Nero su Bianco Dicembre 2013

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Periodico della Cappella Universitaria di Siena

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Editoriale Solo l’amore di Alice Pappelli Pag. 3 L’angolo del Don Avventura ed Epifania: una sera di 20 anni fa di Don Roberto Bianchini Pag. 4 Parole Benedette Scopriamo la Evangelii Gaudium di Fabio Fiorino Pag. 5 Cappellania Il sorriso di un amico di Adriana Tarantini Pag. 6 Quando una vocazione diventano due di Federica Camilletti Pag. 6 Imparare a ritrovarsi.. dagli esercizi spirituali di Domenico Bova Pag. 7 Intervista Diversi da chi? La mia esperienza di Leandra Maltese Pagg. 8-9 Esperienze La spontaneità di un bambino di Alessandra Cocco Pag. 10 Educazione paritaria di Roberta Briamonte Pag. 11 Dal mondo dei libri al mondo del lavoro di Lorenzo Sciuto e Adele Castelli Pag. 14

Fotografando di Angelo Donzello Pagg. 12-13 Riflettendo L’importanza di chiamarsi onesto di Mari Maltese Pag. 15 Una, nessuna, centomila di Fabrizio Buscemi Pag. 16 L’infinito viaggiare di Marianna Di Tizio Pag. 17 Uni..versi Dai titoli di coda di Alfonso Napoli Pag. 18 Il personaggio San Vigilio: il vescovo evangelizzatore di Giuseppe Vazzana Pag. 19 Ciak si gira La disobbedienza giusta di Eugenio Alfonso Smurra Pag. 20

Tradizioni La “cuccìa” di Santa Lucia di Roberta Pipitone Pag. 21 Passatempo Cruciverba di Filippo Bardelli Pag. 22 Sudoku di Filippo Bardelli Pag. 23 Bacheca di Domenico Bova Pag. 23

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In questo numero vi augurano buona lettura...

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“Solo l’Amore costruisce ponti con l’Altro che è diverso ma che è fratello mio perché è figlio di Dio come lo sono io”. Le parole di questa canzone, cara alla nostra Comunità, mi risuonano in testa da qualche giorno e mi sono sembrate le più adatte a esprimere quello che vuol essere Nero su Bianco per le sue molteplici tipologie di lettori. Per te, matricola che da qualche mese inizi a fare i primi passi in Cappella Universitaria e sfogli per la prima volta que-ste pagine e per te che ormai da tanti anni ne sei assiduo lettore. E soprattutto per te che a San Vigilio non ci hai mai messo piede né tantomeno è nelle tue intenzioni farlo, ma ti trovi

“per caso” Nero su Bianco tra le mani attraverso un amico di università o di casa o in bella vista nel bancone di una biblioteca o sul tavolo di una sala lettura. In queste pagine, ricche di racconti e esperienze di diversi-tà, sono emersi prepotenti e spontanei la necessità e il desiderio di affrontare in tutte le sue sfumature il tema dell’alterità, argomento tanto attuale e inglobante in così larga parte la nostra vita, personale e comuni-taria, civile e religiosa. In mezzo a tanti dibattiti e opinioni che ogni giorno ascoltiamo vogliamo anche noi, studenti e lavoratori più o meno giovani, dare la nostra voce su temi caldi quali l’immigrazione, l’integrazione del e con il diverso, il mondo del lavoro, il valore dell’onestà. Vogliamo farlo cercando di evitare gli integrali-smi politici e religiosi, con semplicità e sulla ba-se di esperienze concre-te, consapevoli e certi che solo se mettiamo A-more in ogni nostra azio-ne riusciremo a costruire ponti autentici di frater-nità, ad abbattere le bar-riere di diversità tra noi, a vedere l’Altro e il Di-verso non come un nemi-co e una minaccia ma come vera ricchezza. So-lo con un potente slancio d’Amore ci sarà possibile uscire da noi stessi ossia “dal recinto dell'orto dei propri convincimenti considerati inamovibili se questi rischiano di diventare un o-stacolo, se chiudono l'orizzonte che è di Dio” (Papa Francesco). Mettendo da parte il muro delle nostre cer-tezze e logiche, dei nostri rigidi schemi e dei radicati pregiudizi potremo gustare la gioia piena della condivi-sione e del dono. Una testimonianza tangibile a riguardo può essere l’attività del volontariato universitario che da circa un anno si impegna attraverso Piccoli Passi Possibili per sostenere tante necessità presenti nella nostra città di Siena. Fare l’esperienza dell’alterità attraverso gli anziani nelle case di riposo, i carcerati, le persone che vivono nelle case-famiglia, aiutare e sostenere i bambini e i ragazzi nell’attività scolastica, essere concretamente presenti nelle raccolte alimentari: tutto questo non è che una goccia nell'oceano, ma se non ci fosse quella goccia all'oceano mancherebbe, ci insegna Madre Teresa. E avere una presenza costante al nostro fianco ci permetterà sicuramente di compiere il tutto in modo davvero speciale: “solo lo Spirito può suscitare la diversità, la pluralità, la molteplicità e allo stesso tempo fare l'unità. Perché quando siamo noi a voler fare la diversità facciamo gli scismi e quando siamo noi a voler fare l'unità facciamo l'uniformità, l'omo-logazione” (Papa Francesco). Buona lettura e buon Natale da tutta la redazione! ■

SOLO L’AMORE

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AVVENTURA ED EPIFANIA:

UNA SERA DI VENTI ANNI FA

Ci sono dei momenti nella vita che segnano una svolta nel modo di percepire la realtà. Non sempre riusciamo a cogliere questi passaggi nel momento in cui avvengono, ma guardando indietro li riconosciamo seguendo le tracce che hanno prodotto. Siamo dunque nel luglio del 1990 e mi trovo nei paesi baltici allora sotto il dominio sovietico, sebbene ancora per po-chissimo tempo. Sto facendo un viaggio a Leningrado tramite l’Università di Mosca dove studio per la mia tesi di laurea e con due amici mi viene la voglia di fare uno di quegli azzar-di che permettono solo i vent’anni. Comperiamo illegalmente dei biglietti del treno e, come

clandestini, iniziamo a visitare i paesi baltici, pensando che se proprio dovesse andar male ci rimanderebbero a Mosca o forse in Italia. Pernottando in alberghetti semi illegali consigliati da taxisti pescati fuori le stazioni visitiamo Riga e Tallin e rientriamo poi a Mosca altrettanto fortunosamente con un biglietto aereo rimediato con l’aiuto di una bustarella ad un’avvenentissima impiegata di Aeroflot – ma questa sarebbe un’altra storia. A Riga l’amica pisana con cui studio dall’inizio dell’università, e che è pianista, nota una locandina che pubbli-cizza un concerto. Alle sette inizia lo spettacolo e noi abbiamo il treno alle 23.00: è cosa fattibile. Ci sediamo nella cattedrale luterana della città ridotta a sala da concerto ed inizia l’esecuzione del Requiem di Mozart.

Non conosco quella musica, ma sono immediatamente rapito quasi fuori da me e percepisco un’epifania del divino in maniera evidente e nitida. Il grigiore opprimente del potere sovietico non può impedire che il vero, il buono e il bello mi si facciano davanti testimoniandomi che se quella musica è possibile allora ci deve essere Dio e il modo in cui ci raggiunge è la bellezza. Sono quasi frastornato; non sono un musicista e nemmeno un connaisseur di Mozart, ma attraverso quel linguaggio Dio mi raggiunge e tocca il mio cuore in modo da non rendermi possibile dubitare di lui e della sua volontà di raggiungermi. L’Eterno mi parla e seguendo il flusso di quella musica, attraverso le emozioni e gli stati d’animo che suscita in me, divento capace di rispondergli e sento che l’unico modo a me possibile di farlo è donargli la vita in un eccesso di amore. Sono un giovane slavi-sta infiammato dalla passione per i grandi romantici russi e vivo tutto attraverso il prisma della sensibilità let-teraria; non riconosco l’enorme ingenuità che v’è in me, ma tutto il mio percorso ulteriore passa per questo snodo. Non so da subito cosa fare per rispondere alla rivelazione della realtà di Dio e ci vorranno anni e mol-to patire perché ciò si chiarisca assumendo i tratti concreti del cammino verso il sacerdozio, eppure se torno a quella sera estiva di tanti anni fa rievocando la melodia struggente e tesa del Requiem dalle note iniziali del Dies irae, sconvolgenti e drammatiche, a quelle finali del Lux eterna, quasi pudiche nell’accennare la visione di Dio, so che qualcosa cambiò in me segnandomi in maniera indelebile. Per alcuni mesi ho continuato ad ascoltare quelle note in modo quasi ossessivo alla ricerca del mistero in es-se contenuto. In realtà, tuttavia, non di mistero si trattava, ma della presenza di Dio. ■

“...se quella musica è possibile allora ci deve essere Dio e il modo in cui ci raggiunge è la bellezza”

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5 Trovate il testo in versione integrale su:

http://www.vatican.va/holy_father/francesco/apost_exhortations/documents/ papa-francesco_esortazione-ap_20131124_evangelii-gaudium_it.html

SCOPRIAMO LA

EVANGELII GAUDIUM

Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accol-ga, senza un orizzonte di senso e di vita. La gioia del Vangelo è quella che niente e nessuno ci potrà mai togliere. I mali del nostro mondo – e quelli della Chiesa – non dovrebbero essere scuse per ridurre il nostro impegno e il nostro fervore. Consideriamoli come sfide per crescere. ■

Bisogna permettere che la gioia della fede cominci a destarsi, come una segreta ma ferma fiducia, anche in mezzo alle peggiori angustie. Se qualcuno ha accol-to questo amore che gli ridona il senso della vita, co-me può contenere il desiderio di comunicarlo agli al-tri? La vita cresce e matura nella misura in cui la do-niamo per la vita degli altri. La Parola ha in sé una potenzialità che non possiamo prevedere. Il Vangelo parla di un seme che, una volta seminato, cresce da sé anche quando l’agricoltore dorme.

Papa Francesco con l’esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” si rivolge a tutta la Chiesa, e quindi anche a ciascuno di noi, sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale. Eccone alcuni stralci.

Fedele al modello del Maestro, è vitale che oggi la Chiesa esca ad annunciare il Vangelo a tutti, in tutti i luo-ghi, in tutte le occasioni, senza indugio, senza repulsioni e senza paura. La gioia del Vangelo è per tutto il popolo, non può escludere nessuno. Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo ver-so Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. La Chiesa “in uscita” è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggia-no. “Primerear – prendere l’iniziativa”. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore, e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cer-care i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa!

La prima motivazione per evangelizzare è l’amore di Gesù che abbiamo ricevuto, l’esperienza di essere salvati da Lui che ci spinge ad amarlo sempre di più. Però, che amore è quello che non sente la necessità di parlare della persona amata, di presentarla, di farla conoscere? Se non proviamo l’intenso desiderio di comunicarlo, abbiamo bisogno di soffermarci in preghiera per chiedere a Lui che torni ad affascinarci.

La gioia del vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. Quando la vita interiore si chiude nei propri interes-si non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene.

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DALLA NOSTRA COMUNITA’

IL SORRISO DI UN AMICO

Conoscenza e condivisione: sono queste le parole chiave di una giornata speciale tra le strade della suggestiva Lucca, meta scelta per la gita d’amicizia all’inizio di questo nuovo anno. Nonostante la cittadina ci accolga con un cielo nuvoloso, un grande sole splende in me e mi lascio trasportare dall’onda dell’allegria e della spensieratezza pronta ad accogliere il calore del prossimo. Ci dirigiamo verso la casa di Santa Gemma Galgani, una mistica, devo esser sincera, a me sconosciuta. Due preparatissime suore ci raccontano la sua vita…c’è

sempre modo di imparare! Dopo la Santa Messa, momento di raccoglimento e di preghiera, gli ampi spazi verdi delle mura cittadine ci offrono la possibilità di una sosta rilassante. E’ questo il momento cardine dell’intera giornata, durante il quale la gita rivela il suo significato più bello: l’amicizia. Tra due tiri a palla, lanci di frisbee, spuntini salati colombiani offerti dalla sempre sorridente suor Lilia, le nostre chiacchiere diventano sempre più intense e piene di significato. Ho modo di cono-scere meglio persone nuove e di consolidare il rap-porto con chi conosco da più tempo. Sono mo-menti di serenità, gioia, confronto e condivisione; in fondo è questo, per me, il significato dell’amicizia. E come per ogni gita che si rispetti, il viaggio di ritorno rappresenta un momento indimenticabile: i canti intonati seguendo il ritmo della chitarra, le risate e gli abbracci fraterni mi riempiono il cuore di vera pace e vera gioia donandomi la certezza che il sorriso di un amico è il dono più prezioso che il Signore ogni giorno ci dà. ■

QUANDO UNA VOCAZIONE DIVENTANO DUE

Domenica 20 ottobre, in occasione del mese missionario, è venuta a parlarci della sua e-sperienza in Bolivia Evelina Scalera. Evelina fa parte della comunità “Papa Giovanni XXIII”, un’associazione fondata da don Oreste Benzi impegnata nell'attenzione a varie forme di disagio come la devianza adolescenziale, l'handicap, la prostituzione e la povertà. Prima di iniziare la sua testimonianza si scusa per non essere in grado di trasmettere con le parole quello che quest’ esperienza e la comunità di cui fa parte hanno significato per la sua vita.

Ma già lo sguardo e le sue scelte parlano per lei: Evelina ha adottato Jorge, un bambino boliviano con un passato difficile. Racconta di essersi sentita scelta come madre e di come la decisione dell’adozione abbia stravolto tutti i suoi progetti di vita, quindi della decisione di rientrare in Italia essendo cambiate le sue priorità. Mentre fa scorrere le foto della Bolivia spiega le abitudini di vita degli abitanti, parla delle difficol-tà che ha dovuto affrontare nel paese in cui svolgeva la sua attività missionaria, delle minacce che ha subi-to. E quando le viene chiesto se c’è una frase della Bibbia che sente particolarmente sua, cita la lettera di San Paolo ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Sicuramente Evelina è riuscita a rendere concreta questa Parola nella sua vita. Speriamo che anche in noi, ricevendo testimonianze come la sua, cresca il desiderio di offrire i nostri corpi come sacrificio vivente gradito a Dio. ■

“...serenità, gioia, confronto e condivisione; è questo, per me, il significato dell’amicizia...” Curiosando sull’Associazione “Papa Giovanni XXIII”: http://www.apg23.org/

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IMPARARE A RITROVARSI

...DAGLI ESERCIZI SPIRITUALI

Avete presente quando vi tuffate in mare e cercate di fare il respiro più profondo possi-bile per poter stare più a lungo sott'acqua? Ecco, quel respiro è vitale altrimenti non potre-ste mai farcela. Io dopo un periodo di forzata assenza oserei dire che lo stesso vale per la vita senza gli esercizi spirituali di inizio anno: senza di essi è impossibile affrontare un nuovo anno di studio/lavoro. E la mia non è retorica: chiedete a chi c’era, non siate timidi. Quest'anno poi gli esercizi so-no stati molto più intensi. A predicarli è stato Don Alessandro Di Medio, prete romano, il

quale da qualche tempo porta avanti un interessante percorso per i giovani chiamato Signa Veritatis, un pro-getto che con facilità può essere sintetizzato nel titolo di questi esercizi: “Imparare a ritrovarsi”. Già dalle prime battute si capisce che Don Alessandro è un tipo diretto: non gira troppo intorno ai temi, il grosso del lavoro tocca a noi e questo è chiaro già dalla prima meditazione. Ritrovarsi non è mai facile. Quan-ti di noi, senza trovare mai il tempo di fermarsi a riflettere, si fanno trascinare dalla corrente delle cose del mondo, un mondo che continua a correre a velocità pazzesca! Il silenzio, il momento più intimo e in cui ci è possibile ascoltare noi stessi, il nostro cuore e la nostra anima, appare come un’oasi nel deserto delle nostre città. Nel silenzio riscopriamo chi siamo, chi e cosa siamo stati nella nostra vita per le persone che ci sono state accanto e per quelle che oggi fanno parte del nostro cammino. Perché la vita può essere metaforizzata benissimo in un cammino, in una scalata in montagna o nel navigare in mare, ma a nulla servono le metafore se non ricominciamo ad ascoltare noi stessi e quello che Dio ci dice e ci dona ogni giorno nelle nostre giornate.

Affrontare i lati più bui della nostra vita, i nostri difetti, i nostri peccati, le nostre man-canze. Affrontare tutto que-sto in poco più di 48 ore sem-bra quasi impossibile; porne le basi però non lo è. Il nostro futuro infatti lo stiamo già vivendo, il presente è il no-stro futuro. Non possiamo pretendere che qualcosa cambi il nostro stato attuale se prima non iniziamo a cam-biare noi stessi. In questo non siamo soli: l’invito di Don Alessandro è quello infatti di avere una guida spirituale che ci accompagni nel cammi-no e ci aiuti ad affrontare i momenti più difficili. E’ bene

ricordare che il Signore non manda mai una croce più pesante di quanto possiamo sostenere e non si diverte a farci i dispetti, anche per le cose negative che capitano nella nostra vita. Pensiamo a quante cose belle ci insegna la sofferenza, quanto ci rende profondi e quanto ci centra sulle cose che hanno valore e che vera-mente desideriamo. In tutta la vita, nei momenti di gioia come in quelli di sofferenza, Lui è lì nell’eucarestia che ci aspetta come i nostri genitori sulla porta di casa quando tornavamo dal primo giorno di scuola. Tutto questo e molto altro ti lasciano dentro gli esercizi spirituali, insieme agli occhi delle persone con cui li hai condivisi che vedi pian piano cambiare. Provateci, che vi costa? Quello che otterrete, vi assicuro, è più di una vincita al superena-lotto perché non vi cambierà la vita, ma ve la farà ritrovare. ■

"La sofferenza arriva non per renderci tristi ma misurati,

non per renderci amareggiati ma saggi”. H. G. Wells

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8 “...ogni mattina vado a lavorare felice e consapevole di aver imparato tanto dal punto di vista professionale e soprattutto umano”

DIVERSI DA CHI?

Parlaci brevemente di te. Mi chiamo Leandra, ho 27 anni e nel 2009 ho conseguito la laurea triennale in Servizio Sociale presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Messina. Dopo

l’iscrizione all’albo degli assistenti sociali mi sono poi iscritta alla specialistica in Programmazione e Gestione delle Politiche e dei Servizi Sociali pres-so l’Università di Catania. L’anno scorso ho inizia-to a lavorare presso il Centro di Prima Accoglien-za di Pozzallo come assistente sociale e attualmen-te continuo a lavorare lì; i ritmi di lavoro sono in-tensi, ma ogni mattina vado a lavorare felice e con-sapevole di aver imparato tanto dal punto di vista professionale e soprattutto umano. Se penso al mio futuro mi piacerebbe continuare a lavorare nel campo dell’immigrazione che sento mi appartie-ne. Parlaci del centro di prima accoglienza di Pozzallo Il centro di Primo Soccorso e Accoglienza di Poz-zallo è un centro di emergenza. Normalmente gli immigrati dovrebbero restare pochi giorni poi esse-re smistati nei centri per richiedenti asilo politico, ma non è sempre così. Nel periodo estivo, a causa della consistenza degli sbarchi, gli ospiti sono co-stretti a sostare nei centri di prima accoglienza per molto tempo, perché tutti gli altri centri in Italia sono pieni. Il Centro offre assistenza conti-nua. Durante le ore diurne agli ospiti maggiorenni è permesso uscire con l’obbligo di tornare entro le ore 21. Purtroppo essendo un centro di primo soc-corso non ci sono le attrezzature adatte per una lunga permanenza e quindi la giornata tipo di un ospite del Centro è piuttosto monotona: mangia-no, dormono, passeggiano per la città e giocano a calcio in attesa del tanto atteso trasferimento che permetterà loro di iniziare le pratiche per la richie-sta di asilo politico. Normalmente prima del per-

messo di soggiorno trascorrono sette mesi e una volta ottenuti i documenti non sempre vengono aiutati nella ricerca del lavoro. Pensi che ci sono degli aspetti da migliorare nel Centro? Se sì, cosa cambieresti? Penso che per migliorare la funzionalità del Cen-tro potrebbero essere previste maggiori attività ricreative, soprattutto quando arrivano i bambini. Questa estate abbiamo organizzato una partita di calcetto e stiamo tentando di realizzarne un’altra coinvolgendo i ragazzi di Pozzallo proprio per cre-are maggiore integrazione e accettazione all’interno del paese. Purtroppo essendo un centro di primo soccorso ci troviamo spesso a fronteggia-re le emergenze derivanti dai nuovi sbarchi, quindi la presenza di volontari esterni faciliterebbe molto il miglioramento di questo aspetto. La presenza di questo centro ha cambiato l'imma-gine del paese? Cosa ne pensano i cittadini? Sicuramente la presenza del Centro all’interno del paese ha creato un po’ di scombussolamento nei cittadini. Quest’anno gli sbarchi sono aumentati ed essendo gli ospiti liberi di uscire dal Centro non è difficile incontrarli in tutti gli angoli di Pozzallo. Questa cosa ha destato preoccupazione nei citta-dini e spesso, soprattutto all’inizio, erano frequen-ti allarmismi nei confronti degli “stranieri”. Piano piano anche la popolazione ha cominciato ad adat-tarsi. A volte quando passeggio per il paese noto con piacere che sia i bambini che gli adulti cerca-no di interagire e comunicare con loro. La popola-zione si è anche prestata ad aiuti pratici recandosi al Centro a portare giocattoli per bambini e indu-menti. Sicuramente la visita del Papa ha sensibiliz-zato la popolazione dei paesi che quotidianamente si trovano a fronteggiare questa realtà e la gente ha capito di non essere sola, si è quasi sentita pri-vilegiata.

Intervista alla nostra amica Leandra, assistente sociale nel centro di primo soccorso e assistenza di Pozzallo in Sicilia, che ci racconta la sua esperienza umana e lavorativa a contatto con il "diverso"

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Pensi che il lavoro che fai abbia cambiato la tua percezione del diverso? In che modo? Grazie a questo lavoro sono cambiata tantissimo e la mia visione è totalmente rivoluzionata. Spesso si fa l’errore di stereotipare le persone e le cose. Quando si pensa all’immigrato si immagina qualcuno che proviene da Paesi lontani, non industrializzati e inferiori. Vengono visti come futuri criminali, appro-fittatori e come persone che pesano sull’Italia che non ha lavoro per i suoi cittadini, figuriamoci per loro. Io personalmente ho imparato che la diversità è una ricchezza. Mi hanno insegnato che cos’è la speranza e ho imparato che meno si ha e più si è di-sposti a condividere. I primi tempi tornavo a casa scombussolata, e tutto quello che mi circonda-va sembrava as-sumere un nuo-vo aspetto. A-desso, dopo due anni, mi sento arricchita e sto progettando un viaggio in Africa per poter speri-mentare con mano ciò che queste persone mi hanno fatto vedere con i lo-ro occhi e ascol-tare con le loro orecchie. Essendo il mio un ruolo di assistente sociale, sono la prima persona con cui parlano e i loro racconti ri-marranno per sempre impressi dentro di me. Guar-dando gli occhi di queste persone si può scorgere la sofferenza che è ormai loro compagna di vita. Guar-dano all’Italia e all’Europa come a un’ancora di sal-vezza, ma sanno che anche se riusciranno a co-struirsi una nuova vita, porteranno per sempre den-tro il loro cuore il peso del dolore e della sofferenza che li ha accompagnati fino ad oggi.

Una storia che ti ha particolarmente colpito. Tra le tante ricordo con precisione la storia di un ragazzo. Una mattina conducevo i miei colloqui con alcuni di loro in modo informale, ero seduta nella mia panchina e si è avvicinato un ragazzo, era da alcuni giorni nel Centro ma era rimasto sempre in disparte nonostante lo avessi spesso stimolato salu-tandolo e parlandogli. Si è seduto con me e ha co-minciato a parlare di sé, della sua famiglia, della sua vita. Aveva 25 anni e proveniva dal Sudan. A causa di problemi politici lui e la sua famiglia erano stati arrestati, catturati brutalmente mentre erano tran-quilli in casa. Lui è riuscito a scappare e dei suoi genitori non ha più notizie. Quando ha parlato dei

suoi genitori ha cominciato a piangere dicen-do di essere preoccupato per loro. Era davvero emo-zionante la te-nerezza con la quale parlava della mamma. Il suo dolore era davvero pro-fondo e le sue lacrime rigava-no un volto già segnato dalla sofferenza. In queste occasio-ni non esistono

parole per consolare così gli ho preso la mano e sia-mo rimasti in silenzio. Dopo un po’ si è asciugato le lacrime, mi ha ringraziato per averlo ascoltato ed è tornato in mezzo agli altri come se niente fosse, sor-ridendo e parlando tranquillamente. Queste perso-ne hanno imparato a convivere con la sofferenza, la portano dentro, è parte di loro. Questa sofferenza però gli permette di avere sempre un motivo in più per lottare, per sperare e andare avanti. ■

“...ho imparato che la diversità è una ricchezza. Mi hanno insegnato che cos’è la speranza e che meno si ha e più si è disposti a condividere.”

LA MIA ESPERIENZA

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Tu che stai leggendo, immagina che oggi sia un caldo giovedì di fine agosto a Siracusa. Nella pausa pranzo decidi di andare al porto di Ortigia per prenderti una granita in riva al mare e rilassarti un po’. Sei lì a gustare la tua granita e ad un tratto un trambusto incredi-bile: la Guardia Costiera traina un barcone nel porto e arrivano sulla banchina la Protezio-ne Civile, la polizia e volontari di Medici Senza Frontiere. Iniziano a far sbarcare gli immi-grati. Due signori in giacca e cravatta, seduti accanto a te, iniziano a lamentarsi: “Sta gen-te ci invade le strade, gli ospedali e porta malattie! Sì è vero sono in difficoltà, ma tutti qui

devono venire? E poi, diciamoci la verità, la maggior parte, tutti delinquenti sono”. Nel frattempo quella “gente” inizia a scendere dal barcone: sono tutti stanchi, silienziosi, disidratati, le labbra bianche e piene di tagli, i volti spaventati. Quante donne, quanti bambini, quanti giovani! Non te l’aspettavi eh? Tra la folla dei disperati spicca un ragazzino, avrà 10 anni. Ha addosso il vestito della domenica, tutto sgualcito, e scarpe lucide eleganti. Gli hanno dato un panino, lo finisce, si alza, appallottola la carta, si guarda intorno e cammi-na. Una volontaria lo insegue: “Dove vai, vieni qui, non ti devi allontanare. Ehi tu mi capisci?” Il bambino si ferma davanti a una pattumiera e getta la carta, poi si accorge della volontaria che urla e si sbraccia, arrossi-sce e risponde: “I just want to throw the paper sandwich in the bin”. La ragazza lo guarda allibita, non ha capito una parola. Tu che mastichi un po’ di inglese ti permetti di intervenire per fare da interprete. Mentre la polizia esegue la solita trafila, tu, la volontaria e il ragazzino parlate un po’. E’ siriano, ha 12 anni, il padre è ingegnere. La mamma e il fratello maggiore sono morti, colpiti in pieno giorno mentre erano al mercato; suo padre ha speso tutti i risparmi per fare fuggire lui e la sorellina con uno zio più giovane. Non riesci a dire granchè a que-sto ragazzino, tranne un banale “Welcome in Italy, we take care of you now”. Torni al tavolo con mille pensieri in testa. I signori accanto a te hanno cambiato tono: “Guardalo. Avrà la stessa età di mio figlio; lui però la carta l’avrebbe gettata a terra” Questa è una di quella tante scene che si possono vivere in Sicilia negli ultimi tempi. Potrei forse raccontare per ore tante bel-le storie, ma penso che questa basti allo scopo. Noi non siamo né ministri, né sinda-ci, né capi di stato, e non possiamo inter-venire sugli assetti globali o sulla politica di uno stato. Ma intanto si potrebbe co-minciare cercando di non essere come quei tipi seduti al bar. Prima di pensare dovremmo spogliarci delle nostre convin-zioni perbeniste, smetterla di storcere il naso e non aspettare che la disperazione ci venga sbattuta brutalmente in faccia co-me sta accadendo in Sicilia negli ultimi an-ni. La prossima volta che guardate dall’alto in basso un “vu cumprà” pensate che forse potrebbe essere laureato e provenire da una famiglia perbene e che forse ha visto morire tutti i parenti perché nel suo paese ammazzano gli innocenti. Forse fare il vu cum-prà per lui è meglio che morire ammazzato o essere costretto a uccidere per sopravvivere. ■

10 “Guardalo. Avrà la stessa età di mio figlio; lui però la carta l’avrebbe gettata a terra”

STORIE DI ORDINARI PREGIUDIZI VINTI

DALLA SPONTANEITA’ DI UN BAMBINO

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“Non ci sono maestri, ma soltanto allievi”- Sanguineti.

Come posso migliorare la qualità del mio tempo libero? Ero alla ricer-ca di qualcosa che potesse arric-chirmi dal punto di vista umano ed ero perciò propensa verso qualche attività di volontariato. Ed ecco quella che più mi attrae: si tratta

di formare un gruppo per un doposcuola. Il proget-to Prime Persone nasce dall'iniziativa di un gruppo di giovani studentesse finanziato dalla Regione To-scana e accolto con entusiasmo dalla Corte dei Miracoli che of-fre lo spazio fisi-co necessario. Studenti univer-sitari si offrono come tutor per aiutare quei ra-gazzi che incon-trano difficoltà nello studio, cre-ando però dei rapporti paritari. Uno dei punti di forza del proget-to consiste infatti in uno scambio di esperienze bila-terale; non c'è un rapporto gerarchico tra tutor e studente. È proprio l'idea dell'educazione alla pari ciò che più mi colpisce di questo progetto. Un'educazione così pensata, nella quale chi si trova nel ruolo di insegna-re qualcosa si pone anche in quello di chi ha biso-gno di continuare a imparare, ben risponde a mio avviso a problemi che affliggono la scuola italiana. Un rapporto così strutturato, infatti, mettendo a proprio agio lo studente, crea un clima stimolante che prova a non mettere limiti alla curiosità. Rende poi i ragazzi parte attiva del processo insegnamento-apprendimento, pian piano consapevoli delle proprie capacità e del proprio ruolo sociale. Questi incontri nascono soprattutto con lo scopo di favorire l'inte-grazione di studenti immigrati, per i quali l'ambiente scolastico ha una funzione cruciale. È la scuola in-

fatti che deve promuovere le diversità, valorizzare i singoli e costruire dei gruppi solidali e aperti all'ac-coglienza. La comunità scolastica è in fondo una riproduzione della comunità sociale; saper parteciparvi signifi-cherebbe porre le basi per una società più sensibile e attenta ai veri valori. Contrastare la dispersione scolastica è uno degli obiettivi più alti del progetto Prime Persone e per riuscirci noi tutor dobbiamo cercare di sintonizzarci con lo studente che abbia-mo di fronte, attraverso momenti di condivisione e

confronto. Il più delle volte questi sono ragazzi che non si sentono capiti, non cono-scono se stessi e le loro potenziali-tà e non sanno da che parte andare. Far vedere loro che anche chi si trova dall'altra parte ha paure e debolezze signifi-ca iniziare a cre-scere insieme. Non è facile e

bisogna avere pazienza. In questa esperienza sto sperimentando quanta voglia abbiano i ragazzi di raccontarsi, nonostante la diffidenza iniziale. Ma una volta trovata la chiave giusta non esitano a mo-strare tutto ciò che hanno dentro, rivelandosi mol-to disponibili e volenterosi. Stiamo formando un gruppo di tutor e studenti do-ve ciascuno mette a disposizione tutto il proprio sapere, le proprie idee e i propri sogni. Siamo tutti di età diverse e di provenienza diversa ed è questa diversità il motore dell'apprendimento. Ciascuno di noi prova a mettere ogni volta un pezzo della pro-pria storia cosicché alla fine tutti- sia tutor che studenti- possano acquisire un senso di efficacia personale e collettiva. È un'esperienza unica di scambio, uno spontaneo passaggio di conoscenze e passioni. ■

EDUCAZIONE PARITARIA

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GITA DI AMICIZIA

A LUCCA

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MOMENTI.. SPIRITUALI

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Dopo le tante fatiche universitarie, “anche io da oggi sono ufficialmente disoccupato”. Ancor prima di completare la specialistica in Ingegneria ho cominciato a valutare ogni tipo d’opportunità che mi permettesse di muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Grazie all’esperienza maturata durante i miei due lunghi tirocini, uno italiano e uno tede-sco, sono riuscito ad assicurarmi un periodo di prova presso una start-up senese. La collaborazione dà i primi frutti e il capo decide di prendermi per un progetto di dura-ta annuale, co-finanziato dalla regione To-

scana. Devo far fronte però a ritardi fino a quattro mesi nei pagamenti che, a conclusione dei diciotto di collaborazione, mi fanno intuire di aver appreso a sufficienza per poter cer-care un nuovo posto di lavoro. Così, guardandomi intorno, una nuova start-up cattura la mia attenzione, ma stavolta la sede è Milano. Le cose vanno molto meglio: gli stipendi sono più regolari e i rapporti più rilassati, ma lavoro pur sempre per una start-up, quindi precarietà obbligata. Trascorsi sei mesi non tardano i primi problemi: azienda in crisi, taglio al perso-nale. Preoccupato comincio a rispondere alle tante proposte arrivatemi dalle grandi aziende. Tanti colloqui poi una deci-sione: non voglio ancora abbandonare la nave, parlo con il capo. La discussione ha ottimi frutti e ottengo un rinnovo che al termine del contratto attuale mi “regalerà” un tempo indeterminato. Non c’è una ricetta magica per questo, basta avere fiducia nei propri mezzi e nella provvidenza, un po’ di tenacia e tanta voglia di fare. Le opportunità arrivano per tutti, basta crederci, seguire ogni occasione e… non smette-re di sognare. ■

“Venga con comodo verso le 11” ringrazio e riaggancio poi, certa di non essere udita, fac-cio una pernacchia. Per i segretari conta solo che il docente arrivi in tempo per fiondarsi in classe, io invece so di aver bisogno di essere sul posto per tempo. La prima ora del primo giorno in una nuova classe è un momento magico: i ragazzi staranno al loro posto come non mai, un’occasione troppo rara per sprecarla entrando in classe impreparata. I miei alunni saranno troppo impegnati a stabilire la mia collocazione nella tassonomia di Linneo per fare baccano; con un po' di fortuna sarò ancora un mammifero alla fine dell'ora. Sapere è potere

e, quando dico così, non intendo le nozioni di una disciplina: prima li conosco prima posso stabilire un lega-me di fedeltà. Anche se i test d'ingresso sono stati già somministrati io chiedo loro ugualmente di scrivermi una presentazione, col pretesto di valutare il loro livello d'italiano. Tutto in classe ha un voto, presunto o reale, minimo o elevato. Prendere nota di quando collaborano e quando si rifiutano di collaborare, segnando su un'agenda i più e i meno ad esempio, significa mostrare loro attenzione. Si potrebbero offendere altrimen-ti; e questo è solo uno dei tanti scogli da affrontare. Non scoraggiarti, aspirante supplente, ingranerai la marcia anche tu e, un giorno non lontano, frequenterai un corso d'abilitazione, in cui qualcuno penserà a spiegarti come hai fatto a sopravvivere fino a quel momento! ■

DAL MONDO DEI LIBRI

AL MONDO DEL LAVORO

“...un po’ di tenacia e tanta voglia di fare” “...non scoraggiarti, aspirante supplente, ingranerai la marcia anche tu...”

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15 “Voglio leggere la parola “onestà” nella fronte di ogni politicante. Voglio osservare onestà nel gioco di ogni infante” Crissi Piras

Quotidianamente si può assistere a una pratica sociale molto diffu-sa, e non credo nemmeno da trop-po poco tempo, la quale consiste nel cercare di apparire delle brave persone utilizzando tutti i mezzi a propria disposizione col fine preci-

puo di realizzare i propri obiettivi e i propri interessi personali ad ogni costo. Sintetizzando, sembra che l’importante sia apparire uomini e donne onesti più che esserlo davvero. E allorquando il grillo parlante della nostra coscienza ci suggerisce le giuste mosse per barcamenarci dignitosamente nel mare della vita condivisa, le sue parole vengono da noi recepite e messe in pratica con riluttanza poiché sembrano opporsi all’allettante prospettiva di raggiungere sen-za troppi impedi-menti gli scopi che ci eravamo prefis-sati dapprincipio. La conseguenza è che oggi l’onestà è vista e interpreta-ta come un’imposizione dall’alto, un diktat finale, un onere schiacciante. At-torno a noi sorrisi smaglianti e gesti garbati nascondo-no dietro sé la vo-lontà di riuscire ad ogni costo nel pro-prio tacito inten-to. Non è il preludio di un trattatello moralistico quello che voglio portare avanti in questa sede, ma piutto-sto un tentativo di fare luce su un argomento cadu-to in disuso, parlare del quale oggigiorno quasi ci rende ridicoli agli occhi dei più, e il quesito in parti-colare è il seguente: l’onestà ha un valore effettivo oltre ad essere utile per la vita di tutti i giorni? Fermo restando che l’onestà è un principio richiesto dal vivere civile, ritengo non sia banale azzardare

che essa possa e debba essere una condizione inte-riore dell’uomo che desidera agire nella verità. Quin-di, prima ancora che un’esigenza imposta dalla so-cietà, essa consiste innanzitutto nell’essere onesti con sé stessi. Quando si sia raggiunto un equilibrio di questo tipo, ecco che si dissolve come neve al sole l’“onere dell’onestà” ed essa comincia a sprigio-narsi da persona a persona senza che prima si sia astutamente programmato un copione di vita, come collante dell’incontro interpersonale. Il lavoro che va fatto è su noi stessi e presuppone una riflessione particolare intorno a quel principio fatto proprio da molte religioni, il quale recita “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Come prima di me intuì un certo Marco Tullio Ci-cerone (intuizione che egli ci consegnò nel terzo

libro del trattato filosofico De offi-ciis), in una pro-spettiva circolare per l’uomo dabbe-ne l’utile infine non può non coin-cidere con l’onesto e tutto ciò che non può essere compreso dalla categoria dell’onestà non è giusto che sia per-seguito o, men che meno, desiderato. Certamente nel terzo millennio noi abbiamo acquisito un’altra forma mentis e il nostro

compito non è quello di applicare freddamente alla vita le prescrizioni morali che un grande oratore del I secolo a.C. ci ha lasciato trascritte nella sua ulti-ma opera. Dato però che a distanza di così tanto tempo l’urgenza etica è ancora una delle cifre di-stintive dell’uomo in quanto tale, forse è giusto con-tinuare a riflettere su di essa, continuare a cercare di interpretarla. Forse è giusto continuare ad essere uomini. ■

L’IMPORTANZA DI

CHIAMARSI ONESTO

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16 Curiosa su: http://www.comune.siena.it/

Se Siena fosse la protagonista di un romanzo, di certo sarebbe il pirandelliano Vitangelo Moscarda, l’uomo dalle così varie identità da uscir fuor di senno. A chi abbia avuto la possi-bilità se non di comprenderla, almeno di conoscerla anche solo un po’, non sarà di certo sfuggito che essa vive di eterni contrasti: è una e molteplice al contempo. In essa convivono con alterne vicende i mille volti di una città la cui storia plurisecolare non sembra aver vissu-to mai fratture nette ma sempre lenti eppur inesorabili progressi. Ed è proprio tale passato che sembra figliare tale molteplicità: ogni volto di Siena ha almeno

cinque-sei secoli sulle spalle. E se volessimo seguire un criterio cronologico, dovremmo assegnare il primo po-sto alla Siena contradaiola, quella di cui è necessario rispettare i riti, le bizzarrie, le passioni e impararne il vocabolario come si fa per una lingua straniera e affascinante perché sa di cosa lenta, maturata nel tempo, stratificata nelle coscienze. È soprattutto la Siena cui è necessario lasciare spazio almeno in due follemente entusiasmanti giorni all’anno. Ma Siena è anche la sua Università, la cui storia testimonia come questa città abbia sempre vissuto, perché ne ha sempre avuto intimo bisogno, di comunicare con l’esterno. La miriade di studenti europei che arrivano qui grazie al progetto Erasmus non sono che gli ultimi discendenti dei clerici vagantes (il fenomeno non toc-cò Siena però, perché venne messo al bando prima della fondazione dell’Università), studiosi che nel medioe-

vo grazie ai loro viaggi nelle varie città europee gettarono le basi per una co-scienza continentale comune. Ma no-nostante i secoli, l’Università è un a-vamposto nel futuro: è per sua defini-zione il luogo della giovinezza; antica ma nuova al contempo sembra riuscire a dare vitalità a vicoli, case (a volte tuguri) che trovano così nuovo senso. Siena è poi denaro, molto denaro, trop-po forse. Babbo Monte ha garantito nei secoli a questa città di sperimenta-re ogni sua possibilità, di diventare bel-la, di arricchirsi di cultura ai massimi livelli. Un modello economico virtuoso, a parer mio, di cui ogni senese si sente parte, ne è coinvolto in misura maggio-re o minore, quasi mai ne è escluso,

perché è consapevole che gli garantisce diritti e un’alta qualità della vita. In nessun’altra città del mondo si poteva godere (ahimè ora non più) di un caleidoscopio di attività ed esperienze a portata di mano, del tutto gratuite, rese possibili proprio da quel controllo pubblico di cui molto si è discusso e che ha, in realtà, fun-zionato bene fin quando la disonestà non ne ha reso evidenti le pecche. Ciò che più apprezzo di Siena è che è consapevole di essere una comunità, in cui il rapporto tra cittadini e rappresentanti è diretto, visibile. È fatto di blog, di discussione animate in piazza, dei riti cerimoniosi legati al Palio, di retorica, di convinzione politiche e di appartenenze partitiche: Siena è una città che parla e che pensa. Una sua pecca? Non essere forse riuscita a far comunicare reciprocamente le infinite anime. Ogni città nella città non sente l’esigenza di farsi capire, di entrare in relazione, forse tutte gelose delle loro ricchezze. Che non sia l’ennesima sfida di Siena? ■

UNA, NESSUNA, CENTOMILA

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17 A. Girardi, L'infinito e altri sciolti giovanili, in Id.,

Lingua e pensiero nei Canti di Leopardi, Venezia, Marsilio, 2000, pp. 33-41

“Noioso, pessimista cronico, sfi-gato acuto! Ma non poteva deci-dersi a parlare con Silvia invece di guardarla da lontano? Certo, però, storpio com’era non poteva avere molta fortuna con le donne…” So-no probabilmente di questo genere

le riflessioni che scaturiscono negli alunni delle scuole superiori quando devono accostarsi allo stu-dio di Giacomo Leopardi. Di colui che con i suoi sospiri rivolti alla luna o al ricordo della defunta Silvia sembra abbia ammor-bato generazioni di adole-scenti e pare continuerà a farlo. Eppure, “sedendo e mirando”, o meglio, seden-do e leggendo con più at-tenzione, è possibile nota-re che Leopardi può tra-smettere ai suoi fruitori validi insegnamenti. Basta considerare L’infinito: quindici versi che l’autore ha costruito con abilità tale da introdursi in un genere letterariamente consolidato, l’idillio, per alterarlo a proprio piaci-mento. Per modellarlo in modo che a essere espres-sa non sia più un’immagine stereotipata della natura o una situazione tipica della borghesia del Settecento, ma la dialettica dei senti-menti e delle riflessioni che animano l’io lirico. An-che la costruzione metrica è oggetto dell’originale elaborazione del poeta: gli endecasillabi sciolti, versi solitamente destinati a trattare narrazioni di genere epico o argomenti di valore civile, sono scelti per esternare in forma poetica riflessioni e sensazioni soggettive. Ma andando oltre la creatività e la cultura dell’autore, L’infinito rappresenta un inno alle capa-cità della mente umana anche perché Leopardi è in grado di esplorare mondi per lui intangibili attraver-

so le sole facoltà intellettive. Le barriere spaziali vengono infrante e le distanze temporali si annulla-no: l’io lirico può autonomamente “naufragar (…) in questo mare”, compiere un viaggio dentro di sé u-sando come biglietto esclusivamente la sua immagi-nazione. Un’esperienza unica, personale, libera, che non necessita di sostanze capaci di alterare le con-dizioni psichiche per poterla vivere. Un’esperienza diversa dai viaggi mentali che molti ragazzi cercano di intraprendere attraverso l’uso di sostanze psico-attive come la marijuana o l’hashish, derivati della cannabis. Queste droghe destano preoccupazione

tra le personalità del mon-do scientifico e politico che nella seconda giornata dei WeFree Days 2013 a San Patrignano hanno indi-cato i danni che possono provocare. Spesso, infatti, gli spinelli sono considerati innocui, ma gli studi illu-strano che apportano dan-ni al cervello incidendo sulla capacità decisionale, nonché sulle facoltà di apprendimento e memoria. Inoltre, col tempo induco-no all’isolamento e ad assu-mere comportamenti im-pulsivi, in netta contrappo-sizione all’immagine tipica della canna come mezzo per entrare in contatto con gli altri o per rilassarsi. Senza dimenticare l’“effetto gateaway”, ovve-

ro la funzione di veicolo per l’accesso a droghe più nocive. Ebbene, Leopardi non ha avuto bisogno di questi mezzi per allontanarsi da una realtà che non gli of-friva soddisfazioni, ma ha messo a frutto le poten-zialità della sua mente. Leopardi, per quanto incon-sapevolmente, può trasmettere oggi un messaggio che esula da quel pessimismo in cui è stato ingabbia-to: può dirci che è possibile perdersi senza sballarsi. ■

L’INFINITO VIAGGIARE

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18 Principali traduzioni italiane: Pietre Ripetizioni Sbarre, Quarta dimensione, Il Funambolo e la Luna

DAI TITOLI DI CODA

Dicono addio i colori dei tramon-ti. È tempo di preparare/ le tre vali-gie – i libri, le carte, le camicie –/ e non scordare quella veste rosa che ti stava così bene/ anche se non la indosserai d’inverno. Io/ nei pochi giorni che ci restano, riguarderò/ i

versi scritti in luglio e agosto,/ anche se temo che non aggiungan niente, semmai/ che tolgano molto, poiché tra di essi traspare/ l’oscuro sospetto che anche questa estate/ con le sue cicale, i suoi alberi, il mare,/ coi fischi delle navi nei tramonti gloriosi,/ coi barcaioli sotto i balconi al chiaro di luna/ e con la sua misericordia ipocrita, sarà l’ultima. Tre novembre 1989 data l’ultima poesia pubblicata da Ghiannis Ritsos, rappresentante indiscusso nel pantheon della poesia greca del Novecento: un anno dopo, per lui, sarebbe so-praggiunta la morte. Che i poeti non vada-no d’accordo coi numeri è luogo comune; non sarebbe stata quella, infatti, l’ultima estate per Ghiannis Ritsos (nato nel Pelo-ponneso nel 1909), la cui vita avrebbe attraversato ancora un ennesimo ciclo di stagioni prima di spegnersi. La poesia, tuttavia, si serve di lettere e spesso non bada alle sottigliezze dell’algebra: è nell’estate del 1989 che il poeta neo-greco stila, infatti, il suo testamento spirituale. Ai posteri le tre valigie: i libri della sua adolescenza dilaniata dalla povertà, dai numerosi lutti familiari e

dalla malattia nervosa che colpì gli ultimi due cari rimastigli (il padre e la sorella Lula); le carte spesso occasionali su cui scriveva i suoi versi, anche quan-do questi erano messi al bando o composti di nasco-sto con la baionetta puntata contro durante la pri-gionia e l’esilio (1967-1974); le camicie rimboccate di infaticabile scrittore (oltre centocinquanta raccol-te poetiche) e uomo d’azione in difesa della libertà greca e non solo. Il paesaggio descritto è quello della sua terra, la Grecia con i propri miti, gli eroi in congedo, la natu-ra mediterranea, che ha sempre fatto da sfondo alla sua produzione teatrale e poetica; i porti metaforici e reali verso i quali ha indirizzato l’esistenza prendo-no vita tra le urla della gente di mare intervallate dai saluti delle imbarcazioni, e la fioca luce del tra-monto. Pura, luminosa, eterea ed eterna, la luna – tema

“assillante” nella produzione di Ghiannis Ritsos – svetta alta nel cielo: meta fina-le dell’artista e allo stesso tem-po occhio vigile del poeta sulla Grecia attuale, erede di anti-che contraddi-zioni e ferite non ancora ci-catrizzate. Cominciare dal-la fine, dunque, per riscoprire l’opera poetica

– ottimamente e consistentemente tradotta anche in italiano – di uno dei più grandi autori del Nove-cento e per dare ascolto alla flebile voce della lette-ratura schiacciata dall’assordante rumore della crisi economica che oggi piega la Grecia. ■

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SAN VIGILIO: IL VESCOVO

EVANGELIZZATORE

Le persone con cui spesso si trova ad interloquire sono i poveri e gli ammalati, che con la preghiera riesce a guarire e far tornare a sorridere.

San Vigilio nasce a Roma nel 365 d.C. in una delle famiglie più ricche della capitale. Rimasto orfano in giovane età, la madre fa di tutto per garantirgli un’educazione acca-demica. Vigilio infatti lascerà Roma per andare a studiare ad Atene

che in quel periodo era il centro nevralgico della cultura occidentale. Nonostante le molte distrazio-ni che la città greca in quel tempo offriva ai giovani studenti che vi risiedevano, Vigilio divideva il suo tempo tra lo studio, la scuola e la preghiera. In lui infatti sin dalla giovane età emergeva una grande fede ed un forte amore verso Dio. Una volta com-piuto il diciassettesimo anno di età e terminato il suo percorso scolastico, lasciò Atene per ritornare nella sua Roma. Nella capitale rimase pochissimo tempo, fino al 383, anno in cui partì verso le Alpi Tridentine con sua madre e i suoi due fratelli mino-ri. Uno dei motivi che lo spinsero a lasciare Roma fu la forte motivazione di diffondere il Vangelo nei territori dove prevaleva ancora l’idolatria. Nel corso del suo viaggio verso le Alpi egli farà sosta dapprima su un monte di Bergamo - dove attualmente vi è un castello che prende proprio il suo nome - e successi-vamente a Milano per fare visita a S. Ambrogio, suo antico amico. Verso la fine del 383 arriva a Trento dove con sua madre e i suoi fratelli, nel giro di qual-che anno, riuscirà ad ottenere la stima degli abitan-ti e acquistò anche una casa nel luogo dove attual-mente sorge l’abside del Duomo. Ed è proprio in questi anni che Vigilio, una volta diventato presbite-ro, accresce ulteriormente la sua santità, al punto di conquistarsi la venerazione da parte dei fedeli trentini. Nel 385, all’età di 20 soli anni, diventa Ve-scovo di Trento, incarico affidatogli soprattutto per via dell’umiltà e della stima che il clero aveva nei suoi confronti. Sin dall’inizio del suo episcopato il compito primario che Vigilio intende portare a ter-mine è quello di conoscere da vicino la sua gente, cercando di diffondere con amore e umiltà le paro-le del Vangelo nel tentativo di debellare tutte le forme di idolatrie presenti nel territorio. Le perso-ne con cui spesso si trova ad interloquire sono i po-veri e gli ammalati, che con la preghiera riesce a guarire e far tornare a sorridere. A Trento oramai il

numero dei credenti inizia a crescere di giorno in giorno. Vigilio infatti, una volta evangelizzata la cit-tà, inizia a spostarsi nei paesi limitrofi per diffonde-re il Vangelo. Da lì a poco riuscirà ad evangelizzare la Val di Non, le diocesi di Brescia e di Verona e la Val Rendena. Proprio in quest’ultimo territorio tro-verà la morte il 26 giugno del 405, a seguito di un martirio tristemente subito per il fatto di aver di-strutto una statua raffigurante un idolo pagano. Il corpo di San Vigilio verrà tumulato all’interno del Duomo di Trento dove si conserva tutt’ora. In ono-re del nostro San Vigilio ogni anno a Trento, in quanto Santo Patrono della città, vengono svolte le “Feste Vigiliane”. L’esempio di San Vigilio ci insegna dunque ad affrontare la nostra vita con immensa umiltà e rispetto verso gli altri. Non ci resta che prendere a modello gli insegnamenti del Patrono della nostra Comunità. ■

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20 "Io’ genti a mari non ‘e lassatu mai“ (“Io non ho mai lasciato gente in mare”) : il pescatore Ernesto/Mimmo Cuticchio pronuncia questa frase che è una sentenza contro l'indifferenza.

“Non ho mai abbandonato nessu-no in mare”, afferma risolutamente il vecchio pescatore Ernesto (attraverso il volto fiero di Mimmo Cuticchio), con l’orgogliosa saggez-za di chi, in settant’anni, dal mare ha imparato allo stesso tempo du-

rezza e generosità. Ma ora, mentre dalla sua barca vede uomini e donne nuotare disperatamente verso la vita, dovrebbe ob-bedire all’assurdo ordine di non farli salire a bordo; un ordine fondato direttamente sulla legge, e nutri-to dalla paura: i migranti che vengono dall’altra par-te del Mediterraneo non vanno accolti, ma lasciati alla prima motovedetta che li condurrà all’ammasso, come bestie. Ernesto, però, sa bene cosa è giusto e disobbedisce. Questo è Terrafer-ma, l’ultimo film che Emanuele Crialese ha girato tre anni fa, ma che potrebbe aver realizzato oggi, vista la sua attuali-tà: la storia di una famiglia di pescatori e di un’isola – e an-che di un intero Pa-ese – che si trovano a dover scegliere tra la fedeltà alla propria coscienza e alla propria storia antica, e la resa a una gretta inciviltà tradotta oramai persino nella forma della Legge. L’isola del film potrebbe essere Lampedusa, o anche un’isola immaginaria, un luogo a metà tra due mondi che si fronteggiano inconciliabili: da una parte un egoismo misero e chiuso, e dall’altra l’apertura degli uomini verso il dolore e la speranza dei propri simili. Così è Ernesto, appunto; al primo mondo appartie-ne invece il figlio Nino, per il quale la dignità del padre è un ingombrante ostacolo al fatturato turi-stico. Tra il nonno Ernesto e lo zio Nino si pone la

figura del giovane Filippo (il bravissimo attore non professionista Filippo Pucillo), che è alla ricerca del suo approdo, della sua terraferma. Nella presa di coscienza e nei conflitti etici del ragazzo il regista riflette la crisi e il dissolvimento di un mondo arcai-co che si sta arrendendo alla prepotenza dei più forti, allo sfruttamento neoschiavistico dei più de-boli, alla ricerca del profitto a tutti i costi, ad un modus vivendi in definitiva miserabile. Terraferma mette in scena il conflitto etico-giuridico fra la carità e la solidarietà millenarie della nobile legge dei pescatori – per la quale i naufraghi vanno salvati comunque, da dovunque arrivino – e la meschina disumanità della vigente legge statale che trasforma chi soccorre un naufrago clandesti-no in un criminale penalmente perseguibile.

Crialese fotografa magistralmente il tutto con la lingua severa della gente di mare e soprattutto con l’intensità reali-stica e insieme miti-ca che caratterizza le sue immagini, di una bellezza poetica esteticamente rara nel panorama cine-matografico attuale (si vedano i prece-denti Respiro e Nuo-

vomondo). Tra queste, su tutte, in primo piano Tim-nit, profuga africana con una figlia in grembo, rin-grazia chi l’ha raccolta nelle acque del Mediterrane-o salvandola dalla morte in mare a cui la legge italia-na condanna quelli come lei: gli ultimi della terra, i profughi, gli esuli, i clandestini, quanti non hanno niente da perdere perché non hanno niente se non la dignità di esseri umani. Il volto di Timnit emerge dal buio, nero come il nero che l’avvolge; eppure è nitido, luminoso, anzi abba-gliante. Il suo “grazie” è appena un sussurro, che però taglia e graffia. Buona Visione. ■

LA DISOBBEDIENZA GIUSTA

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21 Per saperne di più su S. Lucia: http://www.santiebeati.it/dettaglio/25550

LA “CUCCIA” DI SANTA LUCIA

Un “pizzico” di storia L’usanza di mangiar cuccìa il 13 dicembre, festa di S. Lucia, protettrice della vista, si inseri-sce in quel complesso di riti e miti popolar-cristiani che abbraccia tutta, o buona parte, dell’Italia meridionale. Vecchia di alcuni secoli, l’anima popolare ha creduto di trovarne un riflesso in un miracolo operato dalla Santa a favore del popolo siracusano, di cui lei è con-cittadina e patrona. Il fatto storico ci è stato tramandato nelle Memorie di S. Lucia di Giuseppe Capodieci che

così annotava: «Occorre in quest'anno (1763) una grande carestia sino al 9 gennaio, in cui suole esporsi il Si-mulacro di S. Lucia, per la commemorazione del terremoto del 1693. Nel farsi al solito la predica, esce di boc-ca al predicatore che S. Lucia poteva provvedere al suo popolo col mandare qualche bastimento carico di grano. In effetti, il giorno dopo, arriva dall'Oriente nel porto una nave carica di frumento e sul tardi un ba-stimento, che era stato noleggiato dal Senato; poscia un vascello raguseo, seguito ancora da altri tre, sicché Siracusa, con tale abbondanza che appare a tutti miracolosa, può provvedere molte altre città e terre di Si-cilia. Il padrone di una delle dette navi dichiarò che non aveva intenzione di entrare in questo porto, ma vi fu obbligato dai venti e seppe che era in Siracusa dopo aver gettato l'àncora; aggiungendo che, appena en-trato in porto, si era guarito di una malattia agli occhi che lo tormentava da qualche tempo». Il racconto dell’annalista siracusano, quattordicenne all’epoca dei fatti narrati, si ferma qui, ma la leggenda, presente e fatta propria da altre città di Sicilia, va oltre e aggiunge che le navi furono prese d'assalto e ognu-no poté portare a casa la sua razione di grano, cucinandolo, per mancanza d’ingredienti, nella maniera più semplice. E poiché era il 13 dicembre la popolazione decise all’unisono che da allora in segno di riconoscenza il giorno di Santa Lucia, rite-nuta l'artefice del miracolo, non si man-giassero pane e pasta, ma che "si cuccìas-se" dal verbo "cucciari" derivato da "còcciu" cosa piccola, chicco. La cuccìa, dolce della tradizione, si prepara ancora oggi nelle case siciliane e si può trovare in molte pasticcerie, da Palermo a Siracusa. Ricetta tradizionale con crema di ricotta Ingredienti: 500 gr di grano, 200 gr di zucchero a velo, 1.5 kg di ricotta fresca, 50 gr di frutta candita (preferibilmente cedro, scorzetta d’arancia o zuccata) tagliata a pezzetti, 200 gr di cioccolato fondente. Procedimento Preparare il grano: metterlo in una pentola con acqua fredda per tre giorni, cambiando l’acqua continuamen-te. La sera prima della festa, mettere il grano a cuocere in un tegame, coperto d’acqua con un pizzico di sa-le, scolarlo bene. Preparare la crema: setacciare (si può anche passarla con il frullatore) la ricotta, aggiungere lo zucchero a velo e mescolare bene. Tagliare il cioccolato a scaglie, aggiungere alla crema la frutta candita e le scaglie di cioccolato e mescolare delicatamente (si può anche aggiungere la cannella). Infine aggiungere il grano alla crema. Si può anche riporre in frigorifero. ■

Un dolce che inaugura le festività natalizie è la “Cuccìa” di Santa Lucia, pietanza preparata per il 13 dicembre.

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ORIZZONTALI 1. La via dei pellegrini che passa da Siena, 9. Il monte dell’Abbazia di Buonconvento, 15. Il leone lo è della foresta, 16. Il verbo del generoso, 17. Ha sei lati, 19. Isernia, 20. Capoluogo siciliano, 21. Dura dodici mesi, 23. Grosso rettile, 25. Sodio, 26. La Graff tennista, 28. In quel luogo, 29. Sport invernale, 31. La rima del Boccaccio, 34. Imposta sulla casa, 36. Nel cen-tro dell’orlo, 37. Né mia né sua, 38. La maggiore è il grande carro, 39. Imbarcazione di piccole dimensioni, 42. Magdalena cantante polacca, 44. Alessandria, 45. Il luogo dell’avventura di De André, 46. Segue sempre il giorno, 48. La dance eroti-ca, 50. Uno dei quattro elementi, 51. Oltre i confini nazionali, 53. Il capolavoro di Saint Exupery, 55. Asti, 56. Poste e Te-lecomunicazioni, 57. Aosta, 58. Coleottero ghiotto di legno, 59. Modena, 60. Quello di maestà è un delitto politico, 62. Non dire niente, 65. National Geographic, 67. Danno la direzione alle imbarcazioni, 69. Accurato nel proprio dovere, 72. Le condizioni meteorologiche, 74. Trattamento Sanitario Obbligatorio, 76. La settima nota, 77. Fuori combattimento, 78. Nello spelling si fa riferimento a Roma, 79. Il monte che sovrasta Medjugorje, 83. Donne dedicate a Dio, 84. Antica sta-zione di Parigi, 85. Tessuto prezioso. VERTICALI 1. Dispositivo per ridurre la velocità, 2. Lo Zero della canzone, 3. La fine del panda, 4. Cagliari, 5. Arrabbiata, 6. Porta con sé i caratteri ereditari, 7. Si cimenta per la prima volta, 8. Associazione Sportiva, 9. Il giorno presente, 10. Custodi-sce la Gioconda, 11. L’istituto contro gli infortuni sul lavoro, 12. Il barone tedesco Braun, 13. A te, 14. Antica cittadina marittima nel Romano, 18. Agli estremi delle armi, 22. Il centro dell’info, 24. Scaltro, 26. Così inizia lo svago, 27. La Abdul-majid attrice somala, 30. Icona sociale, 32. Appartengono a un ordine monastico cistercense, 33. Azienda Sanitaria Loca-le, 35. Lubrificante, 39. La notte francese, 40. Augusto la dedicò alla pace, 41. Opera lirica di Puccini, 42. Dolce natali-zio, 43. Leggendaria nazionale di rugby neozelandese, 45. Colpo del tennis, 46. Congiunzione negativa, 47. 100 grammi, 49. Sono pari nel mare, 50. Adenosina trifosfato, 52. E’ raro quello al lotto, 54. Indice di redditività del capitale, 55. Aeronau-tica Militare, 61. Amare in Francia, 63. Il gigante, figlio di Poseidone e Gea, 64. Rieti, 66. L’accento per la pronuncia aper-ta, 68. Circonda le isole, 69. Titolo onorifico inglese, 70. La Taylor attrice, 71. Si lega all’amo, 73. Il Reed cantautore ame-ricano recentemente scomparso, 75. Operatore Socio Sanitario, 76. Una tv a pagamento, 80. Prima persona, 81. Spagna, 82. Sono dispari nell’arte. ■

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