilentana dall’unità alla seconda guerra mondiale”; Centro di Promozione Culturale per il Cilento - 2004. 14) PAOLA TORIELLO, “Le campagne della provin-cia di Salerno e il regime fascista” (Tesi di laurea). 15) ULDERICO NISTICO’, “Prontuario oscuranti-sta”. Ed. Ar. 16) VINCENZO LABANCA, “Un brigante chiamato Libero” - Zaccaria Editore 2003. 17) GIUSEPPE D’AMICO, “Il coraggio di partire - Frammenti di storia dal Tanagro al Rio de la Plata”. Carloneditore - 1995. Altre fonti consultate: 1) “Rivista Finsider” - Anno X - n°2 - Giugno 1975. 2) “Due Sicilie” - Periodico indipendente dei Popoli delle Due Sicilie. 3) “Nazione Napoletana” - Periodico. 4) “Il Sud quotidiano”. 5) “La stella dell’emigrante” - 1904

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urlo, non c’è ribellione, ma un prendere atto di ciò che accade e che non è mai banale, perché misterioso, emo-tivamente sentito, ascoltato, raccolto, porto con grazia e con delicata bellezza.

Il poeta presenta un’infinità di fiori nel suo “orto bota-nico di versi”. Ci presenta anche il topinambur, fiore esotico, dai colori freschi e solari.

D’oltre oceano giunto

Con il biondo volto di luce

Eretto sullo stelo slanciato

Topinambur

Sorridi al bacio di settembre.

Della tua bellezza

Allieti le stanche prode

E gli scarni fianchi delle colline.

Fratello

Porgi gli ultimi raggi di gioia

All’uomo frettoloso

Prima che l’autunno saluti la terra. (4)

Il poeta si rivolge direttamente al fiore, lo chiama fratello. E’ co-me se la natura avesse un’anima.

Questa è la nota saliente della poesia del Rocco: animare la natura di vivo palpito umano. Uno spirito che viene da lontano, forse dal Pascoli o ancora più su dal Petrarca o dallo stesso Dante. Uno sguardo d’amore e di diletto si posa sulla natura e la osserva, con occhio di fanciullo, animan-dola così come è nella natura dei pargoli e dei semplici di un’ani-ma semplicetta (direbbe Dante), nota della freschezza nativa.

Italo Rocco (pseudonimo Tertul-lianus-Minuccio Felice), poeta e scrittore, nato ad Ottati (Sa) il 10 settembre del 1912, ha vissuto ed operato a Battipaglia interes-sandosi di poesia, saggistica, critica, apologetica e storia. Direttore e fondatore della rasse-gna bimestrale “Silarus” nel 1962, riconosciuta, fin dal 1966, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, “periodico di alto livello culturale” e recensita, tra

l’altro, dalla rivista “Libri e riviste d’Italia”, tradotta in sei lingue, edita dalla Presidenza del Consiglio. Fu inoltre fondatore del Premio letterario “Silarus” riservato alla poesia, alla narrativa, alla saggistica,

Tanti fiori germogliano nel giardino della poesia di Italo Rocco. Abbiamo fiori a tinte calde, macchie di colori forti, espressioni di passioni vitali, fiori sfumati, dalle tinte pastello, fiori delicati, simboli di una inno-cente e pudica esistenza.

Il soggetto floreale ispira e conduce i ritmi del linguag-gio poetico di Rocco. I fiori mostrano la visione emble-matica e forte che il poeta ha della natura nella quale identifica il senso profondo della vita delle creature umane poiché, attraverso la bellezza sensitiva dei fiori stessi, gli si rivela la forza attrattiva spirituale o senti-mentale in comunione col divino. Alberi, rami, corolle variopinte, suoni, fanno da sfondo al paesaggio armo-nico della poesia, ricca di significati sottesi e appalesa-ti. I fiori trovano nel loro sembiante momenti rari di contemplazione, di religiosità legata alla natura.

Maria Teresa Epifani Furno, in un saggio scritto poco dopo la scomparsa del fine poeta, ha parlato di “Linguaggio dei fiori nel Canto dell’Umanità di Italo Rocco”. (1)

In effetti i fiori, nelle liriche del nostro poeta, sembra proprio che parlino.

…”Carichi gli occhi e l’anima…lungo il quotidiano cammino nel corso del suo tempo il poeta s’immerge nell’universale luce d’amore e nella grazia della di-schiusa corolla vede l’inazzurra-to volto del cielo,…l’armonia del silenzio mentre commosso il sole dilunga le braccia sulle spalle del vento.” (2)

Il poeta osserva, con occhi di limpido azzurro, la stupefacente serenità della natura, al di là di tutti i dolori e delle ferite inferte dall’uomo all’uomo.

Volto il capo all’occidente

Invano cerchi il sole

Nel moto dell’iride mora

Girasole.

Ingobbito non ti resta

Che guardare la terra

In attesa di pace. (3)

E’ questa una lirica che esprime una sensibilità acuta e sottile. E’ proclamato il sospiro dell’innocenza lontana; il rimpianto del tempo che pas-sa, con un senso di chiuso e l’immagine di una legge che uccide. Ma non c’è orrore, non c’è grido, non c’è

Il linguaggio dei fiori nelle poesie

di Italo Rocco SAGGISTICA di Annalisa Giancarlo

Italo Rocco (Ottati 10/09/1912 – Battipaglia 18/12/1999)

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giunto nel 2005 alla XXXVII edizione. A parte i numerosi articoli sparsi in giornali e riviste, Italo Rocco è autore di scritti critici: “Il sistema penale dantesco” (1942), e didattici, “Spunti di didatti-ca” (1963). Soprattutto egli fu un fine poeta, tra i maggiori espo-nenti della poesia religiosa del ‘900. Tra le sillogi più significative: “Il palpito della terra” (’64); “Ed aperte le braccia” (’65); “Quartiere di periferia” (’65); “Ascolto il palpitare della sera” (’68); “Il canto dell’u-manità” (’72 vol. I; ’95 vol. II; ’99 vol. III). Italo Rocco ha curato le edizioni poetiche de “L’acquario di <<Silarus>>”, come quelle di critica, di storia e di altre discipline. Le sue liriche sono inserite nelle antologie per le scuole secondarie: “Vita”, “Realtà”, “Esperienza”, “Autunno”, “Il Timone”, non-ché in un’antologia in lingua turca dal titolo “Ve cabu-cak aksam”, accanto a quelle di Cecco Angiolieri, di Ungaretti, Quasimodo, Montale, Gatto, D’Annunzio.

Con Luciano Erba e Margherita Spaziani, Italo Rocco figura nell’antologia “Canti dell’ombra e della lu-ce” (Poeti in mostra nell’oasi di Pian di Spagna), a cura di Antonio Di Marchi Gherini. Le sue poesie sono state tradotte in varie lingue: greco, francese, inglese, rume-no, tedesco, portoghese, turco, molte sono state musi-cate. “Il canto dell’umanità” è stato tradotto in lingua rumena (1976).

Nella sua poesia Italo Rocco “ha cantato la fragilità umana, l’attesa di una grande luce, la fiduciosa speran-za nell’aldilà, la difesa della donna e della vita, la vani-tà dei beni terreni, il tutto con un sentimento di grande serenità”. (5)

Su “La fiera letteraria” sin dal ’64 si legge: “Le poesie di Italo Rocco, peraltro senza titolo, ci sembrano su un piano di rara umanità”. In tutta la sua vita Rocco non ha mai smarrito il rappor-to intimo e profondo con le sue radici, con la sua terra ricca di tesori di antiche civiltà, che egli conosceva ed amava. La sua fede nella parola, nella sua forza evocatrice e dinamica, trasgressiva e catartica, che può penetrare nella realtà della storia e trasformarla, elevare l’anima alla contemplazione del divino e migliorarla, fa di Italo Rocco il cavaliere di un humanitas senza confini, il cittadino esemplare, che svolge fino in fondo la sua missione all’interno della propria comunità. La lirica emblematica della sua concezione esistenziale ed estetica, titolo di ben tre sillogi, “nomen est omen”, “Il canto dell’umanità”, altamente profetica nella sua vibrante attualità, incisa in una tavola bronzea, scoperta e benedetta il 23 giugno del 2002, è stata collocata nel-la basilica “S. Maria della Speranza” di Battipaglia, a cura del Rotary International club di Battipaglia. Italo Rocco oggi non è più. Il 18 dicembre 1999 la morte lo colse in piena e fervida attività intellettuale: aveva appena pubblicato il volume III de “Il canto del-l’umanità” e attendeva alla pubblicazione del fascicolo 207 della rivista “Silarus”, diretta con spirito illumina-to fino alla fine.

Fu palese a tutti che era scomparso un personaggio eminente della cultura universale. Nell’eloquente messaggio di cordoglio del Sindacato Libero Scrittori Italiani, Franz Maria D’Asaro lo defi-niva “da sempre un prezioso punto di riferimento cul-turale ed esemplare animatore di iniziative che hanno fatto meritare apprezzamenti e considerazione anche a livello internazionale”. E commentava: “Quando muo-re uno scrittore e poeta dello spessore di Italo Rocco muore con lui un importante percorso enciclopedico, ricco di esperienze assolutamente uniche”. (6) Nel diario del 1999, durante gli ultimi giorni di vita, Italo Rocco aveva annotato: Nessuno muore, finché resta nella memoria dei vivi.

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NOTE (1) Maria Teresa Epifani Furno, Il linguaggio dei fiori, Silarus, n.208, pag. 80. (2)Ibidem. (3) Italo Rocco, Girasole, da Il canto dell’umanità, vol. I, La Prora, Salerno, 1972. (4) Italo Rocco, D’oltre oceano giunto, Il canto dell’umanità, Vol. III, Massa Editore, Napoli 1999. (5) Poeti e scrittori d’Italia 2003, Edizioni Universum, Trento 2003. (6) Franz Maria D’Asaro, Il cordoglio del Sindacato Libero Scrittori Italiani, Silarus, n.208

Annalisa Giancarlo è nata a Battipaglia nel 1980. Ha frequentato il Liceo Scientifico, diplomandosi con ottimi voti e, lo scorso 27 marzo, si è laureata in Lette-re Moderne, presso l’Università degli Studi di Salerno, con il punteggio di 110 e lode, discutendo la tesi intito-lata: “L’universo poetico di Italo Rocco” (relatore il prof. Alberto Granese). Sin da piccola ha maturato un profondo interesse per la scrittura. Nel novembre del 1994, all’età di 14 anni, è stata premiata dal Ministro della Pubblica Istruzione, al Teatro San Carlo di Napo-li, per la composizione del “Miglior compito scritto”, in un concorso a cui hanno partecipato tutte le scuole medie del Mezzogiorno d’Italia. Dal 2004 è iscritta all’Ordine Nazionale dei Giornalisti Pubblicisti, e dal 2002 collabora con diverse testate giornalistiche come: La Città, Cronache del Mezzogiorno, La Graticola, Agorà, La Voce, TargatoSa (giornale on-line). Attualmente vive ed opera a Battipaglia.

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“Voglio che la poesia sia la sola a dire chi sono, come sono vissuto e perché e con la naturalezza che le è pro-pria. Valga lo stesso rifiuto per tutte le immagini che avrebbero potuto illustrarmi. Nessuno saprà mai quan-to un poeta speri e disperi della sua bellezza, della sua vanità, della sua forza, della sua simpatia: quanto gli si chiuda dentro il gesto col quale vorrebbe correre e annunciarsi: quanta invidia egli abbia per la fortuna, ma quanta di più per la meditata ironia. Da ragazzo, ero io solo a dare un volto ai poeti, a volere che fosse-ro proprio così, quali io li vedevo. Sarò lieto se cerche-rete di immaginarmi a modo vostro e con l’aiuto delle mie sole parole”. E’ ciò che dice di sé il nostro grande poeta Al-fonso Gatto che, con i suoi versi, ci offre tutta la li-bertà di vederlo, immagi-nandolo ancora e sempre nella sua Salerno, tanto amata e decantata. Ci pia-ce, allora, intravederlo ancora nei vicoli digra-danti verso il mare, coa-cervo del cuore pulsante del centro storico, tra i volti della gente comune, tra botteghe artigiane e antichi mestieri. Lo vediamo nella visita al barbiere (“Una barba a Salerno”) o nelle stradine spumeggianti della costie-ra amalfitana (“La costa d’Amalfi”) o contemplare il cielo e le stelle (“Lo stellato”), o più semplice-mente assorto per poi amare ogni cosa, ogni uomo, come suo padre, o una donna. Sì, perché, come egli ci suggerisce, la poesia non va solo letta o ascoltata, ma vista, a volte, come strascico di un ricordo di una esistenza in continuo divenire, nei giorni intrisi di speranza e lotta, nelle umane sofferenze e nelle umane vittorie e sconfitte delle guerre che si ripetono. Ma chi era veramente Alfonso Gatto? A trent’ anni dalla sua morte, Salerno e dintorni cerca di tenere viva la memoria di un grande poeta, vanto e onore di una terra, la nostra, che si costruisce ogni giorno, tra contraddizioni e conflitti. Erano, dunque, i meravigliosi anni ’50, quelli di un’Ita-lia che cambiava pelle e ritornava a vivere dopo i tragi-ci eventi bellici. E il Nostro si colloca proprio tra i fermenti di artisti, poeti, registi, offrendo altrettanti spicchi succosi del

suo Meridione d’Italia. Per seguire, infatti, i crescenti impulsi culturali, si tra-sferisce a Milano ove conosce pittori, scrittori, critici d’arte. Comincia a cantare malinconia e riso, nostalgia e ironia per la sua terra in poesie, racconti, fiabe, dipinti. Il sole sembra essersi fermato a Salerno nei suoi versi, sembra essersi allontanato per poi far ritorno in canti di gioia, colori, fantasia. Temi d’amore si alternano ai temi della resistenza con-tro ogni barbarie. In “Storia delle vittime”, dice: “Che cosa è stata la resistenza?. “Resistere” significa contrastare una for-za che agisce contro di noi, che minaccia di superarci e che ci invita a cedere. “Resistere” significa durare al limite della nostra tenacia e della nostra pazienza fisi-

ca. E’ una prova che sce-gliamo nell’atto di essere, un cominciamento interio-re per una ragione ulti-ma…”. “Nuovo poeta” è il nostro Alfonso Gatto, ermetico quanto basta, se ermetismo vuol dire poesia racchiusa in se stessa ma anche paro-la come realtà pura, verità assoluta, scrittura evocati-va. Alfonso Gatto nasce a Sa-lerno nel 1908 da una fa-miglia di marinai e arma-tori. Vive l’infanzia nel centro storico che ricorderà spes-so. Non riesce a laurearsi per sopravvenute difficoltà economiche e lavora come commesso di libreria, cor-rettore di bozze, precetto-

re, giornalista, insegnante. Di quel periodo disagiato per condizioni economiche, è il suo primo lavoro “Isola” del 1932, un insieme di piccoli poemi e versi in prosa tendenti a delineare pre-cisi stati d’animo: viene stampato dalla storica tipogra-fia “Pergola” di Avellino. Alcuni critici restano meravigliati dalla maturità del Nostro fin dai suoi primi scritti; secondo altri, ha sapu-to ben mescolare tradizione poetica con surrealismo e genere fantastico, dove si percepisce una somiglianza con la poesia di Quasimodo e Montale. Nel 1936 viene arrestato per antifascismo e rinchiuso in carcere per alcuni mesi. Spostatosi a Firenze, vi fonda nel 1938 insieme a Va-sco Pratolini, la rivista “Campo di Marte” e collabora con giornali e riviste. Nel 1941 è nominato, per chiara fama, ordinario di Letteratura italiana al Liceo artistico di Bologna: anche

Alfonso Gatto: un ricordo lungo un sogno.

POESIA di Rossella Oricchio

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sulla base di nuovi interessi culturali rivolti alle arti figurative, dipinge e scrive come critico d’arte. Sempre nel 1941 scrive “Le nuove poesie” a cui se-guono “Osteria flegrea” del 1954 e la “Storia delle vittime” del 1943. Il tema fantastico in Gatto si avver-te ne “La sposa bambina”, in “Carlo Magno nella grotta”; esiste anche traccia di realismo in altri scritti, come “Fummo l’erba”. Ricordiamo i racconti come “Le ore piccole”. Fu anche pittore e dalla sua attività di artista della tempera, ricavò altre poesie come “Le rime di un viaggio in una terra dipinta”. La morte lo coglierà a Capalbio in un incidente stradale nel 1976. Oggi ricordiamo Alfonso Gatto al pari di come è giusto ricordare poeti della sua stregua: Quasimodo, Luzi, Sinisgalli, Montale, Ungaretti. Ma è alla sua amata Salerno che ne spetta un ricordo imperituro. Per viverlo, ricordarlo, sognarlo.

“A mio padre” Se mi tornassi questa sera accanto lungo la via dove scende l’ombra azzurra già che sembra primavera, per dirti quanto è buio il mondo e come ai nostri sogni in libertà s’accenda di speranze di poveri di cielo, io troverei un pianto da bambino e gli occhi aperti di sorriso, neri neri come le rondini del mare. Mi basterebbe che tu fossi vivo, un uomo vivo col tuo cuore è un sogno. Ora alla terra è un’ombra la memoria della tua voce che diceva ai figli: “Com’è bella la notte e com’è buona ad amarci così con l’aria in piena fin dentro al sonno”. Tu vedevi il mondo nel plenilunio sporgere a quel cielo, gli uomini incamminati verso l’alba. Alfonso Gatto (da “La storia delle vittime”, 1945)

William Shakespeare: quando l’insostenibile pathos

si fa commedia.

di Maria Rosaria D’Alfonso

Il drammaturgo di Stratford - upon - Avon, quasi venuto su dal nulla, diventato il grande artista, quale conoscevano già gli stessi elisabettiani ancor prima di giungere immortale a noi, si formò grazie al sapere pratico del “learning by doing” più che dal puro sapere (classico) teorico impartitogli nella Grammar School, dai suoi ottimi insegnanti provenienti dalle università Oxford e Cambri-dge. William Shakespeare, al pari di un self-made man come Jack Nicholson, la sapeva davvero lunga sulla reci-tazione e su come tenere avvinto il pubblico minuto per minuto, una scena dopo l’altra, pronto a rispecchiarsi nei suoi vari personaggi di Otello, Romeo e Giulietta, Macbeth, Antonio e Cleopatra, e Amleto, fino a vivere la straordinaria esperienza catartica finale. Forse oggi lo “scuotiscena” non amato ai suoi tempi dai cosiddetti “Geni dell’Università” saprebbe cosa fare quando la ten-sione di uno Psycho e di un Hostel sulla scena cinemato-grafica diventa insostenibile, servendosi opportunamente di quel elisir di vita lunga, sconosciuto persino ad un mae-stro come Edgar Allan Poe, e alleato delle nostre corona-rie, che è il riso. La balia di Romeo e Giulietta si inserisce in vari momenti di “alta tensione”, come quando deve consegnare a Giulietta le disposizioni di Romeo oppure quando la stessa nella sua “senescente goffaggine” viene scanzonata dai Capuleti per strada ancor prima di rivelarsi a Romeo. Il portiere brillo è introdotto nella scena comica in medias res quando Lady Macbeth e Macbeth hanno già eseguito l’orrendo regicidio in casa propria al castello di Inverness. Riccardo III, re-attore (player king) è proposto in chiave comica da Ian Kott che ne vede i tratti buffi in una recitazione basata non sull’autocommiserazione bensì sull’autocompiacimento del brutto-simpatico-divertente. Come asserisce Henry Fielding, le strategie della comme-dia sono molto complesse e la commedia è essa stessa copertura o denotazione di una struttura profonda essen-zialmente tragica basata sul concetto di pathos. Noi, figli dei nostri padri di Magna Graecia, duplici eredi della vis comica di Aristofane e della vis tragica di Sofocle e di Euripide, abbiamo imparato col tempo ad unire l’una all’altra, fino a maturare la filosofia di Pulcinella che sa ridere ma anche piangere perché conosce la joie de vivre accanto all’angoscia di vivere. Antonio e Cleopatra, Roman play basata sulle “Vite Parallele” di Plutarco, è una tragedia non avulsa di per sè nell’originale opera sce-spiriana dalla presenza comica di clowns, ma quando Eddie, Simon, Johnny e Francesco del Teatro Palcosceni-co rappresentano la tragedia di chi si smarrisce perchè “va dove ti porta il cuore” trascurando la ragion di stato, si può ben dire che “risus abundat non in ore stultorum sed in ore sapientium”. Cleopatra, che si angoscia di meno nell’apprendere che Octavia è “na racchia”, lo schiavo danzante che si intimidisce davanti ad una Cleopatra furi-bonda, una Cleopatra sapientemente “travestita”, nell’am-bigua combinazione di un “manly character” e di un fem-minile “divine”, fanno sorridere e nello stesso tempo in-ducono a riflettere essenzialmente sulla storia come un susseguirsi di tragedie determinate appunto da quella leg-gerezza umana che è, forse, ancor più insostenibile del pathos.

Rossella Oriccchio, giornalista pubblicista, si è laure-ata in Filosofia presso l’Università degli Studi di Sa-lerno. Da sempre nutre una profonda passione per la poesia e la prosa.

TEATRO

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Charles Baudelaire, che per primo riconobbe l'indiscu-tibile valore dell'Opera di Poe, amava porre in evidenza l'incompatibilità esistente tra lo spirito sottile di questi e l'America, dipinta come una nazione ancora bambina, invidiosa della cultura europea, o come, citando le pa-role del poeta francese, “un grande stato barbaro illu-minato a gas”1 nel quale “l'attività materiale esasperata [...] lascia alle menti pochissimo posto per le cose che non sono terrene”2. Forse insistendo un po' troppo sui tratti maudit del carattere di Poe, Baudelaire aveva co-munque messo in luce una componente fondamentale dei testi poeschi e degli ideali ad essi sottesi: il loro collegamento più intimo con la tradizione letteraria e culturale europea piuttosto che con quella americana, constatazione che portava il poeta francese ad afferma-re che “Edgar Poe e la sua patria non erano allo stesso livello”3. Tale straniamento di Edgar Allan Poe, soste-nuto da un vissuto familiare e da una formazione intel-lettuale poco convenzionali, sembra pertanto tradursi in una teoria dell'arte che contrasta i caratteri tipici della letteratura americana a lui contemporanea. Nel suo saggio critico intitolato The Poetic Principle, ad esem-pio, Poe si scaglia contro la “heresy of The Didactic”, “l’eresia del ‘didattico’”, secondo la quale “the ultima-te object of all Poetry is Truth”4, come era tipico della poesia del suo paese (“We Americans especially have patronized this happy idea”5). Dissociandosi da tale assunto, Poe aderisce al principio dell’“art for art's sa-ke” (l’arte per l’arte) che, se ampiamente diffuso negli ambienti culturali europei, poteva invece essere consi-derato una “eresia” da molti letterati americani. L'inte-resse di Poe per l’“Oriente”, in particolare per il mondo islamico, non prende le mosse dall'eccentricità dell'au-tore ma, al contrario, lo accomuna a molti suoi conna-zionali, configurandosi come una presenza costante nei suoi scritti. The Tales of the Grotesque and Arabesque, titolo scelto per una delle sue raccolte di racconti, sot-tolinea la derivazione di “arabesque” dal termine “arabo”, costituendo un'allusione a un territorio che la sua produzione rivisita nelle ambientazioni (si pensi anche agli interni di gusto decadente) e nei riferimenti a un “Oriente” che si espande ben oltre i confini geo-grafici dell'Arabia. Il rapporto dell’autore con questa realtà non è superficiale e ne è testimonianza la sua frequentazione assidua del Corano, come si può osser-vare notando le copiose citazioni presenti nei suoi scritti. Un esempio di come Poe abbia utilizzato e ri-plasmato le sue conoscenze in materia è rappresentato dalla poesia “Al Aaraaf”, il cui titolo indica il regno ultraterreno tra il Paradiso e l'Inferno per i musulmani. Altro componimento che si deve tener presente è “Israfel”, nel quale si coglie, nella corrispondenza tra l'arcangelo Israfel e il poeta (accomunati dal canto), la funzione dell'artista come tramite tra il mondo degli uomini e quello divino, nell'inseparabilità tra i due6. Merita di essere ricordato anche un racconto di Poe ispirato alle Arabian Nights: “The Thousand-and-Second Tale of Scheherazade”. In esso la narratrice viene uccisa dal re suo marito, irritato dall'ultimo rac-

conto sui viaggi di Sinbad, che Poe immagina scoprire le invenzioni e le meraviglie dello stesso XIX secolo, per il re totalmente incredibili. Come sottolinea il criti-co Moffitt Cecil7, è molto probabile che attraverso il racconto e la sua sfortunata conclusione Poe volesse ritrarre la sua stessa condizione di incompreso da parte del pubblico americano dei lettori e pertanto, come già in “Israfel”, anche in questo caso l'“Oriente” funge da territorio privilegiato per l'elaborazione di una rifles-sione sull'arte e sul ruolo del poeta. Il testo in cui la profondità del rapporto tra Poe e l’“Oriente” si coglie in modo più evidente è tuttavia il lungo componimento intitolato “Tamerlane” (1827), un poemetto di 243 ver-si suddivisi in ventidue strofe di struttura metrica e lunghezza differente, concentrato sull’ambigua figura del conquistatore tartaro Timur-I-Lenk, vissuto tra il 1336 e il 1405, e sulla sua irrefrenabile scalata al pote-re che lo aveva spinto a sacrificare tutto ciò che gli era più caro, compreso l’amore. Tamerlano, personaggio inafferrabile e "perturbante" per eccellenza, ammirato per la sua fine strategia e temuto per la sua ferocia, è considerabile l'immagine "ante litteram" dell'"Altro", inteso come campo di proiezione privilegiato dei lati oscuri e irrazionali presenti nella coscienza collettiva dell'Occidente, e dunque il primo di una lunga serie di diversi destinati a popolare le pagine degli scritti di Poe. Per quel Poe straniato dalla società cui pure ap-parteneva, Tamerlano sembra divenire una sorta di "doppio" nel quale proiettare e sublimare la consapevo-lezza della propria emarginazione e la parallela volontà di potenza, che si traduce nella ricerca disperata della fama attraverso la scrittura. Al suo personaggio, pur ritratto dall’autore nell’atto di confessare i suoi peccati a un frate nei momenti precedenti la sua morte, Poe concede infatti l'eternità, raggiunta con l’erezione di Samarcanda, quella città ornata da splendidi monumen-ti e palazzi sontuosi che, come l'autore si augurava per la propria Opera, sarebbe sopravvissuta alla sua danna-zione, all’invidia degli uomini, all’oblio del tempo. L'“Oriente” del "Tamerlane" di Poe non è, pertanto, semplice scenografia, paesaggio esotico o ambientazio-ne suggestiva richiamata da dettagli di architetture o interni, come pure spesso si presenta nella produzione dell'autore. Il particolare carattere della poesia (che è, infatti, una confessione) fa sì che il luogo fisico venga totalmente interiorizzato e diventi il simbolo di quella dimensione altra in cui si manifesta sia la distanza tra Poe/Tamerlano e il mondo che il ruolo dell'arte, vista come intermediaria tra l'umano e il divino, tra il Cielo e l'Inferno.

NOTE 1. Charles Baudelaire, Riflessioni sui miei contempora-nei, Vol. II, Edizioni dell’esame, 1945, p. 221. 2. Ibid. p. 222. 3. Ibid. 4. E. A. Poe., Poems and Essays, London, Everyman's Library 1927, p. 95. 5. Ibid. p. 96. 6. Cristina Giorcelli, "‘Israfel’: il liuto e la lira", in E. Zolla (a cura di), L'esotismo nella letteratura anglo-americana II, Lucarini Editore, Roma, 1979, p. 6. 7. L. Moffitt Cecil, "Poe's ‘Arabesque’", Comparative Literature, University of Oregon, 1966, p. 63. 8. Ibid., p. 70.

Edgar Allan Poe e l’ “Oriente”: qualche riflessione.

SAGGISTICA di Elisabetta Marino

Università “Tor Vergata” - Roma

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(seconda parte)

Notturni I “Notturni” sono sette poesie, di cui la prima è “la Chimera” pubblicata precedentemente nel 1912 sul foglio goliardico di Bologna “Il Papiro” con il titolo “La Montagna-Chimera” ai tempi dell’università. “La Chimera” è descritta attraverso immagini di regina, divinità e figure artistiche e rappresenta l’amore. Cam-pana parte dall’affermazione : “Non so se ti ho vi-sta…” riferita alla Chimera, metafora dell’eterna illu-sione dell’uomo in cerca dell’amore. Questa visione è iniziata quando ha visto “La Vergine delle Rocce” di Leonardo da Vinci oppure il quadro di Raffaello dedi-cato a S. Cecilia, da quel momento in poi ha conosciu-to l’amore, o meglio l’illusione di un amore reale o fantasmatico. La Chimera per Campana è la stessa immagine della notte in cui egli si sente trascinato per i capelli, la notte del suo stesso inconscio (Campana, Ruggero Jacobbi, op. cit.). Questo perché in Campana non c’è distinzione fra l’uomo errante ed il poeta, fra intellettuale e poeta, egli è sempre se stesso, fino alle estreme conseguenze dei ricoveri e della morte in manicomio. La seconda poesia dei “Notturni” è “Giardino autunna-le” in cui è ancora una presenza femminile ad irrompe-re sulla scena in un quadro d’alloro e di statue immor-tali che sono metafore di un luogo irreale, immobile e privo di tempo ed in attesa di una presenza “mitica” dell’amore. Dunque i versi di “Giardino autunnale” rimandano da un lato ad un’evocazione, ad una ricerca e dall’altro lato ad una perdita, ad un’assenza dell’amo-re. Il terzo componimento dei “Notturni” è “La speranza” il cui motivo principale è la porta dell’amore e della morte. Questa porta viene aperta da una donna, “principessa dei sogni segreti”, sull’infinito della notte. La figura femminile è chiaramente collegata alla donna della “Chimera”. Il trittico costituito dai testi che aprono la sezione dei “Notturni” (La Chimera, Giardino autunnale e La spe-ranza) testimonia appunto la dinamica sottesa all’appa-rizione-sparizione della figura femminile, emblema dell’inferno paradisiaco che si spalanca oltre le porte, verso l’infinito, nel grembo della notte ( L’infinito del sogno, op. cit.). La quarta poesia è “L’invetriata”. In questo componi-mento il linguaggio è articolato in cadenze ritmiche, ossessive e le domande, che Campana pone a se stesso e a noi lettori, sono relative a questa presenza oscura, a questa enorme forza che è l’amore. L’enorme forza e la presenza oscura, vengono palesate anche dall’angolo visuale, dietro l’invetriata, che per Campana non è mai uno sguardo protetto, come il titolo potrebbe indurre a pensare, ma è sempre uno sguardo partecipativo di chi vive in prima persona, sulla propria pelle quello che

scrive. Il quinto componimento dei “Notturni” è “Il canto del-la tenebra”, in cui la luce del tramonto, dell’imbrunire si attenua e si dilegua fino all’arrivo della notte. D’im-provviso arriva un dolce ricordo, un sospiro tenue, un sussurro udito di una dolce fanciulla ma guardandosi intorno il paesaggio ha preso i colori ambigui e sedu-centi della notte ed il poeta rinnova vecchi propositi suicidi. La sesta poesia è “La sera di fiera”, storia di adesca-menti di giovani fanciulle, sogni d’amore, ricadute nel-la notte di una festa e poi ricompaiono nuovamente le prostitute. Pausa, canzoni volgari e Campana che ritor-na ad errare, vagabondo, solitario e senza amore, con il ricordo di Lei e la constatazione di aver “lasciato il cuore di porta in porta”. Il passato che è evocato mediante l’elemento uditivo e al suo farsi largo fra le tenebre, avvolge e ingloba il presente (L’infinito del sogno, op. cit.). E’ la realtà psi-chica che incide e legge sulla superficie notturna l’in-tricata trama dell’avventura orfica, tutta proiettata in un affannoso “descensus Averno” ( L’infinito del sogno, op. cit. ). Infine i “Notturni” si concludono con “La petite promenade du poete”, che è una poesia dai toni minori che apre al verde della salita della “Verna”.

La Verna

“La Verna” è l’atto conclusivo dei Canti Orfici, essa è formata da una parte in prosa: i componimenti de “La Verna” ossia La Verna (Diario) e Ritorno, Salgo (nello spazio, fuori del tempo), alcune poesie ed altri fram-menti in prosa. L’arco temporale in cui avvengono le cose narrate nella prima parte de “La Verna” è dal 15 Settembre ad Otto-bre, diciamo quindi approssimativamente una quindici-na di giorni. Come ne “La Notte” anche ne “La Verna” ci troviamo di fronte ad un viaggio. Il viaggio de “La Verna” inizia con la miseria e con la fatica del dover salire. Mentre il viaggio de “La Notte” è all’inferno, nella corruzione, nel peccato, il viaggio ne “La Verna” è nel purgatorio, nella purificazione, nell’ascesa alla montagna. E’ una prova che il poeta deve affrontare per purificarsi e per fare ciò deve salire sulle montagne più alte. I primi incontri sono con i paesaggi mistici, dolci fan-ciulle e stelle luminose. La cornice è formata dal tempo che scorre invano e dal canto delle dolci fanciulle che ha una cadenza millenaria ed esprime la loro pena. In pratica l’inferno dell’uomo viene trasferito nella natu-ra, che esce dal buio e diventa paesaggio: rocce, valli e case montane. Per Campana tutto ciò indica un’appa-renza brutale, un insieme di elementi caotici, insomma una condanna da superare. Questo superamento avvie-ne tramite il sorriso della Cerere bionda, ricordo leo-nardesco. D’improvviso appare il contrasto fra le case montane ed una luna mitica. La luna rappresenta qualcosa di

Problemi psicologici di Dino Campana

TESI di Mariano Lizzadro

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familiare, una presenza amichevole in grado di difen-dere gli uomini dagli incantesimi, dall’ombra, dal buio della notte, dall’oscurità dell’anima. In questa ascesa Campana incontra una signora che spiegandogli alcuni misteri dell’amore gli dona un po’ di tranquillità. Il viaggio continua, sospeso tra ricordi della bellezza intravista in vecchi quadri e la dolce asperità dei pae-saggi montani. A questo punto inizia a trovare la quiete poiché egli adesso può scendere a valle e trovare un paese nuovo, una nuova poesia in compagnia di belle donne, immagini purificate della donna. Ora la libera-zione, tanto agognata e sospirata, raggiunge un culmine di estasi. La fantasia campaniana eguaglia la purificazione al-l’immagine di una colomba che vola in alto, nel cielo blu ed incontaminato. La colomba è un simbolo del-l’uomo, del suo spirito che sa congiungere le immensi-tà e donare vita al paesaggio circostante. Al calar della notte questa volta non ha più paura, anzi si rispecchia negli occhi di una giovane fanciulla, poi-ché nella natura seppur violenta ha trovato una purifi-cazione soffiata da un vento di amore infinito. Per Campana il rispecchiarsi negli occhi di una donna equivale al ritrovamento dell’elemento primordiale. Di fronte ad un nome scritto su un muro, di una pecca-trice, Campana accusa una leggera ansia. L’amore vie-ne redento nuovamente tramite la forza di semplici figure. Tutto ciò ossia peccato e redenzione ha l’equi-valente simbolico nella figura della “Vergine eletta” di derivazione cristiana. In ogni caso comunque è un so-gno continuo, accettazione e partecipazione senza quie-te. Spunta l’altro simbolo della notte, la donna stanca, che si congiunge alla Vergine eletta per dar corpo a questo sogno campaniano. Campana, in questo viaggio deve giungere a “santificare la natura barbarica”, introdu-cendo una maternità misteriosa, un senso unitario che trova appunto nell’elemento acqua. Attraverso “l’acqua” tutto il deforme, l’informe, il caos sarà risa-nato, riappacificato. La barbarie, il caos, il deforme della natura corrisponde per Campana ai propri senti-menti, al caos interiore, che deve essere rasserenato, nel senso che al suo posto deve subentrare la purifica-zione, il sogno, il dolce ed armonioso suono. All’inter-no della montagna, abita l’animale uomo che insieme alle forze barbariche, che come le prostitute ed i pae-saggi de la “Notte”, attende di essere liberato, purifica-to e che gli venga donata nuova vita. Campana utilizza ancora una volta un’immagine fem-minile come salvatrice, infatti Catrina che rappresenta la pittura, la poesia, la grazia, la dolcezza, la serenità della natura ancorata nei visi femminili interviene a pacificare i contrasti. V’è un forte contrasto fra la bru-talità della natura e la grazia di queste figure. Con tutto ciò rinasce in forma nuova ed acquista un’altra visuale anche l’animo del poeta, e ciò ha come equivalente semantico la rinascita del paesaggio e la presenza della pioggia che purifica. Per Campana “l’acqua” è l’elemento principale, motore di ogni possibile cambiamento e la sua voce è la voce dell’essere intero. Inoltre “l’acqua” equivale al richia-

mo della madre o a quello della casa paterna. Insomma una nostalgia, lo stesso sentimento della partenza e del ritorno, come è palesato nella parabola cristiana del “Figliol prodigo”. Dunque per Campana sono quasi sinonimi “ritorno”, “tenebra” e “occhi femminili”. Sinonimi di una ritrova-ta serenità, seguente alla riconciliazione degli opposti, liberazione e dominio sulla realtà. Il dolore è allontana-to e l’animo trionfa. Questo ritornare, questo riunire gli opposti per Campana significa ritornare al ricordo della propria fanciullezza, all’età dell’oro, al tempo della felicità. “La Verna” quindi si configura come un viaggio reale o immaginario, che solo metaforicamente è una salita costante verso l’alto, ma che in realtà è una vera e pro-pria discesa agli inferi e poi una risalita verso le vette più alte dell’animo umano.

Genova

I viaggi poetici di Campana sono la rappresentazione simbolica dell’instabilità, del desiderio di una patria ideale, del desiderio di una innocenza primitiva, misti-ca e selvaggia, del desiderio di dare luce alla tenebra, il tutto realmente presente nella sua vita.

“Genova” che è la poesia finale dei Canti Orfici e co-stituisce, pertanto, la “summa” e il riassunto di tutti i viaggi campaniani, rappresenta anche l’ultimo ritorno alla patria, alla natura, alla donna.

“Genova” inizia con la descrizione di un giardino che, simbolicamente è sempre un luogo fantastico, in cui vi sono belle statue e canti di poeti, mentre nel cielo vola-no nubi, rappresentazione dell’elemento vitale. Poi fra le alte torri s’innalzano dei sogni mentre s’ode il suono e nel frattempo si è levato il sole di Maggio. C’è la descrizione di una piazza situata sotto una torre e di un palazzo color rosso con un grande porticato, in cui si sente una catena di suoni all’interno di una cornice di entusiasmo. Poi cambia la prospettiva ed ora l’io nar-rante è dietro un’invetriata da cui la scena cambia e diventa quasi scherzosa, l’ambiente si colora di gente affaccendata ma immobile in un sogno eterno. Quindi appaiono una serie di persone immobili nel tempo in uno sfondo di antichità colorato solo dal suono del ma-re e dalla presenza del canto di alcune prostitute.

Appare d’improvviso un sentimento, stupendamente evocato dalle parole di Campana, irreale ma al contem-po gioioso. Tale sentimento è rappresentato dalla gra-zia, sinesteticamente evocata da un suono, da una risa-ta, ed è un ascolto quasi sovrumano, un’estasi dovuta al suono udito dentro al vico.

Ma la riflessione sull’inconsapevolezza del futuro por-ta con se logicamente un sentimento di tristezza e le parole usate sono testimonianza di ciò: vengono atte-nuati i colori e scompaiono alcune figure, fra cui i va-gabondi.

Ed infine riappare la figura femminile, rappresentata da

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un’opulenta matrona, siciliana poiché per Campana la donna che equivale alla notte è sempre mediterranea e tutto appare come dilatato, sospeso in un tempo che è senza tempo, cornice ideale per ogni trasformazione e la materia è nuovamente risanata, gli opposti nuova-mente riconciliati. “Genova” è un viaggio in cui “l’anima partita e reduce da un lungo viaggio iniziati-co, torna ai luoghi originari” (Teresa Ferri, L’infinito del sogno, op. cit. ). E’ un ritorno dalle buie profondità alla luce, quindi dall’inconscio al conscio, di cui il co-lore bianco, che è molto presente in questa poesia ne è emblema principale poiché colore della luce pura, in-corruttibile da qualsiasi elemento terreno appunto il bianco è la rappresentazione della morte intesa come rinascita e liberazione. Le vele che rappresentano l’ac-qua, nel senso di elemento primordiale, si fondono con il mare che è un chiaro simbolo dell’inconscio e ciò

chiaramente può essere collegato con il processo di individuazione, che porta il soggetto a scendere a patti con l’inconscio. “Genova” tocca ed unisce natura e cultura, il mare “contiene” l’azione dell’uomo, mentre lo sguardo si fa memoria e la sera diventa ambigua e misteriosa come ne “La Notte”. “Il languore è la condi-zione che conduce al non-essere o all’essere altro, è un venir meno, una mancanza, il passaggio da uno stato all’altro proprio come l’ombra, si colloca in uno stato intermedio” (Teresa Ferri, L’infinito del sogno, op. cit.). La salita all’interno del viaggio campaniano assu-me tutti i connotati che essa ha all’interno del linguag-gio orfico: Logos che si incarna in poesia e travaglio della ricerca della risoluzione di un enigma da tradurre in versi, in poesia. L’armonia cosmica del finale di “Genova” può essere considerata come il risultato del-l’unione di natura, cultura e donna e grazie a ciò l’io campaniano può abbracciare la sera e la notte, ossia

può scendere a patti con l’inconscio. Ma come in ogni viaggio, anche in “Genova” subentra un sentimento di paura, di timore poiché è l’ignoto, il non-conosciuto che lo generano. Questa paura si accompagna ad una demotivazione generale e ad un oblio e quindi dal pun-to di vista lessicale si nota una scomparsa della figura umana ed un porto addormentato. La figura femminile di “Genova” ossia la donna “opulenta e matrona” è come una grande piovra che alterna tramite i suoi ten-tacoli lussuria e mercantilità, seduzione e profitto. E’ una donna mediterranea, sicula per la precisione, che tende a soddisfare le proprie voglie ed esaurisce le energie degli uomini con cui ha a che fare e simboleg-gia la notte con tutte le sue valenze di mistero, di tene-bra e di fascino. Inoltre dando voce alle tenebre, al- l’aspetto diabolico, si configura anche come mistero dell’iniziazione poetica ed orfica in particolare.

Dunque la donna di “Genova” che unisce misticismo e sacralità è al contempo una figura che dissolve e che risveglia l’uomo stesso. “Genova” è una poesia che ricompone tutte le fratture, infatti le sue parole sono come un collante che unisce gli opposti, come delle note che compongono una sinfonia, inoltre essendo la meta sia del viaggio del poeta errante che dell’emi-grante, Genova, diventa emblema della condizione esistenziale dell’uomo, in un paesaggio ammantato di seduzione.

(Per le fonti bibliografiche si rimanda all’ultima parte)

Porto di Genova

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a Vittorio Foa L’Albero di Battipaglia

Voglio parlare una lingua nuova, inventata e parlata da tutti i bambini del mondo. Voglio creare una rosa celeste, sbocciata nelle mani delle madri della terra e quelle madri non piangeranno più i loro figli, morti per fame e per guerra. Voglio disegnare le case, le strade e le città più lontane, con il cuore ed il sole. Voglio dipingere la pace in ogni finestra, la porta e il muro, di tutte le case del mondo, tra le rose ed il profumo del grano e del pane. Voglio accendere le stelle dei sei milioni di bambini, donne, uomini e vecchi innocenti, ebrei uccisi dalla mano assassina. Voglio cantare l’amore, con i pennelli e le ali di colombe dell’aurora. Voglio pregare con le tue ali, mio Israele. Voglio ricordare con la mente e il cuore di milioni di martiri, il tuo nome dimenticato. Speranza della mia vita. Voglio danzare con le tue mani, musica e gioia, sorrisi e baci, dolce e amata terra d’Israele. Voglio dipingere con la mano di un compagno e amico, l’arcobaleno della nostra vita. Voglio sognare il cielo d’Italia, belle stelle di speranza e di felicità. Voglio camminare per le lunghe coste del mare incantato meridionale, disegnare un millennio di fraternità.

Voglio piantare un albero a Battipaglia, un ulivo, con il nome di Giovanni Palatucci, l’angelo di Dachau assassinato, vivere e creare la terra della pace. Non moriranno più bambini per fame e per guerra, sulla terra, ma nasceranno stelle di pace e millenni di amore, a Battipaglia, vive un albero d’ulivo come gli occhi degli angeli. Voglio aprire gli occhi e vedere con te un mondo di pace. Battipaglia, 14 luglio 1998/5758

Georges de Canino __________

Specchi

Dolce morsa voglia di starci in mezzo Avvinghiati esalano fuoco chimica arrendevole a vedersi Vita a guardarsi seduzione d’illusione Occhi velati a mantener velo è caro il limbo Silenzi dalle nostre cose marea si calma meraviglia Un sinuoso preludio d’ingombranti macerie ad opera incenerite d’accordo e via avanti soli e in due Aprire entrare parlare sfidando nodi sicuri grumi di porpora mani sciolgono Nel tempo nel tempo nel tempo Fusione lenta A gocce e come miele scoprirsi specchi.

Delva Della Rocca

Poesie

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Negli occhi di mia madre Straripo. Ne godo e ne piango. Non mi basto più. Sento uno spillo al cuore che mi appunta alla vita. Il vento, un aquilone, un girasole… vengono a prendermi per portarmi sulle ali del canto e mi rivedo negli occhi di mia madre, nel lontano riserbo di ieri, nella fatica di oggi a sudar lagrime di confessione, nello scompenso della carne, tra forza e paura. A sera mi risento accanto al ruscello della mia infanzia, a cercar formiche e corolle, mi ritrovo seduta sotto un albero di ciliegio a rimescolare i sogni, a fiutare lunghi cammini, tra grandine, sole e tempesta, mi rivivo.

Rossella Oricchio __________

Poesia tratta dalla raccolta inedita: “Fra le aiuole del tempo carpendo fremiti e brividi”

di Michele F. Tuozzo

Nel tempo dei leoni (a Chakila Letifha)

Sofferenza di passi sfumati appena accompagna voglia di nuovo sulla soglia del respiro.... …………... Nell’ora sanguinante che bagna la storia di oscuri presagi larghi cerchi di fumo, fra l’eco di passi appena svaniti oltre la soglia dell’ultimo respiro, lentamente si dissolvono mentre il corpo scivolato fra fili d’erba madidi di pioggia tenta di rivestirsi d’anima.... …E, cullata dalla cadenza dei leoni

una fanciulla sporca di tempo, tempo fermo all’ultimo rintocco di un mesto inverno, fra orme profonde e mani congiunte in preghiera trova intatto il tesoro dell’orco nel fango di mille città uguali.

Michele Ferruccio Tuozzo __________

Poesia tratta da “Oratorio per Lidice” di R. Malinconico

Vaclav dal piede veloce Io sono un bambino di Lidice. Il più bravo a giocare il pallone di tutti i bambini di Lidice. E ho visto venire il Signore nell’ora più oscura del giorno. In mano recava un pallone uguale alle squadre dei grandi dall’agile cuoio lucente. “Non dalla medesima parte Vaclav né stai con Joska più assieme” comanda assennato il maestro che parla e sussurra parole ridendo alla vedova Havel. “Formate per bene le squadre.” Poi preme la vedova Havel accosto alla tavola grigia. Sta fuori nel sole Maria al vento i capelli di grano. La vedova Havel è sua madre e qui sto vincendo per lei. Io Vaclav dal piede veloce il migliore che gioca a pallone di tutti i bambini di Lidice. Ma Joska non sente ragioni mi sfida cocciuto a provarlo. Nel campo ov’è adesso il Signore

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all’ombra più oscura del giorno calciando col destro il pallone in fondo alla rete lucente uguale nel tiro ai più grandi. “Appena un minuto bambini” Riesce all’aperto il maestro. Lo segue nel sole la Havel che ride di cuore. E vinco rivinco di nuovo ancora una volta. Per l’ultima volta. Ma Joska cocciuto mi urla “Non vale il rigore. Non vale.” Su Joska caparbio rifletti che c’entra il rigore? che dici? Pur senza il rigore comunque vinciamo. S’innalzan le voci le mani. Per l’ultima volta. “Chi ha cominciato di voi?” Accorre severo il maestro e sul portone ha lasciato sdegnosa la vedova Havel. “Tu sempre tu solo Vaclav va dietro perciò la lavagna per tutto il restante del tempo.” Ancora di nuovo punito. Ancora una volta. Per l’ultima volta. Io sono Vaclav, bambino di Lidice. Il più bravo a giocare il pallone di tutti i bambini di Lidice. E vedo venire il Signore nel punto più oscuro del giorno. In mano mi porge un pallone dall’agile cuoio lucente uguale alle squadre dei grandi.

Rino Malinconico

riVISTE “Sìlarus”

Rassegna bimestrale di cultu-ra fondata da Italo Rocco e diretta da Maria Paola e Lorenza Rocco (Direttore Responsabile Pietro Rocco), rappresenta uno dei punti di riferimento più longevi ed importanti dello scenario let-terario e culturale, dagli anni ‘60 ad oggi… Un periodico conosciuto anche all’estero e che è sovente oggetto di inte-ressanti tesi universitarie e studi approfonditi. Per infor-mazioni: 0828-307039 oppure [email protected]

“Patria indipendente” Periodico della Resistenza e

degli ex combattenti (Direttore:

Wladimiro Settimelli) È una rivista che si occupa di Storia ma è sempre attenta ai fermenti della società attuale e alle molteplici iniziative provenienti dal mondo di chi non vuol dimenticare e non vuol essere dimenticato! Inte-ressante l’inserto “Le fotosto-rie” ricco di foto storiche inedite e non… e-mail : [email protected]

“L’antifascista” Mensile degli antifascisti

di ieri e di oggi (Direttore: Stelio Rubeo)

Mens i l e de l l ’ANPPIA (Associazione Nazionale dei Perseguitati Politici Italiani Antifascisti).

Per informazioni: Redazione: Corsia Agonale, 10 - 00186 Roma tel. 06/6869415 e-mail: [email protected]; [email protected] www.anppia.it

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Anatomia di una prosa

Un componimento poetico è costituito da un insieme di versi nella misura in cui una prosa si caratterizza per “unità di sillabe”; concatenazioni sillabiche riscontrabi-li, dunque, anche in relazione a questa differente espe-rienza, che per sua complessa articolazione evidenzia una certa irregolarità nello snodarsi del ritmo, condi-zione non riguardante la graficamente delimitata poesia che anche nei frequenti cambi di marcia a lei congenia-li riesce sempre a mantenere il ritmo sotto controllo. Da queste ultime snelle suggestioni può derivare una prosa di tipo “lirica” (ricordato presupposto dei vocia-ni, con soluzioni “isometriche” come vedremo più avanti) “semilirica”, o assolutamente “illirica”, tuttavia dentro il rigore vitale di un aspetto di “melodia” equi-vocabile in apparente ed errato senso di suono (1), da intendersi fondamentalmente come fenomeno di col-lante a sostenere l’intera struttura di una composizione. Considerando le numerose variabili linguistiche valuta-bili in riferimento a un prodotto di scrittura in prosa, ci sembra cauto semplificare (2) le differenze storicamen-te emerse da autore ad autore, da opera ad opera, su due elementi principali: l’interpunzione e la musicali-tà. Nel procedere attraverso alcune linee, possiamo riconoscere alle origini sino al Manzoni, uno stilema oratorio e retorico fitto dell’uso della punteggiatura (3); espressione di un irrazionale non fissabile, tematica in superficie lungo cave indorate forme. Per il primo ca-so, circa la vicenda di Don Abbondio, accennando la pseudo - logica trama non psicologica, “Per una di quelle stradicciole…” (a conoscerne il seguito) rinve-niamo precisi parametri a collocarsi in essere: lo spazio fisico teatro dell’azione, il muoversi, “l’ora ed il tem-po” (4).

Esempio maggiormente chiarificatore lo si riscontra nella complessità sintattica e comunque lineare in sem-plificata descrittività del passo (sempre dai Promessi Sposi cap. I come il precedente)

Quel ramo del lago di Como, che volge

a mezzogiorno, tra due catene non interrotte

di monti, tutto a seni e a golfi, …

Orientando l’analisi in continuità di sequenza del suo-no dannunziano, isoliamo:

… per l’ombra là dove la luce

si ritraeva come la marea su

le spiagge oceaniche quando la sabbia palpita

(dalle Faville del Maglio).

Delle quattro teorizzate “strutture melodiche”, quella “progressiva”(5) (sintetizzando tra varie opzioni, anche a visione statica e dinamica delle cose) contempla un crescendo dell’effetto emozionale nel procedere di pari passo con la lievitazione sempre maggiore del numero

di sillabe per ogni gruppo fonico successivo. Secondo l’esempio in Cecchi: “Gentile e feroce, / di favolosa eleganza/ e al tempo stesso con un che di popolare, / che applausi quando sbucava all’ultima curva, / dinanzi al disperato manipolo degli inseguitori. /” (Corse al trotto…). La misura “regressiva”, viceversa, si snoda per un percorso di valenza grammaticale e sentimentale totalmente al contrario del precedente: “Sull’ondeggiamento collinoso della linea d’orizzon-te, / vedevo dilatarsi la mattina, / da quella parte ap-punto, / ch’era oriente. /” (N. Lisi, Diario). Nella clas-sica, poiché per un ideale andamento “melodico”, arti-ficiosità “simmetrica”, (6) il nucleo centrale può essere costituito da una unità sillabica limitata con due folti raggruppamenti agli estremi; oppure può disporsi per un unico corpo di sillabe in mezzo e con due piccoli gruppi fonici d’accanto. Rispettivamente agli esempi: “Dal portico esteriore del convento a picco su la valle, / verso sera, /scopro il Teschio tortuoso che biancheggia e dilegua nell’ombra. / “ (D’Annunzio, Faville del Ma-glio) e quindi a: “Annoiata e acciaccosa,/ una tinca a macchie verdastre dormicchiava tutto il santo giorno, / seminascosta fra le pietre. / (Cecchi, L’osteria). Alle esperienze “isometriche” (7) con resa in minima ap-prossimazione di unità sillabiche di identiche dimen-sioni, si riconosce una calcolata preziosità poetica, ov-vero: “Questi discorsi li facevamo sullo stradone, / o alla sua finestra bevendo un bicchiere, / e sotto aveva-mo la piana del Belbo, / le albere che segnavano quel filo d’acqua, / e davanti la grossa collina di Gaminel-la, /” (Pavese, La luna e i falò).

NOTE 1 Di valenza “eufonica”, per cui vedi R. Wellek – A. Warren, Teoria della letteratura e metodologia del-lo studio letterario, Bologna 1956. 2 Su suggerimento del Beccaria, Ritmo e melodia nella prosa italiana, Firenze 1964. 3 Della punteggiatura come “segno grafico” di persona-le interpretazione tematica ne dimostra A. Pagliaro, Il testo della Divina Commedia e l’esegesi, in Studi e problemi di critica testuale, p. 312. Rivelava il Tom-maseo del “ragionamento finissimo” deducibile dal- l’abilità nel dosare in espunzione o in aggiunta una semplice “virgola” (Sul numero, Ed. Naz. Opere a cura di G. Papini, Firenze 1954). Un preciso orientamento in relazione alla punteggiatura, avvertita armonica di suoni in visibilità di esterna musica, non segue Leopar-di (si veda in proposito l’introduzione di M. Fubini a Prosa e poesia nelle “Operette morali” e nei “Pensieri” di G. Leopardi, Firenze 1933, p. 42). Nota-vamo come in Pavese la fitta siepe di segni d’interpun-zione, funzionasse da rilancio della musicalità e non da effetto contrario. Controcorrente rispetto ai tempi, pro-cede l’Ariosto nella limitazione degli elementi in que-stione come ci dimostra Debenedetti (Frammenti auto-grafi dell’Orlando Furioso, in “Giorn. st. d. lett. It.”, testi inediti e rari, I, Torino 1937, p. 442). A motivo delle esigenze di suono si orienta la scelta ariostesca messa in luce altresì da N. Cappellani (La sintassi nar-rativa dell’Ariosto, Firenze 1952, p. 23). Appare sinto-matico che la sinuosità del linguaggio dell’autore del Furioso si riconverta nella suggestione foscoliana per

Il laboratorio di Vito Cerullo

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immagini delle “onde dell’Oceano” (Opere, Notizia su Didimo Chierico, II, Firenze 1940, p. 636). Per l’ado-zione di virgole, punti, accenti e altro, sempre da parte dell’Ariosto, si rimanda a A. Cerlini, Scrittura e pun-teggiatura negli autografi dell’Ariosto, in Cultura Neo-latina, IV – V (1944 – 45), pp. 37 ss. Lungi dai “periodi o formicolanti di punti, o frastagliati di virgo-le, o di parentesi sparsi come di scogli”, si riteneva il Tommaseo ( vedi M. Puppo, Tommaseo prosatore, Roma 1948, p. 72) nella misura in cui il D’Annunzio delle Faville del Maglio riusciva ostile “alle virgole come la Cicogna invisa colubris è nimica delle serpi”, queste in veste di “bachi” della costruzione poetica. Pervenendo all’oggi circa i nuovi studi sull’interpun-zione, non si tralascino le note di G. Devoto, Studi di stilistica, Firenze 1950, in proposito del-l’”interpunzione affettiva”, o quanto suggerisce C. Te-sta in Una questione di stile: la punteggiatura, in “Convivium”, XXVII (1959). Buon ultimo si ricordi J. Tornelli, Introduzione all’ ‘Ars punctandi’, in “Edizioni dell’Ateneo Romano”, Roma 1963. Ma vedi diffusamente per questa nota G.L. Beccaria, op. cit., pp.104, 108s. 4 G.L. Beccaria, op. cit., p. 105. 5 Circa i due sistemi a confronto “progressivo” e “regressivo”, arbitrariamente il Tommaseo intuisce in riferimento alle “brevi nel principio”, ovvero costituen-ti parte del primo limitato gruppo di sillabe nello sche-ma progressivo, la presenza di “un certo impeto”; e per contro, di quelle contenute nella concatenazione con-clusiva vi avverte “instabilità e fiacchezza”. (Sul nume-ro, op. cit.) 6 Strutturato per “antitesi”, “comparazioni”, per regola-rità dell’estensione dello spazio del concetto, l’esperi-mento “simmetrico” classicamente inteso, richiedeva secondo Schlocker (Equilibre et symétries dans la phrase francaise moderne, Parigi 1957) ai fini dell’ela-borazione del linguaggio di “uno sguardo d’insieme comprensivo di tutta la frase”, per una visione da un livello superiore ampiamente “panoramica delle cose”. Vedi inoltre la recensione di Beccaria allo stesso autore in “Archivio glottologico italiano”, vol. XLIII, fasc. I, (1958), pp. 72ss.; “regolarità e simmetria” ad uso di prosatori e poeti (Baudelaire) in genere rappresentano esigenze originali dell’animo (per cui Cfr. C. Gallico, Baudelaire e la musica, in “Convivium”, 1 (1955), p. 70) secondo insopprimibili necessità “di monotonia, di simmetria” nelle conferme di C. Baudelaire, Oeuvres complètes, Bibl. De la Pléiade, p. 1363. A cui si ag-giungano le considerazioni di L. Martin su di una “science des symetries littéraires”, quale “science à la fois positive et normative” (Les symetries du francais littéraire, Parigi 1924). 7 Per la funzione delle “isometrie melodiche ed enume-rative” (Beccaria, op. cit. p. 156) se ne coglie trattazio-ne nella letteratura del seicento come ad esempio in Padre Giovanni da Locarno, Saggio sullo stile dell’ora-toria sacra del seicento, Roma 1954; funzione ribadita attraverso la recensione di C. Segre in “Giornale di storia della letteratura italiana”, vol. CXXXII, pp. 46-2ss., e confermata da Bàrberi Squarotti in “Archivio glottologico italiano”, vol. XVII, fasc. II (1957), pp.

175ss. Una traccia di “isometrie, isoritmie” e riflessi fonici, non esente da riflessi di “simmetrie e parallelismi” (Beccaria, ibidem) è rilevabile in d’Annunzio dal citato Faville del Maglio in Il secondo amante di Lucrezia Buti. In digressione alla poesia di stampo lirico, generata da emozionalità, constateremo come “l’isometria del verso” acconsentirà a quell’ “intrinseco bisogno… dell’intuizione” (Beccaria, cit. , p. 226). In definitiva, per rendere un’idea, le eguali “isometrie” potremmo scorgerle simili a quei “blocchi di granito tagliati” pronti per l’uso in un contesto di “parole…stilizzate” come confessava Pavese in Il mestiere di vivere, Torino 1952. Da valutare poi le differenze che possono scaturire dalle sue “isometrie” in prosa e in poesia a raffronto, poniamo ad esempio, con quelle del Verga. (Beccaria,

cit. , p . 229).

Il silenzio delle nubi diafane, all’alba, mi ha sorpreso mentre stavo giocando per riempire di immagini e di idee il solco di tempo disseminato di steli notturni. Sulla mia pagina lenta è stata scritta la mia condanna alla veglia il giorno e la notte. Per non sorprendermi essere uomo, provo a ricordare e a inventare alcune distrazioni sotto l’indefinita oscurità delle configura-zioni astrali che compiono inesorabili il loro giro. Co-stellazioni che, osservate da questa parte di terra che calpesto, sembrano esistere senza suoni e senza musi-ca. So che la musica dei pianeti si può percepire nel sonno. Io sono dunque costretto, (ma forse la costrizio-ne coincide con un indecifrabile privilegio), ai rumori irreversibili del mondo mortale. Uomo, donna o divinità che non conosco ha stabilito che palmi femminili, affaticati dalle linee del destino, depongano su una pietra piatta e circolare, ogni giorno al crepuscolo, una brocca dal corpo basso, dal collo largo e dal becco sporgente, decorata nella zona media-na con motivi geometrici concentrici. Le stesse mani sollevando la brocca per il manico di forma ellittica, versano il vino contenuto in essa, facendolo risuonare nella gaiezza di una coppa ampia e poco profonda, im-postata su un alto piede. Quando le ignote mani femmi-nili scompaiono, sollevo il calice, toccando la sinuosa timidezza delle due anse orizzontali. Compiendo que-sto breve gesto, posso osservare il colore del vino: bianco, rosso, nero, mogano; la sua vivacità nei riflessi verdino o granato, nel riverbero d’oro o purpureo; il suo essere pallido o denso, scuro o leggero; lo schiu-dersi nitido delle sue sfumature fino al loro indebolirsi o spegnersi. Posso inoltre comprendere e ricordare, con la tristezza dell’intensità, la mia negazione all’istante immortale. Mi hanno insegnato che esso accade tra il sonno e la veglia.

L’insonne degustatore

di Erika Dagnino NARRATIVA

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Per allontanare la certezza di questo pensiero e questo stesso pensiero, che si addice all’essere uomo, annullo ciò che io sono nella percezione sensoriale. Annuso il vino. Sento e vedo i fiori, a volte la violetta a volte la rosa, sento e vedo il miele, le resine, il pino. Separo. Fortifico l’istinto ma anche la memoria. Annu-so. Penso per immagini. Se mi capita di concentrare la mia attenzione sul miele, vedo il suo colore cereo, am-brato, brunastro, poi vedo l’albero, i rami, il favo, le uova, il polline, le arnie, le ombre, la pietra sulla cui superficie scorre il rigagnolo d’acqua lambita dalle api. Vedo il loro corpo bruno e peloso, l’addome e il pungi-glione, le brevi antenne. Penso, (nella mente il disegno si ingrandisce e si rim-picciolisce), alla società delle api, alla loro fatica e ope-rosità, al loro comunismo dei beni e al loro ordine, alla loro concordia. Quando sono affaticato dal pensare, (dall’ammassarsi delle immagini), gioco. Con le dita disegno nella terra animali addormentati: un cervo, un cane, una lepre, alcuni volatili. Nelle notti afose faccio finta di sentire, mischiato all’inebriante profumo del vino che sorseg-gio e trattengo nella bocca, il loro ipnotico odore di sonno e il loro respiro regolare e profondo. Nelle notti fredde accendo il fuoco e, circondato dai loro occhi chiusi, gioco da solo a “giorno o notte”: traccio nel terreno una linea retta oltre la quale getto un sassolino o una conchiglia dopo averne colorato una parte di ne-ro. Se il frammento di pietra, o il piccolo guscio, cade con la parte scura rivolta verso l’alto mi bendo gli oc-chi, sempre aperti, e fingo di essere il dio Eros. Poi esco e, toccando il fragile fruscio delle foglie, percorro i sentieri che si snodano nel bosco, porto con me un canestro cilindrico vuoto dalla sommità svasata, allac-ciato alla spalla e in esso getto la fugacità delle erbe e dei frutti che raccolgo, riconoscendo la loro dolcezza al tatto. Se la parte di pietra, o del piccolo guscio, rivolta al cielo è quella più chiara, del colore naturale, indosso gli abiti da cacciatore, mi costruisco un arco, una fare-tra, alcune frecce e inseguo animali selvatici; non ucci-do però l’animale che riesco a stanare, lo memorizzo, potrò così facilmente riprodurre la sua immagine nella terra, tracciando le linee e i segni con le mie dita. Questa notte la mia tristezza è impenetrabile come stel-le di pietra: perciò ho necessità e desiderio di rinvigori-re le mie labbra con un vino aspro, aggressivo, mor-dente; (una fraterna fortuna mi concede che quello ver-satomi al crepuscolo non sia piatto, sapido o privo di nerbo. Ne trattengo e rimescolo piccole quantità, ora schiacciandole con la lingua contro il palato ora facen-dole scivolare nella parte posteriore della bocca); per-ciò ho necessità e desiderio di leggere uno dei fram-menti dei “Dialoghi degli uomini”, frammenti che ho trovato su fogli sparsi di colore bianco brillante, setosi, gettati su un mucchio di cenere e di petali. Li custodi-sco in contenitori di vimini di misura decrescente, posti l’uno dentro l’altro, intrecciati dalle dita della mia atemporalità una notte tiepida e priva di raggi o dita lunari. Leggo alla luce di una candela inserita in una piccola ciotola bassa, con l’orlo ripiegato all’interno. “…quella notte tardavo ad addormentarmi. Guardai le

stanze della mia casa. Sapevo che vi dimoravo insieme all’inesorabile avvicendarsi della gravità del giorno e della lunghezza delle notti.

Fu Plinio a insegnarmi che qualunque amore è destina-to a morire poiché l’uomo è mortale. Forse Kròkos era esasperato da questa unica certezza e tentò di rendere l’amore immortale scegliendo di innamorarsi di una ninfa. Provò a dimenticare di essere uomo.

La pietà degli dei trasformò i due amanti in fiori. Ma anche i fiori sono destinati a cadere. E il croco è un fiore gracile e fugace.

Ho anche sentito dire che Calipso spiegò a Odisseo che immortale è chi accetta l’istante. Ho così deciso di le-garmi per sempre alla mia ostinata, caparbia, insensata tristezza fatta di innumerevoli istanti o dell’unicità di un lunghissimo istante. Stelo Diafano. Un orefice dalle dita bianche e scarne, incise il mio inutile desiderio di eternità nell’oro che inclemente stringe il mio effimero dito; ma vivo nella consapevolezza che un giorno il rimpianto, come questo cerchio dolente, si stringerà contro di me…” Ripiego il foglio, lo ripongo nella sca-tola, riordino le scatole le une nelle altre. Poi cerco la solitudine. Quando cerco la solitudine vago tra i vigneti per ascoltare i suoni cangianti e incessanti del ciclo della vite: il pianto cristallino delle ferite, il canto palli-do della linfa sui sibili lenti e tesi della crescita delle foglie; lo stridio del gonfiarsi delle gemme e le note metalliche del loro aprirsi; il suono flautato e senza posa della maturazione dei tralci; i tremoli e i pizzicati dei fiori fecondati e della caduta di alcune infiorescen-ze; le sonorità religiose dell’ingrossarsi dei grappoli, dissonanti delle variazioni cromatiche della buccia de-gli acini; i caotici scricchiolii della maturazione del legno e della caduta delle foglie al giungere del freddo. Ma sempre sono costretto a rientrare nella mia abita-zione, una lunga cavità naturale cosparsa di muschio, poiché sono “colui che dimora dentro”. Sono Endi-mione, il diverso-Endimione, l’insonne. Torno nel grembo, veglio e sono vegliato. Attendo le mani della mia padrona, la quale, pur sapendo che non mi è con-

Erika Dagnino vive a Genova. La sua attività artistica comprende: collaborazioni poetico-musicali con il violi-nista jazz Stefano Pastor; reading poetici organizzati dal-l’Associazione Libero di Scrivere di Genova; collabora-zione alla Rivista “New Magazine Imperia” con articoli di viaggio. Inoltre ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: segnalazione al Premio di Scrittura Teatrale Farà Nume - ed. 2005/06 - con il monologo “Per Voce”; secondo pre-mio narrativa inedita - ed. 2005 - del concorso “Il vino nella letteratura, nell’arte, nella musica e nel cinema” promosso dal Centro Pavesiano Museo Casa Natale, con il racconto “L’insonne degustatore”; terza classificata al Premio Nazionale di Poesia Cuorediafano - ed. 2005 - con la poesia “Siedi accanto all’ospite”; primo premio concorso “La Città dei Poeti” - ed. 2003 - Genova, con la poesia “L’Oggi”. Le sue poesie sono presenti in alcune raccolte antologiche delle edizioni Aletti e Liberodiscri-vere. Ha pubblicato le raccolte di poesie edite “Pizzica il vento le corde della sua arpa” - Centro Editoriale Impe-riose - (Ottobre 2002) e “Il canto del cuore viandante” - Giuseppe Aletti Editore - (Dicembre 2002).

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Ho strappato tutti gli annunci funebri incollati sui muri, mastico imprecazioni, sconcezze, mentre sono per que-sta strada sozza che trabocca dei resti di una civiltà del troppo. Tiro calci alle lattine: "Rotolate e rompete il silenzio di quest'ora. State ancora tutti a poltrire nei vostri letti, tra l’odore dolciastro di umori notturni?" Tiro calci con la violenza del dolore, volendo colpire me stessa e questa mia vita mal riuscita della quale non so più che fare. Un altro calcio. Voglio veder volare via tutto, tutto ciò che ha a che fare con me. "E tu? Che stai lì a fissarmi? Guarda che posso strap-parti l’anima." Così all’ignaro passante, con cane al guinzaglio, che ha osato tagliarmi la strada. "Perché è successo? Perché doveva morire proprio lei?" Parole sconce mi salgono dall'animo, ma a chi rivolger-le? So soltanto che qualcosa o qualcuno mi ha lasciato intravedere una prospettiva di vita migliore e poi me l'ha strappata. Era cominciato un giorno che non me la sentivo di ri-tornare nel tugurio che impropriamente chiamavo casa. L'aria era pregna di umidità. Sapevo, guardando il cielo torbido, che sarebbe venuta giù acqua in quantità, ho pensato: "Meglio fuori che dentro; dal soffitto ci piove, non me la sento di trasportare il tuo corpo pieno di al-col dal letto alla poltrona, mamma." Mi piacque inzupparmi sotto lo scroscio dei gocciolo-ni. Mi ci stavo tuffando quando lei comparve come dal niente, mi raccolse e mi portò nella sua casa. Chissà se ho fatto bene a portarla a casa mia. Ma po-tevo mai lasciarla sotto la pioggia a infradiciarsi? Aveva uno sguardo così spaurito, indifeso. Non me la sono sentita di abbandonarla. Mi ha detto che a casa sua non c'era nessuno e che aveva dimenticato le chia-vi. Mi è sembrata un'altra quando è stata da me. Ha chiacchierato con mia figlia e ho scoperto cose che in classe non si vedono: per esempio, che è sensibile al-l'arte. Quando ha visto i disegni di Giulia è rimasta con la bocca aperta, poi ha tentato di misurarsi e così ho notato che con il disegno riesce a esprimersi molto meglio che con le parole. Devo dirlo al collega di arti-stica. Ho dovuto insistere perché Maria accettasse un pas-saggio da me; ha voluto che la lasciassi all'imbocco della strada; su questo è stata irremovibile. La cosa mi ha insospettito, ho temuto che mi stesse mentendo; per questo sono scesa dall'auto e l'ho segui-ta. Camminava strascicando i piedi così da infangarsi tutta su quella strada sterrata. Mi irritava quella sua

indolenza che cozzava con la mia fretta di rientrare, ma il sospetto cresceva; la zona, già fatiscente, era stata da poco insediata con stranieri ed emarginati. Finalmente Maria è entrata in un portone sconnesso, tenuto su da assi inchiodate. Grida di bimbi, voci ur-lanti da TV ad alto volume, più dolce una nenia islami-ca... La mia alunna si è attardata davanti ad una porta, infine ha infilato le chiavi nella toppa: dunque le chia-vi le aveva. E’ una ragazza introversa aggressiva, a volte assume atteggiamenti equivoci, anche se con me tiene sempre un comportamento corretto. Adesso mi amareggia que-sta bugia: mi ha sempre riservato un rapporto basato su rispetto e fiducia. Ora Maria scompare dietro la porta, ma prima che la richiuda m'infilo dentro con lei. Mi investe una zaffata di rancido, di sudicio che mi prende allo stomaco; non riesco a nascondere la nau-sea. Mi guarda: i suoi grandi occhi esprimono odio. Avevo accettato l'invito della mia proff, non volevo troppo presto tornare nella mia lurida realtà. Ero solita tirar tardi tra le vie sozze: meglio queste, piuttosto che farmi assalire dalla mia famiglia: meglio gli effluvi malsani delle discariche a cielo aperto, dalle quali mi sento in un certo modo scorporata, piuttosto che annusare quelli che fanno parte della mia vita. Non mi allontano da questi luoghi perché non posso percorrere le strade di chi vive una vita altra, quelle che sai esistono, ma non per gente come me. Immagino altri mondi, altre realtà. Quando sono entrata in una casa vera, mi sono accorta che quel mondo esisteva, per la prima volta lo speri-mentavo. Qualcuno me lo aveva concesso. Sono rimasta a bocca aperta, quando ho visto come la figlia nell'entrare ha abbracciato la proff. Ho ascoltato senza fiatare quello strano linguaggio tra loro: "Hai preparato il pranzo? Grazie piccola mia!" Poi, la carezza. Le sedie erano sgombre, niente piatti sporchi, la tavola era apparecchiata, per ciascuno posate e tovagliolo. Poco dopo la Ferrante ha rimproverato Giulia perché c'erano dei disegni lasciati fuori posto. Ma a me quel rimprovero è sembrato una sinfonia: nessun astio, sol-tanto un richiamo privo di condanna. E come erano belle quelle figure di donna tracciate a matita. Hanno litigato anche, ma è stata una discussione con diritto di replica. La libertà di dissentire senza bisogno di alzare la voce, senza l'odio di chi non ha mai avuto nulla da difendere. L'odore del pulito, il calore della famiglia unita. Quando lei mi ha proposto di riaccompagnarmi, ho provato a dissuaderla, ma ha insistito e ho avuto paura: mi accorgevo dell'enorme distanza tra lei e me.

Dietro la porta

di Stefania Pagano NARRATIVA

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L'ho odiata per la sua insistenza. Non volevo che sapesse dove vivevo, temevo per la sua persona: non era difficile che entrando in casa le capitasse, come 'benvenuto', qualcosa sulla faccia da parte di mio padre (altro che abbraccio e carezza); non volevo che vedesse quel cencio tremante sul letto, che un tempo era stato una donna, mia madre. E invece lei è entrata e la rabbia mi è salita alla testa. Quella irrazionale, quella che un giorno mi fece sferra-re un cazzotto sulla faccia di Antonio (si era permesso di accennare alle mani malferme di mia madre. Addi-rittura aveva alluso alla mia verginità, quello stronzo!). Lo mandai in ospedale con il setto nasale rotto. Era stata la Ferrante ad aiutarmi facendo da interme-diaria tra me, la famiglia di Antonio e gli altri inse-gnanti che volevano punirmi. La Ferrante era una a posto, ma io ne diffidavo: la diffidenza è la mia estre-ma difesa. Ora dovevo mandarla via, prima che scoprisse. Nessu-no doveva sapere. Sapere significava essere allontanata e lei avrebbe potuto abbandonarmi. Così le ho agguantato il braccio e, senza temere di farle male, l'ho spinta via dalla porta, l'ho trascinata fuori. Soltanto qui ho mollato la presa e, con tono che non ammette repliche, le ho sibilato uno "Sparisci. Non permetterti di raccontare quello che hai visto. Ricordati che so dove abiti e che conosco tua figlia!". Questo è ciò che da me tutti si aspettano e io ho rispet-tato il copione. Quella minaccia mi ha atterrito. Mi aspettavo una reazione violenta, ma non avrei mai pensato che avrebbe usato quel modo abietto, da cri-minale incallito, per scaricarmi. E' stato questo che mi ha persuasa a non mollare. Se avessi acconsentito alla sua minaccia e fossi andata via, sarei vissuta nel terrore per sempre. Pensavo di conoscere Maria, sapevo che dietro quella scorza si nascondeva ancora un accenno di innocenza. Soltanto un'ora prima era stata a casa mia e non avevo scorto in lei ombra di malvagità. Solo quando avevo chiesto di accompagnarla qualcosa aveva cominciato ad agitarsi in lei. Era stato il silenzio opprimente durante il tragitto che mi aveva insospettita. Ora sono lì: l'una di fronte all'altra. Maria ha lo sguar-do puntato negli occhi dell'insegnante. In attesa come belva pronta all'attacco. La professoressa mantiene lo sguardo che affonda nella sua anima, legge la dispera-zione della sua vita, vede il dolore e la sofferenza. Di slancio l'abbraccia. Sente i muscoli contratti. La stringe ancora: l'esile corpo si distende dopo un ultimo, debo-le tentativo di liberarsi. Infine, il pianto straripa, rompe gli argini, disgrega quell'anima sconnessa. Ormai le lattine le ho tutte lanciate lontano. Le bestem-mie le ho esaurite. Ai miei piedi le strisce di volantino si agitano al vento. Mi siedo con i muscoli che mi fan-no male sul bordo del marciapiedi. Guardo il muro del

palazzo dal quale ho scorticato l’ultimo annuncio di morte. Ho la testa vuota e mi viene in mente che l’unica possi-bilità che mi resta di incontrare un’altra Ferrante è tor-nare in quella scuola di merda. Magari una sua reincar-nazione, come dice la mia vicina buddista. Una nebbia sottile si va diradando, il cigolio delle ser-rande lacera l'aria. Maria si alza, si muove lenta verso la città brulicante.

Il centro storico è quasi metafora del tempo che fu, un modo attraverso il quale le nostre città fermano il loro passato. Il centro storico di Salerno, per anni abbandonato e ritenuto dai benpensanti più pericoloso di una casbah algerina ed un mercato turco messi insieme, vive una specie di doppia vita. Da una parte i nuovi esercizi commerciali e i mille piccoli ritrovi alternativi che ri-chiamano il popolo della notte avanzano lenti ed ineso-rabili ad occuparne ogni angolo, dall’altra i “vecchi” negozianti, inquilini storici di Via de’ Mercanti, man-tengono orgogliosamente le loro posizioni, fieri dei loro nomi che s’intrecciano alla storia cittadina: Bignardi, Spirito, Fiore, Tafuri, Pantaleone, Pecoraro, Rocco, Testa… I Mercanti, come tutti li chiamano a Salerno, sono ta-gliati a metà da una specie di cardo maximus, residuo forse d’una ordinata romanità non stravolta dall’angu-sto groviglio della città medievale, che da monte corre a mare: Via Duomo. Stretta, lunga, brulicante di attività, scandisce il suo tempo al suono della torre campanaria della cattedrale. Qui, da più di un secolo, si apre un’altra delle botteghe che hanno fatto la storia, quella dei Russo, anzi, per essere precisi, la “Ditta Russo Giosuè e figli”. Credo che nessuno ignori l’arte dei Russo tuttavia, per qualche sprovveduto, dirò che i Russo da circa un se-colo sono gli indiscussi maestri cappellai di Salerno. L’attività fu iniziata da nonno Biagio che la trasmise al figlio, che tutti conoscevano come don Giosuè, il quale si portava due dei suoi figli, un po’ per compagnia un po’ per non gravare troppo sulla mamma. I ragazzini un po’ giocano in strada con gli altri monelli, un po’ osservano il padre che lavora intento e silenzioso. Ciro, gli occhi penetranti come due proiettili, segue ogni movimento di quelle mani, studia il volto paterno, guarda i cappelli che si pavoneggiano vanitosi in vetri-na e un giorno memorabile – era il primo giugno del 1957 – annuncia con tutta la serietà dei suoi dieci anni: “Papà, mi voglio imparare il mestiere”. Comincia quindi il suo apprendistato affannandosi in-torno agli antichi, alti banchi da lavoro col piano di

Cent’anni di cappelli

di Enzo Landolfi NARRATIVA

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mente Ciro lo fa “a occhio” tagliando con mano sicura l’ala del cappello e togliendo esattamente solo e soltan-to il superfluo. La tesa tagliata si smeriglia con carta vetro e tocco leggero, e se l’ala è debole intorno alla tesa si cuce un nastrino per darle più corpo. Una bella spazzolata e voilà, il cappello è pronto per essere esposto in vetrina, per essere indossato o per essere adagiato con mille precauzioni e cure in una bellissima cappelliera di cartone rigido da portare in giro per le strade dondolandola appena con la mano con fare da dandy. Tutto questo avviene in una bottega minuscola nel cuo-re della città vecchia, la bottega di un’antica dinastia di artigiani che resistono nella trincea della tradizione sventolando la bandiera del lavoro fatto a mano e a regola d’arte. Quale macchinario sofisticato potrà eguagliare l’abilità della mano di Ciro mentre taglia la tesa d’un cappello? Quale avveniristico sistema di misurazione potrà calco-lare la misura d’un cappello come l’occhio di Ciro? Quale curatore d’immagine pluridiplomato dai mille e più passaggi televisivi potrà individuare, di primo ac-chito, quale sia il cappello che meglio s’adatta al clien-te come sa fare Ciro? Questa, come tutte le arti, non si studia sui libri, ma si respira, si succhia, si ruba, si vive giorno per giorno con ogni fibra del corpo, con ogni corda dell’animo ed è per questo che, come tutte le arti, deve continuare, non perdersi nella banalità del cappellino simil-americano che tutti ci omogeneizza trasformandoci in inconsapevoli ed acritici sostenitori di squadre sportive d’oltreoceano. Le fatiche e le speranze dei cento anni di attività della ditta Russo sono riposte in un nipote decenne al quale Ciro, come prima di lui il padre e prima ancora il non-no, trasmetterà giorno dopo giorno il distillato della sua perizia e della sua esperienza così che anche il mio nipotino possa un giorno indossare un bel cappello fatto a mano come oggi fa suo nonno.

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marmo; accostandosi con rispettoso timore alla vecchia Necchi a pedale che per usarla bisogna aprirne la cu-stodia con la chiave come se fosse uno scrigno pieno di gioielli. Tuttavia di cappelli non si vive. Ciro deve cercare un lavoro, ma il cuore è sempre lì, in quei due metri di negozio, ed è lì che torna ogniqual-volta gli è possibile per affinare viepiù la sua arte, è lì il suo porto sicuro quando lo colpisce il fulmine della mobilità a privarlo della sua dignità di lavoratore. Riprende il mestiere con la sorella, Anna; ritorna tra i feltri e i nastri che le sue mani esperte trasformano in cappelli eleganti per quanti, in barba alle mode, non vogliono rinunciare al tocco di raffinatezza che unico il cappello sa dare perché, come dice saggiamente Ciro, “non è l’abito che fa l’uomo, ma il cappello”. Proviamo allora a conoscere un cappello, a seguirlo dalla nascita fino alla sua impeccabile compiutezza. Diciamolo subito: il cappello per eccellenza, quello veramente degno di tal nome è quello di feltro, laddove per feltro s’intende, nella sua accezione più elevata, il pelo di lepre, morbidissimo, seguito da altre varietà di pelo animale, ad esempio coniglio, castoro, vigogna, talpa fino ai meno pregiati, maiale e cinghiale. Per ottenere la base “grezza” di un cappello pronto per la lavorazione occorre un lungo procedimento perché il pelo deve innanzitutto essere ben lavato, poi asciugato, pressato, seccato e sottoposto, appunto, alla feltratura che lo rende simile ad una stoffa consentendone il ta-glio e la messa in forma. Il cencio, che presso la ditta Russo è disponibile in un assortimento unico di ben dodici colori nelle varie gamme di grigio, marrone, nero, beige, bronzo, blu, bordeaux, verde, si pone sulle forme, rigorosamente di legno, che variano secondo la cupola richiesta; ce n’è di basse e di alte fino ad arriva-re a quella per il cilindro. Si rifila il bordo quindi il cappello viene stirato col ferro – che è proprio quello d’una volta, un semplice blocco di ferro sagomato e con il manico fatto riscaldare – ed un panno umido, naturalmente bianco, per stendere bene il feltro; quindi lo si mette ad asciugare, per un tempo che varia dai trenta ai quarantacinque minuti, chiuso nella stufa a carbonella. Una volta “sfornato” si appoggia su di un’altra forma per stirare bene la tesa, quindi si mette all’interno il marocchino, cioè la striscia di cuoio tut-t’intorno alla circonferenza e che Ciro definisce “la salvezza del cappello”, ed infine si rifinisce esterna-mente con il nastro, generalmente di gros-grain, e la nocchetta che va cucita a mano. A proposito della nocchetta, prestate bene attenzione al lato su cui è posta: se si trova a sinistra il cappello è da uomo, se invece a destra il cappello è da donna, altri-menti vi troverete come me che per anni ho inalberato orgogliosamente un Borsalino verde speranza per poi scoprire, proprio dalla nocchetta, di avere un cappello da donna. Potete immaginare che lavata di testa mi sia toccato ricevere da Ciro cui, per buon peso, si è ag-giunta la moglie Raffaella. Lasciamo perdere, veh! Si diceva della nocchetta, dunque. Ebbene, il lavoro non è ancora finito perché va tagliata la tela, e natural-

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Questa storia si inserisce a pieno titolo nel filone della narrativa per ragazzi, ma con una diversità rispetto a quella oggi dominante: non prodigi di magia o fughe nello spazio, solo realtà quotidiana, quella dei piccoli accadimenti di ogni giorno e dei brutti imprevisti che rompono abitudini e sicurezze. Elisabetta – questo il nome della protagonista del romanzo – è la ragazzina della porta accanto. Nel senso che non ha nulla di par-ticolare che la distingue dalle sue coetanee. In quel difficile guado tra i dieci e i dodici anni, ci si tro-va un po’ in una terra di nessuno, non più bambini, non adolescenti, nemmeno preadolescenti. Un’età di indolente dormiveglia. Di inav-vertita esplorazione del mondo. Il bisogno di certezze è ancora tota-le. Il pensiero che qualcuno o qualcosa in quel cerchio di perso-ne con il quale si è cresciuti – soli-tamente la famiglia – possa cam-biare, non esiste. Eppure storie dolorose possono accanirsi su di loro, colpendoli nel primo dei loro diritti: la sicurezza. Essi si ritrova-no così, da soli, a fare i conti con vicende che li escludono da ogni controllo. Non possono che subire. Elisabetta, detta anche familiarmente Betty, Betta, Bet-tina, invece, ha un po’ la natura dell’equilibrista e resta sempre in piedi. In fondo, i punti di riferimento basta trovarseli e, con un po’ d’ironia su chi ha intorno e un po’ di autoironia, riesce a cavarsela. Teresa Castellani, la brava e coraggiosa autrice del libro, insegnante di scuola media a Roma e conoscitri-ce acuta dei suoi alunni, si serve di Betty proprio per dimostrare che la vita va affrontata sempre, non fug-gendola ma immergendosi in essa giorno dopo giorno. La ragazzina ha tutte le caratteristiche della sua età: come tutte è tenera e insieme aggressiva, indifesa e spavalda, curiosa e paurosa. La sua vita ruota intorno al gioco, alla scuola, ai compagni, agli animali, sui quali scarica quel di più di affetto che non sa dove riversare. Ha le sue curiosità, sogna l’avventura. Vuole diventare grande e nello stesso tempo ha bisogno di coccole co-me quando era piccola. I suoi giorni sereni li vive dalla nonna, d’estate, nella grande casa della campagna umbra, alle porte di San-gemini. Sono quelli nell’anno i giorni della spensiera-tezza, del gioco, della sicurezza che le ispira la nonna. Qui riscopre quella dimensione umana che non trova nella grande città, i fedeli compagni di gioco che l’aspettano ad ogni ritorno (tra i quali quello del cuo-

re), i piccoli amici quadrupedi, la vita semplice, il ver-de. Dietro la casa però, laggiù in fondo, nascosta tra gli alberi c’è una piccola casa, poco più di un capanno, cadente e ricoperta di edera. Sempre chiusa, a volte sembra animarsi di strane presenze. Insomma, la casa del mistero. Per Elisabetta, la prova del suo coraggio. Nessun mostro terrificante né verdognoli marziani, ma una ben più dura lezione di vita. Dall’infanzia rubata alla città caotica, dalla famiglia allargata alla vita di

campagna, dai sogni adolescenziali alle amare delusioni. Elisabetta per crescere ha bisogno di capire come funzionano gli adulti. L’autrice, alla sua prima opera, mostra di conoscere bene il mestie-re del raccontare e saperlo fare, anche se scrivere per i non-grandi è più difficile che farlo per i grandi, così come notoriamente far ridere è più difficile che far piangere. Nella storia c’è tutto questo, per piccoli e per grandi, per piangere e per ride-re. La tensione narrativa non cono-sce pause. Capitolo dopo capitolo il lettore segue con avidità lo svol-gersi dei fatti. Con una scrittura sempre piana, chiara, ora scanzo-nata ora emotiva, il libro assume di volta in volta la misura del thriller, del romanzo psicologico, dello studio ambientale, del confronto tra lo ieri, l’oggi, il domani. Se l’autrice pensava di avere scritto una storia destinata ai coetanei di Betty, si è sbagliata. Il romanzo non può non piacere a tutti. In esso

c’è di che imparare e di che divertirsi. Le illustrazioni di Nicola Perugini, presenti all’interno del libro, contri-buiscono a rendere indimenticabili personaggi e situa-zioni. “Le scoperte di Elisabetta” Illustrazioni di Nicola Perugini Edizioni “ERA NUOVA” - Perugia (2004) - € 8,50

La recensione di Marcello Fruttini

NARRATIVA

Teresa Castellani è nata a Città di Castello (Pg) nel 1947, ma vive e lavora a Roma. Questo è il suo primo romanzo, scaturito dal bisogno di raccontare storie secondo il punto di vista e la sensibi-lità di un’adolescente. Nicola Perugini è nato a Città di Castello (Pg) nel 1973, ma vive e lavora a Roma. Appassionato disegnatore di fumetti e cartoni animati, ha illustrato questo libro contribuendo a rendere indi-menticabili i personaggi e le situazioni.

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il suo universo fantastico e il midollo della sua poesia. I poeti non sono mai come i funzionari di banca, o de-gli impiegati ministeriali, i poeti come lo ha dimostrato un grande francese sono sempre in contraddizione con se stessi, Saint-John Perse, il cui nome anagrafico era Alexis de Saint-Léger Léger, diplomatico e viaggiato-re, un mistico moderno che riuscirà a comporre una poesia estrema tra spazio mentale e geografico, tra so-norità del mondo e dialogo con il lui dell’intimo, poeta straordinario per la complessità della sua poesia e per l’originalità del suo destino. E’ nell’unicità del suo canto interiore forse il più importante poeta del XX secolo della Francia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Vedo questo filo parallelo con Saint-John Perse (1887-1975) per diverse ragioni, ma una soprat-tutto, perché i due poeti hanno dovuto piegare le loro schiene ad una professione che ha le sue regole societa-rie e i suoi obblighi dinanzi allo Stato. Eppure i due poeti hanno saputo trovare un’apertura in quel corri-doio che poi è il grande labirinto della poesia. I due hanno in comune una forte attrazione dell’universo interiore, in cui tutte le situazioni esterne diventano microcosmi e oscillano tra l’infinità di mescolanze, tra

la bellezza della natura, alla crisi, alla sconfitta permanente degli uomini davanti alle sopraffa-zioni, alla permanenza del male, alle violenze e alle ingiustizie del mondo. Oreste Bisazza Terracini incarna le correnti dei mondi diversi da cui proviene, da una real-tà biblica, le cui viscere sprofondano nel Qoe-let, nell’Ecclesiaste. Spesso il suo pessimismo è stato frainteso, quella invece è la voce del-l’uomo che si appoggia a Dio senza le illusioni e le vanità del mondo. Da queste parole esce l’anima ebraica e interrogativa di Oreste. Nelle sue raccolte di poesia, non esclusa l’ultima “Respiri e apnee”, poesie in due libri, Vec-chiarelli 2005, i temi della vita e della morte si compenetrano, con la stessa originalità della sua prima raccolta “Accanto alla fonte attendo

l’arsura” 1998, e poi “Humus, Fertilità della Memo-ria”, edizioni dell’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall’Internamento e dalla guerra di Libera-zione, con prefazione di Davide Rondoni. Nel progetta-re questo volume di poesie volli inserire alcuni docu-menti che segnano la tragica fuga di un bambino ebreo verso la Svizzera. Il destino di un’intera generazione a cui fu negato di esistere. Nell’Europa dalle radici cri-stiane, nel cuore dell’Europa civile, figlio di un’Italia che aveva cancellato le leggi di emancipazione di Car-lo Alberto di Savoia, nel pieno di un fascismo agoniz-zante e alleato del Terzo Reich. Quella notte, quell’in-cubo fu il suo internamento. E’ una lama che si insinua nel cuore del bambino, nel massacro di un’Europa che ha rubato una parte della sua umanità al mondo e all’u-manità intera. Da li, nascerà la sua vocazione inesora-bile quasi da profeta e da giovane eroe dell’antico Isra-ele alla lotta contro l’antisemitismo. Come Umberto Terracini pagherà di persona questo suo impegno scontrandosi con una sinistra becera, ignorante e stalinista. La poesia di Oreste oscilla e ri-corda quella poesia dei pittori e dei poeti di una Roma

Lo sguardo paradossale e antico

di Oreste Bisazza Terracini L’editore Vecchiarelli, figlio di un poeta, a Manziana stampa libri rari e raffinati e debbo aggiungere che la tenacia dell’editore, unita ad una particolare intuizione, ci permette di scegliere e consultare un catalogo edito-riale ricco di titoli e di pubblicazioni che farebbero bella figura in qualsiasi collezione e biblioteca privata e pubblica. Vecchiarelli è anche un amico fedele, da anni pubblica le opere poetiche di Oreste Bisazza Terracini. Nell’au-tunno del 1998 edita “Accanto alla fonte attendo l’ar-sura”, raccolta di poesie che presentai al Castello di Fiano Romano il 24 ottobre di quell’anno. Ho il privi-legio di essere una “cavia” personale di Oreste Bisazza Terracini, un ascoltatore, un suo lettore e ammiratore incondizionato. Da anni frequento e conosco la sua famiglia allargata, governata dal suo senso patriarcale che non si discosta poi dalla nostalgia di un mondo antico che è andato perduto. Tra i suoi rapporti e obblighi professionali e il governare la sua famiglia c’è un corridoio che è la sua vocazione e creazione poetica. Non permette il poeta, quasi a nessuno, di entrare in questo luogo mentale. Intuisco che fin da bambino Oreste abbia giocato con le Muse, sua madre, Maria Laura Gaino Lattes, attrice, ebrea monferrina, persona dalle grandi qualità performative, regista di autori angloamericani. Questo mi hanno sempre raccontato coloro che l’anno conosciuta come Giglia Tedesco Tatò e Bruno Grieco. La madre ha vigilato su Oreste bambino fin dai primi anni di vita con una mano creativa e greca, e con l’altra lo ha educato e spronato ad una passione per la lotta contro il male e l’ingiusti-zia, anche attraverso la ribellione. Successivamente Umberto Terracini, suo padre adottivo dopo la Seconda Guerra Mondiale, antifascista e partigiano combattente, condannato dal Tribunale Speciale forgerà Oreste all’amore per il diritto e per la giustizia, con un impe-gno che equivale ad una vocazione poetica. I primi anni di questa sua infanzia sono stati fecondati da un sentimento di austerità e di tendenza al sacrificio. Um-berto Terracini e Antonio Gramsci sono stati degli in-tellettuali e dei politici dotati di una visione del sociali-smo antitotalitarista e libertario. Inoltre Terracini e Gramsci sono stati utopisti autentici e uomini di cultu-ra, oserei dire dei poeti della politica trasformando la politica in un grande progetto di una umanità progres-sista e riformista. Pur avendo un carattere del tutto pa-radossale, Oreste è figlio di due isole, la Sicilia paterna e la Sardegna dell’infanzia, in mezzo il Monferrato ebraico materno a cui viene la sua indole intellettuale. Lui stesso si dibatte in queste radici molteplici, ma ne fa parte, perché queste radici formano la sua esistenza,

di Georges de Canino POESIA

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Un Oratorio che parte da Lidice e arriva a noi tutti “Oratorio per Lidice” di Rino Malinconico (pp. 130,

Edizioni Melagrana onlus, € 7.00, con introduzione storica di Guido D’Agostino) ha l'andamento di un vero e proprio poema. L’autore, noto per il romanzo Miserere e per i suoi scritti sulla filosofia marxista, ci con-segna un’opera intensa, sospesa tra storia e preghiera. I quindici ampi testi poetici di cui si compone il libro ricostruiscono con straordinaria ener-gia drammaturgica la tragedia di Li-

dice, piccolo villaggio a pochi chilometri da Praga, che nel 1942 i nazisti cancellarono, per rappresaglia, dalla carta geografica. La narrazione si sviluppa in prima persona, in forma quasi di sacra rappresentazione, e Lidice diventa l'emblema delle vittime, l’esemplifica-zione delle atrocità e della barbarie della guerra. Ai testi poetici fanno da contrappunto i dialoghi, non me-no carichi di emozioni. Parlano soldati tedeschi, abitan-ti di Praga, giornalisti, persone normali. Sul piano for-male i dialoghi si pongono come contesto ambientale e storico della strage, ma sono essi stessi momenti di autentico lirismo. Poesia civile, dunque, ma anche poe-sia tout court. Gli adulti che ci parlano dalla loro condi-zione di sospensione della vita, i bambini che rivelano una straziante inconsapevolezza del destino di morte che li aspetta, gli oggetti che restano dolenti a contem-plare uno scenario finale di rovina, sono sì tutti riferiti ad un luogo specifico e ad un determinato tragico tem-po, ma alludono anche, e soprattutto, all’essere profon-do dell’uomo come “creatura disarmata”. Non erra nel cosmo nessuno/ più solo di un uomo che vive/ in un breve mistero rinchiuso, diranno pietose le nuvole nel testo finale. Ad un primo approccio, il lettore rimane fortemente colpito dal dolore impetrato (non ho nessun verso che suona/ in questa serata di gelo/ e quale can-zone potrebbe/ dal buio distendersi al cielo?), dalle tragedie individuali (e resto/ distesa sospesa/ le palpe-bre chiuse sul viso/ disteso sospeso nel buio/ e l’unghia che il cuore mi scava/ consuma il riflesso del giorno) dalle nostalgie già in partenza sconfitte (la veste salita al ginocchio/ il gruppo gioioso di amici/ l'ombretto tirato sull’occhio). Ma ad una seconda, più attenta let-tura, si scopre agevolmente come Lidice sia semplice-mente una metafora, la metafora di un destino più am-pio che concerne la vicenda umana in quanto tale. Un destino crudelmente segnato dal contrasto insolubile tra l'apparenza gioiosa del mondo e la fine inesorabile cui siamo tutti destinati (ma guarda che luce che gior-no/ coi capannoni di legno lucente/ e in fondo laggiù/ ciminiere/ il fumo non vedi che s’alza/ da sopra gli enormi camini?). Insomma, un'opera sull'universo con-centrazionario per eccellenza, i campi di sterminio, ma anche sulla condizione ontologicamente sospesa degli esseri umani. Poesia civile, ma soprattutto vera, strug-gente poesia.

dei primi decenni del XX secolo, tra Vincenzo Carda-relli e le ferite profonde delle visioni tragiche di uno Scipione, il poeta pittore marchigiano romano della Scuola Romana, amico di Mario Mafai e di Antonietta Raphaël. Il paradosso di Oreste Bisazza Terracini è di scindere il suo mondo interiore con la sua stessa vita, negando talvolta la forza della sua personalità innovati-va. La sua tendenza è di identificarsi con una dimen-sione epica di un mondo di cavalieri e di fantasmi del tempo di Federico Il di Svevia. Forse le sue origini siciliane, aggravano i suoi conflitti interiori sul suo carattere ombroso. Ripensando all’altro siciliano, Luigi Pirandello, rivoluzionario nel suo teatro e conservatore nella vita intima e familiare, ripensando al dramma tra lui e il figlio Fausto, artista di grandissima qualità che fu travolto tutta la vita dal carattere violento del padre. Tra le poesie tragiche di “Humus” vi è una poesia, a pagina 59, tra le più espressive e commoventi che sia-no mai state scritte sulla guerra, è dedicata alla pietà per i soldati italiani massacrati a Cefalonia nel 1943. Poesia che dovrebbe entrare nelle antologie della poe-sia moderna e contemporanea. La poesia d’amore si rinnova di volta in volta nella creazione di Oreste come nel mistero della vita, è l’amore che si fa linfa in ogni istante, in ogni essere vivente, a pagina 20 di “Respiri e Apnee” la poesia: “Come amante / forte passionale / la vita / tra le braccia spingo / e la posseggo…” A pagina 61 esplode la nostalgia di un sentimento struggente: “I fiori che trattengo nella mano/ son fiori che raccol-si / sul prato più lontano / raggiunto dal mio cuore / di vecchio viaggiatore…” Il bagliore vive nella stagione che vince la malinconia del poeta, ma il poeta può an-cora dire: “Modula un canto / voce di sirena / e sul passato / luce è di stella / immensamente bella”, dal libro primo “Respiri e Apnee”, a pagina 96. Nel libro secondo a pagina 143 è fulminante e immediata la vi-sione dell’amore che amplifica i sentimenti del poeta: “Questa mattina / ho incontrato un angelo…”. Il pen-siero, la vita e la morte si susseguono come una partitu-ra musicale sul foglio bianco dell’emozione potente dell’istante, a pagina 196: “Un fremito di pelle / a brezza di mattino./ In cielo poche stelle./ Tra quelle/ Brilla / La stella del destino.” Oreste Bisazza Terracini è la voce più intima, passionale e stoica della poesia italiana di questo primo sguardo del nuovo millennio, è l’esempio paradossale dei mondi che ha conosciuto, che convivono in lui e si diffondono nella sua poesia. Le stelle di Gerusalemme brillano su di lui, la città che più ama e che ha amato. A Gerusalemme, Oreste, ha dedicato le poesie più belle e struggenti della sua opera poetica e la poesia più evocativa e originale dell’ebrai-smo italiano con la luminosa parola di Umberto Saba, il poeta di Trieste dell’altro secolo.

Oreste Bisazza Terracini è nato nel 1939 a Genova da padre siciliano e madre ligure-monferrina. Vive a Roma dal 1945 dove esercita la professione di avvocato ed ha cominciato a scrivere dal 1959 su giorna-li e riviste. Ha pubblicato (Vecchiarelli ed.), inoltre, le raccolte di poesie: Accanto alla fonte attendo l‘arsura; Le Haim (Alla vita); Humus (Fertilità della Memoria), Tra le righe.

di Rocco Sessa POESIA

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nuove che la poesia dell’Autore gli rende familiari. Questa è la forza della poesia di Raffaele Rago che spinge il lettore a meditare con lui quando nei versi della poesia “In una casa del borgo” scrive: “Nel chiu-so del mio studio e lontano dal mio borgo natio, ascolto del fiume il respiro. Quando tutto tace, al mio paese rivolgo il mio pensiero ed alle persone amate che mi dan coraggio e le vedo nella mia mente, offro il mio cuore”. E così, chi legge è spinto a distaccarsi per un attimo dalla freneticità della vita e trovare e gustare il senti-mento dell’amore, con la filosofia aprire gli occhi a nuovi orizzonti e, come dice Rago, in compagnia di Erato, musa della poesia e della danza, dimenticare la sensibilità che spesso ci rende infelici… Poi ritorna forte il sentimento nostalgico quasi a voler purificare lo spirito costretto a convivere con una realtà opprimente e inesorabile e, il ricordo dell’eremo di S. Michele, inerpicato tra la roccia, distante dai rumori della città, dove il chiassoso vociare degli uccelli, la musica delle foglie ed un vero silenzio fatto di melodie dolcissime, compagni inseparabili di un tempo, effettua la catarsi dello spirito che, rinfrancato e sollevato, riprende a percorrere con maggior forza e coraggio il duro cam-mino della vita. Il lirismo romantico assume poi una forte capacità espressiva quando il tutto o la parte non differiscono nel suscitare profondi sentimenti nostalgici. Il poeta, in due liriche consecutive, si rivolge prima alla sua “amata città” e poi alla “panchina solitaria” allo stesso modo, con la stessa veemenza e con il medesimo no-stalgico ricordo “o mia Campagna sei come donna de-siderata”, “o panchina solitaria, nascosta là all’ombra di un vecchio albero aspetti la compagnia ch’ogni sera ti diletta e ti rende felice”. L’Autore diventa profondo nella semplicità espressiva quando alla mente ritornano i momenti del poeta-bambino e rivede l’acqua scivola-re sui bianchi sassi del Tenza che nasce lassù dalla ci-ma del monte che tocca il cielo infinito, mentre laggiù allegri bambini si bagnano giocando felici saltando da un sasso all’altro che dal fiume facean capolino. Tutto resta nella mente e nasce, nella mente del poeta, un tormentato dilemma: vorrebbe ma non può, potrebbe ma non lo vuole, la voglia di uscire dal normale è tanta ed intensa, ma la coscienza frena i suoi desideri e si ritrova con le mani fra i bianchi capelli a pensare e a guardare il tempo che fugge inesorabilmente senza ritorno. E solo restano nella mente i semplici ricordi del tempo che fu. In questi altalenanti momenti di tristezza e di gioia, pian piano il lettore scopre qua e là se stesso e si accor-ge che l’Autore suscita quei sentimenti sopiti che ognuno sente dentro di sé ma che non è capace di tra-scriverli e che solo la forza della poesia riesce a rimuo-vere. E allora la lettura si fa avida, i versi nella loro sempli-cità si lasciano leggere scorrevolmente e fanno riaffio-rare ansie, gioie, speranze sommesse e sopite dall’im-perante materialismo utilitaristico, emblema di questa nostra società. L’amore profondo per Campagna tocca l’apice nella poesia “O brigante” (pubblicata sul n.8 di “Nugae”/

“Parole in fila” vol. 2

di Raffaele Rago Pur tra le mille contrapposizioni e contraddizioni fra contrade e quartieri, Campagna emana, sempre, un fascino che ti avvince, ti avvolge e ti sorprende e lascia nell’animo perturbato e commosso un segno indelebile, un richiamo profondo che ti lega indissolubilmente alla sua storia, ai suoi monumenti, alle tortuose ma incante-voli vie e vichi, al verde delle sue montagne, alle fre-sche e pescose acque dei fiumi Atri e Tenza. I palazzi, le chiese, i conventi, le pietre, man mano che attraversi la città, ti raccontano di loro, di un passato antico e illustre e richiamano alla mente personaggi come Gior-dano Bruno, S. Berardino da Siena, il vescovo Kara-muel, De Nigris, G.C. Capaccio, Melchiorre Guerriero e nobili casati come gli Orsini, i Grimaldi, i Pironti, i Caracciolo. Ogni scorcio, ogni angolo di Campagna si configura come un quadro naturale che si stampa indissolubil-mente nella mente del visitatore e del turista occasiona-le. Se questo è l’effetto che Campagna produce nella mente e nel cuore di chi la visita occasionalmente, la-scio immaginare quanto sia forte e duraturo il senti-mento di nostalgia di chi, nato e vissuto a Campagna è costretto ad allontanarsi e andare a vivere altrove. “Or vivo nel centro desiderato” scrive Rago nella poesia “Epperò”, con tutte le comodità, non mancano gli sva-ghi, ma penso ai dì trascorsi quando gustavo l’aria pura del mio paesino, alle piccole gioie di un vivere genui-no, all’amore rubato dietro l’angolo…” e continua “Ah! Se potessi ritornare, sereno tra i tuoi monti o mio borgo…”. È proprio questo il primo forte desiderio che Raffaele Rago consegna al lettore anche nella prefazione del suo volumetto. Soffre e gioisce contemporaneamente nel ricordare la sua fanciullezza, i suoi anni della giovinez-za e della sua formazione avvenuta tra i monti, le stra-de, i monumenti della sua città. Nell’analisi testuale della prosa e dei versi mi pare di notare quel senso pro-fondo di nostalgia e di tristezza che Manzoni coglie in Lucia, quando costretta ad allontanarsi, saluta i suoi monti, sorgenti dalle acque. Volentieri tornerebbe in-dietro ma le da forza e coraggio il pensiero che un gior-no tornerà attraverso la poesia che canta i ricordi, i luo-ghi, le sensazioni, i vissuti, Rago ritorna e rivive a Campagna. Risente lo scorrere dell’acqua del fiume lontano, rivede un cielo sereno e un sole splendente che, attraverso un’armonia divina, gli avvolgono lo spirito, il corpo e la mente. E il ricordo del passato è così vivo e presente, così reale e palpitante che le pic-cole gioie di un tempo, allora banali, oggi tornano più incisive che mai e lacerano lo spirito, tormentano l’ani-mo e spingono l’autore ad esclamare: “Ah! Se potessi tornare, sereno sui tuoi monti, o mio borgo!”. E con lui è travolto il lettore che pur non conoscendo luoghi e fatti, avverte sentimenti nostalgici attraverso immagini

di Angelo Magliano POESIA

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nifestazione più perfetta, ma anche la più semplice, e i ricordi vengono esposti in maniera quasi priva di archi-tettura, appena modulata in una vicenda di esaltazione di immagini che ritornano alla mente e di accorate ri-flessioni abilmente simbolizzate nei versi di tutte le poesie. Rago conferma così il concetto condiviso da molti cri-tici e cioè che la lirica è il canto che non conosce rego-la né ordine all’infuori della sincerità dell’ispirazione. Né conosce durata come ci ricorda il grande Foscolo: “Le pimple fan lieto di lor canto il deserto e l’armonia vince di mille secoli il silenzio”. Conferma altresì che la poesia esprime il palpito del cuore e la sensibilità dello spirito nella loro immediatezza e momentaneità: è la voce pura e semplice del sentimento che dice libera-mente e schiettamente le sue pene e le sue gioie. La poesia aiuta l’autore ad evadere dalla mera biografia e gli permette di proiettare le sue esperienze su un piano di ragioni universali e quindi di tutti. E perciò, di fronte a quell’inesorabile panorama di inutili miserie di cui la vita si intesse, la forza di continuare il viaggio di quel viandante di cui parla Rago, offre una via di uscita,

della cui precarietà il poeta è consa-pevole, ma della cui realtà non può dubitare. I valori cosiddetti assoluti, virtù, amore, bontà, pur seguitano a vivere e ad operare nella memoria dell’uo-mo e gli spianano e facilitano il viag-gio della vita. Sono come Ulisse, dice l’autore nella poesia “…tante parole il fila” come Ulisse il cui percorso della vita fu irto di infinite e travagliate avventure. Tuttavia carico di anni e di affanni, angosciato da atroci ricordi, alla fine “baciò la sua petrosa Itaca”. E quan-do pensò di coronare le sue avventure abbracciando Telemaco e Penelope, altro ostacolo gli si parò davanti: i Proci avevano invaso la sua reggia. Ma non si arrese, li affrontò e li scon-fisse e conquistò quella meritata feli-cità che il nostro poeta Rago trova tra

le braccia del santo Crocifisso; così recitano i suoi ver-si: “il tuo volto o mio Santo Crocifisso che pur essen-d’io peccatore m’apri sempre le tue braccia”. L’autore ha saputo cogliere ed isolare, nella vasta tra-ma delle esperienze comuni, le sensazioni e le impres-sioni più fuggevoli e quelle che più facilmente sfuggo-no ai più. Le ha fissate in parole con una sensibilità acuta e fresca. La poesia di Rago, fatta di piccole cose, esalta la visione del particolare rifiutando sia le vaste e complesse architetture sia la ricerca di un tono alto e di un linguaggio indeterminato e stilizzato. La forza della sua poesia sta tutta nell’intensità con cui è vissuto l’at-timo contemplativo e non nel processo intellettuale per cui si ordinano e si compongono le intuizioni origina-rie. A costruire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione che il modo col quale agli altri trasmette l’uno e l’altra.

Gennaio 2006 - NdR). Nei versi scorre la lunga storia del brigantaggio, di un “brigante” che, ancora oggi viene calunniato e diffamato per avere desiderato il rispetto del suo vivere. Viveva tranquillo “il brigante” a Campagna, fin quando un sovrano straniero e soldati violenti che parlavano un’altra lingua, affamati più dei lupi, violentatori di donne e macellai di indifesi, occu-parono il tuo paese. Ora ti chiamano brigante, ma in-nanzitutto sei un uomo con nell’animo la rabbia di ve-der calpestato il proprio mondo da fameliche belve senza Dio. In questa poesia che definirei piuttosto un’ode, l’autore, intrecciando storia e leggenda, difen-de appassionatamente l’orgoglio e la dignità della sua città, perché ancora oggi il brigante è calunniato e fa paura, ma c’è chi lo ricorda come uomo coraggioso e le sue gesta sono ormai leggenda. L’accorato verseggiare di questa poesia suona come il riscatto di una città sempre civile, spesso definita e conosciuta come “la città dei briganti”. E l’Autore sopisce la rabbia nei “Ricordi”, quando invocando la musa, la invita a ispi-rargli versi per cantare sempre più intensamente il suo paese, a raccogliergli i ricordi e a fargli rivedere, se pure nel sogno, le montagne, amiche dolcissime che lo consolavano quando chiedeva aiuto. Il secondo volumetto di “Parole in fila”, con evidente chiarezza e in maniera molto esplicita, comunica al lettore il cammino che l’Autore ha percorso e che intende percorrere e ci invita ad accompagnarlo in questo viaggio, pur se talvolta doloroso ed angoscioso per il flusso delle vicen-de, può essere reso agevole e meno faticoso dai ricordi che spesso ali-mentano la speranza. L’Autore riesce così a tradurre in versi e a sollecitare nel lettore viva partecipazione intesa come unione e fusione emotiva con altri esseri e oggetti in quanto la sua attività este-tica non è praticata come semplice trastullo ma come profonda proie-zione delle emozioni del soggetto nell’oggetto. E allora si deve considerare la poesia di Rago un atto originale, essenzialmente indipendente dall’associazio-ne delle idee e radicato profondamente nella stessa struttura dello spirito, postulato come una facoltà a sé, alla quale è affidata, con la funzione di animare la bru-ta materialità del mondo esterno, quella di rendere il mondo familiare e piacevole all’uomo. Proprio nei contrasti forti e marcati dei suoi versi, si evidenzia la sottile capacità del poeta di saper coniuga-re due mondi che da sempre hanno tormentato e tor-mentano l’animo umano: presente e passato, realtà e fantasia, vivere il passato per trovare la forza di affron-tare il futuro. Il filo conduttore del nostro poeta è quin-di viaggiare nella memoria e, con la memoria e l’ispi-razione, i suoi versi si susseguono in vari modi, più o meno complessi. Il canto e la rievocazione nella loro stridente purezza, con quel fluire libero che non cono-sce regole, né pause o cedenze fisse, hanno la loro ma-

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sacratoria dei cosiddetti clerici vagantes (i precursori dei futuri bohémiens del XIX secolo) meglio conosciuti come goliardi (in riferimento al mitico chierico ribelle chiamato Golia e alla facile assonanza con la “gola”, simbolo di gozzoviglia e di piaceri terreni) i quali, pur essendo parte integrante dell’ordo clericalis (cioè era-no chierici con tanto di abito, breviario e tonsura: un po’ come i nostri attuali seminaristi o novizi che vivo-no nel mondo, senza le tipiche restrizioni del sacerdote propriamente detto, e studiano in vista di una futura carriera ecclesiastica) non si dimostrarono avidi nel dirigere frecciate sarcastiche, sotto forma di versi can-tati, nei confronti del sistema politico-religioso del tempo. La possibilità, raro privilegio a quei tempi, di studiare e viaggiare, li rese capaci di entrare in contatto con il mondo e di formulare un’analisi critica, seppur affidata al potere di una poesia tabernaria, di quegli ordini sociali costituiti destinati ormai ad evolvere… I clerici vagantes potrebbero essere paragonati a dei

moderni “figli di papà”, quasi sempre ricchi o comunque so-stenuti da qualche tutore nobile e potente e frequentatori di scuole d’alto livello, che critica-no il sistema temporale e reli-gioso, certo, ma sono anche ossessionati dal bisogno di far-ne parte… “Vagantes” perché questi studenti si spostano da una città a un’altra per frequen-tare i maestri più rinomati nelle varie branche del sapere (le arti liberali del trivio e del quadri-vio erano rispettivamente l’equivalente delle nostre facol-tà universitarie umanistiche e scientifiche), alternando il pia-cere per lo studio alla frequen-tazione liberatoria di osterie e postriboli… Dirà di loro Eli-nando, abate di Froidmont, al-l ’ i n i z io de l Due cen to : “…Percorrono il mondo intero e studiano le arti liberali a Pa-rigi, gli autori classici ad Orle-ans, la giurisprudenza a Bolo-gna, la medicina a Salerno, la magia a Toledo e non imparano i buoni costumi in nessun luo-

go…” Per ciò che riguarda gli obiettivi peculiari della nostra rubrica “Suoni di lettere”, c’è da dire che tutte le liriche conservate nei Carmina Burana sono destinate ad essere cantate; eppure gli amanuensi ci hanno tra-mandato solo la notazione musicale di una trentina di canti. Alcune melodie sono state, in seguito, recuperate da manoscritti della stessa epoca, cosicché oggi si han-no a disposizione 47 canti accompagnati dalla musica originaria. Nonostante l’innegabile interesse paleogra-fico e filologico, il codex buranus dovette attendere diversi secoli tra gli scaffali dell’abbazia, prima di es-sere adeguatamente valorizzato: nel 1847 Andreas Schmeller diede alle stampe la prima edizione, però, ancora incompleta. La pubblicazione del primo volume della versione definitiva avvenne solo nel 1930 quando

Suoni di lettere ...quando la musica

incontra la letteratura

di Michele Nigro

I “Carmina Burana” e Carl Orff Con il nome di Carmina Burana (dal latino cărmen - da cănere “cantare” - nella poesia greca e latina, com-ponimento poetico lirico) ci riferiamo all’antologia di canti medioevali, composti in latino e medio-alto tede-sco, contenuta nel codice 4660 della Biblioteca Nazio-nale di Monaco di Baviera, noto anche come codex buranus e così chiamato perché fino al 1803 è stato conservato nella biblioteca dell’abbazia di Benedi-ktbeuren, l’antica Bura Sancti Benedicti fondata da S. Bonifacio sulle Alpi bavaresi. Il manoscritto è stato copiato, nella terza decade del 1200 in una zona di lingua bavarese, da tre amanuensi che riunirono canti risalenti nella grandissima parte del XII secolo, suddivi-dendoli in tre sezioni: la prima (canti 1-55) comprende testi di carattere satirico e morale dedi-cati soprattutto, sia direttamen-te, sia tramite velati riferimenti, alla Chiesa corrotta e materiali-sta di quei tempi, affetta da cupidigia e ben lontana dal- l’ideale “imitatio Christi” a cui invece, quasi a voler controbi-lanciare, si ispireranno gli ordi-ni monastici più integralisti dell’epoca; la seconda sezione (56-186) riguarda i canti d’amore: non un amore cortese, come per i poeti provenzali di tradizione cavalleresca e basato sull’idealizzazione della donna, bensì sulla riscoperta (come descritto nei rivalutati classici latini di Ovidio, Orazio, Mar-ziale…) di una dimensione umana e carnale, fatta di giochi piacevoli ed ignoti da sperimentare con l’amata, che più di ogni altra cosa avvicina l’uomo mortale e soffe-rente alla divina e naturale forza (ri)generatrice; la ter-za sezione (187-228) comprende canti bacchici e con-viviali che esaltano il vino, il cibo ed il gioco… Da sempre, questa sezione, viene considerata come il vero cuore goliardico dell’antologia: l’osteria, il tempio del dio Bacco, non solo è il luogo ideale per concepire e proporre al pubblico i canti goliardici durante le pause di un’intensa e scalmanata vita studentesca, ma è so-prattutto un ritrovo speciale dove viene coltivato un sano “egualitarismo anarchico”; ed il vino è lo stru-mento usato per superare le differenze, gli affanni e le ingiustizie del presente… I Carmina Burana rappresen-tano la voce poetica, colta e al contempo ribelle e dis-

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Alfons Hilka e Otto Schumann completarono un enor-me lavoro di collazione tra il codice burano e altri ma-noscritti… Il secondo volume apparve undici anni do-po, nel 1941, in una Germania che aveva trasformato in apparato iconografico di regime quel mito dei vaganti cantato pochi anni prima da Carl Orff… Il compositore di Monaco non musicò le 47 melodie originarie che accompagnavano il codex, bensì rielaborò i canti, affi-dandosi ai parametri della musica del Novecento, cer-cando (ed è appunto questa ricerca che dona valore artistico all’opera di Orff), come direbbero gli addetti ai lavori, un “sound medioevale”… Inizialmente, i Car-mina Burana di Carl Orff - composti nel 1937 -, furono definiti dalla critica “musica degenerata”, forse proprio a causa dell’accostamento audace, per l’epoca, tra un testo medioevale e l’impianto musicale dodecafonico di Orff. Successivamente, però, vennero acclamati dal regime nazista soprattutto perché celebravano, asse-condando il forzato revisionismo storico, a fini eugene-tici, tipico di quel regime, la primitiva “cultura ariana”. La lingua tedesca usata in alcuni canti; l’esaltazione di una gioventù spavalda, godereccia, curiosa e tesa al recupero di un paganesimo latino da affiancare ai valo-ri cristiani; la passione nel voler criticare e stravolgere l’ordine delle cose, fecero dei Carmina Burana un ter-reno fertile per la propaganda del partito nazional-socialista di Hitler e compagni... Bisognerà attendere la fine della seconda guerra mondiale e precisamente fino agli anni ’60 per ricollocarli in una dignitosa e più veri-tiera dimensione storica, letteraria e culturale. Oggi i Carmina Burana, poco letti ma in compenso abbastanza ascoltati, sono famosi soprattutto per il pri-mo brano della versione musicale di Orff - “O Fortu-na” - facente parte di un gruppo di due canti intitolato “Fortuna imperatrix mundi” (La Dea Fortuna, impe-ratrice del mondo). Il possente coro di “O Fortuna” ha suggerito l’uso (e purtroppo l’abuso) del brano in film, pubblicità e come suggestiva sigla per i tele-imbonimenti di qualche sedicente mago e cartomante! L’altro brano, forse meno famoso, è “ F o r t u n e p l a n g o v u l n e r a ” . Se nell’opera musicale di Orff questi due canti sono collocati all’inizio, nell’ambito del codex buranus cor-rispondono rispettivamente al 17° e al 16° canto della

prima sezione dedicata ai canti satirici e morali. La necessità di un distacco dal mondo e del di-sprezzo dei beni materiali da parte della Chiesa del XII secolo, che non ne vuol pro-prio sapere, inve-ce, di abbandona-re il potere tem-porale acquisito, viene riproposta da l l ’ immagine della Fortuna che è rappresentata,

secondo il modello antico, come la divinità che presie-de alle vicende umane distribuendo gioie e dolori, e che viene descritta ora come calva e cieca, ora come capricciosa, sempre volubile ed insensibile ai desideri umani. Volgendo continuamente la sua ruota, secondo un’immagine frequentissima nell’antichità e nel Me-dioevo, essa innalza e prostra gli individui, le città e gli imperi… Nel suo agire ciclico essa ridistribuisce i beni, offrendoli e togliendoli senza che l’uomo possa inter-venire… Pertanto, chi si lascia tentare dall’avidità fini-sce per anteporre il mondo terreno al cielo, comportan-dosi in modo anticristiano… Proprio come fece la Chiesa del XII secolo! E non solo… Sembra che i cle-rici vagantes, tra una coppa di vino e un tiro di dadi, vogliano rammentarci l’insegnamento evangelico, pur riferendosi alla Fortuna e non alla divina Provvidenza, che ammonisce: <<… non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di che cosa berrete; né per il vostro corpo, di che vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non rac-colgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre… E perché siete così ansiosi per il vestire? Osservate come crescono i gigli della campagna: essi non faticano e non filano; eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro… Cercate prima il regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date in più…>> (Matteo cap.6, 25…) Un insegnamento che troverà piena realizzazio-ne, a dispetto dell’ostentata ricchezza della Chiesa di Roma, nell’esperienza umile ma rivoluzionaria di San Francesco d’Assisi, il “giullare di Dio”…

Carl Orff: 1895 - 1982

La ruota della Fortuna: rappresentata in una delle 8 miniature del Codex.

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O Fortuna O Fortuna, velut Luna statu variabilis, semper crescis aut decrescis; vita detestabilis nunc obdurat et nunc curat ludo mentis aciem, egestatem potestatem dissolvit ut glaciem. Sors immanis et inanis, rota tu volubilis, status malus, vana salus semper dissolubilis, obumbratam et velatam mihi quoque niteris; nunc per ludum dorsum nudum fero tui sceleris. Sors salutis et virtutis

mihi nunc contraria est affectus et defectus semper in angaria. Hac in hora sine mora corde pulsum tangite; quod per sortem sternit fortem

m e c u m o m n e s p l a n g i t e ! (traduzione: O Fortuna, cangi di forma come la luna, sempre cresci o cali; l'odiosa vita ora abbatte ora conforta a turno le brame della mente, dissolve come ghiaccio miseria e potenza. Sorte possente e vana, cangiante ruota, maligna natura, vuota prosperità che sempre si dissolve, ombrosa e velata sovrasti me pure; ora al gioco del tuo capriccio io offro la schiena nuda. Le sorti di salute e di successo ora mi sono avverse, tormenti e privazioni sempre mi tormentano. In que-st'ora senza indugio risuonino le vostre corde; come me piangete tutti: a caso ella abbatte il forte!)

Fonti: “Carmina Burana” a cura di Piervittorio Rossi – Ed. Tascabili Bompiani.

Interno dell’Abbazia di Benediktbeuern.

Il piccolo borgo di Benediktbeuern (3.000 abitanti), nel sud della Baviera e non lontano da Bad Tölz, è noto per l’omonima abbazia fondata dai Benedettini nell’anno 739. Questo grande complesso si trova ai piedi della montagna Benediktenwand (1801 metri) ed è stato uno dei maggiori centri religiosi e cul-turali della Germania medievale.

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“Controedicola” “I sommersi e i salvati”

di Primo Levi

Molti anni dopo “Se questo è un uomo” – uscito per la prima vol-ta nel 1947 –

Levi riaffronta il tema del lager con un saggio, non un libro di memorie, ma un’analisi spietatamente lucida e precisa dell’universo concentra-zionario. Più si prosegue nella lettu-ra e più si scende nelle tenebre e nel dolore, che vengono sezionati pur essendo ormai decantati dallo scor-rere del tempo, che non ha tolto chiarezza all’Autore. La grande consapevolezza acquisita tanti anni dopo l’esperienza della deportazio-ne ad Auschwitz è che i veri testi-moni del lager non sono i soprav-vissuti – come Levi stesso – ma i “sommersi”, coloro che non sono tornati e che davvero hanno rag-giunto il fondo dell’orrore, ma non possono tornare per raccontarlo. Nell’acutissimo saggio di Levi, sua opera ultima prima del suicidio, emergono alcune tematiche fonda-mentali che l’Autore affronta da diversi punti di vista. Linee guida sono la memoria e il problema veri-tà/menzogna. Uno degli incubi ri-correnti dei prigionieri era quello del raccontare la loro storia e del non venire creduti proprio per l’enormità dei fatti narrati. Su que-sto rifiuto contavano gli stessi aguz-zini che, com’è noto, fecero di tutto per distruggere le prove della loro opera (i forni crematori furono fatti esplodere, gli archivi dei lager ven-nero bruciati negli ultimi giorni di guerra). Le domande essenziali che Levi si pone all’inizio sono: quanto di quel mondo è morto e non ritornerà più e quanto invece può tornare? E che cosa ciascuno può fare perché non vi sia que-sta possibilità?

“Il codice di Perelà”

di Aldo

Palazzeschi “Perelà è la mia favola più aerea, il punto più ele-vato della mia

fantasia”: così Aldo Palazzeschi definisce “Il codice di Perelà”, testo composto tra il 1908 e i primi mesi del 1911, pubblicato nello stesso anno con il sottotitolo “romanzo futurista”. Strutturato in diciotto capitoli, narra le vicende di Perelà, uomo fatto “d'una materia diversa da quella di tutti gli altri uomini”, composto di fumo e venu-to fuori dal fuoco di un camino, costantemente sorvegliato da tre vecchissime madri, Pena, Rete e Lama. Uscito dal camino all'età di trentatré anni, l'omino di fumo s'in-cammina per il mondo e giunge al regno di Torlindao, dove viene bat-tezzato Perelà dalle iniziali dei tre nomi che continua a ripetere osses-sivamente. Esaltato ed ammirato come un essere eccezionale, purifi-cato dal fuoco di qualsiasi interesse e di qualsiasi egoismo, viene addi-rittura incaricato dal Re di redigere un nuovo Codice che risolva i pro-blemi lasciati insoluti dalle leggi “decrepite e grinzose” in vigore fino a quel momento. “Il codice di Perelà” è dominato da una dichiara-ta ricerca di “leggerezza” verbale e strutturale, che porta al sovverti-mento dei canoni tradizionali del romanzo. Il procedere narrativo è affidato ad una successione di scene o quadri dialogici, in cui i fatti sono presentati attraverso i molteplici punti di vista dei personaggi. L'ef-fetto comico e parodistico deriva soprattutto dal linguaggio: l'autore insiste sui giochi lessicali e adotta registri diversi a seconda dei perso-naggi, ridotti a pure voci, semplici discorsi diretti, disposti in un dialo-go corale fittissimo ed incessante. ”Il Codice di Perelà” è un'opera estrema ed eccentrica, in equilibrio tra libera creazione e allegoria, tra favola e realtà.

“Introduzione al futurismo”

di Giovan Battista

Nazzaro Il futurismo vie-ne presentato, in questo testo, nei suoi molteplici

aspetti in una sintesi originale: arte e vita, il mito della guerra, futuri-smo e politica, la poetica della mac-china, l’estetica della velocità, l’ot-timismo futurista… Giovan Battista Nazzaro, nato a Montesarchio (Bn) nel 1933, ha fatto parte del “Gruppo 70” e si è occupato a lun-go delle avanguardie storiche e in particolare del Futurismo. Ha scrit-to, oltre ad Introduzione al Futuri-smo, numerosi saggi sulla cultura del primo Novecento in Italia. Ha scritto inoltre Marinetti e i futuristi (1979, con S. Lambiase) e Dibattito con il poeta (Ilitia, 1998). In edi-zione Avagliano: L’odore della guerra. Napoli 1940-45 (2002, con S. Lambiase). Afferma l’Autore nella Premessa: “…il futuri-smo, nonostante tutti i suoi difetti e le remore politiche ed ideologiche che lo accompagnano fin dal prin-cipio, rimane un punto nodale dell’-arte del XX secolo, e non solo dell’-arte italiana…” Collana “Il sagittario” diretta da Edoardo Sanguineti. Guida Editori (1973) L. 3.500

Primo Levi

I futuristi a Parigi (1912) Da sinistra a destra: Luigi Russolo, Carlo Carrà, F.T.Marinetti, Umberto Boccioni, Gino Severini.