Musica e Interiorità

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Musica e interiorità nella cultura occidentale Maria Pia Vetro Classe IIIª D Liceo Classico Empedocle Anno scolastico 2008/2009

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La relazione tra musica e cultura attraverso i secoli, dalla Grecia antica fino al Novecento.Tesina maturità classica a.s. 2008/2009Liceo Classico Empedocle - Agrigento

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Musica e interiorità

nella cultura occidentale

Maria Pia Vetro

Classe IIIª D

Liceo Classico Empedocle

Anno scolastico 2008/2009

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La musica è qualcosa che accompagna la vita di tutti i giorni, sia come semplice svago, in

momenti di distrazione, sia, nelle sue forme più alte, più sublimi, come momento di

godimento interiore o raccoglimento spirituale. Se ne può ammirare la forma,

l’orecchiabilità, la ricercatezza delle melodie e delle armonie che il compositore ha saputo

creare, ma il motivo per cui una musica ci attrae con maggiore o minore intensità non è

facilmente spiegabile se non con il fatto che, senza volerci necessariamente comunicare

qualcosa, essa avvince i nostri sensi e il nostro intelletto.

Spesso non si riflette sul fatto che la musica è stata presente, tra gli uomini, sin dalla

preistoria, poiché, ancor prima della parola, grazie alla sua forza espressiva, ha permesso

la comunicazione, pur nelle sue forme più primitive ed istintuali; essa è nata con l’uomo,

ed è radicata in lui probabilmente ancor più delle altre forme artistico-espressive. La vita

stessa è fatta di ritmo e di suoni.

È interessante, allora, compiere un percorso che possa mostrare quanto essa sia

determinante nell’esistenza umana, facendo attenzione più che altro alle considerazioni

che sulla musica e sui suoi effetti sono state espresse nel mondo della cultura in generale,

a dimostrazione ancora più evidente della sua universalità e del suo essere connaturato

nell’essenza intima di ciascun essere umano.

* * * * *

Nel mondo classico, la musica ha sempre avuto un particolare rilievo, tra le arti, sia come

disciplina a sé, sia, più spesso, in stretto collegamento con la parola; essa, infatti, nasce

come un linguaggio, il quale però non si rivolge tanto all’intelletto, dal momento che non

contiene dei concetti, quanto all’anima e al sentimento, proprio per la sua caratteristica

astrattezza. La musica, dunque, può quel che la parola non può; e questo i Greci l’avevano

capito subito, se pensiamo ad Orfeo, il mitico cantore originario della Tracia, figlio di

Calliope e del dio Apollo, che, secondo la leggenda, riuscì, grazie al suo canto

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accompagnato con la lira, a commuovere non solo gli esseri umani, ma gli animali, le

piante, le pietre, e persino le potenze infernali, tanto che queste gli concessero di

riportare sulla terra la sua Euridice, anche se la storia non si concluse a buon fine, come

sappiamo. Ma Orfeo è anche uno degli Argonauti, protagonisti dell’omonimo poema in

quattro libri di Apollonio Rodio; la sua figura si rivelerà salvifica quando, nel viaggio di

ritorno in Tessaglia, gli eroi si troveranno a fare i conti con il canto ammaliatore delle

Sirene, mostri metà donna e metà uccelli, che Omero ci aveva già presentato nell’Odissea.

Il potere del loro canto era tale da stordire i marinai sulle navi che si trovavano a passare

vicino ad esse, e far sì che le navi si schiantassero sugli scogli, naufragando.

“E anche per loro, senza esitare, mandavano l’incantevole voce, e quelli già

stavano per gettare a terra le gomene, se il figlio di Eagro, il tracio Orfeo, non

avesse teso nelle sue mani la cetra bistonica, e intonato un canto vivace, con

rapido ritmo, in modo che le loro orecchie rimbombassero di quel rumore, e la

cetra ebbe la meglio sulla voce delle fanciulle.”

Ed ecco cosa ci dice Omero:

“Se uno, senza sapere, si avvicina e ascolta la voce delle Sirene, […] le Sirene là lo

affascinano con il canto melodioso, sedendo nel prato. E in giro c’è un grande

mucchio d’ossa di uomini che imputridiscono…”

Ma se passiamo dal mito alla realtà documentata, ci accorgiamo di come la musica sia

stata sempre tenuta in gran conto, nella civiltà greca.

È sempre Omero a parlarci di personaggi come Demodoco, l’ aedo cieco della corte del re

Alcinoo, che riesce a commuovere Odisseo, mediante la rievocazione delle tristi vicende

della guerra di Troia, attraverso un canto accompagnato dai suoni della cetra:

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“Questo cantava l’aedo glorioso: e Odisseo intanto si commuoveva, e sotto le

palpebre il pianto bagnava le gote.”

Nella società greca arcaica, l’aedo, insieme al rapsodo, era una figura professionale di

compositore ed esecutore di canti poetici (quindi anche dei poemi omerici), attiva di

solito nell’ambiente di corte, nel quale godeva di grande considerazione. Accettando la

definizione, proposta dallo Havelock, del poema epico come “enciclopedia tribale”,

possiamo ben capire il ruolo fondamentale che la musica dovette avere, accompagnando

la declamazione dei versi, nel facilitare la memorizzazione e l’assimilazione da parte del

pubblico delle conoscenze trasmesse dal cantore.

Delle musiche che dovevano accompagnare questi canti non ci è giunta traccia, dal

momento che gli unici - esigui - frammenti di cui siamo in possesso risalgono a epoche

posteriori al VI secolo a.C.; infatti, la loro trasmissione avveniva per via orale, data

l’essenzialità delle melodie, che venivano create sempre a partire da definiti nuclei

melodici, i nÒmi ; la notazione veniva utilizzata solo per l’uso privato dei musicisti, non

come mezzo di comunicazione.

Se ci spostiamo un po’ più avanti nel tempo, alla fine dell’ età arcaica, la musica conobbe

un periodo di fiorente sviluppo nella prima metà del VI sec. a.C., quando venne a

costituire, strettamente legata alla poesia, le forme della lirica corale e monodica. Il

termine lirica designa un tipo di componimento poetico-musicale cantato con

l’accompagnamento di uno strumento a corda; in realtà, gli studiosi ritengono che anche

il giambo e l’ elegia, accompagnati dall’ aÈlÒw, siano da accostare alla lirica monodica

propriamente detta per la vicinanza di contenuti e per l’uguaglianza dei destinatari.

Della lirica corale facevano parte diverse tipologie di canti, utilizzati specificatamente per

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occasioni celebrative o religiose: il paiãn in onore di Apollo, il diyÊrambw in onore di

Dioniso, l’ epitalamio, canto di nozze, l’ §pikÆdiw, canto funebre, l’ §pin¤kiw , canto di

vittoria, il yr∞nw, lamento funebre, il pary°niw, eseguito da cori di vergini, l’

ÍpÒrxma, accompagnato da danza e pantomima; quindi questo tipo di canto, rivolto ad

un pubblico molto vasto, aveva più che altro toni solenni e meno personali rispetto alla

lirica monodica, la quale, invece, era espressione di sentimenti e stati d’animo soggettivi,

e a cui ben doveva adattarsi un accompagnamento musicale che suscitasse una certa

commozione negli animi degli ascoltatori (facenti parte di un simposio o di tiasi ed eterie).

La lirica monodica trova i suoi massimi rappresentanti in Alceo e Saffo, poeti riscoperti e

celebrati in epoca romantica, perché in loro si vedeva l’archetipo del poeta-cantore,

capace di effondere nel suo canto il proprio sentire e di trasmetterlo agli altri.

Un’ estrema importanza rivestirà la musica nelle tragedie di età classica, a partire da

Eschilo; troviamo infatti, tra gli elementi della tragedia: la parodo, ovvero il canto

d’ingresso; la monodia, che a volte, all’interno degli episodi, sostituiva la recitazione, e

spesso era costituita dal kmm+Òw, un assolo pervaso da un’atmosfera di dolore, il vero

nucleo patetico della tragedia; lo stasimo, canto corale che chiudeva ciascun episodio; e

l’esodo, canto d’uscita del coro; i canti erano accompagnati dall’ aÈlÒw, strumento che a

volte si usava anche per accompagnare la recitazione vera a propria. In Eschilo, dunque, i

cori assumevano un’importanza maggiore rispetto alle parti dialogate; Sofocle aumentò

addirittura il numero dei coreuti (da 12 a 15). Con Euripide, invece, l’ elemento musicale

non assunse più la funzione di esprimere il pãyw tragico, ma venne declassato (a parte i

pochi duetti lirici che a volte sostituivano i cori) a semplice intermezzo d’evasione. Questo

fu dovuto all’influenza della sofistica, per cui lo stesso tragediografo era più interessato

ad attrarre l’attenzione del pubblico mediante le parti dialogate, che potevano essere

seguite con più concentrazione data l’assenza di un’ importante parte musicale.

A tal proposito, possiamo ricordare l’ interpretazione nietzscheana dell’ origine della

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tragedia: secondo il filosofo tedesco, la tragedia nacque dall’unione del dionisiaco con

l’apollineo, ovvero dalla rappresentazione in forma poetica, armonica nelle sue parti, della

vita, di per sé irrazionale ed istintuale; infatti, il termine “tragedia” si può certamente

collegare a trãgw ”dÆ, ovvero “canto del caprone”, il quale, nella mitologia, è

l’animale sacro a Dioniso, il dio della gioia e dell’ebbrezza della vita.

Nell’ economia della tragedia, Nietzsche individua lo spirito apollineo nei dialoghi, quello

dionisiaco nei cori. Ora, se la musica si fa portatrice dello spirito dionisiaco, ovvero di tutto

ciò che è istintuale, primitivo, della stessa ebbrezza della vita, che è qualcosa di divino,

Euripide, nel momento in cui toglie ogni valore al pathos musicale, cancella il dionisiaco, e

pertanto si fa uccisore dello spirito tragico: con Euripide, la tragedia è morta.

Nonostante ciò, essendo la tragedia, comunque, declamata in trimetri giambici, in essa

rimane un’ intrinseca musicalità; questo dimostra, in fondo, il fatto che la musica fosse

connaturata nell’animo e nella civiltà dei Greci.

Alla fine del V sec. prende le mosse la speculazione filosofica di Platone, il quale dedicò

alla musica e in particolare ai suoi effetti etici parte della sua trattazione. In realtà, Platone

si rifece a degli studi già condotti da Pitagora nel VI sec. e dal contemporaneo Damone.

Pitagora scoprì il fondo matematico dell’armonia musicale. In questo modo, si poteva

ricondurre l’armonia dei suoni alla stessa armonia cosmica (tuttavia inudibile per gli

uomini, in quanto presente da sempre, e perciò mancando l’esperienza del contrasto con

il silenzio), perché regolata appunto dai medesimi rapporti matematici. Perciò, egli

attribuì alla musica, rispetto all’animo umano, addirittura una funzione guaritrice, in

quanto capace di ripristinarne l’originario equilibrio. Quindi, la musica porta alla luce il

ritmo nascosto di ogni cosa, e in questo senso bisognava trovare le giuste corrispondenze

delle armonie con i vizi e le virtù, in modo da stabilirne il valore etico: è proprio ciò che

farà Platone, prendendo a riferimento, oltre alla concezione pitagorica dell’armonia delle

sfere, che accoglierà inserendola nel “mito di Er”, posto alla fine della Repubblica, anche

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le teorie già enunciate dal musicologo Damone di Oa.

La concezione dell’arte, in Platone, ha una connotazione fortemente negativa, in quanto

essa sarebbe una copia degli oggetti, a loro volta copie delle fid°ai, e ciò porterebbe ad un

allontanamento, da parte dell’uomo, dalla Verità. La musica, perciò, assume anch’essa un

valore negativo, ma con delle eccezioni; esistevano, infatti, nell’antica Grecia, diversi modi

musicali, detti èrmn¤ai, che si distinguevano per i differenti rapporti che i suoni

assumevano tra di loro, e perciò differivano anche negli effetti suscitati su chi le

ascoltava. In particolare, come lo stesso Platone afferma nel III libro della Repubblica,

l’armonia misolidia era considerata “lamentosa”, la lidia e la ionica “molli e conviviali”, e

per questo esse andavano bandite in quanto non funzionali alla formazione dei giovani.

Erano invece considerate positivamente la dorica e la frigia: la prima, in quanto imitava

“convenientemente parole e accenti di chi dimostra coraggio in guerra”; la seconda,

perché caratteristica di “chi attende ad un’azione pacifica e non violenta, ma spontanea

[…] e si comporta con saggezza e moderazione”. Questa trattazione va contestualizzata

nella polemica contro le innovazioni musicali del V sec., il cui fine era prettamente

virtuosistico, orientato verso una spettacolarizzazione del fatto musicale, al contrario

della musica “di un tempo” (sicuramente molto più semplice), in cui Platone individuava

un vero e proprio aspetto formativo.

Allo stesso modo, Platone cita gli strumenti più utili a perseguire gli scopi sopra citati, che

non sono “strumenti a molte corde né capaci di tutte le armonie”, e in particolar modo

non si tratta dell’ aÈlÒw, lo strumento “più ricco di suoni”; bensì, sono da preferire la

lÊra e la k¤yariw. Anche per i pitagorici questi ultimi strumenti erano i più amati,

potendo essi esprimersi per accordi, quindi secondo relazioni stabili e rassicuranti,

supporto ideale alla parola; mentre il flauto era ritenuto pericoloso in quanto puramente

melodico, dotato di una eccessiva libertà, di un suono incerto, tremulo, e quindi,

possiamo aggiungere noi, portato ad esprimere più il “dionisiaco” che l’ “ apollineo”.

Quindi, la musica non è tanto migliore quanto più piacere riesce a procurare

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all’ascoltatore, ma è tale solo rispetto alla sua funzione educativa, e quindi nella misura in

cui consente di fare esperienza della Verità.

Aristotele accoglie il pensiero platonico, ma rifiutandone la rigida assiologia, e infatti, nel

VIII libro della Politica afferma:

“La musica non va praticata per un unico tipo di beneficio che da essa può

derivare, ma per usi molteplici, poiché può servire per l’educazione, per procurare

la catarsi, e in terzo luogo per il riposo”.

Infatti, la musica non va apprezzata solamente nella sua funzione etica, comunque

determinante, ma ne va considerata anche la dimensione estetica, in quanto essa dà la

possibilità di un “ozio decoroso” (Politica, VIII), procurando un piacere misto a sollievo.

Bisogna quindi “far uso di tutte le armonie, ma non di tutte allo stesso modo”. In

particolare, fa riferimento alla kãyarsiw:

“…quando alcuni, fortemente scossi da esse [le emozioni], odono canti sacri che

impressionano l’anima, allora si trovano nelle condizioni di chi è stato risanato o

purificato”.

Dall’età ellenistica poi, ci giunge un’importante testimonianza in relazione alla funzione

“rasserenatrice” della musica, e ciò s’ inserisce bene nel contesto culturale - e soprattutto

filosofico - del periodo.

Come non ricordare, infatti, il favoloso mondo dei pastori-poeti creato da Teocrito? Ne Le

Talisie, VII idillio bucolico, troviamo molti riferimenti alla musica: dal modo in cui Simichida

(Teocrito) definisce Licida (Apollo), “tu sei, fra quanti pascono greggi e mietono nei

campi, il più valente musico”, alla gara di canto tra i due pastori-poeti; e, all’interno della

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gara stessa, vengono nominate le “canzoni” e le “dolci musiche” dei pastori mitici, come

Dafni (al quale, inoltre, lo stesso Teocrito fa riferimento nel Tirsi indicandolo come

ideatore dei carmi bucolici).

Tra l’ altro, se prendiamo in considerazione il seguente verso:

“noi cerchiamo soltanto un po’ di pace (ésx¤a)”

che ci richiama le filosofie dell’età ellenistica e il loro intento di trovare la “ricetta” della

felicità, in un periodo di disorientamento sociale ed esistenziale dell’individuo, allora

possiamo capire come anche il canto costituisca una strada per raggiungere la quiete

dell’animo, la serenità interiore: la musica diviene così un elemento costituente del “locus

amoenus” tanto celebrato da Teocrito.

I bkliasm¤ teocritei, e il modello di vita che in essi viene espresso, verranno presi a

riferimento, nel mondo latino, da Virgilio, nel comporre le Eclogae (I sec. a.C.); anche qui la

musica diventa lo svago ideale del pastore-poeta.

“Titiro, tu riposando sotto la chioma di un ampio faggio

moduli sull'esile zampogna una melodia silvestre”

Benchè la musica continuasse ad essere presente, come vediamo, nella cultura greca

d’età ellenistica, tuttavia essa perse un vero e proprio valore artistico, a prescindere

dall’attribuirle o meno un valore propriamente etico. Si assistette, infatti, ad una sorta di

decadenza dell’ arte musicale (i cui germi si possono rintracciare già nella tragedia

euripidea); il più delle volte, essa divenne subalterna alla poesia, quindi un semplice

sottofondo alla sua declamazione.

* * * * *

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Nel corso del Medioevo, la concezione che prevalse tra gli uomini di cultura fu quella di

una musica come scienza, le cui basi erano state poste già da Pitagora. Questo, tra le altre

cose, comportò una distinzione tra il teorico musicale ed il musicista, ovvero il semplice

esecutore: il primo era l’unico a possedere una vera conoscenza della armonia intesa

come armonia celeste; il secondo, invece, il semplice esecutore di una musica che poteva

essere solo un pallido riflesso dell’ armonia universale (vedi Dante). Alla base di queste

considerazioni ci sono delle precise riflessioni filosofiche, come quella di Plotino, o ancora

il pensiero di Boezio, che distingue tra musica “mundana”, “humana” e “intrumentalis”.

In questo contesto si inserisce la cultura cristiana, secondo cui la musica terrena è pur

sempre un riflesso della musica celeste, perfetta in quanto emanazione di Dio;

espressione ideale della musica divina è il canto gregoriano, che ricalca la semplicità delle

antiche melodie greche, ma influenzato in parte anche dai salmi ebraici.

Di questo clima culturale è Agostino d’ Ippona a darci per primo testimonianza, ma egli è

anche il primo a parlare consapevolmente degli effetti psicagogici della musica: in uno dei

passi più celebri delle Confessiones, infatti, Agostino racconta l’esperienza dell’ascolto dei

canti liturgici introdotti da S. Ambrogio:

“Quante lacrime versate ascoltando gli accenni dei tuoi inni e cantici, che

risuonavano dolcemente nella tua chiesa! Una commozione violenta: quegli

accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuore la verità […]”

Ma è sempre S. Agostino a riconoscere che la musica, nonostante riesca, accompagnando

la parola sacra, trasmettere in maniera più efficace la verità divina, possa rivelarsi fonte di

peccato, qualora l’uomo si lasci sviare dall’ elemento sensibile:

“Fra le melodie che vivificano le tue parole, quando le canta una voce soave ed

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educata, ora poso, lo confesso, un poco, ma non al punto di rimanervi inchiodato,

cosicché mi rialzo quando voglio. […] Talvolta mi sembra di attribuire ad esse un

rispetto eccessivo, eppure sento che, cantate a quel modo, le stesse parole sante

stimolano il nostro animo a un più pio, a un più ardente fervore di pietà, che se non

lo fossero. Ma spesso il piacere dei sensi fisici, cui non bisogna permettere di

sfibrare lo spirito, mi seduce. […] Qui pecco senza avvedermene, e poi me ne

avvedo.”

Anche Dante farà distinzione tra una musica terrena, quella dei trovatori medioevali,

rappresentati dal poeta nella figura di Casella (Purgatorio, II), e la musica celeste, ovvero

quell’ “armonia” di diversi suoni costituita dal canto delle anime beate, che risuona in

tutta la sua perfezione nei cieli del Paradiso e che viene così definito dal poeta nel XII

canto della terza cantica:

“canto che tanto vince nostre muse,

nostre serene in quelle dolci tube,

quanto primo splendor quel ch’ e’ refuse.”

Ecco le parole con cui Dante descrive il rapimento che il canto di Casella esercita su di lui e

su tutte le anime:

'Amor che ne la mente mi ragiona'

cominciò elli allor sì dolcemente,

che la dolcezza ancor dentro mi suona.

Lo mio maestro e io e quella gente

ch'eran con lui parevan sì contenti,

come a nessun toccasse altro la mente.

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Persino Virgilio ne viene talmente incantato, da dimenticare per un attimo anche il suo

ruolo di guida e maestro; ecco, quindi, che anche la Ragione si lascia soggiogare dalla

irresistibile dolcezza della musica. Soltanto il rimprovero di Catone potrà distogliere i due

dall’ ascolto e far loro riprendere il faticoso cammino della purificazione, che altrimenti

risulterebbe ostacolato dall’attaccamento alle cose terrene, pur costituite, in questo caso,

dal nobile sentimento di amicizia tra Dante e Casella e dall’ elevatezza del canto.

* * * * *

Nel XV secolo si apre la grande stagione culturale del Rinascimento, in cui vengono

recuperate e rivalutate le istanze culturali della classicità; anche la musica e il modo di

concepirla risentirono della dialettica tra aristotelismo e neoplatonismo; più

precisamente, essa venne considerata sia come vera e propria scienza basata sulle

proporzioni numeriche, riflessione che nel medioevo aveva dato origine alla musica

polifonica, sia come “medicina per l’anima” (Marsilio Ficino), capace di “muovere gli

affetti” dell’ animo umano e stabilire, secondo una visione mistica, un rapporto si

comunione tra l’uomo e la natura.

In quest’ottica è da inquadrarsi la polemica tra i “sostenitori” di un tipo di musica

intellettualistica, basata sui rigidi rapporti armonici codificati dai trattatisti del tempo, che

trova il suo ideale nella polifonia di ascendenza fiamminga, e gli assertori della necessità,

da parte della musica, di accompagnare il testo poetico sottolineandone adeguatamente i

significati; una musica melodica che si rivolgesse direttamente al cuore, dunque, priva

delle astrusità della polifonia.

Fu questa ultima tendenza a prevalere, sostenuta dagli intellettuali fiorentini della

Camerata de’ Bardi, tra cui ricordiamo il poeta O. Rinuccini e i compositori Peri e Caccini, la

quale, in maniera decisiva, contribuì, con la volontà di far rivivere la tragedia greca - in cui,

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si riteneva, musica e poesia avevano dovuto contemperarsi nella maniera ideale - alla

nascita del melodramma, alla base del quale stava il “recitar cantando”.

Ma una ancora maggiore consapevolezza artistica la troviamo in Claudio Monteverdi

(1567-1643), compositore cremonese in rapporti con Torquato Tasso, il quale distingue,

appunto, tra una “prima pratica” e una “seconda pratica”: la prima “versa intorno alla

perfezione dell’armonia, non serva ma signora dell’ orazione”, la seconda “versa intorno

alla perfezione della melodia, e per signora dell’ armonia pone l’ orazione”, ed è quella

che egli dichiara di preferire.

Già nei decenni precedenti alla dichiarazione d’ intenti del Monteverdi, i madrigali -

composizioni a più voci - avevano cominciato a perdere le caratteristiche proprie dei pezzi

polifonici, arrivando addirittura al tentativo di riprodurre, mediante una melodia

accompagnata da accordi, i significati lessicali attraverso le figurazioni melodiche (i

cosiddetti “madrigalismi”).

Lo stesso Monteverdi, dopo un’ evoluzione dalla polifonia alla monodia, compose diversi

madrigali di questo genere; ricordiamo, ad esempio, Il combattimento di Tancredi e

Clorinda, sui versi della Gerusalemme liberata, composizione inserita tra i Madrigali

guerrieri, ma in cui già si avverte l’ impostazione tipica del teatro in musica.

Da ricordare, inoltre, fra tutte le composizioni del Monteverdi, il Lamento di Arianna, unico

frammento rimastoci della tragedia musicale Arianna, in cui si realizza una perfetta

compenetrazione tra la poesia del Rinuccini e una musica veramente toccante.

“Lasciatemi morire! Lasciatemi morire! E chi volete voi che mi conforte in così dura

sorte, in così gran martire! Lasciatemi morire!”

* * * * *

Nel lasso di tempo compreso fra i primi del Seicento e la fine del Settecento, non ci fu, da

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parte degli intellettuali e dei pensatori, una vera e propria riflessione sulla suggestività

della musica, sui suoi fini e sulle sue conseguenze nei confronti dell’ interiorità dell’ uomo;

soltanto alla fine del XVIII secolo si ricominciò a prestare attenzione a questi aspetti; la

riflessione fu, infatti, stimolata dalla straordinaria trasformazione dei tempi, dovuta a

molteplici fattori, che portò al movimento di pensiero del Romanticismo. Vennero così

rivalutate le istanze dell’ individuo nella sua interiorità, in luogo di quelle della società

vista in modo scientifico; si scoprì che ciascuna persona ha in sé un quid unico, irripetibile,

in cui non operano le forze della ragione, ma quelle del sentimento. Di conseguenza, ci fu

una rivalutazione dell’arte e delle sue possibilità espressive, e gli artisti furono considerati

degli esseri privilegiati capaci di trasmettere agli altri il proprio mondo interiore attraverso

gli strumenti della poesia, delle arti figurative, della musica. Si uscì inoltre dalla cultura

materialista e nichilista dell’ Illuminismo, nel riconoscimento dell’ uomo come essere

proteso verso l’ oltre, verso un Infinito che può essere ricercato solo per mezzo della

sensibilità lirica. Ciò, quindi, diede luogo a una rivalutazione dell’ arte e soprattutto della

musica, in quanto essa, priva di significati concettuali, si rivolge non all’intelletto e alla

facoltà del ragionamento, ma direttamente al cuore e all’immaginazione; essa è l’ unica

arte che si svolge nel tempo, mai statica, e per questa sua dinamicità non può che

richiamare lo stesso ciclo della vita dell’ uomo.

Di fondamentale importanza, fu il graduale cambiamento nella condizione dell’artista, che

non poté più contare su un ricco mecenate, data la decadenza in cui l’aristocrazia ormai

stava versando, con l’affermarsi della borghesia come classe dominante, e questo fu, da

un lato, negativo, poiché egli perse la possibilità di dedicarsi totalmente alla sua arte

senza doversi preoccupare di guadagnarsi da vivere; dall’altro, il distacco dalla corte fu un

modo per affermare la propria libertà politica e artistica, senza limitazioni o

condizionamenti.

In musica questo fenomeno fu particolarmente evidente: ecco quindi il sorgere di geni

musicali della portata di Ludwig van Beethoven, compositore di una musica che esprime

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la grandiosità degli ideali della Rivoluzione francese, e in un primo momento la fiducia nei

confronti di Napoleone, mutata poi in disillusione, analogamente a ciò che avvenne in

Foscolo; una musica in cui si manifesta tutto l’ardore dell’ottimismo e del titanismo

romantico, la vittoria dell’uomo sulle forze avverse del destino, e al contempo

l’immergersi totale nella natura, nell’ottica di un’ incarnazione del divino in essa; ecco,

infine, il nascere di una musica che celebra, al di sopra di tutto, la fratellanza gioiosa di

tutte le creature, espressa nella maniera più straordinaria nell’ Inno alla Gioia, all’interno

dell’ultima, grande Sinfonia del genio tedesco, inno che lo stesso Nietzsche ebbe poi a

definire come massima espressione della gioia dionisiaca del vivere.

Ad aprire le porte alla speculazione romantica sull’ arte, e in particolare sulla musica, è

Immanuel Kant, il “protoromantico” dei filosofi, il quale, nella sua speculazione sul bello,

inserisce delle riflessioni sulla musica e sul suo rapporto con lo animo umano.

L’esperienza del bello, secondo Kant, è causata dal “libero gioco dell’immaginazione e

dell’intelletto”, in virtù del quale l’immagine della cosa appare rispondente alle esigenze

dell’ intelletto, generando un senso di armonia; e poiché questo meccanismo è identico in

tutti gli uomini, resta spiegato il fenomeno dell’ universalità estetica e giustificata la

presenza di un senso comune del gusto: questo è possibile dal momento che il giudizio

estetico si basa sull’ idea estetica, ovvero “quella rappresentazione dell’ immaginazione

che dà occasione di pensare molto, senza però che qualche pensiero determinato, cioè

qualche concetto, possa essere adeguato, una rappresentazione, di conseguenza, che

nessun linguaggio può raggiungere totalmente e rendere comprensibile”. Da qui, la

concezione di un’ arte autonoma, pura, libera da qualsiasi condizionamento concettuale.

Quanto detto sopra vale anche per la musica; ma come interagiscono i suoni con l’ anima?

In questo senso, Kant sembra voler recuperare quella “teoria degli affetti” che tanta

fortuna aveva avuto nel Rinascimento, secondo cui, appunto, ogni espressione dotata di

significato del linguaggio parlato ha un corrispettivo musicale che ne rappresenta il

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particolare colore affettivo. Il “tono” musicale rende palese l’ affetto di colui che parla, e,

allo stesso tempo, suscita il medesimo affetto in colui che ascolta. Quindi, la musica è una

“lingua universale delle sensazioni comprensibile da ogni uomo”, ove però le sensazioni

sono svuotate di qualsiasi valore cognitivo e diventano coscienza di stati di eccitazione

del corpo.

Ma della musica Kant considera non soltanto questa proprietà, bensì anche l’elemento

della coerenza; attraverso le regole codificate, che riguardano melodia ed armonia

insieme, il compositore crea, per ogni composizione, un “tema” che costituisce “l’affetto

dominante del pezzo”, e che “serve ad esprimere l’ idea estetica di una totalità coerente

di una quantità inesprimibile di pensieri”. Così, si passa dai semplici “affetti” ai “pensieri”,

dal senso all’ intelletto; quindi l’ idea estetica, pur essendo di natura intellettuale, viene

“catturata” dai suoni, in una sorta di gioco di riflessi: “nella musica questo gioco va dalle

sensazioni del corpo alle idee estetiche, e da queste, con la forza acquistata, ritorna al

corpo”.

Il suono, pur continuando a mantenere il suo caratteristico fondo di “matematicità”, che

soddisfa l’intelletto, non ne rimane mai vincolato, riuscendo a soddisfare, nella sua

costante indeterminatezza, anche l’ immaginazione; e in questo sta proprio la potenza

intrinseca del linguaggio musicale.

L’ indeterminatezza del ricordo, o di una sensazione visiva o uditiva stanno alla base della

poetica leopardiana del vago e dell’indefinito; se la realtà vissuta non è altro che infelicità

e noia, soltanto una realtà immaginata può appagare il bisogno di infinito dell’uomo, e

l’immaginazione trova il modo di costruirla essendo stimolata da tutto ciò che è vago,

indefinito, lontano.

In particolare, Leopardi scrive nello Zibaldone, a proposito del suono, queste riflessioni:

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“È piacevole per se stesso, cioè non per altro, se non per un' idea vaga ed

indefinita che desta, un canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano

senza esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo insensibile;

[…] o che sia così lontano, in apparenza o in verità, che l'orecchio e l'idea quasi lo

perda nella vastità degli spazi ”

Poco dopo, spiega l’importanza dell’ uso di tali suoni in poesia:

“ E tutte queste immagini in poesia ec. sono sempre bellissime, e tanto più quanto

più negligentemente son messe, e toccando il soggetto, senza mostrar

l'intenzione per cui ciò si fa […] ”

Queste riflessioni non rimangono nell’ ambito della pura teoria, ma vengono messe in

pratica da Leopardi nelle sue poesie, soprattutto in quelle in cui la - sempre presente -

riflessione filosofica è accompagnata da un quadro di vita, da cui essa scaturisce, o di cui

si serve come appoggio: pensiamo, ad esempio, alla “squilla”, al cui suono “diresti che il

cor si riconforta”, de “Il sabato del villaggio”; oppure al “romorio” del “lavoro usato”, o

al “tintinnio di sonagli”, de “La quiete dopo la tempesta”.

Addentrandosi più a fondo nella riflessione sugli effetti della musica, scrive poi:

“ Dico che l'effetto della musica spetta principalmente al suono. Voglio intender

questo. Il suono (o canto) senz'armonia e melodia non ha forza bastante nè

durevole anzi non altro che momentanea sull'animo umano. Ma viceversa

l'armonia o melodia senza il suono o canto, e senza quel tal suono che possa esser

musicale, non fa nessun effetto. Ma io attribuisco l'effetto principale al suono

perch'esso è propriamente quella sensazione a cui la natura ha dato quella

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miracolosa forza sull'animo umano (come l'ha data agli odori, alla luce, ai colori); e

sebbene egli ha bisogno dell'armonia, nondimeno al primo istante, il puro suono

basta ad aprire e scuotere l'animo umano. ”

Infine, riportiamo una riflessione di Leopardi sulla natura del bello artistico:

“ Quello che ho detto altrove degli effetti della luce, del suono, e d'altre tali

sensazioni circa l'idea dell'infinito, si deve intendere non solo di tali sensazioni nel

naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla pittura, dalla musica, dalla

poesia ec. Il bello delle quali arti, in grandissima parte, e più di quello che si crede o

si osserva, consiste nella scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da

imitare”.

Tutti i filosofi romantici, certo in diversa misura, si trovano a dover fare i conti con la

questione del bello artistico e, in particolar modo, musicale; ma è Arthur Schopenhauer

colui che, più di tutti, individua nella musica una vera e propria funzione specifica nei

confronti della interiorità degli esseri umani.

L’ arte in generale, per Schopenhauer, non essendo asservita ai bisogni della volontà, è

conoscenza libera e disinteressata, consiste quindi nella contemplazione delle idee, le

forme eterne; per questo motivo, essa assume funzione catartica, distogliendo il

soggetto dalla catena di bisogni quotidiani, e consentendogli di concentrarsi per un

momento sull’ universale e liberarsi così temporaneamente dal dolore in cui la sua

esistenza è immersa. La musica occupa, però, un posto privilegiato nell’estetica di

Schopenhauer, in quanto essa non riproduce le idee così come avviene per le altre arti,

ma si fa rivelazione diretta della Verità:

“La musica è dell’intera volontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com’è il

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mondo; o anzi come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo

dei singoli oggetti. La musica non è quindi affatto, come le altre arti, l’immagine

delle idee, bensì immagine della volontà stessa, della quale sono oggettività anche

le idee. Perciò l’effetto della musica è tanto più potente e insinuante di quel delle

altre arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime

l’essenza.”

La musica è, quindi, l’arte più profonda e universale, una “metafisica sonora”, che mette

in contatto l’uomo con l’essenza stessa della vita.

Friedrich Wilhelm Nietzsche, già ricordato a proposito della nascita della tragedia,

concepisce la musica come espressione della potenza originaria dell’ Io; in essa, infatti,

trova la sua espressione più compiuta il dionisiaco. La musica nasce da una

identificazione totale dell’artista con “l’uno originario, col suo dolore e la sua

contraddizione”; e il prodotto di questa identificazione è puro, non riconducibile a

concetti ed immagini.

Nietzsche, tra l’altro, si dilettava a comporre, pur senza grandi esiti artistici, della musica

pianistica, che sottopose, alcune volte, al giudizio dell’ amico Richard Wagner, verso il

quale egli nutrì – in un primo momento – grande ammirazione; in Wagner, Nietzsche

ritrovava il “restauratore” dell’antica tragedia greca, nella realizzazione dell’ unione di

musica, parole e dramma (wort-ton-drama), e vi vedeva l’espressione della tragicità della

vita; in un secondo momento, però, il filosofo ruppe lo stretto rapporto che lo legava al

compositore, accusandolo di comporre una musica (dal Parsifal in poi) “troppo cristiana”,

ma, molto probabilmente, anche per ragioni inerenti alla struttura dell’ opera wagneriana:

infatti, la musica sembrava aver perso del tutto la propria autonomia, il contatto con

l’essenza della vita, mirando piuttosto a richiamare dei concetti, a suscitare una

riflessione, a voler insomma significare altro, rinunciando in tal modo alla sua naturale

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asemanticità. Inoltre, l’ opera wagneriana dovette sembrargli troppo tendente alla

grandiosità, troppo vicina al sistema filosofico e alla sua presunzione.

Alla musica ormai “corrotta” di Wagner, Nietzsche dichiara di preferire la Carmen di Bizet,

in quanto capace di esprimere la tragicità della vita per mezzo di un’ispirazione fulminea,

la stessa che caratterizza gli aforismi del filosofo tedesco:

“ Si sono mai uditi sulla scena accenti più tragici, più dolorosi? E come sono

ottenuti? Senza smorfie, senza contraffazioni di alcun genere, in piena libertà dalle

bugie del "grande stile". […] Il mio udito si sprofonda in quella musica; ne

percepisco le origini; mi par di assistere alla sua nascita e tremo davanti ai pericoli

che ci accompagnano a qualunque audacia; […] Sopra quest'opera la fatalità sta

sospesa; la felicità di essa è corta, fulminea, e non conosce dilazioni. Io invidio a

Bizet il coraggio […] di questa sensibilità meridionale, brunita, arsa dal sole... Ah

finalmente l'amore, l'amore ricondotto indietro verso la natura!... L'amore come

destino, come un destino cinico, innocente, crudele, l'amore esatto nella sua

forma natura. Io non conosco altro esempio dove la tragica ironia che costituisce il

nocciolo dell'amore sia stata espressa con tale severità, con formula così terribile

come nell'ultimo grido di José: Oui, c'est moi qui l'a tuée, Carmen, ma Carmen

adorée....”

La musica wagneriana si inserisce perfettamente all’interno del clima culturale del

Decadentismo, per diversi fattori; innanzitutto per l’influenza simbolista che si traduce

nell’uso del leitmotiv, il “motivo conduttore” che ricorre in diversi momenti dell’opera,

all’interno della cosiddetta “melodia infinita”, per richiamare determinati stati d’animo e

situazioni, che non presentano sempre dei legami logici tra loro, ma, piuttosto, analogici;

poi, per l’uso della dissonanza, che rappresentava comunque un allontanamento dalla

tradizione musicale occidentale, quindi sintomo di “decadenza”, allontanamento che

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diverrà, nel Novecento, distacco completo, con la musica atonale e, più specificatamente,

con la musica dodecafonica di Schönberg. Ma soprattutto, la musica wagneriana, per la

sua natura inquietante, misteriosa, in cui nulla è dato per scontato, costituiva, per gli

intellettuali dell’epoca, l’espressione perfetta dell’ inconscio, delle pieghe più nascoste

della psiche, dell’irrazionale, cioè, infine, della vera essenza dell’uomo, considerata dai

decadenti, in una visione mistica, una manifestazione della vita del Tutto. Solo la musica,

quindi, può portare alla luce la verità interiore di ciascun individuo, nascosta dietro

l’apparenza della realtà fenomenica; per questo motivo, la poesia decadente si dissolve in

suono, come si può osservare, tra l’altro, in maniera completa nella poesia di Giovanni

Pascoli, dove frequentissimo è l’uso dell’ onomatopea e, in generale, delle figure di

suono, al fine di evidenziare o richiamare, ogni volta, un particolare stato d’animo:

pensiamo all’inquietante chiù dell’assiuolo, che innesca nel poeta un processo di memoria

a cui si accompagna la sensazione di angoscia per la presenza costante della morte.

* * * * *

Si è visto, quindi, come il fenomeno musicale abbia sempre suscitato l’attenzione, la

riflessione non solo di coloro che, attraverso la pratica, lo hanno fatto nascere ed

evolvere, ma anche, in larghissima parte, di grandi letterati e filosofi; i campi della cultura

non sono e non possono essere considerati separati e inconciliabili, poiché ognuno vive

anche grazie alle influenze dell’altro. Certamente, il fatto musicale si è prestato, sia

nell’aspetto della sua produzione che in quello della sua fruizione, alle più diverse

interpretazioni, se ne sono messi in luce aspetti diversi e a volte contrastanti, è stato

considerato come prodotto scientifico della mente umana o come semplice

manifestazione dell’ispirazione dell’Assoluto; ma sempre ne è stato sottolineato

l’inscindibile legame con l’interiorità dell’ Uomo, sia come sua espressione diretta (da

parte del compositore), sia come motore degli “affetti” di colui che ne fruisce, per usare

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una espressione molto in voga negli anni del Rinascimento.

Ma soprattutto, si è voluto dimostrare quanto la musica, che ai giorni nostri ci viene

mostrata sempre più spesso come un fatto secondario e trascurabile, costituisca in realtà

un patrimonio dell’umanità, che sin dai tempi più antichi ha costituito una delle

manifestazioni più alte dell’essenza umana, nella sua componente razionale, ma anche e

soprattutto in quella più irrazionale, più nascosta e viscerale.

* * * * *

B I BL I OGR AF I A:

• Massimo Donà – Filosofia della musica

• M. Casertano - G. Nuzzo – Storia e testi della letteratura greca

• G. B. Conte - E. Pianezzola – Corso integrato di letteratura latina -

• Apollonio Rodio – Argonautiche

• Luigi Enrico Rossi – Musica e psicologia nel mondo antico e nel mondo moderno: la teoria antica

dell’ethos musicale e la moderna teoria degli affetti

• Platone – Repubblica, III

• Aristotele – Politica, VIII

• Agostino d’ Ippona – Confessiones

• Carl Johann Perl – Augustinus und die Musik, in: Augustinus Magister. Actes du Congrès International

Augustinien 1954

• Dante Alighieri – Divina Commedia (Purgatorio, Paradiso)

• Riccardo Allorto – Nuova Storia della musica

• Elvidio Surian – Manuale di storia della musica

• N. Abbagnano - G. Fornero – Il Nuovo Protagonisti e testi della filosofia

• Luigi Neri – Kant e i linguaggi della musica

• G. Baldi - S. Giusso - M. Razetti - G. Zaccaria – Dal testo alla storia dalla storia al testo

• Arthur Schopenhauer – Il mondo come volontà e rappresentazione

• Giulio Confalonieri – La storia della musica