Mies Van Der Rohe (1)

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Ludwig Mies van der Rohe Padiglione di Barcellona 1929 Neue National Galerie Berlino 1968

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Ludwig Mies van der Rohe

Padiglione di Barcellona 1929

Neue National Galerie Berlino 1968

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LUDWIG MIES VAN DER ROHE – PADIGLIONE DI BARCELLONA• E' la ricostruzione (1986) del padiglione realizzato dal grande architetto americano di origine tedesca Mies Van der Rohe, in occasione

dell'Esposizione Universale del 1929, che venne in seguito distrutto, considerato uno degli esempi più significativi dell'architettura razionalista del XX sec.

• Il Nel padiglione di Barcellona, Ludwig Mies van der Rohe presenta il vocabolario dell'architettura, in maniera poetica, esaltandone le possibilità. Le lastre delle pareti in marmo rossastro e in onice rilucente, che si distendono sotto la copertura piatta e come sospesa, diventano delle astratte superfici espressive. Il gioco dei riflessi di luce sulle pietre levigate, sulle superfici metalliche, sui pilastri di acciaio cromato si rovescia su due bacini d'acqua orizzontali. Lo spazio interno e quello esterno si compenetrano armonicamente. Costruito solo come edificio provvisorio per l'Esposizione internazionale, il padiglione diventa presto celebre per la chiarezza del suo razionalismo. Dopo la sua ricostruzione, il ritmo superiore dei suoi spazi induce alla meditazione, in un'architettura pura, liberata da ogni finalità utilitaria.

• Materiali: acqua, acciaio, cristallo e marmi pregiati (il travertino romano, il marmo verde delle alpi, il marmo verde antico di Grecia e l'onice).• “Tutto parte da una lastra: la lastre di onice. Mies la comprò non appena gli fu commissionata l'opera. Non vi era tempo per sceglierne una fatta

su misura e si dovette "accontentare" di quella che riuscì a trovare. Si fa per dire, visto che spesse esattamente un quinto dell'intero costo del padiglione. Dopo tutto, la struttura doveva accogliere il re di Spagna. La storia di Mies e della parete potrebbe continuare a lungo, ma ciò che ci importa far capire è come questa sia stata il metro di tutto l'edificio, "l'accidente" che se saputo domare crea architettura. Le sue misure hanno proporzionato tutto il resto. Ha inoltre suggerito quale doveva essere il linguaggio architettonico da usare: il De Stijl ovviamente. Da quel momento le lastre si sono fatte 1000: materiche nei setti murari; virtuali nello specchio d'acqua; sospese come le coperture; evanescenti come le vetrate. L'importante che siano lastre, isolate o continue oltre la giuntura. Queste superfici si fanno parole di un meraviglioso discorso dove la grammatica è il rigore razionalista, la poesia è la fluenza spaziale. La sintassi della struttura portante parla il linguaggio dell'acciaio: pilastri cruciformi, cromati per sparire allo sguardo. La loro forma è molto più indagata di quanto possa apparire. Solo in sezione se ne riesce ad apprezzare le doti tecniche. Per quel discorso che fa Mies sulla verità del procedimento costruttivo, vengono lasciate delle viti a vista sulla superficie dei pilastri che fanno presagire quanto avviene all'interno. L’innesto con il tetto in cemento armato avviene con una semplice compenetrazione tra le parti che ci suggerisce una visione paratattica del progetto, ovvero per somma di elementi. Risulta facilmente intuibile il sistema con il quale agiscono le forse. In questo senso possiamo dire che non si ha voglia di occultare il processo di fabbricazione, seppure venga usato un elegante fare plastico alla Wright. La magniloquente bellezza del padiglione è esclusivamente affidata alla decorazione intrinseca dei materiali usati, decorazione che non vuole essere ornamento, ma parte integrante dell'architettura, in piena filosofia "less-is-more". È questo, a mio avviso il più grande insegnamento di Mies, non certo perché sia stato il primo ad ipotizzare dette teorie, ma perché ne fu maestro ineguagliato. Considerando quello che doveva essere lo scopo del padiglione credo che sia opportuno guardare alla questione del soleggiamento non come un problema di temperatura, ma dal punto di vista dello sfruttamento della luce. Questa infatti abbaglia la statua che cerca di proteggersi, riflette nella parete e nello specchio d’acqua della corte interna per poi finire convogliata negli ambienti interni. Il gioco di vedute e scorci è una sorta di trappola emotiva che “costringe” il visitatore a svoltare l'angolo e a curiosare nel nuovo ambiente, dove Mies pone puntualmente un elemento su cui catalizzare l'attenzione: una parete in onice, una statua, uno specchio d'acqua. Anche il mobilio può essere scritto a questo elenco: sebbene da riferirsi al less-is-more non appare discreto o addirittura minimalista, ma si impone sulla scena. Soprattutto la celeberrima sedia Barcellona. Nella sua riconoscibilissima possa plastica appare come se già fosse sottoposta al peso di un uomo. Più che un senso di stabilità comunica una imminente rottura, ma l'imbottitura con la sua soffice leggerezza "istiga" alla seduta. Compromesso che funziona se si considera il successo avuto all'epoca e l'ampio utilizzo che se ne fa ancora oggi, nonostante a mio avviso risulti suscettibile di critiche.Il repertorio architettonico usato nel padiglione viene quasi integralmente trasferito nelle sue fattezze estetiche in casa Tugendhat, seppure cambiandone il lessico. Dopo tutto, la progettazione di entrambe le costruzioni è contemporanea e potremmo definirle le prove generali per il raggiungimento di una nuova eleganza che non trova la sua ragion d'essere nel logoro linguaggio neoclassico o nella retorica delle colonne e delle cupole. Nulla di nuovo potremmo dire, ma Mies nel padiglione tedesco raggiunge livelli poetici e stabilisce un nuovo traguardo per il De Stijl (forse mai eguagliato)”.

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MIES VAN DER ROHENeue Nationalgalerie – Berlino 1968

• È l’unica opera realizzata da Mies Van Der Rohe in Germania dopo la II Guerra mondiale ed il più significativo edificio museale della città dopo l'Altes Museum di Schinkel. Con quest’opera l’autore riportò in Europa la sua architettura di classica eleganza, tutta dominata dal vetro e dall’acciaio. Parte integrante del Kulturforum, le sue forme creano volutamente un contraltare razionale all'architettura neoespressionista della vicina Sala concerti della Philarmonie di Scharoun. È una nuova e perfetta variazione sul tema del grande salone trasparente isolato, dal volume puro e prismatico, senza pilastri interni. L’edificio si imposta su una piattaforma sopraelevata rispetto al piano stradale. L’interno si sdoppia in due manufatti: il primo è sistemato in uno spazio seminterrato, il secondo è solo una copertura chiusa da pareti trasparenti; gli spazi sono però comunicanti e liberamente percorribili dallo sguardo e dal movimento dei visitatori. Nel basamento seminterrato (destinato alle collezioni permanenti) si trova un museo convenzionale, con i servizi, gli impianti e i locali di esposizione liberamente divisi per mezzo di pareti mobili, illuminati e aerati artificialmente (tutto un lato è aperto a vetrate su un giardino, lievemente incassato nel terreno e riservato al riposo dei visitatori). La parte superiore, completamente trasparente, contiene l'area destinata alle mostre temporanee. È coperta da una grande piastra metallica di 1250 tonnellate, sorretta da pilastri in acciaio a croce, due per lato; gli angoli sono a sbalzo. La copertura è quadrata (con lato di 65 mt) in modo da non suggerire nessun asse preferenzialmente; negli angoli non vi sono pilastri (per non indicare il volume). Alla semplicità dell'involucro corrisponde una ricchezza di possibili modi di usufruire degli interni; vi sono due itinerari diversi per i visitatori specializzati (che scendono) e per quelli generici, che restano sul basamento; inoltre, per questi ultimi, si presenta una variegata gamma di esperienze, dalla visita minuziosa allo sguardo gettato di passaggio. Ai lati ci sono due scalinate esterne che conducono alla piattaforma del seminterrato, mentre tramite la scala sulla facciata si accede all’ingresso principale. Dietro all’edificio c’è il giardino delle sculture.

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