N°15 Aprile 2013
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La redazione:
http://www.diecieventicinque.it/ 1968
Pag. 3 - 4 Beni con!scati, capiamoci qualcosa di Salvo Ognibene
Pag. 5 Una vita scomoda: Pio La Torre di Giulia Silvestri
Pag. 6 La ma!a restituisce il maltolto di Peppe Rizzo, presidio Libera Unibo
Pag. 7 - 8 Intervista a Silvia Rigo e Giulia di Girolamo della “Rete No Name - Antima!a in movimento” di Giovanni Frascella
Pag. 9 Io riattivo il lavoro di Valeria Grimaldi
Pag. 10 Un Master sui beni con!scati intitolato a Pio La Torre di Salvo Ognibene
Pag. 7 INTERNATIONAL http://issuu.com/dvc.international
confiscati alla mafia e di verificare che i
soggetti che sono risultati assegnatari dei
beni, provvedano al loro utilizzo
conformemente alle finalità per le quali si
è proceduto alla destinazione, pena la
revoca della stessa. Peccato che però
quest’Agenzia non sia stata dotata
sufficientemente di personale e di fondi e
per questo ha già rischiato la chiusura.
Adesso cerchiamo di capire qual è lo stato
di salute dei 13.000 beni confiscati in
Italia e intanto sfatiamo un mito, i beni
confiscati possono essere venduti, anche
se a particolari condizioni.
Circa l’ 80% degli immobili presenta
gravami tra cui i crediti garantiti da
ipoteca che di fatto bloccano la
destinazione per uso sociale del bene
confiscato. Dal sequestro all'assegnazione
possono passare anche 12 anni. Dal
sequestro, alla confisca definitiva, invece,
passano dai 5 ai 9 anni a causa dei lunghi
tempi dei processi. Durante la fase
processuale, chi paga i mutui accesi dai
mafiosi? Di norma nessuno e così, con il
tempo, crescono gli interessi di mora per
il mancato pagamento delle rate e quando,
sequestro a carico di un mafioso, di
norma, nomina un amministratore
giudiziario che, cura i beni per tutto il
processo sino alla sentenza, che può
essere, di revoca del sequestro e quindi di
restituzione dei beni al mafioso, o di
confisca definitiva. E’ stata la Legge
Rognoni-La Torre, nel 1982, a introdurre
la norma che prevede la confisca dei beni
frutto dell'illecita accumulazione di
ricchezze provenienti dalle attività
criminali mafiose.
Ci sono voluti quattordici anni ed una
legge di iniziativa popolare per destinare,
o meglio restituire, questi beni alla
società. Questo è avvenuto con la Legge
109/96 dopo che l’associazione Libera
raccolse un milione di firme.
Il terzo passo legislativo importante è
stato nel 2010 con l’istituzione
dell'Agenzia Nazionale per
l'amministrazione e la destinazione dei
beni sequestrati e confiscati alla
criminalità organizzata, con sede
principale a Reggio Calabria e con a
capo un Prefetto. Il suo compito è quello
di centralizzare la gestione dei beni
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di Salvo Ognibene
“Occorre spezzare il legame esistente tra
il bene posseduto ed i gruppi mafiosi,
intaccandone il potere economico e
marcando il confine tra l’economia legale
e quella illegale”. A dirlo era Pio La
Torre, lo stesso che propose la confisca
dei beni ai mafiosi. Diventò legge il 13
settembre del 1982, quattro mesi dopo il
suo omicidio.
Cos’è un bene confiscato? Quanto ci costa
custodirlo? Quanto rendono i beni
sequestrati alle mafie?
Un soggetto condannato per mafia, dopo
una misura di prevenzione patrimoniale,
dal sequestro sino alla confisca, viene
privato dei beni mobili ed immobili
accumulati illecitamente. Lo stato dopo
aver emesso un provvedimento di
Beni confiscati, capiamoci qualcosa
Creare una vera e propria
“anagrafe” dei beni confiscati, monitorare
costantemente i beni, segnalare le
emergenze ed intervenire tempestiva-
mente
Approvare la legge d'iniziativa
popolare “Io riattivo il lavoro” che ha
lanciato la Cgil - per la tutela di tutti i
dipendenti delle aziende sotto confisca e
per garantire loro gli stessi diritti di tutti
gli altri lavoratori dei settori in crisi.
Queste proposte non basteranno ma
sarebbe già un buon inizio.
messaggio incredibile soprattutto alle
nuove generazioni “le mafie possono
essere sconfitte e con i loro ingiusti tesori
lo Stato produce ricchezza, da lavoro”.
Nel 2013 però è ancora utopia.
Cosa bisognerebbe fare:
- Istituire strumenti di finanza
agevolata e di incentivazione fiscale,
introdurre facilitazioni contributive per il
mantenimento dei dipendenti, prevedere
un welfare per ricollocare i lavoratori in
caso di chiusura dell'attività
- Abrogare la disciplina
dell’autofinanziamento, creare un fondo
per la gestione dei beni, utilizzare il
contante sequestrato e reinvestirlo negli
immobili e nelle aziende
- Accelerare la destinazione dei beni
gravati da ipoteca con una procedura più
semplice
- Stipulare dei “patti” con le banche,
smettere di pagare gli interessi sui mutui
relativi ad immobili confiscati ai mafiosi
- Formare dei veri e propri “man-
ager”, amministratori giudiziari compe-
tenti che siano in grado di fare il loro
mestiere fino in fondo e di programmare
piani a medio e a lungo termine per le
aziende confiscate
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a sentenza passata in giudicato, il bene
entra tra le proprietà dello Stato, questo ne
diventa debitore nei confronti della banca
e quindi deve risolvere il mutuo, pagando.
Altra questione da affrontare è che buona
parte degli immobili sequestrati e poi
confiscati non vengono assegnati per
problemi di natura
giuridico-amministrativa, altri vengono
abbandonati al loro stato di degrado, altri
ancora vengono comunque utilizzati dagli
stessi mafiosi o dalle loro famiglie.
Per quanto riguarda le aziende (quasi
2000), invece, queste hanno spesso vita
breve, soprattutto quelle commerciali che
quasi sempre sono destinate a fallire
dovute anche al fatto che il mafioso può
dirottare la clientela. Senza la tutela dei
boss molte ditte non sono più competitive,
vanno fuori mercato. Arriva lo Stato e le
imprese affogano nei debiti.
È il fallimento italiano della vera lotta alle
mafie. Oltre ad un danno economico, la
gestione fallimentare dei beni confiscati,
comporta un danno sociale e d’immagine
per quello stesso Stato che giustamente si
è impossessato di quei beni. Il tesoro vale
quasi 2 miliardi di euro ma non si riesce a
farlo fruttare. Per colpire veramente al
cuore i patrimoni mafiosi però
bisognerebbe colpire il riciclaggio ma la
nostra normativa è indietro anni luce. Una
corretta gestione dei beni confiscati alle
mafie darebbe fiducia e nuova linfa
all’anima di questo paese, darebbe un
dall'indignazione dei cittadini, adottò
questa scomoda legge.
La legge Rognoni-La Torre entrò in
vigore il 13 settembre di quello stesso
anno.
Nasce l'art. 416 bis.
Nasce giuridicamente per la prima volta
l'associazione di tipo mafioso, ne sono
descritte le caratteristiche comuni agli
ambienti in cui tutte le mafie operano: la
forza di intimidazione, e la condizione di
assoggettamento e di omertà che da
questa derivano.
Chi viene condannato, quindi riconosciuto
come mafioso, subisce la confisca dei
beni che sono serviti per commettere il
reato e di quei beni che ne sono il risultato
o che sono il reimpiego degli introiti
illeciti.
La legge prevede anche il divieto di
subappalto o di cottimo di opere
riguardanti la pubblica amministrazione,
senza autorizzazione della stessa: divieto
voluto a causa delle infiltrazioni mafiose
negli appalti, una delle attività più
redditizie delle mafie.
Pio La Torre aveva avuto una grande
intuizione, perché aveva vissuto il
cambiamento della mafia siciliana di
quegli anni, aveva imparato a conoscerla
combattendola prima dal basso, faccia a
faccia, e solo dopo all'interno delle
istituzioni.
Un'intuizione, la sua, il cui testimone è
stato raccolto da Libera, che con la
raccolta di un milione di firme ha portato
in Parlamento, nel 1995, una proposta di
legge in cui si chiedeva il passo
successivo alla confisca dei beni ai
mafiosi: il loro riutilizzo sociale, la loro
restituzione alla società.
tra le forze dell'ordine che spararono sui
braccianti, e i contadini che in risposta
lanciarono sassi sui poliziotti; La Torre fu
accusato di aver colpito un tenente con un
bastone. Era innocente, ma rimase in
carcere per un anno e mezzo, prima che la
verità venisse a galla.
Uscito dal carcere ricoprì vari ruoli tra la
camera confederale del lavoro e la regione
siciliana, poi arrivò il periodo da
parlamentare a Roma.
Qui, Pio La Torre, continuò la sua lotta
per i contadini siciliani, con la
partecipazione alla Commissione bilancio
e programmazione agricoltura e foreste, e
a quella per l'esercizio dei poteri di
controllo sulla programmazione e
sull'attuazione degli interventi ordinari e
straordinari nel Mezzogiorno.
In seguito fece parte della Commissione
antimafia, luogo in cui combatté la sua
più grande battaglia. Collaborando con
Cesare Terranova redasse la relazione di
minoranza della Commissione, che
spiegava i legami tra Cosa Nostra e
uomini politici.
Grazie alla sua esperienza, accresciutasi
tra sindacati e politica, La Torre propose,
insieme a Virginio Rognoni, la punibilità
del fenomeno mafioso e la confisca dei
beni per i condannati a quello stesso reato.
L'innovazione che questa proposta di
legge avrebbe portato, colpì il cuore della
criminalità organizzata di quegli anni,
tanto che il 30 Aprile del 1982, dei killer
uccisero Pio La Torre e Rosario Di Salvo,
col quale stava andando alla sede del Pci.
Fu solo dopo l'omicidio di Carlo Alberto
dalla Chiesa ed Emanuela Setti Carraro,
avvenuta i primi giorni di settembre, che
il Parlamento, spinto dalle proteste e
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"Omicidi come quello di Pio la Torre sono
fondamentalmente da ritenere di natura
mafiosa, ma al contempo sono delitti che
trascendono le finalità tipiche di
un'organizzazione criminale, anche se del
calibro di Cosa Nostra. Qui si parla di
omicidi politici, di omicidi, cioè, in cui si
è realizzata una singolare convergenza di
interessi attinenti alla gestione della cosa
pubblica: fatti che non possono non
presupporre tutto un retroterra di segreti
ed inquietanti collegamenti".
Così Giovanni Falcone vedeva l'omicidio
di La Torre.
Ma Pio La Torre chi era?
di Giulia Silvestri
Spesso di lui si conosce solo la proposta,
poi legge, che lo ha condannato a morte.
Tra gli anni '40 e gli anni '50 lottò per
l'applicazione dei decreti Gullo, che
garantivano ai braccianti più diritti e più
terre da coltivare, e che non venivano
riconosciuti dai proprietari terrieri
siciliani. Fu, prima, funzionario della
Federterra, poi responsabile giovanile
della Cgil e in seguito responsabile della
commissione giovanile del Pci.
Erano gli anni di Placido Rizzotto, rapito
e ucciso, e di Epifanio Li Puma, anch'egli
assassinato: gli anni in cui i soprusi dei
latifondisti non erano più accettati in
silenzio. Poco dopo anche Salvatore
Carnevale, che si batteva per gli stessi
diritti, fu ammazzato.
Erano gli anni delle reazioni dei
contadini, che guidati dai sindacalisti
occupavano le terre non coltivate. Pio La
Torre, nel frattempo, era diventato
membro del Consiglio federale del Pci,
che diede il via all'occupazione delle terre
stesse.
Durante una di queste operazioni, a
Bisacquino, i contadini, e con loro La
Torre, furono arrestati: ci fu uno scontro
Una vita scomoda: Pio La Torre
Terra presta la propria esperienza su tutto
il territorio nazionale.
Ultima per nascita ma non per importanza
“Terre Joniche”, la cooperativa che dal
31 gennaio scorso ha cominciato la
propria attività a Isola Capo Rizzuto e per
la quale il mondo associativo di Libera
all’interno del contesto emiliano
romagnolo si sta spendendo per un
sostegno tanto economico quanto solidale
rispetto alla costituzione di nuove realtà
spesso osteggiate dagli stessi contesti
sociali in cui nascono, facili a
commuoversi nei momenti tragici della
storia del nostro del nostro Paese, ma
molto meno disposti a Muoversi nel vero
senso della parola.
Da qui l’esempio di cooperative forti di
un Impegno che va molto al di là della
semplice attività economico-produttiva.
Nate attraverso un bando pubblico di
volta in volta indetto dalle
amministrazioni comunali del luogo di
concerto con le prefetture infatti, queste
attività si trasformano durante l’estate
diventando veri e propri campi di lavoro e
formazione per tutti i volontari che
scelgono di sporcarsi le mani e lavorare
insieme, sotto il sole cocente d’agosto in
quei luoghi che un tempo considerato
ormai lontano appartenevano ai boss e che
adesso profumano di bellezza e libertà, di
un saper fare che ha raccolto la sfida
lanciata da Mazzarò e che ha vinto
“facendo bene”, stavolta per tutti.
Un’esigenza forte che richiama la
collettività a riappropriarsi di quei beni e
a frustrare quella barbara considerazione
che il territorio ha della mafia, spesso
coincidente non solo con quel concetto di
“famiglia” a cui la cinematografia ci ha
abituati, ma più incisivamente di
matrigna, di ufficio di collocamento, di
uno stato-mafia alternativo allo Stato,
quello vero.
Ecco quindi che restituire il maltolto vuol
dire declinare sempre di più l’idea che “U
travagghiu è travagghiu” ovvero “Il
lavoro è lavoro, non si rifiuta” e che
quindi costituire delle cooperative sociali
in quelle lande del Mezzogiorno, proprio
sui terreni un tempo di proprietà dei
mafiosi, determina una differenza
sostanziale soprattutto in tempi di crisi,
rispetto alla possibilità di vedere
riconosciuto un lavoro vero, tutelato,
impenetrabile alle infiltrazioni mafiose
laddove la sopraffazione e il malessere
hanno soverchiato le sorti di intere
generazioni.
Il cambiamento che nei territori si è
andato via via determinando nel tempo ha
fatto sì che la presenza di tali cooperative
aderenti al progetto di garanzia e tutela
promosso da Libera abbia invertito la
tendenza. A testimonianza di ciò in prima
linea sul fronte dell’antimafia sociale
operano le nove cooperative a cui Libera
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di Peppe Rizzo
presidio Libera Unibo
“La roba non è di chi la fa, ma di chi la
sa fare…. Bene e per Tutti”
Per riuscire a comprendere il forte valore
economico ma in larga parte simbolico
dei beni confiscati ai mafiosi riesce
particolarmente facile citare il triste
archetipo di Mazzarò nella novella scritta
da Giovanni Verga più di un secolo fa.
La roba, le ricchezze spesso dissimulate
negli sfarzi dei mafiosi li ritroviamo in
tutta la loro estensione a simboleggiare un
potere che esiste e che appartiene “a chi lo
sa fare”.
Dovendo aspettare le morti di Pio La
Torre e Carlo Alberto Dalla Chiesa, solo
dall’82 siamo riusciti a vedere confiscati i
beni delle mafie frutto di attività illecite.
Un esteso patrimonio di “roba” nel senso
più verghiano del termine, spesso
abbandonato se non ancora in mano a chi
il controllo del territorio non l’ha mai
perso negli anni.
“E allora non basta confiscare. La mafia
restituisca il maltolto”. E’ un monito che
riecheggia e integra una legislazione
antimafia insufficiente e d’emergenza,
mai di prevenzione. Da qui lo spirito che
anima la legge 109/96 sul riutilizzo
sociale dei beni confiscati promossa da
un’iniziativa legislativa popolare a cura di
Libera.
La mafia restituisce il maltolto
Nel 2011 abbiamo affrontato l’argomento
"Beni confiscati a Bologna" ed è emerso
un quadro abbastanza complesso. Solo in
città infatti, si contano 9 immobili e 13
aziende confiscate tutte a Giovanni Costa,
palermitano che negli anni 90 decise di
spostare i suoi interessi economici a
Bologna con la costituzione di varie
società, soprattutto di costruzioni.
Che ne pensate della vendita di beni? Ad
oggi possono essere venduti anche se, a
determinate condizioni, si era parlato di
venderli con più facilità provocando
delle forti reazioni…
La vendita dei beni confiscati presenta
delle problematiche oggettive, prima tra
tutte quella del pericolo che questi beni
possano essere ricomprati dai vecchi
proprietari attraverso dei prestanome, una
pratica già molto diffusa, creando così un
circolo vizioso che renderebbe ancora più
difficile l’identificazione di tali soggetti.
Come ha già anticipato Giulia, questo è
uno dei rischi maggiori: con il decreto
semplificazioni il Governo ha istituito la
possibilità per i giovani imprenditori di
richiedere la gestione dei beni confiscati
per utilizzarli per finalità turistiche. L'
intento è sicuramente valido e meritevole,
ma non sufficiente. E’ una scelta
interessante, in primo luogo perché
risponde ad una filosofia di utilizzo dei
beni confiscati in parte innovativa e
ed esiste solo quando spara: nulla di più
sbagliato e il nostro territorio ne è la
dimostrazione.
La mafia si è fatta imprenditrice, vanta un
giro d' affari milionario e raramente ormai
imbraccia le armi, ma non per questo è
meno letale. Negli ultimi anni si è
assistito ad una proliferazione delle
attività economiche fruttuose delle stesse
impressionante: proliferazione che
inevitabilmente ha contribuito a mettere
in ginocchio l' economia pulita di uno
stato intero.
Non è facile riassumere in poche parole
quello che cerchiamo di fare.
Essenzialmente e molto semplicemente
cerchiamo di creare consapevolezza; lo
facciamo parlando con i ragazzi, entrando
nel mondo scolastico, tentando di far
appassionare chiunque abbia voglia di
interessarsi ad un fenomeno che per la sua
pregnanza non può e non deve essere
prerogativa dei solo addetti ai lavori, ma
deve riguardare chiunque voglia lottare
per poter un domani dire con fierezza di
essere cittadino di un' Italia forse un po'
più libera dalle mafie.
L' antimafia, quella in cui noi vogliamo
credere, non è quella ricordata solo in
determinate occasioni, non è quella di
facciata, ma è quella fatta di piccole scelte
quotidiane.
Voi avete fatto uno studio sui beni
confiscati, cosa ne è emerso?
07
di Giovanni Frascella
Chi è "Rete No Name" e di cosa si
occupa?
"Rete No Name - Antimafia in
movimento" nasce circa 5 anni fa da un
gruppo di ragazzi, studenti fuori sede,
lavoratori e non solo, provenienti da tutta
Italia, con formazioni diverse, con diverse
esperienze e vissuti pregressi, che un po’
per caso un po’ per sfida, decisero di
mettere insieme le forze per unirsi in un
progetto comune. L'intento è dimostrare
agli altri e a se stessi che, anche in un
paese come il nostro, credere in qualcosa,
in un cambiamento, è ancora possibile
anzi necessario. Questa l' essenza della
nostra associazione e il comune
denominatore di tutte le nostre attività.
Di mafia, di mafie, soprattutto in zone
come quella di Bologna, si parla troppo
poco, la percezione del fenomeno è
ancora parziale e spesso falsata. Con l'
esperienza, parlando con nostri coetanei e
non, ci siamo resi conto di quanto sia
ancora fortissima l'associazione mentale
per la quale la mafia fa paura, è pericolosa
Intervista aSilvia Rigo e Giulia Di Girolamo
della “Rete No Name - Antimafia in movimento”
invocano la creazione di figure altamente
specializzate e preparate per la gestione
dei beni in grado di trovare soluzioni alle
frequenti situazioni problematiche che si
creano in questi casi. Tutto ciò per
ribadire che non basta sottrarre i beni ai
clan se poi non si offrono gli strumenti
concreti per gestirli correttamente. In caso
contrario si corre il rischio che di far
passare un messaggio deleterio oltre che
profondamente sbagliato e cioè che la
gestione mafiosa funziona, frutta e offre
possibilità di lavoro, mentre lo stato non
riesce a fare altrettanto
112 beni confiscati in E-r ad oggi, il 10% rispetto alla Lombardia…
La situazione in Emilia-Romagna è
sicuramente molto diversa da quella
lombarda, regione dove la ‘ndrangheta
oramai la fa da padrona in tutti gli strati
della vita sociale. L’Emilia-Romagna è da
sempre una terra appetitosa per la
criminalità organizzata, ma in questo caso
è più preciso parlare di mafie e non di
mafia.
deve essere portata a livello applicativo.
Facciamo un esempio pratico inerente alla
confisca di aziende: capita molto spesso
di trovarsi di fronte ad attività che in
mano ai boss mafiosi vantano un fatturato
annuo di milioni e milioni di euro, mentre
una volta che la gestione passa nelle mani
statali risulta quasi inevitabile il
fallimento. La ragione di ciò è facilmente
intuibile: inserita all'interno del circuito
legale la gestione dell'azienda deve
giustamente sottostare ad alcune regole
pregnanti e molto più rigide prima invece
eluse e a quel punto i costi si triplicano, i
dipendenti devono essere messi in regola,
devono essere rispettate le normative sulla
concorrenza del mercato. Inoltre non sono
da sottovalutare il potere e l'influenza che
il nome stesso di una famiglia mafiosa a
capo di una attività economica possono
sortire: venuto meno, improvvisamente,
spariscono i fornitori, si dimezzano i
compratori e via dicendo. Sarebbe dunque
auspicabile un intervento in tal senso che
renda la normativa in oggetto oltre che
giusta anche concretamente efficace e non
a caso da anni gli addetti ai lavori
08
condivisibile: quanto viene tolto alle
mafie non solo serve a depauperarle della
loro forza e del potere economico, ma può
e deve rappresentare un’occasione di
sviluppo, infatti alla perdita per le
organizzazioni criminali può
corrispondere un aumento di produttività
per l’economia sana ed un’occasione per
quei cittadini onesti, per le cui attività
imprenditoriali la presenza delle mafie ha
rappresentato un insormontabile ostacolo.
Non basta però reinserire nel circuito
legale determinati beni, ma è
fondamentale offrire anche strumenti ad
hoc affinché vengano svolti concreti
controlli su chi poi gestirà gli stessi,
proprio per evitare di restituire
"legalmente" i beni che con tanta fatica
sono stati confiscati alle associazioni
criminali.
Altra problematica di grande rilievo in
materia riguarda la gestione degli stessi.
La normativa antimafia italiana è sulla
carta molto buona ( spesso in tal senso
facciamo anche scuola in ambito
europeo), ma pecca poi quando la stessa
Il punto di partenza era stato avviato, nel
lontano 1996, con la legge, sempre di
iniziativa popolare, portata avanti da Don
Luigi Ciotti, la n.109 (Disposizioni in
materia di gestione e destinazione di
beni sequestrati o confiscati). Ma da
quel momento in poi, nonostante le
numerose sollecitazioni e proposte dal
basso, non si è riusciti a creare un sistema
efficiente, anzi molti passi sono stati fatti
nella direzione opposta.
Le proposte inserite nel progetto vanno:
dall'istituzione, presso l'Agenzia
Nazionale, di un ufficio per le attività
produttive e relazioni sindacali con
l'obiettivo di sostegno alle aziende
sequestrate e confiscate, soprattutto per
quanto riguarda il livello occupazionale;
alla costituzione della banca dati
nazionale delle aziende confiscate e
sequestrate per un miglior monitoraggio
e tutela della posizione sul mercato; la
tutela dei lavoratori vittime del sistema
mafiosi, con un reddito garantito e il
reinserimento nel mondo del lavoro;
convenzioni con le pubbliche
amministrazioni e sgravi fiscali
(tutto il materiale formativo può essere
trovate sul sito ufficiale dell'iniziativa
www.ioriattivoillavoro.it).
E' necessario, affinchè lo strumento
democratico sia pienamente efficace,
come stabilito dall'art.71 della nostra
Carta Costituzionale, che siano raggiunte
50.000 firme di sottoscrizione: il passo
successivo, spiegano i promotori, sarà la
presentazione e sollecitazione in
Parlamento alle attuali forze politiche
affinchè questa domanda trovi risposte
concrete, e non sia abbandonata in un
qualche cassetto polveroso, come troppo
spesso siamo stati abituati in questi anni.
"Alla prepotenza mafiosa, bisogna
contrapporre un'alternativa fatta di
dignità, lavoro e sviluppo. Le aziende
sequestrate e confiscate possono diventare
un modello per la lotta alla mafia,
divenendo presidi di lavoro legale e
dignitoso attraverso un impegno concreto
di tutti gli attori coinvolti, istituzionali e
non.
Le aziende confiscate alle mafie sono un
bene di tutti".
ad andare avanti: punti a sfavore dello
stato sociale, e tacche sempre più
numerose per l'economia criminale (la più
grande holding del nostro paese, con un
fatturato di 170 miliardi all'anno).
Abbiamo un bacino di ricchezza
sottoutilizzato e mal gestito: i beni
confiscati. Secondo dati aggiornati a
novembre 2012 (dati ANBSC),
le aziende confiscate in via definitiva nel
nostro Paese sono 1636: quelle
sequestrate potrebbero essere dieci volte
di più. Aumentate le confisce del 65%
negli ultimi 5 anni, le regioni
maggiormente colpite sono
la Sicilia (37%), la Campania (20%), la
Lombardia (12%), a dimostrazione del
fatto che la criminalità organizzata si è
insediata, ormai da decenni, anche nel
settentrione del nostro paese.
Il 90% delle aziende confiscate fallisce
per l'inadeguatezza dell'attuale
legislazione vigente.
09
di Valeria Grimaldi
La parola chiave è una: lavoro.
Questa la proposta lanciata dalla Cigl e
sostenuta da Libera, Arci, Avviso
Pubblico, Sos Impresa e altre
associazioni: la legge di iniziativa
popolare "Io riattivo il lavoro: misure
per favorire l'emersione alla legalità
delle aziende sequestrate e confiscate
dalla criminalità organizzata".
La mafia, si sa, in periodi di crisi
economica e occupazionale è la prima a
rafforzarsi. Dalla disoccupazione
giovanile, alle imprese che non riescono
IO RIATTIVO IL LAVORO
confisca dei beni ai mafiosi come uno tra
gli strumenti più efficaci di contrasto alla
criminalità organizzata.
Il 30 aprile 1982, Pio La Torre viene
ucciso da Cosa Nostra, ma per
l’emanazione della legge n. 646/1982,
cosiddetta “Rognoni-La Torre”, si
dovranno attendere ancora quattro mesi
ed un’altra morte, quella di Carlo Alberto
dalla Chiesa, Prefetto di Palermo. A
completare il percorso ci penseranno la
legge n. 109/96 sul riutilizzo sociale dei
beni confiscati, il 7 marzo 1996, voluta
fortemente dall’associazione Libera e
l’istituzione dell’Agenzia nazionale
(istituita con d.l. 4/2010), che si occupa
dell’amministrazione e destinazione dei
beni sequestrati e confiscati alle mafie.
Il Master è rivolto soprattutto a
professionisti che vogliano rivestire il
ruolo di amministratori giudiziari di beni
e/o aziende confiscati alla criminalità
organizzata, funzionari e/o dipendenti di
Enti Locali.
Il Master, che si concluderà a luglio, è
iniziato lo scorso 23 novembre ed ha visto
salire in cattedra, alla prima lezione, oltre
che la Prof.ssa Stefania Pellegrini, anche
il Procuratore aggiunto di Reggio
Calabria Nicola Gratteri ed il Dott.
Antonio Nicaso. Come si dice, chi ben
comincia è a metà dell’opera.
Qui per saperne di più
insieme ad alcuni studenti hanno
realizzato due dossier sulle mafie in
Emilia-Romagna.
Scaricali qui
Oggi in Emilia Romagna dei 110 beni
confiscati negli ultimi sedici anni, solo 55
sono stati destinati e assegnati.
Si tratta di un tesoro confiscato alle mafie
che non viene riutilizzato per problemi
burocratici o per mancanza di risorse e di
competenze adeguate.
Il Master in oggetto si propone di formare
professionalità in grado di gestire un bene
o un’azienda dal momento della custodia
a quello della confisca, per poi divenire
oggetto di una richiesta di assegnazione a
fini sociali e ritornare a produrre una
ricchezza “sana”, diversamente da come
accadeva quando era di proprietà delle
mafie.
Al Deputato siciliano, Pio La Torre, si
deve la proposta di una legge che ha
introdotto il reato di associazione a
delinquere di tipo mafioso all’interno del
nostro codice penale ed ha indicato la
10
di Salvo Ognibene
In Italia esiste un patrimonio che rischia
l’abbandono: ville, aziende, case e terreni
edificabili. Sono quei beni confiscati alle
mafie e condannati al degrado dalla
burocrazia.
Bologna, profondo sud, dove fino a pochi
anni fa la mafia “non esisteva”: è proprio
qui che si è dato vita al primo Master
Universitario annuale in gestione e
riutilizzo di beni e aziende confiscati alle
mafie, intitolato a Pio La Torre.
S’inserisce in quel percorso portato avanti
in questi anni dalla Prof.ssa Stefania
Pellegrini, docente di Mafie e Antimafia e
direttrice del Master, e dalla sua cattedra.
Negli ultimi due anni ha dato vita ad un
laboratorio di giornalismo, coordinato da
Gaetano Alessi (Premio Fava 2011) che
Un Master sui beni confiscati
intitolato a Pio La Torre
Per formare dei giovani professionisti
in grado di gestire i beni e le aziende
confiscate alla mafia.
12
Stazione Bologna Centrale
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Copertina: Flavio Romualdo GarofanoSito web realizzato da Carlo TamburelliImpaginazione e grafica: Ida Maria Mancini
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