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394 Per una ricerca simbolica e partecipativa PAOLO MOTTANA * Keywords: symbol, simbolic knowledge, imagination, teaching as “gift”. Abstract: The essay outlines an imaginative way of knowledge in the eld of edu- cation. This is a boundary research which tries to restore the authentic knowing power of images which have always been considered as forms of a “ gnoseologia inferior” (Baumgarten). In particular we refer to symbolic images chased through a thorny genealogy, or better, a founder archaeology. In ancient times the heuristic value of symbolic images was supported by Socratic philosophers (who suggested an enigmatic and allusive knowledge rather than a conceptual and discursive one), during the Middle Ages and the Renaissance by Gnosticism, Neo-Platonism, Her- metic Philosophies and Theosophical Mystique and then by Romantic thinkers. And this idea even returns through some voices of the 20 th century cultural debate such as Bergson, Bachelard, Gilbert Durand, Walter Benjamin and Carl Gustav Jung; and again, more recently, the voices of Gilles Deleuze, James Hillman, Jean Jacques Wunenburger, Georges Didi-Huberman and the “iconic turn” by Gottfried Böhm and W.J.T. Mitchell seem to allow their reconsideration as vehicles of an amphibolic, plural knowledge that is neither evaluating nor normative, neither ideological nor categorising. The practise of images as a source of knowledge overthrows the idea that we must always produce enlightenments and distinctions because, on the contrary, a symbolic knowledge must learn to yield to the constitutive, ambiguous and inexhaustible struc- ture of meanings of the experience. Ricerca e conoscenza immaginativa Il quadro epistemologico in cui si dibatte la ricerca educativa nel nostro tempo, sembra sempre più restringersi, anziché ampliarsi. Dopo l’affermarsi, * Dipartimento di Scienze umane per la formazione R. Massa Università di Milano Bicocca - [email protected]

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Per una ricerca simbolica e partecipativa

PAOLO MOTTANA*

Keywords: symbol, simbolic knowledge, imagination, teaching as “gift”.

Abstract: The essay outlines an imaginative way of knowledge in the fi eld of edu-cation. This is a boundary research which tries to restore the authentic knowing power of images which have always been considered as forms of a “ gnoseologia

inferior” (Baumgarten). In particular we refer to symbolic images chased through a thorny genealogy, or better, a founder archaeology. In ancient times the heuristic value of symbolic images was supported by Socratic philosophers (who suggested an enigmatic and allusive knowledge rather than a conceptual and discursive one), during the Middle Ages and the Renaissance by Gnosticism, Neo-Platonism, Her-metic Philosophies and Theosophical Mystique and then by Romantic thinkers. And this idea even returns through some voices of the 20th century cultural debate such as Bergson, Bachelard, Gilbert Durand, Walter Benjamin and Carl Gustav Jung; and again, more recently, the voices of Gilles Deleuze, James Hillman, Jean Jacques Wunenburger, Georges Didi-Huberman and the “iconic turn” by Gottfried Böhm and W.J.T. Mitchell seem to allow their reconsideration as vehicles of an amphibolic, plural knowledge that is neither evaluating nor normative, neither ideological nor categorising. The practise of images as a source of knowledge overthrows the idea that we must always produce enlightenments and distinctions because, on the contrary, a symbolic knowledge must learn to yield to the constitutive, ambiguous and inexhaustible struc-ture of meanings of the experience.

Ricerca e conoscenza immaginativa

Il quadro epistemologico in cui si dibatte la ricerca educativa nel nostro tempo, sembra sempre più restringersi, anziché ampliarsi. Dopo l’affermarsi,

* Dipartimento di Scienze umane per la formazione R. Massa Università di Milano Bicocca - [email protected]

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nei decenni passati, di tendenze di sperimentazione e di protocolli di ricerca aperti alla complessità e alla contraddittorialità, sembra tornare una voglia di scientifi cità empirica e quantitativa perlomeno sospetta e inquietante. A me pare, di fronte a una tendenza sempre più orientata a rafforzare una cultu-ra della ricerca fortemente pragmatica, strumentale, asservita alle attese del mondo industriale, che sia invece il tempo per produrre una ricerca teorico-pratica, diciamo meglio, una ricerca che sia anche “prassi simbolica”, capace di integrare nel suo profi lo un’identità metodologica segnata dall’incontro con le lezioni più radicali della fi losofi a del Novecento (che è sempre stata anche grande pratica culturale e politica) che, dal mio punto di vista, vanno cercate sulle frontiere che la pedagogia guarda sempre con troppo sospetto oppure con la preoccupazione di domarle e renderle metabolizzabili alla sua pars giudi-cante. Una ricerca che, della sua vocazione teorico-pratica, sappia riconoscere fi no in fondo la concretezza prassica delle idee e la vocazione trasformatrice di simboli, immagini, forme allo stesso modo in cui impari a riconoscere la componente generativa e simbolica delle pratiche, delle materie e dei corpi in azione sulla scena educativa.

La pedagogia resta invece per lo più sempre murata nella sua vocazio-ne enciclopedica e bisognosa di attestazioni di credibilità, timorosa di aprire nuove frontiere e assetata di accreditamenti e validazioni. Una pedagogia in cui, salvo qualche sporadica eccezione, non si sente mai fare un nome fuo-ri posto se non per reinscriverlo subito in qualche fi lone predigerito, dove quando qualcuno prova anche solo a introdurre riferimenti davvero altri, cioè non suffi cientemente bonifi cati e uniformati all’immaginario disciplinare do-minante e piegati all’indole moralistica o applicativa imperante, fi nisce per essere emarginato e isolato. Da questo punto di vista, e non vitti misticamente, semmai proprio per evidenziare questa tendenza omogeneizzante e emargi-nante, mi permetto di citare il mio caso, il mio tentativo, perlopiù ignorato o malsopportato, di introdurre la tradizione di una fi losofi a dell’immaginario e di una ricerca immaginale (Jung, 1991-2007, Durand, 1972, Bonardel, 1993), correlata a forme di razionalità di tipo anfi bologico e contraddittoriale (Lu-pasco, 1960), Wunenburger, 1999, 2007, Cazenave, 1996, 1998), cercando di dare udienza anche all’irrazionale (Feyerabend, 2001, 2002, Corbin, 1958, 1986), o all’immaginazione simbolica (Bachelard, 1972, 1975, Durand, 1999, Hillman, 1979, 1983) o anche al mio costante sforzo, strettamente imparentato con il primo, di porre al centro dell’ orizzonte di ricerca le nozioni di eros e di desiderio in educazione (Mottana, 2000, 2008, 2010, 2011). Tutte frontiere giudicate, dal razionalismo teorico e dal quietismo metodologico imperante, troppo estreme o troppo “esotiche”. Non è questo un fatto che riguardi solo il mondo pedagogico, ovviamente. Le censure culturali del nostro tempo son diffuse e pervasive, resta comunque che, specie nel mondo accademico, i cri-

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teri di assegnazione delle patenti di rigore metodologico e epistemologico, appaiono sovente restrittivi e settari.

Per conto mio in questi anni ho comunque cercato, nonostante ciò, di aprire una via di conoscenza immaginativa in campo educativo. Una ricerca di fron-tiera, ma poi non troppo se è vero che è ormai da diverso tempo che si parla di un “iconic turn” (Böhm, 2009) o di un “pictorial turn” (Mitchell, 2008), che avrebbe soppiantanto quel “linguistic turn” da cui siamo stati molto a lungo dominati, annunciato da Rorty negli anni sessanta del secolo scorso. Una ri-cerca che tenta di restituire alle immagini, pressocché da sempre defraudate come fonti di sapere e considerate forme di una “gnoseologia inferior” (Baum-garten, 2000), il loro autentico potere conoscitivo (ma anche performativo e trasformativo). Le immagini simboliche in particolare, frutto di una pondera-zione e di una riformulazione fi gurale tra il fatto, l’esperienza e lo sfondo ide-ale e intelligibile su cui si staglia sono diventate il mio campo di esplorazione. Le immagini simboliche, quelle ricche di interrogazioni, di perturbazioni e di rielaborazioni del volto letterale della realtà restituito da scienza e tecnica, rincorse attraverso una faticosa genealogia o forse meglio una archeologia fondatrice. Immagini il cui valore euristico trova i propri sostenitori spesso lontano nel tempo, nella fi losofi a presocratica (con la suggestione di un sapere di carattere allusivo e enigmatico piuttosto che discorsivo e concettuale) e poi in taluni ricchi affi oramenti medievali e rinascimentali (tra gnosticismo e ne-oplatonismo, tra fi losofi e ermetiche e mistica teosofi ca), fi no al romanticismo. Ma che ritorna con le voci, certo non sempre in accordo e sovrapponibili ma comunque sensibili a questa emergenza veemente della potenza delle imma-gini, di un dibattito novecentesco che, da Bergson (2002, 2006) e Bachelard, attraverso Gilbert Durand, Walter Benjamin (1997, 2002) e Carl Gustav Jung, e, nel contemporaneo, da Gilles Deleuze (1984, 1989, 2006) a James Hillman a Jean Jacques Wunenburger e a Georges Didi-Huberman (1990, 1992, 2007), e più recentemente alla “svolta iconica” appena citata di Gottfried Boehm e di W.J.T.Mitchell e molti altri, sembra permettere una loro riconsiderazione come veicoli di una conoscenza anfi bologica, plurale, non valutativa né pre-scrittiva, non ideologica né categorizzante. Una conoscenza che si fonda sulla ricerca di una materia sottile, quella appunto delle immagini, capace di con-nettere l’espressione vivente dell’esperienza, perché l’immagine simbolica è

un essere vivente, con uno sfondo di forme mitico-archetipiche, come pensava Jung, di “fi gure” in cui il reale si riscopre multiforme e indecibile. La pratica delle immagini come fonte di sapere, sovverte l’idea che si debba sempre pro-durre rischiaramenti e distinzioni mentre al contrario una conoscenza di natu-ra simbolica deve imparare a cedere alla struttura costitutivamente ambigua e inesauribile, anche oscura, dei signifi cati dell’esperienza.

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Le fi gure simboliche della formazione

Così sottoporre grandi temi, vere e proprie invarianti dell’esperienza e della discorsività educativa, come la mancanza, la cura, la ferita, il male, l’infanzia, l’adolescenza, la famiglia, la morte e così via all’esposizione, al rispecchiamento in opere simboliche che lavorano questi temi nella direzione di una loro riformulazione immaginale, signifi ca impedire a qualsiasi scorcia-toia categorizzante o pragmatica di rinchiudere e ridurre il tessuto fi ttissimo delle possibili vie interpretative che tali oggetti sensibili e ipercomplessi ge-nerano, essendo costitutivamente aperti e privi di centro (cfr. Mottana, 2002, 2005).

Così ad esempio considerare il tema del defi cit, della mancanza o della mutilazione attraverso la meditazione di opere che esprimono fi guralmente il volto dello straniamento e del portare la ferita su di sé, come i clown tragici di Rouault o certi lavori di Kokocinski, signifi ca penetrare, o meglio, rendersi ricettivi ad una dimensione invisibile e persistente dell’essere al mondo, che riguarda tutti in quanto mancanti e tutti, anche se in alcuni casi in maniera più evidente, portatori di una frantumazione passibile di rinascita, di una passione che mira al contempo la morte e la trasformazione, in cui gli archetipi di Dio-niso, di Iside e di Cristo affi orano nella loro potenza di simboli aperti e ogni volta riattivati in una singolare e dialettica composizione con le forme dell’ora e del qui. Oppure meditare l’infanzia, l’infanzia non solo come fatto anagra-fi co e psicologico ma soprattutto come simbolo di inizio e fi ne, di totalità e di intreccio di un approccio erotico e immaginativo al mondo, intrattenendosi lentamente e ripetutamente con l’intensità aurorale eppure quintessenziata di una raccolta di haiku giapponesi, o ancora attraverso la diffi cile equilibrazione di colore, materia e fi gura che impariamo immergendoci negli ultimi, incan-descenti dipinti di Nicolas De Staël, è cosa ben diversa dal condizionamento che interiorizziamo dal discorso presuntuosamente scientifi co ma prescrittivo, troppo spesso pregiudiziale e farcito di imputazioni valoriali delle psicologie e spesso anche dei modelli fi losofi ci loro sottesi.

È un modo di riportare gli oggetti selezionati a ritrovare il loro volto, la loro personalità particolare, la loro presenza vivente, essi stessi soggetti dotati di senso più che materie di studio e di analisi. L’approccio di ricerca immagi-nale (Mottana, 2004, 2010a) conduce queste grandi aree dell’esperienza edu-cativa, tessendole nella densità dei molteplici motivi raffi gurativi che le hanno espresse simbolicamente, a manifestare lo spessore, lo spettro delle loro mol-teplici interpretazioni, in un reticolo di corrispondenze e di analogie che le radica nel tessuto profondo dell’esperienza. Non più i bambini come oggetto separato di cura e di considerazione teorica ma i bambini come stagione per-manente dell’essere, che si riverbera ad ogni livello dell’esperienza del mondo

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e che di questo mondo, nella sua dimensione d’infanzia, infanzia “vegetale” e “perenne”, diceva Bachelard (1972), si fanno testimoni e mediatori.

O, per fare un altro esempio, la simbolica della morte e del morire rivissuta e lavorata attraverso un’opera di videoarte come The Passing di Bill Viola o le incisioni di Käthe Kollwitz o ancora i dipinti di Zoran Music. Ma ancora con le opere musicali di Krzystof Penderecki, di Sofi a Gubaidulina o di Fau-sto Romitelli. Avendo a disposizione un giacimento sterminato di “presenze viventi”, come le chiama George Steiner (1999) (sciami d’immagini simboli-che che costellano, secondo una riconoscibile “risonanza semantica”, il focus immaginale, il nucleo archetipico) capaci di trasmutare, riorientare ed emanci-pare la nostra sensibilità, ai fi ni di una vera e propria gnosi (da intendersi come conoscenza integra, non separata e non separatrice, che fa convivere pensiero, emozione e immaginazione e oggetto di conoscenza) del mondo e della sua fi sionomia viva e dotata di interiorità (il Weltinneraum di Rilke, 1994-1995).

L’immagine simbolica è infi nitamente aperta e suffi cientemente umbratile e interrogante da non consentire di accumulare alcuna certezza. Al contrario, essa decostruisce e contemporaneamente arricchisce il nostro immaginario di fi gure attraverso le quali imparare a ri-vedere l’esperienza del reale nella sua costitutiva e inestirpabile contraddittorialità, nella sua irriducibile e però an-che coinvolgente materialità signifi cante che non si lascia inchiodare ad alcu-na defi nizione. Lavorare attraverso le immagini ad una conoscenza comples-sa, signifi ca mettere in campo uno sguardo partecipativo e non distanziatore, una postura non giudicante, richiamare ad una responsabilità nei confronti del volto inesauribile del reale in cui convivono necessariamente le ombre e le luci, il male e il bene, la mancanza ad essere e l’impulso a non cedere sul proprio desiderio (come dice Lacan, 2008 il quale, per altri versi, ha impor-tato nel mondo del sapere e non solo, un’idea dell’immagine patologizzata e alienante che conferma uno stereotipo iconoclasta fi n troppo presente nella cultura fi losofi co-scientifi ca).

Conoscenza umbratile e contraddittoriale

Questo fi lone di ricerca, certamente anomalo, inattuale e diffi cilmente com-ponibile con i canoni di una razionalità illuministica allergica all’ambiguità delle rivelazioni propiziate dalla collisione vorticosa della “lontananza” dei simboli con il manifestarsi anacronistico delle forme (per dirla attraverso Ben-jamin rivisitato da Didi-Huberman), ha la pretesa di far interagire il sedimento tellurico della cultura (il suo patrimonio di forme originarie e il suo archivio mitico-archetipico, che è fondamentalmente transculturale), con l’espressività sempre rinascente del gesto simbolico. Pretende altresì di restituire a questa

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materia composita una potenzialità conoscitiva, di una conoscenza radical-mente alternativa a quella misurabile e confrontabile o anche solo concettuale e razionalizzata che ancora sembra dominare, nonostante i molti richiami alla divergenza epistemologica, anche in ambito scientifi co. Per un’apertura alla complessità che includa fonti siffatte, se non altro con un ruolo equilibratore e compensatorio, (e si pensi a Feyerabend o Cazenave), nell’ambito di un ricer-care che non può più dimostrare l’infallibilità di alcuna procedura. Confi dare nelle immagini, nelle immagini simboliche, a me pare una buona strada per decantare quel fondo di ingenuo attaccamento a paradigmi che hanno dimo-strato la propria inabilità a comprendere l’inesauribile molteplicità dell’esiste-re in tutte le sue forme e soprattutto la sua solidarietà o continuità invisibile che invece lo sguardo tenace, appassionato e sofferto dell’artista ci restituisce e ci consente di sperimentare anche emotivamente.

Ma un tale profi lo di ricerca interroga, oltre che le fonti e i modelli di in-terpretazione, anche la “postura” del ricercatore, non più soggetto dominatore e distanziatore del suo oggetto, ma complice di esso, coinvolto nella sua ma-teria in forma partecipativa. Non è solo il soggetto a scegliere il suo oggetto e a intenzionarlo, è anche l’oggetto che incontra e sceglie il suo soggetto, che lo interroga e che lo chiama ad accorgersi della sua presenza. Si tratta di praticare una ricerca in cui il ruolo dell’emozione genera una spoliazione e un affi damento, l’accettazione dello smarrirsi e anche il necessario arrendersi alla misteriosità delle stratifi cazioni di senso dell’oggetto esplorato. Senza accani-mento, semmai con dedizione e attenzione.

Non una ricerca freddamente programmata e che miri a lavorare il proprio oggetto distanziandosene e anestetizzandolo. Una ricerca che restituisca inve-ce valore al ruolo dell’intuizione e dell’immaginazione. Una ricerca animata dal motto alchemico ignotum per ignotius, capace cioè di accondiscendere all’oscurità dei recessi delle materie esplorate non con l’impeto prometeico di chi vuole tutto rischiarare e dominare ma di chi sa accogliere le dimensioni d’ombra e di sottrazione dei propri oggetti-soggetti. Una ricerca animata da una visione sotterranea che sappia leggere anche sé stessa, il proprio profi lo epistemologico, la propria postura, attraverso una continua vigilanza critica e una decostruzione dei miti che la abitano e che la promuovono. Una ricerca la cui processualità sia più assimilabile al moto della spirale che a quello di una dialettica progressiva, capace di sopportare il rallentamento e la stasi, animata da un politeismo metodologico e da una apertura a forme di verità contrad-dittoriale, riconducibili allo schema dell’arco e della lira, alla tensionalità di un terzo che si muove dinamicamente tra opposti in reciproca e continua rela-zione di manifestazione-nascondimento. Insomma una ricerca ben diversa da quella orientata da modelli di razionalità rischiaratori e bonifi catori, o peggio tecnocratici e effi cientisti, semmai disponibile a contaminarsi, complicarsi,

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persino perdersi (una ricerca che sappia quindi accogliere anche il necessario fallimento nei confronti di un reale mobile, stratifi cato e spesso legittimamen-te riottoso ad arrendersi alla volontà di sapere), nella sua fedeltà alle forme di manifestazione dei propri soggetti di esplorazione.

Valutazione come restituzione e cultura come dono

Mi si perdoni infi ne una provocazione, su uno dei temi che mi è caro e che certo, ancora una volta non mi vede in una compagnia particolarmente numerosa, quello della valutazione didattica ancor prima e più di quella della ricerca, in particolare della valutazione scolastica e accademica, sotto forma di esame e prova, tema che purtroppo va conoscendo nel nostro tempo una inesorabile quanto scandalosa deriva restaurativa.

La prova scolastica, istituzionale, è fi glia, non credo di dire una cosa par-ticolarmente bizzarra e inattesa, di una cultura della misura e del controllo, la stessa che perlatro domina in tutti i nostri apparati disciplinari e nella maggior parte delle culture della valutazione. Una cultura dell’educazione che ritiene che la procedura dell’insegnamento sia realizzata quando il sapere, considera-to come qualcosa che preesiste al momento dell’istruzione stessa, possa essere poi in qualche modo verifi cato dopo che è stato veicolato. Operazione mecca-nica, anche se espressa in innumeri maniere, che vede l’insegnamento come un travaso, come una trasmissione, informaticamente, come un transito da a, e non, certo, nel senso intrigante che ha dato a questa nozione Mario Perniola (1998), quando parla di transito dallo stesso allo stesso, cogliendo le implica-zioni della differenza nel medesimo e proponendoci un presente dell’esserci solcato da infi niti micro rilievi, un’immanenza fatta più di densità e intensi-tà, come diceva anche Deleuze, piuttosto che di successioni e di macchinosi adattamenti.

Anche laddove vi è consapevolezza della processualità dell’opera educa-tiva, laddove se ne predica la metaforica platonica della maieutica o dello svelamento, della generazione o dello scatenamento, l’esame resta confi nato nella sua struttura di procedura di controllo, a volte rivestito dell’abito della ricerca o dell’ascolto, ma pur sempre fi nalizzato a vedere ciò che è stato pro-dotto, a misurare e a sondare l’effetto. Questo sistema a me pare legato ad una logica produttivistica, effi cientistica e fi sicalista della cultura pedagogica, che nell’epoca contemporanea poi si tecnicalizza in procedure sempre più sofi sti-cate e modulate variamente, sul piano strumentale, ma non meno univoche su quello strutturale. Animate, per usare il linguaggio che mi è proprio, dal mito della luce e dallo spirito eroico di Prometeo, da una ratio calcolatrice il cui primato non può sfuggire a nessuno.

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A questa logica voglio, consapevolmente iconoclasta e secondo una linea di pensiero che rivendico nella cultura moderna e contemporanea (da Fou-rier, 1999) a Bataille, 1972), da Deleuze, 2006) a Vaneigem, 2006) a Naranjo, 2006), contrapporre l’idea di formazione come dono, di apertura del sapere e di condivisione della conoscenza. Un’idea partecipativa che mira all’attrazio-ne appassionata e alla coltivazione di una ricettività diffusa e fl uida, curiosa e non giudicante. L’azione dell’insegnamento come potlacht o come dissipa-zione, come debordamento e come dispersione, come deriva e come prassi simbolica, fa cadere ogni esigenza di controllo. Anche perché non c’è più nulla da controllare. Il campo del sapere, non più presupposto come domi-nabile e segmentabile, è sempre aperto e fl uido. Il contributo che offre chi insegna, presenta implicitamente falle e punti di pescaggio da dove chiunque vi partecipi può derivare imprevedibili direzioni di sviluppo, trasformando continuamente, non tanto il modo in cui l’insegnante propone la sua forma, quanto la confi gurazione in fi eri che ne trae come discente. Da questo punto di vista nessuna esigenza di controllo e di misura e neppure l’esigenza del tutto autoriferita di verifi care se qualcosa è successo. Il gesto compensatore di una pratica di formazione come dono e condivisione è invece quella della restitu-zione, come ritorno di qualcosa di non predefi nito (al dono si corrisponde con il dono) e della riconoscenza/riconoscimento, nella forma del ringraziamento e dell’accoglimento. Per chi insegna è il fatto stesso dell’ascolto, della parte-cipazione e della ri-conoscenza che si fa atto di conferma, e che costituisce di per sé indizio di un’auspicabile moltiplicazione esperienziale. In tal senso restituzione e riconoscimento possono essere espressi in modi diversi e impre-vedibili che possono non avere affatto a che vedere con il sapere trasmesso, ma semmai con la confi gurazione che l’esperienza ha assunto. La restituzione può essere un oggetto fi sico o un gesto, una danza o un canto, uno scritto o un’immagine. L’esperienza formativa non ha nessuna intrinseca necessità di essere misurata, essa si dà quando si dà, come perfettamente compiuta all’atto della sua effettuazione. L’atto del controllo e della misurazione è solo un gesto disciplinare che la inscrive in una fi nalizzazione estrinseca di tipo ideologi-co o istituzionale. Intrinsecamente ogni esperienza di insegnamento è invece semmai tramata da gesti di interrogazione e di intesa, di confronto e, laddove ve ne sia necessità, di esercizio, di gioco e di simulazione. Ma questo modo di cercare non è mai ordinato nella forma del controllo esterno, semmai della conferma interna, del bisogno di percepire la reciprocità della comprensione. Si conclude all’interno dell’esperienza di insegnamento e non chiede supple-menti, a meno che questi non siano indotti dal desiderio di ripetere e andare più a fondo.

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Conclusioni

Una tale “cerca”, che produce una conoscenza di ordine simbolico, aperta e policentrica, costituisce a mio giudizio un buon antidoto all’impeto strumen-tale che purtroppo anima troppi modelli del ricercare, di nuovo troppo sussie-gosamente proni alle ragioni ben remunerate di modelli ad alta verifi cabilità e ad alta misurabilità. La ricerca sta regredendo troppo spesso a strumento per addomesticare e incarcerare il reale, per sottometterlo agli obiettivi di una razionalità sfruttatrice e dominatrice. Ad essa occorre una compensazione di natura simbolica, disseminativa e partecipativa di cui l’approccio immaginale può essere una delle voci controcorrente.

Chissà che un giorno un mondo migliore, che riconosca i suoi maestri in fi gure altre ma non lontane come quelle citate sopra, non ci riservi la possibi-lità di sacrifi care il volto grigio e saturnino dell’istruzione per un paesaggio di questo tipo, fi tto di striature e di divergenze, multiverso e imprevedibile, dove al gesto dell’insegnare si sposi una restituzione affettiva o espressiva, e dove forse anche le necessità del tempo e dello spazio educativo assumano nuove, mobili e multiformi possibilità.

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