MOVIMENTI E SOCIETA’ Interventi sull’attualità politica e ...come un fattore di distrazione...

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FILIPPO VIOLA

MOVIMENTI E SOCIETA’

Interventi sull’attualità politica e sociale

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FILIPPO VIOLA

MOVIMENTI E SOCIETA’

Interventi sull’attualità politica e sociale

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Edizione Web: Maggio 2013

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I N D I C E

.

Premessa

Sezione Prima

LE ANNATE STORICHE DEI MOVIMENTI:

’68 ’77 ‘90

1-1 Movimento '68

Esperienze di autonomia politica

e di democrazia diretta

1-2 Movimento ’77

Il movimento ’77 e l’astrazione politica

1-3 Movimento '90

Università pubblica

e capitale privato E

1-4 Movimento '90

Contro la mercificazione della cultura: gli studenti e le istituzioni

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Sezione Seconda

I FUOCHI SPARSI DEI MOVIMENTI

2-1

Segnali di vita di una generazione devastata

2-2

La nuova resistenza al degrado scolastico Sezione Terza

L’UNIVERSITA’ COME AZIENDA

3-1

L'università: una accademia per manager

3-2

L’università come azienda

3-3

Università e mercato

Sezione quarta

LA LOTTA CONTRO IL CAPITALE

Un caso esemplare

4-1

Fiat di Melfi: una lotta dura che fa scuola

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Premessa

E’ una questione antica. L’antagonismo politico e sociale deve dare la

priorità alla teoria del sistema o alla pratica dell’attualità? La questione non ha

senso. Si tratta di due esigenze dell’antagonismo, che hanno la stessa

rilevanza e si integrano a vicenda. Non può darsi intervento sull’attualità

senza un quadro teorico di riferimento. E non può darsi teoria del sistema

senza un continuo riscontro sul piano delle insorgenze dell’attualità.

Per la verità, nelle varie aree dell’antagonismo persiste una certa

insofferenza nei confronti della teoria del sistema, che viene vista, di fatto,

come un fattore di distrazione dalle urgenze politiche e sociali. Ho cercato

negli anni di oppormi ad un tale pregiudizio, lavorando, con tutti i miei limiti,

all’elaborazione teorica, per quel poco o nulla che può valere, senza mai

smettere di intervenire sulle insorgenze e di praticare la militanza.

In questo quadro, per dare un corrispettivo pratico ai lavori di teoria della

società, raccolgo qui alcuni miei interventi sull’attualità politica e sociale,

pubblicati su riviste. Ovviamente, l’attualità è in continua evoluzione. E quindi

gli interventi hanno perso, nel tempo, la forza stringente della realtà in atto.

Spero tuttavia che conservino ancora un minimo di interesse per chi è

impegnato, in qualsiasi modo e a qualsiasi livello, nella irriducibile

opposizione al sistema capitalistico.

F. V.

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Sezione Prima

LE ANNATE STORICHE DEI MOVIMENTI:

’68 ’77 ’90

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1-1 Movimento '68

ESPERIENZE DI AUTONOMIA POLITICA E DI DEMOCRAZIA DIRETTA

1-1.1 L' "ipotesi" degli studenti

Non bisogna mai dimenticare, quando si parla o si scrive di ciò che sta

accadendo nelle università italiane (e non solo italiane), che gli studenti - e

loro sono i primi a rendersene conto - non sono intenti ad eseguire un

tranquillo esperimento di laboratorio, bensì impegnati, con tutte le forze di cui

dispongono, a portare avanti una drammatica lotta politica.

Certo, anche una lotta come quella studentesca può essere rimeditata nei

classici termini dell'esperimento, nel senso che la volontà di incidere su una

data realtà sociale può assumersi come ipotesi da sottoporre al vaglio

dell'effettiva incidenza.

Ma in tal caso, come ben si comprende, non è corretto fermarsi alle

formulazioni contenute nei documenti elaborati dagli studenti 1. Bisogna anche

saper andare oltre: entrare nel vivo della competizione (la realtà che tende a

rimanere sostanzialmente immutata e la volontà che pretende di

rivoluzionarla), cogliere le situazioni in cui avvengono gli scontri e valutare i

mutamenti che via via intervengono (anche solo - e non è poco - in termini di

rapporti di forza).

In tal senso, la situazione nelle università italiane è già cambiata (il che non

vuol dire affatto che essa e già rivoluzionata). Pertanto se anche, per assurdo,

la verifica conducesse ad una invalidazione totale della "ipotesi" portata avanti

1 Sono già uscite, in volumi, le seguenti raccolte di documenti della lotta studentesca in

Italia: 1) Documenti della rivolta universitaria, Bari, Laterza, 1968, pp. VII-415. Vi sono raccolti documenti di Torino, Milano, Venezia, Firenze, Roma 2) Università: I'ipotesi rivoluzionaria, Padova, Marsilio, 1968, pp. 225. Oltre che materiale documentario di Trento, Torino, Napoli, Pisa, Milano, Roma, il volume contiene i seguenti contributi personali: M. Rostagno, Note sulle lotte studentesche (Trento), pp. 7-25; G. Viale, Contro l'Università (Torino), pp. 85-137 (tratto dal n. 33, 1968, dei «Quaderni Piacentini»); M. Menegozzi, Movimento studentesco e processo rivoluzionario (Napoli), pp. 141-149. 3) La scuola e gli studenti, Feltrinelli, Milano, 1968, pp. 85. E' una raccolta di documenti di Pisa, a cura del gruppo «Il potere operaio». 4) Relazione sulla scuola, Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 21. Si tratta di un contributo del gruppo «Il potere operaio» di Pisa. 5) Documenti dell'occupazione del Liceo Parini (di Milano), Milano, Feltrinelli, 1968, pp. 47.

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in questi mesi dagli studenti, ci si troverebbe nella imbarazzante condizione di

non poterla scartare, o scartare del tutto. Il che vorrebbe dire che i termini

dell'esperimento qui non funzionano, o funzionano poco.

E non è difficile capire cos'è che non quadra. Quella che viene qui assunta

come ipotesi, ha già in sé la forza di autovalidarsi, in una qualsivoglia misura,

nel momento in cui la presenza degli studenti nelle università si pone come

presenza di tipo nuovo, in grado di modificare in ogni caso la situazione

oggettiva nella quale si trova ad operare.

Ma non si tratta soltanto di presenza nelle università. C'è molto, molto di

più. Ed è ciò che porta il Movimento studentesco fuori dell'ambiente

universitario, differen-ziandolo, in maniera che non potrebbe essere più netta,

da tutti i movimenti giovanili che lo hanno preceduto. C'è la volontà di porsi

come movimento politico di massa 2, alla sinistra dell'intero schieramento dei

partiti italiani ed al di fuori dell'ambito parlamentare. C'è la volontà di

recuperare tutto lo spazio della eversione politica, disertato via via dai partiti

della sinistra italiana.

Da qui, per un verso, le ripercussioni, di varia natura ma tutte di grande

risonanza, che le lotte studentesche stanno avendo - cosa del tutto nuova,

almeno nelle attuali proporzioni - nel dibattito politico nazionale; e, per altro

verso, i molteplici tentativi volti a "catturare" il Movimento, a farlo rientrare

nella "corretta" prassi politica e, al limite, a conferirgli la funzione di dare

nuova linfa alle attuali istituzioni 3.

1-1.2 Le battaglie per l'autonomia politica

Ed ecco già il primo terreno di scontro: I'autonomia politica del Movimento.

Più che di scontro, sarebbe il caso di parlare di assedio a distanza, con

qualche uscita in campo aperto. Un assedio lungo, continuo, sfibrante, messo

in atto dalle segreterie dei partiti, attente a cogliere gli umori che circolano

all'interno del Movimento, per trarne vantaggio, in un modo o nell'altro.

2 « (...) la caratteristica fondamentale della lotta studentesca in Italia (...) è quella di un

movimento politico che ha voluto e vuole essere movimento di massa». (Le Elezioni e il Movimento Studentesco, a cura della «Commissione sulle Elezioni», Roma, del Movimento Studentesco. Documento ciclostilato, fogli 8 non numerati, diffuso il 10 aprile 1968. Il passo citato è al foglio 5).

3 Aldo Moro: «Accanto all'inquietudine c'è una ricerca di un approdo innovatore, costruttivo, e capace di fare avanzare la nostra società». (Da ll Giorno, Milano, del 20 marzo 1968). Il passo è iportato in Le Elezioni e il Movimento Studentesco, cit., p. 1, e in M. Rostagno, Note sulle lotte studentesche, op. cit., p. 10.

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Di tale situazione di accerchiamento in cui sono costretti a portare avanti il

loro lavoro, gli studenti di Roma hanno chiara coscienza: «(...) siamo diventati

importanti, e allora hanno cominciato tutti a occuparsi di noi, ma per un solo

motivo, per strumentalizzarci» 4, è detto nel documento su «Le Elezioni e il

Movimento Studentesco» elaborato a cura della «Commissione Elezioni», sul

quale vale la pena di soffermarsi, per le molteplici indicazioni che può trarne il

nostro discorso. Vediamo in esso, intanto, fronteggiarsi i virtuosismi

circonlocutori di certo linguaggio politico - tutto proteso verso il recupero,

magari in una nuova sintesi, delle formulazioni che pretendono di collocarsi in

posizione antitetica - e la fredda determinazione di ridefinirsi, ogni volta che

occorra, come forza autonoma, attraverso un modo diretto di intervenire sulle

cose, che può dirsi, se si vuole, esasperato, ma solo nel senso in cui può

esserlo un colpo di vento che fa saltare le serrature alle imposte.

Da una parte:

«Tutto un fermento di idee e di esperienze (quello degli studenti),

sconcertante qualche volta, non privo di rischi, ma coi segni di una

straordinaria e accettabile validità» 5.

Dall'altra:

« (...) Ia storia noi la mettiamo in moto non per le idee che offriamo agli altri

(e per il piacere che gli facciamo a lasciargli gestire il potere anche per noi)

ma per quello che facciamo noi direttamente, e che ha e ha avuto una carica

dirompente proprio perché non abbiamo accettato un posto subordinato in un

disegno altrui, ma abbiamo fatto e gestito in prima persona le nostre lotte» 6.

Un tentativo di "cattura politica" si risolve così in una occasione per la

riaffermazione e, aggiungerei, per l'esaltazione dell'autonomia del Movimento.

Gli studenti sentono che le battaglie decisive, quelle che danno valore a tutte

le altre, si combattono su questo terreno. Sentono che è proprio il non avere

accettato «un posto subordinato in un disegno altrui», a dare alla loro lotta

una «carica dirompente».

Considerata la piattaforma ideologica del Movimento, gli studenti sanno che

le più difficili battaglie per la loro autonomia debbono combatterle sul fronte

sinistro dello schieramento politico italiano. «Il discorso più pericoloso -

affermano - è (...) quello fatto dai giornali di partito della sinistra: in essi è più

difficile scorgere l'atteggiamento reale, perché nascosto difeso mistificato da

4 Le Elezioni e il Movimento studentesco, cit., p. 2 (il corsivo è mio). 5 Aldo Moro (da Il Giorno, Milano, del 20 marzo 1968. Il corsivo è mio). Il passo è

riportato in Le Elezioni e il Movimento Studentesco, cit., p. 1, e in M. Rostagno, Note sulle lotte studentesche, op. cit., p. 10.

6 Le Elezioni e il Movimento Studentesco, cit., p. 1 (il corsivo è mio).

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una disponibilità puramente nominale» 7. Sulla scorta di una tale valutazione,

gli studenti stralciano gli elogi della stampa di sinistra, non per fregiarsene o

compiacersene, ma per passarli al vaglio della loro analisi, tutta tesa a leggere

tra le righe ed a mettere a nudo le pieghe nascoste del discorso, sì da

individuarne le dissonanze rispetto alle formulazioni del Movimento:

«Questo contatto (studenti-operai) va molto al di là del commento di

«Rinascita», che ricorda le morotee «convergenze parallele» quando dice che

gli studenti «vogliono sottolineare il collegamento che avvertono fra la loro

lotta contro l'autoritarismo universitario e quella dei lavoratori della FIAT

contro l'autoritarismo padronale, entrambi spalleggiati dagli strumenti

repressivi del potere politico». Gli studenti e gli operai, invece, non conducono

una lotta parallela contro affini autoritarismi, collegati dallo stesso tipo di

repressione, restando cristallizzati nella loro figura giuridica fissata una volta

per tutte dal sistema, bensì si sono collegati nel corso di lotte che hanno avuto

in comune il rifiuto della settorializzazione del momento contestativo e l'af-

fermazione di una volontà dii contestazione globale, in cui studenti e operai

convergono nello stesso tipo di lotta eversiva» 8.

Al di là della valutazione specifica che ognuno può dare a un siffatto tipo di

discorso, non può non sorprendere la straordinaria lucidità che i giovani del

Movimento dimostrano tutte le volte che si impegnano in un contraddittorio

politico. Ma quel che qui ci interessa sottolineare è la capacità di trasformare

un mare di insidie verbali - che è il portato di un professionismo politico

estremamente raffinato - in un terreno di chiarificazione all'interno del

Movimento 9 e di ricerca operativa alI'esterno 10.

Portare avanti una propria linea, in piena autonomia rispetto allo

schieramento politico tradizionale ed alle organizzazioni sindacale, è già, di

per sé, una esperienza politica di rilievo per una moltitudine di giovani.

Certo, di contro ai motivi di chiarificazione e di esaltazione che il Movimento

riesce a trarre, per virtù propria, dalle condizioni in cui è costretto ad operare,

permangono gli intralci che arreca all'azione degli studenti l' "operazione

cattura" messa in atto dai partiti e in particolare, per ragioni facilmente intuibili,

7 Ibidem, p. 5.

8 Ibidem, p. 6.

9 «Con la Commissione sulle Elezioni ci proponiamo di approfondire il discorso su che tipo di movimento politico siamo e come ci collochiamo rispetto al sistema politico-parlamentare del nostro paese». (Ibidem, p. 1).

10 «La Commissione è intitolata alle elezioni solo perché è durante il periodo elettorale che vengono più chiaramente alla luce i meccanismi di funzionamento di questo sistema (...)» (Ibidem).

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dai partiti di sinistra. Direi però che mai i tentativi operati dalle segreterie

politiche raggiungono l'effetto desiderato. Sono anzi, quasi sempre,

controproducenti.

E' sintomatico, a tale riguardo, ciò che accade tutte le volte che gli studenti

avvertono la necessità di puntare su qualche obiettivo intermedio 11. Scattano

subito, dentro e fuori l'ambito universitario, i meccanismi di integrazione, già

pronti per "ingabbiare" il Movimento. E allora che succede? Succede che, per

eludere la stretta, gli studenti sono costretti ad abbandonare l'obiettivo

intermedio ed a riprendere le fila del loro discorso contestativo.

Per farmi intendere meglio, dirò che il Movimento si trova talvolta nella

situazione di un aereo in volo illegale. Appena si abbassa per tentare, in

circostanze di particolare difficoltà, un "atterraggio" di fortuna, ecco mettersi in

moto i "dispositivi di cattura", per cui è costretto a "riprendere quota". Grazie

alla esperienza accumulata, la base studentesca attivamente impegnata, qui a

Roma, nei lavori del Movimento, ha finito con il possedere una specie di sesto

senso, in grado di captare i pericoli di "cattura" da qualsiasi parte essi

vengano. Per fare un esempio: tutte le volte che, a livello di «assemblea

generale» o di «consiglio», si tenta in qualche mozione di spostare la linea del

Movimento, anche in misura appena avvertibile, in direzione di posizioni

politiche o di obiettivi di lotta facilmente strumentalizzabili da partiti o da

sindacati, la mozione viene inesorabilmente respinta 12. E dire che talvolta si

11 Vengono definiti «intermedi», da parte degli studenti, quegli obiettivi che non

costituiscono mete autentiche del Movimento, in quanto non sono direttamente contestative del sistema politico-sociale, ma vengono tuttavia utilizzati come punti di riferimento della lotta. Tali obiettivi sono scelti in base alla forza di mobilitazione che riescono a sprigionare ed hanno pertanto la funzione di allargare la base del Movimento. D'altra parte, permettendo agli organismi universitari di continuare a funzionare, rispondono anche all'esigenza di alleggerire la pressione di quei settori studenteschi che vedono nel Movimento nient'altro che un intralcio al «regolare corso di studi». Rientrano in questa categoria di obiettivi molte delle proposte di ristrutturazione didattica a breve scadenza.

12 E' questo il caso, fra l'altro, di mozioni in cui si chiede l'adesione del Movimento a manifestazioni unitarie organizzate da partiti di sinistra o da sindacati. Il rifiuto degli studenti ha fatto talvolta gridare allo scandalo, o quasi. E' stato scritto, per esempio: «Episodio limite (del rifiuto a lasciarsi "strumentalizzare"), quello degli studenti di Lettere e Architettura (di Roma) che in occasione della «Giornata contro l'autoritarismo accademico» hanno dissociato il loro movimento da una manifestazione indetta dalle organizzazioni giovanili dei partiti di sinistra e dalla Camera del Lavoro». (M. Musu, Non vogliono che l'Università continui a essere la fabbrica dei gregari, in Paese Sera, Roma, del 27 febbraio 1968, p. 9). E' interessante notare che gli studenti, mentre rifiutano qualsiasi adesione a livello di organizzazioni istituzionalizzate, cercano per loro conto - anzi ne fanno un obiettivo di fondo del Movimento - contatti e collegamenti con la base operaia. A monte di una tale presa di posizione c'è la convinzione che i partiti di sinistra e le organizzazioni sindacali hanno tagliato fuori la classe operaia dalla gestione delle lotte, al fine di mediarle in senso

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tratta di complesse elaborazioni, sostenute con abili manovre da parte di

agguerriti gruppi infiltratisi nel Movimento con l'intento, sapientemente

mascherato, di mediare le lotte e gli obiettivi degli studenti "per conto terzi". Si

può anzi affermare che tali tentativi si votano all'insuccesso nella misura in cui

si rivelano frutto di una consumata esperienza nella cosìddetta "politica di

corridoio".

La base, più o meno di istinto, ha scoperto una sorta di correlazione positiva

fra abilità nell'uso degli strumenti assembleari e pericolo di invisibili tranelli. Ne

è sortita una specie di diffidenza nei confronti della "furbizia politica": un po' il

processo mentale che si verifica in chi scopre che la commessa del negozio è

troppo brava nel presentare il prodotto che vuole vendergli. (Sarebbe

interessante poter vedere come se la caverebbero qui, in una arroventata

assemblea di studenti, i manager della vita politica nazionale).

Ma, limitandosi al tipo di considerazioni sin qui fatte, non si riuscirà mai a

spiegare per intero un fenomeno del tutto insolito nelle vicende italiane di

questi ultimi anni: I'autonomia politica di un movimento giovanile. Ci sono ben

altri elementi di cui va tenuto conto. Senz'altro di grande importanza è il fatto

che parecchi degli studenti oggi più attivamente impegnati nella lotta, sono

giunti al Movimento dopo avere maturato, per loro conto, particolari

esperienze politiche, che li hanno spinti fuori della logica dei partiti e del

sistema parlamentare. «Tutti i partiti europei - si afferma in un Documento di

alcuni compagni di Torino fatto diffondere anche qui a Roma - funzionano

prioritariamente come macchine elettorali e come meccanismi di organiz-

zazione del consenso al regime parlamentare, che nei fatti si è trasformato in

uno strumento di legittimazione (attraverso il gioco del dibattito tra

maggioranza e opposizione) delle decisioni prese dalla élite del potere.

La partecipazione dei giovani ai partiti della sinistra europea è sempre più

scarsa, passiva, burocratizzata. In queste organizzazioni burocratiche non c'è

niente da fare se non la carriera. Dalla vita politica della sinistra europea è

scomparsa completamente la prassi» 13. E tutto ciò mentre alcuni fatti interna-

zionali aprono agli occhi dei giovani più impegnati nuove possibilità di lotta,

con un recupero della prassi politica rivoluzionaria. Alla ricerca di una tale

prassi, molti studenti escono dai partiti e, tagliandosi i ponti dietro le spalle,

moderato. Da qui la necessità di favorire la maturazione di una «avanguardia operaia», in grado di assolvere i suoi compiti di classe rivoluzionaria. (Si farebbe un torto agli studenti se non venisse precisato che qui, per trarne il succo, s'è dovuto forzare e schematizzare il loro discorso, che è molto più articolato e complesso, se non altro per le implicazioni di natura strategica. Si veda Collegamento del movimento studentesco con le forze politiche operaie, in Università: l'ipotesi rivoluzionaria, op. cit., pp. 254-5).

13 Documento di alcuni compagni di Torino, ciclostilato, p. 2 (il corsivo è mio).

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prendono a confluire verso gruppi politici minoritari, impegnati in iniziative di

protesta antimperialista e di intervento a livello operaio.

Lo scoppio delle agitazioni studentesche giunge per loro come una

straordinaria occasione per portare avanti, a livello di massa, un discorso

politico e soprattutto una prassi di lotta che non trovano più posto in nessun

settore dell'arco dei partiti istituzionalizzati. Il quadro di riferimento si colloca

fuori dei confini nazionali (e non solo nazionali). Si chiama: Vietnam e Ho Chi

Minh, Cina e Mao Tse Tung, Cuba e Fidel Castro, guerriglia sudamericana e

Che Guevara, rivolta nera negli Stati Uniti e Black Power. Si tratta, come si

vede, di situazioni differenti per tanti aspetti, ma che hanno in comune il fatto

di prospettare soluzioni rivoluzionarie, non mediate.

Il ruolo dei gruppi di avanguardia nelle battaglie per l'autonomia politica del

Movimento è, a mio avviso, di primo piano: a) perché in genere si tratta di

giovani che in passato sono stati impegnati in attività di partito, ne conoscono

la strategia e sono in grado di sventarla; b) perché il loro quadro di riferimento

li colloca in posizione antitetica alle soluzioni mediate, prospettate dai partiti.

Ma, a parte ciò, quale parte hanno gli "estremisti" nel Movimento

studentesco?

Si è affermato: «Una prima osservazione, per sgomberare il terreno dagli

equivoci, va fatta sulle «punte», le avanguardie («cinesi», «castristi»,

«trotzkisti», estremisti in genere) che hanno avuto e hanno una funzione

maieutica - di rottura e di stimolo -ma che ritengo errato considerare

rappresentative del movimento» 14. Fin qui si può essere d'accordo. Non

convince invece, a mio awiso, quel che segue: «Il movimento (...) accoglie

anche quelle correnti perché una delle sue caratteristiche (...) è il ripudio di

ogni pregiudiziale discriminazione (...) 15.

Assegnare a questi gruppi un ruolo di "tollerati", o quasi in seno al

Movimento (che li «accoglie» solo in ottemperanza al «ripudio di ogni

pregiudiziale discriminazione») significa, a mio modo di vedere, tenere in poco

conto il cordone ombelicale che lega il Movimento Studentesco alle

esperienze di avanguardia, tutte centrate sulla ripresa di un discorso eversivo

di natura extraparlamentare.

Per il resto, i gruppi politici minoritari riescono ad essere presenti nel

Movimento nella misura in cui si lasciano trasportare dalla sua onda, che è

essenzialmente un'onda dal basso, insofferente di canali diversi da quelli che

si scava con la sua stessa azione d'urto. Direi di più: questi gruppi stanno via

14 R. Zangrandi, Cosa c'è di nuovo nella «rivolta», in Paese Sera, Roma, del 22 aprile

1968, p. 3 (il corsivo è mio). 15 Ibidem (il corsivo è mio).

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via dissolvendosi nella prassi del Movimento, conferendo ad essa tutta la ca-

rica della loro ideologia rivoluzionaria. Basta pensare alle forme di lotta che gli

studenti vanno sperimentando fuori dell'ambito universitario, in collegamento

con le lotte operaie. Ed è proprio da tale ideologia che deriva quella sorta di

insofferenza nei confronti delle "soluzioni manovrate", che non è difficile

cogliere nelle affollate assemblee e che talvolta si rivolge contro gli stessi

leader del Movimento, costretti a buttare a mare linee di lotta pazientemente

elaborate in "separata sede".

1-1.3 Le esperienze di democrazia diretta

Gli studenti manifestano così la loro sete di democrazia diretta, l'urgente

bisogno di realizzarsi pienamente nella gestione in prima persona delle lotte,

la ferma determinazione di non dare deleghe, non solo all'esterno, ma

nemmeno all'interno del Movimento.

Basterà, per rendersene conto, seguire rapidamente le vicende attraverso

cui è passata la strutturazione del Movimento a Roma.

Dopo una fase iniziale, durante la quale del potere decisionale è investita

l'«assemblea generale» degli studenti, che si divide in «commissioni di

facoltà» 16 il Movimento si struttura in «consigli», che sostituiscono le

«commissioni» ed hanno compiti di studio e di iniziative connessi al problema

dell'allargamento della base dentro e fuori l'ambito universitario 17. I «consigli»

- a cui affluiscono gli studenti con piena liberta di scelta, in base ai propri

interessi - sono investiti di potere decisionale nel settore di competenza e

riferiscono alla «assemblea generale», che è una riunione comune dei

consigli, a carattere informativo.

La soppressione del momento decisionale a livello di assemblea si spiega

con gli inconvenienti rilevati nella fase iniziale, durante la quale i lavori erano

spesso bloccati da difficoltà tecniche (conteggio dei voti, eccessivo numero di

interventi, ecc.).

Alla guida del Movimento viene eletto un «comitato d'agitazione», il cui

compito principale è quello di pianificare la lotta, coordinando le indicazioni e

le iniziative pratiche dei «consigli».

16 Si veda il documento elaborato dalla Facoltà di lettere di Roma il primo giorno dell'occupazione (2 febbraio 1968), in Documenti della rivolta universitaria, op. cit., p. 374.

17 Vengono istituiti i seguenti «consigli»: Interfacoltà, Studenti di Lettere, Studenti fuori sede e lavoratori, Studenti medi, Collegamento copn la classe operaia. (Si veda Documenti della rivolta universitaria, op. cit., p.386, sotto la data 11 febbraio). I «consigli» organizzano, fra l'altro, «controcorsi» su: Black Power, Autoritarismo e repressione sessuale, Storia del Movimento Studentesco (interrotti dall'intervento della polizia).

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Gli inconvenienti cui da luogo un tale tilpo di struttura sono molteplici e

vengono presto avvertiti dalla base in questi termini:

a) L'«assemblea generale», da sede di dibattito politico, con carattere di

grande tensione e con sbocco nelle decisioni che riguardano le scelte di fondo

del Movimento, decade a semplice occasione per la comunicazione di

decisioni settoriali prese "ad alto livello";

b) Il «comitato d'agitazione» va, sempre più, perdendo i contatti diretti con

la base. I suoi membri non partecipano ai lavori dei «consigli», tutti presi come

sono dalle loro continue riunioni "ad alto livello";

c) In definitiva, le scelte di fondo del Movimento, circa i tempi e gli obiettivi

della lotta, sono nelle mani di pochi che, nel migliore dei casi, si prendono

cura di comunicarle alla base.

d) C'è un salto fra i risultati cui approda via via il lavoro dei «consigli» e le

decisioni che scaturiscono dalle riunioni del «comitato d'agitazione».

Tutto ciò porta ad una frattura fra la base e il vertice. Il «comitato

d'agitazione» in carica viene dichiarato decaduto. Si elegge un «comitato di

coordinamento», i cui membri sono obbligati a partecipare ai lavori dei

«consigli», che hanno il potere di dichiararli decaduti in qualsiasi momento.

Ma nemmeno questa struttura soddisfa gli studenti della base, i quali

premono per far cadere ogni diaframma tra le conclusioni cui essi stessi

pervengono in seno ai «consigli» e le scelte del Movimento.

Dietro una tale pressione, si perviene all'abolizione di ogni tipo di

«comitato-guida». I «consigli», quando ne avvertano l'esigenza, si scelgono

nel loro ambito, di volta in volta, membri cui affidare incarichi specifici di

carattere operativo. Quanto alle scelte di fondo del Movimento, il potere

decisionale passa di nuovo alla «assemblea generale», che riacquista così il

suo valore di sede di dibattito politico, con sbocco nelle decisioni a livello

generale.

Le vicende qui sommariamente riferite inducono ad alcune considerazioni,

che toccano da vicino il nostro discorso:

I) La spinta decisiva alle scelte di fondo del Movimento viene dal basso.

Quando la struttura non risponde o risponde poco ad una tale esigenza di

democrazia diretta, si tende a sostituirla.

II) I leader vengono riconosciuti come tali nella misura in cui si dimostrano

capaci di organizzare la partecipazione diretta della base ai momenti

decisionali. In caso di una loro inversione di tendenza, vengono emarginati,

oppure "utilizzati" per compiti specifici di carattere operativo.

In base a quanto si è detto fin qui, non mi pare si possa dare grande credito

all'impressione, molto diffusa, che siano pochi leader a condizionare, in

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maniera decisiva, la lotta del Movimento Studentesco 18. Ancora meno poi

trova riscontro, per quello che mi è parso di capire, il tipo di condizionamento

che si vuole ipotizzare quando si parla di una massa di «bravi ragazzi», in

balia di un ristretto numero di estremisti.

La mia convinzione è invece che il Movimento Studentesco, per ragioni

ancora da ricercare in profondità, riesce a trovare motivi di grande

mobilitazione, spesso al di là di ogni preventivo di lotta, soprattutto nei

momenti in cui lo scontro con il sistema politico del nostro paese diventa

frontale.

Durante la prima fase della lotta a Roma, fino a tutto febbraio, i «consigli» si

riuniscono attorno a dei tavoli disposti a semicerchio. All'inizio della seconda

fase, un'aula immensa non riesce a contenere il solo consiglio per il

«Collegamento con la classe operaia» 19. La svolta è segnata dallo scontro fra

studenti e polizia davanti alla facoltà di Architettura, a Valle Giulia.

Fatti come quelli cui si è fatto riferimento sin qui, sono rivelatori, agli occhi

dei leader, del tipo di indicazioni che vengono dal basso: da un lato

l'insofferenza per ogni delega del potere decisionale diretto, dall'altro la

determinazione di utilizzare tale potere per una pressione in senso eversivo 20. Certo, come ogni cosa, anche le esperienze di democrazia diretta hanno,

per l'economia del Movimento, il loro prezzo 21. Parecchi giovani sono alla

prima esperienza di partecipazione in prima persona aIIe scelte della

comunità in cui vivono ed operano. La scuola non ha avuto mai bisogno di

18 Un solo esempio: «E' vero che coloro che rifiutano a priori e in modo assoluto il

dibattito sono certamente pochi, ma condizionano le mosse dell'intero movimento (...)». (P. Sylos Labini, La campana critica, in Astrolabio, Roma, del 3 marzo 1968, Anno VI, n. 9, p. 20).

19 Si veda la nota (18). 20 Il fenomeno della crescita del Movimento Studentesco dopo ogni intervento

repressivo della polizia è stato talvolta interpretato in chiave solidaristica: «E' bastato (...) che la lotta degli universitari sia venuta a trovarsi, anche se solo episodicamente, su un terreno comune al movimento democratico (quello della difesa della libertà e dei diritti dei cittadini contro la repressione poliziesca), per suscitare attorno a sé un'ondata ampia di solidarietà e di simpatia». (M. Musu, Non vogliono che l'Università continui a essere la fabbrica dei gregari, art. cit.). Sarà anche vero dal punto di vista del «movimento democratico», non certo da quello del Movimento Studentesco, che rifiuta ogni discorso di questo tipo, considerandolo arretrato e irto di insidie per la sua autonomia.

21 Beninteso, in termini di maturazione, non di "efflcienza". Si ricordi, a questo proposito, quanto hanno scritto gli studenti di Pisa: «E' apparso (...), ed è stato bene chiarirlo a noi stessi, come il concetto di un'efficienza oggettiva («qui non si conclude niente») sia violentemente imposto sul vuoto che è stato operato sulla personalità dello studente (...)». (Cronaca delle lotte studentesche pisane, in La scuola e gli studenti, op. cit., p. 9. Il corsivo è nel testo). Ma soprattutto si tenga presente lo spirito che anima la citata Relazione sulla scuola.

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loro per fare le sue scelte. «Credeva (lo studente) - si afferma in un

documento elaborato a Torino - di andare all'Università per imparare la storia,

il diritto, la fisica, la medicina e invece ha imparato soprattutto a comandare e

a obbedire» 22. Qui, dove non si comanda e non si ubbidisce, ma si discute

per decidere, alcuni, specie all'inizio, si sentono un po' spaesati. Ascoltano,

votano, ma non intervengono mai. Altri, al contrario, forti di esperienze

extra-scolastiche, hanno troppa fretta di intervenire, man mano che arrivano.

Non aspettano di rendersi conto dello stato di avanzamento dei lavori. Così,

riportano indietro il discorso. o ne ritardano gli sviluppi.

Ma nessun prezzo è troppo alto per una esperienza come questa, in cui

tanti giovani sentono, spesso per la prima volta, di realizzarsi come esseri

umani.

(«La Critica Sociologica», n. 5, Primavera 1968, pp. 12 – 22)

22 Sulla occupazione (Torino), in Quindici, Roma, n. 7, gennaio 1968. p. VI.

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1-2

Movimento ‘77

IL MOVIMENTO ‘77 E L’ASTRAZIONE POLITICA

1-2.1 L’operaio sociale e il movimento '77

Il movimento del '77 nasce sulle spalle del '68. La critica della società

capitalistica è stata ormai ampiamente socializzata, ma stenta a tradursi in

pratica sociale collettiva. Nel frattempo si è affermata nei gruppi

extraparlamentari una certa logica minoritaria, che rende difficile il

coinvolgimento di vasti strati sociali.

E' in questo quadro che irrompe sulla scena un nuovo soggetto sociale. Alla

soggettività operaia ammassata in fabbrica, sintetizzata nella figura

dell'operaio-massa, subentra la soggettività proletaria diffusa nel sociale,

rappresentata emblematicamente dalla figura dell'operaio sociale. Questa

figura si intreccia ad una diffusa soggettività sottoproletaria, in particolare

giovanile, che vive ai margini della struttura sociale, in assoluta estraneità

rispetto al sistema istituzionale.

Questa figura composita della soggettività collettiva nel 1977 si mette in

movimento, innescando una miscela esplosiva. La nuova figura occupa la

scena direttamente come soggetto sociale, mandando in frantumi tutti gli

schemi politici, compresi quelli che nel post-sessantotto si sono sedimentati

all'interno dei gruppi extraparlamentari.

1-2.2 Il soggetto collettivo e l’astrazione politica

In questo quadro, l'agire collettivo cambia pelle. Il leaderismo - che nei

gruppi raggiunge livelli aberranti, producendo la figura del carrierista politico,

pronto a inserirsi nel sistema dominante - nel movimento del '77 provoca, là

dove emerge, reazioni diffuse di rigetto. Reazioni che investono anche ogni

tentativo di imporre rigide strutture organizzative ad un soggetto sfuggente e

imprevedibile. Le organizzazioni che affiancano il movimento hanno vita

difficile nella loro pretesa di "dare la linea".

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Il soggetto collettivo è recalcitrante di fronte a qualsiasi proposta politica che

si presenti in forma strutturata. Nella coscienza collettiva della base del

movimento passa soltanto una forma politica, per così dire, primordiale, in cui

una soggettività frammentata esprime la propria condizione di vita. Nelle

assemblee di movimento vengono ascoltati con attenzione gli interventi di

giovani sottoproletari che esprimono il loro disagio esistenziale e gridano la

loro rabbia contro la società dell'indifferenza. E invece vengono ignorati o

fischiati gli interventi improntati ad una visione canonica della politica.

Non si tratta di semplici umori, ma di una vera e propria svolta. Entra in

scena direttamente la concretezza esistenziale degli uomini e delle donne in

carne e ossa. Ed è su questa base che, nei termini della nostra analisi,

possiamo definire il '77 come movimento di opposizione all'astrazione sociale.

(La società astratta, vol. 1, Capitolo Quarantottesimo, paragrafo 48.4,

L'astrazione sociale e il movimento del '77)

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1-3 Movimento '90

UNIVERSITA' PUBBLICA E CAPITALE PRIVATO

Il Movimento '90 1, pur tra mille difficoltà, sta dimostrando, fin dai suoi primi

passi, una straordinaria intelligenza. Del progetto di legge Ruberti 2 ha colto in

pieno il segno politico di fondo. Non era facile. Soprattutto perché l'obiettivo a

cui mira il provvedimento è nascosto dietro una parola che, dal '68 in poi,

gode di un fascino particolare nell'universo giovanile: autonomia universitaria.

E' stata quindi una prova di grande capacità intellettuale, oltre che politica,

non cadere nel tranello. L'intelligenza collettiva arriva là dove l'acume del

singolo spesso si perde.

Non di autonomia si tratta dunque, ma proprio dell'opposto. Attualmente la

struttura della nostra società prevede la separazione formale tra sistema

universitario pubblico di formazione e ricerca e sistema privato di

imprenditoria industriale. Sappiamo bene che, al di là dell'assetto formale, tra i

due sistemi c'è già un intreccio a maglie strette. Ma, sul piano istituzionale,

l'università attualmente si presenta come un ente pubblico che fonda la sua

autonomia, culturale e scientifica, sulla possibilità teorica di condurre ricerca e

sprimentazione al di fuori di qualsiasi condizionamento degli interessi privati.

In questo contesto, l'operazione che sta dietro il progetto di legge Ruberti

segna una gravissima svolta. Dalla convivenza di fatto si passa alla

celebrazione ufficiale del matrimonio tra università e capitale privato. In una

mozione approvata dall'assemblea di ateneo di Palermo questo passaggio

viene messo in evidenza. Il progetto di legge Ruberti, scrivono le facoltà

occupate di Palermo, «legittima l'ingresso del capitale privato come principale

e determinante fonte di finanziamento della ricerca».

_______________ 1 Nel 1990 si sviluppa nelle università italiane un imponente movimento, conosciuto

come «Pantera» contro la privatizzazine dell'università e la mercificazione della cultura. 2 Il Prof. Antonio Ruberti, ministro della Università e della Ricerca Scientifica, presenta

in quel periodo un progetto di legge che, in sostanza - al di là della etichetta formale - introduce la privatizzazione nell'Università.

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Da questo compattamento tra istituzione pubblica di formazione-ricerca e

capitale privato discende una pesante conseguenza: vengono a chiudersi, di

fatto, gli spazi - già molto stretti - per una ricerca legata ad interessi

strettamente scientifici. Ora, non è un caso che questo atto di asservimento

dell'università all'imprenditoria privata venga presentato con la falsa etichetta

dell' "autonomia universitaria". Si sa che, se un prodotto ha un punto debole, il

messaggio pubblicitario che deve sostenerlo sul mercato viene mirato a

rovesciare l'immagine proprio su quel difetto.

Al di là della facciata, c'è però - nella operazione politica complessiva - una

falsificazione di fondo della realtà universitaria. Si parte da un dato reale:

l'università è fatiscente. Ma, invece di riportare questa fatiscenza alla attuale

gestione, legata ad interessi baronali e privati, si tenta di collegarla alla

suggestiva immagine di una struttura paralizzata dal suo rapporto con la sfera

pubblica. E' chiaro dove si vuole andare a parare. Dato che la gestione

pubblica della formazione e della ricerca ha prodotto la degradazione

universitaria, l'unico rimedio è quello di "riformare" l'università con criteri

privatistici e affidarla alle "cure" del capitale privato.

Ora, a personaggi che compaiono sulle copertine di Capital non si può

offrire una università in cui abbiano voce in capitolo quegli scalcinati degli

studenti. Figuriamoci. L'efficientismo manageriale non sopporta le stranezze di

giovani politicamente impegnati. E se poi questi "benedetti ragazzi" si mettono

a concepire una formazione e una ricerca al servizio della collettività e contro

il profitto? Non sia mai.

Perciò tutto il potere agli ordinari. Cioè a quella componente della docenza

universitaria nella quale si annidano i maggiori responsabili dell'attuale sfascio

dell'università. Per intenderci, i baroni delle cliniche, i consulenti delle imprese,

i personaggi - più o meno famosi - legati all'industria culturale. In pratica,

coloro che attualmente la gestiscono con criteri marcatamente privatistici.

E' tanta la voglia di sgombrare il campo dalle altre componenti universitarie,

che nel testo del progetto di legge non si esita a incorrere in una

sgrammaticatura formale. Guardate che perla: «ai professori ordinari è

riservata una rappresentanza pari ad almeno metà dei componenti interni. E'

comunque garantita la rappresentanza dei professori associati, dei ricercatori,

degli studenti e del personale non docente». Come dire: per definire la nuova

struttura basta dichiarare con esattezza la rappresentanza della categoria che

conta. Gli scarti si possono dare a forfait.

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Ma la nota più alta dello spirito democratico che ispira il progetto di legge si

raggiunge in quella bella invenzione che è il «Senato degli studenti» con

funzioni consultive. Anche qui il trucco c'è e si vede. Una pomposa etichetta

per coprire il vuoto assoluto in fatto di potere decisionale. Ve li immaginate

questi studenti riuniti in «Senato», che con il soffio di un parere consultivo

bloccano un progetto di ricerca legato agli interessi della Fiat? Se non ci fosse

di che preoccuparsi, ci sarebbe da ridere.

Una operazione di questa portata politica non può essere ridotta al colpo di

testa di un ministro. E' tutta all'interno di un progetto di ristrutturazione

autoritaria e privatistica della società.

(«Avvenimenti», 31 Gennaio 1990)

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1-4 Movimento '90

CONTRO LA MERCIFICAZIONE DELLA CULTURA:

GLI STUDENTI E LE ISTITUZIONI

La Pantera 1 c'è, anche se non si vede. Uscita di scena, è alla ricerca di una

sua nuova identità. Come dire che guarda in avanti, a questo '91 che ha da

poco aperto i battenti. E tuttavia non può fare a meno di rivisitare il fatidico '90,

che, dopo l'ondata gloriosa delle occupazioni, i battenti li ha chiusi in modo

poco esaltante per il movimento. Così accade che la discussione inciampi su

un punto interrogativo piantato come un chiodo storto su una strada in salita:

dov'è che abbiamo sbagliato?

Questo lacerante rebus mi suona come l'eco di un pensierino che vado a

ripescare nel mio quaderno di appunti: decine e decine di facoltà occupate, in

tutta Italia, lungo un intero anno accademico (roba da fare impallidire le

occupazioni del '68 e del '77) non sono bastate a bloccare il progetto Ruberti 2

sulla privatizzazione universitaria. Dov'è che abbiamo sbagliato? Arrischio il

mio punto di vista, per quel che può valere: abbiamo sbagliato nel fare

affidamento sull'appoggio della sinistra ufficiale. Ricordate? Ci dicevano: il

movimento deve definire chiaramente il suo obiettivo. Saranno le forze

politiche e sindacali della sinistra a dargli uno sbocco istituzionale.

Ebbene, il movimento il suo obiettivo l'ha definito con estrema chiarezza: il

ritiro del disegno di legge Ruberti. Un punto inequivocabile, deliberato - con

procedure scrupolose fino all'eccesso - dalle assemblee nazionali di Palermo

e di Firenze. I tentativi, operati dall'esterno, di annacquare il rigetto della

privatizzazione sono andati tutti a vuoto. Alla base di questo rifiuto ci deve

dunque essere una ragione di fondo. Quale?

_____________________

1 Il nome «Pantera», con il quale è conosciuto il Movimento '90, è legato ad un episodio. Nel primo

periodo del movimento i giornali parlano di una pantera in libertà, che viene avvistata ripetutamente, ma che

nessuno riesce a catturare. Gli studenti hanno una trovata creativa, che avrà molta fortuna. Adottano lo

slogan «La Pantera siamo noi». Il significato è chiaro: il movimento non si lascerà catturare dalle forze

politiche istituzionali.

2 Il Prof. Antonio Ruberti, ministro della Università e della Ricerca Scientifica, presenta in quel periodo un

progetto di legge che, in sostanza - al di là della etichetta formale - introduce la privatizzazione nell'Università.

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La spirale della innovazione tecnologica ha provocato anche nel nostro

paese, come è noto, una secca riduzione dell'impiego di lavoro umano nel

processo di produzione. Così le nuove generazioni hanno dovuto imparare, a

proprie spese, che non sempre lo studio si traduce in occupazione lavorativa.

Per una sorta di paradosso involontario, questa incongruenza ha finito per

dare alla formazione culturale un valore in sé, legato più alla persona che alla

struttura industriale. Di conseguenza, molti studenti cominciano a sentirsi

portatori di una cultura come valore autonomo rispetto alle leggi del mercato

del lavoro. Un valore da realizzare come ricchezza sociale e non come

oggetto di appropriazione privata.

Su questo atteggiamento - non a caso più accentuato nelle facoltà

umanistiche e nel Meridione - il disegno di legge Ruberti ha un forte impatto

negativo. La privatizzazione spiazza la cultura come valore in sé. Gli studenti

si ritrovano così, di punto in bianco, a detenere un valore che viene

ufficialmente dichiarato fuori corso. Si profila all'orizzonte una cultura

rampante - personificata nella figura di Berlusconi 3 - di fronte alla quale la

conoscenza come strumento di arricchimento personale, da riversare nella

vita sociale, viene relegata fra le scorie di una concezione arcaica della

formazione intellettuale. Attraverso un processo di maturazione collettiva, la

reazione immediata si traduce poi in una rivolta morale e politica contro il

processo complessivo di mercificazione della cultura. E' in questo aspetto

della rivolta il tratto di più alta qualità politica del movimento '90. Giovani

spesso costretti - per frequentare l'università in una grande città - a vivere in

condizioni materiali al limite della sopportazione si fanno carico di una lotta

per la dignità della cultura.

E la sinistra che fa per dare efficacia a questa lotta nelle sedi istituzionali?

Meno che niente. Lascia la richiesta di ritiro del progetto Ruberti nelle mani

degli studenti, come un cerino acceso, in attesa che si consumi e si spenga.

Alla luce di questo dato di fatto, dobbiamo ammettere che c'è stato, da parte

del movimento, un errore di valutazione rispetto ai reali schieramenti in

campo, al di là delle dichiarazioni di intenti. E non per recriminare, tanto meno

per provocare rotture. Ma, al contrario, per chiarire i termini in cui è possibile

oggi tracciare, sulle sabbie mobili della sinistra, un nuovo percorso di rapporti

e di alleanze.

________________ 3 Silvio Berlusconi, proprietario di televisioni commerciali - che in anni successivi

entrerà in politica, fondando il partito politico denominato «Forza Italia» e diventando presidente del consiglio - viene visto dagli studenti del movimento come il simbolo della mercificazione della cultura.

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Se vogliamo capire quel che è accaduto, dobbiamo dunque guardare un po'

più in là delle etichette di facciata. Certo, una battaglia contro la

mercificazione della cultura si iscrive a pieno titolo nel quadro degli ideali della

sinistra. Attenzione, però. Su questo terreno l'impegno viene a cadere, di

fatto, nella sfera di influenza di intellettuali abituati a vendere i loro prodotti

culturali come scatolette e quindi poco inclini a provare indignazione per la

degradazione della cultura a merce. Per non parlare dei baroni delle cattedre,

di sinistra sì, ma pur sempre baroni. Per loro l'ingresso dei privati all'università

significa l'apertura di un mercato legale, dove poter piazzare le loro

competenze. Nel quadro va anche inserita una sorta di rispetto per il privato,

come presunto modello di efficienza, che la sinistra non riesce a scrollarsi di

dosso.

A questo punto, dovremmo sapere dove andare a cercare le responsabilità

del mancato ritiro del progetto Ruberti. E, a ben guardare, si tratta di

responsabilità molto pesanti. Dopo il '68, dopo il '77, viene sconfitta una

ipotesi di conduzione dal basso della domanda sociale da parte di un

movimento, di cui tutto si può dire meno che è disponibile per la pratica della

violenza politica.

In questo senso, la vicenda della Pantera può essere letta come un test per

le nostre istituzioni. Caduto l'alibi della violenza, ora è provato che viviamo in

una società ermeticamente chiusa ad ogni istanza che sale dal basso.

Viviamo nella società dell'indifferenza. In pratica, siamo di fronte ad una

ridefinizione del rapporto fra sistema istituzionale e società civile. Si è messa

in atto, alla chetichella, una sorta di autonomia della sfera istituzionale. Le

donne e gli uomini - giovani studenti o anziani in pensione - possono pure fare

i salti mortali per fare sentire la loro voce. Il sistema istituzionale segue il suo

corso, come se nulla fosse. Funziona appunto come sistema di indifferenza.

Il caso del progetto di privatizzazione universitaria è esemplare. La protesta

degli studenti è stata accantonata su un binario morto. Parallelamente, sul

binario istituzionale, il disegno di legge Ruberti è andato avanti, senza doversi

nemmeno misurare con una reale opposizione. I due binari sono disposti in

modo da non doversi mai incrociare (paradossalmente, nel '68 e nel '77 gli

scontri di piazza erano modi di incrociarsi di percorsi antagonisti). Questo

raffinato congegno istituzionale ha prodotto un dato politico che è sotto gli

occhi di tutti. Alla resa dei conti, mesi e mesi di presenza attiva nelle facoltà

occupate, montagne di analisi e di elaborazioni teoriche prodotte dagli

studenti, assemblee nazionali e manifestazioni di piazza, non hanno scalfito il

destino di un progetto di legge. Un vero capolavoro di ingegneria politica. E,

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soprattutto, una bella lezione di democrazia. La Pantera ringrazia e rinvia ai

mittenti.

(«Avvenimenti», 23 Gennaio 1991)

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Sezione Seconda

I FUOCHI SPARSI DEI MOVIMENTI

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2-1 SEGNALI DI VITA

DI UNA GENERAZIONE DEVASTATA

Come è possibile? I movimenti non sono morti da una pezzo? Ogni volta

che si muove qualcosa nell’universo giovanile, una sorta di stupore collettivo

si riversa sulle colonne dei quotidiani. L’interrogativo andrebbe rovesciato.

Come è possibile che oggi i giovani, messi all’angolo e tagliati fuori dai

processi economici e sociali, reagiscono solo a sprazzi?

E’ questo il vero dato oscuro che le nuove generazioni si portano addosso.

Spiegare l’inquietante passività dei giovani non è facile. In ogni caso, è

opportuno tenere presente la sistematica devastazione della soggettività

giovanile operata negli ultimi decenni. Pur di scongiurare il pericolo di nuove

insorgenze della contestazione, non si è andati per il sottile. La soggettività

giovanile è stata frammentata, svuotata e lasciata marcire ai margini della vita

sociale.

Ora, se da questo mondo devastato arrivano, di tanto in tanto, segnali di

vita, in forma di agitazioni nelle scuole e nelle università, invece di stare a

disquisire sulla legittimità della occupazione di un istituto o di una facoltà,

bisognerebbe cogliere l’occasione per riflettere sulla vicenda giovanile. Che

volete che sia la sospensione di una lezione di fronte alla chiusura di ogni

prospettiva per una intera generazione?

Di questo, appunto si tratta. Si è consumato un paradosso sociale. Ai

soggetti che incarnano, come si dice solennemente, l’avvenire della società è

stato sottratto il futuro che li riguarda in quanto persone. In questa fine

millennio, in cui si pretende di razionalizzare i processi sociali, i ragazzi e le

ragazze non sono in condizione di darsi un progetto di vita.

La mancanza di prospettiva tiene le ragazze e i ragazzi come sospesi nel

vuoto. Da qui una sensazione di impotenza, che procura angoscia. Gli

orizzonti di vita si chiudono. Si oscura lo spettro delle soluzioni. I soggetti si

sentono come topi in trappola e non vedono via di uscita.

E’ in questo stato d’essere l’origine del disagio che attraversa tutto lo

spettro dell’universo giovanile e si esprime nelle forme più svariate. Può

condurre da una parte allo stordimento nelle discoteche e alla fuga nel mondo

artificiale dell’eroina, dall’altra alla ricerca di una propria identità personale e

collettiva, attraverso – perché no? – esperienze di autogestione scolastica.

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Quanti si scandalizzano di fronte a certe iniziative degli studenti dovrebbero

misurarsi con le alternative che stanno davanti ad una generazione devastata.

Questa generazione dà di sé una immagine pulviscolare e riduttiva. Non

lascia trasparire la tragedia sociale alla quale è stata inchiodata. Sbaglia

dunque chi, ricoprendo posti di responsabilità istituzionale, dichiara la propria

disponibilità ripiegando furbescamente su concessioni spicciole. Talvolta la

protesta assume forme e contenuti minimali rispetto alla portata delle

motivazioni di fondo che accendono la contestazione. Attenzione, dunque.

Anche là dove si parla di banchi vecchi, si vuole intendere altro. Si vuole

segnalare, per via simbolica, il degrado di una condizione giovanile che

dovrebbe aprire le porte del futuro e viene invece lasciata stagnare in un

vicolo cieco. E persino là dove si contesta la riforma dell’istruzione o il

finanziamento alle scuole private, gli specifici provvedimenti governativi

funzionano, oltre che come misure da contrastare, anche come fantocci su cui

scaricare la rabbia provocata dalla condizione di marginalità del soggetto

giovanile.

Questi giovani contestatori senza ieri e senza domani – che non si sentono

figli del ’68 e non certi di resistere sino al ’98 – sembrano avere il fiato corto.

Può anche darsi che, nell’immediato, la protesta segua la solita parabola

discendente riscontrata negli ultimi anni. Ma nessuno si faccia illusioni. Di

anno in anno, passo dopo passo, si va accumulando anche negli strati meno

reattivi della soggettività giovanile un potenziale di estraneità all’assetto

istituzionale. Questo progressivo scollamento segue dinamiche imprevedibili.

Ogni ipotesi rischia di essere smentita. Ma i piccoli fuochi che si accendono

ogni anno nelle scuole e nelle università potrebbero, prima o poi, sfociare in

un grande incendio sociale.

(«Avvenimenti», n. 49, 24 Dicembre 1997)

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2-2

LA NUOVA RESISTENZA AL DEGRADO SCOLASTICO

La parola d'ordine è chiarissima e corre da uno striscione multicolore ad un

coro ritmato, lungo l'interminabile serpentone di ragazzi e ragazze: no alla

privatizzazione della scuola.

Stando dentro il corteo di Roma dell'11 dicembre (1993), sotto un cielo che

minaccia pioggia, si sente a fior di pelle che il rischio del privato nella scuola

non viene vissuto come uno slogan, ma come una minaccia alla propria

esistenza concreta, al proprio essere persone desiderose di crescere,

conoscere, giudicare, vivere. Perciò i riferimenti ideologici sono quasi

inesistenti. Qualche richiamo al '68 («Il sessantotto ce l'ha insegnato...»),

qualche eco della Pantera («La cultura è un valore. Non si può acquistare»),

ma il cuore degli studenti sta dentro la scuola di oggi.

Il primato della cultura viene ribadito in ogni scritta, ma non ci sono voli

teorici o creativi. Gli studenti si tengono a ridosso della propria difficoltà, del

pericolo reale di dovere uscire in tanti dalla scuola, se entra il preside

manager.

Perciò la diga che questa impressionante marea di ragazze e ragazzi

oppone alle voglie falsamente moderniste dei cultori del privato è il diritto allo

studio, cioè la sacrosanta aspirazione di massa a vivere come esseri

pensanti.

Ed è attraverso questa elementare, quasi primordiale, rivendicazione che i

ragazzi e le ragazze delle mille autogestioni sparse in tutta Italia si

autodefiniscono, praticamente, come polo di aggregazione sociale.

Oggi che si segnano i nuovi spartiacque della vita politica (progressisti-

conservatori, centralisti-federalisti, ecc.) la fiumana che invade le strade di

Roma segna un confine ineludibile fra quanti pretendono di trattare l'istruzione

come elemento di distinzione di classe e quanti vedono nello studio a tutti i

livelli una prospettiva di crescita personale e collettiva, a cui non intendono

rinunciare.

Questa sorta di rigidità esistenziale, questo ostinato resistere di massa alla

degradazione e all'abbrutimento fa dell'opposizione alla privatizza-zione della

scuola una ipotesi di aggregazione dal basso, che può fare irrompere sulla

scena sociale un autentico nuovo soggetto politico.

(«Avvenimenti, n. 49, 22 Dicembre 1993)

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Sezione Terza

L’UNIVERSITA’ COME AZIENDA

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3-1

L'UNIVERSITA': UNA ACCADEMIA PER MANAGER

Chi non è in grado di pagarsi gli studi, lasci perdere l'università. A leggere

certe dichiarazioni apparse sulla stampa, sembra questo lo spirito con cui i

consigli di amministrazione degli atenei italiani stanno decidendo pesanti

aumenti delle tasse universitarie. Certo, c'è a monte il buco finanziario

prodotto dalla soppressione del contributo straordinario dello Stato. Ma

aumenti di questa portata (si arriva al raddoppio), non possono essere

concepiti e programmati come semplici operazioni finanziarie. I miliardi da

raccogliere sono nei bilanci. Ma insieme ai soldi si intende incassare dell'altro.

Che cosa?

Il salto di cifre che gli studenti, all'atto dell'iscrizione, troveranno sui bollettini

del prossimo anno si colloca all'interno del processo di privatizzazione

dell'Università. La sottomissione dell'istituzione universitaria alla logica del

capitale privato comporta una ristrutturazione che operi in due direzioni: da un

lato sulla formazione del sapere e dall'altro sui soggetti sociali che devono

farsi portatori delle nuove funzioni intellettuali. L'aumento delle tasse agisce su

questo secondo versante. Scaricando sulla componente più debole il costo

dell'autonomia finanziaria, tende a rimodellare brutalmente la popolazione

studentesca, sulla base della posizione economica dei singoli soggetti.

Questo dato segnala una inversione di tendenza rispetto agli ultimi decenni

di politica universitaria. A partire dal '68 l'università è stata caricata di funzioni

extraistituzionali. Fra l'altro è stata usata come "ammortizzatore sociale". Non

potendo garantire una occupazione ai giovani diplomati - ragazze e ragazzi

pronti a presentarsi sul mercato del lavoro - si è pensato di convogliarli nelle

università.

L'uso degli atenei come "aree di parcheggio" di forza-lavoro giovanile ha

però prodotto, alla lunga, un preoccupante effetto collaterale. Per questa via si

è insediato un ampio strato di precarietà sociale: masse di giovani che si

arrangiano in mille modi e si adattano a condizioni disastrate, per potere

vivere e studiare. Un soggetto con queste caratteristiche - disancorato da ogni

certezza esistenziale e quindi culturalmente irrequieto, discontinuo,

imprevedibile - viene visto come una mina vagante all'interno di una logica

privatistica della formazione e della ricerca. Va quindi escluso dal corpo di una

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accademia che aspira a darsi una immagine centrata sul valore della

efficienza aziendale. C'è da aspettarsi che l'università, per presentarsi con

titoli manageriali sul libero mercato, tenda a scaricare il precariato giovanile

annidato nella popolazione studentesca.

Su questa strada siamo ancora ai primi passi. La confezione di un prodotto

culturale e scientifico da poter offrire sul mercato richiede il concorso di

soggetti dotati di una identità stabile, interiormente contaminati dalla ideologia

aziendalistica e disponibili a farsi portatori di un sapere strutturato in senso

tecnico e gerarchicamente subordinato. Esattamente l'opposto delle masse di

studenti precari, fuori sede e via dicendo.

Il raddoppio delle tasse, oltre a rastrellare miliardi, ha la funzione di arginare

l'afflusso di studenti socialmente spiantati. Chi non ha alle spalle una solida

posizione e non conduce una vita ordinata si deve far passare la voglia di

mettere piede in una sede universitaria. Fervono i preparativi per l'annunciato

matrimonio ufficiale tra la scienza accademica e il Capitale. Nelle liste degli

invitati non figurano gli studenti sforniti di conto in banca.

(«Avvenimenti», n. 4, 29 Gennaio 1992)

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3-2

L’UNIVERSITA’ COME AZIENDA

“Liscia o gassata? Università di Macerata”

Questo slogan campeggiava, fino a qualche settimana fa, su grandi

cartelloni stradali e rendeva, con indubbia efficacia, il modello dell’università

come azienda, da reclamizzare alla stregua di un’acqua minerale.

E’ il modello al quale si ispira la controriforma Moratti. Ma non è un fulmine

a ciel sereno. La Moratti porta alle estreme conseguenze una logica aziendale

che si è insediata nella vita universitaria con l’introduzione della laurea

triennale. Le ricadute di quella svolta sono note: riduzione del sapere a

semplice operatività tecnica e frammentazione degli insegnamenti in una

miriade di moduli didattici.

Gli studenti - con l’intelligenza collettiva, propria dei movimenti - hanno

colto subito il dato di continuità dell’ultimo provvedimento con gli interventi

legislativi del centro-sinistra. E, partendo dalla rivendicazione del diritto allo

studio ed al sapere, hanno iscritto nell’agenda della protesta la loro

drammatica condizione materiale e immateriale. Fra tasse alle stelle, libri

costosissimi, camere in affitto a prezzi di speculazione, per non parlare del

caro-vita, studiare all’università è diventato un lusso, che pochi possono

permettersi. E il tutto in un quadro di perenne precarietà e marginalità, per via

di una organizzazione sociale fondata sulla centralità dell’azienda.

L’introduzione della logica aziendale nell’università, cioè in una istituzione

culturale e scientifica che ha alle spalle secoli di storia, equivale al trapianto

di un organo. Era quindi nel conto che potesse provocare una generale

reazione di rigetto. Da qui una sottile strategia, volta a sostenere il processo

di aziendalizzazione con una operazione ideologica che sposti l’attenzione

dalla qualità funzionale all’efficienza amministrativa.

Lo scarto non è di poco conto. Si passa dalle finezze della elaborazione

intellettuale alle rudezze del calcolo ragionieristico. Il cambiamento si sente

nell’aria e si riflette anche sull’organizzazione della vita universitaria. Uno

studente non fa un corso di studi. Accumula crediti e debiti. Un docente non è

uno studioso con una particolare biografia ed una personalità culturale e

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scientifica. È un budget. Su questa scia, si arriva ad affermare in sedi ufficiali

che un docente anziano equivale a due docenti di prima nomina.

L’ideologia dell’efficienza pretende di separare la gestione amministrativa

dell’università dalla sua funzione culturale e scientifica. Nella prima sfera il

metro di valutazione sarebbe il tasso di produttività, nella seconda varrebbe il

livello di scientificità. In realtà, la logica aziendale è pervasiva. Non c’è

aspetto della vita universitaria che non ne venga investito. Si finisce per

modellare la produzione scientifica sullo standard della produzione

industriale.

È al tramonto la figura del ricercatore scienziato. Si va affermando la figura

del manager culturale, capace di piazzare sul mercato i sottoprodotti

dell’azienda universitaria. E in questa direzione non si va per il sottile. Che

volete che valgano i diritti acquisiti e i destini personali di migliaia di donne e

uomini di fronte all’esaltante progetto di “modernizzare” il sistema

universitario, adeguandolo alle impellenti esigenze della produzione

capitalistica?

In funzione del processo di “modernizzazione”, l’università tende a

connotarsi sempre più come mera struttura di potere. Le gerarchie di potere

nell’università non sono certo una novità. Ma, all’interno del processo di

aziendalizzazione, esse subiscono una mutazione di notevole portata. Dalla

struttura di tipo feudale si passa alla organizzazione manageriale di tipo

industriale.

E gli studenti? La sottomissione dell’istituzione universitaria alla logica

aziendale comporta una ristrutturazione che operi in due direzioni: da un lato

sulla formazione del sapere e dall’altro sui soggetti sociali che devono farsi

portatori di funzioni estranee alla cultura ed alla scienza. Su questo secondo

versante, si tende a disegnare un soggetto studentesco funzionale alle

dinamiche del mercato. Nell’università si è insediato un ampio strato di

precarietà sociale: giovani che si arrangiano in mille modi in condizioni

disastrate. Un soggetto con queste caratteristiche - disancorato da ogni

certezza esistenziale e quindi culturalmente irrequieto, discontinuo,

imprevedibile - da un lato può essere facilmente sottoposto a ricatto e

supersfruttamento, dall’altro può rappresentare una mina vagante all’interno

di una logica privatistica della formazione e della ricerca. Va quindi

rimodellato da una accademia che aspira a darsi una immagine centrata sul

valore della efficienza aziendale.

L’università, per presentarsi con titoli manageriali sul libero mercato, tende

ad offrire un soggetto giovanile ancorato ad un sapere esclusivamente

tecnico, direttamente fruibile nel processo produttivo e disponibile a vivere in

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uno stato di permanente precarietà. In questo quadro, un particolare rilievo

assume lo stravolgimento della formazione universitaria. La formazione non è

finalizzata alla crescita culturale degli studenti, ma all’utilizzo tecnico. Questo

abbassamento della tensione formativa comporta una ridefinizione del

rapporto fra università e mercato del lavoro. È il mercato che crea le figure

professionali. All’università viene riservato un ruolo subordinato: produrre le

professionalità che le industrie richiedono. Non solo. Si va in direzione di un

rapporto sempre più stretto fra università e industrie del territorio. Al punto

che gli industriali possono arrivare ad assumere un ruolo interno all’università

e condizionarne le scelte.

Il modello che si viene a delineare ha effetti devastanti sul ruolo

dell’università nella società. Intanto, le facoltà vengono a perdere, in pratica,

la propria autonomia culturale e scientifica. Non possono mettere mano a

progetti autonomi, perché devono stare attente alle variazioni che si

determinano nel mercato del lavoro. E, poiché queste variazioni sono sempre

più accelerate, mentre la cultura e la scienza hanno bisogno di progetti di

ampio respiro, l’università finisce di definirsi come sede istituzionale della

formazione “superiore” e tende a presentarsi sul mercato come semplice

agenzia di servizio professionale.

Il piano dell’università come azienda comporta per la collettività la perdita di

una importante risorsa culturale e scientifica, a cui potere attingere per

progettare il proprio futuro. Perdita non di poco conto, nella prospettiva - tutta

da costruire - di una organizzazione democratica e popolare dello studio e

della ricerca.

(«Proteo», n. 1 – 2006)

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3 - 3

UNIVERSITA’ E MERCATO

Intervista

Che tipo di formazione si dà oggi nell’università? Siamo in fase di transizione e quindi si può parlare solo in termini di

tendenza. Stiamo vivendo un passaggio molto significativo nella concezione della formazione universitaria: da una formazione finalizzata alla crescita culturale degli studenti ad una formazione finalizzata allo sbocco nel mercato del lavoro. Ovviamente i due versanti della formazione non sono mai nettamente separati. Si tratta dell’accentuazione dell’una o dell’altra funzione della formazione.

Che cosa comporta questo passaggio? Comporta intento una ridefinizione del rapporto fra università e mercato del

lavoro. Nella prospettiva che si va delineando è il mercato del lavoro che crea le figure professionali. All’università viene riservato un ruolo subordinato: produrre le professionalità che le industrie richiedono. Non basta. Le industrie non si limitano a domandare a distanza le professionalità di cui hanno bisogno. Si va in direzione di un rapporto sempre più stretto fra università e industrie del territorio. Al punto che gli industriali possono arrivare ad assumere un ruolo interno all’università e condizionarne le scelte.

Quali sono le conseguenze? Questa prospettiva ha effetti devastanti sul ruolo dell’università nella

società. Intanto, l’università viene a perdere, in pratica, la propria autonomia culturale ‘stare attenta alle variazioni che si determinano nel mercato del lavoro. E, poiché queste variazioni sono sempre più accelerate, mentre la cultura e la scienza hanno bisogno di progetti di ampio respiro, l’università finisce di definirsi come sede istituzionale della formazione “superiore” e tende a presentarsi sul mercato come una semplice agenzia di servizio professionale. La collettività viene così a perdere una importante risorsa culturale e scientifica, a cui potere attingere per progettare il proprio futuro.

Che cosa è cambiato nell’ambito dell’insegnamento universitario? Posso parlare in generale, senza volere esprimere di sorta sul lavoro di

singoli colleghi. Circolano, almeno nell’ambiente che conosco, diverse figure di docenti. C’è il docente che conosce bene la sua materia, ma non sa come insegnarla. Non perché è un incapace, ma perché non si dà gli strumenti,

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nella convinzione che basta conoscere un argomento, per essere in grado di trasmetterlo agli altri. Questo tipo di docente si limita a declamare le tradizionali lezioni. Al polo opposto c’è il docente che ricorre alle tecniche più aggiornate. Fa uso del computer, di Internet, delle diapositive, delle proiezioni di cassette video, ecc. I diversi moduli didattici hanno però in comune una logica perversa: il docente offre, con modalità diverse, il suo sapere e poi lo aspetta all’esame per verificare se e in che misura Lo ha recepito. E’ chiaro che un tale modulo è funzionale alla selezione, ma non alla formazione.

Che cosa propone in alternativa? Mi sembra scorretto proporre agli un modello di insegnamento. Anche

perché si possono adottare moduli diversi per raggiunger gli obiettivi di formazione. Quel che conta è la logica in cui viene a inserirsi un particolare modulo didattico. E qui ognuno fa le sue scelte di campo. La mia scelta personale è di cercare di essere, con tutti i miei limiti, un operatore della formazione, non della selezione.

In concreto? In concreto, cerco di spiegare come si svolge il mio lavoro. Il mio

insegnamento viene denominato <Sociologia Corso Avanzato>. La scelta è stata di strutturarlo come laboratorio di ricerca. Ogni anno, gli studenti, organizzati in gruppi, si applicano - sotto la guida costante del docente – alla costruzione di un modello teorico ed alla realizzazione di una ricerca empirica. Nono solo dunque l’acquisizione di un sapere, che rimane indispensabile e comporta lo studio di testi, ma l’applicazione ad un saper fare. Fin qui niente di particolare. Solo che il lavoro viene inquadrato in un’ottica di formazione, non di selezione. Nell’ottica della selezione, ogni studente viene valutato sulla base delle conoscenze e delle tecniche acquisite, poche o molte che siano. Si determinano così i voti, che vanno da diciotto a trenta. Nell’ottica della formazione, che noi adottiamo, continuiamo a lavorare finché tutti i partecipanti raggiungano la soglia delle conoscenze e della tecniche che sono state definite come obiettivi di base del corso. In pratica, se uno studente o una studentessa non ha ancora raggiunto la soglia, nell’ottica della selezione il docente si limita ad etichettare l’insufficienza di formazione con un voto basso. Nell’ottica della formazione invece lo studente o la studentessa continua a lavorare, con l’aiuto del docente, fino al raggiungimento dell’obiettivo formativo. E questo esito positivo si riflette poi ovviamente nella valutazione, che viene così a perdere ogni funzione di selezione.

Che cosa ha da dire sul mercato “selvaggio” dei testi per gli esami? Anche a questo proposito, cerco di analizzare un fenomeno, senza

pretendere di iudicare il lavoro di altri. Parlo della situazione di Sociologia a

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Roma. E parto da un aspetto concreto, che considero la spia di qualcosa di preoccupante. In Facoltà ci sono degli spazi alle pareti dei corridoi, dove gli studenti appiccicano i loro annunci. La grande maggioranza di questi annunci riguardano la vendita di interi blocchi di testi relativi a questo o quell’esame. In pratica, gli studenti, superato l’esame, si vendono i libri e a volte anche i riassunti. Ciò significa che gli studenti ritengono, a ragione o a torto, di non aver trovato in quei libri niente che valga la pena di essere conservato. Questo comportamento segnala, al di là della validità scientifica dei testi in questione, una sorta di distacco fra gli interessi degli studenti e la cultura che viene proposta nei testi d’esame.

Le capita di vedere annunci con la messa in vendita dei Suoi testi? Non nascondo che, quando mi fermo davanti alla selva di foglietti

appiccicati alla parete, ho sempre paura di trovare il titolo di qualche mio testo. Non è elegante che sia io a parlarne. D’altra parte non posso cambiare un dato che può essere controllato da chiunque. Finora la mia paura si è rivelata sempre infondata. Ma se dovessi in futuro constatare che un allievo o un’allieva del mio corso ha messo in vendita uno solo dei testi d’esame, approfondirei serenamente il fatto con l’interessato o l’interessata per cercare di capire che cosa in quel caso non ha funzionato nel mio lavoro. Un caso del genere non si è ancora presentato. Non per merito dei testi, ma per l’impostazione del corso, che propone soltanto strumenti di lavoro scientifico, da utilizzare anche in futuro.

Che giudizio dà sulle agenzie private che offrono preparazioni agli esami e

aiuti per la tesi di laurea? Ogni giorno davanti alla Facoltà sostano ragazze e ragazzi reclutati per la

distribuzione di depliant che annunciano offerte del genere. E’, a mio giudizio, l’esito del processo di progressiva riduzione della formazione universitaria a formazione professionale. Su questo versante, l’università apre un mercato per operatori esterni, attrezzati per rendere più agevole, a loro dire, l’apprendimento di conoscenze ridotte a pillole.

(Avvenimenti, 12 Marzo 2000, con il titolo < Chi comanda la cultura? >)

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Sezione Quarta

LOTTA CONTRO IL CAPITALE

Un caso esemplare

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4-1

FIAT DI MELFI: UNA LOTTA DURA CHE FA SCUOLA

La lotta dura alla Fiat di Melfi fa testo. Un compagno, incrociandomi alla

manifestazione del 4 maggio [2004] a Roma, mi ha detto: «Sei qui, a

scuola?». Ottima idea. Ed eccomi qui, seduto su un banco, a cercare di

apprendere gli insegnamenti di lotta dura della Scuola di Melfi. Eccomi qui, a

trarre indicazioni che ci aiutino a decifrare le dinamiche di un impatto di

classe così netto fra i bisogni operai e la struttura di comando padronale.

Netto al punto di comportare il blocco della produzione. E ciò, si badi, in un

contesto generale, sociale e politico, di segno opposto.

Non viviamo in anni “caldi”, come sappiamo. Tutt’altro. La soggettività

operaia è come ingabbiata in una fitta rete di mediazioni politiche, sindacali e

sociali, che ne sviliscono le potenzialità antagonistiche. Non è il caso qui di

addentrarsi nei sofisticati orpelli ideologici che vengono attivati per schiacciare

la condizione operaia sulle compatibilità imposte dal capitale. Ci ho provato in

altri interventi su «Proteo». Ciò che interessa in questa sede è cercare, in

prima istanza, di interpretare, sul piano teorico, i processi materiali e

immateriali che si sono messi in atto nel corso dello scontro.

4-1.1 La rottura esistenziale

Partiamo da un dato incontrovertibile. A Melfi, attraverso processi che qui

dobbiamo tentare di ripercorrere, la base operaia ha acquistato una

compattezza ed una forza tali da essere in grado di attaccare ed intaccare il

comando padronale. Beninteso, si tratta di una piccola maglia incrinata. Dopo

anni di entusiasmi caduti nella polvere, bisogna resistere alle facili illusioni. Si

impone il pessimismo della ragione. E tuttavia occorre registrare il segnale

che Melfi ci manda. Si tratta di attrezzarsi a dovere per cercare di metterlo a

frutto. Per rendere la situazione con una immagine, è come se in una strada

deserta, pavimentata in cemento, improvvisamente venga fuori uno zampillo.

E’ segno che sotto c’è una vena d’acqua. Chi ha sete di lotta non deve

limitarsi a bagnarsi lì per lì le labbra. Deve scavare in profondità e mettere in

opera una conduttura politica che porti in superficie l’acqua a gettito continuo.

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Per mettere a frutto gli insegnamenti di Melfi bisogna partire da una

domanda: come è potuto accadere che un filo d’acqua abbia perforato la

lastra di cemento? Fuori metafora, come è stato possibile che, in un contesto

di dominio padronale a trecentosessanta gradi, una base operaia, schiacciata

sui ritmi della produzione, metta fuori, di punto in bianco, una soggettività

collettiva capace di tenere testa al colosso per antonomasia dell’industria

italiana? Sembra quasi di rivivere la leggenda di Davide e Golia.

Per tentare di dare risposta a una tale domanda, procediamo per gradi.

Intanto, è da escludere un primo elemento di spiegazione, a cui facilmente si

fa ricorso. In un quadro di generale stagnazione dell’antagonismo di classe, la

rottura anche di una piccola maglia della rete di dominio del capitale sulla

società non può determinarsi sul piano ideologico. E non è solo una questione

di dimensione del caso Melfi. Manca la forza di una identità di classe che

metta in campo un soggetto politico in grado di opporre ai piani del capitale la

presenza, sulla scena sociale, delle forze di lavoro. Dal caso Melfi al caso

Italia non c’è dunque soltanto un passaggio di dimensione. Si tratta di un vero

e proprio salto di qualità. Per ragionare a contrario, immaginiamo quali risorse

politiche verrebbero chiamate in causa se la lotta esplosa in situazioni

particolari e circoscritte si riproducesse a catena, sino a tradursi di fatto in

scontro diretto fra la classe operaia e la classe padronale nazionale.

Restiamo dunque con i piedi per terra e atteniamoci al caso che stiamo

cercando di analizzare e interpretare, non a fini di conoscenza accademica,

ma per evitare di operare alla cieca in sede di intervento politico e sociale. Il

dato di partenza che ha prodotto l’esplosione di Melfi non attiene alla sfera

della coscienza politica. Nel corso della manifestazione di Roma mi sono

affiancato via via a diversi operai, che spontaneamente si sono messi a

parlare della loro situazione. Ebbene, a dare ragione della durezza della loro

lotta non facevano mai ricorso a motivazioni politiche e tanto meno

ideologiche. Dicevano semplicemente: «Non ce la facciamo ad arrivare alla

fine del mese». E qualcuno aggiungeva: «Chi ci fa la predica sulla situazione

economica provi lui a campare con il nostro salario». E’ una annotazione

significativa. All’astrazione economica gli operai oppongono la concretezza

esistenziale. Questa contrapposizione fra astrazione e concretezza è di antica

data. Risuona persino in una vecchia canzone di protesta: «Se otto ore vi

sembran poche, provate voi a lavorar».

Quando il discorso degli operai tocca la questione dei turni di lavoro,

vengono fuori storie allucinanti. E non si tratta soltanto dell’intollerabile

sovraccarico di notturni continuativi, che è una delle ragioni della protesta. La

Fiat di Melfi raccoglie mano d’opera in un ampio bacino, che tocca per

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esempio Caserta e Benevento. E poiché gli operai di fuori, con i loro salari di

fame, non possono permettersi il lusso di mettere su casa a Melfi, sono

costretti a fare i pendolari. Così, con gli orari dei turni che si ritrovano,

passano spesso parte della notte su un pullman. Un panino e via, ad

affrontare i ritmi massacranti della fabbrica, dove la produzione viene spinta al

limite delle umane possibilità.

La miccia che ha appiccato il fuoco è dunque strettamente esistenziale. E

la piattaforma della vertenza non viene elaborata a tavolino, nell’astrazione di

una strategia sindacale, ma è già impressa, a caratteri di fuoco, nella vita

quotidiana dei lavoratori e delle lavoratrici, uomini e donne in carne e ossa.

C’è in questo passaggio una prima indicazione di carattere teorico. Perché

si inneschi un processo di rottura radicale, bisogna che la condizione

esistenziale, progressivamente sempre più degradata, superi la soglia della

“sopportabilità”. Bisogna che in quella condizione sia diventato impossibile

continuare a vivere. La base materiale è necessaria, ma non sufficiente.

Perché il dato materiale non è in natura. E’ un dato sociale, che passa

attraverso la percezione personale e collettiva, sulla quale opera l’apparato

ideologico della classe dominante. Se a Melfi la condizione materiale è

diventata esplosiva, è perché la sua “insopportabilità” ha perforato la

percezione ideologica interiorizzata nella coscienza, per esprimersi nei termini

esistenziali del vissuto quotidiano degli operai. Per questa via, la lotta si è

tradotta in rottura esistenziale. Ed è in questo suo connotato la radice della

sua irriducibilità.

4-1.2 Giustizia sociale e dignità personale

Una volta attivato da una urgenza materiale della vita quotidiana, il

processo va avanti e investe le sfere immateriali, determinando quell’intreccio

fra materialità e immaterialità che ho più volte segnalato in altre sedi. Nei

ragionamenti degli operai di Melfi la sequenza è chiara: «Perché dobbiamo

avere meno salario degli altri operai della Fiat? Non vogliamo essere trattati

come operai di serie B». L’equiparazione del salario come richiesta di giustizia

sociale, in una piattaforma che ha al centro gli operai come persone, con il

loro carico di urgenze materiali, ma anche con i loro scatti di orgoglio e di

dignità.

La dignità personale è un motivo ricorrente nei discorsi appassionati di

queste esemplari figure del sud. Un motivo che investe un’altra ragione della

lotta: i provvedimenti disciplinari. Alla Fiat di Melfi vige una versione

terroristica del comando padronale. Un comando che ha prodotto nell’ultimo

anno 2500 provvedimenti disciplinari. Veri e propri avvertimenti agli operai: se

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osate alzare la testa, verrete schiacciati. In un tale clima, la ribellione operaia

è una forte dimostrazione di coraggio, che non arretra nemmeno di fronte alle

manganellate repressive della polizia, perché attinge la sua forza nella dignità

operaia ferita. Una tale impennata affonda le sue radici nella tradizione della

soggettività operaia. Una soggettività che può attraversare fasi di

appannamento, ma si riscatta quando la misura del comando padronale

oltrepassa il segno dell’arroganza. A quel punto, la protesta di Melfi non mira

soltanto al ritiro dei provvedimenti. Va ben oltre. Vuole reintegrare la dignità

della figura operaia, che il padrone ha inteso per anni sbeffeggiare e umiliare.

Vuole reintegrare la persona nella figura operaia.

4-1.3 Comunità operaia e autonomia

Una lotta così dura, nella quale gli operai investono la loro esistenza e

quella delle loro famiglie, incide fortemente sullo stato della soggettività

operaia. Attraverso un processo di condivisione degli obiettivi e dei relativi

rischi, la base operaia, frammentata nel rapporto individuale con la direzione

dell’azienda, si trasforma in comunità, in soggetto collettivo. A questo punto, la

comunità operaia si scrolla di dosso tutte le impalcature delle mediazioni e

mette direttamente in campo le proprie richieste, rivendicando di fatto una

gestione autonoma della lotta. Non si tratta, in origine, di una rivendicazione

“politica”. Si tratta semplicemente di una misura che tende a fare la guardia

sull’andamento della vertenza. Ma il progressivo innalzarsi del livello dello

scontro e la parallela compattazione della base trasformano la precauzione in

affermazione del soggetto collettivo come espressione dell’autonomia operaia.

Tutte queste trasformazioni riportano il processo alla sua origine, in un

movimento circolare fra versante materiale e versante immateriale della lotta.

Quando è in gioco non questo o quel punto, anche importante, di una

piattaforma sindacale, ma direttamente l’esistenza delle persone, chi può

decidere della propria vita se non le stesse persone? Quando, come alla Fiat

di Melfi, alla base della lotta ci sono condizioni materiali con valenza

esistenziale, quando sono in gioco l’integrità e la dignità di uomini e donne in

comunità, le esperienze di autonomia operaia non possono essere facilmente

azzerate. E ciò indipendentemente dall’andamento e dalla conclusione della

vertenza sindacale. La vertenza passa. La soggettività operaia prodotta dalla

lotta resta.

(«Proteo», n. 2 – 2004)

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4-2

LA PRECARIETA’ ESISTENZIALE COME IDENTITA’ SOCIALE:

UNA OPERAZIONE IDEOLOGICA

Premessa

Sulla soggettività sociale incombe una complessa operazione ideologica. A

partire da ben noti processi in atto, dalla destabilizzazione del rapporto di

lavoro alla disarticolazione della vita sociale, si tenta di innescare una

prospettiva inquietante: “sradicare” dalla coscienza collettiva la vecchia

identità connotata dalla stabilità della prospettiva di vita, per “trapiantarvi” una

identità di nuovo conio, che si riconosca nella condizione di precarietà

esistenziale.

4-2.1 La ridefinizione della identità sociale

Nel quadro dei processi di produzione ormai giunti a maturazione, l’identità

sociale è chiamata a misurarsi con la condizione di precarietà. Su questo

versante, risulta completamente spiazzata una identità sociale ancora legata

al mondo della stabilità del lavoro e del sistema di garanzie. C’è quindi il

rischio che i soggetti vivano la nuova realtà con la testa rivolta al passato e in

una condizione di forte tensione esistenziale, che potrebbe tradursi in

opposizione sociale. Da qui la necessità di riallineare l’identità sociale alla

instabilità del lavoro, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata

condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà. In questa logica

perversa, il modello di soggettività che meglio si attaglia al sistema avanzato

di produzione ha un connotato di base: la precarietà esistenziale come

identità sociale. Attenzione. Non più una identità in conflitto latente con la

condizione di precarietà. Ma la condizione di precarietà che si incarna

direttamente nella identità sociale e determina l’essere al mondo delle

persone. In concreto, l’inquietante prospettiva che si tenta di aprire va oltre

l’attuale realtà, di per sé devastante, in cui le nuove generazioni non sono in

grado di progettare il proprio futuro. Si mira ad un essere sociale in cui i

giovani, a forza di vivere in condizione di incertezza, siano indotti a

immaginare il loro futuro in termini di precarietà esistenziale. Bisogna cercare

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di cogliere bene la cifra di questo passaggio. Ci dobbiamo chiedere: una volta

operata l’istituzionalizzazione della instabilità del lavoro, che si traduce

inevitabilmente in precarietà esistenziale, perché si può avere interesse a

proiettare questa condizione sulla identità sociale? La risposta è semplice:

perché si vuole che i soggetti si sentano realizzati nella condizione di

instabilità. In pratica, si vuole fare emergere una soggettività collettiva,

soprattutto giovanile, che veda nel lavoro discontinuo non la fonte della

propria condanna alla marginalità sociale, ma anzi la possibilità di scegliere

ogni volta tra le alternative che offre il mercato e di arricchire, per questa via,

il proprio bagaglio esperienziale.

4-2.2 Il modello ideologico: la distinzione tra flessibilità e precarietà

Il tentativo di acquisire la precarietà alla coscienza collettiva si avvale di un

modello ideologico, incentrato sulla distinzione tra flessibilità e precarietà.

Modello fatto proprio dalla sinistra istituzionale e dai vertici dei sindacati

confederali. La flessibilità, si dice, è un dato strutturale del processo avanzato

di produzione. Ma, di per sé, non comporta precarietà. Basta adottare gli

opportuni ammortizzatori sociali, che assicurino la sopravvivenza nei periodi

in cui si viene a mancare dei mezzi di sussistenza. Per questa via, si tende a

istituzionalizzare la precarietà come modalità tecnica del processo avanzato

di produzione. Ora, come si fa a sostenere che l’alternarsi di lavoro e non

lavoro, vale a dire un continuo movimento sismico della vita quotidiana, non

provoca precarietà esistenziale? È irrilevante sentirsi alternativamente

soggetto attivo e relitto sociale, al minimo della sussistenza? Ed è irrilevante,

sul piano banalmente contabile, non potere pianificare le proprie striminzite

spese? Come si fa a tenere fede agli impegni finanziari sottoscritti (l’affitto

mensile dell’alloggio, la rata di mutuo della macchina, ecc.) quando, da un

giorno all’altro, la già misera entrata viene ridotta drasticamente, nel

passaggio dal salario alla indennità di disoccupazione? Nel quadro qui

presentato per tratti essenziali, l’istituzionalizzazione della precarietà

esistenziale, sulla base della ridefinizione della identità sociale, tende a

restringere i già sottili margini di autonomia della società nei confronti della

valorizzazione capitalistica. Il capitale tenta così di spostare in avanti il suo

dominio sulla esistenza di masse di uomini e donne. È bene che le forze di

opposizione antagonista ne tengano conto.

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4-2.3 Due conferme dell’operazione ideologica

Per concludere, mi limito a riportare due conferme dell’operazione

ideologica in corso. Il Corriere della Sera (19/03/07, p. 7) pubblica l’annuncio,

ben evidenziato, di un convegno di alto profilo. Il testo è un vero e proprio

manifesto: “Tutti felicemente flessibili, in coerenza con una economia in

rapido mutamento in cui l’elasticità dei rapporti di lavoro consente ai singoli di

accumulare nuove competenze e, in prospettiva, di ottenere maggiori

guadagni rispetto al vecchio posto fisso”.

Attenzione: non solo flessibili, ma felicemente flessibili. E quindi indotti a

identificarsi nella loro condizione di precarietà. Su una copertina di Panorama

(n. 52 del 26/12/07) campeggia la foto di una giovane donna seduta al suo

tavolo di lavoro. A fianco una grossa scritta: “Vi sembro precaria?”. In effetti,

è l’immagine di una persona soddisfatta del suo lavoro. La didascalia è

ancora più esplicita: “Storie di chi con il contratto a termine ha imparato a

vivere bene”. E nell’interno si leggono le note vicissitudini del lavoro instabile,

ma raccontate in chiave di “felici di essere precari”. Ecco l’identità sociale che

si vuole prospettare: una incarnazione della precarietà esistenziale. (Proteo n. 2 - 2008)

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FILIPPO VIOLA, nato in Sicilia, a Pietraperzia (Enna), è

docente di Sociologia (ora in pensione) all’Università di Roma

«La Sapienza».

Da anni porta avanti esperienze di lavoro sociale nei

quartieri popolari di Roma, in collaborazione con

associazioni, centri sociali ed altre strutture di base.

Come studioso, ha pubblicato lavori di ricerca teorica ed

empirica, nel quadro di un progetto di sociologia esistenziale,

cioè di analisi del sistema sociale dal punto di vista della

condizione esistenziale degli uomini e delle donne, con

particolare attenzione ai processi immateriali della vita

sociale.