N°7 luglio 2012
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La redazione:
http://www.diecieventicinque.it/ 1968
Foto di Salvatore Ognibene
Pag. 3 Testimoni di giustizia di Sara Spartà
Pag. 4 - 5 Ulisse di Francesca Barra
Pag. 6 Gaetano Sa!oti la scelta di restare di Michela Mancini
Pag. 7 - 8 In culo alla ma"a di Valeria Grimaldi
Pag. 9 Francesco Di Palo e le tentate testimonianze di Giustizia dalla Puglia di Marialaura Amoruso
la solitudine silenziosa con la quale si
affrontano i giorni e dall'altro la certezza
di nessun ripensamento. Nei loro volti, nei
loro occhi non si legge alcun
tentennamento, nessun dubbio solo
onestà. Mentre lo Stato non è mai
abbastanza pronto per garantire loro
certezze e la società li allontana, li scansa,
li isola ecco che diventa importante capire
cosa è cambiato rispetto a venticinque
anni fa. Ogni loro testimonianza ha
permesso di scoprire intere
organizzazioni, sistemi di potere che a
volte galleggiavano distrattamente in
superficie. Di colpire intere famiglie,
affiliati, singoli. E tutto questo
inconsapevolmente, con l'unico obiettivo
di non restare al balcone a vedere come va
a finire la corrida, ma di regalare un
futuro migliore ai propri figli e a quelli di
altri, che per paura nessuno ha saputo
difendere.
* Totò Liardo, sindaco di Niscemi-
Discorso 21 marzo 1997- 2a Giornata
Nazionale della Memoria e dell’Impegno.
I bambini sono Rosario Montalto e
Giuseppe Cutruneo, di otto e dieci anni,
uccisi per errore in una guerra tra faide, il
27 Agosto 1987 a Niscemi.
di Sara Spartà
“Dieci anni fa due bambini cadevano nella polvere della strada ed uno aveva un pezzo di pane in bocca.”*
Venticinque anni fa su quella strada le
porte si chiudevano, le finestre si
serravano, le tendine di poliestere
consumate dal tempo riparavano gli occhi
da quella vista, le orecchie dal boato,
l’animo dalla paura. Riparavano l’uomo
dalla propria coscienza, dai propri
scrupoli, dalla giustizia.
Venticinque anni fa su quella strada si
riversavano due madri straziate dal
dolore, con il volto rigato dalle lacrime e
dalla rabbia, con le loro urla soffocate
dalla polvere e dall’indifferenza, con le
braccia tese verso due corpicini scalzi,
verso Rosario e verso Giuseppe. Morti.
Ammazzati per errore.
Sono strade polverose e di violenze
infami quelle che attraversano molti paesi
del Sud. Strade sulle quali sangue
innocente viene lavato via troppo in fretta
dall’omertà e dal silenzio di chi sceglie di
non vedere.
Niscemi come Palmi, come Bivona, come
Napoli. Paesi in cui spesso il diritto a
vivere lo devi barattare con la voglia di
urlare, di denunciare, di sapere. Paesi in
cui vivere vuol dire rinunciare.
Oppure parlare ma essere costretti ad
andare via e non ritornare.
È quello che succede a chi decide di
testimoniare, persone comuni che non
chiudono le loro finestre ma decidono di
spalancarle e di dare nuovo ossigeno alle
proprie vite. Scelgono di calcare le aule
dei tribunali, di strappare le lettere di
minaccia anonime, di alzare la cornetta
del telefono e di rispondere.
Sono quelli che il nostro ordinamento ha
deciso di chiamare “Testimoni di
Giustizia”. Perchè testimoni, collaboratori
di giustizia, pentiti non sono la stessa
cosa. E la dignità di una persona passa
anche da qui.
L’art.16 bis D.L. 8/91 nel 2001 definisce
testimoni di giustizia: “Coloro che, senza aver fatto parte di organizzazioni criminali- anzi essendone a volte vittime, hanno sentito il dovere di testimoniare per ragioni di sensibilità istituzionale e rispetto delle esigenze della collettività, esponendo se stessi e le loro famiglie alle “reazioni degli accusati e alle intimidazioni della delinquenza”.
La loro condizione in Italia oggi non è
delle migliori. Mario Raimondi, ceramista
e presepista di Palermo, il silenzio lo sta
uccidendo nella sua casa umida e piena di
muffa. Lo Stato lo ha costretto ad
elemosinare.
Lea Garofalo scrive prima di morire:
“Oggi e dopo tutti i precedenti mi chiedo
ancora come ho potuto anche solo pensare
che in Italia possa realmente esistere
qualcosa di simile alla giustizia”.
E come loro molti altri. Per questo in
questo numero abbiamo scelto alcune
storie, quella di Ignazio Cutrò, di Gaetano
Saffioti, di Francesco Di Palo e di Ulisse,
raccontate da ragazzi che provengono da
quelle terre, che sanno ascoltarle e farle
proprie. Storie simbolo di una condizione
e di una scelta, che sono riuscite
attraverso l'esempio a darci alti modelli di
vita. Storie per cui non sono stati
premiati, ma hanno pagato a volte a caro
prezzo. Un tratto comune che lega tutte è
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Foto di Letizia Battaglia
all’isolamento: è una castrazione, è la rinuncia a una parte importante dei sentimenti e della vita di relazione.Alla luce di tutto questo vi starete chiedendo: lo rifaresti? Sì, lo rifarei.E il mio gesto è la mia eredità per i miei figli, i miei genitori, i miei amici. Io sono un uomo onesto. Incensurato, se questo serve per confermare il mio stato. Non sono diventato testimone di giustiziamasticando certe terminologie, certi codici, stringendo talvolta o per sbaglio qualche mano collusa. Non avevamo in famiglia nessun mafioso.Ecco perché quando nel gennaio del 1995 mi han chiesto di sottoscrivere il docu-mento per la richiesta di un protocollo definitivo, sono rimasto senza parole. Anzi, a bocca chiusa. Come quandonon si ha nemmeno più la forza di controbattere. Il documento era lo stesso che usavano i pentiti. Il primo punto richiedeva di impegnarsi a non commet-tere più reati. Reati, ma quale reati? Li ho denunciati, non commessi. Per non rimanere senza protezione ed essere costretti a tornare a casa con tutti i rischi che ciò avrebbe comportato, fui costretto a firmare, ma con un senso di nausea.Giuro che questa è stata tra le peggiori cose che mi sono capitate.La domanda di protezione firmata avrebbe dovuto avere una durata annuale
Brano tratto da LA GIUSTA PARTE, testimoni e storie dell’antimafia.
Caracò editore – www.caracò .it
ULISSEdi Francesca Barra
Mi chiamo Ulisse.In realtà è un nome in codice. Ulisse come l’eroe di Omero che desiderava tornare nella sua terra, Itaca. Mi è venuto così, d’istinto, il giorno in cui ho capito che avrei avuto una nuova identità.La mia vita è cambiata per sempre il 15 ottobre 1990.Quel giorno mi trovavo con mia moglie a bordo di un furgone, sulla tangenziale all’entrata di Napoli. Ho visto venirmi incontro sulla corsia di emergenza un uomo che cercava di sfuggire, confatica, a un inseguimento. Barcollava, forse ferito. Dietro di lui un’altro uomo tentava di raggiungerlo con un’arma puntata. Con un gesto estremo ho pensato di investire l’uomo armato con una bruscamanovra di sterzo a destra. Non sono riuscito ad investirlo. Non ho avuto il coraggio di ucciderlo. Dai finestrini posteriori abbiamo visto il killer sparare e la vittima cadere a terra. Ho cercato di inseguire il killer, ma lui si è dileguato a piedi. Velocemente. In quel momento hai pochi secondi. Puoi chiudere gli occhi eandare via. Oppure seguire il tuo istinto, se ce l’hai, e denunciare. Sono scelte che possono cambiare la tua vita e il corso della giustizia. Accorciarlo. Io gli occhi li ho tenuti aperti e sono andato dai carabin-ieri rispondendo alle domande fino all’una di notte, in caserma.Abbiamo scoperto così che il killer aveva ucciso un altro uomo. L’altra vittima era il fratello del ragazzo freddato davanti a noi. Sono arrivati i genitori, avevano perduto due figli così, lo stesso giorno. Hanno avuto giustizia grazie a noi. Quell’immagine, questo pensiero, ci ripagherà sempre. Nel frattempo, dopo alcune settimane di latitanza, il colpevole di quel duplice omicidio, Giovanni Salemme, fu arrestato. E dal 1990 al gennaio del 1994, fino al secondo processo, siamo rimasti senza protezione, conducendo più o meno la vita di prima e ricevendo solo pochi segnali di pericolo. Alla vigilia del processo di secondo grado, gli avvertimenti sono diventati minacce. Qualcuno ha ucciso il nostro
cane, l’auto è stata danneggiata e io sono stato seguito. Ho ricevuto intimidazioni perfino attraverso un vigile urbano, poi condannato, ma uscito un mese dopo su patteggiamento.Il 28 gennaio del 1994, pochi giorni prima dell’appello, ci hanno portati via. Mi hanno dato una pistola e rapidamente il porto d’armi. Nell’albergo dove pensa-vamo di restare qualche settimana, abbiamo vissuto quattro mesi con due figli piccoli: due anni e mezzo il primo, un anno festeggiato in quella stanza, il secondo. Prima di noi aveva ospitato dei pentiti. Così ci trattavano, senza conoscere la differenza. E ce n’è un’altra di distinzione. Tra testimone e testimone...Noi non eravamo imparentati nè amici di malavitosi e non avevamo subito richieste di pizzo nè chiedevamo giustizia per qualche congiunto ucciso. Insomma, il nostro interesse era esclusiva-mente dovuto a coscienza civile e all’educazione ricevuta. E allora perché ci trattavano da pentiti?Prima che mi facciate voi questa domanda vi anticipo. Prima di dimostrare respons-abilità nei confronti della giustizia, dovevo tutelare i miei figli, i miei genitori, gli amici. Gli amici sì. Con le nuove conoscenze il passato si è sempre costretti a nasconderlo e vivere senza veri amici è come essere condannati
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convinto di avere buoni sentimenti e di
essere nel giusto se non fai contrabbando
di armi, non chiedi il pizzo, non ti droghi.
Perché la maggior parte di noi non è
coinvolta personalmente. È evidente che
quando andiamo a pagare merci più care
perché il commerciante è costretto ad
alzare i prezzi, noi paghiamo il pizzo.
Quando chiediamo le raccomandazioni e
lo chiediamo ai politici che spesso vivono
in simbiosi con ambienti malavitosi, noi
ci affidiamo a una malavita in giacca e
cravatta. Io sono un testimone di qualcosa
che non conoscevoa danno di qualcuno
che non conoscevo.
Ma se capitasse a te, ripeto, che faresti?
Fate delle sane famiglie. I vostri figli
saranno picciotti o uomini onesti grazie
alla vostra educazione. Io amo questo
paese e le istituzioni di questo paese, ma
non tutti quelli che le servono. Questi anni
mi pesano? Sì, ma sono contento...
notaUn funzionario statale, nato a Napoli, nell’ottobre
del 1990 assiste, insieme con la moglie, a un
omicidio. A seguito della loro testimonianza, il killer
è stato arrestato e processato. Dopo l’addio alla sua
vecchia vita, a parenti, amici, colleghi, lavoro, casa,
Ulisse e sua moglie diventano testimoni
di giustizia fino alla condanna all’ergastolo
dell’assassino, il bosscampano Giovanni Salemme.
Oggi vivono in una lo località segreta, senza più la
tutela del sistema centrale di protezione.
rinnovabile. Tanto stabilisce la legge. Ma
l’anno dopo, a marzo, ci è stata revocata.
Non ritenevano che fossimo più
in pericolo perché il killer era stato
condannato anche in appello all’ergastolo.
Le procure di Santa Maria Capua Vetere e
di Napoli dichiararono tuttavia che il
rischio a cui eravamo sottoposti era
rimasto immutato. Il giudice a cui hanno
affidato la nostra pratica dichiarò che per
noi era sufficiente tenersi lontani da
Napoli e Caserta per vivere tranquilla-
mente. Strano modo di ringraziare chi
rischia per la giustizia. E la casa, il lavoro,
i parenti, gli amici, la vita che silascia non
contano nulla? Avevo sempre pensato che
si dovevano esiliare i cattivi. Ma allora
per lo Stato noi eravamo i cattivi? Ci
stavano semplicemente e brutalmente
scaricando?
Siamo rimasti nella casa che gli hanno
affidato, senza pagare l’affittoma senza
lavoro, percependo lo stipendio da
dipendente statale garantito dal sistema di
protezione. Lontano da casa – che nel
frattempo è stata svenduta – dalla mia
terra, dagli amici e parenti, dal lavoro.
Mia moglie si è ammalata, i figli per anni
hanno ignorato la loro vera identità.
Un giorno ci arriva pure la richiesta di
lasciare la casa. Ma dove dovevamo
andare? Non avevamo più proprietà e
ritornare nella nostra città era fuori
discussione, altrimenti ci avrebbero
ammazzato.
Abbiamo tenuto duro presentando ricorso
al TAR, facendo causa al Ministero
dell’Interno e inviando valanghe di lettere
al direttore del servizio. A fine 1999
abbiamo trovato lavoro in un altro luogo
epoi ci siamo trasferiti. Arresi.
A volte ci capita di ingoiare rospi sul
nuovo posto di lavoro perché non è
opportuno attirare l’attenzione su di noi.
Così ci capita di sopportare angherie da
colleghi o superiori proprio a noi
che abbiamo infranto il muro dell’omertà
in una terra di pericolosi assassini. Io so
che non sono solo, ma occorrerebbero
giornalisti coraggiosi come Giancarlo
Siani, giudici di prima linea, magistrati
incorruttibili. Provate a chiudere gli occhi.
A riaprirli in un luogo distante,
chesomiglia a una prigionia, a un esilio.
Pensate che tutto ciò che avetefatto fino
ad ora non lo farete più.
Il nome in codice che ho scelto è la
metafora di colui che fa ditutto per tornare
nella sua Itaca. Ma io, a differenza di
Odisseo, non potrò mai tornare nella mia
terra e se mai dovesse avvenire nulla
sarebbe come prima.
Nel 2001 lo status di “testimone” viene
scisso da quello di “collaboratore”.
Io continuo ad avere fiducia nelle
istituzioni, a rispettarela legge. Non ho
potuto festeggiare i successi professionali
coni colleghi, i compleanni con amici e
vicini di casa, ma anche solo riscattare i
miei sacrifici ritornando sicuro in
Campania. Non ho offeso la terra, non
voglio riconoscimenti o medaglie.
Chiedo di godere del diritto alla vita, che
è una declinazione di libertà. È un
principio che spesso si nasconde fra
dietrologie, paroloni, ma che è alla base
della nostra Costituzione. Non è una
speranza, è la base di un paese
democratico. Non è uno strumentoe
nemmeno il fine.
E anche se la legge è migliorata, anche se
oggi la differenza fra testimoni e
collaboratori è chiara alla maggior parte
delle persone, ci sono storie, come la mia,
che non possono non scuotere una
responsabilità che, prima di essere nei
confronti della giustizia e dei nostri cari, è
nei confronti di noi stessi.
Io vengo dalla Campania. Sono
napoletano. Viviamo in terre disgraziate,
in cui Stato e antistato spesso si
confondono e i cittadini sanno che
possono chiedere tutela ad uno o all’altro.
Siamo abituati ad alcuni atteggiamenti
che sembrano “normali”. Ognuno di noi è
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intimidatori. Poi la goccia: un’autista,
sotto minaccia delle armi, fu costretto a
incendiare un camion che stava guidando.
Il fratello di Gaetano rischia di rimanere
ucciso.
L’imprenditore calabrese non ha più
dubbi. Rinuncerà ai sogni, alle speranze di
crescita, ad una vita tutto sommato
“tranquilla” – l’illusione della normalità
mafiosa – e porterà tutte le registrazioni
che aveva meticolosamente conservato al
procuratore Roberto Pennisi. Saffioti
diventa testimone di giustizia.
«All'alba del 25 gennaio 2002, all'arrivo
in azienda trovo la Finanza: "Siamo qui
per lei, se deve uscire l'accompagniamo
noi". Finiva un incubo e ne cominciava un
altro. Da allora sono sempre con me e con
la mia famiglia. In pochi giorni persi tutte
le commesse, 55 dei 60 operai. Il fatturato
scese da 15 milioni a 500 mila euro, le
banche mi chiudevano i conti attivi, i
fornitori mi chiedevano fideiussioni oltre
il terzo grado di parentela perché "tu sei
un morto che cammina". Mia moglie
piangeva. I clienti sparivano, nemmeno le
confraternite venivano più a chiedermi i
contributi per le feste patronali».
Nonostante fosse costretto ad una vita
blindata, Gaetano decide di restare nella
sua Calabria. La sua terra non la lascia,
significherebbe ammettere una sconfitta.
Sopravvive solo grazie alle commissioni
che arrivano dall’estero: Spagna, Francia,
Romania. Un parte dell’aeroporto di
Parigi è stato costruito con i materiali
della sua ditta. Saffioti aveva un piccolo
sogno: «Vorrei togliermi la soddisfazione
di fare un chilometro della
Salerno-Reggio Calabria, ma non mi è
consentito. Ho offerto il materiale gratis
ma non lo vogliono. In compenso i 48 che
ho fatto arrestare, tutti condannati in
primo grado, tra patteggiamenti e sconti
di pena sono tutti liberi. E qualcuno
lavora alla Salerno-Reggio».
Gaetano non si è pentito delle scelte che
ha fatto. La sua azienda sembra essersi
trasformata in un carcere di massima
sicurezza: cancelli blindati, muri in
cemento armato, decine di telecamere,
filo spinato tutt’intorno. Ma lui si sente
libero. Come non lo era stato mai. E se
rimane in Calabria è per ricordare a chi
non ha ancora il coraggio di scegliere la
normalità, che essere liberi è possibile.
Gaetano SaffiotiLA SCELTA DI RESTARE
di Michela Mancini
Tano Grasso lo ripete come un mantra:
denunciare le estorsioni è un modo per
garantirsi la fetta di felicità che spetta di
diritto ai lavoratori onesti. Denunciare chi
impone il pizzo e sottrae ricchezza, non è
solo una lotta di principio, significa
soprattutto ristabilire la normalità: chi
decide di avere un’impresa al Sud, deve
avere gli stessi diritti di chi lavora in
territori ancora incontaminati dalle mafie.
Gaetano Saffioti, imprenditore di Palmi –
che con le sue dichiarazioni ha dato vita
all’operazione Tallone D’Achille,
determinando l’arresto di numerosi
esponenti delle ndrine calabresi – questa
normalità la cerca ormai da dieci anni. Il
paradosso è che questa ricerca ha
trasformato la sua vita in quella di un
condannato. Un condannato libero però.
Gaetano è nato e cresciuto a Palmi,
cittadina della piana di Gioia Tauro. La
sua famiglia era proprietaria di un
frantoio. L’imprenditore calabrese
conosce la ndrangheta a soli nove anni.
Racconta al quotidiano La Stampa: «Ero andato in una colonia estiva a Sant'Eufemia, in Aspromonte, riservata ai più bravi della classe. Ci tenevo da morire. Dopo due giorni fui richiamato a casa. Torna perché mi manchi, disse mio padre. Anni dopo ho saputo che era stato minacciato e temeva per me. Morto mio padre, la famiglia era diventata più debole: una donna sola con sei figli minorenni. Arrivavano telefonate e mia madre piangeva. Noi chiedevamo: chi è 'sta 'ndrangheta?».
La risposta non tarda ad arrivare. Nel
1981, Gaetano, appassionato di mezzi per
movimento terra, apre la sua ditta.
«Fatturavo 5 milioni e mezzo di lire. Comincio a lavorare per i privati. Nel 1992 aggiungo l'impianto di calcestruzzo e vinco le prime gare d'appalto pubbliche». Un’impresa così brillante non sfugge all’occhio vigile della ndrangheta. Gaetano continua a raccontare al quotidiano torinese: «Si presentavano a tutte le ore, io preparavo i soldi e li consegnavo a pacchi da dieci milioni. Quando ne arrestavano uno, il giorno stesso si presentava un sostituto. Erano cordiali, sapevano prima di me che mi era arrivato un accredito in banca e venivano a riscuotere la percentuale, dal 3 al 15 per cento. Quando c'era un
sequestro dei beni di un boss, automaticamente bisognava "risarcirlo" pagando il doppio. Per arrivare al cantiere al porto di Gioia Tauro dovevo attraversare i territori di tre famiglie. E pagavo per tre. Come i caselli autostradali. Compravo una cava di inerti per fare il calcestruzzo? Non me la facevano usare, imponevano di comprare il materiale da loro. Così per le macchine: le mie restavano ferme e noleggiavo le loro. Pagavo anche se non mi piaceva. Io glielo dicevo: non si può andare avanti così. E loro mi sfidavano: denuncia. Avevo paura: di essere ucciso ma anche di essere considerato un prestanome dei boss e arrestato. Quindi registravo tutto: gli incontri, i colloqui, i pagamenti». La paura di denunciare, Gaetano la
conosceva bene. Suo padre morì a soli 50
anni, lasciando una donna sola con sei
figli e un’attività da mandare avanti. Un
giorno, l’ennesima richiesta estorsiva
spinse la madre di Gaetano a raccontare ai
figli la verità. Le continue pressioni della
ndrangheta non le davano pace, i soldi
non bastavano e lei non sapeva come
venirne fuori. I figli incalzavano:
“parliamone alla Polizia”. La madre di
Gaetano non vuole saperne niente. Le
regole di quei territori sono chiare: chi
parla è un traditore, l’unica scelta
possibile è cercare un intermediar0, o al
massimo andare via. Scappare dalla
propria terra non è nemmeno così
semplice come sembra, non è detto che te
lo lascino fare. Fu allora che Gaetano
comincio a farsi una domanda: sono
libero? Una domanda che diventa un
tarlo.
Intanto l’azienda dell’imprenditore
calabrese cresce, i ricavi aumentano del
20-30 % l’anno. E insieme ai profitti
crescono le richieste dei boss e gli atti
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e l'ente che gliel'aveva commissionato
non poteva risarcire quanto perduto, con il
rischio di non poter completare l'opera.
Così Ignazio utilizza i fondi del SOA per
il risarcimento, pur di portare a termine il
lavoro nei tempi prefissati, rinunciando al
suo sogno. Si reca nuovamente alla
Caserma dei Carabinieri: una seconda
denuncia contro ignoti.
Il 23 Novembre dello stesso anno, un altro
incendio: altri macchinari bruciati.
Ignazio era solito rimanere per tutta la
notte a sorvegliarli, per essere sicuro che
non accadesse nulla: ma quella sera era
venuto giù un acquazzone tremendo, ed
era rimasto a casa. Altra denuncia: i
pensieri e i timori si affollano nella mente
di Ignazio, ma come gli aveva insegnato
suo padre bisogna andare avanti "a testa
alta e a schiena dritta". E così fece.
Si susseguirono altre vicende: una tazza
nera capovolta trovata sulla cassetta della
posta di casa; materiali per eseguire altri
lavori che spariscono improvvisamente
dai cantieri; contenitori di plastica pieni di
olio per ciclomotori lasciati davanti casa;
fiammiferi e liquido infiammabile lasciato
accanto ai macchinari; cartucce di fucili
da caccia trovati sui sedili della macchina.
Ignazio altro non può fare che ricorre a
denunce su denunce.
Grazie alle sue testimonianze viene
avviata la famosa operazione "Face off",
che porta all'arresto di Luigi, Marcello e
Maurizio Panepinto, tutti imprenditori
in culoalla
mafiadi Valeria Grimaldi
Bivona è un piccolo comune di circa 4000
anime nella provincia agrigentina, a 90
km da Palermo. Agricoltura, piccola
imprenditoria e commercio locale: un
paesino come tanti, si direbbe. Ma Bivona
ha un'altra caratteristica: la mafia locale,
la cosiddetta "mafia della bassa
quisquina", non meno importante per
radicamento e sviluppo di tante altre
realtà siciliane, e non solo. E anche qui si
presenta l'ossimoro legalità-
illegalità/mafia-antimafia che caratterizza
anche la storia siciliana: infatti sono
originari di Bivona i fratelli Sabella,
Alfonso e Marzia, il primo sostituto
procuratore del pool antimafia a Palermo
di Gian Carlo Caselli nel 1993; la
seconda, invece, unica donna del pool di
magistrati che nel 2006 coordinò la
cattura di Bernarno Provenzano. Ed è a
Bivona che si incrocia la storia di Ignazio
Cutrò, imprenditore della zona che nel
2006, a seguito di intimidazioni e minacce
alla propria persona e alla propria
azienda, decide di diventare testimone di
giustizia. Per il suo bene e per il bene
della propria famiglia; per un senso di
responsabilità nel mostrarsi come un
uomo che non si piega davanti alle
minacce e alle estorsioni ma che vuole
portare avanti gli ideali di onestà e
legalità come priorità di fronte al potere
mafioso. Perchè la mafia ha interesse,
soprattutto nelle realtà locali, a diffondere
la propria influenza e le proprie scelte,
perchè vuole creare consenso, vuole
fornire un senso di protezione: la mafia
mi ha aiutato a trovare lavoro, la mafia mi
aiuta a continuare il mio lavoro. Ma
Ignazio non ci sta, e decide di sacrificare
tutto per combattere una battaglia nel
segno del giusto.
Il 10 ottobre 1999 è il giorno in cui tutto è
cominciato. Quella sera Ignazio riceve
una telefonata dal nipote che gli dice di
recarsi urgentemente in contrada Canfu-
tino perchè era stata incendiata una pala
meccanica. Parte la prima denuncia contro
ignoti, la prima di molte.
Il 23 maggio del 2006 sembra esserci una
svolta nella vita lavorativa di Ignazio: due
lavori in corso, ma soprattutto, essersi
aggiudicato un lavoro importante.
Sarebbe riuscito, di lì a poco, ad iscriversi
alla SOA, la certificazione obbligatoria
per gli appalti pubblici di lavori. Sarebbe
riuscito a realizzare il suo sogno, e il
desiderio che gli aveva espresso suo
padre: ingrandire l'azienda. Ma quel
pomeriggio, i materiali per svolgere
l'appalto aggiudicato gli vengono bruciati:
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edili che, secondo l'accusa, controllavano gli appalti pubblici nella zona di Bivona; gli altri imputati Domenico Parisi, Enzo Quaranta, Giovanni Favara, e Vincenzo Ferranti (quest'ultimo, secondo le dichiar-azioni del collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati, è stato per anni capo mandamento della Quisquina). Il primo grado di giudizio, nel gennaio 2011, ha portato ad una condanna degli imputati (con la sola assoluzione di Vincenzo Ferranti) ad un totale di 76 anni di carcere; nel secondo grado, marzo 2012, è stata parzialmente riformata la sentenza di primo grado, confermando 4 condanne e assolvendo Marcello Panepinto.Ma la battaglia di Ignazio non è ancora terminata: la verità giudiziale ha fatto il suo corso, ma il suo status di testimone di giustizia non gli ha permesso di lavorare per moltissimo tempo. La burocrazia, la sua unica salvezza, ha tardato a farsi sentire ed è stato l'ultimo ostacolo prima che la famiglia Cutrò potesse tirare un sospiro di sollievo. Nel Dicembre 2010 Ignazio si incatena davanti al Viminale: "Lo Stato italiano mi ha prima usato per
istruire un processo al gotha mafioso del
bivonese e della bassa quisquina e poi mi
ha abbandonato al mio destino. Ora
basta, fino a quando non mi sarà restitu-
ito il mio lavoro, la mia sicurezza e la mia
dignità di imprenditore che ha denunciato
cosa nostra, io rimarrò incatenato
davanti al Ministero dell’Interno".
Sembra non esserci tregua, nemmeno il
riconoscimento dovuto per la sua azione
contro la cosca mafiosa e il sacrificio
nell'aver stravolto la sua intera vita: un
anno dopo, nel dicembre scorso, gli
arriva una cartella esattoriale da
85.562,56 euro da pagare entro 30 giorni;
pagamento che doveva essere bloccato
non solo per il suo status di testimone di
giustizia ma anche a causa del paradosso
per cui, la lenta burocrazia non gli
concedeva la licenza per poter tornare a
lavorare e guadagnare i soldi necessari
per pagari i suoi debiti. E lo Stato tace:
"Inizierò lo sciopero della fame e della
sete." dichiara Ignazio, "la mia non è una
minaccia, ma un messaggio di esasperazi-
one. Non mi sento un eroe, ho fatto oltre
28 denunce contro mafiosi ed estorsori,
ho subito una trentina di intimidazioni,
ma l’ho fatto per coscienza civile”. Ma finalmente, il 25 maggio scorso arriva il pezzo di carta tanto atteso: il Durc, il documento unico di regolarità contribu-tiva, essenziale per poter partecipare alle gare pubbliche. Il 19 giugno Ignazio è tornato finalmente a lavorare: quel lavoro
che già di per se ti rende orgoglioso, ti appaga e ti fa sentire utile per la comu-nità, per la tua famiglia, per la tua dignità. Ma questa conquista ha un sapore ancora migliore: un sapore di libertà, fatica, sudore, oltre le intimidazioni, le minacce, i timori, l'essere additati come sbirri, vedere la propria vita stravolta, ma vincere sopra qualcosa che è più grande di te.
Un sapore di legalità e giustizia.
"Ora e sempre, IN CULO ALLA MAFIA.
Oggi la mafia ha perso, la legalità ed i
siciliani hanno vinto 10 a 0."
Ignazio Cutrò
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protezione perché il Viminale non gli paga più neppure l’affitto della casa nella località protetta in cui vive.
Ma quella dei Di Palo è una famiglia reattiva e coraggiosa perché anche il fratello di Francesco, Alessio titolare della nota radio di Altamura, Radio Stereo Regio, che quotidianamente dalle sue frequenze denuncia il malaffare e la malapolitica, parla di ecomafia e di interessi criminali intorno alla politica altamurana, denuncia i legami di un maresciallo dei Carabinieri con il chiacchierato imprenditore dei rifiuti Carlo Dante Columella. Alessio parla dell'infedeltà allo Stato di uomini delle forze dell'ordine.
Per questo Alessio Di Palo, il dj della Murgia, è stato picchiato selvaggiamente da due esponenti legati alla mala barese ed è tra quelli che ha contribuito con la sua testimonianza ad imprimere una svolta all'inchiesta che sta svelando i rapporti tra politica, affari e criminalità intorno alla sanità pugliese.
Attualmente Francesco Di Palo continua a combattere per essere riconosciuto dallo Stato. Quello stesso Stato che lo ha costretto ad una vita da recluso.
Speriamo vivamente che l’Italia non sia nuovamente il Paese in cui per liberarci dalla mafia dobbiamo ricorrere ad un estratto di Torquato Tasso da “La Gerusa-lemme liberata”
“L’anima mia puote scemar la pena:Chè d’esser vendicata in breve aspetta:E dolce è l’ira in aspettar vendetta”.
Francesco Di Palo e le tentate testimonianze di Giustizia
dalla Puglia
di Marialaura Amoruso
Quando ero piccola e andavo a scuola era usuale notare lungo il tragitto casa-scuola, negozi chiusi, bar bruciati, macchine che improvvisamente nella notte avevano preso fuoco.
Quando si è piccoli e si cresce così, si pensa che forse può capitare che una macchina prenda fuoco. Può capitare che il bar dove andavi a comprare la tua merenda per la ricreazione con i compagni, prendesse fuoco e fosse d’improvviso chiuso. Nero. Incenerito. Può succedere.
A scuola non una parola di questo. Lì nessuno mi ha mai spiegato che dietro quelle pareti nere non c’era un semplice corto circuito come volevano farci credere. Dietro quelle auto incendiate c’era il risultato finale di quello che era la trama culturale di quegli anni 90 a Bari.
A volte sentivi degli spari. La gente scappava . Un po’ di agitazione e poi tornava tutto come prima, tutti ritorna-vano a fare quello che stavano facendo prima senza scuotersi. Perché “ fin a quann s’accidn tra lor, non iè nudd!” cioè “finchè si ammazzano fra di loro, non ci sono problemi”.
Ma quando questi episodi arrivano molto vicino a minare le certezze affettive, lì qualcosa ti scuote. Non si può restare fermi, perché non è un volto nascosto dietro una calzamaglia e una pistola sbattuta in testa a farti tremare. Ecco perché arrivi ad un punto in cui vuoi
Ma quando questi episodi arrivano molto vicino a minare le certezze affettive, lì qualcosa ti scuote. Non si può restare fermi, perché non è un volto nascosto dietro una calzamaglia e una pistola sbattuta in testa a farti tremare. Ecco perché arrivi ad un punto in cui vuoi saperne di più e procedi da solo perché ti rifiuti di vivere nell’omertoso pensiero del “è sempre stato e sempre sarà così”.
Poi c’è gente che dopo aver vissuto anni in soggezione, piegandosi a pagare il pizzo, decide di reagire. E’ il caso di Francesco Di Palo, un imprenditore di Altamura, quella cittadina balzata all’onore della cronaca per aver rapida-mente condotto alla chiusura un Mc Donald’s con quello che di meglio ha Altamura: pane e focaccia!
Francesco Di Palo era il titolare della «Venere srl» di Matera, società che produceva vasche idromassaggio e dichiarata fallita un anno prima che l'imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana.
Di Palo è testimone chiave di uno dei processi più importanti in Puglia che riguarda l’intreccio tra criminalità, imprenditoria e politica nella città di Altamura, la cui indagine è stata condotta dai magistrati antimafia dott.ssa Desirèe Digeronimo e dott. Roberto Pennisi. Francesco Di Palo continua ad essere un testimone di giustizia “fantasma”, poiché ancora in un programma di protezione provvisorio.
Di Palo le ha provate tutte per attirare l’attenzione dello Stato: è fuggito più volte, ha scioperato a Montecitorio, ha protestato in qualsiasi forma perché lo stato, quello per cui hai rischiato non può non aiutarti e costringerti a vivere da fuggiasco con la tua famiglia. Di Palo, ha anche chiesto di uscire dal programma di
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