Missioni OMI 03_2013

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missioni Qui Uruguay Qui Senegal Lettere dei missionari Prezzo di copertina € 2,20 - marzo 2013 - Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, C/RM/68/2012 Padre Pino Puglisi verso la beatificazione Intervista esclusiva a mons. Bertolone dossier P. Natoli racconta dell’incontro tra p. Puglisi e gli OMI attualità Intervista a P. Giuseppe Calderone OMI neosacerdote fatti Scegliere la vita. La testimonianza di Chiara Corbella MISSIONI OMI RIVISTA MENSILE DI ATTUALITÀ MISSIONARIA n. 03 MARZO 2013

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Rivista Missione OMI marzo 2013

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Padre Pino Puglisiverso la beatificazione

Intervista esclusiva a mons. Bertolone

dossierP. Natoli racconta dell’incontro tra p. Puglisi e gli OMI

attualitàIntervista aP. Giuseppe Calderone OMIneosacerdote

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RIVISTAMENSILEDI ATTUALITÀ MISSIONARIA

n. 03 MARZO 2013

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SOMMARIOUna cartolina dal Vaticano 04di Fabio Ciardi OMI

Vale la vida! 06di Gianluca Rizzaro

Conoscersi per superare 10 i pregiudizidi Giacomo Coluccio

Notizie in diretta 22 dal mondo oblatoa cura di Elio Filardo OMI

Mgc news 25

Chiara è nata e non morirà mai più 30di Angelica Ciccone

Sport paralimpici 34di Michele Palumbo

Lettere al direttore 02

Storia di storie 13

Lettere dai missionari 37

Qui Uruguay, Qui Senegal 39

DOSSIER

14UNA FOTO

PERPENSARE

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attualità

news

fatti

missioni

MISSIONI OMIRivista mensile di attualitàAnno 20 n.3 marzo 2013

La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250

EDITOREProvincia d’Italia dei MissionariOblati di Maria ImmacolataVia Egiziaca a Pizzofalcone, 3080132 Napoli

REDAZIONEVia dei Prefetti, 3400186 Romatel. 06 6880 3436fax 06 6880 [email protected]

DIRETTORE RESPONSABILEPasquale Castrilli

REDAZIONESalvo D’Orto, Elio Filardo,Gianluca Rizzaro, Adriano Titone

COLLABORATORINino Bucca, Claudio Carleo, Fabio Ciardi, Gennaro Cicchese, Angelica Ciccone, Luigi Guzzo, Thomas Harris, Sergio Natoli, Luca Polello, Claudia Sarubbo, Giovanni Varuni

PROGETTO GRAFICOE REALIZZAZIONEElisabetta Delfini

STAMPATipolitografia AbilgraphRoma

FOTOGRAFIESi ringrazia Olycomwww.olicom.it

UFFICIO ABBONAMENTIVia dei Prefetti, 34 - 00186 Romatel. 06 6880 3436 - fax 06 6880 [email protected]

Italia (annuale) 17 euroEstero (via aerea) 37 euroDi amicizia 35 euroSostenitore 65 euro

Da versare su cc p n. 777003 Home Banking: IBAN IT49D0760103200000000777003 intestato a:Missioni OMI - Rivistadei Missionari OMIvia Tuscolana, 73 - 00044 Frascati (Roma) Finito di stamparefebbraio 2013Reg. trib. Roma n° 564/93Associata USPI e FESMI

www.missioniomi.itwww.facebook.com/missioniomi

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PadrePino

Puglisiun martire cristiano

del nostro tempo

di Luigi Mariano Guzzo

dossier

Intervista a mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione

Il 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto sul martirio in odium fidei. In che cosa consiste il martirio di questo sacerdote? Perché

don Pino, oltre ad essere un testimone sociale, come Borsellino, Falco-ne, Dalla Chiesa, è anche e soprattutto un santo dei nostri giorni?La differenza tra la morte di p. Puglisi e quella di altre vittime della mafia è chiara: mentre giudici, poliziotti e altri servitori dello Stato pongono a fondamento delle proprie azioni il dovere, la coerenza, l’obbedienza indi-scussa alla legge, chi ha fatto della missione cristiana il proprio fulgido co-dice deontologico risponde sì alle leggi dello Stato, ma in primis a quella di Cristo: l’amore di Dio e del prossimo. Giuseppe Puglisi è martire cristiano, perché è andato incontro alla morte per essere fedele al suo ministero di prete. Egli è stato un testimone del suo tempo, perché si è fatto carico di tut-te le ingiustizie alle quali gli abitanti di Brancaccio erano da anni sottoposti dalle cosche mafiose, da un lato, e dall’indifferenza totale delle Istituzioni dall’altro. Fu un missionario, e come ogni missionario sapeva che la sua stessa presenza, di per sé sola, era motivo di scandalo. E chi versa il proprio sangue per questo, in nome di Cristo e per il suo Vangelo, è un martire.

Lei ha molte volte sottolineato che don Puglisi più che un sacerdote “con-tro e anti” sia stato un prete che ha vissuto in pienezza il suo ministero sacerdotale. È una santità feriale quella di don Pino, innestata nel suo essere parroco. Che cosa privilegiava nella sua attività di pastore?A Brancaccio don Puglisi non si sente un eroe e la sua azione ha un sa-pore inconfondibilmente evangelico. La quotidianità semplice della pastorale della Chiesa è la cifra del suo ministero: il Vangelo che egli cerca di annunziare e vivere, il Crocifisso che ha scoperto come motivo ispiratore della ortodossia e dell’ortoprassi; il Padre che ama presentare nelle sue conversazioni, scardina e quindi rende improponibile il “pa-drino”, la cui figura più che derisa, ne è annientata. Puglisi è un prete che fa il suo lavoro amministrando i sacramenti, preparando i bambini alla prima comunione, i genitori al battesimo dei figli, le giovani coppie al matrimonio. Si impegna in tutte le opere di misericordia. E col suo esempio ai sacerdoti dice: agite sempre con semplicità, non per affer-mare pur nobili ideali civili, bensì per amore di Cristo ed in nome del Vangelo, perché soltanto dove la croce di Cristo e l’autodonazione sono il criterio della vita, il seme del Vangelo cresce, le coscienze maturano

Si ringrazia il Centro diocesano vocazioni dell’arcidiocesi

di Palermo, per la concessione di alcune foto pubblicate

in questo articolo

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una foto per pensare

L’ora di Dio

Lentamente si fa spazio

nel fluire della vita,

nella ricerca affannosa

di qualcosa che sfugge.

È lo scoccare

di un nuovo richiamo

capace di svelare

il segreto della vita.

foto Alessandro Milella, [email protected] Claudia Sarubbo, [email protected]

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editoriale

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Padre Pino Puglisiverso la beatificazione

Intervista esclusiva a mons. Bertolone

dossierP. Natoli racconta dell’incontro tra p. Puglisi e gli OMI

attualitàIntervista aP. Giuseppe Calderone OMIneosacerdote

fattiScegliere la vita.La testimonianzadi Chiara Corbella

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RIVISTAMENSILEDI ATTUALITÀ MISSIONARIA

n. 03 MARZO 2013

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Onore agli uomini illustri. Ono-re agli uomini di Dio. La storia e il ministero di don Pino Pu-

glisi, il sacerdote palermitano ucciso il 15 settembre 1993 occupano le pagine del dossier di questo numero del nostro mensile. Dell’uomo colpisce la lucidità. In un quartiere difficile del Sud ha sa-puto incontrare le esigenze della gente, tentare un dialogo con personaggi non facili, perseguire un’ideale di giustizia, educare alla gratuità.La Chiesa cattolica lo proclama beato il 25 maggio, esempio per tutta la comu-nità dei fedeli che guarda ai santi con amore, rispetto e devozione. Modelli di virtù, esseri umani con pregi e difetti, essi hanno fatto di Cristo il centro della propria vita. Un santo è modello per tutti, ma ci pia-ce guardare a don Puglisi anche come esempio e amico di quanti sono chia-mati al sacerdozio, a servire il popolo di Dio con dedizione e gratuità. La sem-plicità del tratto umano, faceva di don Pino una persona vicina a tutti, segno di quell’amore di Dio che si mette in cer-ca di ogni uomo, senza distinzioni di sorta. Un uomo che viveva la preghiera come spazio di incontro con il Signo-re della vita. Nella Chiesa ci sono vari modi di vivere il sacerdozio. A noi sem-bra che questo sia uno dei più validi: vi-cini a Dio e alla gente, senza cadere in

trappole formalistiche o legate al ruolo. Un sacerdozio, insomma, missionario, con l’attenzione costante agli ultimi, ai poveri e derelitti della società, coloro che spesso sono dimenticati anche dalle istituzioni.Don Pino ha conosciuto e incontrato in molte circostanze i Missionari Oblati di Maria Immacolata a Palermo dove da vari decenni è presente una comunità oblata. Ne riferisce con particolari ine-diti p. Sergio Natoli, oblato impegnato attualmente nella pastorale dei migranti. Ospitiamo anche un’intervista esclusiva a mons. Vincenzo Bertolone, arcivesco-vo di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione.È significativo notare l’affetto che l’Ita-lia ha per don Puglisi. Lo testimoniano strade e piazze intitolate alla sua me-moria. Da Belmonte Mezzagno (Pa) a Ribera (Ag) e Alcamo (Tp) in Sicilia, da Reggio Emilia a Pontecchio Pole-sine (Ro), a Piossasco (To). Anche le pubblicazioni sono sempre più numero-se. Presentando il volume di Vincenzo Ceruso intitolato A Mani nude (Paoline 2012) Andrea Riccardi scrive: “Le pa-gine di questo volume danno al lettore un ritratto a tutto tondo del parroco di Brancaccio, un uomo pieno di vita, di sogni e di domande, un cristiano vero, un siciliano non autoreferenziale né complessato”. n

La missione di 3P

di Pasquale Castrilli [email protected]

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lettereal direttore

Raduno della Famiglia oblata della zona romana

Domenica 11 novembre si è svolta la Giornata annuale della Famiglia oblata della zona romana. Una giornata a tratti piovosa; ma non per questo è venuto meno il fascino dei monumenti e delle chiese del centro storico, nella zona di S. Maria Maggiore.Ci siamo ritrovati presso la casa delle suore di via dell’Olmata. L’apertura della mattinata è stata

dedicata ad una riflessione del superiore provinciale, p. Alberto Gnemmi che ha invitato i presenti ad alzare il capo e guardare sempre più in alto verso la croce. Alzare la testa dalla povertà della nostra storia personale, fino a vedere i grandi passi della storia di Dio. Nella seconda parte è stato proposto un pellegrinaggio in alcune chiese limitrofe selezionate per la loro particolarità artistica e spirituale e per l’attinenza con i temi trattati nell’incontro.Il pellegrinaggio è stata l’occasione per una riflessione personale sul proprio cammino spirituale, una riflessione del proprio essere cristiani in questi tempi difficili, un appello a

farsi coinvolgere in prima persona dalle tematiche che il Santo Padre ha proposto per l’Anno della fede.La Giornata si è chiusa con la celebrazione eucaristica presso la basilica di Santa Prassede. La storia racconta che la santa raccoglieva con una spugna il sangue versato dai martiri per conservarlo in un pozzo per non disperdere neppure la più piccola goccia della testimonianza del martirio. Un grande esempio per noi tutti, un invito a vivere attenti alla qualità dei giorni e alla ricchezza di chi ci circonda e a soffermarsi nella preghiera e nel ricordo dei martiri e dei santi oblati che ci hanno preceduto in cielo.

Carlo CapobiancoRoma

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IN VIAGGIO CON S. EUGENIO DE MAZENOD

Un blog (www.eugenedemazenod.net/ita) che da quasi tre anni offre una possibilità unica: conoscere testi di S. Eugenio de Mazenod, fondatore dei Missionari Oblati di Maria Immacolata.Il suo curatore è p. Frank Santucci, oblato sudafricano, specialista del carisma oblato. Dopo vari anni trascorsi a Aix en Provence, Frank si trova ora a San Antonio, Texas, docente alla “Oblate School of Theology” dove insegna spiritualità, e anima ritiri, workshops e seminari su temi oblati. Ogni giorno Frank “fa parlare” S. Eugenio in quattro lingue e sono circa cinquecento le persone che lo ascoltano via email o direttamente sul sito.

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Tombolata missionaria

La parrocchia dell’Immacolata Concezione di S. Maria Capua Vetere (Ce) ha deciso di sostenere il progetto di costruzione del Centro educativo di Koumpentoum in Senegal attraverso il gioco più rappresentativo del Natale: la tombola. La comunità si è riunita a inizio gennaio presso la sala S. Eugenio coinvolgendo persone di tutte le fasce di età. La serata si è aperta sulle note della celebre canzone “Oh Happy Day” con una presentazione del progetto dei Missionari Oblati di Maria Immacolata, proiettando immagini suggestive del Senegal, dei suoi abitanti e dei missionari con loro. La comunità ha preso parte a questa iniziativa dando un forte contributo fin dalla fase preparatoria, manifestando il desiderio di essere uniti, solidali e pronti

a sostenere con ogni mezzo questa importante missione. La serata è proseguita con il gioco della tombola con divertenti intervalli musicali che hanno coinvolto grandi e piccini. Ciò che ha contribuito alla riuscita dell’iniziativa è stato, senza dubbio, l’amore che ciascuna persona ha donato a sostegno di questo progetto, dimostrando un forte senso di appartenenza alla propria comunità parrocchiale. Vedere i sorrisi sul volto dei presenti, la gioia dei bambini e la generosità mostrata ha creato quell’atmosfera di famiglia capace di aprire il cuore di ciascuno!

Dalila Di ToraS. Maria Capua Vetere (Ce)

INFORMAZIONIPer inviare lettereal direttoreutilizzare l’indirizzo [email protected]

IN VIAGGIO CON S. EUGENIO DE MAZENOD

Un blog (www.eugenedemazenod.net/ita) che da quasi tre anni offre una possibilità unica: conoscere testi di S. Eugenio de Mazenod, fondatore dei Missionari Oblati di Maria Immacolata.Il suo curatore è p. Frank Santucci, oblato sudafricano, specialista del carisma oblato. Dopo vari anni trascorsi a Aix en Provence, Frank si trova ora a San Antonio, Texas, docente alla “Oblate School of Theology” dove insegna spiritualità, e anima ritiri, workshops e seminari su temi oblati. Ogni giorno Frank “fa parlare” S. Eugenio in quattro lingue e sono circa cinquecento le persone che lo ascoltano via email o direttamente sul sito.

Qual è l’obiettivo di questo servizio?È un invito a conoscere Eugenio de Mazenod. L’approccio è cronologico, il mio scopo è presentare la storia che Dio ha fatto con quest’uomo. Inoltre è un mezzo attraverso cui sviluppare un database su Internet degli scritti di Eugenio. Ad oggi sono presenti quasi settecento brani. Ciò significa che utilizzando il semplice spazio “cerca”, è possibile ricercare i testi di Eugenio su vari temi.

A che punto siamo in questo viaggio?Ricordiamo che nel gennaio 1816, i Missionari di Provenza (come erano conosciuti gli Oblati inizialmente) iniziarono a vivere insieme per essere missionari verso quelle persone che in Provenza non venivano raggiunte dalla Chiesa locale. Abbiamo seguito lo sviluppo e l’attività missionaria di questo gruppo. Li abbiamo visti espandersi fino a stabilirsi nel santuario mariano di Notre Dame du Laus e nel santuario dedicato alla Croce, al Calvario di Marsiglia.Questa espansione aveva portato una ricchezza, ma anche scatenato un certo numero di ostilità. Fu perciò essenziale avere un vescovo locale come “protettore”. Questa possibilità arrivò nel 1823 con la nomina dello zio di Eugenio, Fortunè de Mazenod, a vescovo di Marsiglia. La condizione per questo era che Eugenio stesso fosse suo vicario generale. Così nel 1823 Eugenio dovette lasciare Aix e stabilirsi a Marsiglia dove rimase per i successivi trentotto anni. Da quel momento gli scritti riflettono la sua duplice responsabilità: la guida dei Missionari Oblati come superiore generale, e l’amministrazione della Chiesa nella seconda città più grande di Francia.Questo ”viaggio” con S. Eugenio può essere un’opportunità per ciascun membro della famiglia mazenodiana di apprezzare più profondamente le nostre radici.

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di Fabio Ciardi [email protected]

attualità

Presentato a Roma il primo catalogo del Museo etnologico nei Musei Vaticani. Il ruolo dei Missionari OMI

Vaticano

“Una cartolina dal Vatica-no?” Sì, le mie cartoline sono tutte da altri Paesi!

Ma sono sempre cartoline missiona-rie… Anche questa! Ve la mando da un luogo particolare del Vaticano, più propriamente dal Museo etnologico che si trova all’interno dei Musei Vati-cani. Prima si chiamava semplicemen-te Museo missionario. “E gli Oblati cosa c’entrano?” C’entrano e come!Poco tempo fa vi è stata la presenta-zione del primo catalogo del Museo etnologico, che illustra tremila delle

Una cartolina dal…

ottantamila opere lì conservate: uno di quei libri straordinari che fanno sem-pre tanta figura nei salotti. L’evento si è tenuto in un ambiente prestigioso, nientemeno che nella grande sala del-la Pinacoteca dei Musei Vaticani, pro-prio dove è esposta la Trasfigurazione di Raffaello, assieme ad altre opere.Valeva la pena andare anche solo per sedersi davanti al capolavoro di Raf-faello e ammirarlo con calma, quasi a lasciarsi trasfigurare con il Signore stesso. La raccolta del museo iniziò con sei doni d’epoca precolombiana, offerti al Papa nel 1692. Da allora la collezione si è arricchita con sempre nuovi tesori. Sono rappresentati tutti i continenti e tutte le culture.Alla presentazione del catalogo nu-merosi ambasciatori e studiosi, richia-mati dall’evento. Apre la serata il card. Lajola, presidente emerito del Go-vernatorato dello stato della Città del Vaticano, quindi la parola passa al di-rettore dei Musei Vaticani, poi al card. Ravasi e infine al direttore del Museo etnologico.Ravasi richiama i grandi temi della cultura, ripercorrendone la terminolo-gia, dall’humanitas dei latini alla pai-deia dei greci, fino alla parola cultura dei tedeschi del 1500, gradualmente trasformata in concetto antropologi-co. Accenna poi al passaggio dell’im-

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piego di questa parola al plurale, le culture, a significare il superamento della convinzione dell’esistenza di una sola cultura, fondamentalmente quella europea, greco romana, verso il rico-noscimento dell’esistenza di una plura-lità di culture, a cominciare da quella ebraica, dilatandosi sempre più su tut-ta intera l’umanità.

La Chiesa incontra le culture Ravasi non poteva non parlare di come la Bibbia, lungo la sua storia millena-ria, abbia assunto la varie culture dei popoli attorno. Anche la Chiesa gra-zie all’Incarnazione si è aperta su tut-ti i popoli. “Cristo è il Logos - diceva Giustino - e tutti quelli che vivono il Logos, come Socrate, Eraclito e tan-ti altri, sono cristiani”. Entriamo così nel significato più profondo del Museo etnologico: il riconoscimento dell’uni-versalità della Chiesa e il suo rispetto per ogni cultura.Quando esso nacque, in pieno periodo colonialista, Pio XI volle che accanto a Raffaello e Michelangelo ci fosse-ro anche gli aborigeni dell’Australia; forse perché papa Ratti, grazie an-che alla sua esperienza come prefet-to dell’Ambrosiana di Milano era un persona dai grandi orizzonti e interes-si. Non per niente è passato alla storia come il “Papa delle missioni”, come il

grande ammiratore degli Oblati, che definì “gli specialisti delle missioni difficili”.Il Papa fondò il Museo missionario etnologico il 12 novembre 1926, alla chiusura dell’Esposizione Universale Missionaria, che lo stesso Pontefice aveva voluto in occasione dell’Anno Santo del 1925. A quella esposizione contribuirono tutte le società missio-narie. Gli Oblati portarono a Roma da tutto il mondo centinaia e centina-ia di casse con i più vari oggetti, che poi entrarono a far parte del museo. La sezione dell’Esposizione Univer-sale Missionaria riguardante libri e documenti fu affidata a un Oblato, p. Roberto Streit. Arrivarono tavole ge-ografiche, grammatiche e vocabolari delle lingue indigene, catechismi, sto-

rie sacre, commenti teologici, e libri riguardanti la storia della religione, la topografia, l’etnografia dei Paesi di attività missionaria; tutto, al termine dell’Anno Santo, fu donato al Papa e costituì l’inizio dell’attuale Pontificia Biblioteca Missionaria. P. Streit di-venne il primo bibliotecario e da allo-ra la Biblioteca è sempre stata diretta da un Oblato.L’attuale direttore del museo, p. Mapel-li del PIME, illustra il catalogo e par-la della sua nuova ristrutturazione, del collegamento con tanti altri musei nel-le più varie parti della terra, dei viaggi compiuti da lui e dai suoi collaboratori per trovare la documentazione, del bat-taglione di donne che lavorano nei vari laboratori, tutte giovani studiose entu-siaste del loro incarico.Infine ecco finalmente l’inaugurazio-ne delle nuova sede, sempre all’interno dei Musei Vaticani. Gli oggetti danno voce ai popoli, i pannelli raccontano le loro esperienze. Il reperto più antico, una pietra lavorata milioni di anni fa, proviene dal Sudafrica. Ventimila gli oggetti preistorici. Tremila le foto.Il museo è la testimonianza dell’in-teresse, dell’amore, del rispetto della Chiesa per tutte le culture, ossia per l’umanità! È proprio vero quello che diceva Paolo VI: “La Chiesa è esperta in umanità”. n

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di Gianluca [email protected]

attualità

A qualche mese dall’ordinazione sacerdotale p. Giuseppe Calderone condivide le sue sensazioni e racconta della sua vocazione

Vale la vida!

Lo scorso 30 settembre, nella cattedrale di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Calderone

è stato ordinato sacerdote da mons. Francesco Milito, vescovo della diocesi di Oppido-Palmi. Il sacerdozio, per qualcuno, può rappresentare un punto d’arrivo e nel caso di Giuseppe - Pep-pe per tutti quelli che lo conoscono - la conclu-sione di un cammino cominciato nel lontano 14 settembre 2003, al momento del suo ingres-so nella comunità di Marino e che affonda le

“Una storia con Dio che viene da lontano”

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radici in un’esperienza di Dio vissu-ta, a vari livelli, sin da bambino. Se si guarda all’evento dalla prospettiva del-la missione, l’ordinazione sacerdotale è solo un punto di partenza. Peppe è un giovane calabrese di 28 anni. Sta per conseguire la licenza in teologia spirituale, suona la chitarra, è un grande consumatore di libri e di film, ed è un tifoso “doc” della Juven-tus; da un paio d’anni a questa parte, ha anche una grande passione per l’U-ruguay, passione nata con la sua espe-rienza missionaria in America Latina.Da qualche tempo ha abbandonato il mate, (una bevanda tipica dell’America latina, ndr), ma la sciarpa della Cele-ste, la nazionale uruguagia, campeggia sempre sul muro della sua stanza!Lo scorso anno, ero con lui allo stadio Olimpico di Roma in occasione dell’a-michevole Italia-Uruguay (0-1 il ri-

sultato finale) e avrei alcune cose da raccontare, ma questa è un’altra storia...Abbiamo chiesto a Peppe di raccontar-ci dei mesi che hanno preceduto l’or-dinazione sacerdotale, ma anche di parlarci della sua vocazione.

Quali erano le tue sensazioni nel pe-riodo che ha preceduto l’ordinazio-ne presbiterale?L’8 dicembre 2011 ho professato i voti perpetui e a gennaio 2012 sono stato ordinato diacono da mons. Raffaello Martinelli nella cappella della nostra casa provinciale. Sono stati due mo-menti molto intensi, particolarmen-te i voti perpetui, con la definitiva incorporazione, dopo un cammino di sei anni di voti temporanei. Mi sono avvicinato al sacerdozio con il cuore pieno della grazia di questi due eventi. Proprio grazie a questi, che possiamo

chiamare “i passi definitivi”, ho riletto tutta la mia vita e la mia vocazione alla luce del progetto d’amore che Dio ha su di me e di cui spesso non mi sen-to degno. So per certo che molti miei amici, ad esempio, hanno capacità più grandi delle mie, ma in tutto questo mi guidano le parole che Paolo stesso dice di aver ricevuto da Gesù: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolez-za” (2 Cor 12,9).

Come risuona, nel tuo cuore, l’idea di essere un sacerdote missionario?La prima esigenza che sento è vivere personalmente, in maniera sempre più intensa, il rapporto con Gesù. È impor-tante poi, soprattutto per un missiona-rio, portare agli altri Gesù che si lascia incontrare quotidianamente nell’Euca-restia e che viene a dirci il suo Amore

Sopra, p. Giuseppe con unalongeva parrocchiana in posadopo la messa. Nelle foto a fianco, Giuseppe a Marsiglia sulla tombadi S. Eugenio de Mazenode al lavoro nella cappelladi Autodromo in Uruguaycon un gruppo di volontari

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infinito. Per me è stato fondamentale sentirmi amato da Dio in maniera per-sonale e ciò che mi spinge è il deside-rio che anche gli altri siano coinvolti in questa stessa esperienza, che sento di non poter tenere solo per me.

Come è maturata la tua vocazione al sacerdozio oblato?La mia vocazione al sacerdozio si in-nesta in una storia con Dio che viene da molto lontano. Il primo dono che Dio mi ha fatto è stato quello della vita. Non solo la mia, ma anche quel-la di mia madre, che al momento del parto ha rischiato di morire a causa di un problema per cui, a quel tempo, si salvava una donna su mille. Sin da bambino, ho sempre frequentato la parrocchia che, del resto, in un piccolo paese come Oppido Mamertina, rap-presentava l’unico centro di aggrega-zione.Ma a quel tempo non ero io a sceglie-re di andare a messa, andavo, perché i miei mi dicevano di farlo, perché an-

davano i miei amici… una routine in-somma. Contemporaneamente sentivo crescere dentro di me un forte senso di insoddisfazione a causa del periodo non proprio felicissimo che si viveva nel mio paese. Non mi piaceva quello che vedevo intorno a me, avevo sete di qualcosa di grande. Ma non sapevo cosa fosse. Capii tuttavia che, se vole-vo cambiare qualcosa, dovevo comin-ciare da me stesso. Sentivo di dover essere un “dono per gli altri” e questo iniziò a caratterizzare le mie giornate.Nel marzo 2001, insieme a mio fra-tello, mia cognata ed alcuni amici, iniziammo a frequentare le catechesi del cammino neocatecumenale. Ri-tengo questo periodo decisivo per la mia conversione ad una vita di fede più seria e non di “tradizione” come lo

era stata fino ad allora. In particolare credo sia cambiato soprattutto il mio rapporto con la Parola di Dio. Fino a quel momento l’avevo ascoltata sem-pre distrattamente, ma quando iniziai a capire che potevo viverla e non sola-mente ascoltarla, fu una vera rivolu-zione. Nello stesso anno, dal 20 al 28 ottobre, dopo una preparazione di qua-si due anni, i Missionari Oblati di Ma-ria Immacolata, insieme ai giovani del Movimento Giovanile Costruire e ad altri giovani provenienti dai paesi della nostra diocesi, vennero ad Oppido per animare una missione giovanile.Quella missione fu un passo ulteriore verso una maggiore consapevolezza di quanto la fede non fosse qualco-sa di intimistico, bensì da vivere in comunione con gli altri. Ciò che mi

In questa pagina due scatti fatti in Uruguay durante una gita. A sinistra, foto di gruppo e a destra p. Giuseppe con p. Jorge Albergati OMI

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attualità

colpì, infatti, fu il modo in cui Oblati e giovani si volevano bene, stando in-sieme e condividendo la loro esperien-za di fede. Lo stile degli Oblati mi ha spalancato davanti la porta di questa nuova realtà e, insieme, quella della comunità di Marino.Non pensavo ancora alla consacrazio-ne e ancor meno al sacerdozio, anche se la domanda, pian piano, iniziava a farsi strada dentro di me.Le esperienze successive (i primi voti, lo Studentato, gli studi teologici, lo stage in Uruguay) hanno contribuito a far crescere dentro di me la consape-volezza del desiderio di donarmi. “Dio ama chi dona con gioia” (2 Cor 9,7) è una frase-chiave della mia esperien-za. E quale donazione più grande può esserci se non essere sacerdote obla-to? Sacerdote, quindi, nell’oblazione di sé senza riserve, scelta al momento dei voti perpetui e meditata durante gli anni della mia formazione, in cui mi sono sentito protagonista del cammi-no, sia nei momenti belli che in quel-li di difficoltà. Ho sempre sentito che Dio mi chiamava a mettermi di fronte alla sua volontà e non mi lasciava mai

solo, né in balia degli eventi o, peggio, di ciò che gli altri avrebbero potuto de-cidere per me.

Chi ti ha incontrato negli ultimi due anni ha potuto verificare quanto sia cambiata la tua vita dopo l’esperien-za in Uruguay. Abbiamo già detto della sciarpa della Celeste nella tua stanza... Ma cos’ha significato per te vivere otto mesi in America Latina?L’Uruguay è un Paese abbastanza par-ticolare, perché, pur essendo in Ame-rica Latina, un continente con un forte senso religioso, si professa apertamen-te laicista, con conseguenze abbastan-za evidenti nella partecipazione alla vita religiosa. Ho trascorso i miei otto mesi in una comunità oblata a 10 km dalla capitale, Montevideo, occupan-domi di un gruppo di giovani della parrocchia, che poi ho accompagnato al sacramento della confermazione. Oltre alla vita ordinaria nella parroc-chia, in cui ho esercitato il mio mi-nistero di accolito, ho vissuto anche molti altri momenti di intensa vita missionaria. In Uruguay, così com’era stato prima in Italia, ciò che mi ha se-

gnato tanto è stata l’esperienza comu-nitaria, che lì si vive in un modo molto profondo, sia per il numero limitato di persone, rispetto all’Italia, ma soprat-tutto perché si crede profondamente nell’esperienza di sentire Gesù presen-te in mezzo a chi vive la comunità.Un altro elemento importante dei mesi trascorsi in America Latina è stato valorizzare ulteriormente la mia esperienza di fede. Mi è capitato di in-contrare persone che, private del rap-porto con Dio, vivono una vita senza quella speranza che deriva, appunto, dalla fede in Qualcuno o in qualcosa che va oltre noi. Ho cercato di parti-re, sempre e comunque, da relazioni personali che non rimanessero ad un livello superficiale, ma che potessero approdare quantomeno a porsi delle domande su Dio. È un lavoro che ha bi-sogno di tempo, ma è quello che siamo chiamati a fare.Ed è stata proprio questa esperienza ad aprirmi gli occhi sull’importanza di vivere con Cristo e di farlo conosce-re agli altri, e questo vivere con Lui, come si direbbe in Uruguay “no vale la pena, vale la vida”! n

Giovani nelle case di formazione oblate in ItaliaLa comunità dello Scolasticato di Vermicino-Frascati, il seminario dei Missionari OMI nei pressi di Roma, è attualmente costituita da dieci scolastici di

nazionalità italiana, spagnola, senegalese e ucraina. Due scolastici sono in stage in Senegal e Uruguay, mentre p. Giuseppe Calderone vive quest’ultimo anno di seminario nella vicina comunità di Marino laziale. Gli scolastici studiano teologia all’Università lateranense

di Roma, due sono impegnati nel corso di Licenza in teologia. Insieme agli studi prestano il loro servizio pastorale in alcune parrocchie dei Castelli romani, al carcere di Rebibbia e partecipano al progetto Mondi Riemersi e ad alcune missioni al popolo in Italia. L’età media degli scolastici è di 29,3 anni. Il superiore allo Scolasticato è p. Gennaro Rosato ([email protected], tel. 06 7265 0353).Nella comunità giovanile di Marino laziale (Roma) sono invece presenti sette giovani: uno in noviziato, due in prenoviziato e quattro al Centro giovanile. Provengono da Calabria, Campania, Lazio, Veneto e Piemonte. Il superiore della comunità è p. Salvo D’Orto ([email protected], tel. 06 938 7300).

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di Giacomo Coluccio

attualità

Tre giorni di animazione missionaria con gli immigrati senegalesi nel soveratese, in provincia di Catanzaro

Conoscersi

Sono le otto di un mattino di metà ot-tobre. Enza, dell’equipe missionaria dell’Associazione Missionaria Maria

Immacolata (AMMI) di Catanzaro, si chiede da dove cominciare per consentire a p. An-dré Ndene OMI e a Marcel Sarr, scolastico oblato, di incontrare la comunità senegalese presente a Davoli, comune a 30 km da Ca-tanzaro. In passato altre volte si era tentato un avvicinamento, ma senza grandi risulta-ti: i senegalesi vivevano con grande dignità, non avevano mai chiesto aiuti economici in parrocchia, a differenza di altri gruppi, ma erano isolati. Stavolta, forse, era il momento giusto: nella vicinissima Soverato era gior-no di mercato, dove i senegalesi espongono le loro bancarelle. Così decide di accompa-gnare p. André e Marcel al mercatino. Una grande gioia ha animato il mercato quando i senegalesi hanno sentito qualcuno che si ri-volgeva loro in lingua wolof. Questa gioia ha

per superarei preguidizi

Dakar

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Conoscersi

riempito il cuore di tutti noi animatori e ci ha accompagnati nei tre giorni di animazione missionaria. Ha fatto ca-dere le nostre ansie e paure.Da giorni cercavamo contatti e strade per avere la possibilità di un incontro. Avevamo riflettuto, avevamo cercato di programmare tante cose anche nei particolari, ma poi, quando era stato necessario cambiare il programma e spostare il primo appuntamento della giornata, Dio aveva indicato la strada da percorrere!

La genesiCome è nata questa tre giorni missio-naria? In una forma un po’ inusuale. Per molti anni l’AMMI aveva animato nell’arcidiocesi di Catanzaro-Squil-lace la veglia in occasione della Gior-nata missionaria mondiale, ma da due

anni non vi era alcuna iniziativa. Non volevamo che anche quest’anno l’ot-tobre missionario fosse ricordato solo con la raccolta durante le messe. Altre motivazioni ci hanno mosso: a ottobre di quest’anno aveva inizio l’Anno della fede, proclamato da Benedetto XVI, si ricordava l’apertura del Concilio Va-ticano II e si svolgeva il Sinodo sulla Nuova evangelizzazione. Erano tutti appuntamenti importanti, che la nostra comunità missionaria voleva ricordare a sè stessa e in diocesi, in modo spe-ciale, per rafforzare la propria fede do-nandola. Se la nuova evangelizzazione ha bisogno soprattutto di testimoni d’amore, noi dovevamo cominciare dal nostro piccolo, dall’ambiente in cui viviamo con le nostre famiglie, in cui lavoriamo. Così, in collaborazione con don Gregorio Montillo, vicario espi-

scopale per la zona pastorale sud della diocesi, è nato questo progetto, che po-tremmo definire di incontro tra cultu-re, persone e religioni, per conoscere e così superare i pregiudizi, per costrui-re una società più giusta, dove noi cri-stiani possiamo essere riconosciuti per come sappiamo stare insieme.

Disponibilità e dialogoNell’invito, scritto in lingua wolof, oltre che in italiano e francese, rivol-to alla comunità senegalese e a quella italiana e distribuito per le strade e nei locali pubblici, si parlava proprio di unirsi in un’occasione di comunione.I momenti da raccontare sarebbero stati tanti. Dai tipici strumenti delle missioni al popolo: visite nelle case dei senegalesi, incontri con gli adulti e con i giovani, incontri nelle scuole. Alla

In apertura un momento della veglia del 21 ottobre, Giornata missionaria mondiale.In alto i giovani con Marcel Sarr OMI, don Gregorio Montillo e p. André Ndene OMI, Sotto, don Gregorio, p. André Ndene OMI, Marcel Sarr OMI e Giacomo Coluccio con i rappresentanti della comunità senegalese

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Alcuni rappresentati della comunità senegalese hanno incontrato sia i giovani che gli adulti della città.Un momento di confronto e di scambio necessaio per capire e condividerevita e necessità di ciascuno

presenza dei due missionari senega-lesi, che hanno raccontato di sé, della loro terra, ma soprattutto del bisogno che hanno sentito di fare una scelta di vita radicale. Accanto a loro anche Claudia Sarubbo, giovane della nostra comunità, che è stata, per un breve, ma intenso periodo in Senegal. An-che questa presenza ha fatto nascere un clima di disponibilità tra i presenti.Altrettanto significativo nell’incontro con i giovani e nella veglia, è stata la presenza attiva di giovani del Movi-mento giovanile Costruire (MGC).C’è stata particolare emozione du-rante l’incontro con gli adulti della parrocchia di Davoli Marina, quando nella sala piena sono entrati alcuni se-negalesi, che si sono seduti davanti, nei pochi posti liberi. Un loro rappresen-tante è intervenuto in lingua wolof e p. André ha tradotto. Anche l’attenzione dei presenti è aumentata e l’incontro si è vivacizzato. Sono emerse alcune delle cause di carattere anche sociale che hanno reso difficili i tentativi di stabilire rapporti umani migliori tra le due comunità. Anche i senegalesi han-no riconosciuto che il passo in avanti fatto non poteva essere lasciato cadere e bisognava creare altre occasioni per

Per molti decenni la meta storica dell’emigrazione

senegalese è stata la Francia. Dopo i due grandi flussi migratori nell’antico Paese colonizzatore, nei periodi successivi alle due guerre mondiali, l’emigrazione senegalese in Europa ha avuto altre mete tra cui l’Italia. Lo attesta un’inchiesta condotta nel 2008da Silvia Lencioni dell’Università di Pisa.A partire dagli anni ’80 si registra una crescitadi immigrati del Senegal attratti dal nostro Paese soprattutto per la facilità di ottenere un permessodi soggiorno, per la mancanza di controlli stretti e ancora per la possibilità di lavorare, anche senza

alcun tipo di contratto.È soprattutto la gente di etnia wolofa muoversi verso l’Italia dove all’inizio il lavoro era soprattutto nel commercio ambulante. Secondo i dati della Caritas italiana le associazioni senegalesi in Italia, sono, numericamente, al primo postotra le associazioni di immigrati presentinel nostro territorio.L’inchiesta della Lencioni contiene anchedati sull’esistenza di comunità senegalesiin altri Paesi europei, in particolare la Spagna dove sono approdati soprattutto artigianie commercianti e la Germania che si è rivelata, invece, meta di sportivi e artisti. (P.C.)

L’emigrazionesenegalese in Italia

attualità

proseguire su questa strada. Don Gre-gorio Montillo ha sottolineato alcuni valori comuni emersi come la famiglia e l’accoglienza, ma non ha nascosto le difficoltà del cammino. Tutti, comun-que, hanno espresso disponibilità per promuovere altre iniziative.Molta cura è stata dedicata alla veglia del sabato sera. I segni volevano ricor-dare oggetti di particolare significa-to per i senegalesi: il baobab, l’albero della vita, di cui niente va perduto; la barca, che per i senegalesi è simbolo di salvezza della loro nazione, il Senegal (“la mia barca”), l’acqua, memoria del battesimo, il mappamondo con le ban-diere di tutto il mondo, unito dall’amo-re di Cristo.Erano presenti due folti gruppi di Da-voli e S. Andrea apostolo dello Ionio e rappresentanti delle altre parrocchie della forania, cui è stato dato un man-dato missionario per stabilire una rete di rapporti con le comunità straniere presenti in parrocchia. Il messaggio finale per tutti (scritto anche in wo-lof) è stato: “Ecco come è bello e dol-ce che i fratelli vivano insieme” (Sal. 133). È il messaggio che portiamo nel cuore e che guiderà le nostre prossime iniziative. n

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Giovanni Paolo II, il 22 agosto 1997, nel corso della XII Giornata Mondiale della Gioventù, dichiarava beato Federico Ozanam, un grande laico profonda-

mente cristiano e fondatore della Società di S. Vincenzo de’ Paoli. Nato a Milano il 23 aprile 1813, ma vissuto in Francia dall’età di due anni, fu sposo e padre di famiglia, professore universitario, riformatore sociale e amico dei poveri.Le sue Conferenze della Carità ebbero inizio il 23 aprile del 1833 a Parigi, quando Federico, che aveva allora solo venti-quattro anni, si mise alla testa di sei compagni d’università, impegnandoli in un movimento che in pochi anni si diffuse in tutta la Francia, ma anche a Roma, Londra, Monaco di Baviera, Bruxelles e Algeri. «Vorrei rinchiudere il mondo in una rete di carità», aveva detto un giorno.A Marsiglia il movimento ebbe inizio il 31 maggio 1844, quando otto giovani, fra cui due avvocati e un medico, si riunirono per fondare una Conferenza. Fra il clero ci fu una certa diffidenza: i parroci non ritenevano opportuno aggiungere un’altra opera a quelle già presenti. Temevano di disperdere le forze e di stancare la generosità dei fede-li. Inoltre, si stentava ad accettare che l’associazione fosse diretta da un laico e che fra le sue fila non fossero accettati sacerdoti.Mons. de Mazenod, alla testa della diocesi dal 1837, si mo-strò molto più favorevole del suo clero e si disse felice di ap-provare l’opera, promettendo “aiuto, assistenza e consigli”. Gli Oblati, da parte loro, acconsentirono a mettere a disposi-zione di questi giovani la cripta della missione del Calvario per la loro riunione settimanale. Ben presto offrirono anche la sala capitolare, meno umida e più adatta.

L’8 dicembre, sei mesi dopo la fon-dazione, 17 nuovi membri si aggiunse-ro ai primi. In quell’oc-casione mons. de Mazenod presiedette l’assemblea generale e raccomandò caldamente la Conferenza ai suoi preti, facendo svanire le loro paure. Marsiglia fu così conquistata dal movimento: nel 1846-1847 gli effettivi passarono a 230 persone e il numero di famiglie visitate si elevò a 284. A Aix, p. Hippolyte Courtès OMI, offrì anche lui la sua piena collaborazione alla Conferenza del posto e mise a disposizione dei membri “la sua persona, la sua casa e coloro che l’abitavano”. Soleva ripetere: «Se un giorno questi signori non avessero più nulla da dare ai pove-ri, mi toglierei il pane di bocca per darlo a loro». Aggiungia-mo, a titolo d’informazione, che la Società di S. Vincenzo de’ Paoli conta oggi circa 50mila Conferenze, mediamente costituite da 15-20 persone ciascuna e presenti in 141 paesi e territori, dove è impegnata a sostenere progetti in tutti i campi del sociale. n

storia di storie

Federico Ozaname gli Oblati di Maria Immacolatadi André Dorval OMI - tradotto e adattato da Nino Bucca OMI

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PadrePino

Puglisiun martire cristiano

del nostro tempo

di Luigi Mariano Guzzo

dossier

Intervista a mons. Vincenzo Bertolone, arcivescovo metropolita di Catanzaro-Squillace, postulatore della causa di canonizzazione

Il 28 giugno 2012 Benedetto XVI ha autorizzato la Congregazione per le Cause dei Santi a promulgare il decreto sul martirio in odium fidei. In che cosa consiste il martirio di questo sacerdote? Perché

don Pino, oltre ad essere un testimone sociale, come Borsellino, Falco-ne, Dalla Chiesa, è anche e soprattutto un santo dei nostri giorni?La differenza tra la morte di p. Puglisi e quella di altre vittime della mafia è chiara: mentre giudici, poliziotti e altri servitori dello Stato pongono a fondamento delle proprie azioni il dovere, la coerenza, l’obbedienza indi-scussa alla legge, chi ha fatto della missione cristiana il proprio fulgido co-dice deontologico risponde sì alle leggi dello Stato, ma in primis a quella di Cristo: l’amore di Dio e del prossimo. Giuseppe Puglisi è martire cristiano, perché è andato incontro alla morte per essere fedele al suo ministero di prete. Egli è stato un testimone del suo tempo, perché si è fatto carico di tut-te le ingiustizie alle quali gli abitanti di Brancaccio erano da anni sottoposti dalle cosche mafiose, da un lato, e dall’indifferenza totale delle Istituzioni dall’altro. Fu un missionario, e come ogni missionario sapeva che la sua stessa presenza, di per sé sola, era motivo di scandalo. E chi versa il proprio sangue per questo, in nome di Cristo e per il suo Vangelo, è un martire.

Si ringrazia il Centro diocesano vocazioni dell’arcidiocesi

di Palermo, per la concessione di alcune foto pubblicate

in questo articolo

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Lei ha molte volte sottolineato che don Puglisi più che un sacerdote “con-tro e anti” sia stato un prete che ha vissuto in pienezza il suo ministero sacerdotale. È una santità feriale quella di don Pino, innestata nel suo essere parroco. Che cosa privilegiava nella sua attività di pastore?A Brancaccio don Puglisi non si sente un eroe e la sua azione ha un sa-pore inconfondibilmente evangelico. La quotidianità semplice della pastorale della Chiesa è la cifra del suo ministero: il Vangelo che egli cerca di annunziare e vivere, il Crocifisso che ha scoperto come motivo ispiratore della ortodossia e dell’ortoprassi; il Padre che ama presentare nelle sue conversazioni, scardina e quindi rende improponibile il “pa-drino”, la cui figura più che derisa, ne è annientata. Puglisi è un prete che fa il suo lavoro amministrando i sacramenti, preparando i bambini alla prima comunione, i genitori al battesimo dei figli, le giovani coppie al matrimonio. Si impegna in tutte le opere di misericordia. E col suo esempio ai sacerdoti dice: agite sempre con semplicità, non per affer-mare pur nobili ideali civili, bensì per amore di Cristo ed in nome del Vangelo, perché soltanto dove la croce di Cristo e l’autodonazione sono il criterio della vita, il seme del Vangelo cresce, le coscienze maturano

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IL RICORDO DI UN MISSIONARIO OBLATO DI MARIA IMMACOLATACHE HA LAVORATO A STRETTO CONTATTO CON P. PINO PUGLISI

DI SERGIO NATOLI OMI

Quando sento parlare di don Pino Puglisi, nella maggior parte delle testate giornalistiche, si racconta del suo servizio nel quartiere di Brancaccio. Tranne qualche libro scritto su di lui, pochi riescono a fornire un profilo che tocchi i suoi 56 anni e non solo i tre anni da parroco di S. Gaetano. Desidero offrire la mia esperienza e la mia personale lettura di alcune fasi della sua vita, dato che ne sono stato amico, confidente e collaboratore diretto dal 1983 al 1990.

UNA LUCE POSTA SUL MOGGIO

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di amore nel nome di Cristo. Questa stagione è la profezia di don Giuseppe Puglisi: il suo sangue innocente, spe-cialmente per la Chiesa palermitana, è stato come una trasfusione, una sorta di trapianto vitale fautore di un deciso, rinnovato approccio al fenomeno ma-fioso e, quindi, per una decisa ricerca degli strumenti ecclesiali e pastorali più idonei a misurarsi con esso. La sua fulgida icona, oltre ad aver risvegliato le coscienze addormentate, continua ad additare ai credenti e agli uomini

Il martirio di don Puglisi è denso di fu-turo, perché quella morte così tragica e dolorosa è oggi un seme insuperabi-le di vitalità e un esempio glorioso di quella Ecclesia militans che prepara sulla terra la Gerusalemme celeste. Sopprimendo fisicamente il sacer-dote palermitano, i mafiosi volevano distruggere la fede che ne animava le azioni, volevano tacitare quella voce che gridava e richiamava tutti, anche i mafiosi, alla conversione, all’avvento di una stagione di pace, di fratellanza,

e si diventa annuncio, testimoni e profe-zia anche senza profferir parola.

Nel suo ultimo libro La sapienza del sor-riso (Paoline 2012) lei scrive che “da un seme che è morto stanno maturando mi-gliaia di spighe”. In effetti don Puglisi con la sua testimonianza riscrive quella pagina evangelica del chicco di grano che caduto a terra muore e produce mol-to frutto (cfr. Gv. 12, 20-33). Quali sono queste “migliaia di spighe” che stanno maturando?

La prima volta che incontrai don Pino Puglisi fu ad una riunione del Centro Nazionale Vocazioni (CNV), di cui ero membro, nel 1981. Fu mons. Pizzo ad introdurlo a tutta l’èquipe. In quel periodo lavoravamo alla realizzazione della Mostra vocazionale che portava il titolo Sì! Ma verso dove?.Gli incontri di studio, riflessione comune e programmazione del CNV, erano sempre molto positivi, propositivi ed arricchenti. La diversità dei vari doni naturali, delle vocazioni specifiche della Chiesa lì rappresentate e la stessa preparazione culturale e pastorale di ciascuno, non erano un ostacolo, ma una ricchezza, segno visibile dell’unica Chiesa.In una delle riunioni del CNV dell’inizio del 1983 comunicai a don Puglisi di aver avuto un trasferimento nella

UNA LUCE POSTA SUL MOGGIO

Giuseppe Puglisi nasce nel quartiere Brancaccio di Palermo. Il 15 settembre del 1937 i suoi genitori, Carmelo e Giuseppa Fana, lo vedono nascere e nel 1993,

stesso giorno e stessa borgata, è ucciso da Salvatore Grigoli assistito da Gaspare Spatuzza mandati da due mafiosi, Filippo e Giuseppe Graviano, che oggi scontano l’ergastolo proprio per quell’omicidio. Giuseppe Puglisi dopo essere stato ordinato sacerdote nel 1960 dal cardinale Ernesto Ruffini, strada facendo si è guadagnato la terza “P” di padre Pino Puglisi (padrepinopuglisi.diocesipa.it) ed il 25 maggio prossimo sarà beato. Tra le esperienze più significative come parroco quella di Godrano dove, tra il 1970 ed 1978,

si è impegnato per la riconciliazione delle due famiglie coinvolte nella faida che aveva lacerato il paese. Insegnante di matematica e religione a partire dal 1962, nel 1978 è pro-rettore del seminario minore di Palermo e nel 1980 comincia a collaborare nella pastorale vocazionale con incarichi a livello regionale e nazionale. Ai giovani propone i percorsi formativi dei “campi scuola” e diviene animatore di diversi movimenti ed associazioni cattoliche.Il 29 settembre 1990 è nominato parroco a S. Gaetano a Brancaccio. In questo quartiere socialmente e moralmente distrutto, dove la mafia ha il suo peso, nel 1993 “3P” apre il centro ‘Padre Nostro’ per offrire ai ragazzi un orizzonte alternativo. (Elio Filardo)

“3P”Chi era

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di buona volontà la via della speranza e della salvezza, attraverso i sentieri della solidarietà e della fratellanza nel nome del Vangelo.

Lei parla di “sapienza del sorriso”. Il sor-riso ha caratterizzato il martirio di don Puglisi, come se il sacerdote palermita-no fosse consapevole che quegli attimi di angosciosa agonia erano di preludio alla beatitudine eterna. È questa la sapienza del sorriso? Il suo messaggio può aiutare credenti e non credenti a vivere una esi-stenza autenticamente felice?La sapienza del sorriso di don Puglisi - e di altri Servi di Dio: basti citare papa Luciani - proviene dall’interiorizzazio-ne di Cristo e del suo messaggio. Chi vive pienamente questa trasformazione restituisce la buona notizia con atteg-giamento gioioso, fidente. Con il sorri-so sulle labbra, appunto. In don Puglisi il sorriso rivelava ciò che di prezioso, gioioso e santo custodiva nel cuore. Non poté, certo, la morte - peraltro già messa in conto - cancellargli dalle labbra an-

che post mortem quel tesoro che aveva trovato in Cristo Gesù. Quel sorriso, scorto non soltanto dal killer sulla boc-ca, vittima immolata, è oggi il segno di una primavera ecclesiale che deve sboc-ciare ancora del tutto.

Puglisi è stato un vero e proprio missio-nario nel portare la Parola di Dio in terre depresse socialmente e culturalmente dal giogo della pressione mafiosa. Ed è nel-la sua ansia di rievangelizzazione che ha trovato il martirio. Qual è l’insegnamento che don Pino affida ai sacerdoti, alle suore, ai laici che sono in terra di missione, vicine o lontane che siano?Don Puglisi rappresenta un vero segno per la comunità cristiana, nell’Isola e altrove, in quanto mostra la strada cor-retta per affrontare il fenomeno ma-fioso: quella di una pastorale attenta ai deboli, diretta ai bambini e ai giovani per non lasciarli inermi prede della proposta mafiosa; una pastorale corag-giosa e pacifica, che non usa formu-le politiche, ma che parla al cuore di

quanti sono irretiti in disegni malvagi. La sua testimonianza va resa eloquen-te, in quanto preziosa per tutta la Chie-sa ed in particolare per quelle Chiese che si confrontano con il problema del-le organizzazioni criminali più o meno segrete. Puglisi, col suo esempio, invi-

comunità religiosa dei Missionari OMI di Palermo. Gioì immediatamente. I suoi occhietti esprimevano chiaramente un entusiasmo semplice. “Sei il benvenuto! Il Signore ti aspetta. Ha bisogno anche di te. Vedrai che insieme faremo cose belle”.Tale augurio si rivelò una realtà. Sapendo che avevo partecipato a tutte le fasi della Mostra vocazionale Sì! Ma verso dove? e che avevo avuto la responsabilità dell’esposizione di Assisi, mi “ingaggiò” prima del tempo per collaborare con il Centro Diocesano Vocazioni (CDV) di Palermo ed in particolare per l’animazione della medesima mostra che, a partire dal mese di ottobre 1983, si sarebbe svolta nel palazzo arcivescovile, messo a disposizione dal card. Salvatore Pappalardo.Il 29 settembre 1983 giunsi a Palermo, dove rimasi fino a settembre 1990. Il primo incontro con don Puglisi a Palermo lo ebbi verso la metà di ottobre proprio nel palazzo arcivescovile dove ero andato per vedere come

fosse stata sistemata la mostra vocazionale. Fu subito festa! Un fraterna festa, fatta ad un amico di sempre, di ritorno da un lungo viaggio. Ci fermammo insieme a pregare nella cappella del palazzo arcivescovile. Lì ebbi la netta sensazione che Dio, attraverso di noi avrebbe potuto compiere quelle “cose belle” di cui mi aveva detto a Roma. Ebbi chiaro che per l’Amore reciproco che ci legava, “avrebbe fatto di Cristo il cuore del mondo”.Al primo incontro del CDV conobbi Agostina, don Gianni dei Passionisti, don Agostino Ziino, p. Carlo Aquino, la famiglia Porcaro ed altri. In quei primi incontri al CDV perfezionammo l’inserimento della mostra all’interno della grande Missione popolare indetta e voluta dal card. Salvatore Pappalardo e come percorso esistenziale da offrire alle scuole della città. Ogni giorno centinaia di giovani salivano le scale del palazzo arcivescovile, per visitare la mostra vocazionale. Io impegnavo due o tre mattinate alla settimana nell’animazione.Fu interessante il giorno in cui don Puglisi scoprì le mie

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scritta nel disegno imperscrutabile di Dio. Il card. Romeo pensa di affidarmi la Causa durante la celebrazione euca-ristica a Cassano allo Jonio (Cs) in oc-casione della festa di S. Biagio, patrono della diocesi. A noi credenti, se davve-ro credenti, Cristo Gesù insegna che

cettare l’incarico di postulatore per la causa di don Pino Puglisi. In meno di due anni don Pino viene riconosciuto martire. Che cosa significa per Lei ac-compagnare agli onori degli altari que-sto santo sacerdote?Io non ho alcun merito: ogni cosa è

ta a mostrare a se stessi e soprattutto ai giovani che vale la pena di lottare per poter cambiare, per migliorarsi, per convertirsi e convertire.

Nell’agosto 2010 il cardinale Romeo, arcivescovo di Palermo, le chiede di ac-

doti di cantautore. Tale scoperta lo entusiasmò ancora di più. Il linguaggio della musica moderna a cui erano sensibili i giovani, permetteva di raggiungere il cuore dei ragazzi. Il suo entusiasmo non era strumentale. Don Puglisi apprezzava profondamente ed accoglieva con grande semplicità il mio modo di esprimermi che era molto diverso dal suo. Da quel giorno, ogni qualvolta c’era qualche iniziativa a favore dei giovani, don Puglisi mi ricordava sempre di portare con me la chitarra.In lui non c’era gelosia. Non ci teneva ad essere o apparire “il primo della classe”. Dare spazio a ciascuno era uno stile di vita. Una sua conquista culturale. Solo Dio conosce tutte le volte in cui don Puglisi si è messo da parte per far parlare la mia chitarra, o un altro animatore, perché riteneva che in quel momento l’annuncio avrebbe avuto una maggiore incisività sui destinatari. E il “mettersi da parte” avveniva al momento giusto. Era come se fosse un direttore d’orchestra che sa quando deve intervenire uno

strumento o l’altro. Don Puglisi aveva questa capacità di costruire armonia con le persone ed i talenti di ciascuno. Una delle espressioni ricorrenti era “tutti non possiamo fare tutto, ma se ciascuno fa qualcosa, il mondo può cambiare”. Nel CDV gli incontri di verifica erano una tappa importante che precedeva ogni ulteriore programmazione. “3P”, come familiarmente lo chiamavamo, non esitava a lasciarsi mettere in discussione, ad accogliere, a fare così come era stato deciso da tutti, perché a tutti interessava “fare di Cristo il cuore del mondo”. La Mostra vocazionale era ormai un centro di gravitazione. Intere classi scolastiche venivano quotidianamente. L’animazione della mostra era affidata a delle équipes composte sempre da un sacerdote o un religioso, una religiosa, da laici e dei giovani. Don Puglisi era molto impegnato anche nella Missione popolare. Con lui programmavamo incontri per i giovani

Don Pino Puglisi, vittima della mafia, nel film è interpretato da Luca Zingaretti. È

ambientato a Palermo, nel quartiere Brancaccio. Don Puglisi è il sacerdote della chiesa del quartiere e si accorge ben presto di una dura verità: i bambini della zona sono coinvolti nella malavita e molti hanno dei genitori mafiosi. Don Puglisi cerca quindi di cambiare la situazione, dicendo loro di andare a scuola, in chiesa e di non rubare. Ai ragazzi piace andare a trovare don Puglisi in parrocchia: è infatti un momento in cui si possono sfogare giocando, per esempio a calcio. I genitori mafiosi, al

contrario, sembrano non gradire gli insegnamenti di don Puglisi: per esempio, a un ragazzino di nome Domenico viene impedito di frequentare la parrocchia e addirittura, quando disubbidisce, viene frustato dal padre. Don Puglisi manda comunque dei messaggi chiari ai mafiosi di Palermo, facendo dei discorsi nella piazzetta della chiesa, ma non viene ascoltato praticamente da nessuno. Il suo messaggio per i cosiddetti uomini d’onore era di presentarsi “alla luce del sole” e di non agire nell’ombra. Don Puglisi si rende allora conto di essere in pericolo e che potrebbe essere ucciso in qualsiasi momento. Infatti, il giorno del suo 56º compleanno, viene ucciso per strada. Le ultime parole da lui pronunciate sono state: “Vi aspettavo”. Nell’ultima scena, in cui viene celebrato il funerale, sono presenti tutti i bambini della parrocchia che lasciano un pensierino per lui sopra la bara.

del soleAlla luce

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Nella foto Luca Zingarettiin una scena del film

di Roberto Faena, uscito nel 2005

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nelle parrocchie del settore. Molti incontri avvenivano a tavola, nella nostra comunità missionaria. Ha voluto conoscere meglio i singoli padri della comunità, amava informarsi sull’esperienza carismatica del nostro fondatore e lo sviluppo dell’Istituto. Non smetteva di essere aperto ai doni di Dio per la Chiesa.La sua azione pastorale non è stata un’opera di un navigatore solitario, ma l’azione della Chiesa composta da persone di vocazioni diverse. È in questo contesto di ecclesialità che dal 1984 offrivamo ai giovani momenti intensi di preghiera con ritmo mensile. Arrivammo fino a 600 presenze. Con queste iniziative si era molto attenti alla formazione delle coscienze attraverso l’ascolto e l’accompagnamento individuale. Tutto quanto veniva proposto aveva sempre l’impronta della comunione dei carismi presenti nella Chiesa di Palermo.È nella formazione delle coscienze, che si può ricondurre, come privilegiata, l’attività pastorale

svolta dal Servo di Dio don Pino Puglisi, che sarà beatificato il prossimo 25 maggio 2013. Un’attività che ha pervaso tutto il suo ministero sacerdotale e non solo gli ultimi tre anni trascorsi come parroco nel quartiere Brancaccio. Non sono pochi i racconti di don Pino insegnante di religione al Vittorio Emanuele II. Molti giovani hanno scoperto o riscoperto la fede cristiana attraverso l’accompagnamento individuale ed il suo modo semplice di “essere con” loro. Per questa sua attenzione alle persone il card. Pappalardo gli affidò un’esperienza di accompagnamento e discernimento vocazionale di un gruppo di giovani. Tra loro vi era anche l’attuale vescovo ausiliare di Palermo, mons. Carmelo Cuttitta, suo parrocchiano a Godrano (Pa) da quando aveva otto anni.Don Pino, già da parroco di Godrano, dal 1970 al 1978, aveva svolto un’azione evangelizzatrice capillare di casa in casa, con l’ausilio dei cristiani appartenenti al movimento Presenza del Vangelo. Attraverso

ogni nostra azione deve essere guida-ta dalla fede, condita dalla carità e ri-scaldata dalla speranza. E poi pregare, pregare Dio e sempre. La preghiera è una chiave capace di aprire ogni chia-vistello, anche vecchio e arrugginito. Comunque, sul terreno e nel processo delle cose, il tempo, il mutato sentire, una più attenta coscienza - all’interno ed all’esterno della Chiesa - hanno reso possibile ciò che per tanti anni non era sembrato tale. Non dimentichiamo, so-

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l’annuncio delle beatitudini evangeliche con la formazione delle coscienze individuali e familiari, era riuscito a compiere un’azione di pacificazione sociale in un paese che da anni era permeato da lotte, faide ed omicidi.È a Brancaccio (dal 1990 al 1993) che don Pino Puglisi fa l’esperienza dello scontro con un ambiente ad alta densità mafiosa. È qui che emerge l’audacia dell’apostolo che non lascia nulla di intentato pur di arrivare ad illuminare e formare le coscienze a cominciare dai bambini. Afferma il nostro vescovo nella sua lettera pastorale: “La Chiesa vivendo pienamente incarnata nel territorio insieme con gli uomini di buona volontà, si scontra con tutti i micro e macro-fenomeni legati alla criminalità di stampo mafioso - che non si esauriscono solo nell’organizzazione di Cosa nostra e delle sue filiali, ma si radicano innanzi tutto in una cultura diffusa del fatalismo, della diffidenza verso lo Stato,

dell’indifferenza verso il bene comune: un vero e proprio sottobosco culturale che dilaga e risulta devastante più di quanto noi possiamo immaginare”.Come Gesù don Pino Puglisi ha preferito pescare con la canna da pesca, anziché con la rete. I dodici apostoli “pescati” da Gesù sono divenuti il fondamento della Chiesa. Don Pino Puglisi mi ha lasciato il senso di Cristo e della Chiesa comunione.Un altro martire, il Servo di Dio p. Mario Borzaga OMI, ucciso a 28 anni nella missione del Laos insieme al suo catechista diciottenne Paolo Xyooj ha scritto: “Noi missionari siamo fatti così: il partire è una normalità, andare una necessità. Domani le strade saranno le nostre case; se saremo costretti ad ancorarci ad una casa, la trasformeremo in una strada a Dio”. Adesso anche per il ‘ragazzo di strada’ che premette il grilletto, si apre un cammino di conversione, che con l’aiuto del beato don Pino Puglisi potrà farlo camminare sulla strada che lo condurrà a Dio.

battesimo del sangue. È una gloria che apre direttamente le porte della Gerusa-lemme celeste. Ed è per questo che nella disciplina canonistica, nel momento in cui la Chiesa decreta il martirio non c’è bisogno del miracolo come attestazione delle virtù eroiche per procedere alla be-atificazione. Don Pino sarà presto beato. Come si sta preparando la diocesi di Pa-lermo a questo evento?Quando Paolo, rivolgendosi ai con-fratelli nella fede della Chiesa di

Corinto affronta l’argomento dei “ca-rismi più grandi” e apre alla “via mi-gliore di tutto” (1 Cor 12, 31), vuole convincerli della bontà, dell’effica-cia della condivisione, dell’annuncio, della donazione totale di sé agli al-tri, in nome di Gesù, che arriva fino all’offerta della propria vita, proprio per testimoniare Cristo nel “Battesi-mo del sangue effuso”. Per questo la Chiesa non chiede un miracolo.P. Puglisi è un martire per aver dife-so senza esitazioni la fede, per aver osato portare il Vangelo in un con-testo ad altissima densità mafiosa. Sarà beatificato nella mattinata del 25 maggio 2013: il suo esempio dà luce alla Chiesa palermitana (ed all’inte-ra Chiesa siciliana), che, sono certo, si sta preparando all’appuntamento come meglio non potrebbe, calenda-rizzando eventi di approfondimento e momenti di preghiera e riflessione perché p. Puglisi diventi, senza più re-more, patrimonio della speranza uni-versale. n

prattutto, che gli ultimi due Pontefici, papa Benedetto XVI e il beato Giovan-ni Paolo II, hanno avuto parole chiare ed inequivocabili sulla incompatibilità tra mafia e Vangelo. Da parte mia ho portato il mio piccolo contributo nella fase finale dell’iter della Causa. Prego p. Puglisi, perché mi sostenga nel mio servizio apostolico.

Il martirio fin dalla Chiesa delle origi-ni è considerato un secondo battesimo, il

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Una camminata di otto chilometri, dalla parrocchia di Parcelles Assainies fino ai

giardini di Hann - il parco naturale e zoologico di Dakar - giovani cristiani e musulmani insieme, in

un clima di allegria e amicizia e, una volta giunti a destinazione, una piccola operazione ecologica per ripulire i viali ed offrire un servizio all’intera comunità. Tutto questo si è svolto il 18 novembre scorso: “La mia fede, un cammino di pace”, marcia organizzata dall’Unione delle Associazioni della parrocchia Maria Immacolata Madre di Dio di Parcelles Assainies, alla quale hanno partecipato circa cinquecento persone.Durante il cammino, p. Claudio Carleo OMI, responsabile della pastorale giovanile nella grande parrocchia oblata situata alla periferia nord-ovest della capitale senegalese, ha letto alcuni brani di Africae Munus, l’Esortazione Apostolica Post-sinodale pubblicata nel 2011, sulla Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.Il sindaco musulmano di Parcelles Assainies, M. Moussa Sy, ha preso la parola al termine della marcia ringraziando l’intera comunità cristiana per il lavoro svolto quotidianamente a

servizio della gente del quartiere, ed ha ribadito l’importanza di camminare insieme, per una convivenza all’insegna della pace e della speranza.

Notizie in diretta dal mondo oblato

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Marcia ecologicaSenegalmessaggi

e notizie dalle missionia cura di Elio Filardo [email protected]

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Il 7 dicembre a Dhaka, nel corso di una tavola rotonda dal titolo La vita e la politica di aiuto

a favore dei diritti delle popolazioni indigene: Il punto di vista della Comunità Khasi, è stata chiesta

la formazione di una Commissione per risolvere i problemi degli indigeni. All’iniziativa organizzata da

Bangladesh Paribesh Andolon (BAPA) e da Adivasi Poribesh Rokkha Andolon (APRA), ha partecipato anche Flora Bably Talang, leader ed attivista per i diritti umani, che, a nome dell’Ufficio oblato Giustizia, Pace e Integrità del Creato

(GPIC) in Bangladesh, ha detto: «Noi, della comunità Khasi, siamo figli della foresta. Ci prendiamo cura del foresta e la foresta si prende cura di noi. Abbiamo bisogno di essere protetti e riconosciuti dal governo del Bangladesh. Se la terra non ci sarà concessa legalmente saremo

sfrattati. Sappiamo come proteggere e promuovere la biodiversità di colline e foreste. Coltiviamo il betel sull’albero che è parte integrante della nostra vita (…) contribuiamo all’economia del Paese ed allo stesso tempo creiamo lavoro anche per coloro che non appartengono alla comunità Khasi». Nella regione di Sylhet ci sono quasi cento villaggi Khasi. Direttamente o indirettamente,

ogni villaggio Khasi (Punji) fornisce posti di lavoro a cinquecento persone.Nel corso della riunione Flora Bably Talang, insieme ad altri relatori, ha espresso la sua profonda preoccupazione per la violazione dei diritti umani dei popoli indigeni.

(fonte: omiusajpic.org)

Nata nel 1993 per iniziativa delle Pontificie Opere Missionarie italiane,

scegliendo come data il 24 marzo, anniversario dell’assassinio di mons. Oscar A. Romero, arcivescovo di San Salvador (24 marzo 1980), la Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei missionari martiri raggiunge quest’anno il suo ventunesimo traguardo. L’iniziativa intende ricordare con la preghiera e il digiuno i missionari e gli operatori pastorali che sono stati uccisi nel mondo.Tra le indicazioni per la celebrazione della Giornata, le comunità parrocchiali e di vita consacrata, i seminari, i noviziati, sono

invitati ad utilizzare le tracce della veglia, della via crucis, e delle altre celebrazione preparate per questa circostanza; a creare in chiesa “l’angolo del martirio” utilizzando una croce, un drappo rosso e scrivendo i nomi delle missionarie e dei missionari uccisi nell’anno 2012; a informarsi se nella propria diocesi ci sono stati missionari uccisi, e a far conoscere la loro testimonianza; a compiere un gesto di riconciliazione.I sussidi e il materiale per la celebrazione della Giornata sono rintracciabili sul sito: www.missioitalia.it/download.php?id=109&sito=Missio

Il diritto fondiario degli indigeni

Bangladesh

GIORNATA DI PREGHIERA E DIGIUNOPER I MISSIONARI MARTIRI

bangladesh

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ParaguayViolenza contro gli indigeni

In occasione della novena per la festa della Virgen de Caacupé, la principale

devozione mariana del Paraguay che si celebra l’8 dicembre nella Basilica di Caacupé, dove i fedeli si recano in pellegrinaggio da tutto il Paese, domenica 2 dicembre è stato aperto l’Anno della Fede.La celebrazione è stata presieduta dal

vicario apostolico di Pilcomayo, mons. Lucio Alfert OMI che si è soffermato in particolare sulla grave situazione delle famiglie indigene di cui è pastore. A nome loro ha denunciato la

difficile realtà in cui vivono, la violenza degli speculatori che gli sottraggono la terra e che spingono

sempre di più alla deforestazione. Molte di queste zone sono ormai contaminate da agro-tossine e sono state dichiarate come terreno non abitabile. Mons. Alfert ha denunciato che questa situazione impedisce la vita normale di ciascuna famiglia indigena, costringendo alla fuga ed alla ricerca di altre terre.Purtroppo molti indigeni finiscono per vivere nelle tende lungo le strade provinciali, chiedendo l’elemosina per sopravvivere. Alla celebrazione del 2 dicembre hano partecipato indigeni delle etnie Nivaclé, Guarani Ñandéva, Tobas Qom y Makâ.

(fonte: fides.org)

news

SpagnaFesta interculturale

Agasajo Navideño è la festa natalizia del Gruppo

socio-culturale e cristiano che si è tenuta domenica 23 dicembre nella parrocchia Virgen Peregrina di Madrid. Gli Oblati di Diego de León hanno accolto con grande gioia i partecipanti a questa iniziativa interculturale che coinvolge gente proveniente da Bolivia, Equador, Perú, Cile e Paraguay. Dopo la celebrazione Eucaristica p. Antón Pacho ha dato il benvenuto a tutti i partecipanti e p. Otilio Largo ha rivolto un breve messaggio di Natale. Durante la festa, la consegna di alcuni premi da parte della Caritas, una rappresentazione natalizia, l’esibizione con danze tradizionali da parte del gruppo del Perù e gli assaggi di alcuni piatti tipici.Il Gruppo socio-culturale e cristiano, fondato da p. Ignacio Escanciano, si incontra ogni domenica in parrocchia dedicando del tempo al confronto su questioni legate alla vita quotidiana. Ultimamente sono stati organizzati un laboratorio di pittura ed uno di preghiera.

(fonte: nosotrosomi.org)

SudafricaMons. Verstraete finisce il suo mandato

Diciassette Oblati il 27 novembre hanno partecipato alla celebrazione eucaristica al

‘Good Shepherd Retreat Centre’ di Hartbeespoort, per salutare mons. Daniel Verstraete OMI in occasione del suo rientro in Belgio.Giunto in Sudafrica nel 1950, ha svolto la sua missione in diverse parrocchie a Soweto,

nell’arcidiocesi Johannesburg. Il 9 novembre 1965 è stato nominato prefetto apostolico del Transvaal Occidentale e il 27 febbraio 1978, al momento dell’erezione a diocesi della Klerksdorp, è stato designato come primo vescovo. Nel 1994 si è ritirato per motivi di salute ed ha fondato il “Good Shepherd Retreat Centre”, un luogo di preghiera e di riposo per persone di tutte le fedi.

(fonte: omiworld.org)

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mgc news

Un’esperienza fortemente voluta questa mini-convivenza svoltasi dal 18 al

20 dicembre. Abbiamo inaugurato, per la convivenza, alcuni locali della casa oblata di S. Maria a Vico (Ce) e - a dispetto della conoscenza del posto - tutto, era per noi, una novità. La prima cosa che abbiamo percepito è il grande calore della comunità oblata che, nonostante sia formata da tanti oblati anziani, ci ha accolto con grandissimo entusiasmo. Condividendo gli stessi luoghi, abbiamo sperimentato la bellezza e la semplicità della vita giornaliera e abbiamo sentito la presenza di un “Dio vivo” tra noi che si manifesta attraverso le debolezze e i talenti.Alla fine della convivenza eravamo cariche di tante esperienze, ma soprattutto ognuna portava dentro di sé parte della vita e della quotidianità dell’altra. Questa convivenza è stata una vera scuola dell’Amore, una scuola di relazioni, di condivisione e di accoglienza, dove l’unico maestro era Lui, che ci ha dato la grazia e il calore del suo amore per vivere questa esperienza di cui ognuna ha fatto tesoro.

Carmen e Tonia

Convivenza delle ragazzeSanta Maria a Vico

Quelli del venerdìMessinaCon gli organismi

diocesani con cui stiamo collaborando dall’anno scorso per realizzare momenti di animazione missionaria in città, quest’anno abbiamo sentito l’esigenza di un posto in cui stare insieme, non per fare incontri, pregare e parlare di missione, ma un posto che potesse servire anche per coinvolgere nostri amici che in chiesa e agli incontri non verrebbero mai anche solo per partito preso. E così, grazie alle suore del Divino Zelo che ci hanno messo a disposizione i loro locali, il secondo venerdì di dicembre ci siamo incontrati la

prima volta per una tombolata. L’esperienza che abbiamo è poca, ma l’importante è che a collaborare all’organizzazione di queste serate, che avranno cadenza bisettimanale, siano ragazzi provenienti da gruppi diversi. Finora siamo noi dell’MGC, il missio giovani e il gruppo portato dalle suore del Divino Zelo. La bellezza dell’iniziativa è che è completamente giovanile ed è una sfida grande per noi, visto che dipende da quanto noi ragazzi ci metteremo in gioco per portarla avanti e lavorare insieme.

Giovanni

GMG, Brasile 2013Mancano meno di duecento giorni alla Giornata mondiale della Gioventù che si svolgerà in Brasile dal 23 al 28 luglio. Nei giorni che precedono il programma a Rio de Janeiro, e precisamente dal 18 al 22 luglio, i giovani di tutto il mondo che condividono il carisma oblato si incontreranno al Santuario nazionale di Aparecida.Per avere informazioni e conoscere notizie sul programma oblato si può cliccare su www.jomibrasil.com/itIl sito di riferimento per i giovani italiani che parteciperanno alla GMG brasiliana èwww.gmgrio2013.it

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Con lo slogan Più migliore assai si è svolta il 16 dicembre nella comunità di S. Domenico la Giornata giovanissimi.

Presenti più di 60 ragazzi, provenienti da varie parti della Calabria: Montalto, Cetraro, Aprigliano, Paola, Cosenza, S. Fili, Andreotta, Belmonte, in provincia di Cosenza, S. Andrea sullo Jonio e Badolato in provincia di Catanzaro. Una vita “più migliore assai”. E chi può insegnarla se non il Vangelo e Colui che certo non si è accontentato di sopravvivere, ma di vivere donandosi totalmente? Il tema metteva a confronto una vita “base”, fatta di compromessi e poco stimolante, con una vita “premium”, un livello più alto, che mette in gioco e dà delle soluzioni alternative: sicuramente è la scelta che più espone al rischio, ma garantisce la felicità e la piena realizzazione.Quale scegliere? Quello che si notava tra i ragazzi era non solo un’attenzione viva, ma soprattutto un entusiasmo nel mettere subito in pratica ciò che era stato loro comunicato. Così un libro antico di molti anni come il Vangelo, con un personaggio che sembra essere “il perdente”, è divenuto un manuale dai consigli ricchi e preziosi.La Giornata è proseguita con la celebrazione dell’Eucarestia e si è conclusa con un momento di comunione a gruppi nel quale ognuno ha condiviso le perle della giornata.

Antonella

Una vita sgrammaticataCOSENZA

SUI PASSI DI S. EUGENIO A MARINO (RM)

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Quest’anno il cammino dei Giovanissimi MGC prende

spunto dai programmi televisivi dei canali Dmax e RealTime e prevede una Giornata mensile dove tutti i ragazzi delle varie zone di Firenze e Prato si incontrano. Sono veramente tanti - circa 110 - e la mancanza di animatori alcune volte accenna a farsi sentire.Io sono uno di questi. Due anni fa dopo aver concluso il cammino giovanissimi mi venne proposto di diventare un animatore e ho accettato. Inizialmente ero un po’ come un

pesce fuor d’acqua e mi ci è voluto tempo per entrare pienamente dentro questa nuova realtà.Recentemente mi sono messo in gioco come presentatore ad una Giornata e devo dire che la sensazione di trasmettere ad altri quello che poco più di un anno prima provavo e che mi è rimasto nel cuore è indescrivibile. Sono soddisfatto delle esperienze che sto vivendo e spero vivamente di farne altre sempre più costruttive, che mi facciano sentire parte di questo fantastico movimento chiamato “MGC”. David

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Le sensazioni di un animatoreFIRENZE

Il 27 dicembre ha segnato l’inizio della tre-giorni a Marino con lo slogan “Ti racconto una storia… in cammino con S. Eugenio”. Eugenio presentato è un uomo giovane, appassionato, dal cuore grande quanto il mondo, un uomo che quando incontra lo sguardo di Gesù in croce ne rimane profondamente rapito. I momenti di condivisione sono serviti per una conoscenza più profonda tra noi ragazzi delle varie comunità d’Italia: ai primi sorrisi e sguardi degli arrivi si aggiungevano cose più profonde, storie che la presenza di Gesù tra noi ha permesso di condividere. Abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni luoghi romani dove il santo trascorse momenti importanti, cruciali per la propria vita e per la congregazione oblata. S. Silvestro in Quirinale, S. Maria in Trivio e S. Pantaleo sono le chiese da noi visitate, tre delle tappe del cammino di S. Eugenio. Ascoltando p. Fabio spiegare cosa quelle chiese avessero rappresentato per il santo, abbiamo potuto dare sostanza ad una storia che sino ad allora era stata solo racconto e questo ci ha permesso di sentirla più nostra.

Ed ecco che ci siamo riconosciuti nei dubbi di Eugenio, nelle difficoltà quotidiane che, come noi, affrontava. Nelle fragilità umane del carattere del santo abbiamo trovato la forza per accettare le nostre e per comprendere che i limiti di ciascuno non sono più ostacolo, ma frutto per chi ci sta accanto: questo rappresenta un invito costante a non pensare mai di bastare a noi stessi, ma a riscoprirsi sempre dono per gli altri. Abbiamo anche partecipato al 35° Incontro europeo dei giovani di Taizé in piazza S. Pietro con il Papa. Con questo carico di emozioni, rigenerati, abbiamo concluso la tre-giorni così com’era cominciata, intorno all’altare per la messa della domenica.Una nuova tappa del nostro cammino è incominciata e la si può percorrere forti dell’esperienza si S. Eugenio, la cui storia ci è stata raccontata e i cui passi, ora, accompagnano i nostri. Ciò che portiamo dentro è anche la consapevolezza che non esistono distanze fra noi, perché saremo sempre un unico cuore se crediamo in Lui.

Gilda, Serena, Amedeo, Aurora e Domenico

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una foto per pensare

L’ora di Dio

Lentamente si fa spazio

nel fluire della vita,

nella ricerca affannosa

di qualcosa che sfugge.

È lo scoccare

di un nuovo richiamo

capace di svelare

il segreto della vita.

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L’ora di Dio foto Alessandro Milella, [email protected] Claudia Sarubbo, [email protected]

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di Angelica [email protected]

fatti

La storia di una giovane donna, testimone autentica di vita cristiana. La regola dei“piccoli passi possibili”

Chiara è nata

Chiara Corbella aveva ventotto anni, era una donna, una moglie e una mamma. Era una ragazza della mia età, apparte-

nente a questa generazione che soffre il proble-ma della disoccupazione, del mettere su famiglia, della precarietà della vita in tutti i suoi aspetti. Eppure Chiara ha saputo rispondere a questa so-cietà “in crisi” facendo della sua vita un progetto divino. Le persone che in questi mesi hanno se-guito la sua storia e quella di Enrico Petrillo, suo marito, si sono commosse, arrabbiate, scandaliz-zate, convertite. Ma cosa può dire a noi cristiani questa ragazza di Roma che ha vissuto un’esisten-za così felice ed è salita in cielo con una felicità ancora più grande?

e non morirà mai più

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Una storia che interrogaChiara nasce il 9 gennaio 1984. Cresce frequentando la parrocchia e, durante un viaggio a Medjugorje, conosce En-rico, con il quale si fidanza. Pochi anni e, dopo aver fatto ad Assisi un cammi-no di formazione per fidanzati, Chia-ra ed Enrico si sposano nel settembre 2008. Ha ventiquattro anni Chiara. Pochissime ragazze ormai si sposano a quell’età, perché non si hanno cer-tezze, perché ci si vuole godere la vita, perché non si è preparati ad abbraccia-re un progetto di vita per sempre. Lei ed Enrico, invece, si fidano di Dio e della Provvidenza e si lanciano in que-sta “volontà di Dio”.Chiara rimane subito incinta di una bambina, ma già dalle prime ecografie alla bimba viene diagnosticata un’a-nencefalia: incompatibile con la vita, dicono i medici, morirà appena nata. Chiara ed Enrico accolgono la noti-zia e si rifiutano di abortire. Voglio-no dare alla bambina la possibilità di vivere quanto Dio vorrà. Chiara porta avanti una gravidanza difficile fino al

giorno in cui nasce Maria Grazia Leti-zia, che viene battezzata e sale al cie-lo dopo trenta minuti. Chiara racconta questa esperienza durante un incontro ad Assisi, una testimonianza che si può vedere e ascoltare in un video su You-tube, nella quale afferma quanta gioia loro abbiano sperimentato davanti a questo avvenimento. Chiara ed Enrico non si rassegnano e pochi mesi dopo arriva un’altra gravidanza. Anche sta-volta il bambino è incompatibile con la vita per alcune gravi malformazioni, di nuovo la gravidanza viene portata a termine e nasce Davide, che vive poco più della sorellina.

Arriva per Chiara anche la terza gra-vidanza. Il bambino è sano e nascerà senza problemi. Al quinto mese, però, a Chiara viene diagnosticato un tumo-re alla lingua. Provano ad intervenire, ma non funziona; c’è bisogno di cure più serie e specifiche. Chiara, però, ri-fiuta di farsi curare, perché mettereb-be a rischio la vita di suo figlio. Il 30 maggio 2011 nasce Francesco e subito iniziano le cure contro il tumore. Ma ormai è troppo tardi e nessuna cura funziona. Ad aprile 2012 i medici le di-cono che non ha nessuna speranza di vita e il 13 giugno 2012 sale in cielo. Dice Enrico: “Questa Croce - se la vivi con Cristo - non è brutta come sembra. Se ti fidi di lui, scopri che in questo fuoco non bruci e che nel dolore c’è la

Sì Enrico,la croce

è dolce come dice il Signore

In questa pagina un’immagine del funeraledi Chiara, che dimostra quanto amoreabbia dato e ricevuto e la copertina di una pubblicazione che racconta la sua scelta.In apertura Chiara Corbella consuo marito, Enrico Petrillo.

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saremo così “abituati” che riusciremo ad esserlo anche nelle cose che sem-brano più grandi noi. Anche la bea-ta Chiara Luce Badano, una ragazza di diciotto anni morta di tumore, che aveva vissuto la croce della malattia restando fedele al Vangelo, diceva: “Ho capito che se noi fossimo sempre in questa disposizione d’animo, pronti a tutto, quanti segni Dio ci mandereb-be!”. Chiara Corbella fa scandalo, perché è la sua “normalità” a sconvolgere le coscienze. Non si può restare indif-ferenti davanti alla vita di una donna che potrebbe essere simile a tante al-tre. Perché in fondo ciò che è succes-so a Chiara potrebbe accadere a me, alla mia compagna di scuola, alla mia sorella di comunità, alla signora che incontro al supermercato. Chiara è

pace e nella morte c’è la gioia. Quan-do vedevo Chiara che stava per morire ero ovviamente molto scosso. Quindi, ho preso coraggio e poche ore prima - era verso le otto del mattino, Chiara è morta a mezzogiorno - gliel’ho chiesto. Le ho detto: “Chiara, amore mio, ma questa Croce è veramente dolce, come dice il Signore?”. Lei mi ha guardato, mi ha sorriso e con un filo di voce mi ha detto: “Sì, Enrico, è molto dolce”. Così, tutta la famiglia, noi, non abbia-mo visto morire Chiara serena: l’ab-biamo vista morire felice, che è tutta un’altra cosa”. Chiara ha vissuto tutta la vita con questa disposizione interio-re ad accogliere il dolore e trasformar-lo in gioia. C’è una frase che ripeteva sempre: “Siamo nati e non moriremo mai più”. Chiara, infatti, non è morta, ma ha dato la vita nel senso più fecon-do del termine.

La vita di Chiara ci parlaChiunque davanti ad una storia del ge-nere si chiede: cosa avrei fatto io al suo posto?Molti di noi risponderebbero che for-se non avrebbero avuto il coraggio di reagire così. Di portare una gravi-danza fino alla fine e con sofferenza, per generare una vita di appena trenta minuti. Di farlo per una seconda vol-ta. E dopo queste due esperienze, di

essere ancora aperti al dono della vita. Di credere che la vita la dona Dio ed è lui a dover decidere se e quando. Di correre il rischio di morire per mettere alla luce una vita che ancora non è nel mondo. Di stare nella gioia sapendo che hai un solo mese da vivere.Chiara è una “santa”, e non si ha paura di essere blasfemi nel dirlo. E davanti alla santità ci sentiamo sempre inade-guati, pensiamo che sia una cosa riser-vata solo a chi fa cose grandi nella vita. Forse perché i santi, nostri contempo-ranei, ai quali ci stiamo abituando ne-gli ultimi anni, nella maggior parte dei casi sono ancora troppo lontani da noi, persone che hanno fatto cose grandi per il mondo, per i poveri, per la Chie-sa. Oppure donne e uomini di grande umiltà, ai quali è stata donata la grazia di un rapporto mistico con Dio. Sulla storia di Chiara, nel web, si pos-sono leggere commenti e reazioni di tutti i tipi. Qualcuno si chiedeva come possiamo pensare di essere anche noi santi, se Dio non ci chiama a croci così grandi, come possiamo vivere le croci con questa fede e questo coraggio?Durante un incontro con i giovani del Movimento giovanile Costruire nel 1995, p. Giovanni Santolini OMI di-ceva che dobbiamo essere “eroi per abitudine”: se cominciamo ad essere fedeli al Vangelo nelle piccole cose,

Sitatem eostia venisqui di dolorro et ut verum

La vita, che duri trenta minuti o cent’anni, non fa molta differenza

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“santa”, perché si è allenata ad amare giorno dopo giorno e ha amato fino alla fine. Perché ad ognuno di noi nel-la vita, presto o tardi, verrà chiesto di amare. Quando mi trovo davanti a una malattia fisica, mia o di un familiare, quando un marito o un amico mi tradi-sce, quando subisco una violenza, o più semplicemente quando il collega di la-voro mi crea problemi, l’amico mi cer-ca solo quando ha bisogno, quando c’è da buttare l’immondizia nel momento della giornata in cui sono più stanco. “Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto” (Lc. 16,10), dice Gesù. Ed è l’ordinario, non lo straordinario che ci fa ‘santi’. Chiara si è preparata bene, seguendo la sua regola preferita: pic-coli passi possibili. Non conta ciò che non hai fatto nel passato, o quello che pensi tu possa fare in futuro. Conta l’a-more che puoi dare adesso.Siamo in un momento storico in cui la crisi si fa sentire, pesa sulle nostre vite. Ci disperiamo, perché non abbiamo un

fatti

lavoro, non ci sposiamo, perché non abbiamo una sicurezza economica, non facciamo figli, perché ci tolgono la libertà, ci accontentiamo di una vita mediocre, perché vivere pienamente significa anche farci carico delle cro-ci, che di certo non sono cosa piacevo-le. Tant’è che il nostro è un mondo che cerca di cancellare il dolore (partendo dall’aborto e dall’eutanasia) in tutte le sue forme. Chiara ha risposto a questa crisi con la fedeltà al Vangelo e ci dice quanta responsabilità abbiamo noi cri-stiani di fronte ad un mondo sempre più spaventato e incerto. La scelta di Chiara ci ricorda anche una cosa fondamentale: che le donne, nella Chiesa e nel mondo, hanno una missione unica che possono portare avanti solo loro. È la missione della maternità, che Dio ha messo dentro ciascuna donna sin dalla nascita. Chia-ra ha vissuto fino in fondo la sua voca-zione di donna: ha accolto e generato vita. Solo attraverso la realizzazione

piena di questa vocazione ciascuna di noi può portare frutto nella Chiesa e nel mondo. Questo significa essere una donna nel senso pieno del termine. La scelta di Gesù, infine, è una cosa che non basta fare personalmente, è necessario portarla avanti insieme. Non possiamo pensare di riuscirci da soli. Chiara ha avuto la capacità di essere fedele alla sua vocazione, per-ché ogni suo passo è stato compiuto insieme ad Enrico. Hanno vissuto un matrimonio in cui Gesù era al centro e hanno fatto insieme il cammino ver-so la santità. Il loro amore vissuto alla presenza di Gesù invita anche noi, tut-te le comunità legate al carisma oblato, i fidanzati, le famiglie, a farci ricono-scere da quanto ci amiamo. Eugenio de Mazenod l’aveva capito duecento anni fa che da soli non possiamo fare molto. Il mondo ha bisogno di persone che sappiano vivere il Vangelo insieme per realizzare il Regno di Dio proprio ora che manca di più la speranza. n

Non metterebarriere alla GraziaRacconta Enrico, marito di Chiara, in un’intervista a Radio Vaticana: «Anche attraverso le vite dei nostri figli abbiamo scoperto che la vita, trenta minuti o cent’anni, non c’è molta differenza. Ed è stato sempre meraviglioso scoprire questo amore più grande ogni volta che affrontavamo un problema, un dramma. In realtà, noi nella fede vedevamo che dietro a questo si nascondeva una grazia più grande del Signore. E quindi, ci innamoravamo ogni volta di più di noi e di Gesù. Questo amore non ci aveva mai deluso e quindi, ogni volta, non perdevamo tempo, anche se tutti intorno a noi ci dicevano: “Aspettate, non abbiate fretta di fare un altro figlio”. Invece noi dicevamo: “Ma perché dobbiamo aspettare?”. Quindi, abbiamo vissuto questo amore più forte della morte. La grazia che ci ha dato il Signore è stata di non aver messo barriere alla sua grazia. Abbiamo detto questo sì, ci siamo aggrappati a lui con tutte le nostre forze, anche perché quello che ci chiedeva era sicuramente più grande di noi. E allora, avendo questa consapevolezza sapevamo che da soli non avremmo potuto farcela, ma con Lui sì».

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L’edizione 2012dello showdowndi Villa la Stella.Parla Remo Breda

di Michele Palumbo

fatti

Sport paralim piciNella splendida cornice di Villa la Stella, a Firenze, si è

svolto il torneo di showdown organizzato dalla polispor-tiva Dani e intitolato alla memoria di Francesco Bracci.

A Villa la Stella si sono dati appuntamento 28 atleti e 18 atlete per un totale di 218 incontri: un’adesione e un impegno di gran lunga superiore a quello delle edizioni precedenti. Negli ultimi anni, il crescente interesse nei confronti di questa e altre discipline para-limpiche sta portando le competizioni a standard agonistici elevati che potrebbero portare a interessanti risvolti nell’immediato futu-ro. Ne abbiamo parlato con Remo Breda, presidente del FISPIC (Federazione Italiana Sport Paralimpici per Ipovedenti e Ciechi) e vicepresidente del CIP (Comitato Italiano Paralimpico).Ancora una volta Firenze è capitale dello showdown. Villa la Stella potrebbe diventare un appuntamento annuale, un pun-to di riferimento inequivocabile per lo showdown nazionale? Il torneo Bracci è certo il primo appuntamento nazionale. Firenze rappresenta la porta che apre la stagione sportiva. Un momento importante che avrà un futuro nella misura in cui la polisportiva Dani vorrà riproporlo. Tuttavia, il fatto di essere passati dai due

fra presente e futuro

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Sport paralim picitavoli dell’anno scorso ai cinque di quest’anno, con un notevole tour de force da parte di arbitri e partecipanti, è segno che gli atleti hanno imparato a valorizzare questo appuntamento.

Cosa cambia per un atleta ipoveden-te giocare in sale austere, con par-quet e antiche mobilie, quadri del XVIII secolo, piuttosto che in spazi appositamente predisposti, quali palestre o palazzetti dello sport?Bisogna vedere l’ipovedente che tipo di sensibilità ha verso l’arte, l’antico e il bello. Ma non credere che l’ipo-vedente non possa godere comunque di una location di assoluto prestigio come questa. Io, in qualità di cieco as-soluto posso godere, ad esempio, della

tranquillità dell’ambiente e della pos-sibilità di fare una passeggiata tra gli ulivi: aspetti che infondono serenità e predispongono a un’ottimale condizio-ne psicologica. Gli interni poi, vanno valutati sotto un piano soggettivo: di-pende dall’educazione, dalla cultura e dalla concezione del ‘bello’ di ciascu-no. Il “bello” non è una sensazione che passa solo dagli occhi. Lo possiamo condividere e respirare. Noi sentiamo “l’antico” a livello olfattivo e non solo. Possiamo renderci conto al tatto della qualità delle merlature e degli intarsi. Il “bello” non è prerogativa della vista, non è solo patrimonio visivo.

Torniamo alla disciplina sotto un profilo tecnico: l’anno scorso sot-tolineava come la promozione e la divulgazione dello sport, a livello agonistico, fossero alla base del suo programma in qualità di presidente della FISPIC. Cosa è effettivamente cambiato dall’anno scorso a oggi? Per quanto riguarda lo showdown ab-biamo migliorato i regolamenti vigenti e stiamo riducendo al minimo le sog-gettività. Navighiamo con più certez-za e consapevolezza della disciplina.

Abbiamo ampliato il calendario con un torneo che si giocherà a Tirrenia: “Italian top 12”, riservato ai migliori dodici atleti e atlete del ranking nazio-nale. Credo sia destinato a diventare un torneo molto esportabile dal punto di vista mediatico e della sponsoriz-zazione. Oggi siamo in fase sperimen-tale, ma dalla terza edizione in poi, diventerà una competizione prestigio-sa. Il campionato sarà disputato con partite al meglio dei cinque set. Chiaro che verranno fuori doti sia fisiche che tecniche: vincerà il migliore sotto ogni punto vista. Alla lunga verrà fuori la capacita di reggere gli undici incontri e quindi conterà tanto la preparazione atletica.

Durante le ultime paralimpiadi svoltesi a Londra, la BBC trasmet-teva un programma dedicato, con interviste e dirette. In Italia la co-pertura di stampa e televisione è stata più limitata. Come giudica il comportamento del pubblico nor-modotato e dei mezzi di comunica-zione nei confronti di questi sport e dei suoi atleti?Sono d’accordo che la copertura sia

Lo showdown è una disciplina agonistica per ipovedenti e ciechi,

riconducibile al tennis tavolo, ma il cui termine, di chiara etimologia anglosassone, pare ne sottolinei invece le antitesi, dovendo riferire il colpo della racchetta “sotto”, anziché “sopra” la rete (o in questo caso lo schermo) di mezzeria. Annullate le varie differenze ipovisive con una benda, gli atleti seguono il rumore sibilante di una pallina riempita di sferette metalliche e la indirizzano verso la porta avversaria. Il gioco si mostra semplice e intuitivo, ma include un vasto repertorio di tattiche di gioco che comunque, mai

prescindono da un senso di lealtà e sportività, in media molto più spiccato che negli sport fra normodotati.showdown

Disciplina

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stata limitata, se il confronto è fatto con la BBC che giocava in casa e aveva più di un motivo per trasmettere le paralim-piadi: a Londra è stato sperimentato, per la prima volta, un unico comitato con competenze olimpiche e paralim-piche. Già partendo da questo assunto gli inglesi si aspettavano moltissimo da questo evento. Io sono stato contentissi-mo della copertura dei media italiani. Se penso che Sky aveva cinque canali dedicati e la Rai si collegava intorno alle dodici e non chiudeva se non con l’ulti-ma gara intorno alle ventitré o, se penso che siamo passati da una copertura zero dei tempi di Pechino alla copertura at-tuale, come potrei dichiararmi insoddi-sfatto? Bisogna dire inoltre, che la Rai ha mandato in onda eventi non coperti dalla rete nazionale inglese. Credo che

grazie ai media italiani, a Londra sia passata la lezione che il disabile sia una persona con la quale interloquire e con la quale si può avviare un rapporto fra pari, senza false paure.

Cosa succederà adesso? La popola-rità degli sport paralimpici è giun-ta al suo parossismo? Dovremmo aspettarci una parabola discenden-te dopo Londra 2012?Ho ragione di credere che Londra ab-bia segnato una svolta definitiva e che i margini di crescita siano ancora ab-bondanti, sia a livello di attenzione che a livello politico. Dal punto di vista politico c’è una nuova sensibilità che è quella di dar vita a un unico organismo: l’ha detto Luca Pancalli (presidente del CIP, ndr.) e persino il presidente Napo-

litano. Paradossalmente la massima aspirazione possibile per un comitato paralimpico è quella di morire. Noi siamo nati solo per creare i presuppo-sti culturali affinché si possa un giorno sparire, tornare nell’oblio, perché sare-mo riusciti a convergere il movimento paralimpico nel movimento olimpico.

Potrebbe essere questo il momento ideale per inserire lo showdown tra le discipline paralimpiche? Quali sono le idee di Breda a riguardo?Anche questa, dal punto di vista spor-tivo, è un’ambizione. I tempi tuttavia non sono maturi perché per essere di-sciplina paralimpica c’è bisogno di un requisito fondamentale: essere pratica-to in almeno tre continenti. Lo show-down è uno sport prettamente europeo, tanto che tra campionato mondiale e europeo non c’è quasi differenza. Per essere realistici: non lo vedremo in Brasile nel 2016, ma ci sono comunque buone speranze per il 2020.

Il torneo di Villa la Stella si è concluso, dopo tre giorni di sfide, con le vittorie finali degli atleti Ferrigno, per la cate-goria uomini e Marcato, per le donne, rispettivamente delle polisportive di Milano e Bologna. Gli atleti sono stati tutti premiati dal primo all’ultimo, in base al vero principio ispiratore dello showdown che, al pari di ogni altra di-sciplina sportiva, è quello della condi-visione. n

Alcuni momenti e protagonistidello showdown nella cornicedi Villa la Stella a Firenze

fatti

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lettere dai missionari

Gli immigratinon sono numeriNell’analisi del fenomeno migratorio si scrivono fiumi d’inchiostro ed i numeri hanno sempre una loro valenza. Spesso, però, prendono il sopravvento i criteri sociali, economici e statistici distaccati dalla persona umana. È opportuno dare la giusta centralità e recuperare la dimensione umana ed umanizzante del fenomeno migratorio ed allora i numeri con tutte le statistiche acquisteranno anche un valore antropologico. Chi parla delle loro culture, tradizioni, credo religioso, del modo con cui intendono e vivono la famiglia, il lavoro? Esistono molte denunce nei confronti di quanti calpestano la loro dignità. Ma quali azioni si compiono per ridare dignità a quanti l’hanno vista schiacciata anche da parte

delle istituzioni? Poche, molto poche! Oggi si continua a parlare della grande crisi economica e finanziaria. Una crisi che ha diverse radici che a me piace riassumere in alcune espressioni della Bibbia: “Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro. Non potete servire Dio e la ricchezza” (Mt. 6, 24). “In questo si distinguono i figli di Dio dai figli del diavolo: chi non pratica la giustizia non è da Dio, e neppure lo è chi non ama il suo fratello...” (1Gv 3,10). Sono espressioni dure e radicali che, oltre ad avere una valenza religiosa, hanno una valenza antropologica. Lo afferma anche la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: “Tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di

coscienza e devono agire in uno spirito di fraternità vicendevole” (10 dicembre 1948, art.1).La disuguaglianza e la squilibrata distribuzione della ricchezza, sono la conseguenza di un’impostazione della vita in cui l’individuo e le società pensano di essere i padroni del mondo e degli uomini. Se insieme ai numeri riuscissimo a fare anche una riflessione sulla “qualità della vita” riusciremmo a comprendere le persone che vivono in condizione di mobilità in quanto saremo capaci di cogliere i drammi e i traumi dello sradicamento dalla cultura, dagli affetti, dall’ambiente e dal clima.La presenza di circa cinque milioni di immigrati regolari nel nostro Paese è un numero che da un lato dice che l’Italia è scelta come dimora stabile da tanta gente, ma dall’altro che questa porzione d’umanità proviene da luoghi in cui le condizioni economiche, politiche e sociali non consentono di vivere serenamente la propria esistenza per mancanza di pace, risorse economiche e prospettive migliori di vita.

Sergio Natoli OMIUfficio Migrantes,

arcidiocesi di PalermoNatale 2012

MISSIONIOMI

P. Sergio Natoli OMI con un gruppo di immigrati

a Palermo il giorno della visita del Papa

nell’ottobre 2010

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Il Natale, celebrazione dell’incarnazione di Dio nella storia, non è il dolce e romantico ricordo di un bel Bambino, riccioluto e pasciuto che è venuto con gioia e spensieratezza a far festa in mezzo a noi, ma è la risposta d’amore di un Signore compassionevole e misericordioso che ha ascoltato il nostro grido di dolore.Sento suonare alla porta e vado ad aprire. Davanti a me c’è un signore dai lineamenti ben curati che porta sul fianco della cintura una forbice da potatura e un seghino. Mi chiede di poter tagliare e sistemare gli alberi del nostro giardino. A me sembra che non ce ne sia bisogno e quindi rifiuto la sua richiesta. Lui

replicando mi dice: “Ho bisogno di guadagnarmi la giornata. Mi dia questa opportunità”. A quelle parole lo lascio entrare e comincia il suo lavoro. In un momento di pausa gli offro un caffè e ci mettiamo a parlare. Mi racconta la sua penosa esperienza: “Ero un dirigente di una grande industria. Vivevo agiatamente ed avevo una bella casa con un piccolo giardino proprio come questo. Per hobby il fine settimana lo passavo curando il mio prato ed i fiori. Così, a poco a poco, ho imparato questa arte. Quando la fabbrica è fallita mi hanno licenziato in tronco. All’improvviso mi sono trovato senza lavoro e con tre figli giovani da mantenere. Ho provato a

fare tante domande qui e là ma nessuno, vista la mia età non più giovane, mi ha accettato. Dovendo sostenere la mia famiglia mi sono messo a fare questo lavoro. Alcune volte riesco a guadagnarmi la giornata altre volte invece trovo solo porte chiuse. Quelle sere non vorrei tornare a casa…mi vergogno di non poter offrire niente ai miei amati”.Ogni mattina uscendo di casa incontro immancabilmente la signora che consegna il latte porta a porta nel nostro quartiere. È da anni che ci conosciamo e per questo ci salutiamo sempre con cordialità. Una volta ha iniziato a raccontarmi la sua pietosa storia: “Mio marito lavorava e guadagnava uno stipendio che ci faceva

vivere dignitosamente. Ma una mattina all’improvviso egli venne colpito da una paralisi. Mesi e mesi di dolore e di costose cure soltanto per recuperare, in parte, l’abilità motoria. Nel frattempo ho cercato un impiego, ma accudire mio marito e lavorare erano due realtà che non si conciliavano. Così ho trovato questa occupazione precaria che però mi permette di vivere e sostenere la mi a famiglia”.Quante realtà di afflizioni intorno a noi e noi nemmeno ce ne accorgiamo! L’occasione giusta, per noi, che ci diciamo seguaci di Gesù, per aprire il cuore. Vedere e ascoltare il grido dei mali di tanti uomini e donne che patiscono intorno a noi. Incarnarci nel loro dolore, farci compartecipi in qualche modo della loro sofferenza. Condividere con loro quello che possediamo: tempo, denaro, interesse, preghiera e la vita stessa impegnandoci nel volontariato.

Vincenzo Bordo OMICorea

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P. Vincenzo Bordo OMI in Corea

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professi, novizi e postulanti sono 41 - seguono la regola benedettina. Preparano liquori e marmellate, rilegano libri, accudiscono gli animali e costruiscono le kora, strumenti musicali tipici di questa parte d’Africa. L’abate ci accompagna per un po’, poi ci presenta il decano dell’abbazia, ultimo rimasto tra i nove fondatori. Dopo la messa, due monaci si fermano a pranzo con noi. Jean Louis Marie è l’unica vocazione della Guinea-Conakry. Primo di ventiquattro figli, è riuscito ad entrare in abbazia solo nel 2001, a quarantotto

lettere dai missionari

Qui Uruguaydi Luca Polello OMI [email protected]

Condividere, base della missioneA novembre si è tenuto l’incontro di delegazione degli OMI dell’Uruguay. È stata un’occasione per conoscere la realtà oblata, per comprendere meglio la storia di questa delegazione che vede presenti in questo momento tredici missionari OMI sul territorio, distribuiti in quattro case.Sono stati giorni di valutazione della nostra vita comunitaria e del lavoro pastorale, uno spazio per dialogare, per interrogarci sul futuro della delegazione, di ricerca

Qui Senegaldi Gianluca Rizzaro [email protected]

Sentire Dio nel cuoreFondata nel 1963, situata 50 km a nord di Dakar, Keur Moussa è la prima abbazia contemplativa nella storia dell’Africa. I monaci - tra

molto attivamente nella vita della parrocchia oblata. Venticinque anni, comincia il quarto anno di noviziato e ha le idee molto chiare. Nella vita cristiana, mi dice, contano due cose: la qualità - più della quantità - e sentire Dio nel cuore. Come dargli torto?

delle priorità nell’azione di evangelizzazione. È stata presentata la valutazione del lavoro svolto nei Centri educativi (la Scuola San José e il Centro Talitakum) grazie agli interventi di Rosario e Veronica, quest’ultima una COMI impegnata nell’attività di recupero degli adolescenti che abbandonano il percorso scolastico ordinario.Giorni di lavoro, di confronto trasparente, ma anche di distensione: le pause tra una sessione e l’altra, bevendo un mate, sono stati i momenti migliori per conoscere meglio le persone con cui sto condividendo un pezzo della mia vita e della mia formazione oblata.

anni. Ora è un monaco felice e ringrazia Dio per quella clarissa grazie alla quale ha seguito la sua vocazione. Insieme a lui, c’è Pierre Nicolas Natalino (il terzo nome è in onore di un oblato): nativo della Casamance, è cresciuto a Parcelles, impegnato

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Essere missionari è guardare il mon-do dal quale veniamo e nel qua-le viviamo, sentendosi chiamati

ad incontrarlo in profondità e autenticità, per raccontare a tutti la testimonianza del vangelo di Dio-Amore. E per incontrare il mondo, ascoltarlo con interesse e simpa-tia… guardarsi intorno e farlo con il cuore aperto.Essere aperti agli altri: al mondo in gene-re, con una predisposizione positiva, perché Dio ama questo mondo. Ne siamo convinti? “Dio ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio non per condannarlo, ma per salvarlo” (Gv 3,16 ss).Essere aperti allo Spirito Santo che, primo attore della missione, ci precede ed opera già nel cuore di quanti incontriamo prima che noi diciamo o facciamo alcunché. Se-guiamo le sue tracce con apertura, dovun-

que ci conducano!Ero a Dakar da alcuni anni ormai, occupato nella missione di una popolatissima perife-ria: più di cinquemila abitanti e il 5% cristia-ni. Pochi, ma intensa-mente impegnati nella vita ecclesiale per varie ragioni, non ultima l’es-sere minoranza. Una grossa comunità cri-stiana quindi, con più di

ventimila persone, la maggioranza giovani. Giornate pienissime! Ma nel cuore una strana inquietudine non mi lasciava. Pre-gando compresi perché: spendevo la mia vita solo per il 5% della popolazione a cui il Cristo e la Chiesa mi inviavano. Mi son detto: “Io non sono un funzionario della religione cattolica, ma sono inviato come testimone del vangelo per tutti”. Dovevo aggiustare il tiro e trovare il modo di pas-sare più tempo con i non-cristiani che era-no la stragrande maggioranza. Cominciai a rendermi attento ai segni, alle opportu-nità che certamente si sarebbero presenta-te e scoprii che in una delle comunità di base della missione, c’era una “amicale di giovani mista”: cristiani e musulmani che si ritrovavano per fare insieme qualcosa per il quartiere. Lo Spirito era già all’ope-ra! Cominciai a frequentarli e pochi mesi dopo abbiamo dato il via ad alcune belle iniziative comuni. I frutti sono stati signi-ficativi: quelle persone si aprivano insie-me ai ai valori del Regno, all’accoglienza reciproca, nel rispetto.Non è questa una provocazione missiona-ria per le nostre comunità parrocchiali, i nostri movimenti, il nostro modo di esse-re cristiani, sacerdoti… di essere Chiesa? Non dovremmo forse occuparci un po’ di più delle novantanove pecorelle che stan-no fuori dall’ovile e aprire loro il nostro cuore con più simpatia, proprio come fa-ceva Gesù! n

di Adriano Titone [email protected]

missioni

Missione è…guardarsi intorno col cuore aperto

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LE NOSTRE COMUNITÀ,

SPAGNA

MISSIONARI OMIParroquia de San LeandroCalle Escalona 5928024 Madrid (Spagna)www.parroquiasanleandro.es

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