Metropolitan Monster di Luca Calo

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Fred Waisman è un valente avvocato londinese. Una vita tutto sommato felice la sua, con alle spalle una buona famiglia, degli studi importanti, un futuro davvero promettente come dirigente dello studio legale in cui opera da anni e al fianco di una donna meravigliosa come sua moglie Susan. Tutto sembra andare per il verso giusto nelle loro vite almeno sino a quando Fred non cade vittima di un terribile incidente che gli causa la perdita parziale della memoria.

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LUCA CALO’

Metropolitan

Monster

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Copyright © 2011 CIESSE Edizioni Design di copertina © 2011 CIESSE

Edizioni

Metropolitan Monster di Luca Calò

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione, anche parziale. Le richieste per la pubblicazione e/o l’utilizzo della presente opera o di parte di essa, in un contesto che non sia la sola lettura privata, devono essere inviate a: CIESSE Edizioni Servizi editoriali Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) Telefono 049 7897910 - 049 8862964 Fax 049 2108830 E-Mail [email protected] P.E.C. [email protected] ISBN 9788897277415 Collana BLACK & YELLOW

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Versione eBook http://www.ciessedizioni.it NOTE DELL’EDITORE Il presente romanzo è opera di pura fantasia. Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, indirizzi e-mail, siti web, numeri telefonici, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale e involontario.

Quest’opera è stata pubblicata dalla CIESSE Edizioni senza richiedere alcun

contributo economico all’Autore.

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A tutti coloro che hanno scelto di rimanermi vicino....

nonostante tutto... Grazie.

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BIOGRAFIA DELL’AUTORE Luca Calò ha ventuno anni, nato a San Pietro Vernotico (Br) e frequenta il terzo anno della facoltà di Scienze della Comunicazione all’Università di Lecce. Ha pubblicato una raccolta di racconti erotico - sentimentali sul web e due racconti dello stesso tema sono presenti nelle antologie Stranger Love e Ossessioni d'amore pubblicate da My secret diary.

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1.

Il locale era deserto. Solo pochi tavoli ancora occupati e due giovani ragazze in uniforme intente a mettere ordine un po’ ovunque. Le vetrate erano state tirate a lucido col vapore. Individuavo con sorprendente dovizia e scrupolosità i nostri corpi imperfetti tratteggiati come bozze in sanguigno anche oltre i confini possibili della realtà, quelli che dimoravano nella dimensione delle grandi distanze.

Volevo che il mio cervello memorizzasse le sue forme, il suo viso, la lucentezza dei suoi occhi per soccorrermi nei momenti di sconforto che ero sicuro si sarebbero succeduti dopo quella sera. Era ricurva sul suo boccale di birra mezzo vuoto e i suoi capelli sale e pepe erano indistinte macchie scure nella tela di vetro alle sue spalle. Fissai la mia mano da uomo importante e allampanato attraverso il riflesso della parete di fronte e mi chiesi se nei miei occhi fosse distinguibile anche la più piccola percentuale di serenità che constatavo in quel momento. Provavo vergogna e un infinito stato di completa distensione che non mi spiegavo e

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che avevo imparato a dimenticare, nell’infinità di emozioni che mi ripetevo nella testa.

Sino ad allora, perlomeno, non avevo avuto grandi problemi a ricordare le cose. Nonostante tutto, la semplice funzione mnemonica propria di un uomo di giovane età, non mi concedeva una sufficiente visuale d’insieme per ricordare a pieno l’interezza della mia vita vissuta oltre la Manica al finire degli anni novanta. Dal principio credevo fosse l’inattività, in cui letteralmente sprofondava in quegli anni la mia vita tra lavoro e matrimonio, ad assottigliare radicalmente l’occasione di registrare ricordi lieti o che valesse la pena riportare a galla in futuro. Successivamente, quando cercavo con tutto me stesso di ritornare agli anni seguenti il matrimonio, in cerca di consolazioni o conferme, mi imbattevo in un impenetrabile telo nero attraverso cui lo sguardo non riusciva a filtrare, che non riusciva a smembrare. Ricordi nascosti, irraggiungibili.

Vi era stato, dunque, un intermezzo di tempo rilevante dalla mia ultima percezione del reale, tra ottobre e dicembre del’97 credo,

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pochi mesi prima del viaggio, di cui non registravo alcun ricordo. Un po’ come una pellicola scottata da onde magnetiche. In un periodo inesatto della mia vita, vi era un grande vuoto incolmabile, un punto morto oserei dire, che interrompeva il corso normale dei miei ricordi. Per il resto, in seguito a quest’apparente morte inspiegabile di pensieri, il mondo riacquistò la capacità di attrarmi e io sembravo aver ritrovata la volontà di ricordare ogni cosa.

Ero sempre stato un giovane ambizioso. Avevo condotto la mia adolescenza come molti ragazzini tipici della classe sociale medio borghese e della mia generazione. Mio padre George si occupava della contabilità presso un’azienda di mobili in una modesta cittadina vicino Londra, mentre mia madre Susan arredava interni trovando sempre il modo di prestare la sua disponibilità per gite scolastiche e altro quando i genitori dei mie compagni di classe erano eccessivamente oberati dagli impegni. Venni su al meglio, come i miei genitori si auguravano che facessi, in seno a sani principi come la religione, l’onestà e la fedeltà. Entrambi furono orgogliosi di me quando riuscii a

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portare a termine gli studi. Erano persone disponibili, perbene, iscritte a numerose riviste letterarie e impegnate attivamente nella chiesa. Come accade spesso, furono loro i principali polarizzatori delle mie prime felicità, coloro che mi mostrarono i passi da fare senza inciampare nell’impazienza e nella foga di giungere presto da qualche parte. Stimolarono in me il senso dell’autonomia e della giustizia. Crearono per me grandi obiettivi da raggiungere e la sorprendente tranquillità e sicurezza con la quale li conquistai, negli anni dell’adolescenza, non mi stupì perché ero cosciente delle mie possibilità, delle mie doti ereditate e confidavo in esse per augurarmi il meglio. Intrapresi gli studi da giurista e mi laureai regolarmente in giurisprudenza, diventando consociato di uno dei migliori studi legali della città. Lavoravo otto ore al giorno e guadagnavo al mese più di quanto mio padre avrebbe potuto tirar su, in tre stipendiate, per lui e la mamma. Fu in questo tempo che vidi sbocciare i frutti della mia semina e l’attesa, che mi ero imposto prima di coglierli, aveva addolcito il loro sapore e li aveva resi maturi abbastanza per la raccolta. Sul posto di lavoro conobbi una donna

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splendida che all’epoca era impiegata come segretaria del capo amministrativo. Era cattolica e sagace, credenziali che la santificarono davanti ai miei occhi. Presi coraggio e la invitai a cena un giorno, quando tutti erano andati via e lei era ancora nell’ufficio del direttore intenta a ultimare il suo lavoro. L’intero quinto piano era deserto e solo la mia lampada da scrivania era ancora accesa, diffondendo nei locali una luce protetta, quasi intima. Mi sfilai gli occhiali e aspettai sulla porta del mio ufficio che lei terminasse il suo lavoro o che alzasse lo sguardo e mi guadasse. Non so dove trovai il coraggio di fare quello che feci, sin dai tempi del college non aveva avuto molta importanza scoprire quali fossero le credenziali giuste per le quali una donna avrebbe dovuto attrarmi, per piacermi, o cosa avrei fatto io per le stesse intenzioni, le ragazze erano giuste e basta e io ero giusto per le loro dimensioni e basta. Ora come ora credo di essere stato io a non prestare mai caso a come funzionassero certe cose tra uomini e donne, persuaso dall’idea che nessuna di quelle ragazze, con le quali passavo la notte, potesse mai interessarmi o diventare mia moglie. Straordinariamente,

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Sophie non aveva dimostrato verso di me nessun atteggiamento equivoco o alcun pericoloso slancio di passione per finire poi ad interessarmi, attrarmi verso di lei in una maniera che mai avevo avuto piacere di provare durante tutta la mia vita.

Uscimmo insieme, festeggiammo il giorno del ringraziamento e il Natale. Durante la nostra prima vacanza al Sud, nella Louisiana, realizzammo che sarebbe stato così tra di noi per sempre. Le chiesi di sposarmi al nostro ritorno nella capitale e nemmeno una settimana dopo le nozze comprammo una bellissima casa al centro dello stato democratico più antico del mondo. La stabilità economica che avevamo guadagnato ci permise di vivere in grandi lussi e fuggire dalle responsabilità famigliari una volta ogni mese, scappando al Sud nelle terre calde. Lessi da qualche parte che, quando la gente fugge, lo fa verso il Sud e io non mi chiesi mai perché preferissi il meridione a ogni altro luogo dello stato. Fu una vita tutto sommato felice, io e Sophie ci amavamo ogni giorno come la prima volta, conobbi i suoi genitori, cattolici praticanti, e io presentai lei a George e Susan il giorno del mio

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compleanno. Diluviò quel giorno e la partita dei Knicks, per la quale avevamo i biglietti in tribuna, venne rimandata. La pioggia ci costrinse dunque a casa a cenare con quel che rimaneva degli avanzi del giorno prima e un vecchio film western in tivù. Le due femmina di casa strinsero amicizia da subito, quasi sembravano conoscersi da una vita e questo mi sorprese perché, sino a quel momento, non ebbi mai modo di conoscere mia madre in veste di suocera e ispiratrice e, sotto quella luce totalmente nuova per me e papà, lei riacquistava parte della femminilità perduta nella scia degli anni trascorsi. A uno sguardo distratto di curiosi, sarebbero potute passare come madre e figlia, sedute ore e ore in salotto, sotto la luce di una piantana, a leggere insieme, a parlare del più e del meno su qualsiasi cosa, a scambiarsi vedute su quel che più loro interessava, giardinaggio, letteratura, cucina. Se si prestava perfino sufficiente attenzione, particolari fisici dell’una erano riscontrabili nell’altra, come le orecchie piccole e il naso alla francese. Per il resto, la visione di quelle due donne assieme mi procurava un’immensa gioia. Ero felice che le donne che più di tutte avevo saputo conoscere e amare nella mia vita, si

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riconoscessero importanti per me e andassero così d’accordo.

Il giorno del Ringraziamento i miei genitori vennero a farci visita a Londra. Per l’occasione Sophie aveva preparato una cena deliziosa, tacchino, purè di patate e salmone alla griglia. Fu un grande giorno quello, per tutti quanti noi. Ci divertimmo molto a stare insieme, George raccontò alcuni aneddoti piacevoli della mia infanzia, Susan si lanciò invece in una psicanalisi della mia prima adolescenza e delle mie piccole manie, come quella di contare sino a otto prima di andare a dormire o assicurarmi che le coperte del letto avessero due risvolti. Era uno di quei momenti fondamentali nella vita di una famiglia in cui tutto sembrava andare nel verso giusto, dove scoprirsi sempre un po’ di più nei confronti di chi è giunto da poco, è un passo fondamentale e necessario.

“Tua madre è una donna deliziosa tesoro.” Mi aveva detto quando la cena finì e i miei genitori se n’erano andati a bordo di un tassì.

“Lo so, lo so per davvero. Pensa che ha spinto papà a venire sin qui in tassì,se non è una grande donna lei...”

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Sophie rideva mentre cominciava a sparecchiare, confessandomi di non aver mai conosciuto una madre così intelligente e piacevole. La ricetta del salmone alla griglia l’aveva presa da lei e Susan aveva avuto il riguardo di restare in disparte quando io e papà ci congratulammo con Sophie dell’ottima cena servita. Si trovava bene in sua compagnia e io sapevo che per Susan era la stessa cosa.

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2.

La telefonata giunse in un periodo particolare della vita di Sophie, in una mattinata umida di ottobre.

Aveva da poco perduto il lavoro come segretaria rimediando qualcosa in una lavanderia della città per pochi dollari. Il suo ottimismo e la sua lungimiranza, quei patrimoni unici della sua personalità, sembravano aver perduto allora, del tutto, il loro potere portentoso. Niente più sembrava interessarla e l’affetto di chi le stava attorno non sembrava più in grado di reinventare la sua felicità.

Il telefono squillò mentre lei era in cucina a fare colazione. Era George, mio padre, e chiedeva stringente di voler parlare con me. Sophie mi avrebbe raccontato poi che la sua voce in quel momento sembrava provenire da un altro mondo, distante, metallica, sembrava presagire il peggio. Gli disse che ero in ufficio e che avrebbe potuto chiamarmi al mio ritorno, ma l’uomo insistette perciò Sophie, intimorita, credette

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opportuno passargli il numero del mio ufficio.

Risposi già al primo squillo.

“Fred?”

Riconobbi la sua voce; così remota e lugubre. “Papà?”

“Devi tornare subito a casa Fred, si tratta di mamma.”

Non c’era stato bisogno che lo dicesse con tono allarmato. Avevo inteso che qualcosa non andava dalle prime sue parole. Quando si trattava di Susan, avevo sviluppato un singolare sesto senso. Telegraficamente mi spiegò a grandi linee cosa le era accaduto, senza trattenere i singhiozzi o risparmiasi a grandi vuoti di parole.

Susan era in cucina, stava preparando la colazione mentre lui era fuori per controllare la pericolosità di un filo ad alta tensione di un ripetitore ad albero elettrico, che era precipitato fuori dal loro giardino durante il furioso temporale della sera prima. La tempesta aveva reciso il conduttore metallico che era esploso di colpo in un fragorìo pauroso, precipitando appena fuori la recinzione della casa. Fortunatamente non

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c’erano stati danni, il filo era rimasto a mezz’aria senza toccare terra, discosto dal contatto di piante o persone che avrebbero potuto innescare una terribile catena di disastri.

Stava chiamando le autorità competenti quando, nel silenzio del primo mattino, il rumore sordo che giunse dall’interno della sua abitazione fu udibile da parecchi isolati di distanza. Proveniva dalla cucina dov’era Susan. George s’era precipitato da lei usando la porta sul retro, sempre aperta. Entrando, aveva trovato le uova a sfrigolare in padella e la moglie riversa sul pavimento, semicosciente. Era stato subito incalzato dal terrore, da un vuoto senso di inefficienza. Da principio aveva provato a rianimarla da sé, quando le mani avevano smesso di tremare, ma quando tutti i suoi sforzi si furono concretizzati in niente di più che in una grande incompetenza, aveva guidato la mano al telefono e chiamato il 911. Erano le otto circa e gli aiuti giunsero quasi immediatamente con i paramedici. Irruppero dentro casa in divisa, come tanti pezzi di una scacchiera, e montarono la donna su di una portantina che, guidata a mano svelta, filò

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sul retro dell’autoambulanza. George aveva osservato la scena con le lacrime agli occhi e senza muovere un muscolo. Quando un uomo della croce rossa gli apparve di fronte, mi disse George, l’aveva fissato inespressivo, senza registrare del suo viso alcun dettaglio significante. “Lei sta bene signore?” s’era informato l’uomo. L’aveva visto visibilmente sconvolto e aveva temuto che potesse star male. Gli aveva appoggiato una mano sulla spalla per trasmettergli conforto, ma George non lo percepì come un gesto sincero. Lui aveva annuito a stento. Insieme, svelti, avevano robotizzarono alcuni passi verso l’ambulanza ed erano saliti anche loro.

Ora, George mi chiamava dal Medical Center di Londra e aspettava i risultati della risonanza magnetica alla quale Susan era stata sottoposta.

“Non so cosa pensare figliolo. Credevo fosse morta, anzi, in un certo senso ne ero totalmente convinto. Respirava a malapena e il suo sguardo mi oltrepassava senza vedermi. E’ stato orribile.”

George non era mai stato un uomo pratico, incline a prendere iniziative o a ovviare a grandi faccende. Ma amava sua moglie e

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avrebbe fatto di tutto per non vederla morire. Avvertivo il suo impellente bisogno di vedersi confortato da facce famigliari e conosciute, una fantasia che si deve riconoscere a chi ha da poco fronteggiato un dramma familiare. Aveva bisogno di me, di Sophie, quindi lo rassicurai come potei e come avevo previsto, la sua voce riconquistò il colore di un tempo, la padronanza propria della sicurezza.

“Ti aspetto Fred, fai presto!” concluse e riattaccò.

Chiesi al capo amministrativo di poter smontare dal lavoro in anticipo e raggiunsi Sophie a casa, totalmente ignara di ogni cosa. George aveva preferito tenerla all’oscuro per non agitarla, ma lo sconforto e un certo stato di perplessità da cui si era sentita travolgere dopo la chiamata di quella mattina, la fecero muovere con i pensieri nella giusta direzione. Sophie era sempre stata un passo avanti a tutti e l’acume negli occhi, con il quale mi salutò al mio arrivo, me lo ricordò quasi a non volerlo dimenticarlo mai. La reazione che mi aspettai da lei fu diametralmente opposta a quella che in realtà ebbe sotto i miei occhi. Finito di ascoltare, lei mantenne

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una sorta di malinconica compostezza che mi suscitò un pizzico di fastidio. Con aria offesa mi chiese alcune delucidazioni che le chiarii, poi corse in camera a prepararsi. L’ultima immagine che conservo ancora di quella giornata fu la triste eleganza di cui Sophie si vestì. Quella sorta di eterna mestizia che si poteva cogliere in fondo ai suoi occhi, sui profili affilati del volto, la sua ombrosa presenza, fu il permesso di un giorno che non mi venne più accordato.

[...]

Non ricordo altro di quella giornata. Il vuoto di ricordi mi coglie ancora oggi dopo tanto, privo di difese, per poi lasciarmi nudo di saperi, con molte domande e sempre meno risposte riguardanti ogni cosa, ogni aspetto della mia vita recente. Io che attraverso per primo l’uscio di casa e rivolgo a Sophie uno dei miei più tristi sorrisi rassicuranti è l’ultima immagine concessami dai recessi della memoria.

Come se qualcuno avesse premuto il pulsante di un interruttore, avevo dimenticato la sostanza e il peso delle azioni dell’uomo che ero stato mesi prima e i miei ricordi ripresero a scorrere nella maniera più

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giusta dopo un’effettiva considerazione del reale piuttosto che da un fatto ben preciso.

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3.

La stanza in cui mi trovavo era piena di spifferi. Fu questa la mia prima percezione. Il vento sfilava nella stanza attraverso le fessure della porta e si arrugginiva sulla mia schiena umida e nuda. La mia figura anoressica rimbalzava su piastrelle di marmo lucidissime e sul vaso della toilette. Percepivo la consistenza soffice dell’acqua scivolarmi addosso, scaldarmi per un breve attimo e asciugarsi col il vento a suo tempo. Il mio secondo pensiero lo rivolsi alla donna che mi era a fianco, seduta sul bordo della vasca piena per metà. Mi sembrò quasi che dovessi obbligarmi di ricordarlo. E lo feci. Mia moglie era alla mia destra, ricurva su di me, mentre con una mano reggeva sulle ginocchia un libretto della mia libreria, gli occhi abbuiati e i capelli raccolti frettolosamente dietro la nuca. Il suo odore di sudore mi punse il naso.

Sophie, mugolai, e queste furono le mie prime parole, dette con la stessa assurdità impastata di un bambino. Ma lei non ascoltava.

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Con l’unica mano libera imbevette la spugna d’acqua e la fece scivolare sul mio petto. La sensazione fu piacevole, come quella che ci si aspetta possa procurare un dolce bacio in un sogno.

Shopie, continuai. Questa volta più forte e lei finalmente smise di leggere.

Esterrefatta, la donna su due piedi non fece nulla, poi, dopo aver realizzato, lasciò cadere libro e spugna all’interno della vasca, in mezzo alle mia gambe, e mi gettò le braccia al collo in preda alle lacrime. Mi domandai perché quella reazione, ma da come il pianto sconvolse il suo corpo fragile, dedussi che fosse realmente in pena per qualcosa che le mie parole infantili avevano risvegliato.

Mi disse che aveva perso la memoria, che per cinque lunghi mesi ero rimasto catatonico e inerme a letto, mentre lei faceva tutto quello che era in suo potere per non perdere la fede. Mi confessò pure che, in qualche modo, aveva temuto di accettare l’idea crudele di non potermi più rivedere, riabbracciare. E invece...

Ascoltare tutt’a un tratto la mia voce era stato per lei un lampo a ciel sereno. Mille

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parole le affollarono la mente, parole da dirmi, da tenermi segrete, ma in quel momento invece preferì non dirmi nulla, mi afferrò la testa con entrambe le mani e mi baciò i capelli fradici, il naso, le labbra e io non potevo ricambiare il suo slancio d’amore. Toccando i suoi pensieri con la mente, saggiai il primo dispiacere di avermi perduto e la gioia consecutiva di avermi ritrovato dopo tanto cercare, dopo tanto penare. Quando si fu calmata, fece riposare la sua fronte sulla mia e così rimanemmo a lungo. Avrei tanto voluto abbracciarla, dirle qualcosa per confortarla, ma il mio corpo sembrava fasciato in mille lenzuoli bagnati e non rispondeva a nessuno dei miei stimoli né a quelli esterni.

Provai in quel momento un concreto senso di tristezza. Un’infelicità ingiusta che mi rendeva colpevole.

Il libro, dissi e avrei voluto aggiungere dov’era, ma “è nella vasca” fu la parte inespressa del mio pensiero. Lei scoppiò a ridere gettando indietro la testa, dandomi quasi l’impressione che potesse staccarsi di colpo. Era meravigliosa anche così in disordine.