Massimiliano Savorra Venezia . La Biennale del Post-modern ... · Le parole di K. Frampton sono...

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92 Biblioteca Massimiliano Savorra Venezia 1980. La Biennale del Post-modern e la “fine del proibizionismo” Aperta al pubblico il 27 luglio 1980, la Prima mostra inter- nazionale di architettura della Biennale di Venezia dedica- ta a La Presenza del Passato chiuse i battenti il 19 ottobre dopo essere stata visitata da circa 40.000 persone. Con- siderata dalla critica un evento che avrebbe segnato la storia dell’architettura del secondo Novecento, la manife- stazione inaugurava il settore Architettura dell’Ente Bien- nale quale sezione autonoma, come era stato fin dagli anni Trenta per la musica (1930), il cinema (1932) e il teatro (1934). A dirigere il settore fu chiamato Paolo Portoghesi, coadiuvato da una commissione consultiva formata da Costantino Dardi, Rosario Giuffré, Udo Kultermann, Giu- seppe Mazzariol e Robert Stern. Quest’ultimo, con Porto- ghesi, ebbe un ruolo chiave nell’individuare in Charles Jencks, Christian Norberg-Schulz, Vincent Scully e Ken- neth Frampton i co-curatori della mostra, mentre per l’or- ganizzazione il direttore scelse Francesco Cellini, Claudio D’Amato, Antonio De Bonis e Paolo Farina. La decisione di coinvolgere un team di critici internazionali –qualificati da Manfredo Tafuri opinion-makers– era dettata dalla volon- tà di avere un ventaglio di interpretazioni diverse, anche divergenti, che potessero essere comunicate al grande pubblico con chiarezza. In dissenso con i principi sui qua- li si andava definendo l’intera manifestazione e in disac- cordo sulla riduzione della cultura a mero “consumo”, Frampton tuttavia lasciò il gruppo, arrivando anche a riti- rare il suo saggio, già pronto, per il catalogo della mostra: «The critical position it adopts is so extremely opposed to all that could be summed under the category “post-mo- dernist”, that I have realized it would be absurd for me to advance the essay in this context» 1 . Tra le diverse mostre organizzate all’interno della ma- nifestazione 2 , quella celebre dedicata alla Strada Novissi- ma entrò da subito nel mito, grazie anche al fatto che, 1 Le parole di K. Frampton sono riportate in P. Portoghesi, La fine del proibizionismo, in La Presenza del Passato. Prima mostra internazionale di architettura. Corderia dell’Arsenale, catalogo della mostra, Edizioni La Biennale di Venezia- Electa, Venezia 1980, p. 9. 2 La mostra di Ignazio Gardella fu curata da Paolo Farina, quella su Philip Johnson da Massimo Vignelli, quella su Mario Ridolfi da Cellini e D’Amato, mentre quella sulle Corderie dell’Arsenale, che per la prima volta potevano essere visitate dal pubblico, fu curata da Manlio Brusatin. Il progetto di allestimento e la direzione lavori della Strada Novissima furono affidati a Cellini e D’Amato. dall’anno successivo, fu riproposta prima a Parigi e poi a San Francisco, dove approdò nel 1982 3 . Venti facciate af- fidate a progettisti noti –e che lo sarebbero diventati in misura ancora maggiore negli anni seguenti– formarono, nelle parole di Portoghesi, una “galleria di autoritratti ar- chitettonici”: Costantino Dardi, Oma/Rem Koolhaas, Mi- chael Graves, Frank O. Gehry, Taller de Arquitectura/Ri- cardo Bofill, Osvald Mathias Ungers, Charles W. Moore, Robert Venturi-Denis Scott Brown-John Rauch, Robert A. M. Stern, Léon Krier, Franco Purini-Laura Thermes, Josef Paul Kleihues, Stanley Tigerman, Hans Hollein, Studio Gruppo Romano Architetti Urbanisti/Grau, Massimo Sco- lari, Thomas Gordon Smith, Allan Greenberg, Arata Isoa- zaki, Christian de Portzamparc. Ma la facciata di quest’ul- timo non fu montata, e su ordine di Portoghesi, come ricordano Purini e Scolari, fu sostituita da un’altra con pareti piegate in curve e controcurve realizzata dallo stes- so Portoghesi con Cellini e D’Amato, reinterpretazione delle facciate di San Carlo alle Quattro Fontane e dell’O- ratorio dei Filippini. A raccontare questo episodio e molti altri è Léa-Ca- therine Szacka che ha dedicato alla manifestazione vene- ziana un volume recentemente pubblicato per i tipi di Marsilio. Il libro è suddiviso in tre parti: la prima The Bien- nale id dead, long live the Biennale dedicata agli antefatti e al contesto socio-politico delle Biennali degli anni Set- tanta intese come “laboratorio”, la seconda consacrata all’Exhibition Paradox (ossia all’impossibilità di mostrare l’architettura all’interno di uno spazio dato) e alle diverse facciate della Strada Novissima, la terza –dall’emblemati- co titolo The Beginning of the End and the End of the Be- ginning– riservata al tema del postmodernismo, come stile e come filosofia, veicolato dalla manifestazione vene- ziana. Conclude il volume un epilogo, The Venice Architec- ture Biennale as a New Disciplinary Agent, in cui si mette a confronto la manifestazione del 1980 con Fundamentals, la quattordicesima edizione della mostra di architettura alla Biennale, curata da Rem Koolhaas nel 2014. Al di là dei seducenti titoli che nascondono in realtà un’impostazione schematica, in determinati punti perfi- no ingenua (le brevi parentesi storiche sull’Arsenale o su Cinecittà lo provano), di alcune argomentazioni poco convincenti (come ad esempio quelle sulla base delle quali Szacka fa risalire la tradizione di questo tipo di mo- stre di architettura a Stoccarda 1927 e a New York 1932, ricollegandosi peraltro a quanto scritto da Jencks su «Architectural Design» nel 1982; oppure quando afferma che la mostra sull’École des Beaux-Arts, curata da Ar- thur Drexler al MoMA nel 1975, può essere considerata più di un sintomo del concomitante acuirsi dell’interesse verso l’architettura del passato, in special modo classici- sta) e di vistose smagliature bibliografiche, il libro ha il pregio sia di invogliare il lettore e lo studioso a tornare ai testi originali e ad approfondire alcune questioni irrisol- te, sia di stimolare la curiosità e la capacità di porsi altri interrogativi. Frutto di una scelta collettiva, «inevitabilmente com- promissoria», fatta negli incontri tenuti tra Venezia e 3 Le mostre si tennero a Parigi dal 15 ottobre al 20 dicembre 1981 e a San Francisco dal 20 maggio al 29 luglio 1982. 1584— Léa-Catherine Szacka, prefazione di Adrian Forty Exhibiting the Postmodern. The 1980 Venice Architecture Biennale Marsilio, Venezia 2016 ISBN 978 8831726726

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    Massimiliano Savorra

    Venezia 1980. La Biennale del

    Post-modern e la “fi ne del

    proibizionismo”Aperta al pubblico il 27 luglio 1980, la Prima mostra inter-nazionale di architettura della Biennale di Venezia dedica-ta a La Presenza del Passato chiuse i battenti il 19 ottobre dopo essere stata visitata da circa 40.000 persone. Con-siderata dalla critica un evento che avrebbe segnato la storia dell’architettura del secondo Novecento, la manife-stazione inaugurava il settore Architettura dell’Ente Bien-nale quale sezione autonoma, come era stato fin dagli anni Trenta per la musica (1930), il cinema (1932) e il teatro (1934). A dirigere il settore fu chiamato Paolo Portoghesi, coadiuvato da una commissione consultiva formata da Costantino Dardi, Rosario Giuffré, Udo Kultermann, Giu-seppe Mazzariol e Robert Stern. Quest’ultimo, con Porto-ghesi, ebbe un ruolo chiave nell’individuare in Charles Jencks, Christian Norberg-Schulz, Vincent Scully e Ken-neth Frampton i co-curatori della mostra, mentre per l’or-ganizzazione il direttore scelse Francesco Cellini, Claudio D’Amato, Antonio De Bonis e Paolo Farina. La decisione di coinvolgere un team di critici internazionali –qualificati da Manfredo Tafuri opinion-makers– era dettata dalla volon-tà di avere un ventaglio di interpretazioni diverse, anche divergenti, che potessero essere comunicate al grande pubblico con chiarezza. In dissenso con i principi sui qua-li si andava definendo l’intera manifestazione e in disac-cordo sulla riduzione della cultura a mero “consumo”, Frampton tuttavia lasciò il gruppo, arrivando anche a riti-rare il suo saggio, già pronto, per il catalogo della mostra: «The critical position it adopts is so extremely opposed to all that could be summed under the category “post-mo-dernist”, that I have realized it would be absurd for me to advance the essay in this context»1.

    Tra le diverse mostre organizzate all’interno della ma-nifestazione2, quella celebre dedicata alla Strada Novissi-ma entrò da subito nel mito, grazie anche al fatto che,

    1 Le parole di K. Frampton sono riportate in P. Portoghesi, La fi ne del proibizionismo, in La Presenza del Passato. Prima mostra internazionale di architettura. Corderia dell’Arsenale, catalogo della mostra, Edizioni La Biennale di Venezia-Electa, Venezia 1980, p. 9.2 La mostra di Ignazio Gardella fu curata da Paolo Farina, quella su Philip Johnson da Massimo Vignelli, quella su Mario Ridolfi da Cellini e D’Amato, mentre quella sulle Corderie dell’Arsenale, che per la prima volta potevano essere visitate dal pubblico, fu curata da Manlio Brusatin. Il progetto di allestimento e la direzione lavori della Strada Novissima furono affi dati a Cellini e D’Amato.

    dall’anno successivo, fu riproposta prima a Parigi e poi a San Francisco, dove approdò nel 19823. Venti facciate af-fidate a progettisti noti –e che lo sarebbero diventati in misura ancora maggiore negli anni seguenti– formarono, nelle parole di Portoghesi, una “galleria di autoritratti ar-chitettonici”: Costantino Dardi, Oma/Rem Koolhaas, Mi-chael Graves, Frank O. Gehry, Taller de Arquitectura/Ri-cardo Bofill, Osvald Mathias Ungers, Charles W. Moore, Robert Venturi-Denis Scott Brown-John Rauch, Robert A. M. Stern, Léon Krier, Franco Purini-Laura Thermes, Josef Paul Kleihues, Stanley Tigerman, Hans Hollein, Studio Gruppo Romano Architetti Urbanisti/Grau, Massimo Sco-lari, Thomas Gordon Smith, Allan Greenberg, Arata Isoa-zaki, Christian de Portzamparc. Ma la facciata di quest’ul-timo non fu montata, e su ordine di Portoghesi, come ricordano Purini e Scolari, fu sostituita da un’altra con pareti piegate in curve e controcurve realizzata dallo stes-so Portoghesi con Cellini e D’Amato, reinterpretazione delle facciate di San Carlo alle Quattro Fontane e dell’O-ratorio dei Filippini.

    A raccontare questo episodio e molti altri è Léa-Ca-therine Szacka che ha dedicato alla manifestazione vene-ziana un volume recentemente pubblicato per i tipi di Marsilio. Il libro è suddiviso in tre parti: la prima The Bien-nale id dead, long live the Biennale dedicata agli antefatti e al contesto socio-politico delle Biennali degli anni Set-tanta intese come “laboratorio”, la seconda consacrata all’Exhibition Paradox (ossia all’impossibilità di mostrare l’architettura all’interno di uno spazio dato) e alle diverse facciate della Strada Novissima, la terza –dall’emblemati-co titolo The Beginning of the End and the End of the Be-ginning– riservata al tema del postmodernismo, come stile e come filosofia, veicolato dalla manifestazione vene-ziana. Conclude il volume un epilogo, The Venice Architec-ture Biennale as a New Disciplinary Agent, in cui si mette a confronto la manifestazione del 1980 con Fundamentals, la quattordicesima edizione della mostra di architettura alla Biennale, curata da Rem Koolhaas nel 2014.

    Al di là dei seducenti titoli che nascondono in realtà un’impostazione schematica, in determinati punti perfi-no ingenua (le brevi parentesi storiche sull’Arsenale o su Cinecittà lo provano), di alcune argomentazioni poco convincenti (come ad esempio quelle sulla base delle quali Szacka fa risalire la tradizione di questo tipo di mo-stre di architettura a Stoccarda 1927 e a New York 1932, ricollegandosi peraltro a quanto scritto da Jencks su «Architectural Design» nel 1982; oppure quando afferma che la mostra sull’École des Beaux-Arts, curata da Ar-thur Drexler al MoMA nel 1975, può essere considerata più di un sintomo del concomitante acuirsi dell’interesse verso l’architettura del passato, in special modo classici-sta) e di vistose smagliature bibliografiche, il libro ha il pregio sia di invogliare il lettore e lo studioso a tornare ai testi originali e ad approfondire alcune questioni irrisol-te, sia di stimolare la curiosità e la capacità di porsi altri interrogativi.

    Frutto di una scelta collettiva, «inevitabilmente com-promissoria», fatta negli incontri tenuti tra Venezia e

    3 Le mostre si tennero a Parigi dal 15 ottobre al 20 dicembre 1981 e a San Francisco dal 20 maggio al 29 luglio 1982.

    1584—

    Léa-Catherine Szacka,prefazione di Adrian FortyExhibiting the Postmodern. The 1980 Venice Architecture BiennaleMarsilio, Venezia 2016

    ISBN 978 8831726726

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    Roma dal settembre 1979 alla primavera del 1980, i pro-gettisti selezionati per dar vita alla mostra rappresentava-no, nelle intenzioni dei curatori, tre correnti distinte del panorama internazionale: il neo-razionalismo incardinabi-le nella cosiddetta “Tendenza” secondo la lezione di Aldo Rossi e della poetica semiologica dei primi “Five”, il classi-cismo urbano reazionario anti-industriale, e l’eclettismo radicale e disinibito teorizzato da Jencks. Ma come furono effettivamente selezionati i venti nomi per le venti facciate della Strada Novissima? Perché la lista degli architetti da coinvolgere per le facciate comprendeva in prima battuta anche Gabetti e Isola, Guido Canella, Ricardo Porro, Has-san Fathy, e nella sezione degli espositori Piero De Rossi, Uberto Siola e Nicola Pagliara? E quale fu il vero motivo della loro esclusione?

    Inoltre, in che modo l’interesse verso la storia e il rici-claggio di forme e sistemi compositivi tradizionali, da par-te dei diversi architetti coinvolti, andava incontro alla vo-lontà dei curatori? L’esito ludico e dirompente della mostra andava letto unicamente come liberatorio, una sorta di profanazione del mito? E soprattutto, perché, se-condo Portoghesi, il crollo dell’atteggiamento devoziona-le verso la storia doveva essere addirittura accostato al Rinascimento per il risveglio della coscienza critica e per la nascita della filologia?

    Il libro non risponde a queste domande, nate anche dalla rilettura del saggio introduttivo di Portoghesi, intito-lato La fine del proibizionismo, pubblicato nel catalogo che accompagnava la manifestazione e che faceva cono-scere, dandone per scontata l’esistenza4, il “movimento” postmodernista presente nella mostra complessiva dei 76 architetti e nella Strada Novissima. Va ricordato che quest’ultima, lunga circa settanta metri per sei, era il vero nucleo dell’intera manifestazione e venne realizzata all’in-terno delle Corderie dell’Arsenale, uno spazio spettacola-re che per la prima volta fu reso accessibile al pubblico. L’apertura delle cosiddette “Corderie de la Tana” con il loro affidamento alla Biennale rappresentò un fatto signi-ficativo. Per molti veneziani, e non solo, come scrisse Gianfranco Scarpari sulle pagine del «Gazzettino», il com-plesso militare rappresentò una vera “scoperta”.

    Szacka racconta bene come Portoghesi e Giuseppe Galasso, allora presidente della Biennale, scelsero quel luogo di proprietà delle autorità militari che dalla Seconda guerra mondiale versava in stato di abbandono, e come lo storico romano riuscì a ottenere, grazie ad Attilio Ruffini, all’epoca ministro della Difesa, la disponibilità delle Cor-derie per allestire una mostra site specific. Effettivamen-te, lo spazio del lungo colonnato ben si prestava alla mes-sa in scena di un evento che doveva rappresentare, nella volontà di Portoghesi, la riappropriazione del passato. Per questo motivo la strada fu intesa chiaramente come una metafora, tanto che il «ritorno alla strada», era considera-to, nelle parole dei curatori, «elemento costitutivo della città» e «uno dei termini fondamentali della ricerca post-moderna».

    Alla Strada Novissima fu affiancata, in apertura, la se-zione degli “omaggi” a Philip Johnson, Ignazio Gardella e

    4 Si vedano le osservazioni contenute in P. Portoghesi, Dopo l’architettura moderna, Laterza, Roma-Bari 1980.

    Mario Ridolfi, riconosciuti come maestri da celebrare per l’importanza «del loro lavoro nella prospettiva di una reinte-grazione creativa della eredità storica e della sconfessione della ortodossia vincolante dello Stile internazionale»5. Con l’obiettivo di fornire una “lezione” sull’architettura contem-poranea e di dimostrare l’esistenza di un linguaggio archi-tettonico continuo nel tempo e nelle diverse culture, alla fine della Strada, Jencks, Scully e Norberg-Schulz propose-ro, con pannelli espositivi e ironici allestimenti (come il grande matitone colorato), un “commento” sullo stato at-tuale.

    Al piano superiore (nel mezzanino), la sezione degli “architetti espositori” era anticipata da una mostra dedi-cata a Ernesto Basile, per ricordare il ruolo dell’Art Nouve-au nella formazione culturale di numerosi progettisti delle ultime generazioni presenti nella Strada Novissima. Inizial-mente il cosiddetto “filone autocritico”, all’interno di una tradizione del moderno, avrebbe dovuto comprendere, accanto all’architetto siciliano, anche Joseph Hoffmann e Bruno Taut6.

    Ai progettisti partecipanti alla Strada fu dunque chie-sto di offrire al pubblico un contatto diretto (si disse all’e-poca “tattile” e “spaziale”) con l’architettura. L’idea, che sostituì quella inizialmente vagheggiata di affidare agli architetti invitati dalla Biennale di ridisegnare le stazioni dei vaporetti veneziani, nacque –nei ricordi di Portoghe-si– a Berlino durante un seminario organizzato da Josef Paul Kleihues, al quale presero parte anche Carlo Aymo-nino e Aldo Rossi: «Dopo il doveroso omaggio a Schinkel nei pressi della Alexander Platz, tra l’eco dell’ultimo Beh-rens e le sagome della Stalin-Alle scoprimmo un meravi-glioso Luna Park chiuso in un recinto con una piazzetta circondata da piccoli stands che imitavano con materiali effimeri facciate di case, il pianterreno al vero e gli altri piani in scala 1:2, una paradossale risposta a un bisogno di città, di spazio chiuso e accogliente al centro di uno dei crocevia della architettura moderna»7.

    Definita “spazio dell’immaginario”, la Strada realizzata alle Corderie materializzava in questo modo –mediante un ambiente disimpegnato e giocoso– la metafora delle architetture-spettacolo che, secondo i curatori, avevano preso da qualche anno il sopravvento nella cultura urbana (non a caso, fu realizzata dall’Ente Gestione Cinema nei laboratori di Cinecittà). Costruite con mezzi effimeri e tec-niche artigianali, e in conformità a un “regolamento edili-zio” fornito agli architetti, le facciate si collegavano alle tradizioni delle apparecchiature effimere erette in occa-sioni di eventi di paese e feste patronali. Il legame era an-che con il Teatro del Mondo concepito da Aldo Rossi l’an-no precedente in occasione della mostra su Venezia e lo spazio scenico, che, rievocando la tradizione cinquecen-tesca degli spettacoli allestiti su imbarcazioni di vario ge-nere, si proponeva di connettere l’architettura alla vita

    5 La Presenza del Passato, cit., p. 12.6 Nelle intenzioni degli organizzatori la sezione sarebbe stata completata anche con una retrospettiva sui disegni di Carlo Scarpa. La scelta di non inserire il maestro veneziano fu dettata da considerazioni pratiche: nel 1982 si sarebbe dovuta tenere una grande mostra retrospettiva, cosa che avvenne nel 1984.7 La Presenza del Passato, cit., p. 12.

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    ordinaria (va ricordato che per la Biennale del 1980 a Ros-si fu chiesto di realizzare la porta d’ingresso allo spazio antistante le Corderie verso il Campo della Tana). Ma la mise-en-scène dell’effimero fu effettivamente una prero-gativa solo di questa manifestazione e di altre esperienze degli anni Settanta, secondo l’interpretazione proposta da Szacka?

    Come rivela la storia delle esposizioni e delle fiere in cui sono protagoniste architetture effimere, gli allesti-menti hanno spesso sovrastato il contenuto, e altrettanto spesso –è il caso della mostra veneziana– sono stati “portatori” di contenuto. Del resto, il tema conduttore dell’iniziativa di Portoghesi non era nuovo, ma si inseriva all’interno del ben noto dibattito sul ruolo del passato nel presente e del rapporto con la storia e con la tradizione. Anche se, è pur vero che, per la prima volta, in un evento eccezionale e in un pullulare di “discorsi”, si ebbe la possi-bilità di mettere a confronto diretto visioni diverse e non solo in relazione ai linguaggi. Per gli americani, d’altro canto, si trattava di regolare i conti con un passato mai avuto, mediante il carattere di “inclusività” della nuova sensibilità estetica rappresentata dalle tendenze Camp, Op e Pop, come spiegava Ray Smith8.

    Un’altra questione rilevante che emerge dalla lettura del libro –accompagnato dalle belle foto, sebbene pena-lizzate dal piccolo formato, che Lorenzo Capellini, Antonio Martinelli e lo stesso Portoghesi fecero all’epoca– riguar-da il termine “post-modern”. Occorre notare che tale espressione, utilizzata dalle discipline umanistiche fin dai primi anni Sessanta, era stata al centro dell’attenzione an-che nella cultura architettonica dall’inizio degli anni Set-tanta, tanto che veniva usata dai critici, in articoli e confe-renze, per designare la pluralità di orientamenti, imbrigliandoli o semplificandoli in bizzarre categorie, come stava facendo Jencks9, al fine di rendere compren-sibile un fenomeno caratterizzato da ideologie, lingue e linguaggi assai diversi fra loro. Lo dimostra, infatti, anche la questione del titolo della mostra veneziana che, come ricorda Szacka, fu modificato diverse volte, passando da The Architecture of Post-Modern a Dopo l’architettura mo-derna, fino a Postmodern Architecture.

    In realtà, Portoghesi tentò di fotografare quello che a suo avviso poteva essere considerato il fenomeno dell’architettura postmoderna e al contempo di trasfor-mare una mostra eterogenea in un evento catalizzatore di un vero e proprio “movimento”; vale a dire, grazie alle facciate della Strada Novissima, realizzate nella spetta-colare teoria di colonne delle Corderie, riuscì a creare una vetrina altrettanto spettacolare per una tendenza informe, definibile dall’osservazione di taluni caratteri espressivi e linguistici convergenti, soltanto in parte co-muni agli attori coinvolti.

    Nell’interpretazione posteriore, un po’ semplicistica di Portoghesi, ma riproposta anche dal libro di Szacka, l’intera manifestazione consentì di commisurare i diversi

    8 C. Ray Smith, Supermannerism. New Attitude in Post-Modern Architecture, E. P. Dutton, New York 1977 (trad. it. Laterza, Roma-Bari 1982). 9 Tra i diversi scritti di Jencks si veda The Language of Post-Modern Architecture, Academy Editions, London 1977 (il libro ebbe numerose riedizioni).

    approcci contrapposti –quello americano e quello euro-peo– riguardo al ruolo del passato: il primo svalutava la dimensione temporale e consequenziale della storia, vista piuttosto come un sistema chiuso sincronico paragonabi-le a un magazzino dal quale attingere senza vincoli, se non quelli simbolici; il secondo invece, secondo lo storico romano, interpretava il passato come connessione di eventi, letti in successione irreversibile e in continua evo-luzione, ma che potevano anche essere dissacrati, fino alla negazione. Entrambe le posizioni ebbero come obiet-tivo principale, come scrisse anche Scully, quello «di inco-raggiare il pluralismo, l’apertura mentale e la varietà del discorso»10.

    Interrogativi interessanti sono posti da Adrian Forty nella prefazione del libro, a proposito dei motivi del suc-cesso sulla stampa di tutto il mondo di uno spettacolo definito di volta in volta “leggendario”, “mitico”, “manife-sto”. Si chiede, infatti, Forty, se fu davvero un “manifesto” quali furono i suoi punti programmatici? E da chi vennero raccolti? E ancora: le ragioni del successo risiedevano nel perfetto equilibrio tra “masterful theoretical”, “histori-cal discourse” e “faultless execution”, come scritto da Frédéric Migayrou in occasione della mostra Dreamlands del 2010? La mostra fu effettivamente specchio di una condizione globale, da tempo emergente, di rifiuto dell’ortodossia del funzionalismo? Fu davvero un mo-mento catartico, dopo gli anni Settanta segnati dalla per-cezione di un clima di fallimento nel dare un significato all’architettura?

    Le spiegazioni della fortuna della Strada Novissima – “Strada delle strade”, che, come scrisse Portoghesi, rap-presentava «il processo di riappropriazione della memoria e la vittoria sulle inibizioni ereditate dai padri ribelli»11– fu-rono elaborate già dallo storico romano, che in seguito, a più riprese e in sedi diverse, riportò, o per meglio dire in-terpretò, quanto avvenuto. Si trattava di accettare l’idea che il linguaggio postmoderno fosse ormai diffuso ovun-que nel mondo. Infatti, nel libro dato alle stampe nel 1982 dal titolo Postmodern. L’architettura nella società post-in-dustriale, per spiegare il grande successo mediatico della Biennale, Portoghesi affermò che tale linguaggio aveva riportato nelle città elementi immaginari e al contempo umanistici. La Strada Novissima aveva, dunque, a suo av-viso, colto il senso di una reinterpretazione del Postmo-dern che avvicinava l’Europa e l’America, e soprattutto poteva essere considerata come occasione per ritornare a discutere del tema della città da riformare e da “ri-im-maginare”.

    «Impresario del movimento», nelle parole di Jencks12, Portoghesi, storico dell’architettura, prima ancora che cri-tico attento e progettista di innumerevoli edifici neo-ba-rocchi fin dagli anni Cinquanta, era ben consapevole di come gli architetti etichettabili come postmoderni propo-nessero, quale obiettivo, l’integrazione degli archetipi,

    10 V. Scully, Le memorie di un commissario, in «Domus», 610, ottobre 1980, p. 18.11 P. Portoghesi, Postmodern. L’architettura nella società post-industriale, Electa, Milano 1982, p. 35.12 Ch. Jencks, Storia del Post-modernismo. Cinque decenni di ironico, iconico e critico in architettura, Postmedia, Milano 2014, p. 86.

    progetti per le facciate della Strada Novissima: 1 Frank O. Gehry2 Hans Hollein3 Josef Paul Kleihues4 Charles W. Moore5 Robert A. M. Stern6 Christian de Portzamparc con Georgia Benamo7 Studio Gruppo Romano Architetti Urbanisti/Grau8 Taller de Arquitectura/Ricardo Bofi ll9 Arata Isoazaki10 Allan Greenberg11 Stanley Tigerman12 Franco Purini-Laura Thermes13 Costantino Dardi14 Michael Graves15 Oma/Rem Koolhaas16 Léon Krier17 Osvald Mathias Ungers18 Thomas Gordon Smith19 Massimo Scolari20 Robert Venturi-Denis Scott Brown-John Rauch

    (Le immagini sono tratte da La Presenza del Passato. Prima mostra internazionale di architettura, Corderia dell’Arsenale, catalogo della mostra, Edizioni La Biennale di Venezia-Electa, Venezia 1980)

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    tanto da riconoscere in tale obiettivo perfino il «senso del futuro delle battaglie di emancipazione dell’umanità», vi-sto il frantumarsi delle illusioni di rendere “umano” il volto del potere13. Espressione massima del disagio nei con-fronti di quell’insieme eterogeneo «che andava sotto il nome di modernità», il Postmodern –parola divenuta per Portoghesi “paradossale e irritante”, per Koolhaas il vero «stile dell’economia di mercato»– andava dunque inter-pretato rinunciando a etichette che designavano visioni omogenee e convergenti.

    All’epoca le critiche all’impostazione della mostra fu-rono molte, alcune assai feroci. Come racconta Szacka, le accuse erano rivolte soprattutto a chi, per differenziarsi dai padri e dai fratelli maggiori, faceva un uso indiscrimi-nato della memoria storica, un processo visto come «in-tenzionalmente negato al progresso». Il dibattito che coinvolse i maggiori intellettuali e architetti italiani –tra questi Vittorio Gregotti e Luciano Semerani su «La Re-pubblica», Manfredo Tafuri e Cesare de Seta su «Paese Sera», Francesco Dal Co su «Il Manifesto», Renato De Fu-sco su «Il Messaggero», Marzo Dezzi Bardeschi su «Do-mus», Andrea Branzi su «Modo» e molti altri– riguardò an-che il processo di crisi del pensiero, soprattutto politico, delle nuove generazioni. Bruno Zevi, il più appassionato dei critici, si scagliò –non solo dalle pagine de «L’Espres-so»– contro la simmetria, “cancro insopportabile”, di un’e-sperienza «retriva, vile e scandalosa», frutto delle «distor-sioni di una decina di persone psicotiche o depravate», nonché contro il post-modern, «infezione repellente nata-morta, riemersa nella sciagurata Strada “senilissima”»14. Tuttavia, Portoghesi considerò più duro l’attacco prove-niente dagli esponenti del Gruppo 63, pur ritenendoli pre-cursori del post-modernismo, e che ora rifiutavano i pro-dotti post-moderni o iper-moderni con l’arma dell’ironia.

    Purtroppo, il volume di Szacka chiarisce solo in parte questi aspetti, sintetizzando scolasticamente le posizioni culturali e le dinamiche che innescarono tali dibattiti, che avevano al centro della discussione l’architettura come linguaggio, nonché la necessità di “teorie del moderno” e di “significati in architettura”, oltre che i procedimenti ba-silari dell’arte contemporanea, riconducibili alle cosiddet-te distorsioni formali (per intenderci alla “mossa del ca-vallo” di Šklovskij). Inoltre, Szacka trascura di sottolineare che, dopo la nota Biennale del dissenso del 1977, e so-prattutto dopo le visionarie immaginazioni megastruttu-rali, le proposte a scala territoriale e le “topologie e mor-fogenesi” delle mostre del 1978, dedicate all’Utopia e crisi dell’antinatura, apparivano ora in laguna i piccoli pa-diglioni, le casette unifamiliari, i complessi residenziali e i centri commerciali, presenti nei pannelli degli “architetti espositori” allestiti nel mezzanino delle Corderie. Infatti, se l’autrice dedica, a ragione, pagine agli architetti della Strada e alle loro facciate, non riserva però alcuno spazio ai giovani e meno giovani progettisti, appartenenti a dodi-ci Paesi differenti, che proponevano soluzioni e casi inte-ressanti, a partire dagli esperimenti sociali degli olandesi Architektengroep VDL (Ben Loerakker, Kees Rijnboutt e

    13 P. Portoghesi, Postmodern, cit., p. 4814 B. Zevi, Linguaggi dell’architettura contemporanea, EtasLibri, Torino 1993, p. 8.

    Hans Ruijssenaars) fino alle case monofamiliari di Euge-ne Kupper, di William Turnbull e di Heinz Hilmer e Christo-ph Sattler.

    Piuttosto che soffermarsi su analisi cronotopiche (il cosiddetto Riflusso, l’ascesa di Craxi e del partito sociali-sta, il delitto Moro e la società che cambiava, le estati ro-mane e la stagione storica dell’effimero che prendeva il sopravvento dai Luna Park alle discoteche, e altro ancora) che non aggiungono nulla di nuovo, Szacka avrebbe po-tuto spiegare in che modo, in una mostra dai tanti, forse troppi, obiettivi disomogenei, convivevano visioni assai divergenti di alcuni architetti colti, impegnati a cambiare il modo di progettare, come per esempio Francesco Vene-zia con gli eleganti interventi urbani per la piazza di Lauro e Oswald Mathias Ungers con le ricerche sull’autonomia del linguaggio nei progetti per il museo del Castello Morsbroich a Leverkusen o per la Karlsburg Hochschule a Brema; oppure come dialogavano le raffinate citazioni del funzionalismo russo di Koolhaas e Zenghelis nel pro-getto per l’ampliamento della Camera dei deputati a L’Aja, con le dissacranti proposte di Hans Hollein per alcuni ne-gozi di Vienna, o di Allan Greenberg e di Robert Stern per i supermercati Best.

    Ma più di ogni altra cosa, Szacka avrebbe potuto meglio evidenziare la complessità di un momento storico in cui si affermava la policromia come linguaggio (nei ri-cordi di molti visitatori il predominio dei colori fu folgo-rante), l’ornamento non più bollato come anti-moderno, il citazionismo considerato non più unicamente un gioco intellettualistico, e soprattutto l’ironia e la metafora qua-li figure retoriche utili non solo all’interpretazione critica ma come elementi decifrabili in luoghi quotidiani e in og-getti banali. In tal senso, la presenza impeccabile dell’“e-logio del banale”, con il design irriverente e geniale di Alessandro Mendini e di Paola Navone, Daniela Puppa, Franco Raggi, con lo Studio Alchymia, va letta non tanto come volontà di edonismo mescolato con il gusto della citazione, quanto piuttosto come esigenza di creatività e immaginazione. E a ben vedere, la cosiddetta estetica del banale come “presa di coscienza” del quotidiano –ri-scontrabile anche nel dipinto La città banale di Arduino Cantafora posto all’ingresso della mostra– fu davvero una “questione sociale” (un “fatto politico”, si diceva all’e-poca), direttamente legata alla classe media e alla con-statazione della “non esistenza del proletariato”. Più di altri, Mendini e Cantafora capirono che la vera forza dell’epoca contemporanea non stava nell’architettura-fiction, né nel rapporto tra nichilismo e progetto, né tanto meno nella novitas di oggetti eccentrici che rievocavano il passato, ma era per l’appunto nella banalità, da consi-derarsi come un cavallo di Troia per riappropriarsi sia dello spazio sia delle arti. L’evidente «annullamento della storia grazie alla sua riduzione a campo di scorrerie visi-ve», filo rosso dell’intera manifestazione, altro non era dunque che parte dell’universo del banale che chiedeva, almeno per un decennio, solo di ri-disegnare e ri-signifi-care il mondo15.

    15 Si veda Elogio del banale, catalogo della mostra L’oggetto banale, curato da Barbara Radice con la consulenza per la grafi ca e l’immagine di Michele De Lucchi, Lo studio forma-Alchymia, Torino-Milano 1980.