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MATERIALI, SISTEMI E MINIMALISMI

Gianraffaele Loddo Università degli Studi di Cagliari

Facoltà di Ingegneria Dipartimento di Architettura

Piazza d’Armi, Cagliari, [email protected]

Touch the earth lightly

(Glenn Murcutt) Lo sviluppo dell’architettura ha spesso seguito un’evoluzione basata su un processo di tipo accumulativo, intendendo con questo termine la stratificazione di requisiti e caratteristiche di genere formale, linguistico, prestazionale ecc. I prodotti di tali processi complessi sono stati caratterizzati, a seconda delle circostanze di luogo e di tempo, talvolta da una spiccata ridondanza ed altre volte da estrema semplificazione. La critica è così giunta a distinguere, e classificare, un’architettura maggiore da una minore: comprendendo nella prima i grandi edifici e gli interventi economicamente più impegnativi, e riunendo indistintamente nella seconda tutti gli episodi in scala piccola, quasi vi fosse una proporzione diretta e imprescindibile tra dimensioni e qualità degli oggetti progettati e che questa classificazione assegnasse ad essi un rango più o meno elevato. Già a partire dagli anni ’60, con l’affermarsi delle tematiche legate alla Pop-Art, il concetto stesso di opera d’arte, e di monumento, è mutato in maniera profonda: l’arte partecipata, da essa ulteriormente derivata, ha consolidato questo nuovo punto di vista. Naturalmente anche in campo architettonico il fenomeno ha avuto ripercussioni importanti: innestata sulle intuizioni di Buckminster Fuller, passando per le ricerche di Frei Otto per giungere sino alle proposte utopiche degli Archigram (solo per citare gli esponenti più noti) si è diffusa sempre più la presa di coscienza di problematiche specifiche che, pur essendo state spesso elaborate per interventi su larga scala, sono alla base delle attuali attenzioni nei confronti del minimalismo. Gli epigoni, almeno nelle loro enunciazioni, non sembravano interessarsi tanto al problema della scala quanto piuttosto all’elencazione di una serie di requisiti che avrebbero incontrato, proprio nella piccola dimensione, le risposte più convincenti. La recente mostra antologica sugli Archigram svoltasi a Londra ha riproposto in maniera efficace quelle intuizioni: nomadismo, metamorfosi, tempo, scambio, consumo, stile di vita e provvisorietà erano i termini cari al movimento ed essi appaiono oggi sorprendentemente attuali ed appropriati a sintetizzare la tendenza che ha contribuito in maniera decisiva a rompere il binomio dimensione-qualità. Non sarebbero stati però sufficienti Fuller, Otto o gli Archigram a spiegare la diffusione ed il successo del fenomeno se le loro intuizioni non si fossero intersecate ed arricchite con altre due circostanze: i movimenti ecologisti, che hanno posto l’accento su sostenibilità e risparmio energetico, e la mutata attenzione nei confronti delle risorse naturali e storiche (viste come occasione di sviluppo) che ha introdotto nuovi concetti di compatibilità. I qualificati movimenti turistici, ad esempio, indirizzati proprio allo sfruttamento di tali risorse hanno contribuito in misura non trascurabile allo studio di nuove tipologie e all’affermarsi di

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materiali che, talvolta ripresi dalla tradizione, meglio si prestano alla soluzione dei casi specifici. L’architettura minimalista ha così raggiunto già da diversi anni il rango che giustamente le compete e tale definizione ha cessato di avere un significato riduttivo. In epoca di globalizzazione il fenomeno non poteva che riguardare, pur con caratteristiche di assoluta specificità, tutti i continenti (Africa inclusa) e tutte le culture con contaminazioni trasversali sia in termini linguistici che tipologici e materici: in questo senso tende a ridursi la differenza tra nord e sud e tra occidente e oriente del mondo. Non più solo nell’Europa dell’ovest o negli U.S.A. ma, in ciascun ambito, una nuova schiera di progettisti si è formata ed opera in questi termini: del resto come riporta L. van Schaik “…le scoperte accadono secondo ondate simultanee, in diverse parti del mondo. Le capacità umane sono tali che, a parità di informazioni e di esperienze, cominciano a sintetizzare soluzioni utilizzando capacità condivise”. L’attenzione per temi, prima scarsamente considerati, ha indotto un evidente salto qualitativo nella produzione architettonica. Le soluzioni di Cohen & Judin a Mveso (Sud Africa) per il museo dedicato a Nelson Mandela e di Péter Kis e Tamás Ükös per le infrastrutture dello zoo di Budapest ne sono solo alcune qualificate esemplificazioni. All’High-Tech si è insomma affiancata quella che può essere definita a ragione architettura Low-Tech: la tecnologia sempre più spinta e specializzata non poteva che creare uno spazio di manovra per interventi in cui attenzione per il luogo, semplicità e sincerità costruttiva sarebbero stati allo stesso tempo elementi ed obiettivi dei progetti. In un panorama così articolato emergono numerose e importanti individualità che, con segni molto diversi tra loro, hanno raggiunto un riconoscimento internazionale per aver approfondito, talvolta accanto ad una progettazione più tradizionale, specifici ambiti ed aver poi riportato queste esperienze di nicchia nella produzione più vasta. Tra queste particolarmente significative sono le opere di Shigeru Ban (per l’uso di materiali non convenzionali e per i progetti elaborati in occasione di calamità naturali), Glenn Murcutt (per la messa a punto di residenze ad elevato livello di autosufficienza e risparmio dal punto di vista energetico) e Sean Godsell (per il forte impegno sociale). La produzione architettonica di Shigeru Ban (Tokyo 1957) si è contraddistinta, sin dagli esordi, per l’uso di materiali sino a quel momento giudicati quantomeno non convenzionali come cartone, legno e bambù. Nell’allestimento per le mostre dedicate a Emilio Ambasz e Alvar Aalto, rispettivamente nel 1985 e nel 1986, egli impiegò per la prima volta il cartone come materiale strutturale. Da allora il ricorso ai derivati della carta è divenuto sempre più frequente ed impegnativo: dai semplici ripari progettati per conto dell’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite a favore dei profughi ruandiani (1995-1999), ai moduli residenziali per popolazioni colpite da terremoti a Kobe, Kaynasli e Bhuj (Fig. 1) passando per il Padiglione del Giappone per l’Expo di Hannover che ha rappresentato la definitiva consacrazione di Ban in ambito internazionale grazie anche all’interesse, ed alla collaborazione, offertagli da Frei Otto. Il reiterato impiego del cartone, nelle sue varianti produttive, è stato sempre supportato da ricerca e sperimentazione tecnologica: a questo proposito sono particolarmente interessanti le prove di laboratorio eseguite per la verifica delle resistenze degli elementi singolari o compositi (tubi, pannelli a nido d’ape, ecc.) e dei loro sistemi di connessione. Le procedure hanno riguardato sia i casi più semplici di determinazione degli effetti a lungo termine dello scorrimento dei tubi sotto carico assiale costante, come per la Library of a poet, che quelli più complessi come le prove di resistenza a compressione, flessione e torsione nel breve e lungo termine sia su campioni asciutti che umidi, come per il Padiglione del Giappone ad Hannover (Fig. 2) e per i pannelli del Nemunoki Children’s Art Museum di Kakegawa (Fig. 3).

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Fig.1: Paper Log House, Bhuj (India), 2001. Esploso assonometrico, sezione. Il progetto per Bhuj, approntato in occasione di un catastrofico sisma, è una variante di quelli predisposti per Kobe (1995) e per Kaynasli (2000). Lo spazio interno di ciascun modulo abitativo è di 3.20x4.90 m. Il processo edilizio è sostanzialmente a secco se si esclude il getto per i sei piccoli dadi di fondazione in calcestruzzo posti in corrispondenza dei vertici delle cellule e delle colonne del portico. Le pareti sono realizzate con pannelli composti da tubi di cartone giuntati tra loro da tondini di ferro passanti orizzontalmente. I pannelli parete sono innestati alla base su un canale a C e collegati in sommità da una trave, sempre a C, in compensato. Le modifiche più significative hanno riguardato le fondazioni e le coperture dei 20 moduli. Per l’appoggio a terra in luogo dei consueti contenitori di plastica per le bottiglie di birra, peraltro non reperibili in India, sono state invece riutilizzate le macerie provenienti dagli edifici distrutti dal terremoto, costipate e finite con un pavimento in terra battuta. Il tetto, a volta aggettante, ha l’orditura portante principale in canne di bambù intere mentre quella secondaria è in canne tagliate. Il manto è costituito da una doppia stuoia con interposto un telone impermeabile: piccoli fori nei timpani permettono la ventilazione dei teli. La copertura si estende sul fronte principale a creare una piccola veranda, 1.80x3.50, che riproduce il tradizionale spazio di relazione e funge da filtro tra il modulo abitativo e l’esterno. Le modeste varianti formali e costruttive, apportate alle versioni predisposte per il Giappone e la Turchia, hanno così consentito di adattare il sistema agli usi locali e alle particolari condizioni climatiche.

Fig.2: Japan Pavillon, Hannover (Germania), 2000. Grafici delle prove a compressione e flessione. La struttura del Padiglione è composta da una serie di archi di circa 35 m di luce e 8 m di altezza realizzati con tubi di cartone da 120 mm di diametro e 22 mm di spessore. Lo spazio interno è di 74x25 m e rappresenta la più grande costruzione con struttura portante in cartone del mondo. L’ossatura è composta da una maglia di tubi connessi tra loro da semplici legacci in plastica. La struttura è stata montata a terra in piano e posta nella sua configurazione spaziale definitiva grazie ad un sistema di martinetti idraulici. Il manto di copertura, in accordo con le autorità di controllo tedesche, è in carta e fibra di vetro protetta da un film, resistente al fuoco, in polietilene. La soluzione rappresenta un compromesso tra gli aspetti formali e quelli connessi alla sicurezza. I grafici, elaborati dalle prove eseguite presso la Facoltà di Ingegneria di Dortmund, mostrano il comportamento dei tubi in cartone sollecitati a compressione assiale e a flessione nel lungo termine. Dai campioni sottoposti a test, rispettivamente 8 e 9, è risultata una resistenza a flessione di 1.52 volte maggiore rispetto al valore di quella a compressione.

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Fig.3: Nemunoki Children’s Art Museum, Kakegawa (Giappone), 1999. Schema della struttura e dettagli dei nodi. Lo spazio museale è composto da una grande piastra triangolare, poggiata su 16 colonne d’acciaio, e da trasparenti pareti in cristallo. L’elemento più significativo, la copertura, è costituito da una sorta di cassettonato a celle triangolari alte 60 cm formate con cartone a nido d’ape: nelle zone di maggior sollecitazione le nervature sono raddoppiate ed integrate da listelli di compensato mentre tutti gli elementi di connessione sono in alluminio. L’estradosso della griglia è protetto da una membrana di PVC traslucido mentre un ulteriore strato trasparente e corrugato in FRP (fiber-reinforced plastic) permette l’illuminazione naturale e diffusa dello spazio sottostante. Le numerose prove di laboratorio sono state eseguite presso il Chiba Polytechnic College ed hanno riguardato le sollecitazioni a trazione, compressione e flessione dei pannelli e la resistenza dell’adesione tra i listelli in compensato e la pelle. Ulteriori esperienze di laboratorio, eseguite presso il Kokan Keisoku K.K., hanno riguardato la tenuta delle connessioni tra i pannelli e i giunti in alluminio. L’Australia rappresenta oggi una delle realtà, meglio lo spazio, in cui la sperimentazione di nuovi linguaggi è più viva e diffusa. Forse si potrebbe anche parlare di una sorta di scuola australiana ma di certo, in un panorama molto variegato, sono due le personalità che emergono su tutte le altre: il già celebre Glenn Murcutt e Sean Godsell che è indicato non tanto come suo naturale successore quanto come colui in grado di rappresentarne il superamento. Glenn Murcutt (Londra 1936) incarna una figura professionale piuttosto atipica: non possiede un suo staff, non utilizza il computer, disegna personalmente gli elaborati di progetto (talvolta a mano libera), ha codificato alcuni dettagli che ripropone modificati nelle sue opere, si avvale sempre degli stessi collaboratori esterni e delle stesse imprese. Ha sviluppato, sin dagli esordi, un linguaggio fatto essenzialmente di soluzioni di dettaglio e di materiali poveri, risultato della contaminazione tra la tradizione aborigena (soprattutto per quanto riguarda il rapporto, quasi esoterico, con il luogo), la cultura dei pionieri australiani (basata sulla rilettura formale delle woolsheds e sull’utilizzo delle lamiere ondulate) e la poetica propria di Mies van der Rohe riconducibile in particolare alla plasticità del padiglione di Barcellona e della casa Farnsworth: è insomma l’incontro tra la grande frontiera del Nuovo Mondo e la cultura del Moderno europeo. È nel campo della progettazione di residenze unifamiliari, e quindi della piccola scala, che Murcutt ha raggiunto il successo e la notorietà internazionale. Nel corso della sua attività ha sviluppato alcune centinaia di progetti da cui è possibile ricavare una sorta di fil rouge che li accomuna tutti: il ricorso a piante preferibilmente rettangolari, l’attenzione nei confronti delle caratteristiche ambientali, espositive e di veduta del sito, il recupero della tradizione costruttiva dei pionieri, l’impiego di elementi costruttivi di uso comune. Tutti questi aspetti conferiscono alle abitazioni dell’architetto australiano un contenuto di grande riconoscibilità: le piante sono impostate su un modulo ripetuto, le pareti degli edifici sono trattate in

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relazione all’esposizione con la creazione di quinte opache e pesanti contrapposte ad altre leggere e trasparenti; le coperture sono generalmente curvilinee o fortemente spioventi e realizzate con lamiere ondulate, la gestione della luce all’interno degli ambienti avviene grazie all’introduzione delle vetrate a louvres; il consumo energetico per il condizionamento è estremamente limitato o nullo in quanto gli edifici sono isolati e ventilati naturalmente. Grande attenzione è posta infine nella raccolta, canalizzazione e conservazione dell’acqua piovana: gronde e pluviali diventano di conseguenza elementi quasi scultorei ed enfatizzati nelle dimensioni. La Fredericks (Fig. 4), la Meagher (Fig. 5) e la Fletcher – Page (Fig. 6) houses, per non citare le già notissime Magney e Ball – Eastaway, ben riassumono tutti questi elementi ricorrenti ed esemplificano in modo efficace la sintassi di Murcutt.

Fig. 4 Fredericks house, Jamberoo (Nuovo Galles del Sud), 1981-82. Pianta e veduta. La residenza è composta da due padiglioni diseguali dimensionati su multipli del modulo strutturale base di 5.00x3.35 m. L’ossatura portante è in legno di eucalipto mentre le tamponature esterne sono in cedro rosso e quelle interne in pino, il pavimento è in pannelli di sughero. Come in tutte le costruzioni di Murcutt l’attenzione alle problematiche legate alla corretta esposizione degli ambienti è riscontrabile dal diverso trattamento dei prospetti: la facciata a nord è dotata di ampie vetrate protette da griglie antinsetto e veneziane in legno, mentre il lato esposto a sud (il più freddo) è ermeticamente chiuso ai venti gelidi. L’uso dei pilotis e della copertura, a due falde fortemente inclinate in lamiera metallica a doppio pacchetto, permettono una continua e naturale ventilazione di tutto l’edificio garantendo un limitatissimo consumo energetico per il comfort interno.

Fig. 5 Meagher house, Bowral (Nuovo Galles del Sud), 1988-92. Sezione trasversale, vista dal salone a nord est. L’edificio è disposto ai piedi di una collinetta in modo da proteggerlo dai venti freddi e non interferire visivamente con il profilo della cresta. Il sistema portante è composto da un muro a cassetta in laterizi e da colonne in acciaio. La struttura così composta sostiene la copertura realizzata con una falda a due pendenze (10° e 20°) in lamiera zincata a doppio corpo. Anche in questo caso i due prospetti longitudinali sono trattati in maniera diversa in funzione dell’esposizione. La residenza, che si trova a circa 150 km da Sidney; è praticamente autonoma (se non per la fornitura di energia elettrica) nei confronti delle reti dei sottoservizi: è tra l’altro dotata di un sistema di serbatoi in lamiera in grado di contenere sino a 33.000 litri d’acqua piovana.

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Fig. 6 Fletcher - Page house, Kangaroo Valley (Nuovo Galles del Sud), 1996-98. Sezione trasversale esecutiva, veduta e pianta. In questo edificio l’esposizione più propizia (nord) è in direzione opposta rispetto alla vista migliore. La copertura è stata quindi sollevata ed inclinata parallelamente rispetto al terreno in modo da permettere ai raggi del sole di raggiungere il lato sud attraversando un nastro vetrato che corre lungo tutta la facciata nord. La struttura portante è in muratura di mattoni rivestita con tavole di cedro rosso e sovrastata da un telaio in acciaio che porta la sottile copertura metallica inclinata. Anche in questo caso l’edificio è praticamente autonomo rispetto alle reti dei sottoservizi. Nella relazione di progetto è sottolineato il ridottissimo impatto ambientale dell’intervento. Il linguaggio sviluppato da Sean Godsell (Melbourne 1960) trova le sue basi su una precoce frequentazione dei cantieri (il padre era uno stimato architetto) ma soprattutto sull’esperienza maturata in occasione dei viaggi compiuti in Europa ed in Giappone nel 1985 alla fine degli studi universitari. La vista dal vivo degli edifici che sino a quel momento aveva potuto soltanto osservare illustrati sui libri, la conoscenza diretta delle opere di Michelangelo, Palladio, Le Corbusier, Aalto e Tadao Ando furono per lui una vera e propria scossa culturale. Le geometrie e l’essenzialità giapponese, il rapporto tra interno ed esterno ed il concetto di percorso comune all’architettura europea diventarono la base di un processo metabolico che, a distanza di anni, e dopo diverse esperienze professionali (tra cui la collaborazione con sir Denys Lasdun) porteranno alla formulazione di un linguaggio proprio in cui struttura, costruzione e programma trovavano la loro sintesi comune. Questo articolato percorso formativo è andato inoltre ad arricchirsi con una particolare attenzione nei confronti delle problematiche sociali in generale, e del rapporto con la cultura aborigena in particolare, e di una forte sensibilità nei confronti delle istanze ecologiste: tutto

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ciò si è tradotto in edifici dalle volumetrie pure e dalle rigorose geometrie, da un uso ripetuto di materiali di recupero e una sempre attenta applicazione di accorgimenti e soluzioni in grado di garantire una totale ventilazione naturale e quindi un effettivo risparmio ed autonomia espressa in termini energetici. La sequenza di episodi rappresentati dalla casa a Kew, dalla Carter – Tucker e dalla Peninsula houses ben rappresentano l’approccio e la sintesi dell’atto progettuale di Godsell. Un carattere di particolare interesse e originalità è però rappresentato dai progetti per così dire sociali elaborati dal suo team nel corso degli ultimi anni: tra questi la casa rifugio Future Shack (Fig. 7) e la casa panchina (Fig. 8) sono da considerare tra i più riusciti. È anche grazie a questi progetti che Sean Godsell viene già oggi considerato, soprattutto fuori dall’Australia, non tanto l’erede di Glenn Murcutt quanto piuttosto come colui che ne incarna il superamento. La sua poetica e il suo approccio al progetto contribuiscono in maniera decisiva a proiettare l’architettura australiana al centro dell’attuale dibattito internazionale sull’odierno ruolo del progettista in relazione alla sua incidenza sulla qualità della vita nel mondo industrializzato.

Fig. 7: Casa – Rifugio Future Shack, 1985-2001. Veduta, pianta, prospetto e sezione. La Future Shack (capanna del futuro) è un versatile modulo abitativo destinato ad impieghi diversificati come, ad esempio, in occasione di calamità naturali oppure fornire un riparo sicuro in condizioni estreme. La cellula sfrutta un container standard da 20’ (circa 6.00x2.40x2.60) dotato di appoggi telescopici, rampa di accesso e copertura a due falde. Il rifugio possiede tank per l’acqua e ricevitore satellitare ed essendo corredato da pannelli solari è da considerare energeticamente autosufficente. La copertura, staccata dal top del contenitore, permette la ventilazione costante e la protezione dall’irraggiamento solare. Gli interni sono attrezzati di bagno e cucina. Le dimensioni standardizzate permettono un facile trasporto e stoccaggio mentre la possibilità di sostituire i pannelli di parete standard con altri in materiali diversi (legno, canne e fango, foglie di banano ecc.) consente un uso personalizzato e più specifico al luogo in cui si rendesse necessario l’impiego configurando in tal modo anche un particolare rispetto per la cultura costruttiva della zona in cui dislocare i moduli.

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Fig. 8: Casa - Panchina, 2002. Pianta e prospetti della versione definitiva. Il prototipo di casa panchina è stato messo a punto per ipotizzare un riparo ai circa 10.000 senzatetto che vivono nella città di Melbourne. Lo studio prevede la convertibilità di un elemento panchina in ricovero per le ore notturne. Inizialmente non si era pensato all’utilizzo degli elementi di arredo fissi ma alla produzione di un modulo in plastica dotato di contenitori per scarpe e biancheria completo di ruote e maniglione per facilitarne lo spostamento individuale. Nella semplificata versione finale il sistema è ridotto ad un piano convesso (la seduta diurna) incernierato su un piano orizzontale (il letto per la notte): il primo diventa, in tre configurazioni spaziali, il riparo per la notte. Il sistema è realizzato con profili e lamiere metalliche. I punti di contatto nelle opere di Shigeru Ban, Glenn Murcutt e Sean Godsell sono numerosi. L’analisi dei loro lavori mette in luce aspetti di notevole interesse: un’ampia comunanza di obiettivi che trova soluzioni con modi, forme e materiali molto diversi tra loro. Essi, pur non considerandosi dei capiscuola, rappresentano attualmente l’antitesi di ciò che in passato è stato l’International Style: non più forme che possono essere riproposte similmente a prescindere dai luoghi e dalle funzioni in esse svolte ma, al contrario, grande specificità e attenzione per le condizioni sociali, culturali, ambientali, d’uso ed energetiche. I loro studi non riguardano solo performance e durata: economicità, rapidità, semplicità costruttiva, possibilità di riutilizzo, rispetto per l’ambiente e per l’uomo sono le altre cifre condivise che, come si è visto, i loro progetti mirano a ricomprendere. Le realizzazioni hanno spesso in comune un’apparente, e talvolta disarmante, semplicità che in realtà presuppone grandi conoscenze, attenta sperimentazione e un ritorno ad una professionalità con caratteristiche quasi artigianali. La richiesta in termini di sostenibilità è ormai divenuta, anche nel campo delle costruzioni, sempre più pressante. Ad essa è da sommare, inevitabilmente, l’umana esigenza psicologica di identificarsi e allo stesso tempo distinguersi. La sfida in ambito architettonico proporrà quindi ancora l’elaborazione di nuovi sistemi e nuove forme oggi difficili da definire, di cui saranno consumatori un numero sempre crescente di utenti. A quel punto l’impiego, non più di nicchia, di materiali e tecniche innovative, seppur derivate talvolta dalla tradizione, porrà nel medio e nel lungo termine notevoli problemi inerenti ancora qualità e durata degli edifici: il cammino intrapreso da Ban, Murcutt e Godsell rappresenta già oggi, in questo senso, una traccia importante. Quanto mai opportuna apparirà per tutti la massima fatta propria da G. Murcutt: fare straordinariamente bene cose straordinariamente comuni. Bibliografia di riferimento: Archigram Archives, Concerning Archigram, D. Crompton, London 1999. Davies C., Hopkins 2, Phaidon, London 2001. Farrelly E. M., Three Houses, Glenn Murcutt, Phaidon, London 1993. Fromonot F., Glenn Murcutt, Mondadori Electa, Milano 2002. McQuaid M., Shigeru Ban, Phaidon, London 2003. van Schaik L., Sean Godsell, Mondadori Electa, Milano 2004.