Mio padre fa la donna delle pulizie, Saphia Azzeddine

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Dopo il clamoroso successo in Francia di "Confidenze ad Allah", il nuovo poetico e divertente romanzo che conferma il talento di Saphia Azzeddine.

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In copertina: Magic apple, fotografia di Mickey AmatoProgetto grafico: factory design

Titolo originale: Mon père est femme de ménage© 2009 Léo Scheer© 2011 Giulio Perrone Editore S.r.l., RomaI edizione Maggio 2011stampato presso Cimer s.n.c., Roma

ISBN 978-88-6004-178-4

www.giulioperroneditore.it

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Mio padre fa la donna delle pulizie

Saphia Azzeddine

Traduzione di Ilaria Vitali

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A mia madre, Faïza, la meglioA mia sorella, Cadige, la seconda meglio

Alla mia amica Tania, la terza meglio

Presto conoscerò abbastanza parole che fanno paura per saper scrivere delle belle dediche

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Mio padre fa la donna delle pulizie. Spesso, dopo lascuola, vado a dargli una mano. Perché così torniamo acasa prima. E anche perché è mio padre. Lucido, pulisco,strofino, aspiro, anche negli angoli. Piccolo e magro comesono, mi infilo dappertutto. Ma imparo, anche. Una paro-la alla settimana. Mica parole qualunque. Le parole chefanno paura. Quelle arroganti, superiori, sdegnose,trascendenti, quelle che possono farti fare la peggior figu-raccia della tua vita se non ne conosci il significato. Quelleche si permettono di avere tre consonanti di fila, comeastruso. O addirittura quattro, come instradare. E non èmica un errore di ortografia.

Trascendente era la parola della settimana scorsa. Signifi-ca: “che non appartiene a nessun ordine del reale, che è aldi là dei limiti di ogni conoscenza possibile”. E l’esempioera: “Aveva preso l’abitudine, di fronte alle avversità, dirifugiarsi nella contemplazione di idee trascendenti”. Cosìla parola di questa settimana non poteva che essere avver-sità. Non c’è tempo per guardare: mio padre mi urla dietroe mi ricorda che sono lì per pulire la biblioteca comunaledi Saint-Thiers-lès-Osméoles e non per leggerla. E sevoglio essere a casa in tempo per vedere la partita, fareimeglio a muovere il culo! Così chiudo il dizionario e mirimetto a spolverare il ripiano Anouilh-Balzac. Spolverare

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l’ho imparato un anno fa, quando ho cominciato a fare itempi supplementari con mio padre. Siccome non mipiaceva troppo la parola pulizie, ho cercato dei sinonimimeno… come dire? Meno duri, meno detergenti. Conuna parola simile, la polvere diventa amica tua.Tra i tascabili e i libri rilegati, le copertine illustrate e

quelle più sobrie, c’erano miliardi di parole. Alcune man-cavano il bersaglio, altre toccavano da vicino. Io avevovoglia di provarle. Tutti quei libri allineati uno di seguitoall’altro, militari, verticali, dritti, mi fissavano e mi sfida-vano ogni volta che passavo, come se sapessero che un tipocome me non si sarebbe mai permesso di disturbarli. Quel-la cosa mi ha dato fastidio. I miei amici non erano lì perprendermi in giro, così ne ho aperto uno, ho anche osatoleggere qualche riga. Poi una pagina. E ne ho aperti altri.Una volta ho letto un libro intero. Scoprivo che un uomo poteva metterci quattrocento

pagine per dire a una donna che l’amava. Quattrocentopagine prima del primo bacio, trecento prima di unacarezza, duecento per osare guardarla, cento per confes-sarselo. Nell’epoca in cui s’inviano SMS per farsi una scopa-ta, lo trovavo prodigioso, vertiginoso, folle, smisurato,stravagante, insensato, grandioso… Ecco, imparavo delleparole facendo le pulizie. Almeno quello…L’anno scorso ero in terza B. Adesso sono in terza F. Ho

ripetuto l’anno. Perché facevo male i compiti e nei temiscrivevo delle cose del tipo “insidiosamente, spossò la suaamata in un tripudio concupiscente”. Non voleva direniente, è vero. Le parole le scoprivo in modo disordinato, alla rinfusa.

Ai professori piace molto l’ordine. Quindi quest’anno mio

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padre lavora il doppio perché lo aiuto la metà. Così nonsarò più bocciato, ha detto.Sgombro i tavoli da tappi di penna smangiucchiati,

foglietti scarabocchiati e bianchetti dimenticati e poi im-paro la parola avversità: “sorte contraria, disgrazia, sventu-ra, condizione di colui che le subisce”. Sguazzo nel sinistro,non c’è che dire. E oltretutto non ho ancora lucidato i ces-si. Trascino il carrello dei detersivi fin dentro i bagni degliuomini e mi viene un pensiero buffo alla vista di quel chemi aspetta. Mi dico che un uomo ha un bel servirsi di pa-role sdegnose, arroganti, superiori e trascendenti, co-munque non riesce mai a centrare il buco.Presto conoscerò abbastanza parole che fanno paura per

osare leggere gli autori che fanno paura. Quelli che non saimai se la c viene prima della k o viceversa, quelli che nonsai mai se il nome si scrive con la z o con la s, quelli cheerano uomini e avevano nomi da donna e quelle che ave-vano nomi da donna ed erano… donne. Anche se, verso lafine, comunque Colette assomigliava un po’ a un uomo.È cominciata la partita, mio padre ha finito il corridoio

B e io finisco le donne. Che non centrano il buco neancheloro. Ma il loro pistolino è meno flessibile del nostro,bisogna riconoscerlo, quindi il loro piscio lo pulisco conpiù indulgenza.Qual era la parola per la settimana prossima? Ah sì,

sventura…

L’impresa di mio padre ha trovato un buon sistema perdistrarre i dipendenti. Ogni mese o due, il posto cambia.Così, passa dalle biblioteche alle sale per ricevimenti, dagli

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uffici alle discoteche: ogni volta è un universo nuovo chesi offre davanti ai suoi occhi. E ai miei, quando l’accompa-gno. Torna a casa tardi. Dice sempre: “Ho visto veramentedi tutto stanotte, Polo mio!”. (Mi chiamo Paul).E si sdraia nel letto di mia sorella, nella mia stanza,

visto che mia sorella dorme nel letto di mia madre in quel-la che in teoria è la loro stanza. Lui non si lamenta, miamadre è paralizzata e brutta. Credo proprio che le facciacomodo, a mia madre, essere paralizzata. Non fa un tubotutto il giorno tranne guardare la televisione e fare i su-doku con le soluzioni in fondo. Mio padre ha abbassato ilfornello perché possa prepararci delle crêpe ogni tanto, oriscaldarci dei ravioli in scatola, i miei preferiti.Ma lei non fa niente. A parte cambiare canale. Sfogliare

le riviste. Fare i test sul sesso e sull’amore. E gioire dellacellulite di qualche star sulla spiaggia. Ha avuto un inci-dente andando al lavoro quando avevo sette anni. Da quelgiorno, faccio il bagno da solo. Eppure la vasca da bagno èbassa. All’altezza giusta, in teoria, come se il produttoreavesse pensato che una madre paralizzata dovesse co-munque riuscire a lavare suo figlio. Io mi dimentico sem-pre di insaponarmi il dietro delle ginocchia, delle orecchiee delle caviglie, ma profumo di aloe vera. Cioè, almenostando a quello che dice il flacone. Non l’ho mai annusa-ta, dal vivo, l’aloe vera.Mia madre mi pettina soltanto i capelli e mi fa la riga

più dritta possibile. Da una parte. Dice che fa serio per lascuola.

Quel giorno stava facendo le prove con mia sorella chepartecipava al concorso di Miss Fête de la Mirabelle. Mia

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sorella avrebbe voluto essere nera. La sfiga ha voluto chefosse bianca. Bianchissima. Biancastra. Le si vedono tuttele vene. A tavola, le faccio sempre la stessa battuta: “Ivo-riana, mi passi i tovaglioli bianchi, grazie!”.Sono l’unico a capire la battuta, ma siccome una bat-

tuta spiegata non è più una battuta, che se la sbrighino dasoli. Si fa le treccine africane ma le si vede il cuoio capellu-to rosa. Si ostina a cotonarsi per avere più volume, ma nonc’è niente da fare, è pietosamente francese al 100%, miasorella. Sono convinto che pensi che scopandosi tutti i neridel quartiere lo diventerà un po’ anche lei. Ma su di lei nonstinge nient’altro che la reputazione di baldracca. Prendelezioni di danza africana all’associazione, solo che non hail culo giusto per queste cose. Il suo tira verso il basso in-vece di rimbalzare verso l’alto. Ci mette tutta l’anima, male sue gambe di bianca sono programmate per camminare,non per ballare lo zouk.Mi aveva chiesto di scriverle un breve testo di presen-

tazione per il concorso. Il comitato delle miss voleva assi-curarsi che, oltre ad essere carine, le ragazze fossero ancheintelligenti.– Puoi dire: “Attualmente sto seguendo dei corsi da

estetista, ma ho un sacco di progetti. Come la mia regione,che unisce tradizione e modernità, sono una ragazza friz-zante e se verrò eletta sarò una miss impegnata nel sociale”.– Sì ma non è che io faccio proprio l’estetista. Ri-

costruisco le unghie, faccio la french…– Allora puoi dire: “Attualmente sono protesista ungu-

lare ma ho un sacco di altri progetti”.– Ah, questa mi piace! Pro com’era?– Protesista ungulare.

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– Sì! Sembra una roba tipo medico, così…È andata in camera a provare con mia madre che le da-

va direttive grottesche, del tipo “tieni sempre la boccasemiaperta, fa misteriosa” oppure “non rispondere mai no,di’ sì, ma…” o ancora “una lacrimuccia non fa male a nes-suno”. Dalla porta socchiusa, le sentivo impantanarsi in parole

di cui ignoravano il significato.– Polo, per dire che una è un po’ timida, si dice “sono

puritana” oppure “sono pudica”?Ho risposto: – Né l’uno né l’altro, si dice “sono una peripatetica”.Mi sono alzato per andare a spiegarle che il termine più

appropriato era peripatetica che significava pura e pudicainsieme, riservata ma che sa stare al mondo, una che amala vita, insomma…L’ha annotato con cura sul suo manuale da miss. Non

avrebbe mai controllato. Non vedevo l’ora che arrivasse ilgiorno in cui avrebbe risposto, con la bocca semiaperta:“Sono una peripatetica e, come la mia regione, sono unaragazza frizzante”. Sapevo che, se fosse stata eletta, sarebbefinita a fare pompini a tutti i calciatori di serie B perché,così come la sua regione, lei, mia sorella, ha il gusto dellecose buone…

Quando mio padre è rientrato gli ho preparato delpesce surgelato con patate al forno.Mia sorella ha apparecchiato provando il suo testo. Pa-

pà è andato meccanicamente a dare un bacio a mia madreprima di sprofondare sul divano-letto del salotto-sala dapranzo. Lo spazio è un vero problema per noi. Mi ha

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chiesto di dargli il piatto e si è addormentato con il teleco-mando in mano e la bocca semiaperta. Non per quelle ra-gioni. Non per avere l’aria misteriosa. Doveva uscire dinuovo dopo poche ore per fare le pulizie da qualche parte.Io e mia sorella siamo rimasti a tavola solo per una

questione di parvenza. Sono io che insisto sempre. Vogliomantenere una parvenza di vita di famiglia, di regole, unbriciolo di disciplina. Solo mangiare seduti a tavola, comefanno in TV, sulle riviste d’arredamento, da Marwan, ilmio vicino, e dai Miller, sul mio manuale d’inglese. Cercoanche di fare conversazione, come fanno nei miei libri.– Lo sapevi che Primo Levi, quand’era nei campi di

concentramento, si lavava ogni mattina con la sua urinaper mantenere il rituale del lavaggio quotidiano?– Eh?– Per non dimenticare di essere un uomo, quando lo

trattavano come un cane.– Primo non so chi sia, secondo me ne sbatto di questo

tizio.Morta dal ridere, mia sorella ha separato il merluzzo

bianco dalla panatura ultracalorica e l’ha mangiato senzasale, per via del concorso imminente.– Ma che spiritosa!– E poi che schifo lavarsi con la piscia.– Ma no, invece, era più che altro per fare i gesti di

quando ci si lava, hai afferrato il concetto?– No e me ne sbatto.– Lavarsi con la propria urina per non dimenticare di

essere un uomo…– Cazzo, Polo, fa schifo, stiamo mangiando!– Non fa schifo, è una cosa incredibile.

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– Quello che è incredibile è che io me ne sto qui a sen-tire le tue stronzate…Ha preso il suo piatto e ha raggiunto mia madre. Da-

vanti alla TV. Nel letto. Pieno di briciole. Sì, l’avevo lettoin biblioteca. Sì, anche a me piace ostentare. Dire cose chedi sicuro non capirà. Testare la mia nuova cultura. Metter-la fuori strada e sentirla borbottare dei eh? Cosa? Perché?Ma chi? Cosa vuol dire? Mi piace darle una bella lezionequando siamo a tavola. Dirle che bisogna resistere anche sela caduta è inevitabile. La nostra caduta. Con la schienaben dritta e i gomiti ben… non importano i gomiti, bastache mangiamo tutti insieme o quasi.Avrei voluto che mia sorella fosse dalla mia parte per sen-

tirmi meno solo in questa famiglia. Per salvare il salvabile.Le apparenze. La foto di famiglia, insomma. Ogni sera, fac-cio una doppia indigestione: acidi grassi saturi nel piatto efamiglia di merda intorno. Un giorno, avrò un salotto euna sala da pranzo separati, così come un divano e un let-to separati. Una deliziosa moglie in cucina, verdurinefresche di mercato nel piatto come contorno, bambini in-torno alla tavola e io che accendo il fuoco del camino.Scoraggiato, ho sparecchiato la tavola e lavato i piatti.

Piatti spaiati. Coltelli lisci, forchette pericolose, bicchieritaglienti, piatti rigati. E spugne unte. Stava per cominciareil film in seconda serata. Il trailer annunciava un filmfrancese in cui una donna non era sicura di amare un uo-mo che amava a sua volta un’altra donna, a sua volta in-namorata di un uomo che amava un minorenne. Insomma,nessuno si amava. Il jingle della pubblicità ha svegliato miopadre. Per forza, il volume aumenta da solo quando c’è lapubblicità. Mio padre ha richiuso la bocca masticando a

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vuoto, si è tirato su e ha guardato l’orologio. Era venerdì,non avevo scuola il giorno dopo. Quindi potevo aiutarlo.Imbarazzato all’idea di impormi la sua vita, trova sempreun modo per alleggerire la cosa.Quella volta ha detto:– Allora, Polo mio, venghi o non venghi, stasera?Un piccolo errore spassoso per alleviare il tutto, un po’

di humour per camuffare il disastro della serata. Una sera-ta che in realtà è la sua vita. Ho sorriso, rilassa mio padre,e ho risposto come ogni volta:– Vieno, vieno…Voglio bene a mio padre, ma faccio fatica ad ammirarlo.Spesso, quando lo guardo, è a quattro zampe, quindi la

cosa manca un po’ di dignità, per forza…

Quella volta pulivamo degli uffici. Degli “open space”incasinati dopo una festa d’addio. Un impiegato avevatrovato di meglio e se n’era andato, una cosa da festeggia-re. C’erano cotillon e flûte di plastica per terra. Un festonedi carta crespa salutava Cédric, l’amico di sempre di cuiavremmo sentito la mancanza. Ma non era bastato, Cédricalzava comunque i tacchi. Recuperavo i fischietti, leghirlande e le corone da re. Anche le statuine che mettonodentro le torte dell’Epifania. Erano fatte di resina o gesso,dipinte a mano. Mia madre le collezionava da sempre.Buttavo tutto il resto in un grosso sacco dell’immondizia.L’ufficio di Cédric era vuoto, pronto ad accogliere un altroimpiegato che sarebbe stato altrettanto bravo. Se nonmigliore. Altrimenti fuori dai piedi.In un cestino, ho trovato una lettera con sopra tracce di

lacrime. Béné scriveva a Cédric tutto il male che pensava

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di lui. Ce l’aveva con se stessa per avergli creduto, per aver-lo aspettato e aspettato e creduto… Gli augurava un can-cro ai testicoli che poi sarebbe andato di certo in metastasi.Ne era certa: un giorno la giustizia immanente avrebbe fat-to il suo corso… Grandiosa Béné. Grandiosa giustizia im-manente. Non sapevo se lui avesse letto la lettera o se leil’avesse buttata via prima ma quel che era certo era che Cé-dric era un bello stronzo di uomo sposato che si era fattoBéné per tutti quegli anni senza mantenere le promesse.Lui se n’era andato e lei, il giorno dopo, avrebbe stuzzica-to il nuovo impiegato e si sarebbe fatta scopare. PerchéBéné è una cogliona, è il nome stesso che lo dice.Passando l’aspirapolvere, me la immaginavo nel suo ap-

partamento residenziale con vista sul parco e codice all’in-gresso. Candele profumate dappertutto, tende colorate perattenuare il grigiore, un gatto, il suo piccolo confidente,Buddha e rosari, foto di lei al sole che fa le linguacce con leamiche, libri di arredamento e testimonianze di donne pic-chiate o bruciate vive, una bottiglia di vino rosso, unquadro di Gandhi stile Warhol, pasta a forma di pisello tan-to per farsi due risate il sabato, una TV collegata a un mo-saico di canali, perché Béné non sa mai quello che vuole.Ho preso la lettera, ho fatto delle fotocopie e prima di

andarmene, verso l’una di notte, le ho disposte sullescrivanie dei suoi colleghi, tanto perché tutti sapessero cheBéné era andata a letto con Cédric. Mi piaceva l’idea di farscoppiare un bel casino, rendeva il mio lavoro un po’ piùeccitante. Lunedì, al bar, non avrebbero parlato d’altro,Béné sarebbe stata smascherata e le donne del suo pianol’avrebbero disprezzata. Non si meritava niente di meglio,non avrebbe dovuto credere ad un uomo sposato. Sono i

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più grandi bugiardi della galassia, lo sanno tutti. Non han-no scelta, sono sposati.Mio padre ha richiuso la porta d’ingresso e ridato le

chiavi alla guardia notturna. Un arabo. Con un cane rab-bioso. Prima che ce ne andassimo, mio padre è andato apisciare. Io e la guardia abbiamo avuto il tempo di chiac-chierare un po’.– Che cane è?– Un rott.– Fa paura, eh?– Mi ci vedi a fare la guardia con un barboncino?– No, in effetti…– Non dovresti essere a letto, tu?– Be’, aiuto un po’ mio padre, domani non c’è scuola.– Fai bene, piccolo, bisogna aiutarli i nostri vecchi, è

una cosa sacra.– Sì…– Sì.Ci siamo allontanati dal palazzo lasciando l’arabo solo

con il suo cane. Di sicuro lui, con la paga, aiutava il padre.Tutti gli arabi lo fanno. Non guadagnano molto, ma aiu-tano sempre i genitori. E sorridono pure. Gli arabi non co-niugano niente alla prima persona singolare, preferisconoil plurale. Mi è piaciuto che quel tipo m’incoraggiasse avoler bene a mio padre all’una di notte. Così ho volutobene a mio padre, anche se fa la donna delle pulizie. Glidovevo voler bene ad ogni costo, come gli arabi. Anche se,per gli arabi, c’è chi è meglio del padre: la madre. Laseconda persona dopo Dio. Il mio vicino di casa Marwanne ha una come l’ho sempre sognata io. Lì. Sempre. Tuttoil tempo.

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Così, quella sera, tornando a casa, ho voluto bene a miopadre come un arabo. Una volta gliel’ho anche detto. Pernon dimenticarmelo. Mi ha detto che mi voleva bene an-che lui. Abbiamo perso l’ultimo autobus. Abbiamo cam-minato. Ci siamo voluti bene.Nel cortile di scuola, lunedì mattina, mi ha chiamato

Jason: – Ehi Paul! Mio padre conosce tuo padre, lo sai? Luilavora per la ditta di pulizie di mio padre.Troppi padri in questa frase. Un padre di troppo, co-

munque. Che iella, ’sto Jason. Che colpo basso. Davanti aSidonie, oltretutto. In quel momento l’ho odiato. Miopadre.

A volte, di sera, guardiamo il telegiornale e mio padrecommenta ogni notizia. Come tutte le persone che nonhanno un’opinione, la mena continuamente con argomen-ti troppo grandi per lui. Parafrasa il giornalista aggiungen-doci un pfff più personale. Quando il giornalista dice: “Ilconflitto israelo-palestinese si aggrava e oggi, al tavolo dellenegoziazioni, le sedie sono rimaste vacanti…” mio padrerisponde “’Sto conflitto pfff, negoziazioni ’sti cazzi! Vacan-ti, vacanti, sì certo, se ne vanno in vacanza, quei coglioni”.Accompagna tutti i suoi commenti con “comunque, sonotutti uguali!”. La soluzione al problema per lui è semplice.Visto che gli uni e gli altri sognano di buttarsi a marereciprocamente, lui dice: “Li buttiamo tutti in acqua, lon-tano dalla riva, e rimangono solo quelli che riescono atornare a galla. Si farà un bel po’ di posto, te lo dico io…”.Si sbellica, molto fiero della sua osservazione, che non tro-va tanto stupida, in fondo. Con la coda dell’occhio osser-va le nostre reazioni facendo finta di niente.

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Pensa di essere cinico. E per lui il cinismo è roba da ric-chi, da élite, da quelli che possono permettersi di scherzaresu un bambino leucemico, se ne vale davvero la pena, cer-to. Perché la parola buona sta al di sopra di tutto, ma l’in-solenza è regina. Dimentica solo che lui non è altro che unservo. Alla fine del TG, anche mia madre vuole dire la sua.Sempre la stessa: “Be’, possiamo essere contenti di quelloche abbiamo”. Non capisco di cosa parli. No, sul serio. Vapazza per gli argomenti di attualità, mia madre, gente chele assomiglia, indagini nei supermercati, reportage sulCantal. Ma quel che le piace più di tutto è la cronaca nera.Mia madre è una fan dei fatti di sangue. “Un uomo uccidela moglie a colpi d’ascia e ne divora il fegato dopo averloaromatizzato”.Non ne ha mai abbastanza, è sempre alla ricerca di

nuove emozioni. Perché un pedofilo che violenta un bam-bino la commuove fino alle lacrime. Per fortuna che ognigiorno ci sono nuovi casi. I pedofili non mancano. Robada credere che per l’uomo sia naturale amare degli esseriniinnocenti. Obbligata all’espressione di circostanza, la trovauna cosa schifosa e pensa che bisognerebbe castrarli tutti.Non si cambia mai sul serio, dice. Le ricordo che gliresterebbero dieci dita. Che un dito nel culo, quando nonè voluto, fa schifo anche quello.Il giorno dopo, racconta tutto alla vicina che ha visto

esattamente la stessa cosa, dai dettagli più sordidi all’hap-py end: il bambino ha ritrovato la sua famiglia, con ilculo sfondato, ma sano e salvo. Lo seguiranno con unatelecamera per sapere che ne è di lui, un anno dopo,cinque anni dopo, dieci anni dopo. Lo vedranno creareun’associazione contro la pedofilia su Internet. Quello che

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non dirà è che, ancora oggi, andare in bagno è una tortu-ra e che non è mai riuscito a fare l’amore con una ragazza.Io sono per la pena di morte, non capisco tutti questi

dibattiti sulla questione. Si dice che non si risponde allabarbarie con la barbarie. Chi è quel coglione che offre l’al-tra guancia quando gli mollano un ceffone? Lui può farequel che vuole, della sua guancia, ma la mia è stata tocca-ta una volta e nessuno sfiorerà l’altra.Vorrei che mio zio morisse. Il fratello di mia madre.

Non abbiamo sempre abitato in questo quartiere diperiferia. Prima stavamo nel Morbihan e, nel Morbihan,eravamo tutti pigiati nella casa putrida di mio nonno emio zio era un porco. Sono nato lì, a Plouhardec. Credoproprio di essere stato un figlio voluto, al contrario di miasorella che è stata il frutto di un tamponamento sullanazionale 13, una sera, rientrando dall’Alexander’s, quan-do i miei genitori erano più giovani. Si stavano cavalcandosui sedili posteriori della macchina nel parcheggio delladiscoteca, quando un ubriacone ha urtato il davanti dellaloro Simca grigia. Nell’impatto, mio padre è venuto. Era-no suonati al punto da dimenticare come si fanno i bam-bini. Venendo, appunto. Sono stati presi alla sprovvista.L’hanno chiamata Alexandra.Per un po’ le hanno mordicchiato i polpacci e le

natiche. Fino al giorno in cui ci è voluto di più. Bisogna-va portarla al parco, il mercoledì, il sabato e la domenica.Bisognava anche metterle lo smalto quando se lo mettevamamma. Altrimenti urlava e nonno la minacciava con unrovescio della mano, rovinata dalla sega elettrica all’alba diun mattino d’inverno. Ritornava da papà con francobolli

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da collezione incollati sulla punta delle dita perlate di rosa,imparando cosa sono gli schiaffi per aver rovistato nell’al-bum di zio. Ognuno diceva la sua ed era mia madre adavere la peggio.– Ma perché le hai messo lo smalto?– Era per farla stare buona, perdio…Poi sono nato io e abbiamo vissuto tutti insieme, ma

non è che fossimo felici. Il sovraffollamento e la mancan-za di soldi ci rendevano cattivi. Mio padre insultava miamadre, mia sorella picchiava mia cugina, mia nonnaumiliava mia zia e mio zio me lo infilava in bocca. Annega-va la miseria in litri di vino che sapeva di tappo, recuperatinelle cucine del ristorante dove lavava i piatti. Un giornoha vomitato nel bollito misto del tavolo 12. L’hanno licen-ziato. Mia zia se n’è andata con la piccola e ha ucciso ilbambino che stavano aspettando. In un altro paese, perchéaveva già le dita dei piedi. La sera, in cantina, fabbricavotrappole per topi con della groviera come nei cartoni ani-mati. E lui ha detto “Te la faccio passare io la voglia disprecare il formaggio!”. E l’ha fatto. Esattamente come inTV, quando i bambini raccontano che hanno abusato diloro. O che li hanno palpeggiati. Spolverare, abusare,palpeggiare, per fortuna che nella mia vita ci sono le pa-role…E poi mio padre ha avuto una fantastica proposta di la-

voro nella banlieue parigina. Mi ha addolcito il risveglio,quel giorno. Ai piedi del letto, mio padre mi ha detto: “Po-lo mio, è fatta, ce ne andiamo!”. Una lontana cugina gliproponeva un impiego da fattorino nella società per cui la-vorava. A colazione, quel fallito di mio zio moriva dall’in-vidia. Era una vendetta minuscola. Ma comunque una

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vendetta. Non volevo rovinare tutto lamentandomi.Eravamo felici, bisognava far durare la cosa. Andavamo aParigi per vivere come dei parigini.Siamo andati a Saint-Thiers-lès-Osméoles, allée des Œil-

lets, e mio padre non è diventato fattorino. Al suo postohanno scelto un arabo per rispettare le pari opportunità.Quelle pari opportunità che provano che, in fondo, a noigli arabi piacciono. Mio padre, invece, non era uno chepiaceva molto. Certo che anche lui, con i capelli lunghi sul-la nuca e a spazzola sulla testa, se l’andava a cercare… Non ho mai parlato della cantina.Volevo essere come gli altri, che il mio culo fosse exit on-ly. Mio padre mi avrebbe creduto. Mia madre probabil-mente no. Mio padre l’avrebbe ucciso e mi sarei ritrovatoa vivere da solo con mia madre. Preferivo stringere le chi-appe ogni volta che mi veniva in mente, ma che mio padrefosse lì, con me. Sempre. Tutto il tempo. Soprattuttoquando si va a dormire, quando uno pensa. Quando unosi ricorda. E ne può morire.

Il suo collega, che in Mali era capo villaggio e che daLav’Top è capo degli addetti alle pulizie, gli racconta spes-so delle storielle speziate come mafé. A lui piace tirarlefuori, la sera, quando siamo in camera.– Polo, cosa fa un asino al sole?– Non lo so.– Ombra.Scoppiamo a ridere tutti e due. Mi dimentico del mio

culo e mi addormento serenamente.– Buonanotte, Polo mio.– Buon lavoro, papà.

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