NR.17 PROFUMO

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Numero 17 della rivista "La Luna di Traverso" dal titolo PROFUMO

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CHI SIAMO

DIRETTORE Massimo Carta

VICE DIRETTORE Guido Conti

ORGANIZZAZIONE E COORDINAMENTO Mariella Toscani - Responsabile Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia

REDAZIONE Silvia Bia, Enrico Cantino,Simona De Blasio, Lucia Gambetta, Roberta Gatti, Armando Minuz, Federica Pasqualetti,Federica Sassi, Denis Zuliani

RELAZIONI ESTERNE Andrea Cirillo

IDEAZIONE GRAFICA Alessandro Berti

REALIZZAZIONE Simone Pellicelli

STAMPA Mattioli1885 - Fidenza (Parma)

PROMOZIONE E DISTRIBUZIONE PDE - Promozione Distribuzione Editoriale

LALUNADITRAVERSO Anno 7 - Numero 17Monte Università Parma Editore - Vicolo al Leon d’Oro, 6 43100 Parma

INFORMAZIONI Per collaborare alla rivista scrivi all'indirizzo [email protected] oppure telefona all’Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia (Via Repubblica, 29 - Palazzo Pigorini 43100 Parma, [email protected]. 0521/384469-70).

Il giudizio e il lavoro editoriale della redazione sono insindacabili e accettati implicitamente.

Gli autori pubblicati riceveranno due copie in omaggio.

La Luna di Traverso è sostenuta dall'Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia e dall'Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità del Comune di Parma.

www.lalunaditraverso.it

Scatto di copertinaDeborah Marini

Incipit d'autore 6Profumo di Luigi Capuana

Racconto d'autoreGli occhi di mio padre 8Testo di Daniele Cobianchi

Analisi del sangue 10Testo di Erika Morgagni

Cannella 12Testo di Alfredo Goffredi Eau de précarité 14Testo di Ubaldo Spina

La mitica anatra migrante 16Testo di Gianandrea Caruso

La salvezza 18Testo di Andrea Cirillo

Le viole 21Testo di Pietro Iannibelli

Mele e mandarini 24Testo di Marina Sangiorgi

Milano-Bergamo 26Testo di Paolo Tanzi

Pro fumo 28Testo di Alberto Calorosi

Tempo di vendemmia 30Testo di Adriano Marchetti

RUBRICHE

Parole, soltanto parole, parole tra noi... 32Testo di Enrico Cantino

Il Paradosso Sacro del Naso 34Testo di Federica Pasqualetti

Biografie 37

MUPMonte Università Parma

E D I T O R E

SOMMARIO

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Archivio Giovani Artisti di Parma e ProvinciaComune di Parma

Nel 1985 esce un romanzo destinato al successo. È Il Profumo di Patrick Süskind; la storia di Jean-Baptiste Grenouille, un uomo senza profumo, alla spasmodica ricerca d’una fragranza capace di far innamorare. Che il profumo sia in grado d’influenzare la vita delle persone lo hanno capito già da tempo gli esperti di marketing. Hanno installato diffusori d’odore di frutta fresca negli ipermercati e brevet-tato il “profumo di macchina nuova”, per dare ai proprietari di un’auto attempata la sensazione di guidare berline nuove di zecca. Il giapponese Yasuyuki Yanagi, dell’Advanced Telecommunications Research Institute di Kyoto è addirittura arrivato a progettare un cannone spara fragranze, capace di direzionare il getto di profumo direttamente verso il naso del consumatore.Giunta al numero 17, anche La Luna di Traverso vuole esplorare il mondo dei profumi. Non preoccu-patevi: non cercheremo di vendervi un suv o una cassetta di papaya, però sappiamo che sfogliando le pagine sentirete ancora una volta quella piacevole essenza di carta stampata. Se poi non vi limi-terete ad annusare, riuscirete a cogliere aromi ben più profondi. Sono i profumi dei racconti, delle foto e delle illustrazioni, che come una madeleine avranno il compito di portarvi in altri luoghi e in al-

tre storie. È questo uno degli aspetti importanti della letteratura: dilatare l’esistenza donando vite parallele ed aiutare a capirla.Qualche tempo fa, una rivista di di-vulgazione scientifica sosteneva che alcuni ricercatori americani stessero cercando la ricetta per il profumo perfetto. Dalla miscelazione di “buo-ne fragranze innate” – ovvero quegli odori capaci di suscitare in tutti pia-cevoli sensazioni – sarebbe possibile creare un’essenza capace di portare alla felicità. È passato più o meno un anno, ma non è accaduto nulla. Forse dobbiamo accontentarci dei modi tradizionali per essere felici. Riteniamo che in questa “ricerca del-la felicità” possa esserci anche, nel suo piccolo, il progetto della Luna di Traverso: non per presunzione, ma perché è socialmente necessario sognare, e la letteratura aiuta a farlo. Si può vivere bene anche senza un suv e perfino senza aver mai assag-giato una papaya, ma una vita senza sogno è una vita a metà. Tanti Gre-nouille, senza profumo.

Archivio Giovani Artistidi Parma e Provincia

Comune di ParmaIllustrazione di Francesca Carta

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Un altro numero dedicato alle percezioni, o meglio alle ripercussioni – più o meno dirompenti – che provocano nella mente umana. Questa volta è di scena l’olfatto. Non si è trattato di una scelta in-conscia: era uscito da poco al cinema il film tratto dal romanzo Il profumo di Patrick Süskind (del quale, fra l’altro, vi consigliamo la lettura) e non ci sembrava una cattiva pensata cavalcarne l’onda. Però non è da quest’opera che abbiamo ricavato l’incipit d’autore. Sarebbe stata una mossa troppo scoperta. Abbiamo preferito buttarci su un romanzo di Luigi Capuana, intitolato – ma tu guarda la combinazione – Profumo. Vi si narra di una donna la cui pelle, per chissà quale fenomeno chimico-nervoso, emana una insolita fragranza di zagara.Anche questo bando andava interpretato nell’accezione più ampia del termine. Non solo olezzi e aromi, quindi, ma pure effluvi legati all’idea di sgradevolezza. Ci interessava, più che altro, verificare l’utilizzo dell’olfatto quale strumento di conoscenza del mondo, reale oppure fittizio. Una modalità di confronto con i dati esterni che prende spunto dalla mera sensazione corporea per finire in quei territori tanto più interessanti quanto più inesplorati. È l’elaborazione delle informazioni che affasci-na, non la loro raccolta. Quello è soltanto il primo passo.A rompere il ghiaccio pensa Erika Morgagni, che ci parla di analisi del sangue dall’esito a dir poco singolare. Ne è venuta fuori una scrittura talmente ricca di echi e suggestioni, che nella consueta rubrica laboratorio abbiamo deciso di parlare proprio del suo racconto. Subito dopo, tocca ad Alfre-do Goffredi, che ci propone una storia probabilmente ispirata ai racconti di Edgar Allan Poe. Non vi diciamo altro, per non togliervi il gusto e la sorpresa della lettura. Ubaldo Spina se la gioca tutta sul monologo di un tizio ghiotto di biscotti dal nome strano. Con lui, il profumo si fa metafora di una particolare condizione umana molto in voga di questi tempi. Gianandrea Caruso si confronta, invece, col mito del viaggio, affrontato con ironia e virtuosismo linguistico. Con il nostro affezionato Andrea Cirillo si cambia ulteriormente registro: c’è un legame tra profumo e meditazione, tra aroma e magia dell’infanzia, tra anima e salvezza. L’io narrante di Pietro Iannibelli, ci rivela, con il consueto incanto linguistico che, spesso, un odore può essere la porta per nuovi e preferibili mondi. Mentre Marina

Sangiorgi ritrae, con pochi ed ef-ficaci schizzi, gli estremi cui può giungere una psiche saccheg-giata dalla follia. Subito dopo, ecco il felice ritorno su queste

pagine di Paolo Tanzi, capace di regalarci un noir felicemente tinto della solita pungente ironia. Al suo esordio assoluto su carta, Alberto Calorosi, di stanza a Berlino, ci elargisce una perla di saggez-za condivisibile nella sua schietta sostanza. In chiusura, Adriano Marchetti ci racconta di un nonno alla prese con dolorosi ricordi, legati chiaramente a sensazioni olfattive. Ai nomi appena passati in rassegna si unisce il parmigiano Daniele Cobianchi, che nello spazio dedicato al racconto d’autore, contribuisce con uno scritto che colpisce per efficacia, ironia e pulizia. Undici racconti, come vedete. Non di più. Non avrebbe senso. La quantità non va molto d’accordo con la qualità. Provate a respirare per mesi e mesi la stessa roba. Poi vi viene la nausea. Nella più rosea delle ipotesi, naturalmente.

E D I T O R I A L E

Scatto di Ludovica Pedersoli

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Incipit d'autore

«Ascoltami, non sdegnarti!…»Ma egli la interruppe; e, presala pei polsi, portò le care mani alle labbra: «Sono diacce!»«Ascoltami» ripeté Eugenia, senza tentare di ritrarle «Quando tu, col viso di chi dà una cattiva notizia, venisti a dirmi: “Ufficio e alloggio sono in un convento!” te ne ricordi? Io ne fui così contenta, che tu mi guardasti stupito. Non ti ho mai spiegato il perché di quella mia contentezza. Voglio dirtelo ora. Pensai subito: “In un convento saremo più liberi che non nella piccola casa di Castroreale, o in qualunque altra”. E di mano in mano che tu me lo descrivevi, immaginavo le nostre future scappate pei corridoi, per la selva, per la terrazza, senza la continua sorveglianza della mamma, che mi pareva inceppasse ogni tuo movimento e metteva in disagio anche me… Nelle prime settimane fu proprio così. Avevo fin dimenticato le cattive impressioni di Castroreale. Ma la mamma non tardò molto a riprendere il suo primo contegno. Qui, in un edifizio così vasto, doveva apparirmi più chiara l’avver-sione di lei, perché qui si vedeva benissimo ch’ella faceva ogni cosa a posta, per farmi dispetto, per farmi capire…»«No! No!», disse Patrizio, baciandole ripetutamente le mani.«Che guardi?», domandò Eugenia, vedendolo fermare all’improvviso. «È strano…» egli rispose. «Si direbbe che tu te le sia stropicciate con la zàgara… Ma non è la stagio-ne. Hai forse un profumo di fiori d’arancio?«Lasciami sentire…»Ella voltava e rivoltava le mani, odorandone la pelle come un fiore.«È vero: pare che io abbia toccato della zàgara e che me ne sia rimasto l’odore… Si avverte appena però…»«Anzi, al contrario! Senti?… Anche ai polsi…» soggiunse Patrizio.E tirò in su, curiosamente, una manica di lei fino al gomito.«Pure al braccio!» esclamò, meravigliato. «Senti, senti!»Eugenia si strinse nelle spalle: «Sarà stata la lavandaia, che avrà voluto profumarmi la biancheria…»«Può darsi.»

Luigi Capuana, Profumo, Milano, Armando Curcio Editore, 1977, pp. 52-53

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Scatto di Matteo Varsi

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Il taxi era del quaranta quaranta. La piazza, Cadorna.Il taxista, del quindici diciotto. Entro con la fretta di chi ha lasciato nella toppa le chiavi di casa e fa un’inversione di marcia da cinque punti di patente. Un cappello alla Mastroianni spunta dal poggiatesta come il sole al mattino. Le mani aggrappate al volante, neanche sotto ci fosse un dirupo. Dalle casse mono, un greatest hits di Casadei, non quello di oggi, del liscio-rap-tecnologico del figlio, quello di Raoul col cadaverico cantante biondo: la musica solare. Il profilo del taxista è brullo e crepato come la strada di sabbia che porta al Ciringuito Giallo. L’occhio, il destro, appena si intravede da quella fessura dimezzata dagli anni, caduca e ripiegata su se stessa, eclissata dalla stanghetta degli occhiali. Si gira alla moviola, goffo in quel piumino trapuntato: «Dove andiamo?» Dice con la voce scavata ed esile, come se ogni parola gli costasse un trasloco. «Via Melchiorre Gioia 45!» Rispondo autorevole, di diaframma, mentre distendo l’impermeabile per non farlo sgualcire.Mette la prima, in due tentativi. Guarda a destra e a sinistra e parte. L’auto sbuffa. La frizione vince sul piede e il piede fa quel che può. Un clacson da dietro è già stato premuto, puntuale come un treno di Tokio. Prendo il telefonino e scrivo un sms: «stasera ape?» Poi l’agenda, dove appunto due rotture di coglioni prima di dimenticarmene, e poi guardo le date dei weekend da lì al mese successivo, pensando alle lamine da rifare e a quegli scarponi che mi bloccano la circolazione. Apro la valigetta e riprendo in mano gli appunti scritti la notte, col tazzone di caffè, un ripasso veloce: «Non posso sbagliare.» Sistemo poi il nodo alla cravatta e i calzini con due stiracchiate, anche se – si sa – gli elastici dopo tre lavaggi mollano. Un rapido controllo al cronografo e un’aggiustatina al ciuffo. La lingua passa tra i denti; i croissant della Sissy fanno paura, ma ti s’infilano dappertutto.Sono pronto, so che li stendo.Alzo la testa, e guardo fuori dal finestrino. Nel seguire le gambe anoressiche di una modella ceca o di un generico Est, mi accorgo che eravamo a nemmeno cento metri dall’agone inguardabile, quello che sembra infilzare Milano, ancora in quella fottutissima piazza. Casadei snocciola, forse, la settima ballata a tre quarti. L’irritazione mi risale dalla pancia e in bocca, pronte a mitraglia, parole di fuoco sgomitano per uscire. Fisso di colpo il taxista, negli occhi dello specchietto retrovisore. Mi avvicino allo schienale, perché voglio che mi senta quel rimbambito, anche se è sordo, e gli metto il fiato sul collo. Ma dal mio naso risale il profumo di una schiuma da barba amica, amata, perduta. E adesso quegli occhi riflessi e ingranditi dalle lenti, affaticati e stanchi, scrutatori e indecisi, sono gli occhi invecchiati di mio padre. Occhi vecchi che non vedrò. Occhi giovani che non vedranno. «Pronto signorina, può dire che ritardo mezz’ora?»

Gli Occhi di miO padreRacconto d'Autore

Testo di Daniele CobianchiScatto di Ludovica Pedersoli

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Testo di Erika MorgagniScatto di Marina Rossi

«L’ha sognato di nuovo?»I sogni sono come le impronte digitali della notte. Anche se ti lasciano dei segni dentro, non sai mai dove trovarli quando ne hai veramente bisogno. «Ho dormito in albergo, questa notte. Può darsi. Perché me lo chiede?»Negli alberghi i sogni hanno anche un indirizzo. Per questo ci vado quando non riesco a dormire. I sogni negli alberghi hanno un piano e un numero civico e quando se ne vanno, magari, prendono anche l’ascensore: per uscire più in fretta dalla mia testa e andare via dai corridoi con la moquette consumata, dalle tazze di caffè troppo lungo, dalle cameriere con l’aspirapolvere.«I sogni sono importanti. Lo sa questo, vero?»La mia testa non è allenata a ricordare. I miei non sono ricordi sportivi che riescono a correre tra un pensiero e l’altro. Non hanno mai vinto nessuna gara. Sono appesi da qualche parte: nel cervello, nella memoria, nelle idee. Sono appesi su qualche filo sottile che tutti abbiamo in testa.«Sì, penso di averlo sognato di nuovo.»Non sono sicura. Forse è una bugia: un pacchetto di parole che sto confezionando proprio adesso. Con un bel fiocco rosso. È per questo che si parla, a volte, credo. Per fare confezioni di parole che possano bastare agli altri per un po’ di tempo: un giorno, una settimana, un mese.«Me lo racconti di nuovo. Anche un dettaglio può essere importante.»

I dettagli non esistono. Esiste lo sfondo. Esistono le cose che ti stanno dietro e che sono troppo lontane per essere ricordate.«Mi alzo, mi lavo i denti e parto con la mia macchina per andare in ospedale.»Non mi piace parlare dei miei sogni. Non mi piace confezionarli come fossero pacchi di Natale. I sogni non li puoi scartare.«Vada avanti.»Il mio sogno mi sembra incastrato da qualche parte, tra le molle del materasso troppo morbido che fa rumore quando mi muovo, tra le piume d’oca del mio cuscino ergono-mico, tra le pieghe delle lenzuola con l’orlo scucito.«Quando arrivo in ospedale si avvicina un uomo. È un medico. Ha un ago in mano.»L’ho raccontato troppe volte. L’ho quasi cantato, il mio sogno. Come il ritornello di una canzone che non vuole uscire dalla testa, ma solo dalla bocca. Come il ritornello di una canzone trasmessa su tutte le radio che ti ritrovi a dover cantare per forza. Sotto la doc-cia, in macchina, al cinema. Dappertutto.«Capisco che sono andata in ospedale per fare le analisi del sangue, allora mi alzo la manica della maglia e chiudo gli occhi.»Gli occhi, però, in un sogno non si chiudono mai veramente: li puoi chiudere una volta sola, quando ti addormenti e ti dimentichi tutto. Tutto quello che ti serve di giorno: il corpo, le mani, le braccia, le dita.«Vada avanti.»Sembra una gara di ricordi. Il ricordo che arriverà per primo vincerà una coppa, una fascia. Forse un pacchetto di parole ben confezionate.«Sono spaventata. Ma appena inizia il prelievo, il dottore comincia ad urlare. E allora apro gli occhi.»Vorrei bere qualcosa di fresco, adesso. Qualcosa che possa agitare i pensieri e farli di-ventare come una lattina di Coca Cola appena aperta. Vorrei rovesciare le mie parole da qualche parte e guardarle, gassate e piene di bollicine.«E cosa vede?»Vorrei parlarle della mia sete. Vorrei bere tutto: il mondo, la stanza, l’acquario con i pesci rossi, la scrivania. Tutto. Ma i sogni vengono prima dei desideri, della sete, delle lattine di Coca Cola. La notte conquista il giorno, a volte. «Vedo che nelle vene non ho sangue rosso, ma un’altra cosa.»Le vene. Mi piacerebbe percorrerle qualche volta con la mia macchina. E guardarmi intorno per capire se anche lì dentro esistono i chilometri e i limiti di velocità.«Me lo dica, cosa ha visto. Le parole sono importanti.»A

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Vorrei parlare con il pensiero, adesso. Per risparmiare fiato, saliva, sudore, alito. Vorrei trasmettere come un televisore, una radio, un’antenna, una parabola che pende sul tetto di qualche casa popo-lare.«Profumo. Al posto del sangue, nelle mie vene scorreva profumo.»Sento un respiro interno. Qualcosa inizia a muoversi da qualche parte. Il respiro affaticato di un pen-siero che comincia ad allenarsi per diventare più forte. Perché anche i pensieri hanno i muscoli, a volte. «E lei? Che reazione ha?»Non sono stupita. Ho sempre saputo che il profumo può scorrere anche dentro. Perché il profumo non è solo odore. È qualcosa di diverso. Non te lo spruzzi solo sui polsi, sul collo, sui capelli. A volte ti scorre dentro, tra un globulo bianco e uno rosso.«Secondo lei cosa significa?»E poi io sento anche il suo, di profumo. È uno di quelli alle erbe aromatiche che ti fanno sentire sem-pre in mezzo ad un prato, tra le formiche rosse, gli insetti e qualche fiore non appassito. «Non saprei.»I sogni non li puoi tradurre. Parlano una lingua diversa, come un turista straniero con lo zaino troppo pesante sulle spalle e la barba lunga, che gesticola per farsi capire. Sono ospiti stranieri, i sogni. Vivo-no tra il cuscino, il materasso, la trapunta e le lenzuola di un hotel con troppe abat-jours. «Questo profumo che scorre nelle sue vene al posto del sangue, sembra un chiaro segno del rifiuto che lei nutre nei confronti della sua, possiamo dire, natura umana.»La natura umana non esiste. Esiste solo la natura e tutti quelli che ci vivono. In mezzo, sotto, sopra, dentro. E anche questo studio e questo palazzo e questa sedia e questa scrivania ci stanno in mez-zo, alla natura. Solo che ce la fanno sentire lontana. Come un’isola, un bosco, una monta-gna troppo alta. «Può darsi.»Voglio solo fare un giro in profumeria, per mescolare sui polsi tutti i profumi che trovo e farmi girare la testa e farmi aromatizzare. Un profumo non si espande solo nell’aria di una stanza, di un palazzo, di una piazza: è come un pugno odo-roso che ti passa attraverso il naso e ti arriva direttamente al cervello e cambia tutto. Il san-gue, le vene, le idee. Tutto. «Se farà di nuovo questo so-gno, si ricordi di prendere qualche appunto.»Non voglio scriverlo, il mio so-gno. Ho solo bisogno di essere aromatizzata, come una torta, un pasticcino, un bicchiere di vino. I profumi ti passano attraverso il naso e si tuffano dentro di te e trovano una pi-scina senza corsie numerate e bagnini troppo muscolosi che non sapevi di esserti scavata dentro. Ti nuotano dentro, i profumi. Alla fine ti aroma-tizzano. I pensieri, i ricordi, le idee. Anche le vene.

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Il giorno del loro matrimonio Mary e Leonard si erano giurati amore eterno: finché morte non ci se-pari.Il giorno in cui Mary si accorse che Leonard la tradiva con la nuova segretaria, circa dieci anni dopo che quelle parole avevano riempito il silenzio della vecchia chiesa di St. John, decise di andarsene di casa. Lui non cercò nemmeno di difendersi, tanto meno provò a motivare il proprio gesto. Non riusci-va a far altro che sentirsi sporco. Quell’incrostazione sulla sua anima faceva da scabroso contrappeso al delicato profumo di cannella che avvolgeva il corpo e gli abiti di Mary, che amava quel profumo quasi quanto amasse lui. Fu anche per questo motivo che, nel sentirlo di continuo anche dopo la partenza della moglie, Leonard non riusciva a togliersi dalla mente quel pomeriggio, nemmeno con il più grande degli sforzi. Gli occhi di Mary, che lo trapassavano con un misto di delusione, disgusto e disperazione, lo avevano colpito a tal punto da essere l’ultima cosa che riuscisse a ricordare di quella situazione, mentre il suo «Addio» scuoteva la stanza, piombata di colpo in un silenzio artificiale.Non la rivide più, ma quel profumo tornò ogni giorno a tormentarlo, a ricordargli il suo errore, la sua bassezza; e gli occhi di leiUn mercoledì di gennaio non più freddo di molti altri, Leonard si alzò, come tutti i giorni, per recarsi al lavoro. Un inizio duro, perché da intere settimane era rimarcato dal forte profumo di cannella che impregnava la stanza.«Si dev’essere rotta una boccetta di profumo», pensava Leonard ogni volta.Oppure: «E se lo avesse fatto apposta per farmi sentire una merda? Per farmi ricordare di lei. Per farmi soffrire». Ma questo lo pensava più raramente. Insomma, ogni giorno della sua vita veniva accompa-gnato da quel profumo. Pochi giorni dopo, aveva iniziato a seguirlo anche fuori dalla camera da letto, invadendo gradualmente tutta la casa. Ne era esasperato al punto che decise di metterla in vendita e cambiare vita. Nuova casa, nuovo lavoro. Nuova famiglia. Forse. Si mise così in contatto con un’agen-zia immobiliare che, stando a quanto gli disse Mark, il giovane impiegato che prese la sua chiamata, si sarebbe preoccupata di trovare un compratore.Passarono diverse settimane. Ancora nessun acquirente. Leonard, che ormai non usciva più di casa, non riusciva a spiegarsi un simile comportamento: si chiedeva se la colpa potesse essere del profu-mo, che nel frattempo si faceva ogni giorno più forte.In una tiepida sera di fine Marzo, Peter Grey suonò alla porta di Leonard, visitò la casa e se ne andò dicendosi interessato all’acquisto. Quella stessa sera Leonard, soddisfatto della piega che stava pren-dendo la sua vita, decise di uscire per farsi un giro in macchina. L’interno della vettura era impregnato di quel profumo. «Me l’hai davvero fatta grossa, Mary», disse sedendosi al posto di guida, «ma non importa. Appena comincerà la mia nuova vita venderò l’auto e ne comprerò una nuova. Chissà che a Mr. Grey non ne serva una».Guidò per la città finché non gli venne fame. Si fermò ad un fast food dove una giovane commessa carina gli consegnò, alcuni minuti dopo, il sacchetto contenente il menu da lui ordinato. Si sedette su una panchina e fece per addentare il suo double whopper.Cannella.Il panino odorava di cannella. La stessa carne ne odorava. Si annusò le mani, pensando che potesse-ro aver trasportato quel profumo dall’interno della casa o dell’auto. Poi annusò l’interno del sacchet-to, senza toccarlo, solo per scoprire che anche quello odorava di cannella. La stessa bibita che aveva

Testo di Alfredo GoffrediScatto di Deborah Marini

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ordinato odorava di cannella, così come la panchina su cui era seduto, la suola delle sue scarpe, il cestino dell’immondizia a pochi passi di distanza. La stessa aria portava con sé quel profumo, come se lo stesse inseguendo; come fosse dappertutto. Pochi istanti dopo, stava guidando verso casa, deciso a farla finita.Parcheggiò nel cortile, senza troppa premura. Prese la tanica con la benzina che aveva nel baule dell’auto e si diresse verso l’ingresso. Avrebbe dato fuoco alla casa, a tutto. «Quella stronza deve averla maledetta… ho sempre sospettato che fosse una strega», delirò.Non si stupì di trovare la porta aperta. Doveva aver scordato di chiuderla mentre usciva. Si stupì mag-giormente nel trovare in casa Peter Grey insieme ad un gruppo di agenti di polizia, intenti a rovistare in ogni angolo della casa.«Mr. Grey, che sta succedendo qui?»«Tenente Grey», disse l’uomo mostrandogli il distintivo.L’attenzione di Leonard fu rapita da un forte rumore di legno spaccato, proveniente dalla camera da letto. Vi si precipitò, mollando la tanica, che cadde fragorosamente sul pavimento, rovesciando parte del suo contenuto su un vecchio tappeto grigio.Fu bloccato sull’ingresso da un agente che gli piegò con violenza il braccio destro dietro la schiena e lo spinse contro il muro. Notò che tutti i presenti indossavano una mascherina; anche Grey.«Che state facendo? Che bisogno c’è di quelle? Capisco che il profumo sia forte, ma…»Non riuscì a finire la frase: l’ufficiale lo interruppe bruscamente.«Profumo? Ci sta prendendo tutti per idioti?! Questa casa puzza di cadavere più di un obitorio!», ringhiò.Gli occhi di Leonard erano vuoti e inespressivi. Lo lasciarono libero, avanzò barcollando verso una voragine aperta dagli agenti nel mezzo del pavimento. Crollò sulle ginocchia, preso dal terrore e dal-lo smarrimento quando, riverso nella fossa, vide il corpo di Mary, orrendamente straziato da una frat-tura al cranio e da quello che si sarebbe detto il risultato di un lungo periodo di decomposizione. Com’era forte, il profumo di cannella…

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Testo di Ubaldo SpinaScatto di Deborah Marini

Oggi ciambella. Domani forse, non so. Passerò a comprare gli Oswego a 0,79. Oswego… che nome, per un biscotto. Sembra una costel-lazione. Passano le immagini di una criniera. Non voglio ascoltare, non mi interessa. Meglio la successiva vergine, tanto non mi appartiene. Ho sentito, con la coda dell’orecchio, semmai un orecchio come l’occhio abbia una coda. «Novità importanti», dicono, prevedono, spac-ciano. La ciambella è buona. Anche bella, ora che ci penso. Riuscita con il buco. Non sempre riesce. Come i progetti. Non tutti riescono. Preparo la mia corsa verso l’ufficio. Oggi non sarà una corsa, ma una maratona, lenta. Vo-glio annusare la scia sulla quale per mesi ho sciato, senza nemmeno ricordare l’odore del-la bandierina che mi lasciavo alle spalle. Sarà una maratona: quarantadue chilometri di domande sull’esito della prossima battaglia. Una guerra che dura da mesi, arruolato trion-falmente e congedato silenziosamente. Di qua e di là. Il cassetto dell’ufficio puzza di vaniglia. Tè alla vaniglia che andava preparato mesi fa. Volevamo comprare il bollitore. «A cosa mi ser-virà più un bollitore?», penso. Il desktop è sem-pre impostato su colline dolcemente ondulate in campo azzurro. Boccetta di Irlanda, sembra. Chiudo quello che posso chiudere.Attendo che qualcuno mi chiami dall’area RU. In questi ultimi tempi sembra lo sbocco pre-ferito dai laureati in psicologia. Hanno fiutato il business del decennio. Come se, più che se-lezionatori e profili gestionali, servissero per-sone in grado di prepararti all’uscita di scena, senza drammi. Come se tornare in mezzo alla strada, come se tornare a fregiarsi di un dis, come se… chissà, forse. Questa scrivania è sta-ta sempre pulita. Ricerca maniacale dell’ordine. Onore alla ISO di turno per la qualità aziendale. Da domani riaffiorerà l’essenza di bilaminato. Il vuoto è indice di una strategia errata. Il vuo-to non si sente e questa volta non è neanche mezzo. RU sta anche per rifiuto urbano e se ci aggiungi una S in mezzo, rispettando l’ordine

alfabetico, diventa Rifiuto Solido Urbano. Il rifiuto dopo alcuni giorni diventa fetido, so-prattutto l’organico. I vertici sentono quindi odore di masse organiche scadute. Scadenze, siamo, da consumare preferibilmente entro e non oltre. Non ci sono tappi sui quali leggere, o fondi di bottiglia. Almeno saremmo più pre-parati. Potrei giocarmi al lotto, immaginarmi in un ambo fatto di nero e di sommerso. Par-ziale profumo di vittoria. Non avrò possibilità di contrattare. Inebriato dalla soddisfazione di aver fregato lo spasso anche questa volta, per altre vie, per nuovi determinati. Eppure «deter-minato» è un bel termine. Ha il suo valore. Chi si appropria di questa qualità dovrebbe fare strada, ma non funziona se anteponi il tempo. Tempo è contenuto in anteponi? Problema enigmistico, come questo lungo periodo post-laurea. Fragranze sparse di incertezza. Muffe umide nel cervello, purtroppo, esalano inca-pacità di costruire. Una fatica stabile. Le otto ore stanno per finire. Mi guardo at-torno. Metto il naso dappertutto. Sensi come strumenti, sensazioni quelle che raccolgo. Il collega mi guarda come fossi bloccato da tre chiodi. Sanguinanti. «Mi spiace, siamo tutti nella stessa discarica», sembra dire. Ma il tanfo lo sento solo io. Lui ha una bella mascherina. A vita. Carnevalata perfetta. Saluto tutti. Mi assenterò, ma non vi verranno richieste motivazioni. Servizio, Personali, Ma-lattia. Da domani sono libero. Libero di sceglie-re. Libero di essere scelto. Sentore di ennesimo colloquio. Trepidante attesa per una mamma delusa. Fastidiosa rendicontazione verso una ragazza poco fiera. Di te. E che moglie non sarà mai, probabilmente. Quale futuro? Sono arrivato. Sfinito, come Filippide, mi accascio. Ascelle graveolenti. Neanche il corpo colla-bora. Ultime briciole in dispensa. Ciambella.. Domani, Oswego. Coperte da riscaldare. Inter-ruttore. Buio. Sonno. Sogno. Si sente un olezzo lontano che viene… che corre nel piano. Eau de Précarité.

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Schierate in due righe compatte, avanzavamo con precisione, tutte guardando il sole: in qualche minuto eravamo in formazione di decollo. Qualcuna cominciava ad abbassare gli occhiali paravento, altre stringevano il laccio del caschetto di pelle. Aguirre, dei maschi, rendendosi visibile e udibile a tutti, riepilogava le informazioni sulla rotta: «Anatre, anche quist’anno ha inizio per noi lo lungo volo verso la primavera continentale, verso una nuova timperatura, per noi e per i nostri figli. Poche le raccomandassioni, ma importanti: rotta Nord, Nord-Est, rispettate la formassione, non distraetevi troppo per parlare con le vostre vicine, attente ai bracconieri nelle zone di piricolo, attente a non finire in un reattore. Si avete incertesse sulla rotta, mantinete il controllo e ceircate subito col naso il profumo del tiepido vento di Marzolino, nostro vero nocchiero nel viaggio. Coordinate olfattive: 50% Agrumi, 22% Gelsomino, 15% Patchiuli, 10% Cipressi, e un 3% Antrax Vaiolenta. È tutto, in formazione, e permetitemi di farvi un augurio informale: in culo al Jumbo! Eh, eh!»Siamo partite.[«… Mainfondovediiononsareicosìdogmaticacoifiglicioè… illoromomentosìd’accordoperòsìmasìdevonodivertirsimadicoelaresponsabilitatrovareilcibotenerlisottocchiolasicurezz…»Siamo in volo da qualche giorno, traversiamo un mare di colore intenso. Nessun problema; il morale dello stormo: spensierato-appagato, il Marzolino è sotto le nostre nari, ci guida e ci solleva. Si discute del più e del meno.«…Poinontidiconédestranésinistramaquasicioèillivellodidisillusioneèalmassimoguardanonleggopi

Testo di Gianandrea CarusoScatto di Chiara Molinari

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ùneancheigiornaligiàmiangosciailtelegiornale… Nonhopiùtempoperleggere… Stotrattandoperunnuovonidoincentrotraqualch… TERRA!»Un triangolare lembo di superficie roccio-sabbiosa ci appare d’incanto alla vista. Zitte fissiamo quell’isola astratta a vedersi, così tangibile a odorarsi: Limone, Bergamotto, Arancio, Abete, Lavanda, Vaniglia planifolia, Eucalipto globulo, Tabacco, Spezie, Miele, Muschio di quercia, Salvia Divinorum. Molte di noi sono evidentemente sconvolte, lo stormo ha uno sbandamento, qualcuna è svenuta o si è addormentata di piacere. Tipico, stiamo perdendo la rotta.Aguirre comincia a strillare: «Anatre, quista terra ci inganna, non esiste, con odori inibrianti nasconde infilicità per noi anatre e per ogni issere vivente. Occorre risistere alla tintazione, non per un’anatra, non per due anatre, ma per il bene dillo stormo intiero tutto. Anatre, coraggio perdio!»Mentre così parla, gli altri maschi con manovre spericolate recuperano le disperse e schiaffeggiano le incoscienti in caduta libera. Il panico è contenuto in un’ora, ma l’ordine non si ristabilisce finché non ci allontaniamo da quella terribile terra. Il vento è cambiato: «Attinzione: 35% Gelsomino, 20%Agrumi, 25% Elicrisio, 13% Cipresso, 7% Antrax Violenta.»]Perdemmo cinque o sei compagne, ma non ci fermammo. Si fece notte, c’era la luna e c’erano le nuvole, lo stormo preso dall’odore del gelsomino viaggiava con occhi socchiusi, sdraiato sulla corrente. Io non rimpiangevo l’odore di bergamotto, non ero impressionata dal mar di gelsomino, non attendevo la terra dell’elicrisio, e neanche la fine del viaggio, con quel nome iettatore: aspettavo la regione che odorava di cipresso, l’odore del raggio di sole pomeridiano attraverso le fronde. Tendevo la vista e l’olfatto, a cercarlo più intenso.[Oltrepassato il mare, sorvoliamo i campi di Elicrisio, pianta che sprigiona l’omonima essenza profumata, cagione di ebbrezza euforica per molte compagne. Morale alto; aria mite. I più piccoli si allontanano dalle madri per lanciarsi in picchiata o per fare le capriole, con grida preoccupate. Si cantano canzoni in coro.Lì c’è un muro di cipressi! E l’odore, sempre più forte! Lo stormo fissa l’alba all’orizzonte, io fisso i cipressi sempre più grandi, ci siamo quasi sopra, sono una strada, una che va in un’altra direzione, profumano di cipresso più di ogni altra cosa. Dicendo Odorano di cipresso più di ogni altra cosa, piego un’ala di qualche centimetro, sono già lontana, sfreccio impazzita in direzione ortogonale alla rotta, sento rassegnate le grida dello stormo: «Buon viaggio». Ho già visto un lago alla fine della strada, dentro un cimitero bianco che odora di cipresso.]Sono passati i decenni da quella che fu la prima e ultima migrazione della mia vita, e non ho più volato: la mia storia, con un esordio così corale e avventuroso, ha fatto presto a diventare solitaria. Non ho mai oltrepassato le mura del cimitero. Ora, dopo il lungo pomeriggio, è sera. Piango, sapete? Da qualche anno ogni volta che chiudo gli occhi faccio questo sogno:[4% Agrumi, 10% Gelsomino, 15% Elicrisio, 21% Cipresso, 50% Antrax Vaiolenta!Tempo ottimale. Sorvoliamo un mare addormentato.Lo stormo è fiducioso, siamo vicine alla meta.I primi a gridare sono i piccoli. È per il terrore.In pochi minuti, un odore violento, pioggia fittissima, ci sfiorano i fulmini, un vento furioso ci sbatte l’una contro l’altra. Nella pioggia, nel turbinio delle piume e delle penne, tutte abbiamo ormai visto avvicinarsi attirandoci a sé uno scoglio che sembra un monte, nero e lucido come il petrolio: a lampi si riflette nell’acqua. Un grido unanime si alza dallo stormo, prima che la formazione si rompa, nel panico. Qualcuna cerca tra le urla di tornare indietro, ma non c’è più niente da fare; molte si lasciano cadere come morte nel mare fumante. Aguirre, nel cielo rosso, guarda muto.Sono tutte morte, muoio anche io.]

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Testo di Andrea CirilloScatto di Cristina Mauri

Se non fosse per me, che sto seduto al terzo banco, questa chiesa sarebbe vuota. D’altra parte è quasi l’una: a quest’ora la gente è a tavola. Io non mangio da dieci giorni. Ho il viso scavato e fatico a reggermi in piedi. Fuori c’è un caldo infernale. È il 28 agosto e sembra di essere in bagno subito dopo la doccia. Qui dentro si sta meglio, anche se, nonostante la calura, ci sono delle candele accese. Ho sempre amato l’odore di cera. Mi ricorda i miei bisnonni.Non li ho mai conosciuti. Li ho sempre guardati attraverso una foto che stava appesa nella camera dei miei genitori e ora è appesa nel mio soggiorno. Avranno trentacinque, quarant’anni. Sono vestiti di scuro. L’abito della mia bisnonna arriva a coprirle il collo. È pieno di pizzi sul petto. Ha i capelli raccolti. Lui indossa un paltò, ha un paio di folti baffi ed è stempiato. Regge un giornale piegato in quattro, che entrambi guardano. Lo sfondo è neutro. Probabilmente è un’immagine scattata da un fotografo e loro erano in posa. Chissà, forse era un’occasione speciale. Il mio bisnonno aveva una bottega in Brianza. Era di buona famiglia e col tempo era riuscito ad ac-quistare diversi terreni tra Sirtori e Barzanò. Quand’ero piccolo passavo le mie estati in una casa che aveva acquisito in saldo di un credito. Era una grande corte gialla, dove il quarto dei bracci era una collinetta con gli orti e il pollaio, che chiamavamo «campagna» e dove io andavo spesso a giocare. Quella casa mi incuriosiva, ma al contempo mi metteva paura. Mi piaceva girare nelle sue stanze, quelle che ancora non erano state affittate, quelle dove un tempo dormivano e mangiavano fami-glie di sei, sette persone. Mi piaceva farmi raccontare la vita di chi in quelle camere ci aveva abitato davvero; non come me, che passata l’estate tornavo in città. C’era una stanza piena di candele. Di svariati diametri e lunghezze. Quasi consumate ed altre intonse. Bianche o gialle; qualcuna rossa. Ovunque. Nel camino, sulle mensole, sul tavolo, davanti la finestra, vicino al letto. Era una stanza chiusa, ma io, ormai, sapevo dove trovare la chiave. Bisognava prende-re quella lunga appesa alla porta del giardino, poi andare nello stanzino e prendere la terza chiave a sinistra, dopo quella della cantina. A differenza di tutte le altre non aveva legato un cartellino che dicesse cosa aprisse.Scattata la serratura, quando spingevo la porta sentivo subito un fortissimo odore di cera. Entravo e mi barricavo dentro. Le griglie erano sempre chiuse. Non le ho mai aperte: temevo che il legno si sbriciolasse dopo anni di incuria. Accendevo le candele, una ad una, coi cerini che tenevo sempre in tasca alla rinfusa.Era meraviglioso. Luce. Luce e ombre.Restavo delle ore. Giocavo con le ombre dei mobili, delle candele e dei candelabri. E con la mia, che ora era un gigante, ora un nano. Un guerriero, un mago, un ladro. Giocavo e raccontavo alla cera tut-te le storie che mi venivano in mente. Poi, quando sentivo mia madre che mi chiamava dal balcone,

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spegnevo velocemente le candele e me ne andavo.C’era una storia che più di tutte mi piaceva raccontare. Ai confini del nostro terreno, in fondo al frut-teto, c’era un cancelletto arrugginito. Oltre quel cancello, in una casetta nera, viveva una donna cat-tiva. Era una strega, ma senza scopa, gatto o cappello. Era una strega vera, che non sapeva volare, ma che possedeva un potere enorme: mettermi paura. Non potevo avvicinarmi al cancello del frutteto da solo. Quando mia madre mi mandava a prendere i lamponi dovevo farmi forza per non scappare via: farfugliavo delle cose a memoria, come delle preghiere. Ma quando ero nella stanza delle candele diventavo forte. Riuscivo a sorprendere la strega proprio nella sua casa e a privarla del potere di mettermi paura. Bastava non avere paura una volta, per non averne mai più. Vedendomi nella sua casa già sapeva che la sconfitta era prossima. «Il tuo sorriso sinistro non ha più effetto su di me», dissi. «Che cos’è questa puzza?», mi rispose con la sua voce stridula. «Cera. Il segno della tua sconfitta e quello del mio coraggio. D’ora in avanti, non sarai per me che una donna e la tua casa non sarà che una casa. L’odore di cera ti ricorderà di me. Ogni volta che sentirai questo profumo ricorderai la tua sconfitta.»La maga allora pianse accovacciandosi in un angolo. Uscii dalla casa. C’era una donna che mi guarda-va. Somigliava alla strega, ma era molto più bella e il suo viso non mi faceva paura. Da dov’ero potevo sentire il suo profumo. Sapeva di garofani. Mi sorrise e se ne andò. Udii un gran baccano. Era la strega che si sbarazzava di tutte le candele che aveva.Mi raccontavo spesso quella storia. C’erano varianti, certo, ma il finale era sempre quello: la strega che piange contro un muro, quella donna che mi sorride e poi di nuovo la strega che butta via le sue candele. E ogni volta che la raccontavo diventava sempre più vera, fino a che la mia paura fu dissolta e il cancello tornò ad essere soltanto un cancello arrugginito.Qualche anno più tardi, trovai fortuitamente una lettera del mio bisnonno alla mia bisnonna grazie a cui scoprii qual era la funzione di quella stanza piena di ceri. Ci facevano l’amore. Era il loro nido segreto. Le candele erano testimoni di quel rito d’effusione. Mi piaceva pensare che avevo vinto le mie paure grazie a quello. Grazie a quel sudore che si era deposto sui mobili a futura memoria d’una passione. In quella stanza che, in un certo senso, mi aveva generato.Poi vendemmo la casa. E con la casa gran parte dei ricordi, che rimasero sulle pareti, nei soffitti, sulle grandi mattonelle rosse del pavimento, a parlare agli estranei. Io portai con me una candela. Il giorno prima del rogito tornai nella stanza e le accesi tutte. Spiegai cosa sarebbe successo e dissi che ne avrei portato via una. Parlarono a lungo e alla fine fecero cadere la loro scelta su una candela rossa, quasi interamente consumata.Sono passati ventisette anni da quel giorno. È il 28 agosto e sono da solo in una chiesa. Non mangio da dieci giorni e sono magro come un chiodo. La paura è ritornata. È ritornata la strega. Ce ne ha messo di tempo, ma infine è tornata, più forte di prima. Lentamente si è insidiata in me la paura di vivere. Ho il terrore che il mio corpo ceda da un secondo all’altro, che mi scoppi il cuore, che il cervello mi vada in blackout. Non riesco più a lavorare, a mangiare, a dormire. Quando mi corico penso che potrei non rialzarmi: mi giro e rigiro nel letto e anche se prendo sonno è un sonno leggero, che spezza la notte in tanti risvegli. Sono qui, in questa chiesa. Nelle candele che circondano l’abside riconosco quelle di ventisette anni fa. In quell’odore di cera, l’odore di sudore dei miei nonni che fanno l’amore. Metto una mano in tasca. Estraggo un fazzoletto bianco. Lo spiego. Racchiude la candela rossa. Con le poche forze che ho, mi alzo e mi avvicino al candeliere. La accendo dalla fiamma di un’altra can-dela. La metto fra le altre. «C’era una volta…»E mi sento già meglio. «C’era una volta un uomo in una chiesa. Era magro e aveva paura. Prese una candela rossa dalla tasca dei suoi pantaloni, la accese e la mise in mezzo alle altre, ch’erano tutte bianche.«Mentre era chino, parlava a denti stretti, tenendo lo sguardo fisso sulla candela rossa. L’odore di cera gli entrava nei polmoni. «Poi si sentì un cigolio. Non era più solo. «Dei passi. Prima indecisi, poi forti. Diretti verso lui.«All’odore di cera si aggiunse quello di garofani.«Così l’uomo smise d’avere paura.»

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Io, Pietro Iannibelli, protagonista di questo racconto, vivo in un appartamento ombroso ed angusto, posto al piano terreno di un vecchio fabbricato del centro cittadino. L’appartamento è ombroso per-ché il sole, a causa degli alti edifici finitimi, di mattina non giunge mai alle finestre volte ad oriente, danti su un minuscolo cortile, mentre al tramonto non giunge alle finestre volte ad occidente, che af-facciano su un cavedio pure minuscolo. Ed è angusto perché è costituito solo da una piccola cucina, la quale è insieme il salotto, da un piccolo bagno e da una piccola camera da letto. In esso conduco la mia vita normalmente o, almeno, così ve la conducevo sino a quando non si manifestò l’arcano. Accadde tre o quattro settimane fa, al principio d’aprile. Mentre rileggevo la redazione definitiva di questo medesimo racconto (coronamento di una lunga fatica) e precisamente la frase: «[...] ed esiste l’universo, l’ispirazione dei poeti, l’amore repentino», sentii distintamente nell’aria, di tra il vivo odor di chiuso e di umbratile, un soave profumo di viola. Dapprima ne fui lieto, ma immediatamente poi, stornando i pensieri da ciò che leggevo (l’aggettivo «repentino» non mi persuadeva affatto), me ne allarmai. Da dove veniva quel netto profumo? Quale ne poteva essere la scaturigine? Non vi era fiore alcuno sia nella stanza in cui mi trovavo, sia nell’ap-partamento tutto, eppure ero sicuro del fatto che quella fosse proprio la fragranza di una comune viola primaverile. A tal proposito dico, in nuce, di essere nato e cresciuto in una casa dalle brocche e dai vasi perennemente propinanti fiori magnifici (quante volte, al risveglio, sentendo provenire dall’andito il profumo dei ciuffi di malva appena colti da mia madre, mi sono levato felice e felice ho vissuto!), ove non aleggiava olezzo se non floreale, ove ai muri erano appiccate ghirlande gialle di ginestra e ove si respirava non l’aria, ma l’emanazione dei petali freschi sorti o schiusisi al mattino (ogni mio ricordo, ahimè, pare sia fatto per peggiorare il presente e renderlo, da grigio, ancor più grigio e scuro). Mi levai, mi girai sorpreso d’attorno, andai in camera, misi il capo fuor dell’uscio, sortii persino in cortile, ma non scorsi nulla a cui potessi ragionevolmente imputare l’olezzo, anzi, all’ester-no esso era affatto assente mentre, non appena rimisi il piede in casa, riprincipiai ad avvertirlo. Più tardi, dopo varie prove, appurai che solo in cucina si sentiva con intensità e che in camera, invece, illanguidiva a mano a mano che me ne discostavo. Era là, quindi, la sua origine: in cucina.In essa, oltre al divano, alla credenza, al tavolo, alla sedia, al frigorifero e al mobile dei fornelli e del-l’acquaio, si trovavano ventidue oggetti: un cucchiaio, un cucchiaino, una forchetta, un coltello, una pentola, una padella, un piatto, un bicchiere, una tazzina, una caffettiera, il barattolo del caffè, quello dello zucchero, quello del sale, il secchio della spazzatura, una scopa, una paletta, un posacenere, un dizionario, una penna, un quaderno, un quadro e Ficciones. Questi li presi ad uno ad uno, li odorai e, uno ad uno, per scrupolo, li portai in camera. Nessuno di essi, mi parve, emanava il profumo di viola, il quale ancora persisteva forte. Quelli, i mobili, pure li odorai attentamente, senza risultati tuttavia. Mi gettai sul divano pensieroso. Come dovevo spiegarmi un così peregrino fatto? Percepivo indu-bitabilmente la decisa fragranza di un fiore in un luogo nel quale quel fiore indubitabilmente non c’era! Cominciai timidamente a pensare all’assurdo come a una semplice possibilità del reale. Temetti che la causalità non fosse necessaria al divenire, o meglio, all’esistere delle cose. Mi dissi: «Forse non sempre un effetto ha bisogno della sua cagione, forse si danno accadimenti del tutto arbitrari, non soggetti né al quando e né al perché. Talvolta la pioggia cade da un cielo limpidissimo ed esiste l’uni-verso, l’ispirazione dei poeti, l’amore immediato. Perché dunque mi meraviglio di questo profumo?. Forse tanta aerea soavità giustifica ed equilibra una turpitudine o un atto di malvagità altrettanto inopinato agli antipodi, o forse è come un dono, forse le viole ci sono, ma non si vedono…» Poi, len-tamente, di congettura in congettura, mi assopii.

Testo di Pietro IannibelliScatto di Fausto Corsini

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Al risveglio, però, una o due ore dopo, il profu-mo, invece che attenuarsi e scemare, era dive-nuto fastidiosissimo: ciò mi indusse a riprendere la ricerca della sua scaturigine. Annusai i muri, il pavimento e ancora i mobili, minuziosamente: mi parve che dalla parte della credenza l’odore fosse leggermente più vivo, più dolciastro e più fresco, rispetto agli altri canti della stanza. Non potevo essere certo di quella mia sensazione, dato che la continua percezione della medesima forte fragranza aveva inibita la facoltà olfattiva; tuttavia, per non saper che fare, la assecondai. A gran fatica discostai la credenza dalla parete e mi misi ad ispezionare sia il suo tergo, sia la parte di muro che, sino ad allora, aveva celato. Il profumo proveniva da là, dal muro! Ma l’intonaco non pre-sentava nessuna singolarità che giustificasse tale scoperta, e solo qualche lieve ed usuale crepa ne rigava la superficie. Perché, dunque, emanava proprio da quel punto l’olezzo di viola? Odoran-do e scrutando tuttavia, mi avvidi che le crepe non segnavano affatto il muro casualmente, ma formavano una precisa figura. Chiunque narri un fatto impossibile, afferma che esso è accaduto e ne ribadisce la verità. Il mio scopo non è la persuasione: riguardo a questa storia ognuno creda quel che vuole, ma è una storia veridica ed accaduta. La figura che dise-gnavano le crepe era quella di una finestra, ovve-ro, un rettangolo diviso verticalmente nel mezzo. Mi avvicinai ad essa e così, per scherzo, col gesto che si suole fare di mattina con le imposte comu-ni, mi accinsi a spalancarla: si spalancò! Mi ritrovai innanzi un prato di viole sconfinato sopra il quale spirava un fresco alito di vento. Laddove credevo case e palazzi vi era una terra edenica, ed è vero che la speranza non deve mai cessare. Da allora, sono solito trascorrere lunga parte del giorno in quella pianura di fiori: supero il davanzale ed ivi passeggio o indugio o penso o mi annoio. Lì, non vi è l’uomo e la solitudine è meno atroce.

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Preferivo l’odore di casa mia, nonostante tutto. Il profumo delle mele al forno la domenica pomerig-gio, il caffè la mattina, i mandarini, le caldarroste.Adesso nella cucina, grande, bianca, si sente odore di alcol e freddo. Le cuoche tengono sempre le finestre aperte. Anche nella mia camera l’odore che prevale è il disinfettante; i detersivi. Per sentire un buon profumo mi spalmo le mani di crema, me le ficco sotto il naso e aspiro forte. Poi mi butto sotto le coperte tutta rannicchiata con le mani nella faccia, e annuso la crema sulla mia pelle.Viene il dottore. Solleva il lenzuolo. Mi scopre la faccia.«Allora come va?», chiede.Mi sono innamorata di lui non subito. Non la prima volta che l’ho visto: la seconda. È irresistibile, con gli occhialini.«Va bene», dico.Rispondo sempre, sono gentile, non faccio la pazza. Mi lavo, mi vesto, mi lego i capelli. Mi metto le scarpe. Leggo il giornale nella sala comune, e mangio tutto ai pasti, senza fare storie. Evito le altre perché sono spaventose, ma sorrido alle infermiere, e con lui poi, il dottore, sono davvero affabile. Solo mia madre non la voglio vedere. Il dottore mi visita. Solleva il pigiama e la canottiera, mi ausculta la schiena. Mi guarda in gola. Ho avuto la febbre, ma ora sto bene. «Riprendiamo le sedute. Tra un’ora nel mio studio», dice.Mi vesto, mi metto il lucidalabbra. Mi guardo allo specchio: la bocca è rosa, brillante. Davanti alla sua porta ho il batticuore. Busso. Entro. «Si sieda», dice.La poltroncina davanti alla scrivania è comoda. Girevole, con le rotelle. Se punto le gambe posso anche oscillare, ruotarmi, spostarmi. Ma sto immobile. «Perché non vuole vedere sua madre?»Stavolta arriva subito al punto. Abbasso gli occhi.«Preferirei non parlarne.»«Lo so. Ma deve farlo. Lei è qui da due mesi, si è sempre rifiutata di affrontare il problema.» Mi guarda: «Io voglio aiutarla. La posso aiutare solo se mi parla, se mi racconta tutto, dall’inizio.»Mi viene da piangere. Comincio a piangere. Mi porge una scatola di fazzoletti. Ne prendo uno, poi un altro, per sicurezza, perché le lacrime sgorgano copiose, m’invadono la faccia. Parla lui. Mi dice che l’ho aggredita col coltello da cucina: lei è quasi svenuta, la Tina me l’ha strappato di mano urlando, mi ha spinto nel bagno, mi ha chiuso a chiave e ha chiamato mio zio. Vecchie isteriche. L’aggredita mi sembro io. Comunque taccio. Quel coltellaccio mi aveva sempre fatto paura. (Sembra quasi un’ac-cetta, a che ci serve, mi chiedevo). Ho fatto il gesto di alzarlo così, quasi per scherzo. Oppure: non ricordo nulla. O ancora: non so perché, mi è venuto fatto, di alzare il coltello. Stavo tagliando la carne, mia madre sproloquiava, come al solito, il braccio si è alzato di scatto, da solo. Peccato che non stavo tagliando la carne. E mia madre non stava parlando. Il fatto è, dottore, che desidero probabilmente la morte di mia madre.«Mi dica la verità, la prego: non abbia paura.» La verità! Proprio l’unica cosa che non posso dire. Oh forse sì. Mi asciugo gli occhi e lo guardo. Se mi prendesse la mano, mi sorridesse. Ecco: sorride. Ha un dolce sorriso. Allunga il braccio sul tavolo e mi prende il polso, lo stringe appena. «Coraggio», dice. «Certe volte vorrei che morisse», sussurro. Ho paura di guardarlo, ma lui continua a sorridere, mi stringe la mano. Si alza. Oddio, adesso viene qui, viene ad abbracciarmi, tremo.Invece prende il telefono, spinge un tasto e dice: «Infermiera.»

Testo di Marina SangiorgiScatto di Marina Rossi

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Odio i treni. Li odio e faccio sempre in modo di non doverli prendere. Potrei elencare una serie di motivazioni per questa mia particolarissima idiosincrasia: la misantropia che peggiora con l’andare dell’età, lo stare ristretto in uno spazio sempre troppo angusto per il mio metro e novanta o, forse, il fatto che non arrivino mai puntuali. Tutto vero, ma, più semplicemente, odio i treni perché puzzano. Sì, puzzano di un odore tipico e nauseabondo. Anzi, diciamo pure che i treni sono la sintesi estrema di tutto ciò che risulta sgradevole alle narici. È come se i sedili di quello strano tessuto sintetico fossero un’eterna spugna che assorbe tutto lo schifo che puoi respirare, lo rimescola e alla fine te lo rigetta addosso in un fetore caldo nel quale puoi intuire, ma solo intuire, gli ingredienti originari: sudore classico, sudore filtrato da maglioni in fibra sintetica, aliti di aglio, cipolla e spezie varie, emissioni gassose anali, tanfo da calzino indossato da una settimana, orrendi profumi e deodoranti da poco prezzo, avanzi di cibo gettati sommariamente nei sempre più minuscoli portacenere e, per chiudere, inchiostro macchiadita da quotidiano.Purtroppo, però, la tecnologia della mia modesta berlina mi ha lasciato a piedi a Porta Romana e così, oggi, per tornare a casa non ho avuto altra scelta se non un terrificante Regionale Milano Centrale-Ber-gamo, via Treviglio. Sono uno dei tanti sul marcia-piedi di Lambrate, un minuscolo atomo di quell’ag-glomerato umano all’apparenza mite e disinteres-sato che si scatena come in un’orda di Vandali non appena la littorina accenna a rallentare. Spengo per un attimo il cervello e mi lascio trascinare dall’onda umana, salgo gli scalini come un automa e alla fine sono in carrozza anch’io.Subito puzza orrenda di piscio stantio, come se l’ultimo ad aver osato svuotare la vescica su quella carrozza fosse stato uno degli alpini che tornavano dalla Russia. Due passi e m’immergo nel “padre di tutti gli odori” già descritto, pregando che il suppli-zio finisca presto. Avanzo in cerca di un posto libero quando una stilettata di un profumo unico e parti-colare mi fa chiudere gli occhi e barcollare. Quello è il profumo di Caterina; lo riconoscerei anche tra un milione di anni. Inspiro nuovamente ad occhi chiu-si: sì, è proprio il suo, mi ci giocherei la liquidazio-ne. Non saprei descriverne l’aroma, ma so che era lei che se lo preparava personalmente miscelando chissà quali ingredienti. Sono ancora lì, una statua di sale con gli occhi chiusi, quando la sorpresa si trasforma istantaneamente in terrore, terrore di ria-prire gli occhi e di vedere… no, non può essere: io non credo ai fantasmi, non di giorno e non su un affollato treno di pendolari. Però rimango ancora fermo con gli occhi chiusi fino a quando qualcuno mi spinge da dietro costringendomi a spalancare le palpebre.No, non è Caterina: questa è bionda con gli occhi azzurri, potrebbe avere venticinque-ventisei anni, al

Testo di Paolo TanziScatto di Deborah Marini

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massimo potrebbe essere la figlia di Caterina, se Caterina non fosse… Trovo un posto nella fila davanti a quella della bionda e il suo profumo mi avvolge in una nube di ricordi: tanti anni fa… la spiaggia di Riccione in un giorno di pioggia… io e Caterina senza ombrel-lo che corriamo verso l’albergo… i suoi lunghi capelli neri bagnati… il suo viso umido… la mia mano…Sto sudando, sto letteralmente grondando, mi manca l’aria. In un riflesso condizionato guardo fuori dal finestrino il grigio panorama della periferia di Milano: tra neppure un’ora sarò a casa; Lorenza mi starà aspettando; Giorgio, nostro figlio, uscirà con una delle sue amiche dell’università; poi cena, televisione e domani è un altro giorno. Però… però c’è quel maledetto profumo che non mi fa stare tranquillo, forse dovrei cambiare posto, cambiare carrozza. Forse. Ma sono letteralmente paralizzato.L’aroma così particolare di quel profumo m’inquieta: ancora quella lontana estate… Caterina che non viene all’appuntamento… prima preoccupazione, poi rabbia… io che la cerco nel suo albergo e la vedo nella hall… la vedo che si bacia con un altro…Ora il profumo della sconosciuta mi consegna una sensazione fisica di nausea.Richiudo gli occhi: un’altra notte di quella maledettissima estate… io e Caterina che facciamo il ba-gno a mezzanotte… molto romantico… lei non sa che io so… lei non sa quello che sto per farle… non le passa neppure per l’anticamera del cervello… ma che cosa crede? Che io sia il primo idiota che passa per strada?… mi abbraccia, mi bacia, mi mette le mani lì… anche con l’altro ha fatto così?Dal terrore scivolo in breve tempo nell’abisso della paranoia: quel profumo è così particolare, così

personale… come ha fatto la bionda sconosciuta a scoprirne l’esistenza? Come può avere scelto gli stessi ingredienti ed averli miscelati nella stessa combinazione di Caterina? Forse Caterina aveva rivelato la “formula” a qual-che sua amica del tempo? Può essere, e forse la bionda è figlia di questa sua amica e sa anche chi ero e chi sono. Magari mi hanno cercato per tutto que-sto tempo e adesso è giunto il momento di rispondere a quella domanda da cui sono scappato tanti anni fa. M’impongo di rimanere calmo, respiro profondamente. È solo una coinciden-za, mi dico. Però… però io non credo alle coincidenze. No, se ci penso bene, avevo appena fatto revisionare la mia automobile e quel guasto… Un sabo-taggio per obbligarmi a prendere il treno e sentire quel dannato profumo?Devo assolutamente tornare alla razionalità. Ne ho bisogno. Chissà, forse il profumo così unico di Caterina, in realtà tanto unico non era; magari ne ave-va copiato gli ingredienti da una rivista per sole donne. Sì, deve essere per forza così, altrimenti… altrimenti il corpo di Caterina tornerà a galla come il mattino successivo a quel bagno di mezzanotte e non solo e non più nei miei incubi.Mi rannicchio ancor di più sul sedile. Il treno ha appena superato la stazione di Dalmine, quando sento una nuova ondata di profumo: la sconosciuta si è alzata e si sta incamminando verso l’uscita. Si ferma un attimo di fianco al mio sedile. Chiudo gli occhi. So che adesso lei mi mormorerà a denti stretti: «So chi sei e so che cosa hai fatto a Caterina.» Ed io sarò costretto a seguirla e a…No, non succede niente e, quando riapro gli occhi, la vedo armeggiare preoc-cupata all’interno della sua borsetta. «Perso qualcosa?», le chiedo con fare sorridente. «Il cellulare, l’avrò lasciato in ufficio come al solito. Che sbadata!» È il momento, è il momento della domanda fatidica, che mi esce quasi a brucia-pelo: «Lei ha un profumo molto particolare, signorina. Molto buono, direi.»«Le piace davvero?», ribatte lei, poi continua: «È una nuova essenza che l’azienda per la quale lavoro sta tentando di lanciare sul mercato. Purtroppo lei è l’unica persona che mi ha dimostrato un certo gradimento. Forse è un’es-senza troppo nuova.»«Nuova o vecchia che sia, a me piace molto», dichiaro io, sentendomi scio-gliere dalla testa ai piedi.La sconosciuta mi sorride, il treno si ferma e lei scende. La vedo camminare frettolosamente lungo il marciapiede.Sospiro. Caterina è tornata sott’acqua. Esattamente dove l’avevo lasciata.

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Testo di Alberto CalorosiScatto di Deborah Marini

A Berlino raramente la primavera giunge puntuale.Seduto in balcone contemplo distratto le persone rincorrersi nella piazza sottostante: il portamento eretto ed indaffarato, lo sguardo vacuo eppure minaccioso, cinematica metafora dei fradici nuvoloni che si addensano nel cielo livido. Mi accendo una sigaretta.A 17 anni dalla riunificazione, di Berlino Est non esiste quasi più traccia. Attorno alla piazza negozi di souvenir, centri commerciali, uffici dappertutto e un noleggio bici. E poi polvere, calcinacci, recinzio-ni, operai, rumore di trapani, una sensazione olfattiva acre, di cantiere, miscelata con l’inconfondibile odore elettrostatico della pioggia.Suona il campanello. Rientro in casa ed armeggio un po’ col citofono ma… niente: sono qui da tre giorni e ancora non riesco ad aprire. Scendo le scale. Con la mano destra m’ispeziono i gioielli, con l’altra mi massaggio la nuca. Ho un maremoto nella pancia: devo andare in bagno al più presto. Apro il portone: davanti a me una giovane ragazza. È Sylvia, la precedente inquilina. Sorride e mi tende la mano. Allungo la mia, augurandomi non si accorga di dove stava fino a pochi secondi fa. Vorrebbe entrare a prendere un po’ di roba sua, dice. «Of course… you are welcome», e mi sposto per farla entrare.Sylvia gironzola per la casa scansando ogni mio tentativo di attaccare bottone. Rinuncio: mi siedo in

tinello e m’accontento di guardarla anda-re e venire. Ad ogni passaggio mi intriga sempre di più.Ha impilato un po’ di cose davanti alla porta. «Done… I can go», dice infine. Do-podiché, inaspettatamente, mi si siede di fronte e attacca a chiacchierare.

«Do you smoke?». Le porgo il pacchetto. Mi spiega che sì, fuma, ma ora che è incinta…Incinta? Con quel corpo lì, saresti incinta?Non ho il tempo di pentirmi per la mia insolenza. Sylvia si alza dalla poltrona e mi passeggia davanti civettuola. Solleva la maglietta e mi mostra la pancia. L’ombelico riluce di un microscopico brillante incastonato a mo’ di piercing. Mi afferra una mano e se la appoggia addosso. Davvero non si vede?, dice sfregandola su e giù.Le rispondo che, secondo me, lei è talmente carina che non si noterebbe neanche se avesse una pancia da ottavo mese con dentro tre gemelli.«Ha haa he hehe, thank you, thanks, you are a gentleman!»Molla la mano, mi bacia una guancia e scheggia fuori in pochi secondi. Le corro dietro: ha le mani impegnate, pertanto le tengo aperto il portone di ingresso. Esce, si gira: «Byyyeeeee!» e mi manda un bacio nell’aria schioccando le labbra.Sorrido. Solo quando la sua auto svolta sulla strada principale mi rendo conto di essere ancora lì impalato a carezzare la pioggia con la mano.Salgo in casa e corro finalmente in bagno. Ripenso a Sylvia, pervaso da una impalpabile sensazione di appagamento. Non mi sono sovvenuti i soliti quattro pensieri sconci, non me la sono spogliata con gli occhi come faccio ogni volta che… beh, un po’ il sedere gliel’ho guardato, lo ammetto, ma vi garantisco che gliel’avrebbe sbirciato persino Ray Charles. No, stavolta è stato diverso. Ho inalato per pochi minuti la bellezza, la spontaneità, la freschezza di questa giovane sconosciuta interiorizzando-ne il contrasto con l’ariaccia malsana e stantia che soffia dalla mia anima verso fuori, questo vento di sentimenti marci e corrotti che sembra spirare direttamente dalla burella dell’inferno.Beh, tanto non la rivedrò mai più, Sylvia. Pazienza. Però, Cristo santo, ma cosa diavolo c’era nella cena di ieri sera? Qua dentro c’è un odore di carogna che mi sembra di essere seduto nell’esatto centro di un universo di merda…Driiiiiin, ancora il campanello. «Un momento!», strillo.Mi pulisco di fretta, tiro l’acqua e balzo fuori dal bagno. Apro la porta. È Sylvia.Faccio un passo verso di lei, cingo l’esile vita con un braccio, appoggio le labbra alle sue e ci abban-doniamo in un lungo bacio appassionato. La prendo per mano, chiudo la porta con un calcio, la

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conduco in camera e faccio sesso con lei tutto il pomeriggio.«I forgot one thing, sorry».Riavvolgo il film e la faccio rientrare. Si dirige in cucina e mi chiama. Mi spiega una cosa sulla pres-sione dell’acqua della caldaia. Devo fare qualcosa?, chiedo. No, no, sa cavarsela da sola. Voleva solo spiegarmi per la prossima volta.Si dirige verso il bagno. C’è un po’ di… odore, mi sento in dovere di commentare.«Oh, I don’t care», e si mette in piedi sulla tazza, traballando. Comincia a trafficare coi rubinetti.Qualche minuto. «Mission accomplished», dice. Si puntella sulla mia spalla e salta giù.Mi sorride: «Alberto», aggiunge, «what the fuck did you eat yesterday?», e mi sfila lesta di fianco. La seguo fuori, indeciso se rispondere alla domanda.

La sagoma scura di Sylvia avvolta nel tenue fruscio della pioggia si confonde tra le auto parcheggia-te. Esce così dalla mia vita, questa volta per sempre. La primavera non arriverà ancora per qualche giorno, penso.Chiudo la porta e corro di nuovo in bagno. Effettivamente, qua dentro c’è un odore che non si sta. Ho un’idea: estraggo un’altra sigaretta dal pacchetto e l’accendo. Dovrebbe mitigare un po’.Lo sguardo vagola per la stanza: oggetti dappertutto, panni sporchi, peli, capelli, barattoli vuoti, pieni e a metà. Un fermacapelli di Sylvia. Il vetro della finestra è una favela di ragnatele. Il muro com-pletamente coperto di scritte, disegni e graffiti di ogni genere. L’aria satura di tabacco bruciato è più respirabile, ora. Gran cosa il fumo, penso, aspirando l’ultima fragrante boccata. Getto il mozzicone nella tazza. Per terra, incastrato tra il muro e il supporto del lavandino noto un pennarello. Ma che ci fa lì? Lo raccolgo e ci giocherello un po’. Poi comincio a scri-vere una frase sul muro, ridacchiando.Contemplo soddisfatto la scritta. Dice: Meglio fumare in bagno che cagare in tabaccheria.Il primo atto della mia personale campagna Pro Fumo.

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«Vieni via da lì, che è pericoloso.»«Ma nonno! Guardo e basta.»«Vieni via da lì!»Il bambino si allontanò pian piano dal pozzo, tra occhiate di rimpianto e piedi strascicati. Ormai l’aveva imparato: quando il nonno si fissava, non c’era nulla da fare. Era vecchio e i vecchi hanno le loro fissazioni, come diceva la mamma. Però chissà cosa c’era, là dentro…«Lo sai che non ti devi avvicinare, eh? E se poi ci caschi dentro?»«Ma uffa… non ci casco dentro! Ci sto attento, io.»«Se ci stai lontano è ancora meglio. Dai, ora torniamo nell’orto.»Il vecchio prese per mano il nipote e scesero lungo la collina, verso casa. Il pozzo era ormai solo un buco nel terreno, fossile di epoche scomparse, sepolto dai cespugli di quel tratto incolto. Parlava di un passato contadino, vecchio forse più del nonno. Sul resto del pendio regnava la vite, già pronta per la vendemmia.Rientrarono nell’orto, tra gli alberi di fico quasi maturi. Anch’essi parlavano di passato, ma soprattutto d’autunno, come ogni altra cosa della campagna. Il vecchio osservava così distratto che al bambino sembrava annoiato. Ma non lo era.Un tempo, quando era più piccolo del nipote, quel posto gli piaceva. Gli piaceva l’odore del mosto che allagava l’aria. Gli piaceva l’odore della nebbia umida e fresca a riempire gli spazi tra le cose. Gli piaceva l’odore dei campi e del sottobosco, quando di bosco ce n’era ancora, non come adesso. Gli piaceva l’odore del terriccio che impastava le dita. Poi aveva smesso di piacergli e l’autunno si era cambiato in aceto. Perché gli aveva rubato tutto, quella stagione.«Nonno! io mi annoio…»Guardò il bambino, quasi senza vederlo. «E allora?», disse. «Senti se i fichi sono già buoni, dai.»Ne colse egli stesso uno, ancora piccolo e duro, e l’allungò al nipote che lo prese senza parlare, ma con scarso entusiasmo. Aveva detto che si annoiava, non che aveva fame, uffa… ma il nonno era sempre così, in quel periodo dell’anno. Sembrava che non ci fosse più molto con la testa. Forse sarebbe stato meglio dirlo alla mamma, più tardi.Sedettero, in silenzio. Il bambino mangiava il suo fico ancora acerbo e il vecchio fissava la collina di là dall’orto pensando a qualcosa. E ci pensava, anche se faceva di tutto per evitarlo. Ci pensava, perché il profumo dell’au-tunno aveva di nuovo invaso l’aria e colorato ogni angolo di campagna. Gli ricordava l’odore di funghi, nel sottobosco, il terriccio umido sotto i piedi, come lui li aveva conosciuti quella volta. Non era un bel ricordo, ma ricordava lo stesso. Non gli sarebbe mai uscito di testa, neanche a provarci.«Nonno, mi racconti qualcosa?»«Cosa ti devo raccontare, eh?», chiese al nipote, girandosi verso di lui.«Non so!… quello che facevi da piccolo. Non ti annoiavi mai, qui in mezzo? Non c’è niente…»Il vecchio sorrise stanco. «Eh, niente… ma quando ero bambino

Testo di Adriano MarchettiScatto di Giorgio Longo Turri

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io c’era da fare. Non stavamo lì a guardar per aria tutto il giorno, sai! Erano altri tempi. In autunno c’era da raccogliere l’uva per poi pigiarla. Era dura, sì, però ti divertivi anche.»«Nonno, ma è vero che c’era la guerra, quando eri piccolo?»«Eh, sì.» Un groppo in gola gli strangolò la voce. «Ma a te chi te l’ha detto? La mamma?»«Ha detto che sei venuto qua, perché dove vivevi prima c’era la guerra. Dove vivevi, nonno?»Il vecchio sospirò, con gli occhi lucidi. «Mah… poco lontano, qualche collina più in là. Mi hanno mandato qui, perché avevo dei parenti e così stavo più al sicuro.» Tacque, per un attimo. «Ma sono storie noiose, basta. Tu non hai mai provato a pigiare l’uva, eh? Per noi bambini era un gioco, quando avevamo la tua età. Perché di giochi non ne avevamo tanti come te. Così, quando…»Il vecchio continuava a parlare di vendemmie e sagre, senza ascoltarsi. L’autunno era stato tutto quello, certo, ma il suo autunno era anche qualcos’altro. Il profumo del mosto, del vino, persino il profumo dei funghi e dei fichi era fuso per sempre con altre cose.Il sottobosco, gli alberi, il fumo. Odori che gli avevano riempito il naso e la pelle, tutto il mondo, men-tre era nascosto, assieme a suo padre e ad altri del paese. Pochi altri. E lui, l’infiltrato bambino, finito lì per caso, perché aveva accompagnato papà ai campi, il giorno in cui erano arrivati i soldati. Se no, non ci sarebbe stato nessun altro a ricordare, della sua famiglia.I rumori, le immagini: il tempo ne aveva sbiadito i contorni, confondendoli. Gli aveva lasciato, però, come compenso, il profumo dell’autunno tra gli alberi. L’odore di fumo che saliva dalle case, laggiù, acre e appiccicoso; l’odore della morte e della paura. Ce l’aveva ancora appiccicato in gola.Mentre raccontava al nipote le scene tranquille di un’infanzia nei campi, inghiottiva dentro di sé le la-crime, come aveva fatto per anni. Perché la sua infanzia, quella vera, se l’era portata via l’autunno, coi suoi profumi buoni o cattivi. Ma non sono cose che si dicono a un bambino, come non gli si poteva dire perché odiasse tanto l’odore del fumo o della terra umida. Per suo nipote erano profumi buoni, piacevoli, ed era giusto che fosse così. Per lui, non lo potevano più essere, il dolore di un passato distrutto aveva assunto quell’odore.Perché mille stagioni e mille ricordi più in là, il vecchio continuava a veder morire Marzabotto, dal suo rifugio nel bosco d’autunno, tra i partigiani.

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Ha un buonissimo odore chi non ha nessun odore.

Seneca, Lettere a Lucilio.

[…] il profumo vive nel tempo, ha la sua giovinezza, la sua maturità e la sua vecchiaia. E soltanto se emana un aroma ugualmente gradevole in tutte queste tre età della vita, si può definire riuscito.

Patrick Süskind, Il profumo

Analisi del sangue. Sa di quotidiano. Di cose che si fanno periodicamente. Ti fa pensare a salute, ma-lattia, ospedale. Roba così. Ma non è detto che un titolo debba per forza anticipare quello che se-guirà. Anzi.Prima riga. C’è una domanda. Secca ed essenziale. Buttata lì quasi con noncuranza. «L’ha sognato di nuovo?». Presuppone qualcosa: un prima che prosegue, qualcosa successo mentre non eravamo connessi. Un dialogo, probabilmente. Formale, perché chi parla usa il lei. Due persone che non si conoscono. Altrimenti si darebbero del tu.Parlano di sogni che si ripetono con una certa frequenza. Pensi ad Albert Beguin e al suo saggio L’anima romantica e il sogno. A questo passaggio: «Il sogno è dunque in noi, il luogo in cui sappiamo di non appartenere interamente alla terra.»Prospettiva interessante. La domanda iniziale è rivolta a una donna, io narrante della storia. Si com-porta come se, effettivamente, non appartenesse al mondo della veglia. Per lei «I sogni sono le im-pronte digitali della notte.» Personificazione di un’entità astratta.Dopo Beguin tocca a Patrick Süskind. Al “suo” profumo. È inevitabile, dato il filo conduttore di questo numero. Chi non ha letto il libro, avrà visto il film o ne avrà sentito parlare. Un uomo diverso. Che vive in un mondo suo. Che non segue le convenzioni. Padrone delle essenze. Capace di creare profumi straordinari. Per una sorta di beffardo contrappasso, la sua pelle non emana alcun odore. E se un uomo non ha odore, non esiste. La gente gli passa accanto senza accorgersene. Odore e impronte di-gitali costituiscono, insieme ad altre cose, l’identità di un essere vivente, ciò che lo distingue rispetto agli altri. La notte è una creatura. I sogni sono le tracce tangibili che lascia su/dentro ognuno di noi.Torniamo alla domanda. «L’ha sognato di nuovo?» L’io non sa rispondere. Forse non vuole. Tira

RUBRICA - LABORATORIO

Testo di Enrico CantinoIllustrazioni di Agata Ewa Kordecka

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fuori una motivazione tutto sommato plausibile. Non ha memoria: «La mia testa non è allenata a ricordare.».Pur di replicare qualcosa all’interlocutore (magari, così, la lascerà in pace) mente. Emette un sì, con riserva: «Non sono sicura. Forse è una bugia: un pacchetto di parole che sto confezionando proprio adesso. Con un bel fiocco rosso. È per questo che si parla, a volte, credo. Per fare confezioni di parole che possano bastare agli altri per un po’ di tempo: un giorno, una settimana, un mese.»Raccontare il sogno ricorrente. Sembra facile, come diceva l’omino della Bialetti. Lei esita. Si sente a disagio. Non le piace parlare dei suoi sogni perché questo significherebbe «confezionarli come fossero pacchi di Natale. I sogni non li puoi scartare.» E poi, è stufa di farlo: «L’ho raccontato troppe volte. L’ho quasi cantato, il mio sogno. Come il ritornello di una canzone che non vuole uscire dalla testa, ma solo dalla bocca.» Cantami, o Diva. No, grazie. Oggi proprio non mi va. E poi non si può. Le parole sono inadeguate. Non bastano: «I sogni non li puoi tradurre. Parlano una lingua diversa, come un turista straniero con lo zaino troppo pesante sulle spalle e la barba lunga, che gesticola per farsi capire.» Tradurre. Portare al di là. Letteralmente. Con tutte le dispersioni che questo comporta.Ormai è chiaro. L’ipotetica seduta tra analista e paziente è un pretesto. La protagonista sogna spesso di avere nelle vene profumo anziché sangue. E questo non la turba. Rientra nel rassicurante alveo della quotidianità: «Non sono stupita. Ho sempre saputo che il profumo può scorrere anche dentro. Perché il profumo non è solo odore. È qualcosa di diverso. Non te lo spruzzi solo sui polsi, sul collo, sui capelli. A volte ti scorre dentro, tra un globulo bianco e uno rosso.» Secondo il medico, questa sostituzione «sembra un chiaro segno del rifiuto che lei nutre nei confronti della sua, possiamo dire, natura umana.» Peccato che la donna non creda alla cosiddetta “natura umana”. Per lei non esiste: «Esiste solo la natura e tutti quelli che ci vivono. In mezzo, sotto, sopra, dentro. E anche questo studio e questo palazzo e questa sedia e questa scrivania ci stanno in mezzo, alla natura. Solo che ce la fan-no sentire lontana. Come un’isola, un bosco, una montagna troppo alta.» Non è una situazione sem-plice. È quasi pirandelliana. Qualunque cosa tu scelga, perdi. Ma gli altri ti obbligano a decidere.L’analista estrae dal cilindro un suggerimento alla Svevo: «Se farà di nuovo questo sogno, si ricordi di prendere qualche appunto.» Ma la protagonista non ha intenzione di ottemperare. Si troverebbe costretta a tradurre in parole qualcosa che è troppo “oltre” per essere costretto nella gabbia della scrittura. D’accordo, «Le parole sono importanti.» Ma non sono tutto. Non risolvono problemi. Ne creano altri.Il trucco è semplice. Proporre al lettore un titolo dall’apparenza dimessa, suscitando in lui determina-te aspettative. Poi spiazzarlo, giocandosela tutta nel campo delle percezioni. L’olfatto è il portale at-traverso cui accedere a ben altro. La memoria. Il sogno. Il profumo. La scrittura. La psiche. Sinestesie abilmente dosate, somministrate per gradi, senza voler stupire a tutti i costi. Chi ha visto Twin Peaks lo sa. I gufi non sono quelli che sembrano. Nemmeno le parole.

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RUBRICA - STORIA

Il ParadossoSacro del Naso

Lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati,

poiché ha molto amato.Vangelo di Luca, VII, 46-47

Prometeo, il mitologico "fondatore" degli uomini, sacrificò un bue agli dei dividendolo in parti dise-guali: la carne che nascose nello stomaco dell’animale ricoprendolo di pelle e le ossa, che propose a Zeus, nascoste sotto uno spesso cumulo di grasso succulento e opulento.Zeus, onnisciente, accetta l’inganno. La vittoria andrà agli uomini che, da questo momento, paghe-ranno a caro prezzo il loro errore: la condanna alla mortalità, al sacrificio agli dei della carne che costituirà il loro nutrimento.Mangiare la carne, da questo momento, diventa lo specchio del corpo mortale, condannato alla fame e alla corruzione, ai miasmi e alla morte, che allontana definitivamente gli esseri umani dalle divinità. Ed ecco perché l’uomo inizia a mangiare carne cotta su braci e aromatizzata da erbe odoro-se e profumate: un tentativo di ricongiungere la loro mortalità con gli dei immortali, incorruttibili e, ovviamente, profumati.Il ruolo sociale-mitologico svolto dal profumo passa ben presto di cultura in cultura. Diventa il sim-bolo della vita e dell’anima: la kashrut ebraica vieta il consumo del sangue in quanto principio vitale, la leggenda di Adone ci propone fiori odorosi che sbocciano dalle sue ferite sanguinanti in punto di morte, come emanazione del suo puro spirito che ci ricollegano all’immagine delle rose sbocciate dalle ferite del Cristo e la divinità è sempre annunciata, da Omero alla Bibbia, dall’espandersi di pro-fumi deliziosi ed inebrianti.L’arte della profumeria nell’antico Egitto, ad esempio, nasce probabilmente fra le mura reali, dove sacerdoti e maestri profumieri miscelavano unguenti, gomme e resine da bruciare e spargere per omaggiare gli dei.Il buon odore diventa il trionfo dell’indeteriorabilità sul marcescibile, la vittoria della corruttibilità car-nale e morale sulla sporcizia disprezzata, il trionfo dell’anima e della vita sulla morte e sul peccato.Ecco perché gli antichi egizi, durante i rituali funerari, usavano lavare i defunti con oli di palma aro-matizzati, cospargerli e riempirli di sostanze profumate, erbe e resine: li scortavano nel viaggio ul-traterreno verso gli dèi, per proteggerli dalla putrefazione ed esorcizzare la morte, distruttrice della carne.Agli spiriti divini erano tributate tre diverse offerte: resina al mattino, mirra a mezzogiorno e Kyphi alla sera. Profumi e aromi come il Kyphi, che, secondo Plutarco, era una miscela di miele, vino, uva passa, cipero, resina, mirra, spalato, sèseli, bitume, lentisco, stramonio, lapazio, ginepro, cardamomo e cannella, accompagnavano non solo il misticismo vero e proprio, ma anche la vita quotidiana, come celebrazione dell’esistenza e della pulizia.

Testo di Federica PasqualettiScatto di Cristina Mauri

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RUBRICA - STORIA

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L’odore dell’animale umano, prettamente mortale, grazie al profumo si trasforma e si avvicina al sacro e alla divinità.Anche nell’Ebraismo il profumo, volatile ed evanescente, nelle sue fragranze immateriali e inebrian-ti, diventa il simbolo del raggiungimento delle offerte umane verso Dio. Ungere le pietre votive, il tabernacolo e l’altare, bruciare le essenze almeno due volte al giorno: rituali vettoriali verso la sacra-lità.I profumi e le essenze venivano preparati da un'unica famiglia di sacerdoti che custodivano gelo-samente le loro ricette. La Bibbia elenca addirittura sette tipi di incenso diversi, composizioni di mi-scele profumate e donatorie di aromi a metafora di benedizioni propizianti fecondità spirituale e materiale.Addirittura, nel libro di Ester, il profumo diventa leitmotiv della salvezza del popolo ebreo: Ester, nipote di Mardocheo deportato a Babilonia, diventa la preferita di Egai, il guardiano dell’harem del sovrano del regno di Assuero; dopo averla cosparsa per sei mesi di pomate e unguenti profumati, Ester viene prescelta dal re e, penetrata dal buon odore e purificata nello spirito, riesce ad evitare il genocidio degli ebrei, mettendo a repentaglio la propria vita.Il Cristianesimo, che condanna l’uso del profumo per scopi profani, ne perpetua meravigliosamente la sua funzione sacra.Alla sua nascita, il Signore riceve doni profumati e preziosi – oro incenso e mirra – e Maria, dopo la deposizione del Cristo, ne unge il corpo con olio di nardo per conservare il corpo nel trapasso inalte-rato; nell’Apocalisse le coppe piene di profumi, con i loro effluvi, hanno il compito di purificare i cuori ed avvicinarli a Dio; l’albero della vita che collega l’Etere con gli Abissi e che porta la conoscenza assoluta, emana un profumo nobile e meraviglioso: ogni forma di essenza, fumo odoroso, miscela è espressione, dunque, non solo di preghiera e di vittoria sul male e sull’olezzo, sulla corruttibilità e perversione, ma anche di amore assoluto.Il mondo dei profumi è un mondo paradossale, in bilico tra sacro e profano, tra il terreno e l’ultrater-reno, dove una scia odorosa, un effluvio ci innalza e ci armonizza verso un piacere e una beatitudine sensoriale, degna degli dei.Se volete approfondire il vostro “naso” provate a leggere Storia dei profumi di Brigitte Munier (Dedalo Edizioni), un saggio completo e profumato, tra storia e sociologia.

RUBRICA - STORIA

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PENNA

Alberto Calorosi ha 34 anni e vive a Parma. Lavora nel commerciale in un’azienda nel campo auto-motive. Passioni: cinema (SF anni Cinquanta, Cronenberg, Carpenter, il primo Peter Jackson e tanti altri…), rock (tanto, tutto… ma principalmente Seventies). Legge ciò che gli passano gli amici. Scrive per passione e per necessità.

Enrico Cantino ha 41 anni e una laurea in Materie Letterarie. Vive a Parma, dove lavora part-time come impiegato, per un periodico tecnico. Le sue passioni: i gatti, i cartoni animati e la letteratura. Scrive racconti dal 1984 e ogni tanto riesce a pubblicarne qualcuno. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore.

Gianandrea Caruso è nato a Messina nel 1986. Finito il liceo, si è trasferito a Bologna dove frequenta il secondo anno del DAMS Cinema. Ha scritto e diretto tre cortometraggi di finzione. Suona il violino negli Addamanera, gruppo psichedelico pop siciliano trapiantato a Bologna.

Andrea Cirillo è nato nel 1982 e vive a Parma dove si è laureato in Lettere con una tesi su Giuseppe Ungaretti. Numerosi suoi racconti sono stati pubblicati sulla rivista di letteratura “La Luna Di Traver-so”, edita da MUP Editore, e su “Maltese Narrazioni” (Editrice Impressioni Grafiche), ed è stato inserito nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Inoltre un suo racconto è recentemente ap-parso nell’inserto de “La Stampa”, Bravo Bravissimo, nell’ambito dell’omonimo concorso di letteratura breve e fotografia. Attualmente lavora ad una sceneggiatura teatrale, mentre prosegue la sua ricerca poetica tra “verosimile e inverosimile” in forme brevi e lunghe del narrare.

Daniele Cobianchi è nato a Parma nel 1970 ed è laureato in Giurisprudenza. Ha lavorato per pre-stigiose agenzie di pubblicità internazionali tra cui Dentsu, Lowe e Dlv Bbdo e ora è manager di Cayenne Italia. Musicista, autore e compositore, ha pubblicato per Bmg Ricordi il singolo Manchi solo tu (1996), e, per l’etichetta indipendente Why Me, i singoli Mi piaci un sacco (2004) e Se fossi Eros (2005).

Alfredo Goffredi è nato a Londra il 3 marzo del 1982, la respira per qualche mese e subito viene tra-piantato a Piacenza, dove vive tutt’ora. Studente quasi laureato in Giornalismo e cultura editoriale al-l’Università di Parma, è consapevole che da grandi poteri derivino grandi responsabilità; per questo cerca di spremere le sue modeste qualità scrittorie per combinare qualcosa di buono, o perlomeno in grado di divertire chi legge. Ama i gatti e il tè, l’Irlanda e il Giappone, i film di Takeshi Kitano; venera Neil Gaiman, Alan Moore e Grant Morrison, Jonathan Coe, Irvine Welsh e Douglas Coupland.

Pietro Iannibelli ha 29 anni e vive a Parma. Predilige Andrea De Carlo, Dan Brown e gli Harmony, la letteratura quindi.

Adriano Marchetti è nato a Fidenza, in provincia di Parma, il 2 settembre 1979. Ha vissuto per la maggior parte del tempo a Salsomaggiore Terme. Dopo aver compiuto gli studi classici al liceo di Fidenza, si è trasferito a Venezia, dove ha vissuto per cinque anni, fino al conseguimento della laurea in Lingue e Civiltà Orientali. Appassionato di lettura e scrittura, ha conseguito qualche risultato qua e là, facendosi pubblicare qualche racconto.

BIOGRAFIE

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Erika Morgagni è nata a Forlì nel 1982. Laureata in Scienze Politiche, si è avvicinata alla letteratura e alla scrittura creativa prendendo parte a corsi di teatro sperimentale. Scrive poesie dall’età di sette anni e ha partecipato a concorsi locali o interni al circuito scolastico romagnolo.

Federica Pasqualetti ha 28 anni ed è nata nel giorno più lungo dell’estate. Vive a Parma dove lavora, scrive, studia musicologia alla Facoltà di Lettere e Filosofia. Oltre ad aver fatto finta di essere archeo-loga per anni, scrive racconti, o sarebbe meglio dire rubrichette e saggetti, e poesie in versi liberi. Nel 2006 un suo racconto è stato pubblicato nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore. Nel 2007 ha pubblicato Le osterie parmigiane da ieri a oggi edito da MUP Editore e collabora saltua-riamente a riviste e con case editrici come la Food Editore. Quando si stancherà della vita cittadina, aprirà un agriturismo in Turchia.

Marina Sangiorgi ha 34 anni e vive a Imola. Si è laureata in lettere moderne con una tesi su La luna e i falò di Cesare Pavese. Scrive fin da quando era piccola. Legge moltissimo e di tutto: scrittori russi, inglesi, americani con un doveroso amore per Verga, Svevo e Pavese. Nel 1999 è finalista al “Premio Arturo Loria” con il racconto “Romanzo Familiare” pubblicato ne Il sapore dei corpi, Diabasis Edizioni. Nel 2000, con il racconto “Frammenti di un’autobiografia imperfetta” vince il II° premio del concorso “Graphie”. Nel 2002 escono: “Il Senso del pudore” pubblicato sulla rivista “ClanDestino” e “L’estate del ’62” pubblicato nella raccolta I racconti della Garisenda, casa editrice Re Enzo. Nel 2004 pubblica sulla ri-vista “Graphie” il racconto “Patagonia” e nel 2005 “Il ’68 di mia suocera” sulla rivista “Fernandel”. Nel 2006 alcuni suoi racconti sono stati pubblicati nell’antologia letteraria I Lunatici edita da MUP Editore.

Ubaldo Spina è nato nel 1979. Dopo la laurea al Politecnico di Milano, lavora attualmente come ricercatore per il Consorzio CETMA, centro di Progettazione, Design e Tecnologie dei Materiali in provincia di Brindisi. Svolge attività di consulenza per le imprese nel campo del Disegno Industriale, collabora con il Cdl in Ingegneria Gestionale dell’Università di Lecce dove svolge attività di docenza nel corso di “Gestione dell’Innovazione e dei Progetti”. Scrive per Il Giornale dell’Architettura, Umberto Allemandi Editore, Torino.

Paolo Tanzi è nato a Parma nel 1970. Ama i romanzi noir, la buona cucina e il buon vino. Nel 2006 ha pubblicato il suo primo romanzo Soledombra (Ed. Allori). Il suo motto è “non fare oggi quello che puoi fare domani”.

CAMERA

Gina Caputo è nata a Taurasi (AV) nel 1973, ma vive a Parma. Dopo il diploma di Disegnatrice Sti-lista di Moda e un post-diploma conseguito nel 2002 come Progettista di prodotti multimediali, si è laureata in Storia dell’arte contemporanea nel 2004 presso l’Università de La Sapienza di Roma. Nel 2005 un suo scatto “Passaggi” è stato selezionato ed esposto per il Premio di fotografia “Aldo Nascimben” di Treviso.

Fausto Corsini è nato a Pavullo nel Frignano dove vive e lavora. La passione per la fotografia inizia nel 1988 e dal 1999 inizia a frequentare importanti workshop di grandi maestri come Franco Fon-tana, Mario Cresci, Giovanni Cozzi, Maurizio Galimberti, Gianni Berego Gardin, Guy Le Querrec. Nel contempo numerose sue immagini vengono pubblicate su riviste fotografiche, mensili e periodici, realizza cataloghi per importanti mostre e fotografie nel 2002-2003 per il film documentario “Gino Covili, le stagioni della vita” con la supervisione di Vittorio Storaro. Dal 2001 tiene corsi di fotografia per il Comune di Pavullo nel Frignano e diventa consulente per la fotografia presso “Artisti in fono-teca, l’arte nel luogo della musica” e per la Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Pavullo (MO). Partecipa a numerose mostre collettive in Italia e America fra cui le più recenti: nel 2006 Fotografare la musica nello Spazio Culturale Evasione a Pavullo con la collaborazione di Paolo Donini e XXL gio-

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vani artisti in grandi dimensioni presso “Modena Abitare”, Fiera di Modena, padiglione A. Organizza altrettante esposizioni personali fra cui: nel 2004 VisionariaMente alla Galleria d’Arte Contemporanea nel Palazzo Ducale di Pavullo e nel 2005 Viaggi Immaginari nella ex Chiesetta San Filippo Neri a Osio Sotto in provincia di Bergamo.Di lui hanno scritto, fra i tanti: Franco Fontana, Roberto Mutti, Walter Guadagnini, Luca Panaro, Luigi Erba, Paolo Donini, Silvia Ferrari, Mirella Contri. Le sue opere si trovano in collezioni pubbliche e private.www.faustocorsini.com

Jari Franceschetto è nato a Cagliari nel 1976. È architetto, progettista e si occupa di sistemazione di interni, ristrutturazione, architettura bioclimatica, urbanistica. Dal 2002, abilitato alla libera pro-fessione di Architetto, vive e lavora a Venezia. È consulente presso la CMAF di Cagliari, una società che si occupa di servizi legati alla progettazione, costruzione, fornitura e gestione dell’architettura. Collabora inoltre con la Spazio Sud O.n.l.u.s. e con altri studi professionali internazionali. Insieme alla sua professione, svolge attività teorico-culturali e di supporto alla formazione (propria e altrui).

Deborah Marini è nata Castel San Giovanni in provincia di Piacenza, nel 1986. La fotografia è la sua più grande passione e già a 15 anni, dopo aver partecipato ad un breve corso di fotografia, inizia ad utilizzare una reflex manuale. La visione dei film d’avanguardia degli anni Venti la spinge alla sperimentazione, verso nuovi modi di percepire le immagini e verso l’uso di pellicole in bianco e nero. Da quel momento, la sua fotografia prende forma: tecniche totalmente manuali e una forte predilezione verso il non colore. Ha imparato a stampare in camera oscura dove tutt’ora sviluppa le sue fotografie. Nel 2006 tiene un corso di fotografia di base presso il Liceo Artistico di Piacenza, ed è pubblicata, con un suo scatto, sulla copertina del libro Sans papier, della poetessa, collaboratrice e amica Beatrice Niccolai. Nel novembre dello stesso anno si svolge una sua personale in un locale a Borgo San Lorenzo (FI). La fotografia artistica resta la sua ambizione primaria.

Chiara Molinari è nata a Roma 23 anni fa e da due anni vive a Parma, latitante, della Facoltà di Con-servazione dei Beni Culturali di Viterbo e pseudo impiegata nella Biblioteca di @lice. La sua passione per l’arte nasce sui banchi di scuola grazie al Prof. Michele Colonna, un must del liceo romano De Sanctis e si trasforma in un folle amore per la fotografia ed ogni suo derivato durante le prime lezioni universitarie. Grazie ai suoi “modelli” prediletti Thule ed Elia, non abbandona più la sua digitale ed il loro si è trasformato in un rapporto simbiotico ed esclusivo con la speranza di riuscire ad immortala-re ogni attimo della sua “avventura”.

Cristina Mauri è nata a Lecco nel 1986 e vive a Bellagio, in provincia di Como. Si è diplomata al liceo linguistico “G. Bertacchi” di Lecco e attualmente frequenta il secondo anno accademico di Graphic Design all’ISGMD, Istituto Superiore Grafica Moda Design, di Lecco. Da circa un anno si è av-vicinata alla fotografia, materia che studia all’accademia, ed ha iniziato a sviluppare con entusiasmo questa passione che l’ha portata a partecipare a diversi concorsi.

Ludovica Pedersoli è nata a Iseo in provincia di Brescia e ha 26 anni. Nel luglio 2006 consegue la laurea in Conservazione dei Beni Culturali con indirizzo Beni Mobili e Artistici, area contemporanea, presso l’Università degli Studi di Parma con una tesi di laurea riguardante i nuovi musei d’arte con-temporanea a Berlino: “Hamburger Bahnof” e “Berlinische Galerie”.Dopo varie collaborazioni con atelier e gallerie e uno stage di orientamento presso l’Atelier Tadini al-l’interno dell’Accademia di Belle Arti “Tadini” di Lovere in provincia di Bergamo nell’ottobre del 2006 inizia una collaborazione presso “Atelier” di Breno in provincia di Brescia e da dicembre dello stesso anno partecipa alle attività nella galleria d’arte “La Quadra” di Iseo. Ama ogni forma di espressione artistica e culturale nell’ambito contemporaneo: cinema, teatro, mu-sica, danza e sopra ogni cosa la fotografia. Spera di poter conciliare a livello lavorativo la passione e gli interessi culturali ad uno specifico ambito sociale ed educativo.

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Marina Rossi è nata a Parma nel 1969. Ha conseguito la maturità d’Arte Applicata presso l’Istituto d’Arte Toschi di Parma, nella sezione di Arti Grafiche. Si è laureata in Lettere con indirizzo Storico Arti-stico discutendo una tesi in Storia del Cinema sul costumista Gino Sensani. Ha lavorato come grafico e attualmente è dipendente della Soprintendenza ai Beni Artistici e Storici di Parma e Piacenza.

Giorgia Longo-Turri si è appena laureata in Conversazione dei Beni Culturali presso l’Università degli Studi di Parma e vive a Verona. La fotografia sta diventando per Giorgia qualcosa di più di una grande passione e spera di poter presto praticare come fotografa vera e propria.

Matteo Varsi è nato a Levanto (Sp) nel 1970. Si è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Università di Genova e parallelamente ha sviluppato la sua passione per la fotografia. Ha al-lestito diverse mostre in Italia e in alcune capitali europee. Nel 2004 si è diplomato all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano, da allora vive e lavora tra Milano e Levanto dedicandosi alla camera oscura e alla stampa fine-art. Una sua fotografia appare nell’antologia I Lunatici (MUP editore 2006).

MATITA

Francesca Carta è nata a Cagliari. Diplomata al liceo artistico inizia ad esporre le sue opere dal 2004: Sogni alla Galleria Comunale di Cattolica nella Sala Consigliare di Monte Gridolfo, I luoghi del silen-zio nella Galleria Comunale di Villanova Forru, Paesaggi improbabili alla Galleria “Il Vicolo” di Cesena. Nel 2005 si classifica al II° posto al concorso per illustrazione “Un racconto in dieci tavole” promosso dall’Assessorato alla cultura di M.S. Angelo, Manfredonia. Nel 2006 partecipa a numerosi concorsi: viene selezionata per la mostra a seguito del concorso “Prati verdi cielo blu” dalla Fondazione Ma-razza; guadagna il premio speciale per testo e illustrazioni per il concorso “Codex Purpureus” pro-mosso dall’Associazione Culturale “Compagnia delle idee” presso la Biblioteca Comunale G. Rodari di Sarezzeno; una sua opera viene selezionata per una collettiva alla Fondazione Burri organizzata dall’Associazione Culturale “Artea” presso il Comune di Castello; si classifica al III° posto al concorso “Ulvolio. Visioni mai viste dell’albero di Ulisse” promosso dal Comune di Giano dell’Umbria (Spoleto) con direttore artistico Vincenzo Sparagna e in dicembre viene selezionata la sua opera La Giustizia per una mostra di illustrazioni sulla carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Agata Ewa Kordecka è nata a Wroclaw, in Polonia, nel 1976 e vive ad Asti. Dopo aver terminato gli studi nell’Accademia delle Belle Arti della sua città, con una borsa di studio di DAAD si laurea in Gra-fica e ottiene con una postlaurea in pedagogia al Politecnico di Wroclaw nel 2002. Coopera dal 2002 con il gruppo artistico “Reaktor – Today’s Art Center” organizzando mostre tematiche, conferenze e performance come Poeart e AfterAids. Partecipa inoltre a numerose mostre (fra cui tre personali) di pittura, disegno, grafica, e a festival di video art in Polonia e non solo: Swissincheese a Milano nel 2004, Kunst in de Villa Eschebach a Dresden nel 2000, International Print Festival a Ljubljana nel 1998. Pubblica anche alcune illustrazioni: sulla copertina del libro SF Z powodu picia podlego piwa nel 1999 e alcune opere in Land Uhrlo nel 2001. Nel 2004 viene segnalata nel concorso d’illustrazione “Il Se-gnalibro”.

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I LUNATICI15 NUOVI SCRITTORI ITALIANI

con una introduzione di Fulvio Panzeri

€ 15,00

A tutti coloro che con racconti, fotografie ed illustrazioni hanno partecipato alla realizzazione della rivista “La Luna di Traver-so”, siamo lieti di proporre l’antologia al prezzo speciale di

€ 10,00

IN LIBRERIA

Più che un’antologia di autori esordienti, il luogo in cui incontrare

gli autori da bestseller di domani.

PER INFORMAZIONI E PRENOTAZIONIMUP EDITORE - VICOLO AL LEON D’ORO, 6 - 43100 PARMA

www.mupeditore.it - [email protected] - tel. 0521 386014 - fax. 0521 506588

«“La Luna di Traverso” in que-sti anni è stata uno degli esempi più felici di uno spazio dedica-to alla “nuova scrittura”, spazio gestito all’insegna dell’apertu-ra e del confronto tra narrazioni diverse come segno stilistico e come autenticità delle storie. Con una novità sorprendente: la capacità dei giovani di autoge-stire un progetto, di sentirlo proprio e, in questo senso, vivo e vitale, come dimostrano I Lu-natici».

Fulvio Panzeri

FULVIO PANZERI ha collaborato con Vittorio Tondelli alla realizzazione di “Un weekend po-stmoderno” e ha curato la pubblicazione di tut-te le sue opere postume, edite da Bompiani e l’opera completa in due volumi nei “Classici Bompiani”. Con Generoso Picone ha pubblica-to il libro-intervista, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Si è occupato attivamente della nuova narrativa italiana, con vari volumi di saggi, da I nuovi selvaggi (Guaraldi, 1995) a Altre storie (Marcos y Marcos, 1996) fino a Senza rete (PeQuod, 1999). Sta curando la ri-pubblicazione delle opere di Giovanni Testori nei Classici Bompiani e negli Oscar Mondadori e ha pubblicato da Longanesi, Vita di Testori (2003). Nel 2000 è uscita da Guanda la sua pri-ma raccolta di poesie, L’occhio della trota.

Dopo sei anni di attività della rivista di narrativa “La Luna di Traverso”, esce il libro che racchiude i suoi pezzi migliori. Da Gianluca Morozzi a Monica Pistolato, una quindicina di autori che oggi escono con libri di successo, propongono i loro primi testi che già mostravano quel talento esploso proprio sulle pagine della rivista.

La Luna, nata nel 2001, celebra con questa uscita i suoi autori migliori, proponendone i racconti più piacevoli e succulenti alla scoperta del fare narrativa oggi in Italia.

Risultato del fermento creativo che pervade la penisola dei giovani autori, il libro è soprattutto una lettura piacevole, pervasa da invenzioni originali e punti di vista mai scontati, alla riscoperta di una realtà di tutti i giorni in veloce evoluzione.

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La rivista letteraria "La Luna di Traverso", edita dalla Casa editrice Monte Università Parma, in collaborazione con l'Archivio Giovani Artisti del Co-mune di Parma e con l'Assessorato ai Servizi Sociali, bandisce un NUOVO CONCORSO PER NARRATORI, FOTOGRAFI e ILLUSTRATORI

REGOLAMENTOArt. 1 - TEMA DEL CONCORSOIl prossimo tema della rivista sarà Trasformazioni. Da Ovidio al morphing digitalizzato, millenni di evoluzioni e metamorfosi. Dai cambiamenti di stile alle svolte epocali, fino alle teorie evoluzionisti-che e alla chirurgia estetica. Kairòs: il momento giusto, l'opportunità unica e irripetibile, durante la quale gli eventi convergono verso il nuovo. L'occasione per superare i limiti imposti dalla tradizione e dall'inerzia e intravedere nuovi orizzonti. Il tempo dei mutamenti e delle sfide.

Art. 2 - MODALITÀ DI PARTECIPAZIONEOpere narrative: si ammettono racconti originali ed inediti per una lunghezza massima di 5400 battute, spazi inclusi. Il materiale dovrà essere inviato via mail a [email protected] o per posta su floppy disk.Opere fotografiche: si accettano opere originali e non pubblicate. Ogni autore dovrà presentare 5 fotografie in formato 10x15 in bianco e nero facendole pervenire su negativo o su supporto magne-tico (floppy disk o cd rom). Illustrazioni: si ammettono da un minimo di 3 a un massimo di 5 tavole in bianco e nero del formato massimo di un foglio A4 (21x29.7 cm). Il materiale inviato per posta dovrà pervenire al seguente indirizzo: Archivio Giovani Artisti di Parma e Provincia c/o Palazzo Pigorini, via Repubblica, 29 - 43100 Parma.Le opere di tutti i partecipanti dovranno essere accompagnate da una breve biografia dell’autore cor-redata dai dati personali (nome, cognome, indirizzo, recapiti telefonici, indirizzo e-mail). In relazione alla previsione che il materiale possa essere pubblicato, si richiede inoltre il consenso al trattamento dei dati personali ai sensi della legge 675/96 sulla privacy. Inoltre i candidati si faranno garanti del-l'originalità dell'opera da loro presentata. Le decisioni della Commissione saranno inappellabili e il materiale non verrà restituito.Eventuali attestati di partecipazione al concorso saranno assegnati agli artisti che ne faranno richiesta solo qualora i loro lavori vengano selezionati.

Art. 3 - CRITERI DI SELEZIONEPer la valutazione delle opere si terrà conto della qualità, dei percorsi di ricerca formale e dell'originalità dei testi e delle immagini. Il premio del concorso consiste nella pubblicazione dell'opera sulla rivista "La Luna di Traverso". Solo i vincitori saranno contattati dalla redazione. Non si accettano racconti che hanno partecipato a bandi precedenti. Art. 4 – SCADENZALe opere devono essere consegnate entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 29 giugno 2007.

Art.5 – INFORMAZIONIPer ulteriori informazioni, rivolgersi ai seguenti numeri di telefono: 0521/384469, oppure agli indi-rizzi di posta elettronica: [email protected].; [email protected]. Orari di ufficio Archivio Giovani Artisti: dal lunedì al venerdì, dalle ore 8.00 alle 13.00; lunedì e giovedì anche dalle ore 15.00 alle 17.00.

Comune di ParmaAssessorato Politiche Culturali e Promozione di Iniziative per i Giovani

Assessorato ai Servizi Sociali e alle Politiche di Parità

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