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Bimestrale di astronomia Anno XXXVI Luglio-Agosto 2010 Organo della Società Astronomica Ticinese e dell’Associazione Specola Solare Ticinese 208 Meridiana

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Bimestrale di astronomiaAnno XXXVI Luglio-Agosto 2010

Organo della Società Astronomica Ticinese e dell’Associazione Specola Solare Ticinese

208

Meridiana

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RESPONSABILI DELLE ATTIVITÀ PRATICHEStelle variabili:A. Manna, La Motta, 6516 Cugnasco(091.859.06.61; [email protected])Pianeti e Sole:S. Cortesi, Specola Solare, 6605 Locarno(091.756.23.76; [email protected])Meteore:B. Rigoni, via Boscioredo, 6516 Cugnasco(079-301.79.90)Astrometria:S. Sposetti, 6525 Gnosca (091.829.12.48;[email protected])Astrofotografia:Dott. A. Ossola, via Ciusaretta 11a, 6933 Muzzano(091.966.63.51; [email protected])Strumenti:J. Dieguez, via Baragge 1c, 6512 Giubiasco(079-418.14.40; [email protected])Inquinamento luminoso:S. Klett, ala Trempa 13, 6528 Camorino(091.857.65.60; [email protected])Osservatorio «Calina» a Carona:F. Delucchi, La Betulla, 6921 Vico Morcote(079-389.19.11; [email protected])Osservatorio del Monte Generoso:F. Fumagalli, via alle Fornaci 12a, 6828 Balerna([email protected])Osservatorio del Monte Lema:G. Luvini, 6992 Vernate (079-621.20.53)Sito Web della SAT (http://www.astroticino.ch):M. Cagnotti, Via Tratto di Mezzo 16a, 6596 Gordola(079-467.99.21; [email protected])Tutte queste persone sono a disposizione dei soci edei lettori di «Meridiana» per rispondere a domande

sull’attività e sui programmi di osservazione.

MAILING-LISTAstroTi è la mailing-list degli astrofili ticinesi, nellaquale tutti gli interessati all’astronomia possonodiscutere della propria passione per la scienza delcielo, condividere esperienze e mantenersi aggiorna-ti sulle attività di divulgazione astronomica nel CantonTicino. Iscriversi è facile: basta inserire il proprio indi-rizzo di posta elettronica nell’apposito form presentenella homepage della SAT (http://www.astroticino.ch).L’iscrizione è gratuita e l’email degli iscritti non è dipubblico dominio.

CORSI DI ASTRONOMIALa partecipazione ai corsi dedicati all’astronomia nel-l’ambito dei Corsi per Adulti del DECS dà diritto ai socidella Società Astronomica Ticinese a un ulterioreanno di associazione gratuita.

TELESCOPIO SOCIALEIl telescopio sociale è un Maksutov da 150 mm diapertura, f=180 cm, di costruzione russa, su unamontatura equatoriale tedesca HEQ/5 Pro munita diun pratico cannocchiale polare a reticolo illuminato esupportata da un solido treppiede in tubolare di accia-io. I movimenti di Ascensione Retta e declinazionesono gestiti da un sistema computerizzato(SynScan), così da dirigere automaticamente il tele-scopio sugli oggetti scelti dall’astrofilo e semplificaremolto la ricerca e l’osservazione di oggetti invisibili aocchio nudo. È possibile gestire gli spostamentianche con un computer esterno, secondo un determi-nato protocollo e attraverso un apposito cavo di colle-gamento. Al tubo ottico è stato aggiunto un puntatorered dot. In dotazione al telescopio sociale vengonoforniti tre ottimi oculari: da 32 mm (50x) a grandecampo, da 25 mm (72x) e da 10 mm (180x), con bari-letto da 31,8 millimetri. Una volta smontato il tubo otti-co (due viti a manopola) e il contrappeso, lo strumen-to composto dalla testa e dal treppiede è facilmentetrasportabile a spalla da una persona. Per l’impiegonelle vicinanze di una presa di corrente da 220 V è indotazione un alimentatore da 12 V stabilizzato. È poipossibile l’uso diretto della batteria da 12 V di un’au-tomobile attraverso la presa per l’accendisigari.Il telescopio sociale è concesso in prestito ai soci chene facciano richiesta, per un minimo di due settimaneprorogabili fino a quattro. Lo strumento è adatto acoloro che hanno già avuto occasione di utilizzarestrumenti più piccoli e che possano garantire serietàd’intenti e una corretta manipolazione. Il regolamentoè stato pubblicato sul n. 193 di «Meridiana».

BIBLIOTECAMolti libri sono a disposizione dei soci della SAT edell’ASST presso la biblioteca della Specola SolareTicinese (il catalogo può essere scaricato in formatoPDF). I titoli spaziano dalle conoscenze più elemen-tari per il principiante che si avvicina alle scienze delcielo fino ai testi più complessi dedicati alla raccolta eall’elaborazione di immagini con strumenti evoluti.Per informazioni sul prestito, telefonare alla SpecolaSolare Ticinese (091.756.23.76).

QUOTA DI ISCRIZIONEL’iscrizione per un anno alla Società AstronomicaTicinese richiede il versamento di una quota indivi-duale pari ad almeno Fr. 30.- sul conto correntepostale n. 65-157588-9 intestato alla SocietàAstronomica Ticinese. L’iscrizione comprende l’abbo-namento al bimestrale «Meridiana» e garantisce idiritti dei soci: sconti sui corsi di astronomia, prestitodel telescopio sociale, accesso alla biblioteca.

SOCIETÀ ASTRONOMICA TICINESEwww.astroticino.ch

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N. 208 (luglio-agosto 2010)

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Editoriale

Un numero bello corposo, questo estivo: ben 56 pagine. Soloun'altra volta in passato siamo usciti con un'edizione così riccadi «Meridiana»: nel settembre dell'anno scorso. Il merito, èsuperfluo dirlo, va agli appassionati di astronomia dellaSvizzera Italiana e delle regioni limitrofe, che generosamenteci spediscono articoli di grande qualità scientifica e divulgati-va. Alla redazione rimane solo l'incombenza di «cucinare» eimpaginare questo bendiddìo. Anche per questo (e ce ne scu-siamo) usciamo con qualche giorno di ritardo.

Redazione:Specola Solare Ticinese6605 Locarno MontiSergio Cortesi (direttore), Mi cheleBianda, Marco Cagnotti, PhilippeJetzer, Andrea MannaCollaboratori:A. Cairati, V. SchemmariEditore:Società Astronomica TicineseStampa:Tipografia Poncioni SA, LosoneAbbonamenti:Importo minimo annuale:Svizzera Fr. 20.-, Estero Fr. 25.-C.c.postale 65-7028-6(Società Astronomica Ticinese)La rivista è aperta alla colla bo ra zio ne deisoci e dei lettori. I lavori inviati sarannovagliati dalla redazione e pubblicati secondolo spazio a disposizione. Riproduzioni par-ziali o totali degli articoli sono permesse,con citazione della fonte.Il presente numero di «Meridiana» èstato stampato in 1.100 esemplari.

CopertinaIl buco della BedegliaDall'Alpe Cala (1470 ms/m) sopra Chironico, in Leventina, il dottorAdriano Sassi ha osservato diverse volte la luce del Sole «attraver-sare» una montagna verso sud-ovest: il Pizzo Bedeglia. Su richiestadi Sassi, Sergio Cortesi ha calcolato i due momenti dell'anno in cui ilSole passa per quel punto. Ecco quanto scritto da Sassi il 10 novem-bre 2009:

Egregio Sig. Cortesi,oggi alle 14h50 (come da lei previsto) il Sole è transitato dietro ilbuco sulla cresta del Pizzo Bedeglia. Le invio la foto da me scat-tata da Cala (sopra Chironico, 1470 ms/m) in quel momento. Ilfenomeno è durato circa 30 secondi. La ringrazio vivamente peri calcoli precisissimi che mi hanno permesso di scattare questafoto.

A. Sassi

SommarioAstronotiziario 4Il Ciclo Solare 24: anomalie prevedibili? 19Siamo andati sulla Luna? 28Geomorfologia marziana 36Gli anelli di Saturno 42Plutone 45Le Pleiadi a Delémont 47La foto 48Giornata di studio 49Bando di concorso 51Con l’occhio all’oculare… 52Effemeridi da luglio a settembre 2010 54Cartina stellare 55

La responsabilità del contenuto degli articoli è esclusivamente degli autori.

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Anche il James Webb Space Telescopetrova casa

Come ben sa ogni astrofilo, non è faciletrovare un posto conveniente per collocare ilproprio telescopio: qui c'è troppa luce, lì il cielofa schifo, laggiù è difficile arrivare... A maggiorragione ciò è vero per i professionisti, i cui stru-menti possono costare molte centinaia di milio-ni di euro e quindi impongono scelte avvedutee accorte. Alla fine di aprile riferivamo comel'European Extremely Large Telescope (E-ELT)abbia trovato casa in Cile, sul CerroArmazones. Ma anche nello spazio si pone lostesso problema: dove piazzo l'Osservatorioorbitante? Ecco ora la risposta per il JamesWebb Space Telescope (JWST), successoredell'Hubble Space Telescope (HST): in L2.

Se ti spiegano che l'Osservatorio è spa-ziale e pertanto «in orbita», te l'immagini subi-to come l'HST: intorno alla Terra. Ma chi l'hadetto? In effetti molti Osservatori spaziali ruo-tano invece intorno al Sole. Anche lì però biso-gna trovare una posizione consona alle esi-genze dello strumento. La risposta sta nei cal-coli di un famoso matematico, Joseph LouisLagrange, italiano di origine (tant'è che si chia-mava Giuseppe Lodovico Lagrangia) e france-se di adozione (e mica per niente si era france-sizzato il nome), vissuto a cavallo fra la fine delSettecento e l'inizio dell'Ottocento. Era l'epoca

in cui si approfondiva l'applicazione delle sco-perte matematiche (in origine newtoniane) allescoperte fisiche (newtoniane pure loro).Spopolava la meccanica analitica: il rigorosostudio matematico a tavolino dei sistemi fisicidescritti dalla meccanica classica. Tutta robaconfluita nell'esame universitario di MeccanicaRazionale, gioia e delizia degli studenti conpropensioni teoriche e incubo di quelli più ver-sati per la sperimentazione. Lagrange è unodei numi tutelari della meccanica analitica. Fral'altro, approfondì il cosiddetto «problema deitre corpi»: date le condizioni iniziali di massa,posizione e velocità, come si comportano trecorpi liberi di muoversi e sottoposti solo alleleggi del moto di Newton e alla reciprocainfluenza gravitazionale? Che messa cosìsembra una roba semplice, ma in realtà è unabella sfida. Ebbene, Lagrange scoprì che, peresempio nel caso della Terra e del Sole, esisto-no ben cinque altri punti (poi battezzati da L1 aL5) nei quali il terzo corpo può essere messoper farlo rimanere in una collocazione fissarelativamente agli altri due. In particolare c'èL2, a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra in

Astronotiziario Marco Cagnotti

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posizione opposta al Sole. Messo lì, su un'or-bita più esterna a quella terrestre, il terzocorpo, se fosse sottoposto soltanto all'attrazio-ne gravitazionale del Sole, dovrebbe esserepiù lento del nostro pianeta e dunque rimanereindietro. Invece non è così, perché c'è anche laTerra, la cui influenza gravitazionale stabilizzain L2 il terzo corpo. Che così rimane allineatocon gli altri due. E dunque in L2 noi piazzere-mo il James Webb Space Telescope.

Ma perché proprio lì? Ci sono non pochecontroindicazioni. La principale è l'irraggiungi-bilità. Infatti, se si rompe l'Hubble SpaceTelescope in orbita terrestre, basta (si fa perdire) inviare una spedizione umana con unoShuttle per effettuare riparazioni e sostituzioni.Ma a un milione e mezzo di chilometri è impos-sibile: a quattro volte la distanza della Luna, ètroppo lontano. Perché, allora? Le ragioni sonoprincipalmente tre.

Anzitutto il freddo. Il James Webb SpaceTelescope osserverà il cielo soprattutto nell'in-frarosso. Sicché dovrà essere ben schermatodalle fonti di calore. Se lo mettessimo vicinoalla Terra, il pianeta sarebbe un enorme distur-bo. Invece in L2, con un poderoso scudo pro-tettivo costantemente in direzione del Sole edella Terra, il JWST potrà restarsene comoda-mente a 225 gradi sotto zero.

Poi c'è il campo di osservazione.L'Hubble Space Telescope ruota intorno allaTerra, quindi fa costantemente dentro e fuoridall'ombra del pianeta. E per una parte dellapropria orbita è disturbato dalla luminosità delpianeta e della stella: un grande spreco di pre-zioso tempo potenzialmente utile per le osser-vazioni. Il James Webb Space Telescope, rivol-to sempre in direzione opposta alla Terra e alSole, non soffrirà di questo handicap.

Infine le comunicazioni. Prendiamo il

caso dello Spitzer Space Telescope, anche luiin orbita circumsolare ma a 100 milioni di chilo-metri dalla Terra. Al freddo, senza dubbio. Peròmesso così finisce per trovarsi in alcuni perio-di al di là del Sole. Pertanto è impossibilitato acomunicare con noi. Il JWST, invece, saràsempre nella stessa posizione relativa.Basterà allora puntare un'antenna (più omeno) fissa per mandargli e riceverne segnali.

Insomma, L2 è noto da tempo per esse-re una specie di «Cile dello spazio» per quan-to riguarda gli Osservatori astronomici. Infattiproprio lì si trovano già altri strumenti: WMAP,Herschel e Planck. Ma... un momento: unpunto è... puntiforme, quindi come si fa a farcistare tutta quella roba? In effetti non è precisa-mente lì che vengono piazzati gli strumenti,bensì in un'orbita intorno al vero punto L2.Lagrange ne sarebbe estasiato.

Gli asteroidi che ghiacciarono l'Antartide

Neanche il tempo di metter fuori la testa,e già rischiammo di sparire: 35 milioni di annifa, sul finire dell'Eocene, agli albori della com-parsa dei primi mammiferi moderni, la Terra fusconquassata dall'impatto di un asteroideparagonabile a quello che, 30 milioni di anniprima, aveva sterminato i dinosauri. E non fu ilsolo. Lo sostiene Andrew Glikson, dellaResearch School of Earth Sciences dell'Au -stralian National University a Canberra. Effettocollaterale: l'Antartide si ghiacciò.

Glikson ha studiato il Mount Ashmore:una formazione sottomarina ampia 50 chilo-metri e alta alcune migliaia di metri nel Mare diTimor, 300 chilometri a nord ovest dell'Au -stralia. Di solito queste strutture, i dome, pos-sono essere prodotte da movimenti tettonicioppure vulcani di fango. Tuttavia, dopo aver

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effettuato analisi al microscopio elettronico erilevazioni sismologiche, in un articolosull'«Australian Journal of Earth Sciences»Glikson e i suoi collaboratori respingonoentrambe le ipotesi. Da un lato le fratture nonsono compatibili con quelle osservate in analo-ghe strutture di origine tettonica. Dall'altro i vul-cani di fango non sono mai così grossi: al mas-simo arrivano a 10 chilometri di diametro. Eallora?

Allora nelle dichiarazioni alla stampaGlikson conclude: il Mount Ashmore è statoprodotto dall'impatto di un asteroide da 5 o per-fino 10 chilometri. Obiezione: gli impatti di soli-to lasciano un cratere, non una montagna. Già,ammette Glikson. Quelli piccoli, però. Quelligrossi invece talvolta producono un rimbalzo equindi un rigonfiamento. Nel caso specifico ilMount Ashmore, appunto.

L'asteroide non doveva essere solo, fral'altro. Altre cicatrici contemporanee, come uncratere da 120 chilometri a ovest della costaaustraliana e un altro da 100 in Siberia, docu-mentano un massiccio bombardamento nellostesso periodo. Sicché, considerando la sorteprecedente dei dinosauri, i nostri remoti ante-nati mammiferi primitivi devono essersela vistabrutta.

Mentre gli asteroidi bombardavano laTerra, si scriveva anche il destino ghiacciatodell'Antartide. Infatti fra le conseguenze tettoni-che degli impatti ci fu anche, molte migliaia dichilometri più in là, la scomparsa della lingua diTerra che univa il Sudamerica all'Antartide. Siaprì, insomma, quello che oggi chiamiamoPassaggio di Drake. L'Antartide divenne cosìun continente isolato, circondato dagli oceani.La conseguenza per il suo clima fu un veloceraffreddamento e quindi la comparsa dellacalotta ghiacciata. Che è tuttora lì.

Tutto cambia. Anche il neutrino

Lo hanno battezzato «neutrino mutan-te». Non gli scienziati, ma i giornalisti.Un'immagine che evoca mostri nella mentedell'uomo della strada. In realtà il neutrino nonmuta, ma oscilla fra tre diversi tipi possibili:neutrino elettronico, muonico e tau, ciascunoassociato a un leptone. Sicché un neutrinoelettronico si mette in viaggio attraverso lamateria quasi come se non ci fosse e tranquil-lo tranquillo si trasforma in neutrino muonico,poi in tau, poi ritorna elettronico e così via.Questa, almeno, è la conclusione alla qualesono giunti i ricercatori dell'esperimentoOPERA (Oscillation Project with Emulsion-tRacking Apparatus: i fisici sono capaci diinventarsi qualsiasi cosa pur di ottenere unacronimo di senso compiuto) dopo aver spara-to fasci di neutrini per 732 chilometri nel sotto-suolo, dalla Svizzera all'Abruzzo, dal CERN ailaboratori del Gran Sasso dell'IstitutoNazionale di Fisica Nucleare. Se ne deduceche il neutrino ha una massa. E che quindi nonpuò viaggiare esattamente alla velocità dellaluce, come s'era creduto finora.

Solo che non è poi una grandissimanovità. Il sospetto, praticamente quasi la cer-tezza, c'era già da alcuni anni. E anzi proprioquesta era la soluzione privilegiata al problemadella mancanza dei neutrini solari. Il Soleemette infatti solo un terzo dei neutrini previstidal Modello Solare Standard. Tutti gli altri dovesono? Prima possibilità: non ci sono. Il Solenon li emette. Se è così, il Modello SolareStandard è sbagliato e va corretto, modifican-do per esempio la temperatura nel nucleo,dove avvengono le reazioni di fusione termo-nucleare. Seconda possibilità: i neutrini ci sonotutti ma si sono trasformati e, siccome i rivela-

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tori sono sensibili solo ai neutrini elettronici, siperdono i neutrini muonici e tau. Che (guardaun po') dovrebbero essere proprio i due terzi acausa dell'oscillazione. Insomma, s'ha da ritoc-care o l'astrofisica solare o la fisica delle parti-celle.

Ora, modificare il Modello SolareStandard avrebbe conseguenze devastanti pertutta l'astrofisica stellare, che su quel modellosi fonda perché il Sole è la stella a noi più vici-na e quindi meglio conosciuta. Si può fare,certo: nella scienza non c'è nulla di scritto ineterno sulle Sacre Tavole. Però magari convie-ne prima vedere che cosa succede nella fisicadelle particelle. E che cosa succede? Succedel'effetto MSW (acronimo del meno comodo dapronunciare Mikheyev-Smirnov-Wolfenstein):

l'oscillazione del neutrino quando attraversa lamateria. Oscillazione esplicativa della carenzaosservata di neutrini solari e che pure implicala massa del neutrino.

E così già da tempo l'oscillazione neutri-nica era entrata nella fisica delle particelle.Dove sta ora cotanta novità, meritevole perfinodell'attenzione del TG2?

Bizzarria neutrinica

Materia e antimateria, è chiaro, non sonola stessa cosa. Ma almeno sono simmetrichenelle principali grandezze fisiche, no? Si inver-tono la carica elettrica (se c'è) e lo spin delleparticelle, ma il valore assoluto resta uguale.Se però venissero confermati i risultati del

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Main Injector Neutrino Oscillation Search(MINOS), il neutrino potrebbe essere unamisteriosa eccezione. Alla faccia della simme-tria, il grande amore dei fisici teorici.

MINOS ha non pochi punti di similitudinecon l'esperimento effettuato di recente fra ilCERN e i Laboratori Nazionali del Gran Sasso,di cui abbiamo già parlato. Un fascio di neutri-ni è prodotto qui e spedito laggiù, dove vienerivelato per studiarne le oscillazioni fra un tipoe l'altro: neutrino elettronico, muonico e tau.Per MINOS qui e laggiù sono rispettivamente ilFermilab e il Soudan Underground Laboratory,a 800 metri di profondità nel Minnesota, su unadistanza complessiva di 735 chilometri.Naturalmente non c'è alcuna galleria: i neutriniattraversano la materia fregandosene bella-mente, come se non ci fosse. E sono estrema-

mente difficili da rivelare, tant'è che nei fasci,pur intensi e ricchi di particelle, al loro arrivo siè riusciti a rivelare solo un migliaio di neutriniall'anno.

Oltre a studiare le oscillazioni fra un tipoe l'altro, MINOS misura pure i parametri chegovernano le oscillazioni dell'antineutrino. Già,perché anche l'antineutrino esiste in tre tipi(tutto è simmetrico, no?) che si trasformanouno nell'altro. Ed ecco la sorpresa, comunicatapochi giorni fa durante il congresso internazio-nale Neutrino 2010, ad Atene: uno di questiparametri, la differenza di massa al quadrato, èpiù piccola del 40 per cento per il neutrinorispetto all'antineutrino.

Per la verità c'è un 5 per cento di proba-bilità che il risultato sia frutto solo di un'anoma-lia statistica. Quindi c'è ancora da lavorarci super confermarlo. Ma, se così fosse, sarebbe unbell'enigma. Infatti questa differenza non èspiegabile nel contesto del Modello Standarddella fisica delle particelle: se una differenza cifosse, non dovrebbe essere rivelabile daMINOS. E invece...

Un'altra stranezza dalla fisica fondamen-tale, quindi. In questo periodo ogni tre per duene salta fuori qualcuna nuova. Molto stimolan-te, davvero.

Phoenix è morto

Il silenzio è rotto solo dai bisbigli dei visi-tatori, l'oscurità dai faretti sui reperti archeolo-gici nelle grandi teche. Ma il museo non racco-glie manufatti mediorientali. Per la verità non sitrova neppure sulla Terra. E' su Marte, invece.E gli oggetti esposti sono le sonde terrestriscese sul Pianeta Rosso centinaia di anniprima. Possiamo immaginare così un futuromuseo archeologico costruito dai coloni mar-

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ziani, quando Marte sarà stato terraformato.Fra i reperti più preziosi ci sarà il landerPhoenix, ammarziato esattamente due anni fae proprio in questi giorni consegnato definitiva-mente alla Storia.

Che fosse una missione delicata nessu-no se lo nascondeva. La destinazione diPhoenix era infatti nei pressi del Polo Nord:una regione in precedenza inesplorata. Difficileimmaginare una sopravvivenza della sondaall'inverno oscuro, freddo e lungo (l'anno mar-ziano dura quasi il doppio del nostro). Sicché laNASA aveva previsto circa tre mesi di attività.In realtà, Phoenix ha continuato a comunicareper cinque mesi. Poi, con il sopraggiungere delbuio e il calo della temperatura, è sceso ilsilenzio. Alla NASA immaginavano il landersepolto sotto tonnellate di anidride carbonicacongelata. Ma non smettevano di sperare che,all'arrivo della primavera, Phoenix si sarebbesvegliato dal letargo e avrebbe risposto airichiami delle sonde orbitanti intorno al PianetaRosso. Ma non rinascerà, come l'uccello mito-logico di cui porta il nome.

Già l'anno scorso, con il ritorno del tepo-re (si fa per dire...) primaverile, sono comincia-ti i tentativi di riattivazione della sonda. Ben211. Gli ultimi 61 effettuati dalla Mars Odysseydurante ogni sorvolo. Tutto invano. Fino alleultime immagini raccolte dall'High ResolutionImaging Science Experiment (HiRISE) a bordodel Mars Reconnaissance Orbiter, rilasciateieri dalla NASA. Impietose, mostrano un rotta-me: entrambi i pannelli solari sono scuri e inat-tivi e uno è probabilmente rotto. Perciò addio,Phoenix.

Rimane però l'eredità scientifica del lan-der. «Sebbene il suo lavoro sia concluso, l'ana-lisi delle informazioni raccolte proseguirà anco-ra in futuro», ha dichiarato Fuk Li, del Mars

Exploration Program del Jet PropulsionLaboratory della NASA. D'altronde molto già siconosce su Marte proprio grazie ai dati inviatida Phoenix. Fra le scoperte più importanti, laconferma della presenza di ghiaccio d'acquanel suolo marziano. Non solo: c'è anche il car-bonato di calcio, indizio della presenza, alme-no occasionalmente in qualche momento dellastoria del pianeta, di acqua allo stato liquido. Epure i perclorati, potenzialmente preziosi pereventuali forme di vita. «Il suolo sopra il ghiac-cio può agire come una spugna, con i perclo-rati che accumulano l'acqua presente nell'at-mosfera», spiega Peter Smith, dell'Universitàdell'Arizona a Tucson. «Questo può produrreun ambiente potenzialmente adatto alla vita».

Questo dunque ha scoperto Phoenix. Edè già tanto. Ma non è la vita: né un marsupia-le, né un fiore, né un fungo, né un verme e

Prima (a sinistra) e dopo (a destra) l'inverno: illander Phoenix ripreso dalla HiRISE. «Le

immagini prima e dopo sono molto differenti»,spiega Michael Mellon, dell'Università del

Colorado a Boulder, membro dei team di ricer-ca sia di Phoenix sia di HiRISE. «Il lander

appare più piccolo, e solo una parte della diffe-renza può essere spiegata con l'accumulo di

polvere, che rende le sue superfici meno distin-guibili dal terreno circostante». (Cortesia:NASA/JPL-Caltech/University of Arizona)

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nemmeno un microrganismo marziano sonoancora saltati fuori. Se mai ciò accadesse, ilontani coloni nostri discendenti su Marte terra-formato dovranno farci i conti. Ma per pensarcic'è tempo.

E’ tutta colpa del vento

C'è una miniera di informazioni climati-che, nella calotta polare boreale marziana.L'origine delle sue bizzarre strutture viene rive-lata su «Nature». E rende giustizia a un'ipotesiproposta quasi 30 anni fa.

Visto dallo spazio, il Polo Nord marzianoappare subito peculiare. Anzitutto è penetratoda un lungo canyon, il Chasma Boreale. Con isuoi 560 chilometri è un po' più lungo delGrand Canyon terrestre, ma è più profondo epiù largo. Inoltre numerosi canaloni di minoridimensioni, scoperti nel 1972, incidono il bordodella calotta polare boreale con un bizzarroavvolgimento a spirale, come una girandola.L'origine di queste strutture è rimasta inspiega-ta fino a oggi. Mentre sulla Terra la forma dellecalotte polari è determinata soprattutto dal flus-so del ghiaccio, su Marte devono giocare unruolo fondamentale anche altre forze. Maquali?

Certo, c'erano delle ipotesi. Il ChasmaBoreale, per esempio, secondo alcuni planeto-logi sarebbe stato prodotto da un riscaldamen-to locale di origine vulcanica, sufficiente perfondere la base della calotta in quel punto eprovocare uno sprofondamento degli stratisuperiori. Altri suggerivano invece l'azionedegli intensi venti polari catabatici. Per i cana-loni, invece, era stata proposta la rotazione delpianeta: il ghiaccio periferico, più veloce diquello centrale, avrebbe finito per fratturarsi. Esecondo un elaborato modello matematico i

canaloni sarebbero stati generati dal riscalda-mento solare accresciuto in alcune aree e dalladispersione laterale del calore.

Ecco ora la conclusione finale: la causadi tutto sta nei venti catabatici. Lo confermanodue articoli pubblicati da «Nature» sul numerodel 27 maggio: uno su Chasma Boreale e l'al-tro sui canaloni. Gli autori sono tutti statuniten-si e hanno usato le misure raccolte dalloSHAllow RADar (SHARAD) a bordo del MarsReconnaissance Orbiter della NASA.Strumenti analoghi erano già stati impiegatisulla Terra per studiare dagli aerei laGroenlandia e l'Antartide, ma si dubitava chepotessero essere utili anche dall'orbita. InveceSHARAD ce l'ha fatta e, come spiegano JackHolt e Isaac Smith, dell'Università del Texas aAustin, ha sbucciato la cipolla. Perché propriostratificato come una cipolla si presenta il PoloNord marziano: una successione di strati dighiaccio e di polveri, profonda circa 3 chilome-tri e un po' più vasta della Francia.

Dunque la causa sono i venti catabatici,come abbiamo detto. Freddi e densi, spiranodal Polo Nord verso le latitudini inferiori. Manon hanno formato il Chasma Boreale e i cana-loni a spirale con un'erosione recente e abreve termine, bensì con un'azione sviluppata-si nei milioni di anni necessari alla calottaghiacciata per formarsi. Le strutture osservatesono una conseguenza della topografia sotto-stante, che determina dove e come si formanoi canaloni, e della Forza di Coriolis prodottadalla rotazione del pianeta: la stessa che sullaTerra impone alle perturbazioni boreali di giun-gere da nord ovest e a quelle australi da sudovest. Risultato: i venti scendono spiraleggian-do e modellano la forma dei canaloni.

L'idea non è nuova: l'aveva propostaquasi 30 anni fa Alan Howard, un ricercatore

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dell'Università della Virginia, basandosi solosulle immagini a bassa risoluzione raccoltedalle Viking. Ma era stato criticato e la sua ipo-tesi era caduta nell'oblio. Ora torna in augegrazie al Mars Reconnaissance Orbiter.«Queste strutture sono rimaste inspiegate per40 anni perché non riuscivamo a vedere sottola superficie», spiega Roberto Seu, alla guidadel gruppo di ricercatori che si occupa di SHA-RAD. «E' gratificante vedere che questo nuovostrumento riesce finalmente a fare chiarezza».

Grazie a SHARAD e alle sue misure, ilPolo Nord marziano si rivela una miniera di

informazioni sulla storia climatica del pianeta,memorizzate nelle variazioni dello spessore edella composizione degli strati di ghiaccio e dipolveri e nella forma delle complesse strutturecome i canali, che qua e là cambiano direzionee spariscono perfino. «Nessuno pensava chenegli strati ci fossero strutture così comples-se», conclude Jack Holt. «Gli strati registranola storia dell'accumulazione del ghiaccio, del-l'erosione e dei venti. Da tutto questo, possia-mo ricostruire una storia del clima molto piùdettagliata di quanto ci si potesse aspettare».

Qui sopra, il Polo Nord marziano ripreso dall'or-bita. Ha un diametro di circa 1.000 chilometri.

Sono evidenti il Chasma Boreale che lo penetrain profondità e i peculiari canaloni spiraleggiantilungo il bordo. A destra in alto, una ricostruzio-ne di Chasma Boreale. La linea gialla è il per-corso seguito da SHARAD nella raccolta delleproprie misure dall'orbita. A destra in basso,

una sezione della stessa regione che mostra glistrati di ghiaccio e polveri. (Cortesia:

NASA/Caltech/JPL/E. DeJong/J. Craig/M.Stetson)

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Giove: fu solo un meteoroide

Il 3 giugno due astrofili hanno comunica-to la scoperta di un lampo nell'atmosfera diGiove, interpretato come l'impatto di un picco-lo asteroide: un evento analogo a quelli del1994 e del 2009. Com'è ovvio, dagli astrofili iltestimone delle indagini è subito passato agliastronomi professionisti. Ora le immagini rac-colte dall'Hubble Space Telescope (HST) rive-lano che nell'atmosfera di Giove, dove avrebbedovuto rimanere una traccia dell'impatto... nonc'è niente. Fu dunque solo un'allucinazione?Certo che no: c'era tanto di riprese filmate adocumentare l'evento. E allora?

Allora Giove è stato colpito soltanto daun meteoroide. Grande a sufficienza per pro-vocare quel lampo luminoso, ma piccolo abba-stanza per consumarsi completamente nell'at-mosfera del pianeta, senza lasciare detriti.

Come risultato collaterale, l'HST haanche rivelato un fenomeno in grado di chiari-

re la recente sparizione della BandaEquatoriale Meridionale: la comparsa di unostrato di alte nubi di cristalli di ammoniaca.Secondo i planetologi, fra qualche mese lenubi si dissolveranno e tutto tornerà comeprima.

Roba nuova nel Sistema Solare

Quel che c'è c'è. E quel che non c'è...amen: il Sistema Solare finisce lì. Oltre al Sole,ci sono i pianeti con le loro lune, moltissimicorpi minori fra asteroidi e comete, un po' dipolveri... e basta. Tutta roba che s'è formataoltre 4 miliardi di anni fa e da allora gira per ifatti suoi. Niente di nuovo, insomma. O no? No.Perché compare un sacco di roba nuova, cheprima non c'era.

Tanto per cominciare, a quanto sembradi satelliti planetari se ne formano ancora.Intorno a Saturno, per esempio, ce ne sonoben sette piuttosto bizzarri. Orbitano appenafuori o appena all'interno degli anelli e hannoforme irregolari, come arachidi. Che ti vienvoglia di dire: «To', saranno asteroidi catturatidal pianetone». Poi però vai a misurarne ladensità con gli strumenti a bordo della sondaCassini e scopri che è inferiore a quella dell'ac-qua, cioè un grammo per centimetro cubo.Conseguenza: non si sono formati a partire dalmateriale primordiale. E allora?

E allora boh. Almeno fino a poche setti-mane fa. Perché nessuno era ancora riuscito asviluppare una simulazione numerica capacedi replicare la formazione di questi strambisatelliti di Saturno. Su «Nature», però, un arti-colo di un gruppo di studiosi francesi e inglesiguidati da Sébastien Charnoz, dell'UniversitéParis Diderot di Parigi, rende conto proprio diquesto successo: adesso la simulazione c'è. Si

In quest'immagine raccolta il 7 giugnodall'Hubble Space Telescope con la Wide FieldPlanetary Camera 3 non si vedono tracce del-

l'impatto. (Cortesia: NASA/ESA/M.H. Wong/H.B. Hammel/A. A. Simon-

Miller/Jupiter Impact Science Team)

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tratta della combinazione e dell'adattamento diversioni già esistenti sviluppate per il SistemaSolare nel suo complesso. E mostra come lelune in apparenza intruse si siano aggregate apartire dal materiale degli anelli. C'è infattiintorno a Saturno (ma mica solo a lui) unadistanza ben precisa (che per il Signore degliAnelli vale 147 mila chilometri dal centro) chia-mata «limite di Roche»: è la distanza superatala quale, arrivando dall'esterno, un corpo vienepolverizzato dall'influenza gravitazionale delpianeta. Naturalmente vale anche il contrario: ilmateriale frammentato degli anelli, ossia pol-veri e ghiaccio, quando supera il limite di

Roche allontanandosi... si aggrega. Questiaggregati attraggono altra materia che escedagli anelli, e così via, finché a un certo puntoti ritrovi con un oggetto abbastanza grosso dapoter essere considerato un satellite. Nuovo dizecca. I franco-inglesi pensano che le cosesiano andate proprio così. E nemmeno tantotempo fa: le sette lune saturniane avrebbero,secondo i calcoli, solo 10 milioni di anni.

Intanto, mentre nel Sistema Solare si for-mano nuovi satelliti, altre cose arrivano dal-l'esterno: comete, nello specifico. Rubate dalSole ad altre stelle. Ne sono convinti HaroldLevison, del Southwest Research Institute

Le masse e le distanze di alcuni satelliti di Saturno. Le linee tratteggiate verticali rappresentano glianelli. I satelliti più piccoli e vicini mostrano una distribuzione chiaramente diversa da quella dei

corpi più grandi e distanti. (Cortesia: CEA/SAp)

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americano, e i suoi collaboratori, autori diun'altra simulazione, ma stavolta sulla forma-zione stellare.

Il mistero da chiarire sta ben lontano dalSole: fra 5.000 e 100.000 Unità Astronomiche.Si tratta della Nube di Oort: un guscio sfericonel quale orbitano lentissime palle di ghiacciosporco. Ogni tanto l'orbita di qualcuna vieneperturbata e l'oggetto parte per il proprio viag-gio verso il Sistema Solare interno. Giunto inprossimità del Sole, il ghiaccio sublima e liberavapore e polveri. Nel contempo sulla Terraqualcuno vede in cielo un oggetto chiomatocon la coda e lo chiama «cometa». Se è stupi-do o ignorante o entrambe le cose, penseràche la cometa, in quadratura con Giove e in tri-gono con Venere, induca la fidanzata a fargli lecorna. Se invece è una persona curiosa erazionale, si metterà a indagare sulla natura el'origine delle comete. Così facendo scopriràche dai migliori modelli della formazione delnostro sistema planetario si ricava che nellaNube di Oort ci sono 6 miliardi di nuclei come-tari. Scoprirà anche un'incongruenza: la fre-quenza delle comete in arrivo nel SistemaSolare interno induce a pensare che invece, difatto, nella Nube ce ne siano 400 miliardi. Tsktsk: non va per niente bene. Da dove arrivanotutti gli altri?

La risposta di Levison e dei suoi colleghiè semplice: da fuori. Non è che sia poi origina-lissima: era già stata proposta in un articolo del1990. Però 20 anni fa la potenza di calcolo nonera sufficiente per effettuare una simulazione.Ora invece si può. Ed proprio quanto hannofatto Levison e gli altri, pubblicando i risultati inun articolo uscito nell'edizione on line di«Science». La simulazione riguarda la forma-zione di stelle in un gruppo. Ciascuna di loro ècircondata da un ampio guscio analogo alla

Nube di Oort. Ma attenzione: se alcune dellestelle sono abbastanza massicce, finisconoper sgraffignare i nuclei cometari altrui quandosi verificano incontri stellari ravvicinati.Ebbene, proprio questo è il caso del Sole, unastella che, in quanto a massa, è ben dotatarispetto alla media nella galassia.

Tutto chiarito, allora? Quei 396 miliardi dicomete in apparenza di troppo trovano unaspiegazione? Calma: non è così semplice. Nelmodello ci sono infatti alcune assunzioni impli-cite, non tutte ben confermate. La più fragileriguarda il momento in cui appare la Nube diOort: non tutti i planetologi sono d'accordo suuna sua formazione così precoce. Poi c'è ilnumero dei pianeti: nella simulazione si ipotiz-za, per semplicità, che tutte le stelle del grup-po possiedano una distribuzione di pianetimassicci (e quindi capaci di influenzare le orbi-te dei nuclei cometari) analoga a quella delSole. Infine si suppone che tutte le stelle sianofornite dello stesso numero iniziale di comete.Insomma, c'è ancora da discuterne parecchio.

In conclusione, il Sistema Solare sembraessere un posto assai più dinamico di quantosi pensasse: cose nuove appaiono, altre arri-vano da fuori. Il quadro precedente, più statico,con tutti i giochi fatti da 4 miliardi di anni, sem-bra, se non proprio sbagliato, almeno incom-pleto. E' vero: sono solo modelli che girano inun computer. Ma che altro si può fare? Certonon aspettare milioni di anni per vedere checosa capita davvero.

Dove cercare fra le misure di Kepler?

Ammettiamolo: degli esopianeti in quan-to tali ci frega poco. Sì, sono stati una scoper-ta importante della metà degli Anni Novanta.Ma importante perché ha dimostrato che i

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sistemi planetari sono tutt'altro che una rarità.Prima del successo di Michel Mayor e DidierQueloz non si era certi neppure di questo.Invece ora, in questo preciso momento, cono-sciamo ben 461 pianeti orbitanti intorno adaltre stelle. E il loro numero cresce conregolarità. Sono però pianetoni, perché imetodi usati fin qui consentono di rivela-re l'esistenza solo di corpi di massasufficiente a influenzare il moto dellapropria stella. Così abbiamo sco-perto sistemi piuttosto strani, seconfrontati con il nostroSistema Solare. Per esempiomolti giganti gassosi suorbite strette. Interessante,ma... beh, ben altro cipreme davvero: i pianeti ditipo terrestre. Anzi, nemmenotutti: solo quelli in una fascia cosid-detta «abitabile» intorno alle stelle. E maga-ri (hai visto mai?) proprio quelli abitati. Per sco-varli, la NASA l'anno scorso ha lanciato Kepler:un Osservatorio spaziale in orbita solare.Risultato di 43 giorni di lavoro: misure su 156mila stelle, fra le quali sono stati selezionati750 candidati alla presenza di pianeti.

Com'è ovvio, mica tutti avranno davverodei pianeti di tipo terrestre. Infatti Kepler, cheesplora solo una regione limitata nel Cigno enella Lira, va a caccia di transiti planetaridavanti alla stella, quindi in sostanza cercadelle debolissime variazioni luminose. Conquesto sistema becca di tutto: stelle doppie,variazioni intrinseche, macchie... WilliamBorucki, dell'Ames Research Center, hadichiarato in un video prodotto dalla NASA checirca la metà dei 750 candidati dovrebbe esse-re composta da falsi positivi. Perciò un promet-tente sottoinsieme di 400 oggetti verrà indaga-

to anche usando l'Hubble Space Telescope, loSpitzer Space Telescope e numerosi strumen-

ti al suolo. Nel febbraio del 2011i dati raccolti saranno resi dispo-nibili alla comunità scientifica.La speranza è anzitutto quelladi scovare dei pianeti di tipoterrestre, alcuni dei quali si tro-

vino a una distanza tale dallapropria stella da consentire la

permanenza di acqua allo statoliquido. Poi di selezionare fra loro

quelli sui quali la vita, almeno alivello elementare, è apparsa dav-

vero. Ma ha senso?In un articolo pubblicato dal blog

di «Scientific American», Caleb Scharf,direttore dell'Astrobiology Center dellaColumbia University, suggerisce un

approccio diverso. Anzitutto constatacome le caratteristiche importanti di una

stella siano poche, tutto sommato: massa,età, abbondanze chimiche. Ben diverso è ilcaso di un pianeta: tipo di stella, altri corpi nelsistema planetario, orbita, inclinazione dell'as-se di rotazione, satelliti, campo magnetico,struttura interna, intensità del bombardamentometeorico, attività sismica e vulcanica, presen-za di acqua liquida, composizione atmosferi-ca... In condizioni così diverse, la vita potrebbeessersi adattata in tanti modi differenti, moltidei quali difficili da rivelare. Scharf suggerisceallora un approccio statistico: siccome le risor-se a disposizione sono limitate, invece di con-centrarci sui singoli casi dovremmo occuparcidel quadro generale. Scoprire su un ben preci-so pianeta la «pistola fumante», cioè la provaprovata dell'esistenza di vita a livello elementa-re, con tutti gli indizi al posto giusto, potrebbeessere maledettamente difficile. Ma, se la vita

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è un fenomeno diffuso nel cosmo, sarà piùsemplice dimostrarne l'esistenza attraversomolti e diversi indizi «spalmati» su un vastocampione statistico. Alla fine non avremo l'indi-rizzo di E.T., ma almeno sapremo che c'è. Esarebbe già tanto.

Supernova in 3D

Quello che ti frega è la simmetria. E lasimmetria non va bene. Non è verosimile, lasimmetria. Perché non rispecchia la realtà.Soprattutto, non spiega come mai gli elementipesanti prodotti da una supernova se ne vada-no prima di quelli leggeri, ossia l'idrogeno el'elio. E che sia proprio così lo confermano leosservazioni per esempio della SN 1987A,esplosa nel 1987 nella Grande Nube diMagellano. Bisogna quindi rompere questasimmetria. Ma per farlo servono tre dimensionie ci sono di mezzo i neutrini.

Proprio le simulazioni delle supernovaein 3D sono l'oggetto dell'articolo apparso il 10maggio su «The Astrophysical Journal», firma-to da Hans-Thomas Janka e i suoi colleghi delMax Planck Institute for Astrophysics diGarching, in Germania. Stiamo parlando dellesupernovae di Tipo II: esplosioni di stelle digrande massa giunte al termine della propriaesistenza quando le reazioni di fusione termo-nucleare nel nucleo stellare non sono più suffi-cienti a opporsi alla pressione della massasoprastante. Quando ciò accade, l'astro assu-me una struttura «a cipolla»: negli strati piùesterni l'idrogeno e a seguire l'elio, e poi via viascendendo gli elementi più pesanti... fino alferro. Giunti al ferro, non c'è più storia: la fusio-ne del ferro assorbe energia invece di liberar-ne e quindi non può più reggere l'immane pres-sione. E tutto crolla verso il centro, dove la

materia collassa, viene compressa e si trasfor-ma, per degenerazione quantistica, in unapalla di neutroni compatti: nasce così la futurastella di neutroni grande qualche chilometroche sopravvivrà all'esplosione finale. Se lamassa è sufficiente, potrebbe anche apparireun buco nero, ma questa è un'altra faccendache meriterebbe un altro articolo. Non diva-ghiamo, perché ci interessa quanto accadesopra, non sotto. E accade che il collasso pro-voca un rimbalzo sotto forma di onda d'urto. Glistrati esterni vengono espulsi, la stella (anzi, laex-stella) diventa luminosa come un'interagalassia, alla fine rimane una nebulosa plane-taria e buonanotte suonatori. Se c'era qualcu-no in giro... beh, dopo non c'è più. Dov'è il pro-blema?

Il problema è che, anzitutto, dai calcoli

Nel modello tridimensionale la simmetria siperde nel giro di mezzo secondo. (Cortesia:

H-Th. Janka/Max Planck Institute forAstrophysics)

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sembra che l'onda d'urto non possieda energiasufficiente per produrre l'esplosione. Non solo:come abbiamo detto, le osservazioni mostranol'espulsione prima degli elementi pesanti, chein teoria dovrebbero stare sotto, e poi di quellileggeri. Com'è 'sta cosa? Bisogna provare.

Già, ma mica te la puoi fare in laborato-rio, una supernova. A meno che... non sia unlaboratorio virtuale. E questo è il campo degliastrofisici computazionali: gente non da tele-scopio ma da computer. Gente che si fabbricasupernovae virtuali. Serve una potenza di cal-colo bestiale, perché la densità e la temperatu-ra e la velocità della materia assumono valoriestremi ed evolvono molto rapidamente. Non ècosa da personal computer, per intenderci.Sicché fino a non molto tempo fa ci si limitavaa simulazioni in una dimensione, al massimo indue. Ed ecco la fregatura: c'era sempre quellascomoda, inverosimile simmetria e l'espulsio-ne della materia non era realistica, perchéanche nell'esplosione veniva invariabilmentemantenuta la struttura a cipolla.

Ora però Janka e i suoi colleghi si sonospinti nella terza dimensione. Certo, ci sonovoluti mesi di tempo macchina. Però sonoemersi risultati verosimili, come colonne dinichel a forma di fungo che a 4.000 chilometrial secondo perforano gli strati soprastanti diidrogeno e di elio. Tuttavia nemmeno la simu-lazione porta sempre a una vera e propriasupernova. Un articolo del 2008, pubblicato su«The Astrophysical Journal» da Jeremiah W.Murphy, del Dipartimento di Astronomiadell'Università di Washington, e AdamBurrows, del Dipartimento di ScienzeAstrofisiche dell'Università di Princeton, hamostrato i vantaggi del passaggio da una adue e poi da due a tre dimensioni: le simulazio-ni producono assai più spesso un'esplosione.

Di fatto, in tre dimensioni si inserisce anchel'effetto dei neutrini. Già, perché proprio i neu-trini possono spiegare il successo dell'ondad'urto nel provocare la deflagrazione. E' benvero che la stragrande maggioranza di questeparticelle attraversa la materia come se non cifosse. Ma non tutte tutte. Siccome nel collassofinale di neutrini ne viene prodotto un casinoesagerato... ecco che il flusso neutrinico fadeflagrare la stella.

Ora, proprio queste simulazioni con l'in-terazione fra i neutrini e la materia sono laprossima sfida computazionale per Janka e isuoi colleghi. Serve un computer da un peta-flop, cioè un milione di miliardi di operazioni alsecondo. E' tanto? E' poco? E' abbastanza,diciamo. La barriera del petaflop è stata sfon-data solo nel 2008 dal computer militare statu-nitense Roadrunner, di IBM, ora aggiornato a1,7 petaflop e il terzo più veloce del mondo.Insomma, non è un sogno impossibile ma...beh, piuttosto ambizioso, questo sì. Ma chisse-nefrega: se c'è una certezza, è che la potenzadi calcolo cresce inesorabile. Basterà soloaspettare un po'.

Giove trae in inganno la cosmologia?

Che cosa c'è nell'universo? Sembra faci-le: ti guardi in giro e misuri la quantità di mate-ria e di energia... pianeti, stelle, galassie equant'altro... e poi fai la somma. Dov'è il pro-blema? Beh, anzitutto (pare) un sacco di mate-ria c'è ma non si vede, però fa sentire il proprioinflusso gravitazionale: è la materia oscura.Poi (sempre pare) l'universo accelera la pro-pria espansione, sicché sei costretto a ipotiz-zare l'esistenza anche di una non meglio defi-nita energia oscura. E, se già la materia oscu-ra è un grattacapo per i fisici teorici, l'energia

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oscura è un vero incubo, perché i tentativi dispiegazione teorica e le evidenze sperimentalidifferiscono di 120 ordini di grandezza. Eppureentrambe, materia ed energia oscure, ci sono,sono lì, esistono. Lo conferma WMAP. Maforse si sbaglia, dicono due ricercatoridell'Università di Durham.

Accendi la televisione e seleziona unafrequenza in cui non c'è alcun segnale. Ciò chevedi è la «neve», come talvolta viene chiama-ta: il rumore di fondo elettromagnetico.Ebbene, di quel disturbo l'1 per cento provienedalle profondità del cosmo ed è la radiazionecosmica di fondo (CMB, che sta per Cosmicmicrowave Background Radiation): è statadefinita «il primo vagito dell'universo» e ha unpicco nelle microonde. Scoperta per pura bottadi fortuna nel 1965 da Arno Penzias e RobertWilson, ai quali ha procurato il Nobel, da allorala CMB è considerata una delle migliori provedel modello cosmologico del Big Bang. E per-mette di misurare la temperatura dell'universo:2,725 gradi Kelvin. Della CMB sono importantisoprattutto le irregolarità, dalla cui distribuzio-ne si può ricavare non solo l'età ma anche lacomposizione del cosmo: quanta materia visi-bile, quanta materia oscura, quanta energiaoscura. Uno degli strumenti più sofisticati perstudiare la CMB è il Wilkinson MicrowaveAnisotropy Probe (WMAP) della NASA, lancia-to nel 2001. Le sue misure hanno permesso diconcludere che l'universo ha 13,75 miliardi di

anni e la materia visibile rappresenta il 4 percento, la materia oscura il 23 e l'energia oscu-ra il 73 (pressappoco, con qualche incertezza,ma non stiamo a sottilizzare).

WMAP ha però bisogno, come tutti glistrumenti, di essere calibrato. I cosmologihanno deciso di usare una sorgente stabile dimicroonde: il pianeta Giove. E su questa basefondano tutte le conclusioni successive. Oraperò Tom Shanks e Utane Sawangwit, rispetti-vamente professore e dottorando dell'Uni -versità di Durham, in Inghilterra, propongonoun'alternativa in un articolo in corso di pubbli-cazione su «Monthly Notices of the RoyalAstronomical Society: Letters»: le radiogalas-sie, che pure emettono microonde. E conclu-dono che, calibrando diversamente le misuredi WMAP, si presentano nuove possibilità teo-riche. Niente più energia oscura, per esempio.In compenso si apre uno spiraglio per teoriealternative della gravità.

C'è però un limite nel ragionamento diShanks e Sawangwit: non riescono a spiegarela discrepanza. Insomma, non si capisce perquale motivo per calibrare WMAP bisognereb-be privilegiare le radiogalassie rispetto a Gioveo viceversa. I due ricercatori lo ammettono econcludono che «è importante identificare leragioni delle differenze». Grazie, lo sapevamogià. Perciò ora non resta che attendere l'anali-si dei risultati forniti da Planck, l'Osservatoriodell'ESA che ha raccolto il testimone di WMAP.

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La nascita del Ciclo 24

La prima Regione Magnetica Bipolare(BMR, Bipolar Magnetic Region, tanto per usare iconsueti acronimi anglosassoni), compatibile conun ciclo di indice pari secondo le leggi di Hale(polarità precedente negativa nell'emisfero Norddel Sole), è stata osservata il 13 dicembre del2007 a poco meno di 30° di latitudine Nord. Nonha prodotto macchie, quindi non è stata mainumerata dal NOAA (la National Oceanic andAtmospheric Administration, che dal 1972 effettuail conteggio progressivo delle Regioni Attive), percui la «nascita ufficiale» del ciclo è stata posticipa-ta di qualche settimana, quando, intorno al 4 gen-naio del 2008, è stata rilevata la Regione AttivaNOAA 10981, la prima a presentare della mac-chie e ad avere le caratteristiche magnetiche cor-rette per poter essere assegnata a un nuovo ciclodi attività solare. Da allora è stato tutto un susse-guirsi di voci che si rincorrevano circa la possibili-tà che il nuovo ciclo avrebbe potuto presentaredelle caratteristiche eccezionali, sia in un sensoche nell'altro, cioè che avrebbe potuto essere unciclo di forza notevole, forse mai registrata nelpassato, oppure, al contrario, che non sarebbecerto passato alla storia per essere stato uno deicicli più intensi ma sarebbe stato inghiottito dal-

l'anonimato più assoluto. Arrivati a oggi il tempo,che com'è noto è galantuomo, ha fatto poi giusti-zia, per una volta tanto senza dar ragione a qual-cuno in particolare, piuttosto dando torto un po' atutti. Infatti nessuno dei modelli previsionali svilup-pati negli ultimi tre anni riesce a dar conto di unasituazione nella quale gli osservatori del Sole sitrovano a operare e che ha caratteristiche moltospiccate di un ciclo che tarda ad avviare la suaattività, mantenendosi piuttosto in una fase moltosimile a quella di minimo prolungato di quello pre-cedente, pur con le caratteristiche magnetiche diun nuovo ciclo. Un avvio rallentato, insomma, chespesso viene etichettato, giustamente, con lalocuzione di «minimo prolungato». Ormai la cosadura da circa tre anni, per cui la faccenda comin-cia a farsi interessante. Ma vediamo di andarecon ordine.

La situazione attuale

I modelli previsionali per il Ciclo 24, come siè detto, sono sempre stati discordanti. Il problemaè che nessuno dei modelli proposti riesce a inqua-drare la situazione attuale, che (Figura 1) potreb-be essere visualizzata con un punto posto in cor-rispondenza dell'anno 2010 e ad altezza decisa-mente inferiore a 25, quindi ben al di fuori delle

Il Ciclo Solare 24:anomalie prevedibili?

La nostra stella si sta comportando in maniera strana. O forse no

Mario Gatti

Abstract

L'attuale Ciclo Solare presenta una fase di minimo prolungato in avvio che non è statariscontrata da tempo in quelli precedenti. I modelli previsionali, peraltro contrastanti, cheparlavano prima di un ciclo particolarmente intenso e poi di uno di debole intensità, sonostati al momento praticamente tutti disattesi. Per questo possiamo affermare di essere difronte a un ciclo anomalo. Eppure quest'anomalia, analizzando attentamente alcune carat-teristiche dei cicli solari avvenuti nel passato e accuratamente studiati, potrebbe non appa-rire poi così inattesa. Questo lavoro, senza alcuna pretesa di costituire a sua volta un pos-sibile modello previsionale, passa in rassegna alcuni dati fondamentali alla luce dei quali èpossibile rendere forse conto dell'andamento del ciclo attuale.

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Figura 2 - Immagini del Sole in corona nell'ultravioletto a 28.4 nm circa due anni prima del massimodel ciclo 23 (a sinistra) e nel marzo di quest'anno (a destra). La presenza di più regioni attive e buchi

coronali rende evidente che si trattava di un Sole più attivo. (Cortesia: SOHO/EIT/NASA/ESA)

Figura 1 - Andamentodei Numeri di Wolf nor-malizzati a partire dal

1996. La due linee conti-nue rappresentano duedifferenti modelli, che

prevedevano rispettiva-mente un massimo piut-tosto intenso poco primadel 2012 e un massimo

molto meno intensointorno alla metà del

2013. Le linee tratteggia-te rappresentano i relativi

margini di errore.Nessuno dei due modelliindicati si è rivelato esat-

to finora.

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linee di previsione, sia quelle con tendenza percosì dire più ottimistica che quelle di tendenzacontraria. Anche le immagini confermano l'anda-mento attuale: un confronto tra una foto di questitempi (18 marzo 2010, a destra in Figura 2) e unascattata nella stessa data durante la «salita»verso il massimo del precedente ciclo 23 (18marzo 1999, a sinistra), in corrispondenza di quel-la che dovrebbe essere la situazione attuale aparità di distanza temporale dal previsto massimo(due anni) parla da solo.

A dire la verità qualche timido segno dirisveglio in effetti la nostra stella sembra mostrar-lo. Facciamo parlare anche in questo caso inumeri. Nel nostro Osservatorio dell'ISIS«Valceresio» di Bisuschio (Va), in tutto il 2009(287 giorni di osservazione) sono stati conteggia-ti 29 gruppi per un totale di 528 macchie. Per unperiodo molto lungo (tra il 10 luglio e il 1. settem-bre) nessuna macchia è apparsa sul Sole. In tuttol'anno sono stati rilevati, nella banda tra 1 e 8Angstrom (dati NSO-NOAA) solo 26 flare di clas-se C (2,16 al mese) e nessun flare di classe M odi classe X. Sono state conteggiate (dati NOAA-USAF-SWPC) 30 Regioni Attive (2,5 al mese) e ilflare più intenso è stato di classe C7,6, registratoil 18 dicembre. Il Numero di Wolf medio (non nor-malizzato) per tutto l'anno è stato un misero 4,82.Dal 10 dicembre del 2009 in poi la musica è ineffetti cambiata: nei primi tre mesi di quest'anno(quindi dal 1. gennaio al 31 marzo 2010) semprenel nostro Osservatorio (67 giorni di osservazio-ne) abbiamo avuto 84 giorni con macchie (con-tando anche quelli nei quali per noi è stato impos-sibile osservare ma erano presenti) e solo 6senza macchie. Sempre con le stesse fonti di datisono state conteggiate 21 Regioni Attive in 90giorni (quindi con una media di 7 al mese), 76 flaredi classe C (25,3 al mese), 14 flare di classe M(4,66 al mese) per un totale di 90 flare (in media

quindi 1 al giorno e 30 al mese). Il più intenso deiflare è stato un M8,3 il 12 febbraio. Il 16 febbraiosi sono avuti 16 flare di classe C nello stesso gior-no (più della metà di quelli conteggiati nell'intero2009). Il 4 e l'8 febbraio sono stati rilevati 4 flare diclasse M nello stesso giorno. Infine sono statiosservati 23 gruppi per un totale di 768 macchie,con un Numero di Wolf medio (non normalizzato)di 25,56. Anche se siamo ben lontani da quelli chedovrebbero essere i numeri del Sole all'approssi-marsi di un massimo di attività, non resta cheprendere atto che qualcosa forse si muove, cometestimonia anche l'enorme protuberanza eruttiva(oltre 400 mila chilometri di estensione) fotografa-ta il 30 marzo di quest'anno (Figura 3).

Figura 3 - Una spettacolare protuberanza erutti-va visibile nel quadrante NE del Sole, fotografatadal telescopio EIT a 30,4 nm. Le sue dimensioni

possono essere facilmente stimate tenendoconto che il raggio del Sole è di circa 700 milachilometri e che la cromosfera (a cui si riferiscel'immagine) ha uno spessore di soli 2.500 chilo-metri circa. (Cortesia: SOHO/EIT/NASA/ESA)

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Attenzione però a non farsi prendere dal-l'entusiasmo di facili previsioni: così come unarondine non fa primavera, una protuberanza cosìestesa non vuol dire per forza un massimo in arri-vo e, soprattutto, non dice niente su come potreb-be essere il massimo, se mai ci sarà. Pertanto cisi può sentire autorizzati ad affermare che comun-que restiamo in presenza di un'attività abbastan-za scarsa, appunto, come si dice, da minimo pro-lungato. Alcuni dati, che emergono dallo studio delSole compiuto nel corso di decine di anni nel pas-sato e che tuttora proseguono, mostrano peròcome una situazione come quella attuale potreb-be non essere poi così strana e, soprattutto,potrebbe trovare un inquadramento quanto menostatistico. Ed è quello che andiamo a studiare.

La «forma» di un ciclo

I cicli solari presentano un'asimmetriarispetto alla posizione dei loro massimi(Waldmeier, 1935). Il tempo che trascorre da unminimo verso il relativo massimo è normalmentepiù breve di quello che intercorre nella fase calan-te del ciclo, verso il successivo minimo. Una sortadi «ciclo medio» può essere ricostruito (Figura 4)utilizzando dati relativi all'ampiezza media delciclo (espressa in SSN, Sun Spot Number, ossiaNumero di Wolf normalizzato) e alla sua lunghez-za media espressa in mesi.

Come si può vedere facilmente, in mediaun ciclo impiega circa 48 mesi (4 anni) per passa-re dal minimo iniziale al suo massimo e circa 84

Figura 4 - L'andamento medio dei cicli dall'1 al 22 (linea più spessa) in funzione dell'ampiezza (SunSpot Number, numero di macchie normalizzato) e della durata dei cicli (espressa in mesi). (Fonte:

The Solar Cycle, di D.H. Hathaway, «Living Rev. Solar Phys.», 7, 2010, 1)

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mesi (7 anni) per tornare al minimo successivo. Ilperiodo medio di 11 anni di durata del ciclo (132mesi) è quindi decisamente rispettato. Sono statiproposti numerosi modelli matematici per inter-pretare quest'andamento. Il più accreditato attual-mente è quello proposto da Hataway e collabora-tori (1994), che riprende un lavoro precedente diStewart e Panofsky (1938). Secondo questomodello l'andamento dell'intensità di un ciclo infunzione dalla sua durata può essere espresso dauna funzione semi-empirica del tempo:

F(t) =

Nella formula, A rappresenta l'ampiezza del ciclo,t0 è il tempo di inizio del ciclo, b è il tempo di «sali-ta» verso il massimo (rising time) e infine c è unparametro che tiene conto dell'asimmetria delciclo. La miglior corrispondenza con i dati mediricavabili (Figura 4) si ottiene ponendo nell'equa-zione precedente A = 193, b = 54, c = 0,8 e t0 = 4mesi prima del minimo. Il risultato può essereriportato in un grafico (Figura 5), nel quale comeprima in ordinata è riportata l'ampiezza del cicloespressa in SSN e in ascissa la sua durata inmesi.

E ora vediamo (che è la cosa che più ci inte-ressa) che cosa possiamo ricavare dall'analisi diqueste considerazioni più o meno complicate. Se

Figura 5 - Il «ciclo medio» (linea continua, ricavata dalla precedente figura 4) e la corrispondenza conla formula proposta da Hathaway e collaboratori (linea punteggiata). La partenza del ciclo è stata

posta 4 mesi prima del minimo, il tempo di salita verso il massimo è stato posto a 54 mesi e la duratadel ciclo è sovrapposta (overlapping) per 18 mesi a quella del ciclo successivo. (Fonte: The Solar

Cycle, di D.H. Hathaway, «Living Rev. Solar Phys.», 7, 2010, 1)

t-t0b( ( ))3 t-t0

b( )2-1

- cexpA

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partiamo dal presupposto peraltro abbastanzaottimistico che il ciclo attuale sia in ritardo di circa24 mesi (gennaio 2008 - gennaio 2010) su quelloche dovrebbe essere il suo andamento, se rispet-tasse quello dei suoi predecessori e ammettendo(cosa non scontata) che ormai si sia «avviato»(ipotesi confortata dall'andamento dei primi tremesi di quest'anno), nel grafico dobbiamo porreun valore di 78 mesi (54 + 24), che porta per inter-polazione immediata a un SSN di circa 75.Questo potrebbe essere, alla luce del modelloindicato, il massimo numero di Wolf normalizzatoche potrebbe essere raggiunto nel Ciclo 24.Piuttosto piccolo, se confrontato con quello deiprecedenti, ma perfettamente in linea con l'attua-le tendenza «al ribasso» del ciclo in corso. E que-sto potrebbe essere un primo indizio che quelloche sta accadendo non è poi nulla di così stranoo imprevedibile. Ma non finisce qui: ci sono anchediverse altre situazioni da analizzare.

L'effetto Waldmeier

Diverse corrispondenze sono state ricavatetra i vari aspetti dell'andamento dei cicli solari. Traqueste, quella forse più significativa è il cosiddet-to Effetto Waldmeier (Waldmeier, 1935, 1939),secondo il quale il tempo di salita di un ciclo dalminimo verso il massimo è praticamente inversa-mente proporzionale alla sua ampiezza.Possiamo costruire un grafico (Figura 6) utilizzan-do i dati relativi ai SSN e alle onde radio emessedalla stella a 10,7 cm.

Bachmann e White (1994) hanno propostouna formula semiempirica che rende conto piutto-sto bene, perlomeno per quanto riguarda i datirelativi ai Numeri di Wolf normalizzati, dell'anda-mento espresso nella figura precedente:

T (rising time in mesi) ~

Anche da queste considerazioni emergonointeressanti conclusioni. Sempre ponendo 78mesi come tempo di salita del ciclo verso il mas-simo, dal grafico (Figura 6) si ottiene che conside-rando i dati relativi agli SSN si ricava un Numerodi Wolf normalizzato massimo di poco superiore a52, mentre interpolando i dati relativi al radioflus-so a 10,7 cm si otterrebbe un Numero di Wolf nor-malizzato massimo intorno a 68. Mediando questidue dati con il precedente 75, arriviamo a circa 65.E ancora eccoci in presenza di un Numero di Wolfnormalizzato massimo bassino, perfettamente inlinea con la tendenza attuale del Ciclo 24.

Figura 6 - Effetto Waldmeier. Il tempo di salita diun ciclo (rising time) dal minimo al massimo èriportato in funzione dell'ampiezza del ciclo,

espressa in SSN per i cicli dall'1 al 23 (linea con-tinua e cerchi pieni) e in funzione del radioflussoa 10,7 cm per i cicli dal 19 al 23 (linea tratteggia-ta e cerchi vuoti). È evidente in entrambi i casi

una relazione di proporzionalità inversa.Normalmente i massimi di attività nel radioflussoa 10,7 cm seguono in modo sistematico di alcuni

mesi (circa 6) quelli delle macchie solari, ma idue set di dati sono strettamente interconnessi.

(Fonte: The Solar Cycle, di D.H. Hathaway,«Living Rev. Solar Phys.», 7, 2010, 1)

35 + 1800Ampiezza del ciclo (in SSN)

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Durata di un ciclo e ampiezza

Altre relazioni molto significative sono statericavate tra il periodo di un ciclo (la sua durata inmesi, intesa da un minimo all'altro) e la suaampiezza (come sempre misurata in SSN). La piùaccreditata è quella proposta indipendentementeda Hathaway e collaboratori (1994) e da Solanskie collaboratori (2002), che mette in relazione ladurata di un ciclo con l'ampiezza probabile di quel-lo successivo. Le conclusioni possono essere illu-strate con un grafico (Figura 7).

Ancora una volta ipotizziamo che il ciclo 23precedente (n) stia continuando il suo minimo peralmeno 24 mesi (il che equivale ad affermare chela partenza di quello attuale sia in ritardo dellostesso intervallo temporale). Prendiamo perciò unvalore di 156 mesi (132+24) sull'asse orizzontaledella figura precedente. Questo porta per interpo-lazione a un sorprendente valore di circa 65 perl'ampiezza del ciclo successivo (n+1), cioè dell'at-

tuale 24, in quasi perfetto accordo con i dati rica-vati in precedenza. Gli indizi si accumulano, manon sono finiti.

Il ciclo di Gleissberg

Quello ipotetico degli 11 anni per il transitoda un minimo all'altro non è l'unico evidenziatonell'attività del Sole. Ne sono stati proposti moltialtri, alcuni su scala di secoli, altri addirittura di mil-lenni e altri ancora, al contrario, dell'ordine di pochimesi. Tra tutti ce n'è uno, detto Ciclo diGleissberg, che sembra evidenziare la presenzadi un massimo più intenso degli altri ogni 7-8 ciclicirca di 11 anni, cioè ogni 77 - 88 anni circa.

E' evidente (Figura 8) che la tendenzaattuale di questo super-ciclo è in discesa. Il Ciclo24 si troverebbe quindi in una fase di minimo diquello di Gleissberg e questo potrebbe rendereconto della sua «debolezza». È da notare anchequi il valore di circa 70 (sempre per interpolazio-

Figura 7 - La durata (periodo) di un ciclo generi-co n (espressa in mesi) è messa in relazione conl'ampiezza (in SSN) del generico ciclo successi-vo n+1. Si nota che, se è maggiore la durata di

un ciclo, tendenzialmente il ciclo successivotende a essere più debole del precedente.(Fonte: The Solar Cycle, di D.H. Hathaway,

«Living Rev. Solar Phys.», 7, 2010, 1)

Figura 8 - Il Ciclo di Gleissberg peri primi 23 cicli. La linea continua

rappresenta la miglior corrispondenza fra due ipotetici cicli sinusoidali con periodi

leggermente diversi. In ascissa gli SSNmassimi. (Fonte: The Solar Cycle,

di D.H. Hathaway, «Living Rev. Solar Phys.»,7, 2010, 1)

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ne) per il Numero di Wolf normalizzato massimoprevedibile per il ciclo in corso.

Un altro dato significativo

Circa un anno fa Sergio Cortesi, direttoredella Specola Solare Ticinese di Locarno Monti,sulla «Meridiana» (S. Cortesi, Un minimo solareprolungato, Meridiana n. 199, gennaio-febbraio2009, pagg. 18-19) aveva espresso la propria opi-nione circa un valore massimo del Numero diWolf normalizzato intorno a 70 prevedibile per il2013 circa, basandosi su un'accurata analisi deiNumeri di Wolf dal 1700 a oggi e in particolare sul-l'anomalia presentata nel Ciclo 24 dall'assenza dimacchie solari del nuovo ciclo a latitudini eliogra-fiche superiori a ± 20° sovrapposte alle macchiedel vecchio ciclo più vicine all'equatore. Cortesi ègiunto alla proprio conclusione comparando que-sti dati con quelli di diversi cicli precedenti. Si trat-ta senza dubbio di un parere molto autorevole,proposto da un ricercatore che da oltre 50 anni sioccupa di osservazione sistematica della fotosfe-ra. Un parere che si accorda quasi alla perfezionecon quanto esposto finora.

Conclusioni

Non sono poche le corrispondenze tra lepiù recenti teorie relative all'andamento dei ciclisolari e il comportamento considerato anomalo

(perlomeno relativamente a quelli precedenti) diquello in corso, al punto che ci si potrebbe sentireautorizzati ad aver individuato una possibile chia-ve di lettura per spiegare quanto sta avvenendo diquesti tempi sul Sole. Non si deve però dimentica-re che si tratta di risultati legati a una ricerca incontinua evoluzione e come tali passibili di confer-me o smentite possibili anche in tempi molto brevi.Come fa notare Sergio Cortesi nel citato articolosu «Meridiana», fare previsioni oggi sulla possibi-le evoluzione del Ciclo 24 è quanto meno prema-turo e sarà meglio riparlarne tra qualche anno. Cisono forse degli indizi, che abbiamo voluto pre-sentare, ma in quanto tali non sono prove.

Nel frattempo c'è chi approfitta di questafase di minimo prolungato per studiare le proprie-tà del campo magnetico in condizioni di «Solequieto», cioè alla larga dalle Regioni Attive. Vistala reticenza con la quale si mostrano di questitempi, saranno certo contenti questi ricercatori(che operano soprattutto nel campo della spettro-polarimetria solare). A tutti gli altri la consolazionedi poter forse raccontare un giorno ai propridiscendenti di aver vissuto e seguito da vicino unmomento forse «storico» della vita della nostrastella: uno di quei minimi prolungati che in passa-to si sono già presentati e sono durati ancheparecchio (ad esempio il famoso minimo diMaunder, tra il 1645 e il 1710). Forse non saràquesto il caso. O forse sì, ma nessuno può dirlofinora.

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Sapreste dimostrare a un dubbioso chesiamo davvero andati sulla Luna fra il 1969 e il1972? Ecco una miniguida per rispondere aquesta perplessità che fa capolino spessonegli incontri pubblici degli astrofili.

La documentazione

Il programma lunare statunitense generòuna quantità smisurata di manuali tecnici,schemi di progetto, articoli scientifici, checklist,procedure, misurazioni, bilanci, contratti, ordinid'acquisto, rapporti d'ispezione, cartelle espli-cative per la stampa, telemetrie, reso-conti di missione, referti medici, anali-si di campioni, registrazioni e tra-scrizioni integrali delle comunica-zioni radio, e molto altro ancora.

Le sei missioni lunari Apollorealizzarono oltre 6.500 fotografiee decine di ore di riprese TV e fil-mati a colori sul suolo lunare. Lefoto integrali sono disponibili inaltissima risoluzione nei siti TheProject Apollo Archive e The Gateway toAstronaut Photography of Earth. La cronolo-gia completa delle escursioni, con le trascrizio-ni commentate di ogni singola frase pronuncia-ta, foto scattata e azione effettuata sulla Lunaè consultabile nell'Apollo Lunar SurfaceJournal.

Tutto questo materiale è pubblicamentedisponibile da sempre a chiunque su semplicerichiesta e da alcuni anni è anche liberamentescaricabile da Internet o acquistabile su sup-porto digitale o in volumi cartacei. Viene stu-diato da 40 anni dai migliori specialisti di tuttoil mondo e oggi viene analizzato con tecnicheche non esistevano all'epoca e contro le qualinon era quindi possibile premunirsi fabbrican-

do un falso su misura. Risulta coerente esenza contraddizioni, salvo gli inevitabili refusied errori minori di qualunque grande progetto.Se questa massa di dati fosse fasulla, gliesperti mondiali se ne sarebbero accorti.

Le fotografie sono un ottimo esempiodella difficoltà di un'ipotetica falsificazione.Nell'immagine della Figura 1, proveniente dallamissione Apollo 11, la visiera riflette il paesag-

Figura 1.

Siamo andatisulla Luna?

Le migliori prove degli sbarchi

Paolo Attivissimo

5. parte

Figura 2.

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gio circostante. Ingrandendo, rovesciando pertogliere l'effetto speculare e rimuovendo digi-talmente la dominante dorata si ottiene laFigura 2, dove emerge un puntino azzurro nelcielo nero: è la Terra. I calcoli astronomici con-fermano che sta proprio nella posizione delcielo lunare, visto dal luogo dello sbarco erivolgendosi nella direzione dell'astronautafotografato, in cui si trovava fra il 20 e il 21luglio 1969. Quanto sarebbe stato difficilecreare una messinscena tenendo traccia didettagli simili?

La verifica incrociata: il ritardo radio

Le registrazioni delle comunicazioniradio delle missioni lunari includono l'eco dellavoce del Controllo Missione sulla Terra, chearrivava nelle cuffie degli astronauti e venivacaptata dai loro microfoni e quindi ritrasmessaa Terra. Per la missione Apollo 11 (quella delprimo sbarco) questo ritardo è di circa 2,6secondi e implica quindi una distanza Terra-Luna di circa 393 mila chilometri. Ma questadistanza varia mensilmente da 363.100 a405.700 chilometri, variando di conseguenza ilritardo radio. Quanto distava la Luna il 21 luglio1969? Ce lo dicono i calcoli degli astronomi:393.300 chilometri. Il ritardo radio presente da40 anni nella documentazione sonora dellaNASA, insomma, è proprio quello giusto.

Per l'Apollo 17, che rimase sulla Lunaper più giorni, il ritardo registrato varia in modoesattamente corrispondente al variare delladistanza Terra-Luna in quel periodo (Echoesfrom the Moon, di Luca Girlanda, in «AmericanJournal of Physics», settembre 2009). Se sitrattasse di un falso, sarebbe incredibilmenteben fatto.

L'omertà perfetta

Nei quattro decenni ormai trascorsi, nonuno dei circa 400 mila tecnici delle varie azien-de aerospaziali coinvolte ha mai spifferatoqualcosa, neanche per sbaglio, durante unmomento di ubriachezza molesta o in punto dimorte. Nessuno ha mai fatto trapelare un dos-sier o una foto che rivelasse la messinscena.Va ricordato che questi omertosissimi tecnicinon erano persone anonime e non erano mili-tari, ma civili, poco avvezzi a mantenere isegreti. I loro nomi e cognomi sono pubblici.Molti sono ancora vivi e ben disposti a parlaredelle proprie esperienze con inesauribile dovi-zia di dettagli tecnici. Ma nessuno di loro vuotail sacco.

Il silenzio dei Sovietici

Con il progetto N1-L3 i Sovietici tentaro-no segretamente di sbarcare sulla Luna primadegli Americani, ma l'impresa fallì e fu messa atacere: un'umiliazione cocente e costosissima.Quindi, se l'Unione Sovietica avesse scopertoche l'impresa americana era un falso (e avevala tecnologia e le spie per farlo), avrebbe avutoottime ragioni per rivelarlo al mondo e sbugiar-dare pubblicamente il proprio rivale. Invecenon lo fece. Anzi, con un gesto senza prece-denti, la televisione di Stato sovietica annunciòlo sbarco americano pressoché immediata-mente e trasmise brani della diretta lunaredell'Apollo 11.

Due mezze prove: rocce e specchi

Le missioni Apollo riportarono sulla Terraoltre 2.000 campioni di roccia lunare. Gli esamieffettuati dai geologi di tutto il mondo nel corso

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di 40 anni confermano che si tratta di repertinon terrestri e non meteorici.

Ma anche le missioni sovietiche automa-tiche Luna 16, 20 e 24 (1970-1976), mostratenella Figura 3, riportarono sulla Terra campionidi Luna, per cui si potrebbe obiettare che lerocce dimostrano che gli Stati Uniti mandaronodei veicoli sulla Luna ma non sono una provainoppugnabile dello sbarco di astronauti.Tuttavia i campioni lunari russi ammontano intutto a meno di 500 grammi, contro i quasi 400chili di quelli statunitensi. Quindi la NASA eracapace di far arrivare sulla Luna e di riportarea casa un carico considerevole: anche 110 chilidi rocce in una sola volta, come nel casodell'Apollo 17. Se la NASA era in grado di ripor-tare dalla Luna oltre un quintale di reperti, èplausibile che fosse anche in grado di farlo conalmeno un astronauta. E, mentre le «rocce»sovietiche sono in realtà granelli di qualchemillimetro, poco differenziati e provenienti daglistrati superficiali, quelle americane pesano finoa 11 chili l'una, provengono anche dal sotto-suolo (fino a 3 metri di profondità) e sono moltovarie: un segno che furono scelte e raccolte inpunti differenti, effettuando anche trivellazionie carotaggi. Farlo con la rudimentale tecnolo-gia robotica degli Anni Sessanta sarebbe stato

impensabile. La qualità, la massa, la prove-nienza e la selezione delle rocce lunari statuni-tensi dimostrano che furono scelte e raccoltedalla mano dell'uomo. Le rocce sono un ele-mento di prova anche in un altro senso: quellesovietiche sono geologicamente uguali a quel-le americane e quindi le autenticano.

Le missioni Apollo 11, 14 e 15 collocaro-no sulla Luna dei retroriflettori, mostrati nellaFigura 4, che è tuttora possibile colpire daTerra con un raggio laser puntato su coordina-te molto precise, ottenendone un riflesso rile-vabile. Spesso questi retroriflettori vengonocitati come prova delle missioni lunari umane,ma è inesatto. Infatti anche i Sovietici feceroaltrettanto con le sonde automatiche Luna 17 e21 (1970-1973).

Le foto di oggetti e veicoli sulla Luna

Nel 2009 la sonda Lunar Recon -naissance Orbiter (LRO) ha fotografato piùvolte i siti degli allunaggi da 50 chilometri dialtezza e vi ha trovato i veicoli Apollo, gli stru-

Figura 3. Figura 4.

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menti e anche le tracce delle impronte degliastronauti, esattamente nei luoghi indicati 40anni fa. La Figura 5 mostra la base del modu-lo lunare dell'Apollo 11: è la macchia biancapiù grande, accompagnata dai quattro puntinidelle zampe. Gli altri punti chiari sono gli stru-menti collocati sulla Luna. Le sot-tili linee scure irregolari sono leorme degli astronauti: sulla Lunanon c'è vento o pioggia che possacancellarle, per cui sono ancoralì. Immagini analoghe esistonoper gli altri cinque sbarchi lunari.Confrontando le foto dell'LRO conla mappa dell'escursione pubbli-cata nel 1969 dalla NASA, illu-strata nella Figura 6, risulta chegli oggetti e i dettagli del terrenoosservati oggi sono proprio nelleposizioni dichiarate 40 anni fa.

Si potrebbe obiettare chel'LRO è una sonda statunitense eche quindi non ci si può fidare. Masignificherebbe allargare a dismi-

sura i partecipanti all'omertoso complotto,includendo anche gli specialisti di oggi e falsifi-cando le immagini di nascosto ogni volta che lasonda sorvola i luoghi dei sei allunaggi, tenen-do conto in ciascun caso della diversa angola-zione del Sole.

E' anche vero che queste immaginimostrano i veicoli, non gli astronauti. Ma chie-diamoci quanto sarebbe stato complicato man-dare sulla Luna un robottino per tracciare finteimpronte di astronauti, seguendo un percorsoda duplicare esattamente nei resoconti di mis-sione, nelle foto, nelle dirette TV e nelle ripre-se cinematografiche… e fare tutto questo seivolte. Il ridicolo è dietro l'angolo.

Kàguya, altimetria indipendente

Il veicolo spaziale automatico giappone-se Kàguya/Selene ha trascorso 20 mesi inorbita intorno alla Luna, fino al 2009, usandoun altimetro laser per generare mappe digitali

Figura 5.

Figura 6.

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tridimensionali molto accurate della superficielunare. Le immagini riprese dalla fotocamerainstallata sulla sonda, combinate con questemappe in rilievo, producono viste virtuali dellageografia lunare reale da qualunque angola-zione.

La Figura 7 mostra una di queste viste (adestra), presa dall'esatta angolazione dallaquale gli astronauti dell'Apollo 15 scattaronouna serie di fotografie nel luglio del 1971 (asinistra). L'oggetto a sinistra nella fotografia

Apollo è una parte dell'auto elettrica lunare. Lealtre foto della sequenza includono anchel'astronauta David Scott che vi sta lavorando,come mostrato nella Figura 8.

In altre parole, nel 1971 la NASA pubbli-cò foto che mostravano le montagne lunariviste dal suolo e che corrispondono esatta-mente a quello che rileva oggi nello stessopunto una sonda giapponese e includono unastronauta.

Figura 7.

Figura 8.

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La polvere parabolica

Sulla Terra la polvere sollevata, peresempio dalle ruote di un'auto, resta sospesanell'aria formando nubi, volute e scie. Invecenelle riprese dell'auto lunare la polvere ricadebruscamente al suolo, tracciando un arcoparabolico, come mostra la Figura 9, perchésulla Luna non c'è aria che ne freni la caduta ela tenga sospesa. Quindi queste riprese devo-no essere state effettuate nel vuoto.

Il fenomeno si nota anche quando gliastronauti camminano: i loro piedi produconoun ventaglio di granelli che ricadono di colpo alsuolo e nelle riprese in controluce creano unvistoso riflesso momentaneo. Come sarebbestato possibile ottenere ripetutamente un com-portamento del genere con gli effetti specialidell'epoca?

Quando il modulo lunare sta per toccareil suolo, si vede che la polvere schizza via oriz-zontalmente, spinta dal getto del motore, e

Figura 9.

Figura 10.

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forma una cortina che offusca la visuale. Nonappena il motore si spegne, la corsa della pol-vere cessa di colpo, senza formare volute osbuffi.

Confrontiamo questi filmati con il massi-mo degli effetti speciali dell'epoca: il film 2001:Odissea nello spazio del regista StanleyKubrick, spesso citato come presunto autoredei falsi filmati lunari. La sequenza di allunag-gio nel film è clamorosamente sbagliata. NellaFigura 10 la polvere forma volute e rimane insospensione: un segno che la ripresa non fueffettuata nel vuoto, ma in presenza d'aria. Sequesto era il massimo ottenibile con gli effettispeciali degli Anni Sessanta, come avrebbefatto la NASA a falsificare le riprese lunari?

Le dimensioni del presunto set

Molte foto furono scattate in sequenzadallo stesso punto, per cui formano vastepanoramiche come quella della Figura 11, trat-ta dalla missione Apollo 11. Inoltre ci sono

riprese della cinepresa a bordo dell'auto luna-re che durano decine di minuti senza interru-zioni e mostrano il paesaggio circostante chescorre tutt'intorno e sotto le ruote del veicolo.Per ottenere questi risultati con gli effetti spe-ciali sarebbe stato necessario un set cinemato-grafico di dimensioni enormi.

Ci sono anche sequenze video comequella della Figura 12, relativa all'Apollo 16, incui gli astronauti si allontanano dalla telecame-ra senza mai arrivare in fondo all'ipotetico setcinematografico. E' davvero difficile immagina-re un set segreto e sotto vuoto spinto nel qualesi potesse fare una camminata così lunga.

L'andatura lunare

C'è chi ipotizza che l'andatura caratteri-stica degli astronauti sulla Luna fu realizzatausando dei cavi e il rallentatore. Nel 2008 lapopolare trasmissione statunitense Myth -busters mise alla prova quest'ipotesi, rivelandodifferenze grossolane fra le immagini lunari e

Figura 11.

Figura 12.

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l'effetto ottenuto con cavi e rallentatore. Infatti icavi riducono l'effetto della gravità sull'astro-nauta fasullo, ma non sugli oggetti che haaddosso. Questi oggetti, quindi, oscillano sottol'effetto pieno della gravità normale, rivelando iltrucco. Il rallentatore, invece, rallenta tutti imovimenti, mentre le riprese lunari mostranogesti rapidi degli astronauti durante la lorolenta andatura. Ottenere quest'effetto tramiterallentatore avrebbe richiesto che gli astronau-ti compissero gesti a velocità impossibili, inmodo che una volta rallentati sembrasserorealizzati a velocità normale.

C'è un solo modo per ottenere la cammi-nata fluida e l'oscillazione lenta degli oggettiportati dall'astronauta che vediamo nelleimmagini delle missioni lunari: volare su unaereo speciale che traccia archi parabolici,durante i quali in cabina si ottiene a tutti glieffetti un sesto di gravità, proprio come sullaLuna. Questo è infatti il metodo usato tuttoradagli astronauti per il proprio addestramento.Mythbusters effettuò voli di questo tipo,mostrati nella Figura 13, ottenendo un'andatu-ra identica a quella delle immagini delle missio-ni lunari. Non sarebbe stato possibile usarequesto metodo per realizzare finte ripreselunari negli Anni Sessanta, perché producegravità ridotta per pochi secondi e nello spazioristretto di una cabina, mentre le riprese Apollosono sequenze di decine di minuti in spazimolto ampi.

Riprendere sott'acqua, calibrando oppor-tunamente la galleggiabilità di ogni oggetto tra-sportato, avrebbe potuto produrre un effetto

credibile. Ma sott'acqua non sarebbe statopossibile ottenere la traiettoria parabolica dellapolvere che si vede nelle riprese lunari, perchéi granelli sarebbero rimasti in sospensione, for-mando pigre volute e tradendo il trucco.

Il problema della falsificazione delleriprese lunari, infatti, non è ottenere un singoloeffetto, ma ottenerli tutti insieme contempora-neamente e per lunghissime sequenze ininter-rotte, che oltretutto devono essere perfetta-mente coerenti fra loro. L'unico modo per otte-nere quello che si vede nelle riprese lunari,insomma, è andare davvero sulla Luna. E, sele riprese sono autentiche, è autentico tutto ilresto.

Alla luce di questi fatti, non si può checoncludere che quello che dicono spesso i«lunacomplottisti» a proposito degli sbarchisulla Luna in un certo senso è vero: nel 1969l'impresa era davvero tecnicamente impossibi-le. L'impresa di falsificarli, beninteso.

(5 - continua)

Figura 13.

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La geomorfologia

Spesso confusa con la geologia, la geo-morfologia è la disciplina delle scienze dellaTerra che si occupa dello studio delle forme delrilievo della superficie terrestre. Un geomorfolo-go studia la genesi e l'evoluzione delle strutture,delle forme e dei paesaggi che compongono lasuperficie terrestre, che di norma si sono forma-ti, per quel che concerne la nostra regione,durante gli ultimi milioni di anni della storia dellaTerra. Si può quindi definire un geomorfologocome un geologo della «superficie» e del «pre-sente».

Nonostante il termine «geomorfologia»presenti il prefisso greco «geo-», che si riferiscealla Terra, il suo campo di studio non si limitasolo al nostro pianeta, ma è stato allargato apressoché tutti i corpi celesti solidi del SistemaSolare. È infatti la regola, al giorno d'oggi, arric-chire i manuali di geomorfologia con dei capitoliche trattano di geomorfologia extraterrestre eche si focalizzano principalmente sulla Luna e suMarte1.

Data la mia formazione di geomorfologoalpino, ho pensato che potesse essere interes-sante presentare alcuni esempi di geomorfologiaglaciale e periglaciale marziana. Da una parteper mostrare la visione che ha un geomorfologosulla questione della presenza di ghiaccio sulPianeta Rosso (sotto forma di ghiacciai e di per-mafrost), dall'altra per fare anche un po' di pub-blicità alla geomorfologia e alle scienze dellaTerra in generale che, per il fatto di occuparsi delmesoscopico (la struttura e la superficie dei pia-neti), sono spesso viste dagli appassionati delcosmo come discipline di minore importanzarispetto alle scienze del microscopico (come lafisica nucleare) o del macroscopico (comel'astrofisica).

Le forme del rilievo marziano

Lo studio delle forme del rilievo marziano èpossibile solamente grazie a osservazioni effet-tuate dalla Terra, in particolare dalla sua orbita, oda sonde spaziali. Dalle prime 21 immagini invia-te dalla sonda Mariner 4 il 14 e 15 agosto 1965,coprenti solo l'1 per cento della superficie delpianeta, fino alla recente missione Phoenix, igeomorfologi si sono concentrati sullo studiodella morfologia marziana, in particolare per tro-vare degli indizi della presenza passata o attua-le di acqua sulla superficie del pianeta.

Uno degli elementi morfologici più comunidi un corpo celeste solido sono i crateri di impat-to. Ma certi crateri di impatto marziani presenta-no una morfologia molto particolare che non èstata osservata altrove nel Sistema Solare. Se

La disciplina che studia l’aspetto superficiale del Pianeta Rosso. E che ha molto da dire

GeomorfologiamarzianaCristian Scapozza

Figura 1 - Il cratere Yuty, di 18 chilometri di dia-metro, situato a 22° Nord di latitudine e 34° E dilongitudine, qui fotografato dal Viking Orbiter. Si

noti la forma lobata dei detriti eiettati.(Cortesia: NASA).

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prendiamo per esempio il cratere Yuty(Figura 1), possiamo vedere come imateriali eiettati formano dei lobi inve-ce di diminuire progressivamente dispessore, come avrebbe dovuto esse-re il caso in presenza di rocce frantu-mate in sospensione in una tenueatmosfera o nel vuoto. La presenza diquesti lobi si spiega solamente conuna fluidificazione dei detriti rocciosi,che avevano quindi la consistenza diuna colata di fango. Ci doveva quindiessere un'importante proporzione dighiaccio nel sottosuolo (il cosiddettopermafrost2), che si è fuso grazie alcalore generato dall'impatto. Tenendoconto che quando un meteorite cadeal suolo forma un cratere di profondità uguale a1/5 del diametro e che non tutti i crateri di impat-to marziani presentano questi lobi dovuti allafusione del ghiaccio del permafrost, è stato pos-sibile misurare in più punti del pianeta la profon-dità del tetto dello strato gelato in permanenza,vale a dire la profondità sotto la quale c'è abba-stanza ghiaccio da fluidificare i detriti eiettati dalcratere. Queste osservazioni hanno permesso distabilire che il ghiaccio del permafrost è quasiaffiorante nelle alte latitudini e che esso è pre-sente a partire da una profondità di 300-400metri nelle zone equatoriali.

Altri indizi morfologici, come dei paleo-alvei fluviali, delle tracce di antichi argini o deidepositi sedimentari che sembrerebbero di origi-ne fluviale, permettono di supporre che su Marteci sia stata un'importante attività idrologica, lega-ta quindi alla presenza di acqua allo stato liqui-do. Alcuni ricercatori hanno anche ipotizzato lapresenza di antichi laghi o addirittura di un ocea-no che avrebbe ricoperto buona parte dell'emi-sfero nord del pianeta. Se la presenza di valli flu-

viali lascia pochi dubbi sull'esistenza, nel passa-to, di acqua allo stato liquido sulla superficie delpianeta, probabilmente dovuta alla fusione dighiacciai o di suoli gelati (permafrost) a seguitodell'attività vulcanica o dell'impatto di meteoriti, lasituazione è assai diversa al giorno d'oggi.

La presenza attuale di acqua allo statosolido sul pianeta è stata provata grazie allesonde Mars Odyssey e Mars ReconnaissanceOrbiter e soprattutto dal robot Phoenix.L'esistenza di acqua allo stato liquido sembra alcontrario molto improbabile. In questo contesto,aveva fatto notizia nel 2006 la scoperta dellapresenza di acqua liquida sulla superficie mar-ziana da parte di alcuni ricercatori della NASA,poi pubblicata sulla rivista «Science»3.Analizzando delle immagini fornite dalla sondaMars Global Surveyor, gli scienziati avevanoscoperto la formazione recente di alcuni canalo-ni (gullies) generatisi grazie a dei flussi detritici(Figura 2). Ma l'analisi morfologica ha permessodi confermare che la presenza di acqua non eranecessaria per la formazione di queste forme di

Figura 2 - Una colata di detriti secca nella parte interna diun cratere nella regione dei Monti Centauri, ripresa dal

Mars Global Surveyor. (Cortesia: NASA).

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erosione e dei depositi che si trovano più a valle.È infatti probabile che queste formazioni sianodovute a colate di detriti secche, che sono cola-te rapide di detriti senza la presenza di un fluidointerstiziale liquido. Queste colate secche sonotipiche, sulla Terra, delle regioni aride, artiche ealpine. Nelle Alpi, queste colate secche si trova-no il più sovente nelle falde di detrito della zonaperiglaciale, che si situa generalmente sopra i2.000 metri di altitudine. I materiali vengono dinorma dislocati per l'azione dei cicli digelo/disgelo e scivolano a valle per gravità inpendii di inclinazione superiore a 30-33° sottol'effetto del loro stesso peso (Figura 3).

Geomorfologia glaciale e periglaciale

La più spettacolare manifestazione di pre-senza di acqua allo stato solido sul pianetaMarte è l'esistenza di due calotte polari (Figura4). Queste calotte di ghiaccio sono state osser-vate per la prima volta già alla metà del XVIIsecolo dagli astronomi Gian Domenico Cassini e

Christiaan Huygens. Queste calotte di ghiacciopresentano una parte residuale, che si mantienetutta l'estate, e una parte stagionale, che ricoprela prima a partire dall'autunno. Tenendo contodell'inclinazione dell'asse marziano di circa 25°,la dinamica delle due calotte polari non è ugua-le, in quanto il contrasto stagionale è più marca-to nell'emisfero australe, come avviene anchesulla Terra. La calotta polare residuale australe(di 300 chilometri di diametro) è circa tre volte piùpiccola della calotta polare residuale boreale (di1.000 chilometri di diametro). Se si tiene contoanche della calotta stagionale, però, la calottacentrata sul Polo Sud del pianeta è più grande.Lo spessore massimo delle calotte residuali puòsuperare i 3 chilometri.

La forma a spirale della superficie dellecalotte polari è dovuta alla formazione di valli,chiamate Chasmata. Queste valli, secondo unostudio pubblicato sulla rivista «Geology» nel-l'aprile del 20044, non sarebbero dovute sempli-cemente all'erosione eolica (dovuta al vento) eallo scorrimento del ghiaccio, ma si formerebbe-

Figura 3 - Colate di detriti (parzialmente) sec-che su falde di detrito della parte destra della

Val Malvaglia. (Cortesia: C. Scapozza)

Figura 4 - La calotta polare boreale marzianaripresa dal Mars Global Surveyor.

(Cortesia: NASA).

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ro grazie alla fusione del ghiaccio delle calottepolari durante la primavera e l'estate marziana,quando la calotta stagionale si scioglie comple-tamente. La loro forma a spirale è dovuta allaforza di Coriolis, che è causata dalla rotazionedel pianeta e che devia i flussi di acqua di fusio-ne. Le valli formano quindi una spirale in sensoorario al Polo Sud e in senso antiorario al PoloNord.

Al di fuori delle calotte polari, la presenzadi accumuli di ghiaccio sulla superficie del piane-ta è oggi assai rara. Questo non doveva essereil caso nel passato: uno studio pubblicato nel2008 sul «Journal of Geophysical Research»5

ha interpretato alcune formazioni lobate scoper-te nella parte settentrionale delle Kasei Valles enella regione dei Tartarus Colles come dei depo-siti di origine glaciale. Di età minima stimata a 1miliardo di anni, queste formazioni si ritrovanosotto i 30° di latitudine, quindi praticamente nellaregione intertropicale del Pianeta Rosso. Se laloro origine glaciale dovesse essere confermata,la loro presenza indicherebbe che anche Marteha avuto dei periodi glaciali, probabilmentedovuti alla variazione dell'obliquità dell'asse dirotazione del pianeta.

Questi depositi glaciali sarebbero costituitida frammenti di roccia e da ghiaccio e sono chia-mati «morene a cuore di ghiaccio» (ice-coredmoraines). Sulla Terra i depositi di questo tiposono tipici dei cosiddetti «ghiacciai freddi», chehanno una temperatura alla loro base inferiore alpunto di fusione del ghiaccio (al contrario deighiacciai alpini, che per la maggior parte sono ditipo temperato e presentano quindi una tempe-ratura basale al punto di fusione del ghiacciosotto pressione). Questi ghiacciai freddi sonotipici delle zone circumpolari, come i marginidella Groenlandia e le Isole Svalbard. Per torna-re a Marte, l'origine glaciale di questi sedimenti è

provata anche dalle forme di erosione glacialeche si trovano sulle pareti delle valli marziane amonte di questi cordoni morenici. Il limite supe-riore di queste forme di erosione glaciale, dettotrimline, permette di stimare lo spessore delpaleo-ghiacciaio: in un caso (Figura 5), che pre-senta dei possibili depositi glaciali nella regionedi Arabia Terra, il ghiacciaio doveva avere unospessore di circa 900 metri.

Per quel che concerne la geomorfologiaperiglaciale marziana, le forme del rilievo piùspettacolari sono sicuramente i suoli poligonali(Figura 6). Queste forme, ben conosciute daglistudiosi delle zone polari, sono legate alla suc-cessione di cicli di gelo stagionali che contraddi-stinguono i suoli caratterizzati da permafrost. Almomento del gelo, lo strato gelato si contrae,favorendo l'apparizione di spaccature. Almomento del disgelo della parte superiore delsuolo (lo strato attivo del permafrost), l'acqua siinfiltra nelle spaccature e gela in parte a contat-to con il tetto del permafrost. La parte di acqua

Figura 5 - Possibili depositi glaciali nella regio-ne di Arabia Terra ripresi dal Mars

Reconnaissance Orbiter. (Cortesia: NASA).

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che rimane allo stato liquido durante l'estategelerà in autunno-inverno, favorendo l'allarga-mento della superficie dei poligoni.

Anche in questo caso è stato possibiledeterminare l'origine di queste forme marzianeconfrontandole con analoghe manifestazioni ter-restri. Questi suoli poligonali sono infatti assaitipici delle zone circumpolari terrestri dell'emisfe-ro boreale, come la regione settentrionaledell'Alaska e del Canada, l'arcipelago delleSvalbard (Figura 7) o il nord della Siberia. Delleforme di questo tipo si possono trovare sporadi-camente anche nelle Alpi.

Sopra a sinistra, figura 6 - Suoli poligonali delle regioni circumpolari dell'emisfero boreale di Marte,ripresi dal Phoenix Mars Lander. (Cortesia: NASA). Sotto, figura 7 - Suoli poligonali nella regione di

Longyearbyen (Isole Svalbard). (Cortesia: E. Reynard)

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Conclusioni

La geomorfologia marziana, detta ancheareomorfologia (da «Ares», che in greco signifi-ca appunto «Marte»), è quindi una delle scienzeche meglio si prestano allo studio del PianetaRosso. Per il fatto di essere basata sull'osserva-zione delle forme di superficie di un pianeta, lageomorfologia permette l'effettuazione di analisiassai dettagliate di un territorio senza necessita-re forzatamente di un contatto diretto con lasuperficie del suolo, cosa che è alquanto raraquando si studia un corpo extraterrestre.

Con questo piccolo contributo mi premevadi presentare anzitutto un'analisi comparativadella geomorfologia marziana sulla base delleforme del rilievo terrestre. In effetti, se si suppo-ne che gli stessi processi geomorfologici che èpossibile studiare, quantificare e modellizzaresulla Terra siano presenti anche su Marte, è pos-sibile determinare la genesi delle forme del rilie-vo marziano per analogia con le forme terrestri.Basandoci su quest'approccio è quindi statopossibile evidenziare la presenza di forme mar-ziane che si possono spiegare solo con l'esisten-za permanente di acqua allo stato solido, siaessa sulla superficie del pianeta (calotte polari,ghiacciai) o nel sottosuolo (ghiaccio del perma-frost), e con l'esistenza sporadica di acqua allostato liquido.

RingraziamentiL'autore ringrazia Ivan Fontana per le

discussioni e i commenti che hanno sostenuto laredazione di quest'articolo.

Note1 SUMMERFIELD M. (1991). In: Global

Geomorphology. London, Pearson, 560 p.2 BIANCHI R., FLAMINI E. (1977).

Permafrost su Marte. In: «Memorie della SocietàAstronomica Italiana», vol. 48, pp. 807-820.

3 MALIN M.C., EDGETT K.S., POSIOLO-VA L.V., MCCOLLEY S.M., NOE DOBREA E.Z.(2006). Present-day impact cratering rate andcontemporary gully activity on Mars. In:«Science», vol. 314, pp. 1573-1577.

4 PELLETIER J.D. (2004). How do spiraltroughs form on Mars? In: «Geology», vol. 32, n.4, p. 365-367.

5 HAUBER E., VAN GASSELT S., CHAP-MAN M.G., NEUKUM G. (2008). Geomorphicevidence for former lobate debris aprons at lowlatitudes on Mars: indicators of the Martianpaleoclimate. In: «Journal of GeophysicalResearch», vol. 112, articolo E02007.

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Eccoci qui: oggi abbiamo l'occasione dicommentare insieme a un astronomo dei nostrigiorni l'intervista, da poco ritrovata, a un famo-so scienziato del passato che ha realizzato unimpresa molto importante, Gian DomenicoCassini. Iniziamo subito con le presentazioni,allora…

Gian Domenico, raccontaci qualcosasu di te e sulla tua scoperta più importante.

Nel corso della vita ho svolto numeroseprofessioni: sono stato matematico, astrono-mo, ingegnere, medico e biologo. Fin dall'in-fanzia ero attratto da tutto quello che mi circon-dava. Potrei dire dall'universo nella sua totali-tà. Così ho iniziato a dedicarmi all'astronomia,scienza che mi appassionava sempre di più eche di volta in volta era in grado di stupirmi.Iniziai a dedicarmi allo studio del pianetaSaturno, in particolare ai suoi anelli, e nel 1675scoprii la divisione più grande, che tuttora èricordata con il mio nome. Questa è statasenza dubbio una scoperta molto importante,che

sono riuscito a realizzare anche grazie aifamosi astronomi che mi hanno preceduto.

Chi sono costoro e che cos'hannoscoperto sul pianeta? E sui suoi anelli?

Galileo Galilei fu il primo a osservare ilpianeta Saturno al telescopio. Nel luglio del1610, oltre a distinguerne il disco, scorse aisuoi lati due corpi secondari. Il pianeta venneperciò definito «tricorporeo», come possiamocomprendere dalla sua frase «Vidi Saturnoesser tricorporeo». Ma la scarsa potenza delsuo telescopio non gli permise di distinguernela forma con chiarezza. Nel 1655 sarà lo scien-ziato Christian Huygens a notare la loro formaad anelli.

Come si sono formati questi anelli?L'origine degli anelli è tuttora sconosciu-

ta. Ci sono però due ipotesi principali: chesiano il risultato della frantumazione di unsatellite di Saturno, che trovandosi troppo vici-no al pianeta ha subito una forte attrazionegravitazionale e i suoi detriti non sono quindipiù riusciti a ricomporsi, oppure che siano un

«avanzo» del materiale da cui si formòSaturno che non è riuscito ad

assemblarsi in un corpo unico.Le teorie attuali suggerisco-

no che gli anelli sianoinstabili e abbiano unavita relativamentebreve: in pochi milionidi anni dovrebberodisperdersi o cadere sul

pianeta stesso. Questosuggerirebbe un'origine

recente degli anelli.

Gli anelli di SaturnoIl ritrovamento immaginario di un'intervista altrettanto immaginaria

Lucia Colognese

Qui a sinistra, gli anelli diSaturno. A fronte, Gian Domenico

Cassini. (Cortesia: NASA)

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Qual è la loro struttura?Gli anelli sono costituiti da un gran

numero di particelle solide, principalmente cri-stalli di ghiaccio, con una certa percentuale disilicati e forse grani di ferro di origine meteo-rica, ciascuno dei quali ruota attorno al pia-neta su una propria orbita. Alcuni granipotrebbero essere ricoperti di ghiacciosecco, cioè anidride carbonica ghiac-ciata. Gli anelli sono composti da par-ticelle di dimensioni variabili da qual-che centimetro ad alcuni metri esono pure probabili corpi grandialcuni chilometri. Pur essendo lar-ghi in alcuni casi fino a 250 milachilometri, gli anelli sono straordi-nariamente sottili: non sono spes-si più di 250 metri.

Ci sono dei satelliti intor-no al pianeta e agli anelli?

Sì, Saturno è circondato daun gran numero di satelliti che pos-sono essere visti allineati solo quan-do gli anelli si presentano di taglio.Fino ad oggi se ne conoscono 18. Èprobabile però che ve ne siano altrinascosti tra le suddivisioni degli anelli.Tutti i satelliti, escluso Phoebe, ruotanointorno a Saturno volgendogli sempre la stes-sa faccia. I nove satelliti maggiori sono Mimas(Saturno I), il più vicino a Saturno dei 9 satelli-ti maggiori e il settimo dei satelliti noti,Enceladus (Saturno II), Tethys (Saturno III),Dione (Saturno IV), Rhea (Saturno V), il quat-tordicesimo satellite noto e il secondo satellitedi Saturno come grandezza, Titano (SaturnoVI), il più grande, scoperto da Huygens nel1655, Hyperion (Saturno VI), Iapetus (SaturnoIV) e Phoebe (Saturno IX), il più esterno deisatelliti (ad oggi noti).

Comesono suddivisi gli anelli?

In sette fasce, separate da delle divisioniche sono quasi vuote. L'organizzazione infasce e divisioni risulta da una complessa dina-mica ancora non ben compresa, ma nellaquale giocano sicuramente un ruolo i cosiddet-ti satelliti pastore, lune di Saturno che orbitano

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all'interno o subito fuori dell'anello. Si definiscesatellite pastore un satellite naturale che con lasua particolare orbita in prossimità di un anelloplanetario contribuisce a mantenerlo stabilepur modificandone la forma e l'estensioneattraverso meccanismi di interazione gravita-zionale. Inoltre contribuisce, come si è scoper-to dalle osservazioni effettuate dall'orbiter dellamissione spaziale Cassini-Huygens, allanumerose divisioni possibili all'interno del-l'anello. La divisione più grande negli anelli fuscoperta da me nel 1675 ed è chiamataDivisione di Cassini. I diversi anelli sono chia-mati anche con le lettere dell'alfabeto.Originariamente la sequenza partiva dal piùesterno (A) verso l'interno (B, C eccetera), macon la scoperta di nuovi anelli sia all'interno siaall'esterno le lettere sono ora piuttosto mesco-late.

Cediamo ora la parola all'astronomo cheinsieme a noi ha seguito il ritrovamento di que-sta storica intervista, che la commenta allaluce delle conoscenze attuali:

«Il ritrovamento è sicuramente un fattomolto importante per la storia. Mi rimane daaggiungere solo che, in seguito alle scoperte diGalileo e Huygens, altri ricercatori si sonodedicati all'approfondimento della struttura diquesto pianeta. È importante ricordare però

che l'esplorazione di Saturno è avvenutaesclusivamente tramite l'ausilio di sonde spa-ziali prive di equipaggio umano. Infatti, cometutti i giganti gassosi, Saturno non possiedeuna superficie solida, per cui le sonde chel'hanno visitato non vi sono atterrate, mahanno effettuato dei sorvoli ravvicinati (flyby)del pianeta o sono entrate nella sua orbita,come nel caso della Cassini che è tuttora inorbita intorno al pianeta. La prima sonda a visi-tare il pianeta è stata la Pioneer 11, nel settem-bre del 1979: si è occupata anche dello studiodegli anelli di Saturno e ha scoperto in partico-lare la presenza dell'anello F e di materia neglispazi scuri tra gli anelli. L' anello F è uno deglianelli esterni di Saturno: è spesso solo 100 chi-lometri ed è mantenuto stabile dalla presenzadi due satelliti, Prometeo e Pandora, che orbi-tano in prossimità dell'anello, esternamente einternamente. Le immagini della Cassini indi-cano che l'anello è formato da molti piccolianelli attraversati da noduli, che potrebberoessere accumuli di materiale o minutissimisatelliti, con attorno un'altra struttura spiraleg-giante».

Bene, grazie di tutto e speriamo in futurodi poter commentare altri ritrovamenti impor-tanti di archeoastronomia.

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Quando si parla di universo e corpicelesti le prime immagini che vengono inmente sono quelle di grandi oggetti comegalassie lontanissime, enormi buchi neri,stelle gigantesche (basta pensare che il Soleè solo una stella di medie dimensioni). Inrealtà l'universo è composto anche da picco-li elementi come i frammenti di una cometa oi miniasteroidi. Nel nostro Sistema Solare sitrovano miliardi di questi piccoli oggetti, tracui uno in particolare che ha fatto e fa tuttoraparlare parecchio di sé: Plutone, che con undiametro di circa 2 306 chilometri è più picco-lo della Luna.

L'ipotesi dell'esistenza di Plutone fu for-mulata quando gli scienziati si accorsero chel'orbita di Nettuno, scoperto nel 1847, erastrana, come se fosse sotto l'effetto gravita-zionale di un altro pianeta. Dopo diversistudi, la sua esistenza fu provata dall'astro-nomo Clyde Tombaugh grazie ad alcune foto-grafie esaminate con un comparatore a inter-mittenza per evidenziare eventuali corpi inmovimento. Plutone venne chiamato così inonore della divinità romana degli inferi.Inoltre le sue iniziali (PL) sono le stesse dicolui che per primo ne ipotizzò l'esistenza:Percival Lowell.

A causa della sua grande distanza dallaTerra, pari in media a circa 5,9 miliardi di chi-lometri, si conosce ben poco di questo piane-ta: le uniche informazioni che si possiedonosono le osservazioni effettuate dall’HubbleSpace Telescope, che ha riconosciuto la pre-senza di zone ricoperte da metano e azoto.Queste sostanze rimangono ghiacciatebuona parte dell'anno, per poi evaporarequando il pianeta si avvicina al Sole. Lasublimazione dei gas forma una leggeraatmosfera composta prevalentemente da

metano gassoso. Si suppone che la parteinterna del pianeta sia formata da un nucleo,composto da rocce silicee, e da un mantellodi ghiaccio. Purtroppo anche per gli amantipiù coraggiosi delle avventure sarebbeimpossibile vivere su Plutone, dato che latemperatura media è di circa -235 gradi.

Anche ammesso che sia un pianeta (enon lo è), Plutone non è sempre l'ultimo delnostro Sistema Solare. Infatti, avendo un'or-bita fortemente ellittica, quando è in prossi-mità del perielio si trova a una distanza dalSole inferiore a quella di Nettuno. Plutonepercorre la propria orbita insieme ai suoi tresatelliti naturali: Nix e Idra, scoperti nel 2005,e Caronte, scoperto nel 1978.

Per quanto riguarda l'esplorazione diPlutone, nessuna sonda l'ha mai visitato.Però il 19 gennaio 2006 è stata lanciata dallaNASA la sonda spaziale New Horizons, che

La sonda New Horizons è in viaggio per raggiungerlo

Plutone

Non è più un pianeta

La classificazione dei pianeti si èbasata per lungo tempo sull'idea chefosse un pianeta tutto ciò che orbitavaintorno a una stella e non producesseenergia propria. Nel Sistema Solare, tut-tavia, ci sono molti piccoli corpi, comeasteroidi e comete, che non sono piane-ti. Qual è il limite? Per gli scienziati il pro-blema di Plutone sta nella sua classifica-zione. Fin dalla sua scoperta è semprestato considerato come un pianeta veroe proprio. Tuttavia nell'agosto del 2006l'Unione Astronomica Internazionale hadeciso di rivedere le definizioni e Plutoneè stato declassato a pianeta nano.

Silvia Masetti

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raggiungerà il pianeta il 15 febbraio 2015.Essa ha come obiettivi principali quelli dicreare una mappa della superficie di Plutonee Caronte e analizzare l'eventuale atmosferadei due corpi celesti.

Chi da bambino non ha mai desideratocompiere il viaggio Terra-Plutone? Un viag-gio nell'universo fino a quel piccolo pianeta di

ghiaccio, quasi dimenticato da tutti, ma che èlì, ai confini del nostro Sistema Solare.Magari ciò sarà possibile in futuro, anche seprobabilmente conoscere ogni segreto diquesto piccolo pianeta vorrebbe dire fargliperdere quel fascino misterioso che da sem-pre attrae l'uomo.

Plutone e Caronte ripresi dall’Hubble Space Telescope. (Cortesia: NASA)

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Un escursione fra astronomia e (g)astronomia

Sabato 15 maggio, ore 8h30, ritrovo alposteggio sopra la rotonda di Bioggio, munitidel necessario contro il freddo e la pioggia. Ioarrivo con un bel minibus noleggiato in città,carico i bagagli e le otto persone che miaspettavano. E via, in direzione del Giura.Prima tappa: Erstfeld, per una colazione.Seconda tappa: Neuenkirch, per il pranzo.Infine arrivo a Delémont. Dopo l'assegnazio-ne delle camere e una piccola rinfrescata,partenza per Porrentruy e Courtedoux doveci attende una simpatica guida.

Camminare sulle tracce dei dinosauri èlo scopo della nostra gita pomeridiana. Conla guida ci incamminiamo attraverso la pine-ta soffermandoci davanti ai 18 cartelli espli-cativi che costellano il percorso. Alla fine delgiro, sotto una grande tenda, ecco i ritrova-menti degli scavi effettuati poco tempo prima.Enormi impronte fossilizzate di dinosauri(fino a 1 metro di diametro) lasciate 150milioni di anni fa su una spiaggia, pure essafossilizzata, e che il tempo ha voluto preser-vare fino ai giorni nostri. Dopo le foto di rito,torniamo al bus per spostarci su un altro sitodi ritrovamenti proprio sul tracciato della futu-ra autostrada A16. Sono 4000 metri quadri discavi in cui sono venuti alla luce migliaia diimpronte di passaggi di dinosauri. La visita èveramente interessante grazie alle esaurien-ti spiegazioni della guida. Al rientro ci aspet-ta un'ottima cena in compagnia del presiden-te della Società Giurassiana di Astronomia(SJA), Michel Ory.

Calata la notte, ci rechiamo in quel diVicques, a una decina di chilometri daDelémont, per la visita del relativoOsservatorio, che era poi lo scopo dellanostra trasferta. Il tempo purtroppo non è cle-mente: il cielo è completamente coperto.Così ci dobbiamo accontentare della visionedi tutto quanto si trova sotto la cupola.All'entrata un'accogliente sala riunioni, di

fianco l'ex camera di sviluppo fotografico adi-bita ora a officina di manutenzione, una pic-cola sala di comando del telescopio, un sem-plicissimo ma simpatico planetario per vede-re che cosa si può osservare sulla volta cele-ste e infine, al piano superiore, il telescopioda 61 centimetri configurato praticamentecome Newton (dati tecnici all'indirizzohttp://www.jura-observatory.ch). Michel cispiega per filo e per segno tutte le fasi dicostruzione dell'Osservatorio, l'affannosaricerca di fondi, le scoperte di diversi asteroi-di (oltre 230), dei NEA (Near Earth Asteroid)e di uno di loro in particolare, 2009 KL2,grande circa 1 chilometro, che potrebbeincrociare l'orbita terrestre, e infine le peripe-zie per avere uno strumento degno di nota.

L'indomani, dopo colazione, una scam-pagnata verso le Franches Montagnes conuna puntatina all'abbazia di Bellelay con isuoi grandi giardini e una sbirciata alla pen-sione per cavalli di Le Roselet per poi farritorno in Ticino facendo tappa al caseificio diAirolo per la cena. Un fine settimana all'inse-gna dell'allegria e (perché no?) della(g)astronomia.

Le Pleiadi a DelémontFausto Delucchi

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La fotoL'eclisse anulare del 10 gennaio ripresa dal Kenya da Patricio Calderari

Se il fenomenonon va all'astro-filo (trad.: non

si verifica soprala sua testa),l'astrofilo va al

fenomeno(trad.: parte eva osservare

altrove).L'eclisse, poi, èun classico: lagiusta occasio-ne per regalarsiun bel viaggio.Così ha fatto

PatricioCalderari, che il

10 gennaio2010 era pres-

so il LagoNakuru, in

Kenya, a foto-grafare l'eclisse

anulare conuna NikonD300 e un

obiettivo Nikkor800 mm f/8.

Diaframma f/16ed esposizionida 1/50 sec a1/500 sec, a

seconda della«nuvoletta».

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Anche nel 2010 la SAT propone la Giornata di studio sull'astronomia, che si svolgerà

a Savosa il 18 settembre 2010 alle 14h30

La Giornata è per tutti coloro che sono interessati all'astronomia e desiderano impararequalcosa di nuovo. Ma non solo: la Giornata è anche l'occasione per tutti di raccontare qualcosadi nuovo. Fabbricazione di strumenti, tecniche fotografiche, esperienze di divulgazione, costruzio-ne di meridiane, Lavori di Maturità (LaM): tutto si presta a una comunicazione durante la Giornatadi studio, tutto può essere condiviso con gli appassionati di astronomia.

Questo è dunque un appello ai soci della SAT, agli astrofili, ai simpatizzanti, agli amici deicugini dei conoscenti degli appassionati: se avete qualcosa di bello, interessante, utile che vi pia-cerebbe condividere, venite a raccontarlo durante la Giornata di studio, il 18 settembre 2010 aSavosa.

La durata di un intervento sarà di 15-30 minuti al massimo, con un momento successivo perle domande. Saranno disponibili proiettore e computer e ci sarà la possibilità di esporre eventua-li strumenti. Vi preghiamo di inviare il titolo del vostro intervento al più tardi entro il 31 luglio all'in-dirizzo [email protected].

Grazie in anticipo a tutti coloro che vorranno partecipare.

Giornata di studioUn’occasione per ascoltare le esperienze degli altri ma anche per raccontare le proprie

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Per sollecitare l’interesse dei giovani verso l’astronomia

Bando di concorsoPer onorare la memoria di un suo membro, l'ingegner Ezio Fioravanzo di Milano, esperto e

appassionato astrofilo, la Società Astronomica Ticinese (SAT), grazie all'iniziativa e con l'appoggiofinanziario della figlia del defunto, dottoressa Rita Erica Fioravanzo, istituisce un concorso, arrivatoalla sua 16.esima edizione, per l'assegnazione del

Premio Ezio Fioravanzo 2010

inteso a risvegliare e a favorire nei giovani del nostro Cantone l'interesse per l'astronomia e a incita-re gli astrofili a collaborare con la rivista «Meridiana», organo della SAT.

1. Il concorso è riservato ai giovani residenti nel Ticino, di età compresa tra 14 e 21 anni (almomento della scadenza).

2. I lavori in concorso devono consistere in un elaborato di argomento astronomico, eventualmen-te un Lavoro di Maturità (LaM). In caso di vittoria, dall'elaborato dovrà poi essere estratto un articoloadatto alla pubblicazione su «Meridiana», che non dovrà occupare più di 6 pagine dattiloscritte, in for-mato A4, e dovrà possibilmente essere illustrato con fotografie, figure o disegni. Possono esseredescritte in particolare:- osservazioni e rilevazioni astronomiche (a occhio nudo, con binocoli, telescopi o altri strumenti),- costruzione di strumenti o apparecchiature come cannocchiali e telescopi, altri dispositivi osserva-tivi, orologi solari (meridiane) eccetera,- esperienze di divulgazione,- visite a Osservatori, mostre e musei astronomici,- ricerche storiche su soggetti della nostra materia.

3. I lavori devono essere inviati entro il 31 dicembre 2010, all’indirizzo:«Astroconcorso», Specola Solare Ticinese, 6605 Locarno-Monti

4. Essi verranno giudicati inappellabilmente da una giuria composta da membri del Comitato diret-tivo della SAT e dalla dottoressa Rita Fioravanzo. Più che allo stile letterario verrà data importanza alcontenuto del lavoro e si terrà pure conto dell'età del concorrente.

5. Verranno aggiudicati tre premi in buoni acquisto presso negozi di ottica e librerie (Michel eDozio, Lugano e Libreria-cartoleria Locarnese):- il primo del valore di 600.- Fr.- il secondo del valore di 400.- Fr.- il terzo del valore di 300.- Fr.Possono anche essere assegnati premi ex-aequo.

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La divulgazione astronomica in Ticino da luglio a settembre

Con l’occhio all’oculare…

Monte GenerosoSono previsti i seguenti appuntamenti pressol’Osservatorio in vetta:

sabato 17 luglio(Luna, Saturno,Venere, Marte e Mercurio,

grande triangolo estivo)domenica 18 luglio

(Sole, Venere)sabato 24 luglio

(Saturno, costellazioni dello Scorpionee del Sagittario, galassie dell'Orsa Maggiore)

domenica 1 agosto(Sole)

sabato 14 agosto(Perseidi eccetera)sabato 21 agosto

(Giove, ammassi e nebulosedel Sagittario e dello Scorpione)

sabato 11 settembre(Giove, costellazioni estive)domenica 12 settembre

(Sole)sabato 18 settembre

(Luna, Giove, cielo profondo)Per le osservazioni notturne la salita con il tre-nino avviene alle 19h15 e la discesa alle23h30. Per le osservazioni diurne, salite ediscese si svolgono secondo l’orario in vigore almomento dell’osservazione.Per eventuali prenotazioni è necessario telefo-nare alla direzione della Ferrovia MonteGeneroso (091.630.51.11).

Specola SolareÈ ubicata a Locarno-Monti nei pressi diMeteoSvizzera ed è raggiungibile in automobi-le (posteggi presso l’Osservatorio). Un soloappuntamento pubblico in questo trimestre acura del Centro Astronomico del Locarnese(CAL) con il telescopio Maksutov ø 300 mm diproprietà della SAT:

martedì 14 settembre (dalle 19h)L’evento si terrù con qualsiasi tempo. Dato ilnumero ridotto di persone ospitabili, si accetta-no solo i primi 14 iscritti in ordine cronologico.Le prenotazioni vengono aperte una settimanaprima dell’appuntamento. Si possono effettua-re prenotazioni telefoniche (091.756.23.79)dalle 10h15 alle 11h45 dei giorni feriali oppurein qualsiasi momento attraverso Internet(http://www.irsol.ch/cal).

Calina di CaronaLe serate pubbliche di osservazione si tengo-no in caso di tempo favorevole sempre a parti-re dalle 21h:

venerdì 6 agosto (Saturno)mercoledì 11 agosto (Perseidi)venerdì 13 settembre (Giove)

sabato 18 settembre (Luna, Giove)L’Osservatorio è raggiungibile in automobile.Non è necessario prenotarsi. Responsabile:Fausto Delucchi (079-389.19.11).

Monte LemaSono previsti i seguenti appuntamenti (a parti-re dalle 20h30):

mercoledì 11 agosto(Perseidi)

sabato 4 settembre(Giove, costellazioni)

venerdì 10 settembre(Giove, costellazioni)

venerdì 17 settembre(Luna, Giove, costellazioni)

Le serate si svolgeranno solo con tempo favo-revole. Prezzo di salita e discesa, comprensivadell'osservazione al telescopio con guidaesperta: soci del gruppo «Le Pleiadi» franchi20.-, non soci franchi 30.-. Prenotazione obbli-gatoria presso l'Ente Turistico del Malcantoneil mercoledì e il giovedì dalle 14h00 alle 16h30(tel. 091.606.29.86).Per ulteriori informazioni consultare il sito del-l'associazione «Le Pleiadi» (http://www.lepleia-di.ch).

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Visibilità dei pianeti

MERCURIO Visibile di sera a partire da metà luglio fino a metà agosto. Il 7 agosto è allamassima elongazione orientale. In seguito invisibile, riappare al mattino apartire dalla seconda metà di settembre.

VENERE E' sempre l'astro dominante del nostro cielo occidentale, e il 20 agosto èalla massima elongazione orientale. In congiunzione con Marte il 23 agostoe il 29 settembre e con Saturno il 10 agosto.

MARTE Visibile in serata verso l'orizzonte ovest, in congiunzione con Saturno ilprimo agosto e con Venere il 23.

GIOVE Visibile nella seconda parte della notte in luglio e in seguito per tutta la notte.In opposizione il 21 settembre, nei Pesci.

SATURNO Visibile in serata verso l'orizzonte occidentale con Marte e Venere.

URANO Visibile nella seconda parte della notte e in seguito per tutta la notte. ComeGiove è in opposizione al Sole il 21 settembre.

NETTUNO Il 20 agosto è in opposizione ed è quindi visibile per tutta la notte, tra le stel-le della costellazione del Capricorno.

FASI LUNARI Ultimo Quarto 4 luglio, 3 agosto e 1. settembreLuna Nuova 11 luglio, 10 agosto e 8 settembrePrimo Quarto 18 luglio, 16 agosto e 15 settembreLuna Piena 26 luglio, 24 agosto e 23 settembre

Stelle filanti Le Perseidi, lo sciame più famoso anche se non il più interessante dell'anno,hanno un massimo dell'attività il 12 agosto, con un centinaio di apparizioniall'ora.

Inizio autunno L'equinozio ha luogo il 23 settembre alle 5h09.

Eclisse Totale di Sole l'11 luglio, visibile nel Pacifico.

Congiunzioni Verso la metà di luglio saranno visibili di sera, verso l'orizzonte occidentale,i pianeti Venere, Marte e Saturno, insieme con la falce lunare.

Effemeridi da luglioa settembre 2010

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12 luglio 24h00 TL 12 agosto 22h00 TL 12 settembre 20h00 TLQuesta cartina è stata tratta dalla rivista Pégase, con il permesso della Société Fribourgeoise d’Astronomie.

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G.A.B. 6616 LosoneCorrispondenza:Specola Solare - 6605 Locarno 5