Manuale Di Malattie Cardiovascolari

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Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare Capitolo 1 I SINTOMI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI Mario Mariani DEFINIZIONE Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono, per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico, come il Giappone. Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte. Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi. I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono: 1) La Dispnea. 2) L’Astenia. 3) Il Dolore toracico. 4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo. 5) La Nicturia. LA DISPNEA Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi più avanti). Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli alveoli (edema alveolare). La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di gravità di uno scompenso. Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.), utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre più lievi o addirittura a riposo. Essa è così strutturata: Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso. Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni o dolore anginoso) per una attività fisica usuale. Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica. Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a quella usuale. Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi 1

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Sezione I. Approccio al paziente con Malattia Cardiovascolare

Capitolo 1I SINTOMI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARIMario MarianiDEFINIZIONE

Le Malattie dell’Apparato Cardiovascolare rappresentano ormai da molti anni la prima causa di morbilità e mortalità nel mondo industrializzato. Nei Paesi dell’Est europeo tale patologia è in continuo aumento con il miglioramento del tenore di vita, mentre in altri Paesi, come nel Centro Africa, a causa del dilagare delle patologie infettive e di una elevatissima mortalità in età giovanile, le malattie cardiovascolari non rivestono, per incidenza, l’importanza raggiunta in Europa, negli USA e nei Paesi più industrializzati dell’Est Asiatico, come il Giappone.Sembra quasi che tali affezioni costituiscano un tragico tributo da pagare al benessere! Giova a tal fine ricordare che più elevata è la vita media di un Paese, tanto più è possibile, nello stesso, lo sviluppo delle malattie cardiovascolari. In altre parole laddove la durata media della vita è bassa, altre sono le cause principali di mortalità, mentre nei Paesi nei quali l’aspettativa di vita è elevata, le malattie dell’apparato cardiovascolare rappresentano la prima causa di morte.Prima di trattare i Sintomi delle malattie cardiovascolari è necessario sottolineare l’importanza determinante dell’anamnesi, che già di per sé può indirizzare verso un approfondimento “mirato” dell’esame clinico, al fine di giungere ad una precisa diagnosi.

I sintomi più significativi imputabili ad una patologia dell’Apparato Cardiovascolare sono:1) La Dispnea.2) L’Astenia.3) Il Dolore toracico. 4) Le Palpitazioni, definite anche Cardiopalmo.5) La Nicturia.

LA DISPNEA

Dalla lingua greca (dus= cattivo e pneuma=respiro) è l’espressione di una difficoltà respiratoria che può insorgere durante uno sforzo fisico (dispnea da sforzo) o addirittura comparire a riposo. Le sue manifestazioni più gravi sono l’ortopnea, la dispnea parossistica notturna e l’edema polmonare acuto (vedi più avanti). Quando non imputabile a cause specifiche respiratorie, la dispnea indica il coinvolgimento del circolo polmonare da parte di una patologia del cuore sinistro: l’aumento della pressione in atrio sinistro o della pressione diastolica del ventricolo sinistro provoca inevitabilmente un aumento della pressione nei capillari polmonari e nel circolo polmonare a monte degli stessi. Una pressione idrostatica eccessiva nei capillari provoca trasudazione di liquido dapprima nell’interstizio polmonare (edema interstiziale) e quindi negli alveoli (edema alveolare).

La Dispnea può insorgere e manifestarsi sia in forma acuta che cronica, per una patologia che può coinvolgere l’apparato respiratorio o l’apparato cardiovascolare; la dispnea cardiaca è uno dei sintomi più significativi insieme all’astenia, al dolore anginoso e alle palpitazioni, utilizzati per la valutazione clinica di gravità di uno scompenso. Questi sintomi sono alla base della classificazione proposta dalla New York Heart Association (N.Y.H.A.), utile per inquadrare tutti i gradi di scompenso in relazione alla insorgenza della dispnea per sforzi sempre più lievi o addirittura a riposo. Essa è così strutturata:Classe I: comprende pazienti con una patologia cardiaca i quali non hanno alcuna limitazione della propria attività fisica. L’attività non causa dispnea, né affaticabilità, né dolore anginoso.Classe II: comprende pazienti con patologia cardiaca nei quali è presente una scarsa limitazione dell’attività fisica. Questi soggetti stanno bene a riposo, ma possono avere disturbi (dispnea, affaticabilità, palpitazioni o dolore anginoso) per una attività fisica usuale.Classe III: comprende pazienti con patologia cardiaca che hanno una marcata limitazione dell’attività fisica. Stanno bene a riposo, ma possono presentare i disturbi sopra indicati per un’attività fisica anche inferiore a quella usuale.Classe IV: comprende pazienti con patologia cardiaca che li rende incapaci di effettuare qualsiasi attività fisica senza presentare i disturbi sopra indicati, che possono essere presenti anche in condizioni di riposo.La forma più grave di dispnea che possa presentarsi nel cardiopatico è l’edema polmonare acuto, che si realizza quando la pressione all’interno dei capillari polmonari supera il valore della pressione colloido-osmotica. Nel capillare, infatti, agiscono due forze contrapposte: la pressione idrostatica, che tende a far fuoriuscire il liquido dal vaso, e quella oncotica, esercitata dalla proteine non diffusibili, che tende a trattenere il liquido all’interno; il valore di quest’ultima è 25-30 mm Hg. Se la pressione idrostatica nei capillari polmonari supera tale valore, è inevitabile una ultrafiltrazione di plasma, associata, per rotture microvascolari, ad alcuni globuli rossi. Fuoriuscendo dai vasi, il liquido si riversa dapprima nell’interstizio, da dove il sistema linfatico cerca di rimuoverlo; successivamente, quando la capacità di drenaggio del sistema linfatico viene superata, il fluido invade gli alveoli polmonari, e mescolandosi all’aria forma una schiuma, talora rosata, che invade le vie aeree ed interferisce gravemente con l’efficienza degli scambi gassosi, tanto da poter portare a morte. All’ascoltazione del torace, in questa situazione drammatica, quando dalla fase interstiziale si passa a quella alveolare, si assiste alla comparsa di rantoli prima a piccole poi a grosse bolle, che iniziano dalle basi polmonari e giungono

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rapidamente a coprire l’intero distretto respiratorio. Il soggetto è in posizione eretta e mette in funzione tutti i muscoli respiratori accessori nella disperata ricerca di riuscire ad effettuare atti respiratori utili.

L’ASTENIA

E’ l’espressione di una ridotta portata cardiaca e si manifesta con la difficoltà a compiere le usuali attività motorie (adinamia) o addirittura con un grave senso di spossatezza ancor prima di iniziare una qualunque attività fisica.

IL DOLORE TORACICO

Il dolore ischemico presenta caratteristiche peculiari che vanno dalla modalità di insorgenza, al tipo di dolore, alla sede dello stesso, alla sua irradiazione. E’ questo il sintomo più importante nell’angina ed in genere delle sindromi coronariche acute, compreso l’infarto miocardico.Nei quadri clinici riferibili ad angina pectoris, la presenza di dolore è “condicio sine qua non” per definire il quadro clinico. Nell’angina da sforzo stabile il dolore insorge durante uno sforzo fisico, è di tipo costrittivo od oppressivo e nel 75% dei casi è localizzato alla regione retrosternale bassa, con varie possibili irradiazioni, delle quali abbastanza comune è quella al lato ulnare del braccio sinistro, e in misura minore, al giugulo. Più raramente vengono interessati l’emitorace di destra e il braccio destro o l’epigastrio. Il dolore cessa usualmente dopo poco la cessazione dello sforzo e recede rapidamente con l’assunzione di nitroderivati. Nell’infarto miocardico acuto, il dolore con le caratteristiche sopra descritte persiste in genere ben oltre i pochi minuti e può durare addirittura diverse ore.Il dolore toracico non è soltanto indicativo di ischemia miocardica (angina pectoris, sindromi coronariche acute) ma può essere indicativo di numerose altre patologie cardiovascolari quali la pericardite, la dissezione aortica, l’ipertensione polmonare, l’embolia polmonare, e può anche dipendere da patologie di altri organi e sistemi, come lesioni esofagee o pleuriche oppure interessamento (compressivo, infiltrativo o flogistico) di nervi intercostali.

LE PALPITAZIONI O CARDIOPALMO

La percezione del proprio battito cardiaco è già un sintomo. La normale azione del cuore, infatti, decorre in maniera del tutto asintomatica, sia di giorno che di notte, per tutta la vita. Esistono due tipi fondamentali di cardiopalmo: quello tachicardico, in cui il soggetto riferisce un’azione cardiaca rapida e continua, e quello extrasistolico, caratterizzato dall’avvertire improvvisamente un “tonfo” o “tuffo” oppure la “sensazione del cuore che si ferma” (vedi Capitolo 33). Anche se in condizioni di impegno fisico od emozionale è frequente sentire il proprio battito cardiaco, non vi è dubbio che la perdita di ritmicità è un fenomeno che difficilmente sfugge. Talora tale sintomo viene vissuto in maniera allarmante più del dovuto, come nel caso di extrasistolia isolata o sporadica. L’aritmia percepita, responsabile del cardiopalmo, può essere di scarso rilievo clinico, o al contrario estremamente importante. E’ pur vero che le aritmie più gravi, quali la fibrillazione ventricolare o l’asistolia, possono portare a morte senza alcun sintomo premonitore, ma è innegabile che talora “salve di extrasistoli” o brevi episodi di tachicardia, e dall’altra parte episodi parossistici di blocco A-V con transitoria asistolia, possono risultare sintomatici e quindi diagnosticabili in tempo per essere trattati con pacemaker o defibrillatore, evitando eventi gravi o fatali.

LA SINCOPE

Può essere definita come: “Perdita improvvisa e transitoria della coscienza e del tono posturale, dovuta ad una grave ipossia o ad una anossia cerebrale acuta”. Talora può essere accompagnata da perdita di urine e/o di feci. Un tempo si distingueva la lipotimia come perdita momentanea del tono posturale e talora anche dello stato di coscienza, preceduta in genere da prodromi descritti come “senso di mancamento, nausea, appannamento della vista, sudorazione, pallore”. Oggi si preferisce parlare di sincope e di presincope. La sincope può riscontrarsi in varie situazioni di patologia cardiaca (vedi Capitolo 41).

LA NICTURIA

E’ uno dei sintomi che accompagna l’insufficienza cardiaca, e consiste in una riduzione della diuresi durante il giorno con aumento della diuresi stessa durante la notte. Il fenomeno può essere dovuto al riassorbimento notturno degli edemi soprattutto declivi, che possono realizzarsi durante la stazione eretta nel paziente con scompenso cardiaco congestizio, o anche perchè durante il riposo notturno il fabbisogno di sangue da parte dei muscoli è minimo, per cui una parte relativamente elevata della portata cardiaca può giungere al rene, il quale aumenta la produzione di urina.

Capitolo 2I SEGNI DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARIMario Mariani CONCETTI GENERALI

Nei pazienti con Malattie dell’apparato cardiovascolare, i segni rilevabili all’esame clinico costituiscono ancora oggi un importante capitolo perché tutte le innovazioni tecnologiche, che hanno apportato un grande progresso nell’inquadramento diagnostico e nella terapia, trovano una loro logica applicazione solo sulla base di una corretta valutazione dei segni peculiari di ogni forma di cardiopatia.I principali segni presenti nei pazienti affetti da patologie cardiovascolari sono rilevabili con un accurato esame obiettivo che trova i suoi capisaldi nei presìdi offerti dalla classica Semeiotica fisica: Ispezione, Palpazione, Percussione, Ascoltazione.

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Tra queste, la Percussione ha perso del tutto la sua utilità, nel campo della Semeiotica Cardiovascolare, grazie ai progressi tecnologici che hanno reso molto più precisa la determinazione delle dimensioni cardiache. Gli altri tre capisaldi semeiologici (Ispezione, Palpazione ed Ascoltazione, soprattutto quest’ultima) conservano la loro validità e servono ad indirizzare, verso l’uso corretto delle tecniche diagnostiche strumentali.I segni di una cardiopatia si possono riscontrare all’esame obiettivo dell’apparato cardiovascolare mediante le seguenti manovre:1) L’osservazione del volto e delle estremità per rilevare la presenza di cianosi.2) L’osservazione del polso venoso giugulare. 3) L’ispezione delle arterie e la palpazione del polso arterioso.4) L’ispezione e la palpazione della zona precordiale.5) La palpazione dell’addome per ricercare l’eventuale presenza di epatomegalia o di pulsazioni abnormi.6) La ricerca di eventuali edemi declivi.7) L’ascoltazione del cuore, volta ad evidenziare anomalie dei toni e/o la comparsa di soffi o sfregamenti.

CIANOSI

Si definisce cianosi il colorito bluastro assunto dalla pelle e dalle mucose visibili quando il contenuto di emoglobina ridotta nel sangue capillare supera i 5 grammi per decilitro.La cianosi può essere centrale o periferica. La cianosi centrale è per lo più dovuta alla presenza di uno shunt destro-sinistro o a gravi difetti della funzione respiratoria. La cianosi periferica si realizza quando, a causa di una vasocostrizione in alcuni distretti circolatori, si determina una desaturazione locale, con aumento dell’emoglobina ridotta in quelle zone. La cianosi periferica può evidenziarsi, fra l’altro, in presenza di una ridotta portata cardiaca con aumento delle resistenze periferiche.

OSSERVAZIONE DEL POLSO VENOSO

Il polso venoso meglio valutabile è quello giugulare con il paziente in posizione seduta, reclinato a 45° (rispetto ai 90° normali per la posizione seduta).Il polso venoso normale presenta tre onde positive e due depressioni. Le onde positive sono denominate onde a, c e v, mentre le depressioni sono denominate x e y. Un’attenta osservazione del polso venoso giugulare, può fornire precise indicazioni circa la funzione delle camere destre del cuore.Un’evidente accentuazione dell’onda a è espressione di un aumento della pressione in atrio destro (Stenosi tricuspidale, Anomalia di Ebstein ecc..) o della pressione diastolica ventricolare destra, come si verifica nella Miocardiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30), o nella Pericardite costrittiva, (vedi Capitolo 32).Un’accentuazione dell’onda v è talora espressione di una insufficienza tricuspidale.

ISPEZIONE DELLE ARTERIE E PALPAZIONE DEL POLSO ARTERIOSO.

Con l’ispezione si possono evidenziare pulsatilità arteriose anormali (come per esempio l’eccessiva pulsazione delle carotidi, osservabile al collo in presenza di insufficienza aortica o di altre situazioni di circolo ipercinetico). Con l’ascoltazione possono evidenziarsi soffi vascolari. La manovra semeiologica più utilizzata per l’esplorazione del polso arterioso è la palpazione, con la quale si possono valutare:a) la frequenza: numero delle sistoli in un minuto;b) il ritmo: regolarità o irregolarità delle pulsazioni; c) l’ampiezza: entità del sollevarsi della parete arteriosa sotto il dito che palpa, carattere che è direttamente correlato alla gittata sistolica;d) la tensione: entità della forza che devono esercitare le dita che palpano per sopprimere la pulsazione, espressione anche del livello pressorio;e) la simmetria: uguale ampiezza dei polsi corrispondenti, palpati simultaneamente dai due lati dell’organismo (per esempio, i due polsi radiali, i due polsi femorali, etc).Le variazioni dei caratteri sopradescritti del polso arterioso, possono risultare indicativi di particolari situazioni morbose. Ecco alcuni esempi.A – Un polso di ridotta ampiezza (piccolo) e con picco ritardato (tardo) si riscontra nella stenosi aortica (vedi Capitolo 16).B – Un polso ampio e celere (con picco precoce) è presente nell’insufficienza aortica (vedi Capitolo 17) o negli stati circolatori ipercinetici;.C- Un polso filiforme (frequenza notevolmente aumentata, tensione e ampiezza nettamente ridotte) è tipico dello shock (vedi Capitolo 22).D – Il polso paradosso è l’esagerazione patologica di una riduzione della pressione durante una inspirazione profonda. Tale riduzione è presente anche in condizioni fisiologiche, ma non supera di solito i 10 mm di mercurio, mentre in presenza di pericardite costrittiva o in situazioni nelle quali esiste una grave riduzione del riempimento ventricolare, si può avere una caduta di oltre 20-30 mm di mercurio.

ISPEZIONE E PALPAZIONE DELLA ZONA PRECORDIALE

L’ispezione e la palpazione possono consentire di localizzare l’itto della punta del cuore, cioè la sede della massima pulsazione visibile o palpabile, che normalmente si trova al quarto spazio intercostale sinistro circa 1 centimetro all’interno della linea emiclaveare. In condizioni patologiche, l’itto della punta può essere dislocato anche in sedi molto diverse dal normale: nell’insufficienza aortica grave, per esempio, può essere spostato in basso e a sinistra fino al sesto spazio intercostale sulla linea ascellare anteriore o anche media.Possono essere apprezzabili alla palpazione della zona precordiale fremiti, i quali costituiscono il corrispettivo palpatorio dei soffi particolarmente intensi (4/6 o più della scala Levine, vedi più avanti) o (più di rado) degli sfregamenti pericardici in corso di pericardite.

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PALPAZIONE DELL’ADDOME PER RICERCARE L’EVENTUALE PRESENZA DI EPATOMEGALIA O DI PULSAZIONI ABNORMI

Epatomegalia è presente nelle forme di scompenso che coinvolgono il cuore destro primitivamente o secondariamente a difetti interessanti inizialmente il cuore sinistro (per esempio valvulopatie mitraliche e/o aortiche). E’ apprezzabile con le comuni manovre palpatorie l’aumento di volume dell’organo che può sporgere per oltre due, tre dita traverse o più dall’arcata costale. In genere l’organo palpato risulta dolente.Alla palpazione dell'addome si possono apprezzare pulsazioni abnormi riferibili alla presenza di aneurismi dell'Aorta addominale

EDEMI DECLIVI

Si sviluppano inizialmente nelle parti molli degli arti inferiori (piedi, zone pretibiali, etc.) nei soggetti che rimangono per ore in stazione eretta o seduta. Nei pazienti costretti a letto gli edemi sono più evidenti nella regione pre-sacrale. Quando si ha un imponente stato anasarcatico, gli edemi sono diffusi e si accompagnano anche a versamenti nelle grandi sierose (versamento pleurico, ascite, etc.).

ASCOLTAZIONE DEL CUORE

L’ascoltazione rappresenta la manovra più importante dell’esame obiettivo del cuore, ed è basata sull’analisi dei toni e sul riconoscimento di eventuali soffi.

I ToniI toni cardiaci normali sono il I e il II; il III tono può essere ascoltato in assenza di patologia nei bambini o in giovani adulti con parete toracica particolarmente sottile.Il I tono è provocato essenzialmente della chiusura delle valvole atrio-ventricolari, mentre il II si deve alla chiusura delle semilunari aortiche e polmonari (Figura 1). Il I tono può risultare rinforzato in caso di stenosi mitralica (vedi Capitolo 14) o di stenosi della valvola tricuspide, mentre è spesso indebolito nell’insufficienza mitralica. Il II tono è costituito dalle 2 componenti, aortica e polmonare (A2 e P2), che nella maggior parte dei casi sono così ravvicinate da generare un tono unico, anche se la chiusura della valvola aortica precede di poco quella della polmonare (Figura 1). A volte, però, anche in condizioni fisiologiche, le due componenti del II tono possono essere ascoltate distinte l’una dall’altra, per cui il II tono si presenta sdoppiato. Tale sdoppiamento, però, e variabile con le fasi del respiro: A2 e P2 appaiono separate solo durante l’inspirazione, mentre nella fase espiratoria sono unite (Figura 2A). Ciò dipende dal fatto che con l’inspirazione aumenta il ritorno venoso per l’incremento della vis a fronte: il ventricolo destro, perciò, riceve più sangue e la sua sistole è leggermente prolungata, tanto da ritardare la chiusura della valvola polmonare; con l’espirazione, invece, questo fenomeno non è più presente, e la chiusura delle due valvole semilunari è presso a poco simultanea.Lo sdoppiamento del II tono può essere fisso (Figura 3) in presenza di un difetto del setto interatriale, che comporta uno shunt sinistro-destro (vedi Capitolo 51). In questa situazione la gittata del ventricolo destro è sempre aumentata: in inspirazione per l’aumentato ritorno venoso dalle vene cave, in espirazione per lo shunt attraverso il setto interatriale. Infine, lo sdoppiamento del II tono può essere “paradosso”: in questo caso si avvertono le due componenti separate in espirazione mentre il tono appare unico durante l’inspirazione (Figura 2B). Questo fenomeno è principalmente causato da un eccessivo ritardo di A2. come accade in caso di blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3) o stenosi aortica grave. In queste situazioni, il II tono è sdoppiato poiché la chiusura della valvola aortica è ritardata per motivi elettrici (blocco di branca) o meccanici, ed è la polmonare a chiudersi prima. Quando, durante l’inspirazione, si verifica un fisiologico ritardo della chiusura della polmonare, legato all’aumentato ritorno venoso, A2 e P2 diventano simultanee, mentre in espirazione non vi è il ritardo di P2, per cui il II tono appare sdoppiato.Il II tono può risultare rinforzato in presenza di un aumento dei valori pressori sistemici nella sua componente aortica (A2) o in presenza di un’ipertensione polmonare, nella sua componente polmonare (P2). In queste condizioni, il livello della pressione che fa chiudere la valvola semilunare è maggior del normale, per cui le vibrazioni che la valvola genera nel chiudersi sono particolarmente ampie.Il III tono (Figura 4) corrisponde alla fase diastolica di riempimento rapido (protodiastole), e può risultare ben evidente in caso di aumentato riempimento ventricolare o in presenza di disfunzione ventricolare, come nello scompenso cardiaco. Normalmente il III tono si ascolta soltanto nei bambini o nei soggetti con parete toracica particolarmente sottile.Il IV tono (Figura 4) corrisponde alla sistole atriale (telediastole o presistole), e dipende dalle vibrazioni provocate dal sangue che, spinto dalla contrazione dell’atrio, penetra nel ventricolo. Normalmente questo fenomeno non dà luogo a un tono ascoltabile sia perché le vibrazioni indotte dalla sistole atriale, a bassa frequenza, sono quasi in continuità con quelle, a frequenza ben più alta, del I tono, sia perché la loro ampiezza è molto bassa. Vi sono essenzialmente due condizioni che favorisono l’ascoltazione del IV tono: il blocco A-V di I grado e la ridotta distensibilità ventricolare. Nel primo caso si allunga l’intervallo P-R (vedi Capitolo 40), per cui la sistole atriale non è seguita da quella ventricolare immediatamente, ma dopo un tempo più lungo del normale, per cui in IV tono è ben separato dal I. Nella seconda circostanza la ridotta distensibilità delle pareti ventricolari, come avviene nella stenosi aortica o nella cardiopatia ipertensiva, fa sì che aumenti l’ampiezza delle vibrazioni generate dal sangue che l’atrio spinge nel ventricolo. Quando il III o il IV tono si ascoltano in presenza di un aumento della frequenza cardiaca, si può generare un ritmo a tre tempi (ritmo di galoppo). A volte sono contemporaneamente presenti in III e il IV tono; se la frequenza cardiaca è aumentata, si ha il cosiddetto galoppo di sommazione.

I Toni aggiunti

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A parte i toni descritti, è possibile ascoltare, in particolari condizioni, patologiche, i seguenti toni aggiunti.1) I click sistolici, che comprendono il click del prolasso mitralico (Figura 5) (vedi Capitolo 15) e i click eiettivi aortico e polmonare, apprezzabili a volte in presenza di stenosi aortica o polmonare.2) Gli schiocchi d’apertura della mitrale o della tricuspide, che si determinano al momento dell’apertura di una valvola stenotica. Normalmente non si generano vibrazioni udibili all’aprirsi delle valvole A-V, ma quando queste divengono stenotiche la loro apertura provoca un tono aggiunto a tonalità alta, detto appunto schiocco d’apertura (Figura 6).

I SoffiUn soffio è il rumore che si genera quando il flusso del sangue diventa turbolento, e può essere ascoltato col fonendoscopio non solo in corrispondenza del cuore, ma anche sui vasi. In condizioni ideali, il flusso del sangue dovrebbe essere laminare (in base al numero di Reynolds), ma in realtà non lo è quasi mai; la turbolenza marcata del flusso, tale da generare vortici che poi si ascoltano come “soffi” si deve a vari motivi, inclusa la stessa viscosità del sangue. I soffi cardiaci dipendono essenzialmente da: a) un ostacolo anormale al flusso, come per esempio quello rappresentato da una valvola stenotica; b) un flusso non fisiologico, come per esempio quello che si genera nel difetto del setto interventricolare, nel quale vi è un flusso “innaturale” del sangue da un ventricolo all’altro; c) un’aumentata velocità e/o un’aumentata quantità del flusso, come si verifica per esempio nell’insufficienza aortica “pura” dove, in assenza di stenosi valvolare, si può ascoltare sul focolaio aortico un soffio sistolico quando la gittata sistolica ventricolare sinistra è notevolmente aumentata (vedi Capitolo 17).

I soffi cardiaci si distinguono in base alla loro cronologia (cioè alla fase del ciclo cardiaco in cui si ascoltano), al timbro, alla intensità, alla sede di ascoltazione e alla irradiazione.Una prima importante distinzione è fra soffi sistolici, diastolici e continui; questi ultimi occupano tutto il ciclo cardiaco, mentre i primi sono limitati a una sola delle due fasi. All’interno delle categorie dei soffi sistolici e diastolici, poi, se ne trovano alcuni che occupano tutta la sistole (soffio olosistolico) o tutta la diastole (soffio olodiastolico) e altri la cui durata è minore, che vengono definiti con i prefissi proto, meso o tele (protosistolici, protodiastolici, etc) secondo che occupino solo la parte iniziale della fase (sistole o diastole) in cui si ascoltano, oppure la parte intermedia o quella finale.Per quanto riguarda il timbro, i soffi vengono tradizionalmente definiti impiegando termini come dolce, rude, aspro, aspirativo, raspante, e altri fra cui è molto diffuso quello di “rullio” per indicare il soffio diastolico della stenosi mitralica, che viene assimilato a un rullio di tamburi. La sede di ascoltazione di un soffio cardiaco è il punto del precordio dove il soffio ha la massima intensità. I quattro “classici” focolai dell’ascoltazione sono quello mitralico (alla punta del cuore), tricuspidalico (all’incirca alla base dell’apofisi ensiforme), aortico (sulla margino-sternale destra, al secondo spazio intercostale) e polmonare (sulla margino-sternale sinistra, al secondo spazio intercostale).L’irradiazione del soffio è la direzione in cui, partendo dalla sede, è ancora possibile ascoltarlo bene. E’ caratteristica l’irradiazione all’ascella del soffio dell’insufficienza mitralica e l’irradiazione al giugulo del soffio della stenosi aortica.L’intensità dei soffi viene in genere valutata solo per quelli sistolici, secondo la scala a 6 gradini proposta da Levine, la quale tiene anche conto del fatto che quando un soffio è molto intenso, le vibrazioni generate dalla turbolenza del flusso si possono non solo ascoltare, ma anche palpare come fremiti, appoggiando la mano sul precordio.

1/6 è quel soffio che non si avverte immediatamente, ma solo quando si ascolta il cuore con grande attenzione

2/6 è un soffio che si ascolta immediatamente, ma è relativamente debole

3/6 è un soffio forte ma non accompagnato da fremito

4/6 è un soffio forte accompagnato da fremito

5/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, ma che non si ascolta più se si solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute

6/6 è un soffio fortissimo, accompagnato da fremito, che si continua ad ascoltare anche se si solleva il fonendoscopio a 1 cm dalla cute

I soffi sistolici, inoltre, possono essere distinti in eiettivi e da rigurgito. Questa distinzione ha molta importanza da un punto di vista clinico perché mentre i soffi eiettivi possono essere sia organici, determinati cioè da una lesione anatomica (per esempio, una stenosi valvolare aortica), che funzionali, legati a motivi differenti da un’alterazione strutturale (per esempio, un’aumentata velocità del flusso), i soffi da rigurgito sono sempre organici, espressione di un’alterazione anatomica.I soffi eiettivi (Figura 7) iniziano a una certa, anche se breve, distanza dal I tono. Prendiamo come esempio il soffio eiettivo della stenosi aortica: all’inizio della sistole il ventricolo sinistro si contrae e fa chiudere la valvola mitrale, dando origine al I tono; in questa fase, che prende il nome di contrazione isometrica (o isovolumetrica) l’eiezione del sangue dal ventricolo non è ancora iniziata. Solo quando la pressione endoventricolare cresce e supera quella vigente in aorta (circa 80 mm Hg in condizioni normali) la valvola aortica si apre e ha inizio il flusso attraverso la valvola e con esso il soffio, assumendo che la valvola sia stenotica. Questo soffio, perciò, inizierà a una certa distanza dal I tono, non simultaneamente ad esso.Osserviamo ora il soffio da rigurgito della insufficienza mitralica (Figura 8). Questo inizia senza alcun ritardo rispetto al I tono, ma contemporaneamente ad esso; infatti appena la valvola mitrale si chiude e si genera il I tono inizia il rigurgito di sangue in atrio sinistro, ben prima che la pressione intraventricolare aumenti al di sopra di quella aortica e la valvola aortica si apra. In definitiva, il soffio sistolico da rigurgito inizia attaccato al I tono,

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mentre il soffio sistolico eiettivo è staccato dal I tono.I soffi sistolici da eiezione hanno in generale la caratteristica di essere in crescendo-decrescendo, assumendo una morfologia “a diamante” (Figura 7), mentre i soffi da rigurgito hanno un aspetto “a nastro” conservando la stessa intensità per tutta la loro durata. I soffi sistolici da rigurgito sono quelli dell’insufficienza mitralica, dell’insufficienza tricuspidale, del difetto del setto interventricolare; quelli eiettivi possono essere organici, legati alla stenosi aortica (Capitolo 16) o alla stenosi polmonare (Capitolo 18), ma possono anche essere soltanto di natura funzionale, espressione di una stenosi relativa, dovuti non a riduzione dell’ostio valvolare, ma semplicemente ad aumento del flusso con un’area valvolare normale.I soffi diastolici sono quasi sempre organici, e comprendono il soffio (rullio) diastolico della stenosi mitralica (Figura 6) (Capitolo 14), quello della stenosi tricuspidalica (Capitolo 18), il soffio dell’insufficienza aortica (Figura 9) (Capitolo 17) e quello dell’insufficienza polmonare (Capitolo 18). I soffi continui sono sempre legati ad una anormale connessione fra il circolo arterioso e quello venoso, con shunt artero-venoso che dura per tutto il ciclo cardiaco. Il prototipo del soffio continuo è quello generato dalla pervietà del dotto arterioso di Botallo (Figura 10) (Capitolo 51), che si ascolta in sede sottoclaveare sinistra.

Gli SfregamentiRelativamente simili ai soffi sono gli sfregamenti pericardici, che si ascoltano in alcuni soggetti affetti da pericardite (Capitolo 32). Normalmente i foglietti pericardici viscerale e parietale sono lisci e scorrono l’uno sull’altro senza alcuna frizione, ma in seguito all’infiammazione il movimento dei foglietti, divenuti rugosi, genera gli sfregamenti, che spesso si ascoltano sia in sistole che in diastole.

Sezione III. Malattie delle Valvole Cardiache

Capitolo 13MALATTIA REUMATICALuigi Meloni, Massimo Ruscazio DEFINIZIONE

La malattia reumatica è un processo morboso infiammatorio multifocale, a patogenesi autoimmune, che si manifesta in seguito ad un’infezione faringea da streptococco emolitico del gruppo A. La malattia interessa principalmente le articolazioni, il cuore, il sistema nervoso centrale, la cute e il sottocutaneo. Il 50 % circa dei pazienti colpiti dalla malattia reumatica sviluppa negli anni un danno cardiaco permanente, responsabile delle varie forme di valvulopatia reumatica cronica.

EPIDEMIOLOGIA

L’incidenza della malattia reumatica è diminuita drasticamente nei paesi industrializzati grazie soprattutto alle migliorate condizioni socio-economiche e alla disponibilità della penicillina per il trattamento della faringite streptococcica. La malattia è ancora presente in forma endemica nei paesi in via di sviluppo e tra le popolazioni in cui sussistono condizioni ambientali e socio-sanitarie sono precarie (povertà, malnutrizione, eccessivo affollamento, insufficiente prevenzione ed assistenza sanitaria). Sebbene possa interessare tutte le fasce di età, la malattia reumatica colpisce principalmente i bambini e gli adolescenti. La prevalenza della valvulopatia reumatica, al contrario, aumenta con l’età e raggiunge un picco tra i 25 e i 34 anni.

PATOGENESI

La faringo-tonsillite da streptococco emolitico del gruppo A, non adeguatamente trattata con antibiotici, è l’evento che precipita la malattia reumatica. Sebbene l’esatto meccanismo che associa l’infezione streptococcica alla flogosi reumatica sia ancora incerto, la malattia reumatica è comunemente considerata il risultato di una esagerata risposta immunitaria alle componenti antigeniche dello streptococco. Le similitudini molecolari e immunologiche tra gli antigeni batterici e i tessuti dell’organismo (mimetismo antigenico) sarebbero poi responsabili della successiva risposta crociata di tipo autoimmune che scatena l’attacco acuto di malattia reumatica (Figura 1).L’interesse nei confronti della patogenesi autoimmune è riemerso recentemente con la dimostrazione che diversi antigeni della superficie batterica condividono affinità strutturali con le componenti tessutali degli organi e dei sistemi coinvolti nella malattia reumatica. L’acido ialuronico contenuto nella capsula dello streptococco possiede una struttura chimica identica a quella dell’acido ialuronico presente nel tessuto articolare dell’uomo. Un’altra componente della parete cellulare dello streptococco, la N-acetilglucosamina, si ritrova in alte concentrazioni nelle valvole cardiache; gli anticorpi diretti contro la proteina-M della membrana cellulare batterica interagiscono anche con la miosina cardiaca; altre proteine umane, la vimentina (tessuto sinoviale) e la cheratina (tessuto cutaneo), mostrano una reattività crociata con la proteina-M streptococcica. Infine, esistono evidenze a sostegno dell’affinità strutturale tra gli elementi somatici dello streptococco e alcune componenti del tessuto nervoso dell’uomo (gangliosidi).Pertanto, i principali quadri clinici associati alla malattia reumatica sarebbero espressione di un danno infiammatorio locale, indotto da una abnorme risposta immunologica di tipo crociato.

ANATOMIA PATOLOGICA

Sul versante istopatologico, la fase acuta della malattia si caratterizza per una reazione essudativa e proliferativa del tessuto connettivo. La cardite reumatica è una vera e propria pancardite perché interessa l’endocardio, il miocardio e il pericardio. Nel miocardio si osserva edema ed infiltrazione cellulare del tessuto

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interstiziale con frammentazione delle fibre collagene (miocardite). Successivamente, nella fase proliferativa compaiono i noduli di Aschoff (Patologia 07), lesioni granulomatose patognomoniche della malattia, riscontrabili anche nelle valvole cardiache e nel pericardio. La flogosi reumatica dei foglietti pericardici (pericardite) è di tipo sierofibrinoso e si risolve, solitamente, senza complicazioni. La componente più significativa del danno cardiaco è l’infiammazione delle valvole cardiache (valvulite), responsabile della manifestazione clinica più importante dell’attacco acuto di malattia reumatica, l’insufficienza valvolare. La valvulite reumatica colpisce prevalentemente la valvola mitrale e la valvola aortica, raramente la valvola tricuspide e quasi mai la valvola polmonare. Il tessuto valvolare è interessato da edema ed infiltrazione cellulare. Si possono osservare piccole formazioni verrucose sulla superficie valvolare, in prossimità delle aree di coaptazione dei lembi valvolari (Patologia 40). Il processo cicatriziale della valvulite porta lentamente, negli anni, a fibrosi dei lembi e a fusione delle commissure e delle corde tendinee, a cui corrispondono sul piano funzionale stenosi o insufficienza valvolare (valvulopatia reumatica). Pertanto, il coinvolgimento del cuore durante la fase attiva della malattia reumatica (cardite reumatica), deve essere distinto dal danno valvolare residuo che fa seguito alla risoluzione dell’episodio acuto (valvulopatia reumatica).

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Dal quadro clinico della malattia emergono 5 elementi fondamentali per la diagnosi: la cardite, la poliartrite, la corea, l’eritema marginato e i noduli sottocutanei. Questi elementi possono presentarsi singolarmente o in combinazione tra loro e costituiscono nel loro insieme i cosiddetti criteri maggiori di Jones. Altri reperti, come la febbre, le artralgie, la positività dei test ematochimici di flogosi acuta, l’allungamento dell’intervallo P-R all’ECG, sono considerati invece manifestazioni minori della malattia (Tabella I).Secondo lo schema proposto da Jones, la presenza di 2 manifestazioni maggiori oppure di una manifestazione maggiore e 2 minori in un paziente con evidenza di infezione streptococcica recente (positività del tampone faringeo, titolo antistreptolisinico elevato) indica un’alta probabilità di malattia reumatica acuta. Il periodo di latenza tra la faringite streptococcica e l’inizio dei sintomi varia da 1 a 5 settimane. Nel 75 % dei casi, la febbre e la poliartrite rappresentano i segni clinici iniziali dell’attacco di malattia reumatica. L’artrite interessa prevalentemente le grandi articolazioni degli arti (ginocchia, gomiti, polsi e anche) in modo asimmetrico e migrante, risponde prontamente all’aspirina e si risolve senza reliquati. A differenza dell’artrite reumatoide, sono risparmiate le piccole articolazioni delle mani e dei piedi. Al quadro clinico della poliartrite si sovrappone spesso quello della cardite, e in generale la gravità dei sintomi articolari è inversamente proporzionale all’interessamento cardiaco: nei pazienti con forme gravi di artrite, le manifestazioni cliniche della cardite tendono ad essere attenuate e viceversa. La cardite, presente nel 50% circa dei pazienti con malattia reumatica acuta, è associata quasi sempre ad un soffio cardiaco secondario alla valvulite. Il reperto ascoltatorio più frequente è un soffio olosistolico apicale, ad alta frequenza, irradiato all’ascella, indicativo di un’insufficienza della valvola mitralica. Il soffio dell’insufficienza valvolare aortica, se presente, si associa quasi sempre a quello dell’insufficienza mitralica. Quest’ultima rappresenta pertanto l’elemento clinico più caratteristico della cardite reumatica.Le ripercussioni emodinamiche della valvulite sono di entità variabile. Nelle forme più gravi di insufficienza mitralica, compaiono i segni e i sintomi dello scompenso cardiaco. Più spesso, gli effetti acuti della valvulite sono poco rilevanti sul piano clinico, e talora può essere difficile, all’ascoltazione cardiaca, cogliere i segni delle lesioni valvolari. In questi casi, l’indagine ecocardiografica, coadiuvata dall’esame color Doppler, può essere utile per confermare il sospetto di malattia reumatica. Gli sfregamenti pericardici e il rilievo ecocardiografico di versamento pericardico documentano la presenza della pericardite. L’interessamento flogistico del tessuto miocardico (miocardite) e del pericardio (pericardite) non compare mai isolatamente, ma è sempre associato alle manifestazioni della valvulite. Pertanto, un quadro clinico di pericardite o di miocardite con disfunzione sistolica del ventricolo sinistro difficilmente potrà avere una patogenesi reumatica se l’ascoltazione cardiaca e l’ecocardiogramma escludono la presenza di un’insufficienza della valvola mitrale o aortica.La corea, secondaria all’interessamento flogistico del sistema nervoso centrale, è la terza manifestazione clinica della malattia reumatica (15-30 % dei casi). Chiamata anche corea di Sydenham o ballo di San Vito, esordisce più tardivamente, quando le altre manifestazioni della malattia sono scomparse o in via di risoluzione, e si caratterizza per la presenza di movimenti irregolari e involontari, senza finalità, che scompaiono con il sonno e con la sedazione. I sintomi neurologici hanno una durata variabile e, in genere, si risolvono spontaneamente.Le manifestazioni cutanee della malattia reumatica sono decisamente più rare (meno del 10% dei casi). I noduli sottocutanei compaiono a distanza di diverse settimane dalla cardite, si localizzano in corrispondenza delle articolazioni principali e delle prominenze ossee, sono indolori, mobili e si risolvono spontaneamente. L’eritema marginato è un rash cutaneo caratterizzato da margini rosati e serpiginosi che circoscrivono aree centrali di aspetto normale. Si osserva prevalentemente sul tronco e sulle porzioni prossimali degli arti, migra da una sede all’altra e non risponde alla terapia antinfiammatoria.

ESAMI DI LABORATORIO

La diagnosi di malattia reumatica è spesso non facile, non solo per la variabilità del quadro clinico, ma anche per la mancanza di un test diagnostico sicuro e definitivo. Gli indici di flogosi appaiono costantemente alterati nella fase acuta della malattia. La velocità di eritrosedimentazione (VES) e la proteina-C reattiva (PCR) sono marcatori affidabili, ma aspecifici, della risposta autoimmune e dell’infiammazione associata alla cardite o alla poliartrite. In tutti i casi di sospetta malattia reumatica è indispensabile documentare, ai fini diagnostici, una recente infezione streptococcica (vedi criteri di Jones). I test più utilizzati sono la ricerca di anticorpi diretti contro alcune componenti dello streptococco (streptolisina O, desossoribonucleasi B) e l’esame colturale faringeo (tampone

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faringeo).La positività del tampone faringeo deve essere interpretata con cautela perché molti individui normali possono ospitare streptococchi del gruppo A nelle vie aeree superiori. D’altra parte, la negatività dell’esame colturale non permette di escludere in modo assoluto un episodio antecedente di infezione streptococcica. L’aumento del titolo anticorpale antistreptococcico, specie se progressivo, è invece un reperto provvisto di maggiore affidabilità nell’evidenziare una recente infezione streptococcica. A tal proposito, giova ricordare che il titolo antistreptolisina O (ASLO) e antidesossiribonucleasi aumenta entro 1 mese dall’inizio dell’infezione streptococcica, raggiunge un plateau per 3-6 mesi, quindi si riduce progressivamente.Oltre alla tachicardia sinusale, l’ECG può mostrare un blocco atrioventricolare di primo grado, secondario all’infiammazione dei tessuti perinodali. Il blocco atrioventricolare, riconoscibile in base all’allungamento dell’intervallo P-R, non è, da solo, diagnostico di cardite reumatica (Tabella I), non influisce sulla prognosi né predice lo sviluppo di sequele valvolari (valvulopatia reumatica).

DECORSO E PROGNOSI

La malattia si risolve spontaneamente entro 3 mesi dall’esordio acuto. Sebbene siano stati descritti casi isolati di edema polmonare acuto fulminante, la mortalità della fase acuta è bassa e la prognosi dipende fondamentalmente dalla gravità delle lesioni valvolari che fanno seguito al primo episodio della malattia reumatica e/o alle recidive.La malattia reumatica tende a recidivare. I pazienti che hanno sofferto di un precedente attacco di malattia reumatica e che sviluppano successivamente nuovi episodi di faringite streptococcica sono ad alto rischio di una recidiva della malattia. L’infezione streptococcica ricorrente, specie se sostenuta da ceppi virulenti, riattiva la risposta autoimmune dell’organismo, favorendo così l’instaurarsi o il peggioramento del danno anatomico valvolare (Figura 1).

CENNI DI TERAPIA E PREVENZIONE

Non esiste un trattamento specifico della malattia reumatica. Gli agenti anti-infiammatori sopprimono rapidamente il dolore articolare e altri segni e sintomi della flogosi acuta, ma non curano la malattia né prevengono la sua successiva evoluzione. Anche la terapia antibiotica con penicillina, obbligatoria nella fase acuta per sradicare l’infezione streptococcica, non modifica il decorso dell’attacco acuto della malattia reumatica né impedisce lo svilupparsi della cardite.L’aspirina ad alte dosi è indicata nella poliartrite acuta, mentre l’impiego dei corticosteroidi è riservato ai casi con cardite grave complicata da insufficienza cardiaca.

PREVENZIONELa prevenzione primaria della malattia reumatica acuta si identifica nella diagnosi precoce e nel trattamento antibiotico della faringo-tonsillite streptococcica. Il trattamento antibiotico se tempestivo e mirato (penicillina) elimina quasi completamente il rischio di malattia reumatica. La prevenzione secondaria è rivolta agli individui che hanno già avuto un attacco documentato di malattia reumatica acuta o che soffrono di recidive dopo un’infezione streptococcica. Il caposaldo è rappresentato dalla profilassi antibiotica continua delle recidive di infezione streptococcica, potenzialmente capaci di innescare nuovi attacchi di malattia reumatica. La profilassi antimicrobica continua è necessaria perché il trattamento antibiotico di una nuova infezione streptococcica, anche se ottimale, non protegge il paziente con precedenti anamnestici di malattia reumatica dal rischio di una recidiva reumatica. Lo schema terapeutico più efficace è costituito dalla benzilpenicillina somministrata in dose singola per via intramuscolare ogni 4 settimane. La durata della profilassi antibiotica deve essere adattata nel singolo paziente a seconda del rischio di recidiva. Il rischio di ricorrenze reumatiche diminuisce con l’aumentare dell’età e con l’aumentare del tempo trascorso dall’ultimo attacco. I pazienti che non sviluppano la cardite durante il loro primo attacco sono meno esposti al rischio di recidive reumatiche, e quando queste si verificano hanno minori probabilità di manifestare una cardite. I pazienti che hanno sviluppato una cardite nel corso dell’attacco acuto sono invece ad alto rischio di recidiva di cardite, con possibilità di ulteriore danno valvolare in occasione di ogni ricorrenza (Figura 1).

Capitolo 14STENOSI MITRALICAGiuseppe Oreto, Francesco SaporitoDEFINIZIONE

La stenosi mitralica è una malattia caratterizzata da alterazioni della valvola mitrale (fusione e retrazione delle corde, ispessimento e adesione dei lembi) con esito in riduzione dell'area valvolare. La valvola stenotica rappresenta un ostacolo al passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro, per cui la pressione atriale sinistra aumenta, e tale aumento si riflette a monte sul circolo polmonare, ed infine sul ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La malattia reumatica rappresenta la più importante e pressoché l'unica causa di stenosi mitralica. Per quanto, infatti, esistano forme congenite di stenosi mitralica, i casi ad eziologia non reumatica sono talmente rari da risultare trascurabili ai fini pratici. La malattia reumatica consegue ad infezione da streptococco ß-emolitico del gruppo A, agente responsabile di infezioni spesso localizzate nelle tonsille; qualche settimana dopo l’inizio del processo infettivo compaiono, nelle forme tipiche, manifestazioni infiammatorie a carico di numerosi organi, comprendenti le grandi articolazioni, il cuore e il rene. Tali alterazioni non dipendono da localizzazione dello

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streptococco negli organi bersaglio, ma conseguono ad un processo autoimmunitario del quale il germe è solo l’avviatore. Il cuore viene solitamente interessato in toto, e si manifesta un’endocardite associata spesso a miocardite e pericardite.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il reperto anatomico prevalente durante la fase acuta dell'endocardite reumatica è rappresentato da piccoli noduli verrucosi osservabili lungo la linea di chiusura dei foglietti, sul versante atriale di essi. Queste formazioni infiammatorie scompaiono con la risoluzione del processo carditico, ed occorrono diversi anni prima che si determinino le alterazioni caratteristiche della stenosi mitralica. Al danno valvolare iniziale consegue un'alterazione del flusso transvalvolare, che determina nel tempo ispessimento, fibrosi, saldatura e calcificazione dei lembi e dell'apparato sottovalvolare. In altri termini, la lesione reumatica iniziale avvia un processo automatico di lenta e graduale alterazione della valvola; il trauma provocato dal flusso turbolento rappresenta verosimilmente il principale responsabile delle lesioni evolutive. La valvola mitrale stenotica presenta corde fuse e retratte, mentre i foglietti sono ispessiti e parzialmente aderenti fra loro; nella maggior parte dei casi coesistono calcificazioni sia dei lembi che delle corde (Figura 1, Patologia 08, Patologia 09). L'area valvolare, che nel normale misura da 4 a 6 cm2, è più o meno significativamente ridotta sia per l'adesione dei foglietti che per l'obliterazione dei cosiddetti «orifici secondari» (gli spazi compresi fra le corde tendinee), conseguente alla fusione delle corde. Nel complesso, la valvola stenotica ha un aspetto a imbuto con la base rivolta verso l'atrio, che si presenta dilatato e spesso sede di trombi, particolarmente a livello dell'auricola. Le vene polmonari sono dilatate e possono coesistere alterazioni ostruttive delle arteriole polmonari, caratterizzate da iperplasia della media e dell'intima. In diversi casi si rileva dilatazione del ventricolo e dell'atrio destro, e segni di stasi venosa sistemica cronica, particolarmente a carico del fegato. Queste modificazioni conseguono all'ipertensione polmonare, che induce sovraccarico e dilatazione del ventricolo destro, insufficienza tricuspidale, ed infine scompenso congestizio.

FISIOPATOLOGIA

Quando l'area valvolare mitralica si riduce, la progressione del sangue dall'atrio al ventricolo sinistro è in qualche modo ostacolata. Per consentire un normale riempimento ventricolare durante la diastole diventa allora necessario un aumento della pressione atriale, così che il sangue riesca a passare dall'atrio al ventricolo nonostante l'impedimento rappresentato dalla valvola stenotica. Nel normale non esiste alcuna differenza significativa fra la pressione diastolica del ventricolo sinistro e quella vigente in atrio sinistro (Figura 2A ). Il flusso diastolico atrioventricolare, infatti, avviene senza un'apprezzabile differenza di pressione fra le due camere perché la valvola mitrale normale non offre alcuna resistenza alla progressione del sangue. Nella stenosi mitralica, invece, si realizza per tutta la fase diastolica un gradiente di pressione fra atrio e ventricolo sinistro, ed è in virtù di questo gradiente che il flusso può essere mantenuto (Figura 2B ).L’entità del gradiente transvalvolare dipende da due fattori: l'area mitralica e la velocità del flusso attraverso la valvola. Quanto minore è la superficie valvolare e quanto maggiore è la velocità del flusso, tanto più elevato sarà il gradiente. L'area valvolare misura nel normale da 4 a 6 cm2; la riduzione di essa fino a 2,5 cm2 non comporta alterazioni emodinamiche di rilievo. In rapporto all'entità della riduzione dell'area valvolare, si definisce la stenosi lieve quando l’area è compresa tra 2,5 e 1,5 cm2, moderata se l’area è tra 1,5 e 1 cm2, e severa (serrata) se l'area è minore di 1 cm2.La velocità del flusso attraverso la valvola è in relazione diretta con la portata cardiaca e la frequenza. Aumentando la portata, infatti, una maggior quantità di sangue deve attraversare l'orificio valvolare nell'unità di tempo, per cui è richiesta una maggiore velocità di flusso. Anche la tachicardia incrementa la velocità di flusso, poiché aumentando la frequenza cardiaca si riduce la durata della diastole, cioè il tempo disponibile per il passaggio del sangue dall'atrio al ventricolo.*Più è breve il periodo diastolico, maggiore deve essere la velocità del flusso per permettere ad una determinata quantità di sangue di attraversare l'ostio valvolare stenotico.L’aumento della pressione atriale sinistra genera un incremento pressorio a monte, cioè in tutte le sezioni del circolo polmonare: vene, venule, capillari, arteriole, arterie. L’anello più debole di questa catena è il capillare; quando la pressione s’incrementa oltre 25 mm Hg, viene superata la capacità che le proteine plasmatiche hanno di trattenere i fluidi all’interno del vaso (pressione oncotica), e inizia la trasudazione: il liquido invade dapprima l’interstizio polmonare e successivamente l’alveolo, generando disturbi respiratori che vanno dalla dispnea da sforzo fino all’edema polmonare acuto.In molti soggetti con stenosi mitralica lieve o moderata, la pressione nell’arteria polmonare non è di solito molto elevata a riposo, e l'incremento di essa è direttamente correlato all'aumento della pressione capillare: poiché il capillare non sopporta pressioni >25 mm Hg (valori più alti si accompagnano a sintomi evidenti), in arteria polmonare si riscontrerà una pressione non maggiore di 35-40 mm Hg (Figura 3A ). In alcuni pazienti, invece, la pressione in arteria polmonare è nettamente più alta di quanto ci si aspetterebbe in base alla pressione atriale sinistra. Il motivo di ciò è che si realizza un incremento delle resistenze precapillari (arteriolari) polmonari, per cui l'ipertensione arteriosa che ne deriva è molto maggiore di quella richiesta per generare il gradiente transvalvolare mitralico (Figura 3C ): in casi del genere non è impossibile riscontrare in arteria polmonare pressioni elevate fino a 100 mm Hg o più. In una fase precoce della malattia, questa ipertensione polmonare dipende da vasocostrizione delle arteriole polmonari, ed è perciò un fenomeno funzionale, ma successivamente consegue ad alterazioni anatomiche obliterative del letto vascolare polmonare (vasculopatia polmonare).Lo sviluppo dell'ipertensione polmonare modifica il quadro della stenosi mitralica: un eccessivo carico di pressione grava sul ventricolo destro, che non è assuefatto a lavorare contro elevate resistenze, e per sopperire al maggior lavoro si ipertrofizza e quindi si dilata. Alla dilatazione ventricolare consegue insufficienza tricuspidalica, dilatazione dell'atrio destro e congestione venosa sistemica. In questa situazione, la presenza di un significativo ostacolo al deflusso ventricolare destro (aumento delle resistenze precapillari) riduce la portata

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cardiaca, ed impedisce il raggiungimento di una pressione capillare troppo elevata. Di conseguenza il paziente andrà incontro meno facilmente a dispnea da sforzo ed edema polmonare acuto (fenomeni dipendenti dall'ipertensione capillare), mentre prevarranno i segni della ridotta gittata (astenia) e le manifestazioni della stasi venosa sistemica (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi, ascite).

(* La durata della fase sistolica è pressoché fissa (intorno a 0,3 secondi) e indipendente dalla frequenza cardiaca. Perciò per una frequenza cardiaca di 60 al minuto ciascun ciclo cardiaco dura 1 secondo (0,3 secondi di sistole e 0,7 secondi di diastole): la durata complessiva della diastole sarà, perciò, 0,42 secondi. Se la frequenza si raddoppia (120/m’) ciascun ciclo durerà 0,5 secondi (0,3 secondi di sistole e 0,2 di diastole), per cui la durata della diastole sarà 0,24 secondi.)

SINTOMI

I più precoci e più evidenti sintomi legati alla stenosi mitralica sono quelli determinati dalla congestione polmonare: dispnea da sforzo, ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare acuto. Tutte queste manifestazioni dipendono da ipertensione capillare polmonare, con trasudazione di liquido nell’interstizio e negli alveoli. Quando la capacità del sistema linfatico di drenare il trasudato diventa insufficiente, si determina la congestione polmonare. La compliance polmonare è allora ridotta, ed il lavoro respiratorio aumenta, cosicché il soggetto va incontro a dispnea, particolarmente quando si trova in posizione supina. La trasudazione massiva di liquido negli alveoli provocata da un improvviso aumento della pressione capillare è responsabile dell'edema polmonare; questa manifestazione viene spesso scatenata da incremento della portata e/o della frequenza cardiaca (fibrillazione atriale parossistica, malattie febbrili acute, interventi chirurgici, gravidanza, etc.).Un altro sintomo con cui può presentarsi la stenosi mitralica è l'emoftoe, la quale dipende da ipertensione nelle vene bronchiali: le comunicazioni fra sistema venoso polmonare e sistema venoso bronchiale fanno sì che l'aumento pressorio nelle vene polmonari si rifletta anche sulle vene bronchiali, nelle quali possono determinarsi piccole dilatazioni, la cui rottura produce emissione attraverso la bocca di sangue proveniente dalle vie respiratorie. La congestione delle vene bronchiali, con la conseguente iperemia della mucosa bronchiale è anche responsabile dell'iperproduzione di muco, da cui deriva la suscettibilità alla bronchite dei pazienti con stenosi mitralica.Il decorso della malattia è pressoché inevitabilmente caratterizzato dall'insorgenza della fibrillazione atriale. L'aritmia consegue alla dilatazione dell'atrio sinistro ed alle alterazioni strutturali della parete atriale, consistenti in un aumento del connettivo fino alla fibrosi. La disorganizzazione della muscolatura atriale che ne deriva si traduce in disomogeneità dei periodi refrattari: un impulso prematuro in fase vulnerabile può, perciò, scatenare la fibrillazione atriale. L'aritmia può avere inizialmente andamento parossistico, e in questo caso è responsabile di palpitazioni, ma poi diviene cronica. L'insorgenza della fibrillazione atriale è legata alle dimensioni dell'atrio sinistro, e dipende anche dall’età: l'aritmia è più frequente quando l'atrio è dilatato e nei pazienti in cui la malattia data da maggior tempo.Alla fibrillazione atriale è legata un'altra fra le manifestazioni cliniche caratteristiche della stenosi mitralica: l'embolia sistemica, la quale consegue a formazione di trombi parietali in atrio sinistro, specialmente nell’auricola, con successiva immissione di materiale trombotico nel circolo sistemico. L'embolia non è correlata con la gravità della stenosi, potendosi osservare anche nelle forme lievi, e rappresenta a volte la prima manifestazione della malattia. Nel 50-75% dei casi la localizzazione dell'embolo è nelle arterie cerebrali.

SEGNI CLINICI

I pazienti con stenosi mitralica rilevante e bassa portata cardiaca possono presentare la cosiddetta «facies mitralica», caratterizzata da cianosi alle labbra con rossore ai pomelli. L'esame obiettivo del cuore è assai caratteristico nei casi tipici, ed il quadro ascoltatorio comprende 1° tono forte, schiocco d'apertura mitralico, soffio (rullio) diastolico (Figura 4A); in presenza di ipertensione polmonare non lieve, la componente polmonare del secondo tono può essere aumentata d’intensità. Il soffio diastolico consegue alla turbolenza del flusso transvalvolare, determinata dall’ostacolo che la valvola stenotica rappresenta; si tratta di un soffio a bassa frequenza, che viene denominato “rullio” perché ricorda lontanamente il rullare di un tamburo. Nei soggetti a ritmo sinusale il rullio presenta un rinforzo presistolico che manca nei pazienti in fibrillazione atriale (Figura 4B).Il rinforzo del soffio è dovuto all’aumento del flusso transvalvolare causato in telediastole dalla contrazione dell’atrio; poiché nella fibrillazione atriale l’attività meccanica dell’atrio è praticamente assente, con l’insorgenza dell’aritmia scompare il rinforzo presistolico del soffio della stenosi mitralica. Tuttavia, alcuni o anche tutti i segni ascoltatori caratteristici della stenosi mitralica possono non essere apprezzabili: il segno ascoltatorio più importante per la diagnosi clinica di stenosi mitralica è lo schiocco d'apertura, che si caratterizza per la cronologia protodiastolica, il timbro a tonalità elevata, la sede di ascoltazione alla punta ed al mesocardio.Nei pazienti con scompenso del ventricolo destro, infine, si manifestano i caratteristici segni della congestione venosa sistemica, rappresentati da edemi declivi, epatomegalia, ascite, idrotorace, ecc.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi mitralica l'Elettrocardiogramma mostra i segni dell'ingrandimento atriale sinistro, fra i quali spicca l’onda P bifida, con durata aumentata (( 0.11 sec) (Figura 5);nei soggetti con ipertensione polmonare si può anche riscontrare il quadro elettrocardiografico dell'ipertrofia ventricolare destra. L'esame radiologico fornisce una serie di elementi caratteristici, fra i quali particolarmente importanti sono i segni di ingrandimento dell'atrio e dell'auricola sinistra, e quelli che testimoniano le modificazioni del circolo polmonare. L'Ecocardiografia ha rivoluzionato la diagnostica della stenosi mitralica: l'ecocardiogramma bidimensionale permette non solo un'accurata valutazione dell’anatomia e del movimento valvolare (Figura 6, Figura 7), ma anche lo studio dell'apparato sottovalvolare ed il calcolo dell'area mitralica; l'ecocardiogramma Doppler (Figura 8) fornisce dati emodinamici riguardanti sia il gradiente pressorio attraverso la valvola che l'area valvolare, ed anche informazioni indirette sulla pressione polmonare; l’ecocardiogramma tridimensionale, di recente introduzione, consente una visione quasi «anatomica» della mitrale; l’ecocardiogramma transesofageo, eseguito

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collocando il transduttore nell’esofago, in immediata prossimità del cuore, senza l’interposizione del tessuto polmonare, che rende difficile il passaggio degli ultrasuoni, consente di studiare la morfologia valvolare nei dettagli e di analizzare anche parti del cuore di difficile approccio con la tecnica transtoracica. Nei pazienti con stenosi mitralica, l’esplorazione transesofagea può svelare la presenza di trombi in atrio, particolarmente nell’auricola, elemento che riveste grande rilevanza clinica perché è associato ad elevato rischio di embolia sistemica. Il cateterismo cardiaco fornisce numerosi dati fisiopatologici, in particolare l’area valvolare, il gradiente transvalvolare (Figura 2), e la pressione polmonare; questi parametri, tuttavia, possono essere ottenuti anche attraverso metodiche non invasive, per cui in molti pazienti, soprattutto giovani, il cateterismo cardiaco non è indispensabile per stabilire l'indicazione all'intervento, e neppure per determinare il tipo di intervento da preferire. Il cateterismo conserva, tuttavia, ancora un ruolo molto importante nei pazienti con stenosi mitralica, per la possibilità di eseguire una valvuloplastica tranacatetere.

CENNI DI TERAPIA

Il trattamento dei pazienti con stenosi mitralica può essere farmacologico, interventistico* chirurgico.La terapia farmacologica della stenosi mitralica si basa sui seguenti principi: 1) profilassi delle recidive di reumatismo; 2) prevenzione delle embolie sistemiche; 3) terapia della fibrillazione atriale; 4) mantenimento di una frequenza ventricolare accettabile in presenza di fibrillazione atriale cronica; 5) terapia dei disturbi legati alla congestione venosa polmonare. La profilassi delle recidive di reumatismo prevede la somministrazione prolungata di antibiotici e antinfiammatori. La prevenzione delle tromboembolie sistemiche va effettuata nei pazienti con atrio sinistro dilatato e in tutti quelli con fibrillazione atriale. I farmaci di scelta sono gli anticoagulanti orali dicumarolici. Se insorge la fibrillazione atriale, è opportuno tentare di ripristinare il ritmo sinusale somministrando farmaci antiaritmici, o, in alternativa, con la cardioversione elettrica. Restaurato il ritmo sinusale, si può eventualmente proseguire un trattamento profilattico a lungo termine con farmaci antiaritmici, per evitare finché possibile le recidive dell'aritmia. Se l’insorgenza della fibrillazione non è recentissima, la cardioversione deve essere preceduta da una valutazione dell'atrio sinistro, e in particolare dell’auricola, mediante ecocardiografia transesofagea, perché la presenza di trombosi atriale controindica qualunque manovra volta a convertire la fibrillazione, per il rischio che, al ripristino del ritmo, si verifichi un’embolia. Se la fibrillazione data da diversi giorni o mesi, è necessario un lungo periodo di anticoagulazione (almeno 1 mese) prima di procedere alla cardioversione.Nei pazienti con fibrillazione atriale cronica è spesso necessaria una terapia volta a mantenere una frequenza cardiaca non troppo elevata; per questo scopo viene spesso utilizzata la digitale, oppure i ß-bloccanti o i calcioantagonisti. Questi farmaci aumentano il periodo refrattario del nodo A-V, diminuendo la risposta ventricolare alla fibrillazione atriale, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. In casi particolari, nei quali risulti impossibile ottenere con i farmaci un accettabile controllo della frequenza ventricolare, si può eseguire l’ablazione del nodo A-V associata all’impianto di un pacemaker ventricolare. L’ablazione si ottiene erogando, attraverso un apposito elettrocatetere, energia a radiofrequenza in corrispondenza del nodo: l’energia aumenta la temperatura del tessuto, provocando una lesione irreversibile cui consegue il blocco A-V; l’attivazione dei ventricoli diviene così indipendente da quella degli atri, governata solo dal pacemaker artificiale o da un segnapassi di scappamento posto a valle del blocco. Un particolare intervento di ablazione transcatetere può anche essere eseguito con lo scopo di abolire il substrato che sottende lo scatenamento e il mantenimento della fibrillazione atriale.I sintomi legati a congestione polmonare (dispnea, ortopnea, edema polmonare acuto) vanno trattati con i diuretici e la limitazione dell’apporto dietetico di sodio. I pazienti che presentano questi disturbi, tuttavia, sono quasi sempre in III classe funzionale NYHA, per cui vanno quasi sempre avviati alla terapia chirurgica o alla valvuloplastica percutanea. Questo intervento si esegue inserendo nell’atrio destro attraverso la vena femorale un catetere con palloncino: dopo puntura del setto interatriale, eseguita con apposito ago, il catetere viene spinto per via transettale in atrio sinistro ed attraversa la valvola mitrale, in maniera tale che il palloncino si trovi a cavallo della valvola. Gonfiando quindi ripetutamente il palloncino per brevi periodi si esercita sui lembi della valvola stenotica una pressione sufficiente a separarne i foglietti, fusi in corrispondenza delle commissure, così da ridurre significativamente l’ostacolo al flusso ematico.La stenosi mitralica può essere corretta chirurgicamente sia mediante un intervento conservativo (commissurotomia) che sostituendo la valvola con una protesi. La commissurotomia viene ormai eseguita in circolazione extracorporea e sotto visione diretta, mentre l’intervento “a cielo coperto”, che si esegue senza arrestare il cuore, è una procedura ormai non più impiegata.

(*Il trattamento interventistico prevede un intervento, cioè un’azione volta a modificare l’anatomia o la struttura del cuore; l’intervento viene, però, eseguito senza ricorrere alla chirurgia tradizionale, ma agendo sull’organo attraverso cateteri introdotti nel sistema vascolare e guidati fino al cuore sotto controllo radioscopico o ecografico.)

Capitolo 15INSUFFICIENZA MITRALICAPaolo Marino DEFINIZIONE

L’insufficienza mitralica è una malattia caratterizzata da perdita della coordinata azione di una o più delle componenti (anulus, lembi valvolari, corde tendinee, muscoli papillari) dell’apparto valvolare, con esito in imperfetto collabimento dei lembi in sistole. La valvola insufficiente comporta un reflusso di sangue, in sistole, dal ventricolo all’atrio sinistro, capace di causare aumento della pressione atriale dipendente dalla quantità di

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sangue rigurgitato e dalle caratteristiche fisiche della parete atriale. Se l’aumento della pressione atriale non viene compensato da un corrispondente aumento di volume dell’atrio, l’ipertensione si riflette a monte sul circolo polmonare ed infine sul ventricolo destro.

EZIOLOGIA

La degenerazione mixomatosa della valvola (nota anche con il termine di prolasso valvolare mitralico, vedi più avanti) rappresenta la causa più frequente di insufficienza mitralica. Essa provoca incontinenza poiché i lembi valvolari allungati e ridondanti protrudono eccessivamente all’interno dell’atrio sinistro durante la sistole ventricolare, piuttosto che opporsi reciprocamente come fanno normalmente. La malattia coronarica rappresenta un’altra causa importante di insufficienza mitralica, poiché può generare disfunzione temporanea o permanente di un muscolo papillare, interferendo con la chiusura valvolare. L’endocardite infettiva può causare insufficienza mitralica poiché l’infezione può indurre perforazione valvolare o rottura delle corde infette. Anche la malattia reumatica rientra nell’eziopatogenesi dell’insufficienza mitralica, se si accompagna ad eccessivo accorciamento e retrazione delle corde. Infine la cardiomiopatia ipertrofica, malattia caratterizzata da un’abnorme ed asimmetrica ipertrofia ventricolare (vedi Capitolo…), provoca una ostruzione dinamica endoventricolare cui corrisponde imperfetta chiusura valvolare e significativa insufficienza mitralica.Anche la significativa dilatazione ventricolare, comunque generata, può causare insufficienza mitralica funzionale attraverso 2 meccanismi che interferiscono con la chiusura dei lembi valvolari: 1) la separazione spaziale tra i due muscoli papillari è aumentata e 2) l’anulus mitralico è sovradisteso. Altra causa di insufficienza mitralica è la calcificazione dell’anulus, che immobilizza la porzione basale dei lembi valvolari, interferendo con la loro normale escursione e la coaptazione sistolica.

ANATOMIA PATOLOGICA

Nel prolasso valvolare mitralico le cuspidi sono iperdistese e le corde allungate. Nelle forme più gravi c’è espansione dei lembi che assumono conformazione cupoliforme (Patologia 10). Vista dal lato atriale, la valvola con degenerazione mixomatosa dimostra un variabile interessamento delle cuspidi: nella maggior parte dei casi sono coinvolti uno o più segmenti del lembo posteriore o, meno frequentemente, entrambi i foglietti. L’esame istologico rivela la sostituzione della struttura fibrosa con tessuto mixomatoso, ricco di mucopolisaccaridi acidi e mastociti. La rottura delle corde (Patologia 11), nei pazienti affetti da insufficienza mitralica, può essere il risultato dell’eccessivo stress meccanico a cui le stesse sono sottoposte (come nel caso della degenerazione mixomatosa dei lembi) o la conseguenza di un insulto infettivo, come nell’endocardite (Vedi Capitolo 34, Patologia 12). In questo caso, si possono anche notare lembi perforati e frastagliati, con frequenti formazioni vegetanti. La calcificazione anulare rappresenta un’altra condizione causa di insufficienza mitralica, con un’incidenza che tende ad aumentare con il crescere dell’età del soggetto, ma che raramente si manifesta, macroscopicamente, prima dei 70 anni. La dilatazione anulare è un’altra delle cause di insufficienza mitralica. Tale fenomeno può essere primario o secondario a condizioni di sovraccarico volumetrico. Infine, nei pazienti con un grave deficit ventricolare sinistro, il rigurgito mitralico può essere presente indipendentemente dallo sfiancamento valvolare o da alterazioni dell’anulus. In questi casi, la conformazione globosa del ventricolo sposta l’asse di trazione dei muscoli papillari rispetto alle cuspidi (Figura 1); la correzione del deficit ventricolare comporta il recupero della conformazione fisiologica che, a sua volta, ripristinando il normale asse di trazione, risolve il rigurgito.

FISIOPATOLOGIA

Nell’insufficienza mitralica una frazione della gittata sistolica è eiettata, in via retrograda, nella cavità atriale, la quale è una camera a bassa pressione (Figura 2). La gittata anterograda in aorta, perciò, risulta minore della gittata ventricolare, costituita dalla somma della gittata anterograda normale più quella, patologica, retrograda. All’insufficienza mitralica consegue un incremento della pressione e del volume atriale sinistro, una riduzione della gittata anterograda in aorta ed un sovraccarico di volume ventricolare poiché in diastole il volume rigurgitato ritorna in ventricolo assieme al sangue refluo proveniente dai polmoni. Per far fronte alla normale domanda ed espellere il volume addizionale, la gittata sistolica ventricolare aumenta grazie al meccanismo di Frank-Starling dove l’aumentato stiramento miofibrillare, causato dall’aumentato volume ventricolare in diastole, determina un aumento del volume eiettato. Ovviamente, la conseguenza emodinamica dell’insufficienza mitralica varia a seconda della severità del rigurgito e dalla sua durata nel tempo. La gravità del rigurgito dipende dalla dimensione dell’orifizio rigurgitante in sistole e dal gradiente di pressione sistolico tra atrio e ventricolo sinistro. La frazione di rigurgito nell’insufficienza mitralica è definita dal rapporto tra il volume rigurgitante e la gittata ventricolare totale, rapporto che dipende, a sua volta, dall’entità delle resistenze periferiche che si oppongono flusso anterogrado e dalla compliance dell’atrio sinistro. Ad esempio, l’ipertensione o la presenza di una coatazione aortica aumenterà la frazione di rigurgito. L’entità dell’incremento della pressione atriale sinistra in risposta al volume rigurgitante dipende dalla compliance atriale sinistra (la compliance è una misura della relazione tra volume e pressione endocavitaria, definibile come variazione di volume per una data variazione in pressione). Nell’insufficienza mitralica acuta (dovuta, ad esempio, all’improvvisa rottura di una corda) la compliance atriale sinistra subisce un’improvvisa riduzione. Questo è dovuto al fatto che l’atrio sinistro è una camera relativamente rigida, e quando si determina improvvisamente il rigurgito l’aumento del volume atriale si realizza solo attraverso un importante incremento della sua pressione endocavitaria (Figura 3). Questo aumento in pressione contribuisce a prevenire l’ulteriore incremento del rigurgito. Va detto però che l’elevata pressione atriale sinistra si trasmette alla circolazione polmonare, provocando rapida congestione fino all’edema.Nell’insufficienza mitralica acuta la curva pressoria atriale sinistra o dei capillari polmonari (stima indiretta della pressione atriale sinistra), mostra un’onda v prominente, la quale riflette l’aumentato riempimento atriale sinistro che si realizza, in modo del tutto anomalo, durante la sistole ventricolare (Figura 3). Nell’insufficienza mitralica cronica il ventricolo accomoda il sovraccarico volumetrico grazie al meccanismo di Starling, come sopra accennato. L’aumento di volume ventricolare genera un aumento

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compensatorio della gittata sistolica, in modo da far sì che alla fine della sistole il volume ventricolare sinistro si mantenga entro valori normali, almeno fino a che il cuore mantiene il compenso, oltre ad un incremento delle pressioni di riempimento. Lo svuotamento sistolico del cuore sinistro è favorito dal fatto che il cuore stesso può “sfiatare” in una cavità a bassa impedenza, e cioè l’atrio, rispetto alla grande resistenza offerta dall’aorta.Diversamente che nella forma acuta, lo sviluppo graduale dell’insufficienza mitralica cronica consente all’atrio sinistro di andare incontro a modificazioni compensatorie che attenuano l’effetto del rigurgito sul circolo polmonare. La compliance atriale, infatti, aumenta grazie alla proliferazione parietale, e consente all’atrio di accogliere un volume aumentato di sangue senza un corrispettivo aumento di pressione. In questo modo l’effetto sulla pressione polmonare viene ad essere in parte neutralizzato, benché l’atrio rischi di diventare una sorta di serbatoio a bassa pressione dove gran parte del volume eiettato si accumula. In tale processo di cronicizzazione, con l’aumentare del grado di rigurgito, i sintomi lamentati dal paziente passano da quelli dettati dalla congestione polmonare a quelli legati alla bassa portata. La progressiva, cronica dilatazione dell’atrio predispone, inoltre, allo sviluppo della fibrillazione atriale.Nell’insufficienza mitralica cronica anche il ventricolo, così come l’atrio, va incontro ad una graduale dilatazione compensatoria in risposta al sovraccarico di volume. Rispetto all’insufficienza mitralica acuta l’aumentata compliance ventricolare accomoda il sovraccarico volumetrico pur mantenendo delle pressioni relativamente normali. Nel corso degli anni, però il sovraccarico cronico induce un progressivo deterioramento della funzione sistolica, con la comparsa, in fase terminale, di un quadro di insufficienza ventricolare sinistra.

SINTOMI

I pazienti con insufficienza mitralica acuta si presentano generalmente con sintomi di congestione polmonare. I sintomi dell’insufficienza mitralica cronica, invece, sono prevalentemente quelli della bassa portata, particolarmente durante lo sforzo. I soggetti nei quali la funzione contrattile tende a scadere lamentano dispnea fino all’ortopnea ed alla dispnea parossistica notturna. Nell’insufficienza mitralica cronica grave possono comparire anche i sintomi legati all’insufficienza ventricolare destra.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

L’ECG tipicamente dimostra segni di ingrandimento atriale sinistro ed ipertrofia ventricolare sinistra (vedi Capitolo 3); anche la radiografia del torace può mostrare l’ingrandimento delle camere cardiache sinistre, e a volte rivela calcificazioni anulari. L’ecocardiogramma può rivelare la causa strutturale dell’insufficienza mitralica e graduarne la severità mediante l’impiego del Color-Doppler (ECO 06), ed anche mettere in luce sia la dilatazione atriale e ventricolare che l’ipercinesia delle pareti ventricolari. Il cateterismo cardiaco è utile per identificare una causa ischemica di insufficienza mitralica e per graduarne la severità. La caratteristica alterazione emodinamica è rappresentata dalla presenza, nella curva di pressione atriale, di una onda v, la cui ampiezza dipende dall’entità del rigurgito e dalla compliance dell’atrio (Figura 3).

PROLASSO VALVOLARE MITRALICO

Il prolasso valvolare mitralico rappresenta una condizione ereditaria nell’ambito di un disordine autosomico dominante o può verificarsi come manifestazione cardiaca nel contesto di malattie connettivali, più frequentemente riscontrabile nelle donne giovani, specie quelle con habitus longilineo. Esso rappresenta una condizione frequentemente asintomatica, ma che talora può accompagnarsi a precordialgie e cardiopalmo. Viene identificato anche con il termine della sindrome del click e del soffio mesotelesistolico. L’apparato valvolare ridondante, messo in tensione dalla sistole ventricolare, è responsabile del click (Figura 5), mentre l’incontinenza della valvola è causa del soffio che caratteristicamente occupa la mesotelesistole. Tra le indagini strumentali è l’ecocardiografia la diagnostica più importante, e può evidenziare la ridondanza di uno od entrambi i lembi valvolari, che prolassano in atrio sinistro durante la mesotelesistole. A poco serve invece l’elettrocardiogramma, che risulta, così come la radiografia del torace, sostanzialmente normale, a parte l’eventuale presenza di battiti ectopici e/o, se l’insufficienza mitralica è importante, dei segni di ingrandimento atriale e ventricolare sinistro.Il decorso clinico è sostanzialmente benigno, giacché la condizione non richiede trattamento specifico, a parte la necessità della profilassi dell’endocardite batterica in caso di prolasso con rigurgito significativo od in presenza di strutture valvolari e cordali particolarmente ridondanti ed ispessite. Tra le complicanze, oltre alla già citata infezione della valvola, va segnalata la possibile rottura di una o più corde, con il generarsi di una insufficienza mitralica acuta, ed il rischio tromboembolico, legato alla deposizione di piastrine sulla superficie valvolare. Da ultimo va ricordata la possibile presenza di manifestazioni aritmiche, che raramente mostrano carattere di malignità.

CENNI DI TERAPIA

La storia naturale dell’insufficienza mitralica è legata alla sua eziopatogenesi, con un decorso molto lento come nel caso dell’eziologia reumatica o molto rapido come nel caso di un improvviso aggravamento di una forma cronica a causa della rottura di una o più corde tendinee.Lo scopo della terapia è quello di ridurre l’entità del rigurgito e di accrescere la portata anterograda, attenuando i sintomi ed i segni di congestione polmonare e quelli legati alla bassa portata. I diuretici ed i vasodilatatori trovano spazio nel trattamento dell’insufficienza mitralica acuta. L’uso dei vasodilatatori, come gli inibitori del sistema renina-angiotensina è limitato, nell’insufficienza mitralica cronica, ai casi caratterizzati da un concomitante incremento dei livelli tensivi in aorta. L’insufficienza mitralica può subdolamente sconfinare in un quadro di scompenso cardiaco legato al cronico,

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inarrestabile deterioramento della funzione contrattile associato alla persistenza del sovraccarico di volume. La chirurgia cardiaca appare indicata prima che un tale evento possa verificarsi. A più di 30 anni dai primi impianti valvolari, l’esatto timing dell’intervento sostitutivo valvolare mitralico nell’insufficienza mitralica rimane una tra le decisioni cliniche più difficili per il cardiologo clinico. Una strategia interessante è l’atteggiamento chirurgico conservativo, capace cioè di riparare (e non sostituire) la valvola eliminando molti dei problemi propri delle protesi valvolari (vedi Capitolo 62). Nei pazienti così trattati la sopravvivenza postoperatoria appare nettamente migliore rispetto al paziente non operato. In generale l’intervento riparativo appare particolarmente indicato per i pazienti giovani, con malattia degenerativa della valvola, mentre l’intervento sostitutivo trova indicazione principalmente negli anziani, con malattia valvolare estesa e non suscettibile di riparazione.

Capitolo 16STENOSI AORTICAFrancesco Pizzuto, Francesco Romeo DEFINIZIONE

La stenosi della valvola aortica è il restringimento dell'orifizio valvolare conseguente a processi patologici che colpiscono i lembi, le commissure o l'anello valvolare. La valvola ristretta ostacola lo svuotamento del ventricolo sinistro in sistole, e rende necessario che aumenti la pressione intraventricolare perché si instauri fra il ventricolo sinistro e l’aorta un gradiente pressorio sufficiente a garantire un normale flusso anterogrado. Come conseguenza del sovraccarico di pressione, il ventricolo sinistro va incontro ad ipertrofia.

EZIOLOGIA

La stenosi valvolare aortica può essere congenita ed evidenziarsi già alla nascita (vedi Capitolo 51) o acquisita; anche in quest’ultimo caso la malattia, pur manifestandosi nell’adulto o nell’anziano, dipende a volte da un’anomalia congenita, la valvola aortica bicuspide (Figura 1). La bicuspidia aortica è presente nel 2% della popolazione, e di per sé non comporta un significativo ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro. I lembi valvolari anomali, tuttavia, determinano una turbolenza del flusso, che nel tempo può provocare una fibrosi valvolare, con esito in progressivo restringimento dell’ostio. Anche la normale valvola a tre cuspidi può andare incontro a processi degenerativi, legati soprattutto all’invecchiamento ma anche a processi degenerativi: la stenosi aortica degenerativa (o senile) è caratterizzata dalla presenza di cuspidi rese ipomobili dal deposito di calcio lungo le commissure (Figura 2). L’eziologia reumatica della stenosi aortica è relativamente rara, ed è più frequente nei casi di un vizio combinato mitro-aortico. La stenosi aortica reumatica risulta dall’adesione e fusione delle commissure e delle cuspidi, con retrazione e irrigidimento dei bordi liberi e presenza su entrambe le superfici delle cuspidi di noduli calcifici che riducono l’orificio (Figura 3).

FISIOPATOLOGIA

Il progressivo restringimento valvolare rappresenta un ostacolo all’eiezione del sangue dal ventricolo sinistro. Per vincere questa resistenza e mantenere un flusso anterogrado normale, la pressione sistolica nel ventricolo sinistro deve sempre superare quella presente in aorta; la differenza pressoria tra ventricolo sinistro ed aorta, definita gradiente pressorio, è proporzionale all’entità dell'ostruzione (Figura 4). L’area valvolare aortica normale nell'adulto è compresa tra 1.6 e 2.6 cm2. Quando l’ostio della valvola si riduce a meno di un quarto del normale, il gradiente supera 50 mmHg. Il sovraccarico pressorio che grava sul ventricolo sinistro stimola, come meccanismo compensatorio, l’ipertrofia ventricolare, e induce un aumento più o meno marcato dello spessore delle pareti e del setto interventricolare, mentre la cavità ventricolare non si dilata. L’ipertrofia ventricolare che si realizza in seguito al sovraccarico di pressione, come nella stenosi aortica, è concentrica, caratterizzata dalla replicazione dei sarcomeri “in parallelo” all’interno della fibra, per cui questa aumenta il suo spessore ma non diviene più lunga. Al contrario, il sovraccarico di volume quale si realizza, per esempio, nell’insufficienza aortica, induce un’ipertrofia eccentrica, poiché i nuovi sarcomeri si dispongono “in serie” e la fibrocellula si allunga anziché ispessirsi. Nella stenosi aortica, l’ipertrofia concentrica consente al ventricolo sinistro di compiere un maggior lavoro, e anche di mantenere a valori quasi normali lo stress di parete. Secondo la legge di Laplace, lo stress di parete o postcarico (omega) è uguale al prodotto della pressione endocavitaria (P) per il raggio della cavità (r), diviso per il doppio dello spessore della parete (h), secondo la formula:

omega=Pr/2h.

Nella stenosi aortica, il ventricolo sinistro va incontro ad un aumento dello stress di parete per aumento della pressione, mentre l’incremento dello spessore parietale riduce lo stress e quindi il postcarico. Il meccanismo di compenso rappresentato dall’ipertrofia, però, comporta degli svantaggi perchè:

l’aumento della massa muscolare determina un aumento del consumo miocardico di O2;

l’incremento della pressione endocavitaria ostacola la perfusione miocardica, esercitando un’aumentata compressione sui vasi coronarici;

la distensibilità (compliance) del ventricolo sinistro diminuisce, alterando il rilasciamento del ventricolo sinistro ed ostacolandone il riempimento diastolico, che diventa pertanto sempre più dipendente dal contributo della sistole atriale.

Lo sforzo può mettere in crisi questi precari meccanismi di compenso in quanto produce:

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un aumento del consumo di O2 da parte del miocardio, non controbilanciato da una corrispondente aumento della perfusione miocardica, con possibile comparsa di angina;

un notevole aumento della pressione ventricolare sinistra necessaria per mantenere il flusso richiesto dall’esercizio muscolare, con una accentuata stimolazione dei meccanocettori ventricolari (recettori sensibili alle variazioni dello stiramento) che possono innescare a loro volta una vasodilatazione periferica riflessa, provocando una sincope. Un aumento del postcarico, con conseguente aumento della pressione ventricolare sinistra sotto sforzo cosicché il ventricolo sinistro, che già in condizioni di riposo lavora a pressioni superiori alla norma, riduce la sua funzione contrattile e non riesce ad espellere il sangue ricevuto in diastole. Si produce così un aumento della pressione in atrio sinistro, che a sua volta determina un aumento della pressione a monte, nel circolo polmonare, con conseguente congestione polmonare fino all’edema polmonare.

QUADRO CLINICO

Sintomi. Il paziente con stenosi aortica è asintomatico per molti anni, nonostante la malattia si aggravi progressivamente. Quando la valvulopatia diviene critica compaiono i sintomi: dispnea (scompenso cardiaco), angina e sincope. Se, da quando insorgono i sintomi, la malattia decorre non trattata, il peggioramento è progressivo e la sopravvivenza media è 2 anni nei pazienti con scompenso, 3 nei soggetti con sincope e 5 anni in quelli con angina. Nella maggior parte dei casi il primo sintomo è la dispnea da sforzo, seguita eventualmente da ulteriori manifestazioni di insufficienza ventricolare sinistra (ortopnea, dispnea parossistica notturna, edema polmonare). L’angina è presente in circa 2/3 dei casi, ed è simile a quella dei pazienti con coronaropatia, venendo scatenata dallo sforzo e scomparendo con il riposo. La sincope insorge tipicamente durante sforzo (per la risposta inappropriata dei barocettori del ventricolo sinistro), ma può anche essere la conseguenza di aritmie.Segni Fisici. La palpazione della zona precordiale può evidenziare un fremito sistolico, espressione di un flusso aortico particolarmente turbolento, dovuto a un notevole gradiente tra ventricolo sinistro ed aorta. L’ascoltazione rivela un soffio sistolico eiettivo con epicentro al 2° spazio intercostale destro sulla linea marginosternale (focolaio d’ascoltazione aortico) ed irradiazione verso i vasi del collo, cioè nel senso del flusso.

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Nei pazienti con stenosi aortica, la radiografia del torace può mostrare un allargamento del margine sinistro dell’ombra cardiaca, dovuto all'ipertrofia del ventricolo sinistro, ma anche un ingrandimento del primo arco di destra (dilatazione dell’aorta ascendente) e una congestione degli ili polmonari (soprattutto nelle fasi avanzate della malattia, in presenza di scompenso cardiaco). L'elettrocardiogramma rappresenta il test diagnostico non invasivo maggiormente utilizzato per confermare la diagnosi clinica. Il segno elettrocardiografico principale è l’ipertrofia ventricolare sinistra, presente nell'80% circa dei pazienti con stenosi aortica severa (Figura 5). L'ecocardiogramma integrato (M-mode, bidimensionale e Doppler) rappresenta il test diagnostico non invasivo più utile e completo per la valutazione dei pazienti con stenosi aortica (Figura 6). Permette, infatti, di quantificare l'entità del vizio aortico, determinando sia il grado di ipertrofia del ventricolo sinistro e la sua funzione (ecocardiografia M-mode e bidimensionale) che l'entità del gradiente transvalvolare aortico e l'area valvolare (ecocardiografia Doppler). Il Cateterismo Cardiaco ha rappresentato per molti decenni l’accertamento diagnostico più importante per valutare la stenosi aortica, consentendo la misurazione di tutti i parametri utili per diagnosticare e quantizzare la valvulopatia, come il gradiente aortico, l'area valvolare e le pressioni polmonari. Tuttavia, l'introduzione dell'ecocardiografia Doppler ha notevolmente ridotto la necessità di ricorrere allo studio invasivo per la valutazione della stenosi aortica, limitando il cateterismo cardiaco ai casi dubbi, oppure quando è possibile effettuare una terapia non chirurgica della valvulopatia (valvuloplastica aortica o impianto percutaneo di una protesi valvolare).

CENNI DI TERAPIA

I pazienti con stenosi aortica asintomatica non necessitano di trattamento; nei sintomatici la terapia è chirurgica e consiste nella sostituzione della valvola aortica con protesi meccanica o biologica (vedi Capitolo 62). La sostituzione valvolare aortica con trattamento percutaneo (tramite cateterismo cardiaco) è ancora in fase iniziale, e benché i risultati ottenuti finora siano incoraggianti, necessita di ulteriori conferme ed al momento attuale viene riservata soltanto a quei pazienti che, pur necessitando della sostituzione valvolare, non possono essere sottoposti all’intervento chirurgico.

Capitolo 17INSUFFICIENZA AORTICACorrado Vassanelli DEFINIZIONE

L'insufficienza aortica è una malattia della valvola aortica, la quale diviene incontinente per anomalie dei lembi valvolari, delle strutture di supporto (radice aortica ed annulus) o di entrambi. Si verifica, di conseguenza, un flusso retrogrado (rigurgito) di sangue dall'aorta al ventricolo sinistro durante la diastole.

EZIOLOGIA ED ANATOMIA PATOLOGICA

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L'insufficienza aortica può essere provocata da anomalie congenite dei lembi (valvola aortica bicuspide, stenosi subaortica con difetto del setto interventricolare e prolasso di una cuspide), oppure da alterazioni di origine infiammatoria o degenerativa, fra cui quelle determinate dalla malattia reumatica (Figura 1), dall'endocardite infettiva (Figura 2) o dalle malattie del connettivo. I lembi valvolari, inoltre, possono essere danneggiati da traumi chiusi della parete del torace o da lesioni da getto conseguenti a stenosi subaortica dinamica o fissa. Le patologie dell'annulus o della radice aortica comprendono la dilatazione idiopatica della radice aortica, l'ectasia annuloaortica, la sindrome di Marfan, la sindrome di Ehlers-Danlos, l'osteogenesi imperfetta, la dissezione aortica, l'aortite luetica, e varie malattie del connettivo, fra cui la spondilite anchilosante. Una valvola aortica bicuspide si accompagna spesso a dilatazione della radice aortica e a conseguente insufficienza (Tabella I). Una causa non infrequente della malattia è la degenerazione strutturale di una bioprotesi valvolare. L'insufficienza aortica cronica grave, di qualsiasi eziologia, può provocare dilatazione della radice aortica, che esita in progressivo peggioramento del rigurgito valvolare. Le cause più frequenti di insufficienza aortica acuta (più rara, ma a prognosi peggiore) sono l'endocardite infettiva, la dissezione aortica o un trauma chiuso del torace.

FISIOPATOLOGIA

Le conseguenza fisiopatologiche della valvulopatia variano a seconda che il rigurgito si stabilisca improvvisamente e sia massivo (insufficienza aortica acuta) o sia inizialmente lieve e progredisca lentamente nel tempo. Nell'insufficienza aortica acuta grave, un notevole volume ematico di rigurgito diastolico va a sovraccaricare improvvisamente un ventricolo sinistro di normali dimensioni, che non ha avuto il tempo per adattarsi. L' aumento del volume telediastolico fa incrementare drammaticamente la pressione telediastolica ventricolare sinistra e la pressione atriale sinistra: poiché la camera ventricolare non è in grado di dilatarsi in modo compensatorio, ne consegue una riduzione della gittata sistolica anterograda. La tachicardia riflessa, che si instaura nel tentativo di mantenere una portata cardiaca adeguata, è spesso insufficiente, ed i pazienti possono andare incontro a edema polmonare o shock cardiogeno. L'insufficienza aortica acuta è particolarmente mal tollerata nei pazienti con ventricolo sinistro ipertrofico piccolo e poco distensibile, come accade quando il rigurgito consegue a dissezione aortica in pazienti ipertesi, o ad endocardite infettiva in soggetti con stenosi aortica preesistente. Questi pazienti possono anche manifestare segni e sintomi di ischemia miocardica, poiché si riduce la pressione di perfusione nel letto coronarico a causa del progressivo incremento della pressione telediastolica ventricolare sinistra, che tende a eguagliare la pressione diastolica aortica e quella coronarica.Nell'insufficienza aortica cronica grave, il sovraccarico al ventricolo sinistro è sia di volume che di pressione. Il ventricolo sinistro aumenta di volume perché deve accogliere non solo il sangue che proviene dalle vene polmonari, ma anche quello che refluisce dall’aorta durante la diastole. Il sovraccarico di volume è conseguenza della quota rigurgitante, ed è direttamente correlato alla gravità del rigurgito. Nelle fasi precoci, il ventricolo sinistro si adatta al sovraccarico di volume con una ipertrofia eccentrica, in cui i sarcomeri si allineano in serie ed i miofilamenti si allungano: ne consegue un incremento della forza di contrazione, in accordo alla legge di Starling. La gittata sistolica è aumentata, e con essa la pressione sistolica. L'ipertensione sistolica può contribuire alla progressiva dilatazione della radice aortica che a sua volta peggiora l'insufficienza aortica. Nelle fasi più avanzate, la progressiva dilatazione del ventricolo sinistro può produrre una grave disfunzione ventricolare, peggiorata dalla progressiva riduzione della distensibilità del ventricolo, causata dall’ipertrofia e dalla fibrosi.

SINTOMI

I sintomi dell'insufficienza aortica dipendono dalla velocità con cui si realizza il danno valvolare, e sono tipici dello scompenso cardiaco sinistro. Se il rigurgito aortico si instaura acutamente, non vi è tempo perché il ventricolo sinistro possa mettere in atto i meccanismi compensatori dell'ipertrofia e della dilatazione, per cui l’insufficienza ventricolare sinistra si manifesta rapidamente, anche con l’edema polmonare acuto. I pazienti con insufficienza aortica cronica, invece, sono solitamente asintomatici ed hanno una buona tolleranza allo sforzo per anni, fino a che, con il deficit del ventricolo sinistro, compaiono dispnea da sforzo, astenia e talora ortopnea e dispnea parossistica notturna. Il paziente può anche avvertire palpitazioni a causa della percezione dell'attività cardiaca dovuta all'ingrandimento del ventricolo. Anche in assenza di malattia coronarica, le aumentate richieste di ossigeno da parte del ventricolo sinistro possono causare angina pectoris, soprattutto nelle ore notturne.

SEGNI CLINICI

L'esame obiettivo nell' insufficienza aortica cronica è caratterizzato dallo stato iperdinamico della malattia. La pressione arteriosa sistolica è aumentata, per l’incremento della gittata sistolica ventricolare sinistra, mentre la pressione diastolica è ridotta sia per la vasodilatazione periferica, ma soprattutto per il flusso retrogrado verso il ventricolo sinistro; la pressione differenziale, perciò, risulta notevolmente più ampia del normale. Queste variazioni dipendono grossolanamente dall’entità della insufficienza: si ritiene che, in assenza di scompenso cardiaco, questo vizio valvolare sia poco significativo quando la pressione diastolica non è <70 mm Hg. Alla palpazione, il polso è scoccante (ampio e celere), poiché da un lato la gittata sistolica è aumentata, e dall’altro la valvola aortica insufficiente non trattiene il sangue nel letto arterioso: l'effetto è una pulsazione che sembra schioccare bruscamente contro le dita e scomparire altrettanto rapidamente (polso a martello pneumatico). L'impulso apicale è ipercinetico, di ampia superficie, spesso dislocato in basso ed a sinistra rispetto al normale. Il rigurgito diastolico del sangue attraverso la valvola aortica provoca un soffio: poiché il flusso retrogrado è elevato quando la pressione nella radice aortica è al suo massimo, e declina quando la pressione aortica cade, il soffio dell’insufficienza aortica è massimo in protodiastole e quindi decresce (Figura 3). Il soffio ha timbro dolce, aspirativo, e si ascolta meglio con il paziente seduto, durante espirazione forzata; la sua intensità è

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massima lungo la parte inferiore della linea margino-sternale sinistra. La durata del soffio indica grossolanamente la gravità della malattia: nei casi lievi esso si ascolta solo quando il gradiente tra aorta e ventricolo sinistro è elevato, cioè in protodiastole; con l’aumentare della gravità, il soffio diventa olodiastolico. Con la comparsa dello scompenso, poi, l'incremento della pressione telediastolica ventricolare sinistra e il rapido calo della pressione diastolica aortica riducono il gradiente di rigurgito, e il soffio torna ad accorciarsi. Nell'insufficienza aortica acuta, il soffio diastolico può essere addirittura assente a causa del rapido equilibrio tra le pressioni aortica e ventricolare sinistra. Sul focolaio aortico è rilevabile quasi sempre un soffio sistolico eiettivo, dovuto all'eccessivo flusso anterogrado, che può mimare una stenosi aortica (Figura 3B). Il secondo tono è di solito singolo. Un tono aggiunto eiettivo aortico (click da eiezione) può essere ascoltato soprattutto in presenza di valvola aortica bicuspide

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

L'ECG mostra spesso ipertrofia ventricolare sinistra, caratterizzata da onde R alte nelle derivazioni precordiali sinistre ed S profonde nelle destre, sottoslivellamento di ST e T invertite in I , aVL e V5-V6. (vedi Capitolo 3). La radiografia del torace mostra cardiomegalia che, associata alla dilatazione dell'aorta ascendente e dell'arco aortico, conferisce al cuore la caratteristica configurazione “a scarpa”.L'esame diagnostico più importante nella valutazione dell' insufficienza aortica è l'ecocardiogramma che permette di: 1) valutare l'anatomia dei lembi valvolari e della radice aortica, 2) rilevare la presenza e stimare la gravità del rigurgito (con il color-Doppler) (ECO 18), 3) caratterizzare la dimensione, la massa e la funzione del ventricolo sinistro. Il cateterismo cardiaco, l'aortografia e l'angiografia coronarica sono raramente necessari, soprattutto nei casi acuti, e dovrebbero essere eseguiti solo quando la diagnosi non può essere fatta altrimenti o nei pazienti con coronaropatia nota o elevata probabilità di malattia coronarica.

CENNI DI TERAPIA

In caso di insufficienza aortica acuta, l'intervento cardiochirurgico immediato è necessario poiché il sovraccarico improvviso di volume è potenzialmente fatale. In questi casi la correzione chirurgica è urgente poiché la terapia medica usuale fallisce: i vasodilatatori utilizzati per incrementare il flusso anterogrado peggiorano l'ipotensione, l'ischemia e la disfunzione ventricolare sinistra, ed i farmaci che incrementano la pressione aumentano le resistenze periferiche e peggiorano il rigurgito. La terapia medica non è in grado di ridurre significativamente il volume di rigurgito nell' insufficienza aortica cronica grave poiché l'area di rigurgito è relativamente fissa e la pressione diastolica già bassa: una ulteriore riduzione di questa peggiorerebbe la perfusione coronarica. L'obiettivo principale della terapia medica è quindi quello di ridurre l’ipertensione sistolica, al fine di diminuire lo stress parietale e migliorare la funzione del ventricolo sinistro. Per questo possono essere usati farmaci vasodilatatori quali ACE-inibitori o calcio-antagonisti diidropiridinici (vedi Capitolo 57).Nei pazienti con insufficienza aortica isolata cronica, la sostituzione valvolare (o a volte la plastica valvolare ) è indicata solo nei casi gravi, mentre nei soggetti sintomatici ma con insufficienza aortica lieve devono essere escluse altre cause di disfunzione ventricolare come coronaropatia, ipertensione o cardiomiopatia. I migliori risultati chirurgici si ottengono prima che il diametro telediastolico del ventricolo sinistro superi i 55 mm e che la frazione di eiezione scenda al di sotto del 55%. In presenza di concomitante malattia della radice aortica, alla sostituzione valvolare dovrebbe essere associata la ricostruzione della radice e dell'aorta prossimale se il diametro dell'aorta supera i 5.0 cm.

Sezione IV. Scompenso Cardiaco

Capitolo 19FISIOPATOLOGIA DELLO SCOMPENSO CARDIACOLivio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari, Tania Bordonali

DEFINIZIONE

Lo scompenso cardiaco si presenta con un quadro clinico estremamente variabile, per cui ne sono state proposte numerose definizioni. La più tradizionale, di tipo fisiopatologico, descrive lo scompenso cardiaco come una sindrome in cui il cuore non è in grado di mantenere una portata cardiaca adeguata alle richieste dei tessuti oppure, nel caso vi riesca, questo è ottenuto attraverso un aumento delle pressioni di riempimento ventricolari.La Società Europea di Cardiologia ha definito lo scompenso cardiaco come una sindrome caratterizzata dai seguenti aspetti: sintomi e/o segni tipici (dispnea e/o astenia, a riposo e/o da sforzo, e/o edemi declivi) ed evidenza obiettiva (generalmente mediante ecocardiografia) di una disfunzione cardiaca sistolica e/o diastolica.L’importanza dell’attivazione neuroumorale e delle controrisposte dei vari organi nel determinare la progressione dello scompenso cardiaco fa ritenere necessario includere anche questi fattori nella definizione. Per scompenso cardiaco si deve quindi intendere una sindrome in cui ad un calo, assoluto o relativo, della portata cardiaca, comunque determinato ma conseguente ad una causa cardiaca, corrisponde una risposta multiorganica con attivazione cronica neuroumorale in grado di deteriorare ulteriormente la funzione miocardica, nonostante una controrisposta di fattori tendenti al ripristino dell’omeostasi circolatoria.

EPIDEMIOLOGIA

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A causa del progressivo invecchiamento della popolazione e del migliorato trattamento della maggior parte delle malattie cardiovascolari, la prevalenza dello scompenso cardiaco è in continua crescita. La prevalenza di scompenso sintomatico è del 0.5-2% della popolazione generale: nei paesi europei sono quindi affette da scompenso cardiaco sintomatico più di 12 milioni di persone. Un numero simile di pazienti, inoltre, sarebbe portatore di disfunzione sistolica ventricolare sinistra asintomatica, ed altrettanti sarebbero affetti da scompenso cardiaco con conservata funzione sistolica ventricolare. La prognosi dello scompenso cardiaco è spesso sfavorevole: la forma acuta di scompenso è la più importante causa di ospedalizzazione per i soggetti di età superiore ai 65 anni. Circa la metà dei pazienti affetti da scompenso cardiaco è destinata a morire in un tempo medio di 4 anni dal momento della diagnosi, e la durata della vita può accorciarsi ad un solo anno per il 50% dei pazienti con scompenso severo. Recenti dati indicano, tuttavia, un miglioramento della prognosi dovuto all’applicazione di terapie con evidenza di efficacia.

CAUSE

Lo scompenso cardiaco è la via finale comune di tutte le patologie in grado di compromettere la funzione cardiaca. Può essere causato da una disfunzione miocardica (condizione più frequente) ma anche da valvulopatie, malattie del pericardio o disturbi del ritmo. L’ischemia miocardica acuta, o più raramente l’anemia, la disfunzione tiroidea, l’insufficienza renale o la somministrazione di farmaci inotropi negativi possono peggiorare o qualche volta causare lo scompenso cardiaco. Nei paesi occidentali, nei pazienti di età inferiore ai 75 anni, lo scompenso cardiaco è spesso caratterizzato da una compromissione della funzione sistolica: la cardiopatia ischemica, spesso con concomitante ipertensione arteriosa, ne è la causa più frequente. Nei pazienti di età superiore ai 75 anni, invece, è più frequente l’insufficienza cardiaca con conservata funzione sistolica. Non di rado questi soggetti hanno una storia d’ipertensione arteriosa, spesso sistolica isolata, ed un’ipertrofia ventricolare sinistra concentrica. Oltre alla cardiopatia ischemica ed all’ipertensione arteriosa, le cardiomiopatie, in particolare la cardiomiopatia dilatativa, e le valvulopatie sono altre importanti cause di scompenso cardiaco.

MECCANISMI FISIOPATOLOGICI ALLA BASE DELL’ALTERATA FUNZIONE MIOCARDICA

Determinanti della funzione cardiaca. I principali determinanti della funzione cardiaca sono la frequenza cardiaca, il precarico, il postcarico e la contrattilità. Il precarico è il carico a cui è sottoposto il cuore prima dell’iniizio della contrazione (telediastole). Viene misurato dal volume o, meglio, dallo stress telediastolico. L’aumento del precarico causa un aumento della forza di contrazione miocardica (legge di Starling) per migliore sovrapposizione tra actina e miosina. Il cuore insufficiente è generalmente dilatato a tal punto da avere un esaurimento della riserva di precarico così che le variazioni di quest’ultimo non comportano più variazioni della gettata cardiaca.Il postcarico è il carico cui è sottoposto il cuore durante la contrazione. Viene misurato dallo stress sistolico, ed è correlato all’impedenza aortica ed alle resistenze periferiche. Lo stress sistolico è direttamente proporzionale al raggio ed alla pressione intraventricolare ed inversamente proporzionale allo spessore parietale (legge di Laplace). L’aumento della pressione arteriosa comporta quindi un aumento del postcarico. Il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal postcarico. La contrattilità è la capacità del miocardio di contrarsi indipendentemente dalle condizioni di carico. Il deficit di contrattilità miocardica è l’alterazione fondamentale dello scompenso. Spesso questa non comporta alterazioni della potata cardiaca e delle pressioni di riempimento ventricolari a riposo. Sotto sforzo, tuttavia, il cuore insufficiente presenterà sempre una ridotta capacità di far fronte alle aumentate richieste dei tessuti periferici con insufficiente incremento della contrattilità e della portata cardiaca ed aumento delle pressioni di riempimento intraventricolari. Vengono qui di seguito riassunti i principali meccanismi responsabili del deficit di contrattilità.Ipertrofia Miocardica L’ipertrofia miocardica si verifica in risposta ad un aumento dello stress parietale. Questo può essere dovuto sia a sovraccarico pressorio (per esempio, ipertensione, stenosi aortica) che di volume (per esempio, rigurgito mitralico oppure aortico). Il ruolo svolto dall'ipertrofia miocardica nella patogenesi dello scompenso cardiaco è tradizionalmente ritenuto fondamentale: l’ipertrofia è vista come lo stadio intermedio tra un qualsiasi danno miocardico iniziale e la successiva insufficienza miocardica. Tuttavia, nonostante numerose dimostrazioni sperimentali, pochi studi clinici sono stati finora in grado di confermare questa ipotesi. L’ipertrofia comporta modificazioni di tutte le componenti del miocardio che ne favoriscono, a loro volta, la degenerazione con dilatazione ed ipocinesia ventricolare. A livello dei miociti, si verifica un aumento del numero dei sarcomeri, che avviene in parallelo, con ispessimento delle fibre miocardiche, nel caso di un sovraccarico pressorio (ipertrofia concentrica) o in serie, con loro allungamento (ipertrofia eccentrica), nel sovraccarico volumetrico. In ogni caso, il volume delle fibre miocardiche aumenta in misura maggiore rispetto al numero dei capillari, e all’interno di ciascuna cellula il numero dei sarcomeri aumenta in misura maggiore rispetto ai mitocondri, così che il miocita viene a trovarsi in una condizione di relativa carenza di ossigeno e di energia. L’ipertrofia comporta, inoltre, un’accelerazione dei processi di morte cellulare (apoptosi) ed alterazioni qualitative, con aumento della sintesi di proteine di tipo fetale che contribuiscono alla genesi della disfunzione cardiaca. La fibrosi miocardica viene a compromettere ulteriormente l’apporto di ossigeno e substrati alle cellule miocardiche e la capacità delle arteriole coronariche a dilatarsi. Accelerata morte cellulare Può verificarsi con i meccanismi sia della necrosi che dell’apoptosi. La necrosi si realizza nei pazienti affetti da cardiopatia ischemica sia sotto forma di infarto clinicamente evidente che di microinfarti. E’ infatti possibile rilevare un aumento della troponina plasmatica in pazienti con scompenso cardiaco ma senza sindrome coronarica acuta. Questa evenienza può verificarsi anche in pazienti senza coronaropatia, a causa del relativo deficit di apporto di ossigeno ai miociti favorito dall’ipertrofia, aumento dello stress miocardico e della pressione telediastolica ventricolare.

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Differentemente dalla necrosi, l’apoptosi è un processo attivo, energia dipendente, in cui l’attivazione di uno specifico programma genetico porta ad una cascata di eventi con esito in degradazione del DNA cellulare. Questo processo, normalmente presente solo in un piccolissimo numero di cellule miocardiche, è attivato in corso di scompenso cardiaco, contribuendo al deficit di contrattilità. Alterato rapporto fra le isoforme della miosinaEsistono due principali isoforme della catena pesante della miosina (MHC, myosin heavy chain). Una rapida, ad elevata attività ATPasica, codificata dal gene alfa-MHC, prevalente nella vita adulta, ed una lenta, a bassa attività ATPasica, codificata dal gene beta-MHC, prevalente nella vita fetale. Nel cuore insufficiente si verifica la riespressione di geni normalmente attivi durante la vita fetale, con maggiore sintesi di beta-MHC. Queste alterazioni si correlano con la riduzione della contrattilità miocardica e sono antagonizzate, nella maggioranza dei pazienti, dalla terapia beta-bloccante. Ridotto contenuto miocardico di substrati ad alto contenuto energetico Lo scompenso cardiaco si associa a riduzione dell’apporto di ossigeno e substrati alla cellula miocardica ed a compromissione dei meccanismi di produzione dei substrati ad alto contenuto energetico. Questi comprendono alterazioni nell’utilizzazione dei substrati (glucosio ed acidi grassi), nella fosforilazione ossidativa e nel trasferimento ed utilizzazione dell’ATP. Vi è anche un’importante compromissione dell’immagazzinamento di energia sotto forma di creatin-fosfato (CP). Il rapporto CP/ATP è un indice della disponbilità di energia a livello miocardico e la sua riduzione in corso di scompenso, valutabile mediante risonanza magnetica nucleare e spettroscopia, predice un’elevata mortalità nei pazienti. Alterato metabolismo del calcio Indipendentemente dalle alterazioni presenti a livello dei meccanismi di produzione di energia e dell’apparato contrattile miocardico, la cellula miocardica mantiene una normale risposta contrattile alla somministrazione di calcio. E’quindi logico ritenere che le alterazioni del metabolismo del calcio siano tra i principali fattori responsabili dell’alterata funzione sistolica e/o diastolica del cuore insufficiente.Nei pazienti con scompenso cardiaco è ridotta l’attività dell’ATPasi calcio-dipendente del reticolo sarcoplasmatico (SERCA), responsabile della ricaptazione del calcio durante la diastole. A questo consegue una compromissione del rilasciamento miocardico ed un ridotto accumulo di calcio all’interno del reticolo sarcoplasmatico. Ciò determina la liberazione di una minore quantità di calcio nella sistole successiva, con conseguente riduzione della contrattilità. Un’altra alterazione riguarda l’iperfosforilazione del fosfolambano con conseguente maggiore perdita di calcio dal reticolo sarcoplasmatico al citoplasma durante la diastole.Fibrosi interstizialeA carico del tessuto connettivo del cuore insufficiente si verificano modificazioni a livello sia della componente cellulare (fibroblasti) che intercellulare. I fibroblasti vanno incontro ad iperplasia, con un aumento di sintesi di collagene sproporzionato rispetto alla componente miocitaria (fibrosi interstiziale). Si verificano anche modificazioni qualitative del collagene, consistenti in aumentata sintesi di collagene tipo I, più rigido, con maggiore suscettibilità alle fratture del collagene, scivolamento delle fibre miocardiche le une sulle altre, disorganizzazione della normale architettura del ventricolo sinistro, che assume una conformazione sferica. Questa comporta un aumento dello stress parietale e minore efficienza contrattile.La fibrosi interstiziale rappresenta, insieme alla compromissione dei processi di ricaptazione del calcio da parte della SERCA, il maggiore meccanismo responsabile delle alterazioni della funzione diastolica del cuore insufficiente.

ATTIVAZIONE NEURO-ORMONALE

Nello scompenso cardiaco entrano in gioco da protagonisti alcuni meccanismi (sistemi simpato-adrenergico e renina-angiotensina-aldosterone, in particolare) la cui azione consiste essenzialmente nel determinare vasocostrizione periferica, ritenzione idro-salina ed ipertrofia e/o iperplasia cellulare. Questi meccanismi favoriscono la progressione dello scompenso cardiaco e, anche alla luce dei risultati degli studi clinici con specifici antagonisti, sono da ritenerne i principali responsabili.

Attivazione simpato-adrenergica I pazienti con scompenso cardiaco presentano, rispetto ai soggetti normali, un'aumentata eliminazione urinaria di catecolamine ed elevate concentrazioni plasmatiche di norepinefrina. L'incremento dell'attività simpatica non interessa in modo uniforme tutti gli organi, ma si verifica soprattutto a livello renale e cardiaco; qui le concentrazioni di norepinefrina sono aumentate di 5-20 volte rispetto al normale. L'attivazione simpatoadrenergica è un fenomeno precoce nell'evoluzione dello scompenso, ed è già presente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra asintomatica. Lo squilibrio neuroendocrino interessa globalmente tutto il sistema neurovegetativo, poiché all'aumento dell'attività simpatica è associata la riduzione di quella parasimpatica. L’importanza della stimolazione simpatoadrenergica nella progressione dello scompenso cardiaco è dimostrata dal valore prognostico indipendente dei livelli di norepinefrina plasmatica e dall’effetto estremamente favorevole sulla prognosi della terapia beta-bloccante.Numerosi sono i meccanismi con cui la stimolazione simpatoadrenergica può avere effetti dannosi sulla cellula miocardica. Essa porta ad una progressiva riduzione del numero dei beta1 recettori miocardici, per cui il rapporto tra beta1 e beta2 recettori miocardici si sposta dai valori normali di 80:20 a valori di 60:40. Ciò causa una ridotta risposta cardiaca alla stimolazione simpatica che può, ad esempio, contribuire al ridotto incremento della portata cardiaca ed alla ridotta tolleranza allo sforzo dei pazienti..La norepinefrina ha anche effetti dannosi diretti sulle fibre miocardiche, stimolando apoptosi ed alterazioni dell’espressione genica nei cardiomiociti (aumento della beta-MHC, riduzione dell’alfa-MHC e della SERCA). Essa può favorire l’ischemia e la necrosi miocardica attraverso l’aumento della frequenza e della contrattilità, condizioni entrambe in grado di incrementare il consumo di ossigeno.

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Altri effetti sfavorevoli della stimolazione simpatica sono: 1) la vasocostrizione periferica, sia diretta che indiretta, per stimolazione del sistema renina-angiotensina, con conseguente aumento del postcarico e riduzione della gittata sistolica; 2) l’induzione di aritmie ventricolari, potenzialmente fatali; e 3) l’attivazione del sistema renina-angiotensina.

Sistema renina angiotensina aldosteroneL’attività reninica plasmatica aumenta soprattutto nei pazienti con più grave compromissione emodinamica e funzionale. La sua importanza è dimostrata dagli effetti favorevoli degli ACE inibitori e degli antagonisti dei recettori dell’angiotensina II sulla prognosi. I meccanismi con cui l’angiotensina II può influenzare negativamente l’evoluzione dello scompenso sono molteplici. In primo luogo, essa causa vasocostrizione periferica, aumento del postcarico e calo della gittata sistolica. In secondo luogo, stimola la secrezione di aldosterone causando ritenzione idro-salina e quindi aumento del precarico, edemi declivi e congestione venosa sistemica. Similmente alla norepinefrina, anche l’angiotensina II ha un effetto tossico diretto sul miocardio (apoptosi). L’aldosterone, la cui secrezione è stimolata dall’angiotensina II, oltre a causare ritenzione idro-salina ed ipokaliemia, provoca anche ipertrofia e fibrosi miocardica, aumento della stimolazione simpatica cardiaca e disfunzione endoteliale. Tutti questi effetti contribuiscono alla progressione dello scompenso e rendono conto degli effetti favorevoli dei farmaci antialdosteronici sulla prognosi.

Vasopressina Da molti anni è stata segnalata, in corso di scompenso cardiaco, la presenza di elevate concentrazioni plasmatiche di vasopressina, la cui secrezione, però, sembra essere stimolata meno frequentemente che quella di renina, aldosterone o norepinefrina. La vasopressina agisce su due diversi recettori, V1 e V2. La stimolazione dei recettori V1 determina vasocostrizione periferica con diminuzione della gittata sistolica, mentre la stimolazione dei recettori V2 provoca ritenzione di acqua libera per permeabilizzazione all’acqua del tubulo collettore renale. Differentemente che nel caso dei precedenti sistemi, in questo caso la somministrazione di antagonisti della vasopressina non ha determinato variazioni nella sopravvivenza.

Fattori natriuretici La famiglia dei fattori natriuretici comprende il peptide natriuretico A o atriale (ANP), il peptide natriuretico B o cerebrale (BNP), così chiamato perché isolato per la prima volta nelle cellule del sistema nervoso centrale di maiale, il peptide natriuretico C (CNP), prodotto e secreto prevalentemente dal sistema nervoso centrale e dai vasi periferici. La sintesi di ANP e di BNP risulta estremamente limitata nel soggetto adulto normale. In corso di scompenso cardiaco, viceversa, l’aumento dello stress parietale miocardico causa l’espressione di geni attivi nella vita fetale con conseguente produzione di ANP e BNP. Il BNP viene sintetizzato sotto forma di pro-ormone (proBNP), che viene quindi clivato a livello citoplasmatico con formazione di BNP attivo e di un frammento N-terminale (NT-proBNP). Entrambi vengono rapidamente immessi nel torrente circolatorio.L’ANP e il BNP vengono prodotti e secreti sia a livello atriale che ventricolare: la concentrazione di ANP è maggiore a livello atriale mentre quella di BNP è maggiore a livello ventricolare. Per questo motivo, oltre che per la più rapida risposta della secrezione del BNP in condizioni di sovraccarico, si impiega attualmente nella pratica clinica il dosaggio del BNP o del NT-ProBNP per la valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con socmpenso cardiaco. I fattori natriuretici causano vasodilatazione periferica, inibiscono l’attivazione simpatica e la secrezione di renina e di aldosterone, e favoriscono la natriuresi. La loro secrezione si verifica precocemente nello scompenso cardiaco. È quindi probabile che i fattori natriuretici abbiano un ruolo importante nel mantenere un normale equilibrio idro-salino. Nelle fasi inziali dello scompenso cardiaco, essi riuscirebbero a controbilanciare gli effetti dell’attivazione dei sistemi simpatoadrenergico e renina-angiotensina-aldosterone.

Prostaglandine Le prostaglandine PgE2 e Pgi2 hanno un’azione vasodilatatrice e giocano, a livello dell’arteriola afferente renale, un ruolo importante, dimostrato indirettamente dall’osservazione che l’inibizione della loro sintesi con antiinfiammatori non steroidei determina un netto peggioramento della funzione renale, per vasocostrizione dell’arteriola afferente glomerulare, e talvolta anche del compenso emodinamico, nei pazienti con scompenso cardiaco.

Ossido nitrico L’ossido nitrico (NO) è il più potente vasodilatatore endogeno conosciuto. Una riduzione della vasodilatazione NO-dipendente è stata dimostrata in numerose condizioni patologiche tra cui lo scompenso cardiaco.

Endotelina Le endoteline sono peptidi dotati di una potente e prolungata azione vasocostrittrice. La loro sorgente più importante sembrano essere le cellule endoteliali. Oltre a presentare una potente e prolungata attività vasocostrittrice, le endoteline stimolano il rilascio di catecolamine ed aldosterone, favoriscono l’ipertrofia miocardica e la proliferazione delle cellule muscolari lisce. Nei pazienti con scompenso cardiaco è stato dimostrato un incremento significativo delle concentrazioni di ET-1,

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rispetto ai soggetti normali. Tuttavia, la somministrazione di antagonisti dei recettori dell’endotelina non ha avuto effetti favorevoli né nei confronti del rimodellamento ventricolare sinistro, né sui sintomi e la prognosi dei pazienti con scompenso acuto.

Stress ossidativo Esistono numerose evidenze di un aumento dello stress ossidativo sia a livello miocardico che a livello vascolare sistemico nei pazienti con scompenso cardiaco. La produzione di radicali liberi riduce la capacità di dilatazione vascolare periferica e stimola l’ipertrofia dei miociti, la riespressione dei fenotipi fetali e l’apoptosi.

Citochine I livelli circolanti di citochine pro-infiammatorie, incluse TNF-a e IL-6, sono aumentati nei pazienti con scompenso cardiaco, rispetto ai soggetti normali, e sono correlati con la severità della sintomatologia e con la prognosi. Gli effetti negativi dei mediatori infiammatori sulla progressione dello SC sono molteplici e comprendono un’attività inotropa negativa, l’induzione di un genotipo fetale e di apoptosi a livello dei cardiomiociti, la cachessia e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica. Tuttavia, nonostante questi presupposti fisiopatologici, l’impiego di antagonisti specifici delle citochine non ha modificato l’evoluzione dei pazienti con scompenso, e nessuna terapia antiinfiammatoria ha permesso di migliorare la prognosi dei pazienti.

RITENZIONE IDRO-SALINA ED AUMENTO DEL PRECARICO

La ritenzione idro-salina è dovuta, nello scompenso cardiaco, a due meccanismi fondamentali: le modificazioni dell'emodinamica renale e l’attivazione neuro-ormonale.

Flusso ematico renale e filtrazione glomerulare Nello scompenso cardiaco, l’attivazione simpatica determina una redistribuzione della portata cardiaca con riduzione del flusso ematico renale. A questo fa riscontro una relativa conservazione della filtrazione glomerulare, con aumento della frazione di filtrazione. Infatti, l'angiotensina II determina una vasocostrizione maggiore nell'arteriola efferente che in quella afferente, per cui la pressione all'interno dei capillari glomerulari aumenta. La filtrazione glomerulare, perciò, diminuisce in misura minore rispetto al flusso plasmatico renale, e la frazione di filtrazione aumenta. Ritenzione idrico-salina La riduzione del flusso plasmatico renale e l'aumento della frazione di filtrazione determinano ipoperfusione dei capillari peritubulari, con conseguente calo della pressione idrostatica ed aumento della concentrazione di proteine e della pressione oncotica al loro interno. Queste modificazioni dell’equilibrio tra pressione idrostatica ed oncotica intratubulare e nei capillari peritubulari portano ad un maggior riassorbimento di sodio cui consegue, per osmosi, anche un maggior riassorbimento idrico.L’iperattività simpatica e del sistema renina-angiotensina causano ritenzione idrosalina anche con altri meccanismi. L’attivazione simpatica determina redistribuzione del flusso ematico intrarenale dai nefroni corticali e quelli iuxtamidollari, dotati di più lunghe anse di Henle e quindi in grado di maggior riassorbimento salino. L’angiotensina II stimola la secrezione di aldosterone, con maggior riassorbimento di sodio, in scambio con il potassio, a livello del tubulo distale e del collettore. Infine, la vasopressina rende permeabile all’acqua il tubulo collettore e favorisce il riassorbimento di acqua. Il riassorbimento di acqua può verificarsi in misura maggiore del riassorbimento di sodio con conseguente iposodiemia da diluizione.La ritenzione idro-salina viene tradizionalmente vista come una meccanismo finalistico, attraverso il quale l’organismo cerca di mantenere un adeguato volume ematico in condizioni in cui la portata cardiaca e la pressione di perfusione tessutale tendono a calare per effetto della ridotta contrattilità miocardica. Queste modificazioni sono, tuttavia, dannose per l’evoluzione dello scompenso cardiaco e rappresentano la principale causa di molti sintomi lamentati dal paziente (edemi, dispnea) oltre che delle ospedalizzazioni per peggioramento dello scompenso.

Modificazione del precarico La ritenzione idro-salina è alla base della formazione di edema e comporta, a livello cardiaco, un aumento del precarico. L’aumento di precarico può inizialmente comportare una maggior gittata sistolica attraverso il meccanismo di Frank-Starling. Tuttavia, il cuore insufficiente esaurisce ben presto la propria riserva di precarico (vedi sopra). L’aumento del volume ventricolare continua, invece, a determinare un aumento dello stress parietale miocardico e quindi, per la legge di Laplace, anche del postcarico e del consumo miocardico di ossigeno.

VASOCOSTRIZIONE PERIFERICA ED AUMENTO DEL POSTCARICO

Nello scompenso cardiaco, l’aumento delle resistenze vascolari periferiche è dovuto all’attivazione dei meccanismi neuroumorali ad azione vasocostrittrice ed alle alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, etc). Questi fenomeni determinano vasocostrizione arteriolare e riduzione del diametro e della compliance delle grosse e medie arterie. Il ventricolo normale è in grado di mantenere una normale gittata sistolica anche in presenza di incremento del postcarico. All’opposto, il cuore insufficiente è criticamente dipendente dal post-carico, così che anche minime variazioni dello stesso comportano un’importante riduzione della gittata sistolica. Questo motivo ha guidato l’introduzione della terapia vasodilatatrice nello scompenso cardiaco.

RIDUZIONE DELLA TOLLERANZA ALLO SFORZO

La ridotta tolleranza allo sforzo è uno dei sintomi fondamentali del paziente con scompenso cardiaco. Fattori emodinamici

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La riduzione della capacità funzionale è innanzitutto conseguenza della compromissione emodinamica del paziente con scompenso cardiaco. Nessun parametro emodinamico, valutato a riposo, tuttavia, è correlato con la capacità funzionale. La risposta allo sforzo, a differenza dell’emodinamica a riposo, è strettamente correlata con la capacità funzionale. Una correlazione significativa è stata osservata soprattutto con gli indici di funzione sistolica ventricolare sinistra (portata cardiaca, indice di lavoro del ventricolo sinistro).

Flusso ematico muscolare scheletrico Nei pazienti con scompenso cardiaco è stata osservata una ridotta capacità dilatatrice dei vasi della muscolatura scheletrica. La riduzione della portata cardiaca e della vasodilatazione muscolare fanno sì che il muscolo si venga a trovare, sotto sforzo, in una condizione di relativa ipoperfusione responsabile, a sua volta, di più precoce comparsa di metabolismo anaerobio e di riduzione della tolleranza allo sforzo.A questa ridotta capacità di dilatazione dei vasi della muscolatura scheletrica contribuiscono sia l'attivazione neuroumorale che alterazioni di sistemi locali (NO, endotelina, citochine). Caratteristiche biochimiche e funzionali della muscolatura scheletrica Il 25-40% dei pazienti con scompenso cardiaco può presentare una riduzione della capacità funzionale, con precoce comparsa di metabolismo muscolare anaerobio nonostante un normale incremento del flusso ematico durante sforzo. In questi pazienti la muscolatura scheletrica sembra essere la principale responsabile della ridotta capacità funzionale. In corso di scompenso cardiaco, i muscoli scheletrici vanno incontro a modificazioni morfologiche (ipotrofia, fibrosi interstiziale, depositi lipidici, riduzione della densità dei capillari) e biochimiche (riduzione degli enzimi responsabili del metabolismo aerobio, con normale o aumentata attività degli enzimi della glicolisi anaerobia). Similmente alla riduzione della capacità dilatatrice dei vasi, anche le alterazioni della muscolatura scheletrica possono essere considerate come il risultato di un processo di decondizionamento muscolare. L’importanza di questo meccanismo è dimostrata dalla possibilità di ottenere un significativo miglioramento della capacità funzionale con l'allenamento fisico.

Diffusione alveolo-capillare Anche la diffusione alveolo-capillare dell'ossido di carbonio, valutata a riposo, è correlata con la massima capacità lavorativa. Nello scompenso cardiaco, una riduzione della capacità di diffusione alveolo-capillare può determinare incremento dello spazio morto fisiologico e del rapporto tra spazio morto polmonare e capacità vitale (Vd/Vt).

Risposta ventilatoria allo sforzo I pazienti con scompenso cardiaco presentano, durante sforzo, un respiro più rapido e più superficiale, con maggiore incremento della ventilazione (VE), a parità di carico lavorativo, rispetto ai soggetti normali.

Capitolo 20QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO ACUTOFrancesco Fedele DEFINIZIONE

L’insufficienza cardiaca è la situazione in cui il cuore è incapace di pompare sangue in quantità adeguata alle esigenze metaboliche dell’organismo, oppure può far questo soltanto mediante un aumento delle pressioni di riempimento (vedi Capitolo 19). L’insufficienza cardiaca acuta, definita come la comparsa improvvisa di segni e sintomi secondari a disfunzione cardiaca sistolica o diastolica, può essere associata ad una malattia cardiaca pre-esistente, ad anomalie del ritmo o ad un “mismatch” del pre e del post-carico; questa condizione rappresenta una minaccia per la vita e necessita di un trattamento di emergenza. L’insufficienza cardiaca acuta può presentarsi come prima manifestazione di malattia in pazienti senza disfunzione cardiaca conosciuta precedentemente, o come riacutizzazione di un’insufficienza cardiaca cronica. Perciò, l’insufficienza cardiaca acuta comprende tre differenti gruppi di pazienti: 1) pazienti con un’insufficienza cardiaca “de novo” secondaria ad un fattore precipitante, come ad esempio un esteso infarto del miocardio o un improvviso aumento della pressione arteriosa in presenza di un ventricolo sinistro deficitario; 2) pazienti con peggioramento di un’insufficienza cardiaca cronica sistolica o diastolica; 3) pazienti che presentano un’insufficienza cardiaca avanzata o all’ultimo stadio, e vanno rapidamente incontro a deterioramento, con disfunzione ventricolare prevalentemente sistolica, scarsa risposta alla terapia medica e necessità di trattamenti non farmacologici.

EPIDEMIOLOGIA

L’insufficienza cardiaca è la principale causa di morbilità e mortalità nel mondo occidentale. La causa più comune di insufficienza cardiaca acuta è la malattia coronarica (~70%).I pazienti con insufficienza cardiaca acuta hanno una prognosi severa: la mortalità è particolarmente elevata (30% a 12 mesi) nell’infarto miocardico acuto associato ad insufficienza cardiaca grave. Dati simili sono stati riportati per l’edema polmonare acuto. Circa la metà dei pazienti ospedalizzati per insufficienza cardiaca acuta vengono nuovamente ricoverati almeno una volta (e il 15% almeno due volte) entro un anno. In questa popolazione, ogni evento acuto determina una riduzione progressiva della capacità funzionale (Figura 1), per cui gli sforzi terapeutici devono essere rivolti anche ad un’azione di cardioprotezione.

QUADRI CLINICI

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I sintomi e i segni nel paziente con insufficienza cardiaca acuta sono riconducibili: 1) alla diminuzione della portata cardiaca a riposo, fino a livelli che comportano ipoperfusione tissutale e riduzione del flusso renale; 2) all’aumento delle pressioni di riempimento ventricolari destre e sinistre con conseguente congestione sistemica e polmonare. Tali sintomi e segni, sommandosi in vario modo, compongono i diversi quadri clinici, correlati anche alle differenti cause di base, agli eventi scatenanti, alla rapidità di insorgenza e alla gravità (Figura 2).LA DISPNEASintomo base dello scompenso acuto del ventricolo sinistro è la dispnea, che consiste in una sensazione di sforzo o fatica nel respirare e può essere associata a fame d’aria. È la conseguenza della congestione polmonare, dovuta alle aumentate pressioni intracavitarie nelle sezioni sinistre del cuore, che provoca aumento del contenuto idrico extravascolare polmonare, riducendo la distensibilità polmonare e aumentando il lavoro dei muscoli respiratori. Nell’insufficienza cardiaca acuta la dispnea assume spesso le caratteristiche di ortopnea e dispnea parossistica notturna.L’ortopnea è la necessità di mantenere il torace in posizione eretta per evitare l’insorgenza della dispnea o ridurne l’entità. La posizione supina, infatti, aumenta il ritorno venoso al cuore e quindi peggiora la congestione polmonare. La dispnea parossistica notturna è caratterizzata da manifestazioni accessionali, durante le quali il paziente avverte una sensazione di mancanza di aria ed è costretto a sedersi sul letto con i piedi penzoloni o a portarsi alla finestra alla ricerca di aria. In alcuni casi compare tosse stizzosa e respiro sibilante dovuto a broncostenosi (asma cardiaco). L’EDEMA POLMONAREL’edema polmonare è il quadro più grave dello scompenso cardiaco acuto, e viene provocato dall’accumulo di liquido nello spazio extravascolare polmonare. Il passaggio di liquido dal capillare all’interstizio e viceversa è, in condizioni normali, governato da due fattori: la pressione idrostatica del sangue capillare, che tende a far fuoriuscire la parte liquida del sangue, e la pressione osmotica delle proteine plasmatiche, (pressione oncotica) che tende, invece, a trattenere il liquido dentro il vaso. Quest’ultima corrisponde a una pressione di circa 25 mm Hg. Quando la pressione all’interno dei capillari polmonari aumenta al di sopra dei 25 mmHg, si realizza dapprima la trasudazione e l’accumulo di liquido nell’interstizio (edema interstiziale); il sistema linfatico si adopera quindi ad allontanare il trasudato, ma quando la sua capacità di drenaggio viene superata il liquido invade gli alveoli (edema alveolare), compromettendo la funzione polmonare, sia da un punto di vista meccanico che degli scambi gassosi. La compromissione respiratoria genera ipossiemia e acidosi, le quali provocano un ulteriore peggioramento della funzione cardiaca, riducendo la portata ed aumentando la pressione capillare polmonare. La riduzione della portata cardiaca, inoltre, attiva il sistema adrenergico che, attraverso la vasocostrizione cutanea, muscolare e splancnica, tende a mantenere un’adeguata perfusione cerebrale e cardiaca, ma d’altro canto induce tachicardia, ipertensione, pallore e contrazione della diuresi. L’aumento delle resistenze vascolari periferiche determina un incremento del carico di lavoro in un cuore già insufficiente, e peggiora la performance cardiaca provocando un’ulteriore riduzione della portata; si innesca quindi un circolo vizioso, sino a quando la portata crolla al di sotto dei valori minimi necessari per mantenere una normale perfusione cardiaca e cerebrale, e s’instaura il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22). Il paziente affetto da edema polmonare acuto non sta disteso ma seduto sul letto, fortemente agitato, madido di sudore, dispnoico e tachipnoico, con respiro rumoroso e gorgogliante; la sua cute è fredda e sudata, e può essere presente cianosi alle labbra e alle estremità. Al torace si ascoltano alle basi polmonari rantoli crepitanti, che con l’aumentare della quantità di liquido trasudato arrivano ad interessare tutto l’ambito polmonare, come una “marea montante”, accompagnati da escreato schiumoso ed eventualmente rosato. Se non si interviene con un trattamento tempestivo, l’edema polmonare tende a peggiorare progressivamente sino all’arresto del respiro, oppure evolve verso lo shock (shock cardiogeno) e l’arresto di circolo, con esito fatale.L’esame fisico del paziente con insufficienza cardiaca acuta permette di rilevare segni a carico dell’apparato cardiovascolare, dell’apparato respiratorio, del fegato e dell’addome, della cute, dei reni. La pressione arteriosa può essere elevata, soprattutto la diastolica, per effetto della vasocostrizione arteriolare. Quando però la gittata sistolica è diminuita, anche i valori tensivi sistemici si riducono, sino a raggiungere valori minimi nello shock cardiogeno. La pressione venosa centrale è solitamente elevata: si può valutare osservando il grado di turgore delle vene giugulari con il paziente in posizione semiseduta (a 45°). La cute può apparire pallida, umida di sudore e fredda per la costrizione dei vasi cutanei come meccanismo compensatorio dell’ipoperfusione periferica; nei casi più gravi può comparire cianosi. I segni di ipoperfusione renale sono rappresentati dall’oliguria (meno di 500-600 ml nelle 24 ore) unitamente all’aumento dell’azotemia e della creatininemia. Quando la gittata cardiaca è gravemente ridotta, si può arrivare fino all’anuria (< 100 ml nelle 24 ore).L’edema periferico può essere presente soprattutto nei casi di peggioramento di una condizione cronica; esso è dovuto all’aumento di pressione venosa sistemica, ma anche e soprattutto alla ritenzione idrosalina.L’esame obiettivo cardiaco può mostrare i segni della cardiopatia che sta alla base dello scompenso. La frequenza cardiaca è solitamente elevata (per effetto dell’ipertono simpatico) e all’ascoltazione è spesso presente un ritmo di galoppo, dovuto alla presenza di un III tono cardiaco, meno spesso di un IV tono (vedi Capitolo 2). Altro segno ascoltatorio cardiaco nello scompenso può essere un soffio olosistolico puntale da insufficienza mitralica acuta. All’esame del torace, quando l’aumento della pressione nelle vene e nei capillari polmonari provoca trasudazione di liquido nel tessuto interstiziale polmonare, si possono ascoltare rumori umidi (rantoli crepitanti) . Il reperto obiettivo toracico coinvolge dapprima i campi polmonari basali, diffondendosi progressivamente ai campi superiori in seguito all’aggravarsi della condizione clinica ed in assenza di adeguato trattamento. Sfruttando i segni e i sintomi dei quadri clinici dell’insufficienza cardiaca acuta è stata formulata la classificazione di Killip, che suddivide i pazienti in quattro classi in base alla presenza di segni di congestione polmonare e periferica, segni di bassa portata, e segni di aumentato volume telediastolico ventricolare. La classe I è caratterizzata dall’assenza di segni clinici di insufficienza cardiaca. I criteri diagnostici per la II classe

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includono il riscontro di rantoli nella metà inferiore dei campi polmonari, terzo tono e ipertensione venosa polmonare. La classe III include pazienti con insufficienza cardiaca severa (rantoli estesi a tutti i campi polmonari o edema polmonare franco). La classe IV include i pazienti in shock cardiogeno, con pressione arteriosa sistolica = 90 mmHg, vasocostrizione periferica, oliguria e cianosi.Un’altra classificazione, basata sulla temperatura corporea (cute calda o fredda) e sul reperto ascoltatorio toracico (il paziente viene definito “umido” o “secco” a seconda che presenti rantoli o no), distingue quattro gruppi di crescente gravità clinica: il gruppo A comprende pazienti “caldi e secchi”, il gruppo B pazienti “caldi e umidi”, il gruppo L pazienti “freddi e secchi” e il gruppo C pazienti “freddi e umidi” (Figura 3). Lo shock cardiogeno può essere il quadro di esordio, soprattutto in caso di infarto miocardico, oppure la fase terminale di un’insufficienza cardiaca in rapido peggioramento: si manifesta quando la portata cardiaca scende al di sotto dei valori minimi necessari a mantenere la funzione degli organi vitali (vedi Capitolo 22).

DIAGNOSTICA STRUMENTALE

Tra le indagini di laboratorio, durante un episodio di insufficienza cardiaca acuta, bisognerà sempre eseguire, oltre agli esami di routine, la ricerca degli indici di necrosi miocardica. Può essere, inoltre, dosato il peptide natriuretico di tipo B (Brain Natriuretic Peptide-BNP, vedi Capitolo 14), che viene rilasciato dai ventricoli in risposta allo stiramento delle pareti e al sovraccarico di fluidi, ed è stato utilizzato per escludere o identificare la presenza di scompenso cardiaco congestizio. Di notevole importanza è l’emogasanalisi, che rivela dati sugli scambi gassosi e sullo stato metabolico del paziente.La radiografia del torace fornisce informazioni sia sulle dimensioni e la morfologia cardiaca, ma soprattutto sulla distribuzione del flusso polmonare. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso mostra aritmie o alterazioni dipendenti dalla cardiopatia di base.L’esame principe nell’inquadramento del paziente con insufficienza cardiaca acuta è l’ecocardiogramma, che valuta le dimensioni e i volumi delle cavità cardiache, gli spessori parietali, la cinesi globale e segmentale, la frazione di eiezione e la contrattilità. Si può analizzare la morfologia e la funzione degli apparati valvolari e di altre strutture quali il pericardio, il tratto prossimale dell’aorta e la vena cava inferiore. Inoltre si può esaminare la funzione diastolica, impiegando la registrazione con il Doppler pulsato del flusso transmitralico (Figura 4).

PRINCIPI DI TERAPIA

Gli obiettivi del trattamento a breve termine dei pazienti con insufficienza cardiaca acuta sono migliorare i sintomi e l’emodinamica, preservando la funzione renale e proteggendo il tessuto miocardico. La terapia dell’ insufficienza cardiaca acuta si prefigge, quindi, diverse finalità: ridurre la congestione, ridurre il postcarico, migliorare l’assetto neurormonale, migliorare la funzione cardiaca (Figura 5).I diuretici sono farmaci che aumentano l’eliminazione di sodio e acqua e perciò riducono la massa liquida circolante e il volume di liquido interstiziale. I diuretici più usati sono quelli dell’ansa ad azione rapida, (furosemide e torasemide), spesso in associazione con i risparmiatori di potassio. Tra i farmaci che riducono il precarico vi sono i vasodilatatori venosi, che ridistribuendo il volume ematico aumentano la capacità del distretto venoso, e sequestrano in questa sede parte della massa circolante, riducendo il riempimento cardiaco. I vasodilatatori venosi più importanti sono la nitroglicerina e il nitroprussiato, che ha un effetto anche sul versante arterioso. Gli ACE-inibitori sono farmaci che oltre a ridurre il precarico, favorendo anche una minor ritenzione di acqua e sali, migliorano l’assetto neuro-ormonale. Sono poco usati nello scompenso acuto. Al contrario, i farmaci che stimolano l’inotropismo, soprattutto dopamina, dobutamina e glicosidi digitatici, possono essere di grande aiuto nella fase acuta. Le due amine simpaticomimetiche, dopamina e dobutamina, agiscono soprattutto sui recettori beta-adrenergici, migliorando la contrattilità miocardica. La dopamina, precursore naturale della noradrenalina, è utile nel trattamento degli stati ipotensivi; a dosaggi molto bassi induce vasodilatazione dei vasi renali e mesenterici, per stimolazione dei recettori dopaminergici, aumentando così la diuresi e l’escrezione di sodio. A dosaggi più elevati la dopamina stimola i recettori ß1 miocardici, provocando una modesta tachicardia riflessa, mentre a dosaggi elevati stimola anche i recettori a-adrenergici, innalzando i valori tensivi sistemici. La dobutamina agendo sui recettori ß1, ß2 e a, possiede un potente effetto inotropo, abbassa le resistenze periferiche e determina un aumento di gittata cardiaca.I glicosidi digitalici agiscono bloccando la pompa sodio/potassio ATP-dipendente delle fibre miocardiche, con l’effetto ultimo di aumentare la disponibilità di calcio intracellulare per la contrazione. Oltre a ciò, riducono la frequenza cardiaca e rallentano la conduzione atrioventricolare (soprattutto per aumento del tono vagale), per cui sono utili in presenza di tachiaritmie sopraventricolari, soprattutto in corso di fibrillazione atriale.Recenti prospettive farmacologiche sono rappresentate dai nuovi inotropi come il levosimendan, che agisce tramite un duplice meccanismo di azione: aumenta la sensibilità delle miofibrille al calcio, tramite il legame con la troponina C, determinando quindi un effetto inotropo positivo senza aumentare il consumo miocardio di ossigeno, e attiva i canali vascolari del potassio ATP-dipendenti, provocando una vasodilatazione periferica.

Capitolo 21QUADRI CLINICI DELLO SCOMPENSO CARDIACO CRONICOLivio Dei Cas, Marco Metra, Savina Nodari QUADRI CLINICI

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Sono state proposte numerose classificazioni dello scompenso cardiaco. Pur peccando di un’eccessiva semplificazione e, spesso, di scarsa aderenza alla realtà, queste mantengono un loro valore soprattutto didattico. La distinzione più importante è quella tra scompenso cardiaco acuto e cronico. (vedi capitolo 20). Nell’ambito dello scompenso cardiaco cronico, mantengono un loro valore le distinzioni tra scompenso anterogrado e retrogrado, sinistro e destro, sistolico e diastolico.Secondo la teoria anterograda dello scompenso, l’origine dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’inadeguata portata cardiaca con insufficiente perfusione dei tessuti periferici. Viceversa, secondo la teoria retrograda, la causa dei sintomi e segni è da ricercarsi nell’incompleto svuotamento dei ventricoli. Questo causa un aumento della pressione intraventricolare che si ripercuote a monte sulle pressioni atriale, dei vasi venosi tributari ed, infine, intracapillari. L’aumento della pressione intracapillare causa trasudazione di liquido ed edema interstiziale e, nel caso del circolo polmonare, edema alveolare. La distinzione tra scompenso cardiaco sinistro e destro è un’estensione della precedente teoria retrograda. Nello scompenso sinistro predominano i sintomi da accumulo di fluidi a monte del ventricolo sinistro con congestione ed edema polmonare. Nello scompenso destro si ha, invece, congestione venosa sistemica ed epatica.La distinzione tra scompenso cardiaco sistolico e diastolico è essenzialmente basata sul riscontro o meno di bassi valori di frazione d’eiezione (<50%) in pazienti con sintomi di scompenso cardiaco. Tuttavia, anche nei pazienti con frazione d’eiezione normale sono presenti alterazioni di altri indici di funzione sistolica ventricolare sinistra e, viceversa, alterazioni della funzione diastolica sono costantemente presenti anche nei pazienti con bassa frazione d’eiezione. Per queste ragioni, si preferisce usare il termine di scompenso cardiaco con normale frazione d’eiezione piuttosto che quello di scompenso diastolico. I pazienti con normale frazione d’eiezione possono corrispondere a più del 50% dei pazienti ricoverati per scompenso cardiaco e la loro prognosi è sovrapponibile, o solo leggermente migliore, rispetto a quella dei pazienti con bassa frazione d’eiezione. I pazienti con normale frazione d’eiezione sono più spesso anziani, di sesso femminile ed affetti da ipertensione arteriosa.

SINTOMI

Dispnea. La dispnea rappresenta, insieme all’astenia, il sintomo più suggestivo di scompenso cardiaco. Nelle fase iniziali della malattia compare prevalentemente durante sforzi fisici, successivamente si presenta anche a riposo con le caratteristiche dell’ortopnea, della dispnea parossistica notturna e dell’edema polmonare acuto (vedi Capitolo 1). La dispnea viene descritta come una spiacevole sensazione di difficoltà nel respirare. Viene comunemente avvertita da qualsiasi persona in occasione di uno sforzo fisico intenso. Nel paziente con scompenso cardiaco vi è una riduzione del grado di attività associata con questo disturbo. Tanto maggiore è la severità dello scompenso cardiaco, tanto minore è l’entità dello sforzo che causa la dispnea. Su questo è basata la classificazione della New York Heart Associaton (Tabella I).La dispnea del paziente con scompenso cardiaco viene tradizionalmente attribuita all’aumento delle pressioni capillari polmonari con edema interstiziale ed alveolare. In realtà la correlazione con la compromissione della funzione ventricolare sinistra, soprattutto a riposo, è scarsa o nulla. Meccanismi che contribuiscono a causare dispnea nei pazienti con scompenso cardiaco sono l’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo con ipoperfusione dei muscoli scheletrici, che eseguono lo sforzo, ed ipoperfusione dei muscoli respiratori, decondizionamento della muscolatura scheletrica, ridotta compliance polmonare, aumento della resistenza delle vie aeree, eccessiva risposta ventilatoria allo sforzo. Ortopnea. L’ortopnea viene definita come la comparsa di dispnea in posizione supina con sua regressione sollevando la testa, in posizione seduta. Compare rapidamente, entro pochi minuti dall’assunzione della posizione supina. E’ dovuta alla ridistribuzione del volume ematico, con aumento del ritorno venoso e del precarico e congestione polmonare. Dispnea parossistica notturna. Differentemente dall’ortopnea, essa compare durante il sonno, causando il risveglio del paziente con una sensazione di soffocamento e fame d’aria. Questi sintomi spesso si riducono con la posizione seduta, spesso sul bordo del letto. Obiettivamente, sono spesso presenti fischi espiratori da broncospasmo per edema della mucosa bronchiale e compressione dei bronchioli per edema interstiziale. Edema polmonare acuto (vedi Capitolo 20)Astenia e affaticabilità. Astenia e facile affaticabilità sono secondari all’insufficiente incremento della portata cardiaca sotto sforzo. La ridotta risposta vasodilatatrice periferica, le alterazioni biochimiche ed istologiche e l’ipotrofia della muscolatura scheletrica sono altri meccanismi patogenetici. L’importanza relativa dei meccanismi muscolari scheletrici, “periferici”, rispetto al meccanismo “centrale”, la riduzione della portata cardiaca, varia da paziente a paziente. Così come anche la dispnea, astenia ed affaticabilità sono sintomi non specifici, che possono essere causati da numerose malattie non cardiovascolari.Nicturia ed oliguria. La nicturia (eliminazione di urina prevalentemente nelle ore notturne), è dovuta all’aumento di perfusione renale durante la notte, col decubito supino. L’oliguria è un sintomo delle fasi avanzate dello scompenso cardiaco, secondario ad ipoperfusione renale. Sintomi gastroenterici. L’aumento della pressione venosa sistemica, presente soprattutto quando vi è disfunzione ventricolare destra, determina epatomegalia con conseguente distensione della capsula epatica e dolenzia all’ipocondrio destro, talvolta descritta come tensione addominale e senso di pienezza dopo i pasti. Questi pazienti possono avere anche anoressia, difficoltà digestive e nausea. Sintomi cerebrali. L’ipoperfusione cerebrale cronica secondaria alla bassa portata cardiaca può causare vertigini, cefalea, sonnolenza, insonnia o altri sintomi cerebrali. Questi sono più frequenti nei pazienti anziani con coesistente aterosclerosi cerebrale.

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SEGNI CLINICI

La maggior parte dei segni clinici sono conseguenza della ritenzione idrico-salina. Alcuni di essi (stasi giugulare, ritmo di galoppo) hanno un importante valore prognostico. Aspetto generale. E’ normale nella maggior parte dei pazienti con scompenso cardiaco cronico;. nelle fasi più avanzate di scompenso, tuttavia, il paziente potrà essere dispnoico a riposo e presentare ortopnea e segni di attivazione adrenergica come cute pallida, fredda, sudata e cianotica.Obiettività cardiaca. Il reperto di un terzo tono (galoppo proto diastolico) all’auscultazione è indicativo di un aumento della pressione atriale sinistra con brusca decelerazione del sangue all’interno del ventricolo sinistro immediatamente dopo la fase di riempimento rapido (vedi Capitolo 2). E’ molto raramente udibile in soggetti normali adulti. Un soffio olosistolico da insufficienza mitralica e/o da insufficienza tricuspidale è spesso udibile. In caso d’ipertensione polmonare si può anche evidenziare un’accentuazione della componente polmonare del 2° tono.Polsi periferici. La pressione arteriosa sistolica e l’ampiezza dei polsi periferici, espressione della pressione differenziale, tendono ad essere ridotte nei pazienti con scompenso cardiaco severo e bassa portata cardiaca. Stasi polmonare. L’edema alveolare causa la comparsa di rantoli a piccole bolle, crepitanti. Questi si evidenziano generalmente alle basi di entrambe i polmoni oppure, inizialmente, soltanto alla base destra. Nei casi di maggiore gravità tendono ad estendersi verso gli apici fino ai reperti dell’edema polmonare.Versamento pleurico. Anche questo si evidenzia ad entrambe le basi o, nei casi meno gravi, solo alla base destra. Dato che le vene pleuriche drenano sia nelle vene polmonari che in quelle sistemiche, la sua comparsa è frequente soprattutto nei casi d’ipertensione di entrambe questi distretti venosi. Stasi giugulare. L’ispezione del polso venoso giugulare è il migliore metodo non strumentale per valutare la presenza di ipertensione venosa sistemica. L’ispezione va eseguita dal lato destro del collo in quanto qui vena giugulare interna ed anonima si continuano, in modo pressoché rettilineo, nella vena cava superiore, favorendo la trasmissione delle onde sfigmiche originate dall’atrio destro. Per esaminare il polso giugulare, la testa del paziente deve essere adagiata su un cuscino ed il tronco inclinato di 45° (vedi Capitolo 2). Il reflusso epato-giugulare (distensione delle vene del collo dopo compressione per almeno un minuto in ipocondrio destro) è segno di congestione epatica con, nello stesso tempo, incapacità del ventricolo destro a ricevere ed eiettare l’ aumentato ritorno venoso.Epatomegalia. E’ dovuta a congestione venosa epatica ed è apprezzabile alla palpazione e percussione dell’ipocondrio destro. Ascite. È un segno tardivo di grave ipertensione venosa sistemica, dovuto ad un aumento della pressione nelle vene epatiche ed in quelle drenanti il peritoneo con possibile associato aumento della permeabilità dei capillari peritoneali.Edema. Gli edemi compaiono piuttosto tardivamente. Per avere la loro comparsa, si deve verificare l’accumulo di almeno 4 litri di volume extracellulare in eccesso. Gli edemi dello scompenso cardiaco sono simmetrici e si manifestano nelle parti declivi del corpo dove maggiore è la pressione idrostatica nei vasi venosi (piedi, caviglie, zona pre-tibiale). Inizialmente, compaiono soprattutto alla sera, dopo che il paziente è rimasto in piedi durante il giorno, e regrediscono con il riposo notturno. Nei pazienti costretti a letto compaiono a livello sacrale. Nelle fasi avanzate l’edema tende a generalizzarsi (anasarca). Cachessia cardiaca. Compare nelle fasi avanzate di scompenso ed è associata con una prognosi severa. La genesi di tale fenomeno è multifattoriale: congestione epatica ed intestinale con malassorbimento intestinale per grassi e proteine; aumentato metabolismo basale per maggiore lavoro respiratorio, aumento del consumo miocardico di ossigeno; elevate concentrazioni plasmatiche di citochine.

ESAMI STRUMENTALI

Elettrocardiogramma. Un ECG normale non è frequente in un paziente con scompenso cardiaco cronico, ma non esiste alcun quadro elettrocardiografico che indichi, di per sé, la presenza di scompenso; tuttavia un QRS con durata >120 ms, specialmente associato a un blocco di branca sinistra, suggerisce la probabilità di una disfunzione ventricolare . Radiografia del torace. La radiografia del torace è utile nell’evidenziare cardiomegalia, congestione polmonare ed eventuali patologie polmonari associate. Esami di laboratorio. La valutazione di routine include: emocromo, elettroliti sierici, creatininemia, glicemia, enzimi epatici ed esame delle urine. La funzione tiroidea può essere valutata se indicata in base ai reperti clinici.Gli esami ematochimici hanno un importante significato prognostico. L’anemia è presente in un 20-30% dei pazienti,. ed è più frequente nei pazienti con scompenso cardiaco più grave . La sua patogenesi è multifattoriale: insufficienza renale, terapia con ACE inibitori, attivazione infiammatoria cronica, etc. L’iposodiemia è dovuta a dliluizione con ritenzione idrica maggiore di quella salina. E’ almeno parzialmente dovuta ad aumentata secrezione di vasopressina. L’ipokaliemia può verificarsi come conseguenza della terapia con diuretici dell’ansa o tiazidici, oltre che per aumentata secrezione di aldosterone. Va corretta in quanto possibile causa di aritmie, anche fatali. L’iperkaliemia può svilupparsi per insufficienza renale e/o terapia con antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone.L’insufficienza renale con aumento della creatininemia ed azotemia è secondaria ad ipoperfusione renale. Può essere favorita dalla terapia medica (diuretici, antiinfiammatori non steroidei, aspirina, antagonisti del sistema renina-angiotensina-aldosterone). Le concentrazioni plasmatiche di BNP e di NT-proBNP sono utili nella diagnosi di scompenso cardiaco. Concentrazioni normali di peptici natriuretici in un paziente non trattato rendono la diagnosi di scompenso poco probabile. Oltre allo scompenso cardiaco, altre condizioni cliniche, come l’ipertrofia ventricolare sinistra, l’ischemia miocardica, l’ipertensione e l’embolia polmonare possono causare un rialzo dei livelli plasmatici di peptici natriuretici.

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Ecocardiografia Doppler. E’ la procedura diagnostica di prima scelta per documentare una disfunzione cardiaca. Il parametro più importante di funzione ventricolare è la frazione d’eiezione ventricolare sinistra, misurata dal rapporto fra la gittata sistolica e il volume telediastolico. In pratica, si sottrae dal volume telediastolico il volume telesistolico, ottenendo la gittata sistolica, e si divide questa per il volume telediastolico. La frazione di eiezione viene utilizzata per discriminare i pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica da quelli con conservata funzione sistolica. L’aumento dei volumi telesistolico e telediastolico ventricolare sinistro è un’altra caratteristica dei pazienti con scompenso cardiaco dovuto a disfunzione ventricolare sistolica. La misurazione combinata del flusso trans-mitralico e della velocità di spostamento dell’anulus mitralico mediante Eco-Doppler tessutale cardiaco permette una valutazione della severità della disfunzione diastolica ventricolare sinistra. Più spesso, la funzione diastolica è valutata mediante lo studio del solo flusso trans mitralico. I tre quadri di riempimento mitralico, alterato rilasciamento, pseudo-normale e restrittivo, corrispondono rispettivamente, ad una disfunzione diastolica di grado lieve, moderato e grave (vedi capitolo 4).Oltre allo studio della funzione ventricolare, l’eco-Doppler permette anche di evidenziare un’eventuale insufficienza mitralica e/o tricuspidale, frequentemente presenti in questi pazienti, o anche altre alterazioni (es. una stenosi aortica) che possono avere causato lo scompenso cardiaco.Risonanza magnetica (RM) cardiaca. E’ una tecnica estremamente accurata e riproducibile per la valutazione dei volumi ventricolari destro e sinistro, della funzione ventricolare sinistra globale e regionale, dello spessore miocardico, della rigidità di parete, della massa miocardica e delle valvole cardiache (vedi Capitolo 7).. E’ limitata dalla sua attuale non applicabilità ai portatori di pacemaker o di defibrillatore automatico.Prove di funzionalità respiratoria. La spirometria è utile nell’escludere cause polmonari della dispnea e nel valutare la gravità di una patologia polmonare concomitante. Coronarografia. E’ indicata nei pazienti con concomitante angina, o, comunque, segni d’ischemia miocardica. Test da sforzo cardiopolmonare. E’ utile per quantificare la severità della malattia e nella valutazione prognostica. (vedi Capitolo 9)

PRINCIPI DI TERAPIA

Obiettivi. La terapia si propone di migliorare i sintomi e la qualità di vita e/o di migliorare la prognosi (riduzione della mortalità e delle ospedalizzazioni). Un altro fondamentale obiettivo è la prevenzione della disfunzione cardiaca nei pazienti a rischio (esiti d’infarto, ipertensione arteriosa, valvulopatie, diabete, etc) e la prevenzione dello scompenso cardiaco conclamato (comparsa dei sintomi) nei pazienti con disfunzione cardiaca. Il trattamento dello scompenso cardiaco cronico si basa su farmaci da somministrarsi per migliorare la prognosi e farmaci volti al miglioramento dei sintomi. Alla prima categoria appartengono gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone ed i beta-bloccanti, alla seconda i diuretici e la digitale.ACE inibitori. Gli ACE inibitori sono raccomandati come terapia di prima scelta nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica, con o senza sintomi. L’indicazione a questi farmaci è basata su ampi studi controllati con placebo che hanno dimostrato un miglioramento della sopravvivenza, sintomi, capacità funzionale ed una riduzione delle ospedalizzazioni nei pazienti trattati con questi farmaci. I loro effetti favorevoli sembrano essere principalmente ascrivibili al rallentamento, se non inibizione, dei fenomeni di rimodellamento ventricolare sinistro ed, in minore misura, alla prevenzione di nuovi eventi ischemici e delle aritmie. Beta-bloccanti. In assenza di controindicazioni, i beta-bloccanti devono essere somministrati a tutti i pazienti con scompenso cardiaco cronico, in condizioni di stabilità clinica. La loro efficacia è stata dimostrata in pazienti con scompenso cardiaco di grado lieve, moderato e severo (classe NYHA dalla II alla IV), dovuta a cardiopatia ischemica o non-ischemica e con ridotta frazione d’eiezione ventricolare sinistra, già in trattamento con diuretici e ACE inibitori, nonché in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra postinfartuale, con o senza sintomi di scompenso. In questi pazienti, gli studi clinici controllati hanno dimostrato una riduzione della mortalità, ospedalizzazioni ed episodi di peggioramento dello scompenso cardiaco ed un miglioramento della classe funzionale con la terapia beta-bloccante, rispetto al placebo. Antialdosteronici. Gli antagonisti dell’aldosterone sono raccomandati, in aggiunta all’ACE-inibitore, al beta-bloccante e al diuretico, nello scompenso cardiaco avanzato (NYHA III-IV) per migliorare la sopravvivenza, morbilità e classe funzionale. Bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II. I bloccanti dei recettori dell’Angiotensina II hanno effetti simili o equivalenti agli ACE inibitori sulla mortalità e sulla morbilità dei pazienti con scompenso cardiaco cronico e dei pazienti con recente infarto. Possono essere quindi usati in alternativa agli ACE inibitori nei casi di intolleranza a questi (tosse, edema angioneurotico). Hanno avuto anche effetti favorevoli sulle ospedalizzazioni e sulla mortalità in associazione agli ACE inibitori in pazienti ancora sintomatici per scompenso. Diuretici. I diuretici sono essenziali per il trattamento sintomatico dello scompenso cardiaco in presenza di ritenzione idrica con congestione polmonare e/o congestione venosa giugulare e/o edemi declivi. Eccetto che nelle forme di scompenso cardiaco lieve, in cui si possono impiegare anche i tiazidici, vanno preferiti i diuretici dell’ansa (furosemide, torasemide, bumetanide). Vanno somministrati alle dosi minime necessarie per mantenere il paziente libero da segni di ritenzione idrico-salina. La loro somministrazione favorisce l'attivazione dei sistemi renina-angiotensina-aldosterone e simpatoadrenergico, il peggioramento della funzione renale ed alterazioni elettrolitiche (ipokaliemia), tutti effetti potenzialmente dannosi per il paziente con scompenso cardiaco. I diuretici risparmiatori di potassio (amiloride, triamterene, spironolattone) possono essere associati agli altri diuretici per il trattamento dell’ipokaliemia. Lo spironolattone ha altri effetti favorevoli indipendenti da quello diuretico (vedi sopra). Glucosidi digitalici. Sono indicati nei pazienti con fibrillazione atriale e scompenso cardiaco sintomatico. Nei pazienti in ritmo sinusale la digossina non ha effetti sulla mortalità ma riduce le ospedalizzazioni, in particolare quelle per scompenso cardiaco.

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Altri farmaci. Altri farmaci frequentemente impiegati nei pazienti con scompenso cardiaco sono i nitrati, per il trattamento dell’ischemia miocardica e migliorare i sintomi, gli anticoagulanti, specialmente nei pazienti con concomitante fibrillazione atriale o precedenti episodi embolici, gli antiaggreganti piastrinici, nei casi con cardiopatia ischemica, l’amiodarone, per il trattamento o profilassi delle tachiaritmie. L’impianto del defibrillatore automatico e la terapia di resincronizzazione ventricolare con pacemaker biventricolare sono indicati in pazienti selezionati.

Sezione VI. Cardiopatia Ischemica

Capitolo 23FISIOPATOLOGIA DELL'ISCHEMIA MIOCARDICAFilippo Crea, Gaetano A. Lanza METABOLISMO DELLE CELLULE MIOCARDICHE

Per svolgere la loro funzione contrattile, le cellule miocardiche necessitano di un apporto continuo di ossigeno. Il loro metabolismo, infatti, è prettamente aerobico e già di base comporta l’estrazione di circa il 70% dell'ossigeno dal sangue durante il suo passaggio nel circolo coronarico. Ne deriva che un aumento significativo della richiesta di ossigeno può essere soddisfatto solo da un adeguato incremento del flusso coronarico (Figura 1).Poiché la maggior parte dell’energia richiesta dalle cellule miocardiche è impiegata nel processo di contrazione, la frequenza cardiaca (FC) costituisce il fattore principale del consumo miocardico di ossigeno. Di fatto, un raddoppio della sola FC (ad esempio, durante pacing atriale) comporta un raddoppio del consumo miocardico di ossigeno. Altri fattori che influenzano in modo significativo il consumo miocardico di ossigeno sono la pressione arteriosa (PA, postcarico), la pressione e il volume ventricolare in diastole (precarico) e l’inotropismo cardiaco.Durante esercizio, l’incremento della FC, della PA, dell’inotropismo cardiaco e del ritorno venoso (precarico) contribuiscono tutti ad aumentare il consumo miocardico di ossigeno, e quindi la richiesta di un aumento del flusso coronarico (Figura 2). Mentre la misurazione precisa del consumo miocardico di ossigeno richiederebbe metodi invasivi, una valutazione non invasiva approssimata, ma attendibile, è data dal prodotto FC x PA sistolica (doppio prodotto), largamente utilizzato nella pratica clinica per stimare il consumo miocardico di ossigeno, in particolare il suo incremento durante sforzo.

LA CIRCOLAZIONE ARTERIOSA CORONARICA

Dal punto di vista fisiologico, la circolazione arteriosa coronarica può essere distinta in tre principali compartimenti, collegati in serie (Figura 3).Il compartimento prossimale è costituto dalle arterie di capacitanza epicardiche, che hanno funzione conduttiva e non oppongono resistenza significativa al flusso, per cui la pressione rimane sostanzialmente costante lungo il loro decorso. Durante la contrazione miocardica il sangue viene spinto in senso retrogrado dai vasi intramiocardici verso i vasi epicardici, il cui contenuto aumenta quindi di circa il 25%. L'energia elastica accumulata durante la sistole si trasforma in energia cinetica durante la diastole, contribuendo a garantire un adeguato flusso coronarico in questa fase. Le arterie coronarie di conduttanza modificano il loro tono in risposta a variazioni di flusso, il cui aumento causa una dilatazione endotelio-dipendente dei vasi, e per effetto di sostanze vasoattive locali o circolanti e di stimoli neurogeni.I vasi distali sono vasi di resistenza ed hanno dimensioni inferiori a 0.5 mm. Per le loro dimensioni, questi vasi non sono visibili all’angiografia coronarica e costituiscono la vasta area del microcircolo coronarico. Dal punto di vista funzionale, le piccole arterie cardiache possono essere divise in due distretti, uno prossimale, rappresentato dalle prearteriole, ed uno distale, rappresentato dalle arteriole. Le prearteriole hanno dimensioni di 100-500 µm e contribuiscono per il 25-30% alla resistenza coronarica totale. La loro funzione principale è di mantenere la pressione di perfusione all'origine delle arteriole a livelli ottimali. A tale scopo vanno incontro a vasocostrizione miogena in presenza di un aumento, e a vasodilatazione in caso di riduzione, della pressione arteriosa sistemica. Le arteriole hanno dimensioni <100 µm di diametro e contribuiscono per il 40% circa alla resistenza coronarica. Esse sono la sede della regolazione metabolica del flusso coronarico. Per la loro posizione, infatti, esse risentono dell’attività metabolica delle cellule miocardiche, modificando il loro tono vasale in modo da adattare il flusso coronarico alle richieste energetiche. Così, le arteriole si dilatano in caso di un aumento del metabolismo cardiaco, che comporta un’aumentata richiesta di ossigeno, consentendo un adeguato aumento di flusso. Nei casi di maggiore richiesta di ossigeno miocardico, la riduzione massimale della resistenza coronarica consente un aumento anche di 4-5 volte del flusso coronarico, e quindi dell’apporto di ossigeno, come nel caso di sforzi intensi. La capacità di aumento massimale del flusso coronarico rispetto al basale costituisce la cosiddetta riserva coronarica (che è espressa matematicamente come rapporto tra flusso durante vasodilatazione massimale e flusso basale). Oltre che dallo stato metabolico delle cellule miocardiche, comunque, il tono delle arteriole è anch’esso modulato da fattori autacoidi locali, da sostanze vasoattive circolanti e da stimoli neurogeni.

CONTROLLO DEL FLUSSO CORONARICO

Diversi fattori contribuiscono alla complessa regolazione del flusso coronarico.

Forze meccaniche extravascolari

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Una caratteristica esclusiva del cuore è che esso stesso genera la pressione di perfusione del suo sistema arterioso. Durante la sistole le forze extravascolari intramiocardiche superano quella intravascolari: i vasi intramiocardici vengono, quindi, occlusi e il sangue in parte addirittura espulso verso i vasi epicardici. Il flusso anterogrado è quindi praticamente abolito durante la sistole, soprattutto negli strati subendocardici, che ricevono quindi sangue esclusivamente in diastole (Figura 4).

Regolazione del tono vascolare coronaricoI fattori che contribuiscono a regolare il tono vascolare coronarico, e quindi il flusso coronarico, sono numerosi e possono variare nei diversi compartimenti arteriosi.a) La regolazione miogenica fa sì che il tono vasale arterioso aumenti quando la pressione arteriosa aumenta, mentre si riduce quando la pressione decresce, ed ha, quindi, lo scopo di mantenere costante il flusso in proporzione alle variazioni della pressione di distensione del vaso. Essa sembra esplicarsi soprattutto nelle prearteriole. b) La regolazione metabolica del tono vascolare avviene a livello delle arteriole. L’aumento della domanda di ossigeno causa il rilascio, da parte dei miocardiociti, di sostanze vasodilatatrici che determinano dilatazione arteriolare, consentendo così l’aumento del flusso. Tra le sostanze implicate nella regolazione del flusso coronarico, un ruolo rilevante sembra essere svolto dall'adenosina, che, con l'aumento del metabolismo energetico, viene prodotta in maggiori quantità dai miocardiociti, in seguito alla maggiore scissione delle molecole di adenosin trifosfato (ATP). L’adenosina agisce sui recettori adenosinici A2 delle cellule muscolari lisce vascolari, attivando l'adenilato-ciclasi intracellulare, che determina la produzione di AMP ciclico. Altri fattori, tuttavia, possono contribuire alla vasodilatazione metabolica (pressione tissutale di ossigeno, pH, concentrazione di potassio, pressione osmotica, attivazione dei canali ATP-sensibili del potassio, bradichinina). L'aumento del flusso conseguente alla vasodilatazione arteriolare può continuare ad essere garantito grazie anche alla vasodilatazione flusso-mediata, in larga parte endotelio-dipendente, che si determina nei vasi prossimali, in particolare nelle pre-arteriole, come conseguenza dell’aumento della velocità di flusso.c) La regolazione neurogenica del tono vasale è dovuta agli effetti esplicati sui vasi dal sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico.La stimolazione simpatica causa un aumento del tono vasomotore e della resistenza coronarica tramite stimolazione dei recettori 1 2 da parte della noradrenalina. Un -tono sembra presente già in condizioni di riposo, in quanto la somministrazione di -bloccanti causa un aumento di circa il 10% del flusso coronarico basale. D’altro canto, la stimolazione dei recettori ß1 e ß2 determina una vasodilatazione, con riduzione del 20-30% della resistenza coronarica. L’effetto complessivo della stimolazione adrenergica in vivo (ad esempio, durante uno sforzo) è comunque quello di un aumento del flusso coronarico. Ciò è soprattutto secondario all'aumento del consumo miocardico di ossigeno che essa determina, con conseguente vasodilatazione metabolica.Il ruolo del sistema nervoso parasimpatico nella regolazione del circolo coronarico non è completamente chiaro: in vivo la stimolazione vagale tende a determinare un aumento del tono vasomotore, soprattutto come effetto secondario alla bradicardia ed alla conseguente riduzione del consumo miocardico di ossigeno.d) Un ruolo molto importante è svolto dalla regolazione endotelio-mediata del circolo coronarico, diventata evidente in anni recenti. Molti studi hanno infatti dimostrato che l'endotelio può essere considerato come un vero e proprio organo endocrino, in grado di produrre numerose sostanze, alcune delle quali svolgono un ruolo cruciale nella regolazione del flusso sanguigno (vedi Capitolo 47).Le principali sostanze prodotte dall’endotelio hanno anzitutto attività vasodilatatrice, e comprendono l'endothelium-derived relaxing factor (EDRF), la prostaciclina (PGI2) e l'endothelium-derived hyperpolarizing factor (EDHF) (Figura 5, Figura 6).L'EDRF ha emivita breve (5 secondi) ed è stato identificato con l'ossido nitrico (NO). Esso agisce attivando la guanilato-ciclasi delle cellule muscolari lisce, che risulta nella fomazione di guanosin-monofosfato ciclico (cGMP). L’EDRF sembra avere un ruolo nel determinare il tono vascolare basale; la somministrazione dell’inibitore NG-monometil-L-arginina, infatti, riduce il flusso ematico a vari livelli. Molte sostanze vasoattive (ad esempio, acetilcolina, serotonina, bradichinina) esercitano il loro effetto vasodilatatore determinando il rilascio di EDRF da parte delle cellule endoteliali (vasodilatazione endotelio-mediata). L'EDRF, inoltre, sembra essere la sostanza principalmente responsabile della vasodilatazione che si ottiene in risposta all'aumento del flusso coronarico (vasodilatazione flusso-mediata). La PGI2 è una prostaglandina, derivata dall'acido arachidonico. Ha anch’essa emivita breve (10 secondi) ed è rilasciata in risposta alla pressione pulsatile e a diverse sostanze (ad esempio., bradichinina, trombina, serotonina). Sembra contribuire anch'essa al tono vasale basale e alla vasodilatazione flusso mediata. L'EDHF non è stato ancora ben identificato chimicamente; probabilmente deriva anch'esso dall'acido arachidonico ed ha emivita breve. Dati sperimentali suggeriscono che esso causi vasodilatazione mediante apertura dei canali del potassio e conseguente iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce. Sembra venire anch'esso rilasciato in risposta allo shear stress ed al flusso pulsatile, oltre che a diverse sostanze (ad es., acetilcolina, sostanza P, bradichinina, CGRP).Le cellule endoteliali, tuttavia, sintetizzano anche sostanze vasocostrittrici, in particolare l'endotelina-1 (ET-1), l'angiotensina II, l'endothelium-derived contracting factor (EDCF) e la prostaglandina H2, oltre ai radicali liberi dell'ossigeno (Figura 5, Figura 6). Se queste sostanze abbiano un qualche ruolo nella regolazione fisiologica del circolo coronarico non è chiaro. Viceversa, l’attività vasocostrittrice dell’endotelio (attivazione dell’endotelio) può aumentare in alcune condizioni patologiche (per esempio, ipertensione arteriosa, diabete, aterosclerosi, ischemia miocardia, scompenso cardiaco), contribuendo ai loro effetti negativi.L’ET-1, in particolare, è il più potente vasocostrittore conosciuto nell'uomo, agisce su due tipi di recettori principali, ETA ed ETB. L’azione vasocostrittrice è svolta mediante stimolazione dei recettori ETA sulle cellule muscolari lisce. La stimolazione di recettori ETB sulle cellule endoteliali, d’altro canto, induce rilascio di NO ed inibisce quello di ET-1, tendendo a contrastare così gli effetti vasocostrittori dell’ET-1.

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Integrità della parete vasaleLo svolgimento di un normale flusso coronarico comporta l’integrità della parete vasale. Ancora una volta, è soprattutto l'endotelio a garantire questa integrità. Esso, infatti, previene la diffusione di sostanze aterogene nella parete arteriosa, produce costituenti della lamina basale e della matrice extracellulare dell'intima (che possono riparare danni vasali), ed inibisce la crescita e la migrazione cellulare mediante la sintesi di eparan-solfato ed NO (Figura 6). L'endotelio ha inoltre un ruolo chiave nel preservare la fluidità del sangue, in quanto il suo rivestimento interno con proteoglicani forma una barriera elettronegativa che previene l'adesione delle piastrine e delle altre cellule circolanti. La sintesi di NO e PGI2, inoltre, ostacola l'adesione e l'aggregazione piastrinica. Infine, le cellule endoteliali secernono diverse sostanze con attività anticoagulante, come l'eparan-solfato, che catalizza l'inattivazione della trombina da parte dell'antitrombina III, e la trombomodulina, che si lega a trombina e proteina C, e sostanze in grado di attivare il plasminogeno, e quindi la fibrinolisi, come lo urokinase type plasminogen activator (u-PA) ed il tissue type plasminogen activator (t-PA).

DEFINIZIONE

L’ischemia miocardica si verifica quando il flusso coronarico risulta inadeguato a soddisfare le richieste di ossigeno e sostanze metaboliche necessarie alle cellule miocardiche per svolgere le proprie funzioni. Quando sufficientemente grave e prolungata, l’ischemia determina la necrosi delle cellule stesse. Questa, in caso di occlusione acuta di un vaso coronarico, interessa progressivamente prima gli strati subendocardici, più sensibili al danno ischemico (vedi più avanti) e solo più tardivamente quelli subepicardici.L’ischemia miocardica può essere causata da due principali meccanismi, che possono, tuttavia, combinarsi tra loro nel determinare gli episodi ischemici: (1) impossibilità di aumentare in modo adeguato il flusso coronarico per soddisfare un aumento della domanda miocardica di ossigeno, in genere a causa della presenza di una stenosi coronarica, e (2) riduzione primaria del flusso coronarico, dovuta a vasocostrizione, spasmo o trombosi coronarica.

STENOSI CORONARICHE EPICARDICHE

Le stenosi coronariche epicardiche, causate da placche aterosclerotiche, sono il substrato più frequente dell’ischemia miocardica. Una stenosi coronarica è emodinamicamente significativa quando è in grado di opporre, già a riposo, una resistenza al flusso ematico, tale da determinare una caduta della pressione a valle. Ciò comincia a verificarsi, in genere, quando il diametro del lume viene ridotto del 50%. Oltre questa riduzione critica, ogni ulteriore aumento della stenosi causa una sempre maggiore riduzione della pressione a valle, con una relazione di tipo esponenziale. La relazione tra caduta pressoria e flusso a livello di una stenosi, tuttavia, non è semplicemente lineare, essendo la riduzione del flusso superiore a quella predetta dalla riduzione della pressione (Figura 7).Poiché la pressione di perfusione è il principale determinante del flusso, la sua riduzione a valle di una stenosi tende a ridurre il flusso. In condizioni basali, tuttavia, in corrispondenza di una stenosi non si osserva riduzione del flusso coronarico, in quanto la caduta della pressione è compensata dalla riduzione della resistenza coronarica a valle, come conseguenza della dilatazione delle arteriole coronariche. Questa vasodilatazione compensatoria, tuttavia, riduce la riserva coronarica, vale a dire la capacità di aumento massimo del flusso in risposta all’aumento del fabbisogno metabolico del miocardio. Il livello di lavoro cardiaco oltre il quale non è più possibile incrementare il flusso per soddisfare le richieste metaboliche, per cui si sviluppa ischemia, è definito soglia ischemica. L'ischemia miocardica da discrepanza che si sviluppa in un paziente è tipicamente limitata agli strati subendocardici, che, per varie ragioni, presentano una minore riserva coronarica, e sono quindi più suscettibili all’ischemia, rispetto agli strati subepicardici. Infatti, il consumo di ossigeno delle cellule subendocardiche è di base maggiore di quello delle cellule subepicardiche, a causa del maggiore stress sistolico parietale cui sono soggette. Come risultato, il flusso subendocardico è di base del 15-20% superiore a quello subepicardico, nonostante sia sottoposto a maggiori forze compressive extramurali, con conseguente minore capacità di incremento relativo durante aumento della domanda di ossigeno (Figura 8). Oltre queste condizioni sfavorevoli, altri fattori, in presenza di una stenosi, possono contribuire a facilitare l'ischemia subendocardica in caso di aumento del lavoro cardiaco, come l’accorciamento della diastole (durante una tachicardia) e un aumento ulteriore delle forze extravascolari (per esempio, in caso di aumento della pressione telediastolica ventricolare sinistra).Un meccanismo particolare di ischemia miocardica è costituito dal furto coronarico transmurale, che si verifica quando, in presenza di un vaso con una stenosi, in genere molto critica, il flusso ematico si ridistribuisce dal subendocardio al subepicardio come conseguenza della vasodilatazione massimale dei vasi di resistenza subepicardici. Infatti, poiché la riserva coronarica subendocardica e’ inferiore a quella subepicardica, una volta che la riserva subendocardica si esaurisce (per vasodilatazione massimale dei vasi subendocardici), un’ulteriore vasodilatazione epicardica comporterà un’ulteriore caduta della pressione post-stenotica, con conseguente riduzione della perfusione subendocardica, che diventera’ insufficiente per le richieste metaboliche del subendocardio (Figura 9).Nella pratica clinica l’importanza emodinamica di una stenosi è in genere valutata all’angiografia coronarica visivamente o usando metodi di misurazione quantitativa. La semplice valutazione del grado di una stenosi coronarica all’angiografia, tuttavia, ha diverse limitazioni. Altri fattori, infatti, possono avere importanza nel determinare le conseguenze emodinamiche della stenosi, come il diametro del vaso originario, la lunghezza e la concentricità o eccentricità della stenosi e la presenza di altre stenosi nel vaso. Le conseguenze emodinamiche della stenosi possono ancora essere influenzate dalla modulazione dinamica del tono vasale a livello della stenosi e di quello del microcircolo distale, dalla presenza ed estensione di vasi collaterali e dalla resistenza extravascolare. In particolare, le stenosi coronariche sono spesso dinamiche; presentano, cioè, variazioni vasomotorie del lume

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in grado di modificare il grado di stenosi, e quindi la riserva coronarica, dando origine ad un pattern anginoso caratterizzato da una significativa variabilità della la soglia ischemica, in contrasto con la stabilità e predicibilità della soglia ischemica nei casi di stenosi coronariche fisse. La dinamicità di una stenosi può essere valutata saggiando la risposta vasomotoria alla somministrazione intracoronarica di sostanze vasodilatatrici e vasocostrittrici. Inoltre, un fattore importante in grado di influenzare gli effetti di una stenosi coronarica è lo sviluppo di una circolazione coronarica collaterale verso il territorio ischemico. I collaterali possono svilupparsi sia da vasi anastomotici preesistenti, sia, più limitatamente, come piccoli vasi di nuova formazione. Lo sviluppo e l'entità di una circolazione collaterale varia consistentemente da paziente a paziente, e il flusso nei vasi collaterali è influenzato sia da fattori nervosi e umorali, sia da sostanze vasoattive autacoidi locali.

TROMBOSI CORONARICA

I fenomeni trombotici costituiscono il meccanismo fisiopatologico principale dell’ischemia miocardica nelle sindromi coronariche acute (Figura 10). Quando transitoria, la trombosi causa solo un’ischemia temporanea; se prolungata o persistente, tuttavia, essa determina la necrosi di una parte più o meno estesa di tessuto miocardico.I meccanismi responsabili della trombosi coronarica sono complessi e ancora non del tutto chiariti. I trombi, tuttavia, si formano in genere a livello di placche aterosclerotiche complicate (ad esempio, da rottura, fissurazione o emorragia), che espongono al sangue una superficie vasale non più in grado di contrastare efficacemente, come avviene normalmente, l’attivazione di processi proaggreganti e procoagulanti, e, quindi, trombotica (vedi Capitolo 45). In almeno il 30% circa dei casi, tuttavia, trombi coronarici sono riscontrati a livello di placche non fissurate ed esenti da stenosi di rilievo e da apparenti danni della parete vasale. In questi casi, la formazione di un trombo è probabilmente facilitata da lesioni microscopiche (erosioni) e/o da alterazioni funzionali dell'endotelio, secondarie a stimoli di varia natura (meccanici, anossici, chimici, infettivi, immunologici), in grado di compromettere in modo rilevante le funzioni antitrombotiche e vasodilatatrici delle cellule endoteliali, che sono anzi stimolate a produrre potenti sostanze vasocostrittrici ed esporre recettori di adesione leucocitaria e piastrinica (attivazione dell’endotelio). Le alterazioni dell’endotelio sono più frequenti in vasi con flusso turbolento (ad es., a livello di stenosi), e possono essere causate da molteplici fattori, meccanici (alterato shear stress), chimici (LDL ossidate), infettivi (virus, batteri), e immunologici (anticorpi contro antigeni di superficie, linfociti sensibilizzati). In anni recenti, inoltre, è stata accumulata evidenza che un'importante componente patogenetica della formazione di trombi intracoronarici, e quindi delle sindromi coronariche acute, è costituita da processi infiammatori delle placche aterosclerotiche, che ne favoriscono le complicanze e stimolano localmente sia meccanismi trombotici che vasocostrittori. Indipendentemente dai meccanismi, la prima fase della formazione di un trombo è costituita dall’adesione di piastrine alla parete vascolare danneggiata, seguita da una serie di meccanismi che portano alla formazione di un trombo piastrinico, che, in presenza di stenosi critiche, può di per sé causare subocclusione o occlusione del vaso (e quindi, rispettivamente, ischemia subendocardica o transmurale). Più frequentemente, soprattutto in presenza di stenosi meno gravi, il trombo murale piastrinico viene seguito dalla formazione di un trombo più stabile, per l’attivazione del sistema emostatico, che porta a deposizione anche di rilevanti quantità di fibrina, globuli rossi e leucociti, insieme alle piastrine, con finale occlusione del vaso. Gli effetti fisiopatologici e clinici di un trombo coronarico dipendono, oltre che da quanto esso riduce il lume, dalla sua evoluzione. Il suo destino naturale è, infatti, variabile. Esso può lisarsi spontaneamente in poco tempo, per cui causa solo un'ischemia più o meno prolungata. Altre volte esso si risolve solo parzialmente, rimanendo in parte adeso alla parete, per cui si organizza e causa la progressione della preesistente stenosi con successiva riduzione della soglia ischemica. Altre volte, infine, subisce una rapida crescita che causa l'occlusione totale del vaso, con grave ischemia e necrosi miocardica. Il destino finale del trombo è il frutto di una complessa interazione tra fattori protrombotici e antitrombotici, che coinvolge anche fattori emodinamici, vasomotori e fibrinolitici. Va osservato come trombi, sia ostruttivi sia non ostruttivi, possono dare origine a microembolie distali che causano aree di ischemia o necrosi miocardica circoscritta. Va infine ricordato come una trombosi può localmente complicare uno spasmo coronarico, facilitando l'occlusione e l'infarto miocardico in pazienti con angina vasospastica.

SPASMO CORONARICO

Lo spasmo coronarico consiste in un’improvvisa, intensa contrazione delle cellule muscolari lisce di un segmento di un’arteria coronaria epicardica, che occlude o riduce in modo critico il lume del vaso, con conseguente ischemia miocardica, in genere transmurale. Esso può verificarsi sia in vasi stenotici sia in vasi completamente normali e, dal punto di vista clinico, è anzitutto il meccanismo responsabile dell’angina variante di Prinzmetal (Figura 11). Il substrato che rende un vaso coronarico suscettibile allo spasmo non è noto. E’ probabile, tuttavia, che esso risieda in una o più alterazioni delle vie intracellulari post-recettoriali di trasmissione e modulazione dei segnali che regolano la contrazione delle cellule muscolari lisce vasali, determinando una loro iperreattività agli stimoli vasocostrittori. Ciò è suggerito dal fatto che lo spasmo può essere indotto, in genere, da vari stimoli vasocostrittori (catecolamine, acetilcolina, alcalosi, ergonovina, serotonina, istamina) che agiscono su recettori differenti (Figura 12).

DISFUNZIONE DEL MICROCIRCOLO CORONARICO

Diversi dati, in anni recenti, hanno suggerito come alterazioni del flusso coronarico a livello dei piccoli vasi coronarici di resistenza (prearteriole e arteriole), che non sono visibili all’angiografia coronarica, possano essere

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responsabili di un’ischemia miocardica. Ad esempio, è stato osservato che l'infusione intracoronarica di neuropeptide Y o di alte dosi di acetilcolina in soggetti con arterie coronarie epicardiche normali può indurre ischemia miocardica in assenza di variazioni significative delle arterie epicardiche, ma in presenza di una diffusa vasocostrizione dei rami distali e di un lento run off del mezzo di contrasto, indicativo di un’intensa vasocostrizione microvascolare. Una disfunzione microvascolare sembra implicata nei meccanismi che causano ischemia miocardica in alcune condizioni cliniche. In pazienti con occlusione totale isolata di un vaso epicardico la somministrazione di ergonovina può causare riduzione del flusso collaterale in assenza di modificazioni dei vasi epicardici, suggerendo che variazioni rilevanti della soglia ischemica siano conseguenti a variazioni del tono dei vasi di resistenza. In pazienti con stenosi isolata di un vaso coronarico, trattata con intervento di rivascolarizzazione percutaneo, la persistenza di sintomi anginosi e di alterazioni ischemiche dell’ECG durante sforzo, a dispetto del successo della procedura, suggerisce una causa microvascolare, come indicato da anomalie nell’incremento del flusso coronarico in risposta a stimoli vasodilatatori (Figura 13). Alterazioni della resistenze coronariche sono state, inoltre, dimostrate distalmente a stenosi coronariche in pazienti con cardiopatia ischemica stabile o instabile, in vasi non stenotici di pazienti con stenosi ostruttive in altri rami coronarici epicardici, e in pazienti con fattori di rischio per malattia coronarica ma con arterie epicardiche angiograficamente normali. Infine, una disfunzione microvascolare è ritenuta essere responsabile della sindrome X cardiaca, una condizione clinica caratterizzata da episodi anginosi, indotti prevalentemente dallo sforzo, in presenza di arterie coronarie angiograficamente normali. I meccanismi della disfunzione dei piccoli vasi arteriosi coronarici sono al momento poco noti, ma sono verosimilmente molteplici e differenti non solo nelle diverse condizioni cliniche, ma anche all’interno di uno stesso gruppo di pazienti. In pazienti con evidenza di malattia coronarica, la disfunzione microvascolare è in genere attribuita all'aterosclerosi ed alle alterazioni neuroumorali e vasali (ad es., fibrosi perivascolare, ipertrofia della media) associate ad eventuali malattie sistemiche concomitanti (ad es., ipertensione, diabete). Di contro, nei pazienti con sindrome X cardiaca, in cui non sono presenti ostruzioni epicardiche, sono state riportate alterazioni strutturali dei piccoli vasi coronarici solo in alcuni casi, mentre sono state descritte diverse alterazioni in grado di determinare disfunzione del microcircolo ed ischemia miocardica. Uno schema dei meccanismi potenzialmente coinvolti nella sindrome X è riportato nella Figura 14.

Capitolo 24SINDROMI CORONARICHE CRONICHEMario Marzilli DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche croniche si identificano con l’angina stabile o angina cronica, termine che definisce una sindrome caratterizzata da attacchi di ischemia miocardica che si producono in circostanze simili, relativamente prevedibili e riproducibili, generalmente associate a sforzo fisico. Meno della metà degli episodi ischemici si accompagna a sintomatologia dolorosa e la gran parte degli attacchi ischemici è quindi silente.L’esordio dell’angina pectoris rappresenta sempre, per definizione, un momento di instabilità: successivamente la forma, se non evolve verso eventi coronarici maggiori, può entrare nella forma cosiddetta “stabile”.L’aggettivo stabile che caratterizza questa sindrome coronarica deve essere inteso:

come espressione della costanza e ripetibilità delle condizioni in cui si produce l’episodio ischemico

come espressione della stabilità nel tempo della frequenza e della severità degli episodi di angina.

Questa sindrome ischemica è caratterizzata da una bassa incidenza di eventi maggiori (morte improvvisa, infarto miocardico) a breve e medio termine. Il livello di attività a cui compare l’angina o l’ischemia viene definito soglia del dolore o dell’ischemia. La soglia del dolore può essere calcolata empiricamente, dal racconto del paziente, sulla base della comparsa dei sintomi e del momento di inizio e del tipo di attività fisica che ha provocato l’angina, oppure può essere definita da parametri ergometrici (minuti di esercizio, doppio prodotto, carico di lavoro) al momento della comparsa di ischemia elettrica (sottoslivellamento di ST) o del dolore.Quando le variazioni della soglia sono particolarmente evidenti, l’angina perde la sua caratteristica di stabilità sintomatica (angina a soglia variabile) ma può mantenere la stabilità clinica e la scarsa incidenza di eventi maggiori nel follow up a breve e medio termine.

PATOGENESI

Il meccanismo patogenetico più comune dell’angina stabile è l’aumento del consumo miocardico di ossigeno, per lo più dovuto ad esercizio fisico, non accompagnato da un parallelo aumento del flusso coronarico. Pertanto l’angina cronica stabile è generalmente una angina da sforzo. L’incapacità di aumentare il flusso coronarico in maniera adeguata all’aumento delle richiesta metaboliche del miocardico può dipendere da una molteplicità di fattori tra cui: presenza di una stenosi coronarica severa che riduce marcatamente la riserva coronarica, risposta vasocostrittiva del microcircolo distalmente ad una placca aterosclerotica, alterazioni del metabolismo energetico miocardico, etcIn qualche caso, l’angina può comparire in condizioni di riposo muscolare, quando, per altri meccanismi, si verifica comunque un aumento della frequenza cardiaca e/o della pressione arteriosa.

DIAGNOSI CLINICA

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In pazienti che si presentano con dolore toracico, una anamnesi accurata, un esame obiettivo mirato ed una valutazione dei fattori di rischio coronarico consentono, nella maggior parte dei casi, una attendibile definizione diagnostica.

Il dolore anginosoUn dolore toracico può aver origine da numerose strutture (cuore, pericardio, grossi vasi, polmone, pleura, esofago, stomaco) e dipendere da patologie osteo-articolari, nervose o muscolo-cutanee della parete toracica. L’anamnesi rappresenta il primo e spesso anche il più utile approccio nella diagnosi di angina pectoris.Il dolore anginoso tipico è definito coi termini di costrizione, oppressione, peso, bruciore, ed è frequentemente associato a malessere generale ed ansia. La sede tipica è retrosternale con irradiazione lungo il lato ulnare dell’avambraccio sinistro e la mano, oppure alla mandibola, al collo, ad entrambe le braccia ed ai polsi o al dorso. Altre sedi del dolore sono l’epigastrio o l’emitorace destro con irradiazione all’avambraccio omolaterale. Tipicamente il dolore insorge gradualmente, raggiunge la massima intensità entro un minuto e recede spontaneamente dopo 2-10 minuti con la cessazione del fattore scatenante o con la somministrazione sub-linguale di nitrati. Altre condizioni che possono determinare l’insorgenza di angina sono il rapporto sessuale, gli stress emotivi, l’esposizione al freddo, un pasto abbondante o una associazione di questi fattori (Figura 1). Pertanto in alcune condizioni l’attacco anginoso può manifestarsi anche indipendentemente da uno sforzo fisico.

Anche se un dolore anginoso tipico si associa generalmente ad una o più stenosi coronariche, è importante tener presente che si può avere angina da sforzo anche in pazienti con valvulopatia, miocardiopatia ipertrofica, ipertensione, miocardiopatia dilatativa ed in soggetti senza evidenti anomalie miocardiche o coronariche (sindrome X).In ciascun paziente, in caso di recidiva anginosa, la sintomatologia tende a riprodursi sempre con le stesse caratteristiche di sede, irradiazione, etc, anche a distanza di molto tempo.Pur essendo la sintomatologia anginosa il cardine della diagnosi di angina, bisogna sempre tener presente che gli episodi ischemici possono manifestarsi con sintomi diversi dal dolore come dispnea e facile stancabilità, e che oltre la metà degli episodi ischemici possono essere privi di sintomi (ischemia silente). Le più comuni forme morbose da considerare in diagnosi differenziale con l’angina stabile sono: l’aneurisma dell’aorta toracica, l’ernia hiatale con esofagite da reflusso, lo spasmo o reflusso esofageo da sforzo, la distensione diaframmatica, l’ipertensione polmonare, il pneumotorace, le patologie osteo-articolari o neuro-muscolari della parete toracica.

Esame obiettivoL’esame obiettivo di un paziente con angina stabile non evidenzia di solito reperti diagnostici. Si possono, tuttavia, identificare elementi che aumentano la probabilità di coronaropatia, come la presenza di vasculopatia aterosclerotica sistemica, l’ipertensione arteriosa, i depositi lipidici cutanei. L’esame obiettivo eseguito durante un episodio ischemico può evidenziare reperti significativi come la comparsa di 3° o 4° tono, di soffio da rigurgito mitralico, uno sdoppiamento paradosso del 2° tono (vedi Capitolo II) o di rantoli basilari che scompaiono poco dopo la cessazione dell’episodio anginoso.

DIAGNOSI STRUMENTALE

In un paziente con dolore toracico, il momento diagnostico più importante rimane l’anamnesi, che condizionerà la successiva strategia. In un uomo con fattori di rischio e storia di dolore tipico, nessuna ulteriore indagine negativa potrà ridurre significativamente la probabilità di malattia; la richiesta di indagini aggiuntive può essere giustificata dall’esigenza di completare la diagnosi di malattia con informazioni relative alla gravità, sede ed estensione della ischemia miocardica. In un paziente con bassa probabilità (donna giovane, dolore toracico atipico, assenza di fattori di rischio) un test diagnostico positivo modifica di poco la probabilità di malattia, ma può innescare una interminabile e spesso inutile serie di esami aggiuntivi. Le modificazioni transitorie dell’attività elettrica e contrattile cardiaca e della perfusione miocardica che si accompagnano ad episodi ischemici provocati in laboratorio possono essere documentate con adeguate metodologie. Questa documentazione costituisce la base della diagnosi strumentale di angina da sforzo.

Metodiche strumentali per la diagnosi di angina stabile

ECG basaleL’elettrocardiogramma a riposo è generalmente non diagnostico nei pazienti con angina stabile, anche se nell’inquadramento clinico e prognostico del paziente è importante il rilievo di pregresso infarto miocardico, ipertrofia ventricolare sinistra o anomalie della ripolarizzazione ventricolare.

ECG da sforzoL’elettrocardiografia da sforzo è la metodica diagnostica di prima scelta in quanto indagine semplice, ovunque disponibile, a basso costo, relativamente sicura. Il criterio elettrocardiografico più significativo di ischemia miocardica è rappresentato dalle modificazioni del tratto ST (vedi Capitolo 26).Una prova da sforzo è considerata positiva quando induce dolore tipico e/o sottoslivellamento discendente o orizzontale di ST uguale o superiore a 1 mm 0.08 secondi dopo il punto J. L’innalzamento del tratto ST di almeno 0.5 mm, peraltro piuttosto raro durante test ergometrico nei pazienti senza pregressa necrosi, è di solito espressione di ischemia transmurale per ostruzione organica o per vasospasmo. Al contrario, il sopraslivellamento di ST da sforzo nei pazienti con pregressa necrosi deve essere considerato non specifico per ischemia. È importante ricordare che talora un test ergometrico mostra alterazioni significative di ischemia non durante o

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al picco dello sforzo, ma in fase di recupero.

ECG dinamico.La registrazione Holter è di scarsa utilità diagnostica nella angina stabile. L’ECG dinamico può essere riservato alla determinazione, in pazienti già noti, del carico ischemico totale quotidiano, in considerazione della frequente sovrapposizione di attacchi sintomatici e non.

Metodiche di imagingStimoli diversi dall’esercizio fisico impiegati per indurre ischemia in laboratorio sono rappresentati dal test al dipiridamolo, all’adenosina o alla dobutamina (vedi Capitolo 26). Questi stressor hanno dimostrato di possedere, quando associati ad un test di immagine, un’accuratezza diagnostica per malattia coronarica comparabile a quella ottenuta con test da sforzo.Un test di immagine è indicato:1) quando il test ergometrico non è fattibile o non interpretabile o controindicato,2) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di positività ECG ad alto carico in assenza di angor,3) in pazienti con media-bassa probabilità pre-test di malattia in caso di angor durante test ergometrico in assenza di modificazioni ECG.

Coronarografia.Sebbene l’angiografia coronarica (vedi Capitolo 11) non rappresenti una metodica utile per la diagnosi di angina stabile, una coronarografia è indicata quando ogni tentativo diagnostico strumentale per confermare o escludere un sospetto clinico sia risultato inefficace. La coronarografia si rende indispensabile anche quando, una volta raggiunta la diagnosi di angina stabile, il paziente, sulla base dei dati raccolti, sia definito ad alto rischio e quindi siano indicate procedure di rivascolarizzazione oppure queste si rendano necessarie per inefficacia della terapia.

STRATIFICAZIONE PROGNOSTICA

PremessaNella stratificazione prognostica dei pazienti con angina stabile è importante tener presente che il rischio di andare incontro a eventi cardiovascolari gravi è basso: in questi pazienti l’incidenza di morte cardiaca è stata calcolata fra l’1,5 e il 2% ad un anno, e quella dell’infarto non fatale intorno all’1% per anno.

La clinicaNei pazienti con sindromi coronariche croniche, il rischio aumenta con l’aumentare della gravità dell’angina e con il peggiorare della funzione ventricolare sinistra secondo la classe NYHA, con la comparsa di sintomi e segni di insufficienza di pompa durante sforzo o angor, e se sono presenti episodi sincopali, eventualmente associati allo sforzo o all’angina.La prognosi peggiora inoltre con l’età avanzata, se il paziente ha nella storia un infarto miocardico, se soffre di ipertensione arteriosa, se continua a fumare.

ECG ed Ecocardiogramma di baseLa presenza di un ECG di base alterato è considerata segno prognostico sfavorevole. Un esame ecocardiografico in condizioni di base è utile per definire l’eventuale presenza e grado di disfunzione ventricolare sinistra, segno prognostico rilevante.

ECG da sforzo Il test da sforzo rimane la modalità di valutazione più frequentemente utilizzata nella gestione del paziente ischemico.Il test, analizzato in termini quantitativi relativamente al momento di comparsa e alla entità delle alterazioni ECG, all’andamento dei parametri emodinamici e clinici rilevabili durante esercizio, consente di ottenere informazioni prognostiche sufficienti per un corretto inquadramento clinico del paziente.L’entità del sottoslivellamento di ST si correla con la gravità della coronaropatia: maggiore è il grado di sottoslivellamento di ST più alta è la prevalenza di stenosi del tronco comune o di malattia trivasale. Anche il sottoslivellamento asintomatico di ST è prognosticamente importante, indipendentemente dalla presenza o assenza di angina: la gravità della coronaropatia e la mortalità a distanza dei pazienti con sottoslivellamento asintomatico di ST sono analoghe a quelle dei pazienti che manifestano angina durante sforzo. Il mancato incremento della pressione arteriosa o la sua riduzione durante esercizio individua pazienti con coronaropatia estesa ed è indicativo di un rischio elevato di eventi cardiaci gravi. La comparsa di sintomi e/o segni di ischemia per bassi carichi di lavoro identifica pazienti a rischio elevato.

CoronarografiaLa prognosi è peggiore nei pazienti con malattia del tronco comune dell’arteria coronaria sinistra, nei pazienti con malattia coronarica multivasale o con lesione critica sul tratto prossimale dell’arteria discendente anteriore, nei pazienti con depressa funzione ventricolare sinistra.

CENNI DI TERAPIA

Gli obiettivi della strategia terapeutica nell’angina stabile sono il miglioramento della qualità della vita attraverso la riduzione dei sintomi, l’aumento della tolleranza all’esercizio fisico e il prolungamentro della sopravvivenza attraverso la riduzione degli eventi cardiovascolari maggiori (morte, infarto miocardico non fatale). Il primo obiettivo è solitamente raggiungibile con i farmaci convenzionali. Non vi sono invece evidenze

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cliniche certe che essi possano influenzare favorevolmente la prognosi di questi pazienti. Per contro, il trattamento aggressivo dei fattori di rischio (ipertensione arteriosa, diabete mellito, obesità, tabagismo, dislipidemia) e la profilassi antiaggregante si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità e di prevenire gli eventi coronarici maggiori nel follow-up. Il trattamento farmacologico classico dell’angina stabile si basa sull’impiego di nitrati, betabloccanti e calcioantagonisti (vedi Capitolo 57). I nitrati sono vasodilatatori endotelio-indipendenti che riducono il consumo d’ossigeno miocardico e migliorano la perfusione miocardica. Ai dosaggi comunemente impiegati, la diminuzione del consumo d’ossigeno è legata prevalentemente ad una riduzione del volume ventricolare sinistro e della pressione arteriosa secondari soprattutto ad una riduzione del precarico. I nitrati sono farmaci di prima scelta nel trattamento dell'attacco anginoso (nella formulazione sublinguale) e sono raccomandati nel trattamento cronico dell'angina stabile, particolarmente nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra.I betabloccanti sono farmaci che agiscono bloccando gli effetti della stimolazione beta-adrenergica sul cuore e sui vasi. Ne deriva una riduzione della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa e della contrattilità miocardica, ovvero dei maggiori determinanti il consumo di ossigeno miocardico. I calcioantagonisti sono farmaci che inibiscono la contrazione delle cellule muscolari lisce attraverso il blocco dei canali lenti del Ca . Il risultato è una vasodilatazione arteriosa (sia coronarica che periferica). Gli effetti antianginosi sono principalmente legati alla vasodilatazione dei vasi coronarici epicardici e del microcircolo coronarico con riduzione delle resistenze ed aumento del flusso coronarico. L'azione vasodilatante arteriosa periferica concorre all'effetto favorevole mediante una riduzione del post-carico. Inoltre il modesto effetto cronotropo negativo di alcuni di essi (verapamil e diltiazem) è in grado di contenere il consumo di ossigeno a riposo e durante sforzo. Un’alternativa ai farmaci tradizionali è offerta da farmaci come la trimetazidina e la ranolazina, che non hanno effetti apprezzabili sul flusso coronarico nè sul consumo d’ossogeno miocardico ma modulano il metabolismo energetico della cellula miocardica interferendo con la betaossidazione degli acidi grassi.

Capitolo 25SINDROMI CORONARICHE ACUTERaffaele Bugiardini, Carmine Pizzi, Marco Ciccone DEFINIZIONE

Le sindromi coronariche acute (SCA) sono un gruppo di manifestazioni cliniche imputabili ad ischemia miocardica acuta, la cui causa è generalmente la rottura di una placca aterosclerotica coronarica “vulnerabile” con successiva aggregazione piastrinica, sovrapposizione trombotica e riduzione o arresto del flusso.In base all’entità della stenosi/occlusione ed alla sua persistenza, si determina uno dei seguenti quadri clinici.

Angina instabile : ischemia miocardica acuta senza significativa necrosi miocardica.

Infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento del tratto ST (non ST-segment elevation myocardial infarction, NSTEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi miocardica subendocardica.

Infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST (ST-segment elevation myocardial infarction, STEMI): ischemia miocardica acuta associata a necrosi miocardica transmurale.

SEGNI E SINTOMI

Il sintomo principale è il dolore anginoso oppressivo o costrittivo. Il malato descrive in genere il dolore come una sensazione di pesantezza, di compressione, di soffocamento o di costrizione toracica. Il dolore ha tipicamente sede retrosternale, più raramente è avvertito all’epigastrio o solo nelle sedi di irradiazione (il lato ulnare dell’avambraccio sinistro, il braccio e la spalla sinistra, l’epigastrio, il collo, la mandibola, il braccio destro, il dorso). Il dolore insorge spesso a riposo, e se compare durante uno stress psico-fisico non regredisce con il cessare dell’attività. Nell’angina instabile il dolore ha di solito durata inferiore a 20 minuti; se persiste per oltre 20 minuti è verosimile che si associ anche necrosi del miocardio, cioè che si determini un infarto. Nello STEMI, in assenza della riapertura del vaso occluso, il dolore si protrae per diverse ore, con intensità variabile. La sintomatologia dolorosa si associa frequentemente a sudorazione fredda, sensazione di angoscia, nausea e vomito. Tali sintomi (detti neurovegetativi) possono essere talvolta gli unici presenti; il dolore, infatti, è assente in oltre il 30% dei casi, soprattutto nei soggetti in età avanzata e nei diabetici. Alcuni pazienti hanno una SCA in assenza di qualsiasi sintomo; in questi la malattia viene diagnosticata a posteriori mediante ECG, scintigrafia o ecografia, oppure in seguito ad una complicanza acuta, la più temibile delle quali è la morte improvvisa per fibrillazione ventricolare.

ELETTROCARDIOGRAMMA

L'ECG è un’indagine chiave nella diagnosi delle sindromi coronariche acute. I reperti variano notevolmente in base a quattro fattori principali: 1) durata del processo ischemico (acuto, in evoluzione, cronico); 2) estensione del processo ischemico (transmurale o subendocardico); 3) localizzazione del processo ischemico (parete anteriore, laterale, infero-posteriore, o ventricolo destro);4) presenza di altre alterazioni che possono mascherare o modificare il classico quadro ECG (per esempio: blocco di branca sinistra, preeccitazione). Il segno iniziale e caratteristico di una SCA è il sottoslivellamento o il sopraslivellamento del segmento ST.

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Tuttavia, un ECG completamente normale in un paziente con dolore toracico non esclude la possibilità di SCA, poiché dall’1% al 6% dei pazienti con SCA hanno un ECG normale. Elettrocardiogramma nello STEMI L’alterazione ECG caratteristica dell’infarto transmurale è il sopraslivellamento del tratto ST >1 mm con convessità in genere rivolta verso l’alto (onda di lesione subepicardica). L’evoluzione del tracciato ECG può essere sintetizzata nelle seguenti fasi (Figura 1):

Fase acuta: tratto ST sopraslivellato, con entità che tende a ridursi progressivamente (schemi a,b,c).

Fase subacuta: comparsa di onda Q patologica; persistenza del sopraslivellamento del tratto ST; onda T difasica (positivo/negativa) o negativa (schemi d,e).

Fase cronica: normalizzazione del tratto ST; persistenza dell’onda Q patologica (schema f).

Le Figure ECG 20, ECG 21, ECG 22 riportano elettrocardiogrammi caratteristici di STEMI. Elettrocardiogramma nel NSTEMI e nell’angina instabile L’alterazione dell’ECG caratteristica in caso di angina instabile o NSTEMI è il sottoslivellamento del tratto ST >1 mm, di tipo orizzontale o discendente (ECG 18, ECG 19). Questa alterazione della ripolarizzazione ventricolare deve essere sempre valutata nel contesto clinico; in particolare, per essere considerata espressione di ischemia miocardica deve essere transitoria e/o associata a dolore toracico. Il sottoslivellamento di ST, infatti, si riscontra spesso in condizioni diverse dall’ischemia miocardica, per esempio nell’ipertrofia ventricolare o nel blocco di branca.

Elettrocardiogramma e prognosi Oltre ad avere un ruolo centrale nella diagnosi di SCA e a condizionarne la terapia, l’ECG fornisce importanti informazioni prognostiche. La mortalità dei pazienti con infarto anteriore è maggiore di quella dei pazienti con infarto inferiore; in quest’ultimo gruppo la mortalità aumenta quando l’infarto coinvolge anche il ventricolo destro. In generale, maggiore è il numero di derivazioni con il sotto- o sopraslivellamento del segmento ST, maggiore è il rischio di morte per il paziente.I pazienti con SCA che presentano anche aritmie (per esempio, tachicardia ventricolare sostenuta o blocco atrioventricolare di III grado oppure di II grado tipo Mobitz 2 ) hanno una prognosi peggiore di quelli in cui non si manifestano aritmie.

MARKER DI NECROSI MIOCARDICA

Per la diagnosi di infarto miocardico acuto è necessario un aumento, seguito da una diminuzione graduale, dei marcatori biochimici di necrosi associato ad una delle seguenti condizioni: 1) sintomi suggestivi di ischemia miocardica, 2) alterazioni ECG indicative di ischemia, 3) comparsa di onde Q patologiche.I miociti che vanno incontro a necrosi liberano alcune sostanze (enzimi o proteine) il cui riscontro nel siero è indispensabile per porre diagnosi di infarto miocardico acuto; le più utilizzate sono la troponina e la creatinchinasi. Troponina (Tn). La Tn è una proteina ad alto peso molecolare presente specialmente nel tessuto muscolare, ed è costituita da 3 sub-unità. La TnC si trova sia nel muscolo cardiaco che nel muscolo scheletrico, mentre TnT e TnI sono presenti solo nel cuore e rappresentano marcatori sensibili e specifici per il riconoscimento del danno miocardico. Sono dosabili nel sangue dopo 2-4 ore dall'inizio dei sintomi, ed il picco è raggiunto dopo 8-12 ore. La curva enzimatica di questo marker è simile a quella della CK-MB (Figura 2).

Creatinchinasi (CK). La CK è un enzima costituito da due monomeri, M e B. L’isoenzima MB è contenuto in maggior quantità nel cuore, l’isoenzima BB nel rene e nel cervello, l’isoenzima MM nel muscolo scheletrico. Il dosaggio del CK-MB è considerato patologico, quando è maggiore del 6-10% del CK totale, che a sua volta deve essere almeno il doppio del normale. La Figura 2 rappresenta le concentrazioni dei marker di miocardio-necrosi in relazione al tempo. La latticodeidrogenasi (LDH) è utile nella diagnosi di infarto miocardico, quando il paziente giunge all’osservazione tardivamente, in quanto è dosabile fino a 14 giorni dall’evento acuto.

COMPLICANZE DELL’INFARTO MIOCARDICO ACUTO

Le complicanze di un infarto possono essere suddivise in tre gruppi:

Complicanze aritmiche.

Complicanze emodinamiche (compromissione della funzione di pompa; rottura di muscoli papillari, setto, o parete libera del ventricolo sinistro; aneurisma ventricolare).

Complicanze ischemiche (estensione della necrosi, angina precoce postinfartuale).

COMPLICANZE ARITMICHELe complicanze aritmiche sono estremamente comuni durante una SCA ed in particolare durante le prime ore dell’infarto acuto. Extrasistoli ventricolari o sopraventricolari si osservano pressoché nel 100% dei pazienti, ma nella maggior parte dei casi non hanno significato sfavorevole. Alcune aritmie (tachicardia ventricolare sostenuta, fibrillazione ventricolare, blocco atrioventricolare di III grado) mettono a serio rischio la vita del paziente e richiedono un intervento terapeutico immediato. La fibrillazione e il flutter atriale sono frequenti, e possono determinare, se la risposta ventricolare è elevata, una riduzione della gittata cardiaca ed un aumento del consumo miocardico di O2. La tachicardia ventricolare non sostenuta è comune ed in genere ben tollerata, e non richiede necessariamente un trattamento, mentre la tachicardia ventricolare sostenuta (vedi Capitolo 40) può degenerare in fibrillazione ventricolare. In questi casi

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la lidocaina è abitualmente il farmaco di prima scelta se non vi è compromissione emodinamica, nel qual caso è necessaria la cardioversione elettrica; in alternativa alla lidocaina si può usare l’amiodarone.La fibrillazione ventricolare è l’aritmia più temuta, e porta al decesso il paziente in pochi minuti, se non si interviene immediatamente con la defibrillazione (vedi Capitolo 44). Un blocco atrioventricolare di I grado o di II grado tipo Wenckebach (Mobitz 1) è comune nell’infarto inferiore, ma raramente causa compromissione emodinamica, e può essere trattato, se necessario, con atropina. Il blocco atrioventricolare di II grado tipo Mobitz 2 (vedi Capitolo 41) ed il blocco atrioventricolare di III grado rappresentano indicazioni all’inserimento di un elettrocatetere per eseguire la stimolazione ventricolare con un pace-maker esterno.

COMPLICANZE EMODINAMICHEInsufficienza ventricolare sinistra In corso di SCA, numerose condizioni possono indurre un’insufficienza del ventricolo sinistro, che può essere strettamente legata all’estensione dell’area ischemica (un’area ischemica vasta determina un marcato deficit di contrazione), o anche essere la conseguenza di aritmie o della disfunzione valvolare mitralica provocata dall’infarto. Le manifestazioni cliniche dell’insufficienza ventricolare sinistra consistono in dispnea, tachicardia sinusale, comparsa di terzo tono e di rantoli polmonari inizialmente localizzati alle basi. L’esame obiettivo consente di classificare la gravità dell’insufficienza ventricolare utilizzando le classi di Killip: la classe 1 si caratterizza per l’assenza di rumori umidi polmonari, la classe 2 per la presenza di rantoli in meno del 50% dei campi polmonari, nella classe 3 i rantoli si ascoltano in più del 50% dei campi polmonari, e i pazienti in classe 4 presentano il quadro dello shock cardiogeno (vedi Capitolo 22), caratterizzato da ipoperfusione generalizzata: il soggetto ha una pressione sistolica <90 mmHg, oligo-anuria (diuresi <20 ml/ora), agitazione psico-motoria, tachicardia sinusale, pallore, sudorazione e cianosi.

Rottura del cuore Questa complicanza dell’infarto acuto può interessare la parete libera del ventricolo sinistro, il setto interventricolare o i muscoli papillari. In genere si verifica nelle prime 24 ore dall’esordio dell’infarto, ma può avvenire anche a distanza di giorni, ed è più frequente nelle donne anziane con infarto anteriore. La rottura della parete libera provoca un emopericardio con tamponamento cardiaco (vedi Capitolo 32). Clinicamente esordisce con dolore toracico, shock cardiogeno e dissociazione elettromeccanica (persistenza per qualche minuto di un’attività elettrica ordinata e regolare in assenza di attività meccanica del cuore). Non risponde alle misure di rianimazione cardiopolmonare, e la mortalità è quasi del 100%. Raramente la rottura può determinare uno pseudoaneurisma, quando si manifesta non un emopericardio massivo ma uno stillicidio ematico nel cavo pericardico, con tendenza all’autolimitazione. La rottura del setto interventricolare è generalmente apicale ed avviene in corso di infarto antero-settale o infero-posteriore; il difetto acquisito del setto interventricolare provoca, così come accade nelle forme congenite, uno shunt sinistro-destro, poiché la pressione è maggiore nel cuore sinistro. Questa condizione provoca la comparsa di un soffio mesocardico rude accompagnato da fremito, dispnea e rapida evoluzione verso l’edema polmonare e lo shock. L’ecocardiogramma color Doppler consente di riconoscere rapidamente la perforazione settale (ECO 30). La rottura totale o parziale di un muscolo papillare determina una grave insufficienza mitralica acuta, rivelata da un soffio olosistolico puntale irradiato all'ascella (vedi Capitolo 15). Si manifesta tipicamente come un peggioramento improvviso del quadro, spesso con edema polmonare e shock. A parte la rottura, anche una disfunzione ischemica del muscolo papillare può provocare un’insufficienza mitralica.

COMPLICANZE ISCHEMICHEIl paziente con infarto miocardico acuto può andare incontro ad angina postinfartuale precoce (nuovo ripresentarsi del dolore dopo che questo era cessato, ma senza segni biochimici o ECG di necrosi) o anche ad estensione dell’infarto, con ulteriore incremento dei marker dopo che questi erano già in diminuzione, e modificazioni dell’ECG tali da suggerire un’ischemia ulteriore sovrapposta al quadro infartuale (per esempio, aumento del sopraslivellamento di ST a distanza di qualche giorno dalla fase iperacuta). Probabilmente in questa situazione l’arteria coronaria che dopo un’occlusione transitoria si era riaperta è tornata ad occludersi, provocando una nuova ischemia, oppure si è verificata l’occlusione di un ramo coronarico precedentemente non interessato. Questi pazienti vanno immediatamente avviati a coronarografia ed angioplastica.

ALTRE COMPLICANZE DELL’INFARTO ACUTOPericardite. Nell’infarto miocardico acuto si possono riscontrare due forme di interessamento pericardico: una è la conseguenza diretta della necrosi transmurale, dovuta a deposizione di fibrina all’interno del pericardio che ricopre la zona infartuale, mentre l’altra dipende da una reazione autoimmune post-infartuale (pericardite di Dressler). Nel primo caso i segni e i sintomi compaiono in 2 -6 giornata. Il paziente lamenta una ripresa del dolore toracico, che però varia con i movimenti del torace e/o gli atti respiratori, e l’ascoltazione del cuore mette in evidenza sfregamenti pericardici. L’ECG può mostrare un persistente sopraslivellamento del tratto ST in più derivazioni, l’ecocardiogramma evidenzia talvolta un versamento pericardico, in genere di lieve entità. La pericardite di Dressler si manifesta dopo 2-4 settimane dall’episodio acuto. Ai segni e sintomi sopra descritti possono associarsi febbre e versamento pleurico.Tromboembolia. In pazienti con infarto esteso, specialmente anteriore, l’acinesia della zona infartuata può favorire il formarsi di un trombo intracavitario, il quale può, a sua volta, provocare un’embolia sistemica. L’incidenza di questo evento si è drasticamente ridotta da quando si impiega la terapia anticoagulante ed antiaggregante nei pazienti con SCA.

CENNI DI TERAPIA

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Numerosi farmaci possono essere impiegati nelle Sindromi Coronariche Acute: fra questi l’ossigeno, gli antiaggreganti piastrinici, gli anticoagulanti, i fibrinolitici, i betabloccanti, gli ACE-inibitori, i calcioantagonisti, gli analgesici. La distinzione fra STEMI, e NSTEMI/angina instabile è di primaria importanza per il trattamento d’emergenza. In particolare, nei pazienti con STEMI, il rapido ripristino del flusso nell'arteria occlusa, tramite terapia fibrinolitica o mediante interventi percutanei di rivascolarizzazione coronarica è determinante per la prognosi. Nei pazienti con NSTEMI/angina instabile, invece, la terapia fibrinolitica è controindicata. OssigenoLa somministrazione di O2 è utile durante la fase iniziale di una SCA, in particolare nei pazienti con STEMI.AspirinaNumerosi studi hanno dimostrato i potenti benefici dell’aspirina nelle SCA; il farmaco inibisce l’aggregazione piastrinica, contrastando il meccanismo della trombosi endoluminale attraverso il blocco irreversibile della formazione di trombossano A2. Altri anti-aggreganti Le tienopiridine sono farmaci antiaggreganti il cui meccanismo d’azione consiste nell’antagonizzare i recettori dell’adenosina difosfato a livello piastrinico. L’effetto antiaggregante è irreversibile, e si realizza dopo 2-3 giorni di terapia. Il clopidogrel è una tienopiridina entrata solo recentemente nella pratica clinica. Il suo maggiore impiego è nei pazienti con SCA, in associazione all’aspirina. La doppia antiaggregazione piastrinica (aspirina e clopidogrel) riduce maggiormente gli eventi cardiovascolari rispetto alla sola aspirina. La ticlopidina è tra le tienopiridine quella da più tempo in commercio; è usata con successo nei pazienti che non tollerano l’aspirina. Antagonisti del recettore GP IIb/IIIa piastrinica. Durante l’attivazione piastrinica, il recettore glicoproteico IIb/IIIa delle piastrine subisce un cambiamento di conformazione ed aumenta la propria affinità per il fibrinogeno, favorendo l'aggregazione piastrinica. Gli antagonisti dei recettori GP IIb/IIIa inibiscono l'aggregazione piastrinica per diverse ore (da 4 a 8 ore). EparinaLa terapia anticoagulante è un punto fondamentale nella terapia delle SCA: si esegue con l’eparina non frazionata o l’eparina a basso peso molecolare. L’effetto anticoagulante dell'eparina non frazionata si esplica mediante il potenziamento dell’attività dell’antitrombina (conseguente all’inattivazione del fattore IIa) e parzialmente mediante l'inattivazione del fattore Xa. Il farmaco richiede il monitoraggio dell'effetto anticoagulante mediante la determinazione del tempo di tromboplastina parziale attivata (aPTT). L'eparina a basso peso molecolare accelera l'azione di un enzima proteolitico che inattiva i fattori Xa, IXa, e IIa. Questo farmaco offre il vantaggio di non dover monitorare l’effetto anticoagulante. La combinazione di eparina e terapia anti-aggregante è un cardine della terapia delle SCA in quanto riduce significativamente gli eventi ischemici e il numero di interventi di rivascolarizzazione coronarica. Nitrati La nitroglicerina è un vasodilatatore ed è tra i farmaci di prima scelta nel sospetto di una sindrome coronarica acuta, soprattutto per ridurre o far cessare il dolore toracico. La vasodilatazione venosa che essa determina comporta un aumento del sequestro (pooling) di sangue in periferia, e quindi una riduzione del ritorno venoso al cuore e, in definitiva, del precarico. In accordo con la legge di Laplace, la diminuzione del diametro ventricolare riduce la tensione (stress) parietale, e anche il consumo di O2, che allo stress parietale è direttamente correlato. La nitroglicerina ha effetti modesti sul post-carico; diminuisce, però, la pressione arteriosa sistemica, ed anche con questo meccanismo riduce il consumo di O2. Beta-bloccantiI beta-bloccanti antagonizzano gli effetti delle catecolamine sui recettori beta delle membrane cellulari. L'inibizione dei recettori beta-1 riduce la contrattilità miocardica (effetto inotropo negativo), la frequenza di scarica dell’impulso da parte del nodo del seno (effetto cronotropo negativo) e la velocità di conduzione dello stimolo (effetto dromotropo negativo). Queste azioni consentono una riduzione del consumo di O2 da parte del miocardio. ACE-InibitoriGli inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina I in angiotensina II sono in grado di ridurre la mortalità nei pazienti con SCA. L'inibizione dell'enzima di conversione ha come conseguenza una diminuita concentrazione dell’angiotensina II, la quale è il più potente costrittore delle arteriole. Per effetto del farmaco cade il tono arteriolare, cioè si riduce il post-carico, ovvero la pressione arteriosa, con conseguente riduzione del consumo di ossigeno. A livello cellulare, gli ACE-I antagonizzano gli effetti mitogeni esercitati dall'angiotensina II, responsabili, dopo un infarto miocardico, di alterazioni sfavorevoli (rimodellamento ventricolare).Calcio-antagonistiI calcio-antagonisti non diidropiridinici (verapamil e diltiazem) possono essere utilizzati, in assenza di insufficienza ventricolare sinistra, nei pazienti con angina instabile/STEMI che presentino ischemia ricorrente ed in cui è controindicato l’uso dei beta-bloccanti. MorfinaNei pazienti con STEMI i cui sintomi non sono alleviati dalla nitroglicerina, a scopo antidolorifico ed in assenza di controindicazioni quali ipotensione, è consigliata la morfina. Terapia fibrinoliticaI farmaci fibrinolitici (streptochinasi, reteplase, alteplase, tenecteplase, etc.) trasformano il plasminogeno in plasmina, la quale degrada la fibrina e disgrega il trombo, con conseguente ricanalizzazione dell’arteria coronarica occlusa. Il ripristino di un flusso normale varia in base alla precocità del trattamento (inizio ideale entro 2 ore), alla risposta del paziente e al farmaco utilizzato. Angioplastica primariaSebbene la trombolisi sia un trattamento semplice, rapido e consolidato, non sempre è pienamente efficace nel ricanalizzare il vaso occluso, per cui si è diffusa l’angioplastica primaria, cioè la ricanalizzazione meccanica, con

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o senza impianto di stent, del vaso responsabile dell’infarto nei pazienti con STEMI (vedi Capitolo 59). Numerose ricerche hanno dimostrato che l’angioplastica primaria offre notevoli vantaggi rispetto alla trombolisi in termini di eventi (mortalità, reinfarto, stroke, angina). Inoltre, maggiore è il rischio dei pazienti, maggiore è il beneficio osservato. Gli svantaggi che l’angioplastica primaria offre rispetto alla trombolisi sono legati a limitazioni tecnico-logistiche (non tutte le unità coronariche dispongono di una sala di emodinamica) ed economiche (la procedura è molto più costosa del trattamento medico).

Capitolo 26DIAGNOSTICA STRUMENTALECarmen Spaccarotella, Ciro IndolfiDEFINIZIONE

La diagnostica strumentale della cardiopatia ischemica è basata su tutte quelle indagini che permettono di dimostrare la presenza di un’ischemia miocardica. In questo senso l’Elettrocardiografia, l’Ecocardiografia, la Scintigrafia miocardica, la Coronarografia, la Tomografia computerizzata, la Risonanza magnetica, La TC coronarica, etc possono mettere in luce diversi fenomeni suggestivi o dimostrativi dell’ischemia. Nel presente Capitolo vengono esaminati soltanto alcuni aspetti relativi a: 1) il riconoscimento della cardiopatia ischemica nei casi in cui questa non sia accertata, ma soltanto possibile in base ai dati clinici; 2) la valutazione del rischio di eventi maggiori (infarto miocardico, morte improvvisa) in soggetti con cardiopatia ischemica già nota. Per gli scopi suddetti vengono impiegati test volti a provocare un’ischemia miocardica, in particolare il test ergometrico e l’eco-stress; la scintigrafia miocardica viene trattata nel Capitolo 6.

IL TEST DA SFORZO

E’ basato sulla registrazione dell’ECG prima a riposo e poi mentre il soggetto compie uno sforzo; l’eventuale ischemia viene suggerita dalle modificazioni caratteristiche dell’ECG, associate o meno a sintomi, che si verificano durante l’attività fisica. Questa indagine è in grado di identificare un’ischemia miocardica assente a riposo e di stratificare il rischio in pazienti con angina stabile da sforzo. Il test ergometrico viene effettuato di solito al cicloergometro o al treadmill (tappeto rotante); nel primo caso il torace e le braccia del paziente sono relativamente stabili, permettendo di registrare una traccia elettrocardiografica senza troppi artefatti. Il test al treadmill, tuttavia, sarebbe preferibile perchè consente di effettuare uno sforzo più fisiologico, potendosi adattare la velocità e l’inclinazione del tappeto rotante all’agilità del paziente. Il protocollo più utilizzato per quest’ultimo test è quello di Bruce, che prevede un aumento di velocità e di inclinazione del tappeto ogni tre minuti. Lo scopo dello sforzo è quello di incrementare gradualmente la frequenza cardiaca fino a raggiungere la frequenza massimale (220 meno l’età del soggetto); in caso di test ergometrico effettuato dopo infarto miocardico, tuttavia, viene solitamente utilizzato un protocollo sottomassimale (85% della frequenza massima teorica). Il test è divenuto ormai pratica corrente perché utile nel predire il successivo andamento della malattia; un test da sforzo positivo identifica il paziente ad alto rischio e rappresenta un’indicazione ad eseguire un esame coronarografico.I parametri più importanti deducibili dal test ergometrico sono la massima capacità di esercizio, l’entità del sottoslivellamento o del sopraslivellamento del tratto ST, il tempo di recupero delle alterazioni elettrocardiografiche (tempo necessario affinché le alterazioni dell’ECG indotte dallo sforzo regrediscano), il numero di derivazioni in cui compaiono le anomalie del tratto ST, la soglia a cui compare il dolore anginoso e le aritmie che si manifestano durante l’esercizio. L’esercizio fisico provoca una complessa serie di eventi:

Aumenta il ritorno venoso al cuore destro per l’azione di pompa dei muscoli delle gambe e l’aumentata pressione negativa intratoracica nell’inspirazione profonda, con conseguente aumento della portata cardiaca).

Aumenta la frequenza cardiaca.

Aumenta la gittata sistolica.

Aumenta sia la forza di contrazione miocardica (per l’aumento del ritorno venoso, cioè del precarico, in accordo con la legge di Frank-Starling) che la contrattilità, per l’incremento delle catecolamine circolanti.

L’ischemia miocardica è dovuta ad uno squilibrio fra apporto e richiesta miocardica di ossigeno. Questa è principalmente influenzata dalla frequenza cardiaca, dalla tensione di parete e dallo stato contrattile. In presenza di stenosi coronariche, il flusso si mantiene costante almeno fino ad un certo grado di stenosi, grazie al meccanismo di autoregolazione coronarica (vedi Capitolo 23). In condizioni di riposo, il flusso coronarico si riduce drasticamente solo quando la stenosi diventa molto serrata (> 90 %), mentre una stenosi del 75% non riduce il flusso in condizioni basali. L’esercizio fisico provoca un incremento del consumo miocardico di O2, e fa sì che il flusso coronarico divenga insufficiente a mantenere un normale metabolismo già in presenza di una stenosi del 50%. Per tale motivo, lo sforzo può essere utilizzato per diagnosticare una stenosi coronarica.

INDICAZIONI E CONTROINDICAZIONI AL TEST DA SFORZO

Il test da sforzo può essere indicato per motivi diagnostici, prognostico-valutativi o di screening.

Indicazioni Diagnostiche:

- cardiopatia ischemica sospetta in base ai dati clinico-anamnestici; - pazienti con angina instabile a basso rischio (12-24 ore dall’ultimo sintomo); - pazienti con angina instabile a rischio intermedio (2-3 giorni dall’ultimo sintomo);

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- diagnosi differenziale in soggetti con sintomi da sforzo quali sincope, palpitazioni o vertigini;- aritmie ricorrenti durante lo sforzo;- diagnosi di ipertensione precoce borderline.

Indicazioni prognostico-valutative:

dopo infarto miocardico acuto (alla dimissione del paziente colpito da infarto, per la stratificazione del rischio);

angina cronica stabile dopo rivascolarizzazione miocardica (angioplastica o by-pass aortocoronarico);

nell’insufficienza cardiaca cronica;

nella valutazione dell’efficacia della terapia antianginosa ed antiaritmica.

Indicazioni per screening:

follow-up nei pazienti con cardiopatia ischemica nota;

maschi oltre i 40 anni con attività lavorativa ad elevata responsabilità sociale, oppure con due o più fattori di rischio coronarico maggiore, o che intraprendono attività fisica intensa;

ipertesi asintomatici che intraprendono attività fisica intensa;

per scopi assicurativi.

Sono controindicazioni all’esecuzione di un test ergometrico:

L’infarto miocardico acuto.

La miocardite o pericardite acuta.

L’angina instabile.

Le tachicardie ventricolari o atriali osservate subito prima dell’esecuzione del test.

Il blocco AV di secondo o terzo grado.

La stenosi severa, già nota, del tronco comune della coronaria sinistra.

I tumori cardiaci.

Lo scompenso cardiaco acuto.

La sospetta embolia polmonare.

L’ anemia severa, le infezioni gravi, l’ipertiroidismo.

I disturbi importanti della deambulazione.

Controindicazioni relative sono: la stenosi aortica (se di grado severo il test è controindicato, se di grado moderato deve essere eseguito con cautela); l’ipertensione grave (il test può essere eseguito se l’ipertensione è controllabile farmacologicamente); l’ostruzione rilevante del tratto di efflusso del ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica nelle sue varie forme); il marcato sottoslivellamento del tratto ST già in condizioni basali; gli squilibri elettrolitici.

CRITERI DI INTERRUZIONE DEL TEST DA SFORZO.

Il test da sforzo deve essere interrotto quando si verifica :

Angina ingravescente.

Associazione del dolore con alterazioni significative del tratto ST.

Aritmie minacciose (extrasistoli ventricolari con carattere di ripetitività (coppie) o tachicardia ventricolare).

Fibrillazione o flutter atriale.

Blocco atrio-ventricolare di secondo o terzo grado.

Riduzione della frequenza cardiaca o della pressione arteriosa nonostante la prosecuzione dello sforzo (in particolare repentina diminuzione della pressione sistolica > 10 mmHg).

Dolore muscolo-scheletrico importante.

Sintomi da bassa gittata (pallore, vasocostrizione e sudorazione).

Estremo aumento della pressione arteriosa .

Raggiungimento della frequenza cardiaca massimale (220 meno l’età).

INTERPRETAZIONE DEL TEST DA SFORZO

Il test ergometrico viene interpretato in relazione a parametri clinici e strumentali. I parametri clinici sono i sintomi (dolore toracico, dispnea, sincope) e i segni (pallore, cianosi, terzo tono, rantoli) dell’ischemia

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miocardica da sforzo. Altri parametri importanti sono la capacità funzionale, cioè la capacità massima di compiere lavoro muscolare, la risposta cronotropa, espressa dall’incremento della frequenza cardiaca correlato allo sforzo, la risposta pressoria, e il doppio prodotto, rappresentato dal prodotto della frequenza cardiaca per la pressione arteriosa sistolica. L’analisi dell’elettrocardiogramma si concentra sulle alterazioni del tratto ST. Sono indicative di ischemia le seguenti alterazioni:

Il sottoslivellamento del tratto ST. Indica positività della prova da sforzo un sottoslivellamento orizzontale del tratto ST > 1mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1B). Il sottoslivellamento discendente (Figura 1C) è un indicatore più netto di positività, mentre il sottoslivellamento ascendente (Figura 1D, Figura 2) viene considerato diagnostico di ischemia in caso di depressione persistente a 80 msec.

Il sopraslivellamento del tratto ST è diagnostico se > 1 mm (0.1 mV) 80 msec dopo il punto J in almeno tre complessi consecutivi (Figura 1E).

L’ECO-STRESS

L’ecocardiografia da stress è una metodica alternativa al tradizionale ECG da sforzo. Il principio alla base è che l’ischemia miocardica altera l’attività meccanica del cuore: il paragone fra la cinetica ventricolare in condizioni basali (Figura 3) e quella osservata durante stress può suggerire la presenza di una stenosi coronarica, se lo stress si accompagna a un peggioramento contrattile (Figura 4). Lo stress può essere fisico (in genere effettuato al cicloergometro) o farmacologico; in questo caso è possibile impiegare farmaci inotropi come la dobutamina, che aumenta il consumo miocardico di ossigeno attraverso l’incremento della frequenza e della contrattilità, o farmaci vasodilatatori come il dipiridamolo e l’adenosina, che aumentano la perfusione dei tessuti irrorati da coronarie sane e riducono la perfusione dei territori irrorati da coronarie stenotiche: un fenomeno definito “furto coronarico”.L’eco-stress trova indicazione soprattutto nei pazienti con alterazioni dell’ECG a riposo, (blocco di branca sinistra, sottoslivellamento del tratto ST>1mm, ritmo da pacemaker o sindrome di Wolff-Parkinson-White) e in quelli con ECG da sforzo non dirimente.

LA TOMOGRAFIA ASSIALE COMPUTERIZZATA MULTISTRATO

È una metodica non invasiva per la diagnosi di coronaropatia che va rapidamente estendendosi come indicazioni cliniche. Un’applicazione emergente della TC è la valutazione del paziente con dolore toracico, in particolare nella diagnosi differenziale tra sindrome coronarica acuta, dissezione aortica e trombo-embolia polmonare, nonché nella distinzione di queste dalle malattie pleuriche o polmonari. La TC è in grado di identificare le placche coronariche, specialmente quelle calcifiche, e di valutarne la morfologia; in caso di occlusioni coronariche croniche, può dare informazioni sulla lunghezza dell’occlusione, e sulla presenza di calcificazioni.

CARATTERISTICHE TECNICHE

La “sfida” nella TC è rappresentata essenzialmente dalle dimensioni delle arterie coronarie (2-4 mm), dal loro decorso complesso, tortuoso, e soprattutto, dal loro continuo movimento. Requisiti fondamentali ed imprescindibili di una metodica diagnostica non invasiva nello studio del circolo coronarico sono l’elevata risoluzione spaziale e temporale, l’elevata velocità di esecuzione, tale da consentire l’acquisizione dei dati durante una singola apnea e ridurre così gli artefatti da movimenti respiratori, e la corretta sincronizzazione delle immagini ricostruite con il ciclo cardiaco.Nel caso di frequenze cardiache superiori a 65 battiti per minuto, è possibile impiegare algoritmi multi-segmentali, ottenendo i dati necessari per la ricostruzione delle immagini da cicli cardiaci contigui e non da un singolo ciclo. E’ consigliabile, pertanto, studiare pazienti con frequenza cardiaca <65, impiegando in caso di frequenze superiori ed in assenza di controindicazioni farmaci ß-bloccanti, somministrabili per os 45-60 minuti prima dell’esame TC o per via endovenosa poco prima dell’acquisizione TC.

LIMITI ATTUALI

Le aritmie, la capacità di apnea del paziente ed il tempo necessario per il post-processing e l’adeguata valutazione delle immagini costituiscono, sino ad ora, le principali limitazioni della TC coronarica. A tali limitazioni vanno aggiunte quelle che riguardano la valutazione del lume coronarico in caso di marcata ateromasia calcifica, e la valutazione della pervietà/stenosi dei bypass e delle loro anastomosi distali in caso di elevato numero di clip chirurgiche lungo il decorso dei graft arteriosi; la valutazione del lume degli stent è invece legata in parte alle loro dimensioni: è difficile analizzare stent con diametro inferiore ai 3 mm, come accade per la maggior parte di quelli impiantati in segmenti coronarici non prossimali .

INDICAZIONI CLINICHE

In attesa delle imminenti innovazioni, è possibile ipotizzare per la TC un ruolo diagnostico concreto come:- alternativa all’angiografia in pazienti con precedente stress-test equivoco;- alternativa a stress-test o all’angiografia in pazienti con rischio basso-intermedio di malattia ischemica;- follow-up in individui con sintomatologia atipica e precedentemente sottoposti ad intervento chirurgico di rivascolarizzazione miocardica per lo studio dei by-pass;- definizione delle anomalie coronariche.Lo studio dei by-pass aortocoronarici (Figura 5) rappresenta attualmente la più indiscussa applicazione della tomografia assiale computerizzata cardiaca.

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Sezione VII. Cardiomiopatie

Capitolo 27DEFINIZIONE E CLASSIFICAZIONEGianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Fulvio Camerini INTRODUZIONE

Il problema riguardante la definizione e la classificazione delle cardiomiopatie (CMP) rappresenta uno dei punti maggiormente controversi nell’ambito della cardiologia. L’introduzione nel linguaggio medico del termine “Cardiomiopatie” (= “Malattie del Muscolo Cardiaco”) risale a circa mezzo secolo fa, ma è solo nel 1980 che venne pubblicato – da parte di un gruppo di esperti nominato dalla World Health Organization e dalla International Society and Federation of Cardiology (WHO/ISFC) – il primo documento ufficiale in tema di definizione e classificazione delle CMP. In quel documento, le CMP venivano definite come malattie del muscolo cardiaco “da causa sconosciuta”; la loro natura “idiopatica” ne rappresentava, pertanto, uno dei caratteri distintivi fondamentali da altre malattie cardiache ad eziopatogenesi nota quali le cardiopatie ischemica, ipertensiva, valvolare, ecc.Tuttavia, i progressi compiuti dalla ricerca – soprattutto nel campo della genetica – e la sempre più ampia diffusione di nuove metodiche d’indagine non invasive, in particolare l’ecocardiografia, hanno condotto negli anni successivi ad un significativo incremento delle conoscenze sulle CMP, rendendo inadeguato il documento del 1980. Pertanto, nel 1995 la WHO e la ISFC hanno redatto congiuntamente un nuovo report che tuttora costituisce il documento di riferimento in materia di definizione e classificazione delle CMP (Tabella I). Gli aspetti salienti di tale documento sono:1) la nuova definizione delle CMP come Malattie del Muscolo Cardiaco “associate a disfunzione cardiaca” sia sistolica che diastolica. La precedente espressione “da causa sconosciuta” veniva soppressa, essendo divenuta nel frattempo impropria alla luce delle nuove acquisizioni eziopatogenetiche;2) la sottoclassificazione delle CMP in 4 tipi o forme principali: la CMP dilatativa (CMPD), la CMP ipertrofica (CMPI), la CMP restrittiva (CMPR) e la CMP/displasia aritmogena del ventricolo destro (CMP/DAVD).L’importanza del primo punto risiede nell’esplicito riconoscimento che, accanto ai casi “idiopatici” di CMP, ne esistono altri in cui è viceversa possibile identificare la causa della malattia (ad esempio, nella quasi totalità dei casi di CMPI ed in circa un terzo dei casi di CMPD è oggi documentabile un’eziologia genetica).L’importanza del secondo punto è dovuta invece al fatto che la sottoclassificazione delle CMP viene operata sulla base di quadri morfo-funzionali di semplice riconoscimento (in tal senso, un ruolo fondamentale è svolto dall’indagine ecocardiografica), quali la dilatazione/ipocinesia ventricolare sinistra (CMPD), l’ipertrofia ventricolare sinistra (CMPI), la severa compromissione di tipo “restrittivo” del riempimento diastolico (CMPR), il prevalente coinvolgimento del ventricolo destro associato a spiccata aritmogenicità (CM/DAVD). Tale approccio classificativo si rivela di grande utilità nella pratica clinica perché richiama immediatamente gli aspetti essenziali e caratteristici di ciascuna CMP, orientando il cardiologo verso la corretta diagnosi e l’impiego appropriato delle strategie terapeutiche attualmente disponibili. Restano indubbiamente margini di incertezza classificativa che riguardano disordini aritmogeni “isolati” dovuti ad alterazioni di funzione dei canali ionici o forme con interessamento miocardico ma difficilmente iscrivibili nei 4 gruppi principali come il “miocardio non compatto”, la “cardiomiopatia peripartum” e la “malattia tako-tsubo”.A differenza di quanto proposto nel documento del 1995 della WHO/ISFC, non andrebbero invece utilizzati termini fuorvianti come “cardiomiopatia ischemica”, “cardiomiopatia valvolare” e “cardiomiopatia ipertensiva”. (Tabella I)

Capitolo 29CARDIOMIOPATIA DILATATIVAGianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Andrea Di Lenarda DEFINIZIONE

La cardiomiopatia dilatativa (CMPD) viene definita come “Malattia del Muscolo Cardiaco caratterizzata da dilatazione e ridotta contrattilità del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli” e rappresenta – assieme alle forme ipertrofica, restrittiva ed alla displasia aritmogena del ventricolo destro – uno dei quattro sottotipi principali di Cardiomiopatia.

EPIDEMIOLOGIA

La prevalenza della CMPD nella popolazione generale è stimata essere di circa 1 caso ogni 2.500 abitanti e l’incidenza pari a 4-8 nuovi casi/100.000 individui/anno. Tuttavia, la sua reale frequenza è certamente superiore, considerando che la maggior parte dei soggetti ancora asintomatici ma già con le “stimmate” della malattia (dilatazione e disfunzione ventricolare sinistra) non vengono identificati sino a che non compaiono i primi sintomi e segni riferibili a scompenso cardiaco o a turbe del ritmo e della conduzione.

ANATOMIA PATOLOGICA

Il fondamentale reperto anatomo-patologico macroscopico della CMPD è rappresentato dalla più o meno cospicua dilatazione di una od entrambe le camere ventricolari; anche gli atri, specialmente nelle fasi avanzate della malattia, sono dilatati (Patologia 30). La progressiva dilatazione delle camere cardiache associata all’insufficienza contrattile del miocardio comportano fenomeni di stasi che facilitano la formazione di trombi endocavitari, di riscontro non infrequente in sede autoptica e documentabili prevalentemente a carico delle sezioni cardiache di sinistra(Patologia 31).

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La dilatazione delle camere cardiache e l’ipocinesia delle loro pareti frequentemente concorrono anche a determinare l’allargamento degli osti atrio-ventricolari e lo stiramento delle corde tendinee da diastasi dei muscoli papillari, con conseguente insufficienza valvolare “funzionale” mitralica e/o tricuspidale. Per definizione, il circolo coronarico appare angiograficamente indenne o privo di stenosi “critiche” a carico dei grossi vasi epicardici.Il reperto isto-morfologico è aspecifico, le alterazioni principali essendo rappresentate da degenerazione miocellulare e diminuzione del numero delle miocellule, ipertrofia dei miociti residui, fibrosi sostitutiva ed interstiziale, infiltrati flogistici di tipo linfo-istiocitario in genere sparsi e presenti nell’interstizio.

EZIOPATOGENESI

Accanto ai casi “idiopatici” di CMPD, ve ne sono altri per i quali è possibile identificare con precisione la causa. Come per le altre forme di cardiomiopatia, anche per la CMPD i maggiori progressi in termini di conoscenze eziopatogenetiche riguardano il campo della genetica. A differenza di quanto si riteneva in passato, le forme familiari di CMPD sono piuttosto frequenti (circa 1/3 dei casi). Le diverse modalità di trasmissione ereditaria (autosomica dominante, autosomica recessiva, legata al cromosoma X) e di presentazione clinica (in relazione al grado di penetranza, all’età di insorgenza, all’interessamento isolato o meno del miocardio, ecc) della CMPD familiare indicano l’esistenza di una marcata eterogeneità genotipica e fenotipica. L'analisi del tipo di trasmissione genetica, del fenotipo e, quando disponibili, dei dati di genetica molecolare ha importanza non solo conoscitiva ma anche clinica perché le differenti forme possono non solo avere differente quadro clinico ma anche differente prognosi e differente rischio di malattia per i familiari. Fattori infettivi/immunitari potrebbero rivestire un ruolo importante nel determinismo della CMPD, anche se i meccanismi con cui in questo caso si realizza il danno miocardico non sono del tutto chiariti. I virus possono indurre un effetto citolitico diretto correlato alla loro virulenza come pure attivare una reazione autoimmune secondaria a “mimetismo” molecolare tra epitopi virali e costituenti normali del miocardio ad essi simili.

QUADRO CLINICO

La CMPD può manifestarsi in pazienti di tutte le età, ma nella maggior parte dei casi l’esordio avviene tra i 20 ed i 50 anni. La malattia colpisce prevalentemente il sesso maschile, con un rapporto maschi/femmine di circa 3:1. Dal punto di vista clinico, la CMPD si manifesta più frequentemente con scompenso cardiaco od aritmie ventricolari o sopraventricolari. In oltre il 50% dei pazienti, la presentazione clinica è rappresentata da un quadro di scompenso cardiaco sinistro; in una minore percentuale di casi, possono essere prevalenti i segni di scompenso destro. Le aritmie sono un’evenienza frequente nella CMPD e non di rado costituiscono le prime manifestazioni cliniche; tuttavia, solo raramente sincope e morte improvvisa rappresentano l'esordio della malattia. Un dolore toracico, per lo più da sforzo e talora con le caratteristiche di un’angina, rappresenta il sintomo principale d’esordio della CMPD nel 10-20% dei casi; in questi pazienti, è stata dimostrata una minore riserva coronarica. Nel 2-4% dei casi, usualmente con avanzata compromissione della funzione ventricolare e marcata cardiomegalia, la manifestazione clinica iniziale è costituita da un episodio embolico sistemico o polmonare(Patologia 32).Talvolta, il sospetto di CMPD viene posto a paziente asintomatico. Si tratta di casi scoperti fortuitamente in occasione di una visita medica (ad esempio, per riscontro di un soffio cardiaco) o di un’indagine strumentale (ad esempio, per il riscontro di blocco di branca sinistra all’elettrocardiogramma o di cardiomegalia alla radiografia del torace) effettuate per altri motivi.

DIAGNOSI

Di fronte ad una presentazione clinica suggestiva per CMPD, è necessario integrare i dati anamnestici e clinici con le opportune indagini strumentali e di laboratorio.Elettrocardiogramma. La tachicardia sinusale è un dato di frequente riscontro all’ECG standard. Possono essere presenti anche turbe della conduzione atrio-ventricolare ed intra-ventricolare, in particolare il blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 3), e anche onde Q di “pseudo-necrosi” in sede anteriore, in associazione con estesa fibrosi di questa regione. Anche le alterazioni della ripolarizzazione sono di frequente riscontro, come pure l’intero spettro delle aritmie sopraventricolari e ventricolari.Radiogramma toracico. La cardiomegalia (rapporto cardio-toracico > 0.5) è di comune riscontro, come pure i segni di redistribuzione a carico del circolo polmonare. Congestione interstiziale ed alveolare sono spesso documentabili nelle forme più avanzate.Ecocardiogramma. L’anamnesi, l’esame obiettivo, l’ECG e la radiografia del torace non sono in grado di fornire elementi specifici che consentano con sicurezza una diagnosi di CMPD, la quale richiede la presenza di alcuni criteri evidenziabili solamente con l’esecuzione di un ecocardiogramma.La CMPD è classicamente caratterizzata, da un punto di vista ecocardiografico, dalla presenza di una dilatazione globale del ventricolo sinistro associata a diffuse alterazioni della cinetica parietale con ridotta funzione di pompa (frazione di eiezione < 45%). Nei casi in fase avanzata, il ventricolo sinistro, oltre che essere di volume notevolmente aumentato, assume una geometria caratterizzata da una morfologia più globosa e quindi meno ellissoidale che di norma. L’ecocardiogramma è anche in grado di documentare eventuali asincronie nella contrazione inter- ed intra-ventricolare (conseguenti a disturbi di conduzione, in particolare il blocco di branca sinistra), che possono contribuire a peggiorare la funzione di pompa cardiaca. Un’insufficienza mitralica “funzionale”, cioè in assenza di alterazioni strutturali dei lembi, è un reperto frequente nella CMPD, e l’ecocardiogramma rappresenta l’indagine di elezione per confermarne la presenza e quantificarne la rilevanza emodinamica.Metodiche invasive. La coronarografia rimane un’indagine di fondamentale importanza per la diagnosi differenziale tra CMPD e cardiopatia ischemica in fase dilatativo-ipocinetica. E’ indicata soprattutto nei pazienti

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di sesso maschile ed età > 35 anni, con uno o più fattori di rischio coronarico e/o indicatori clinico-strumentali suggestivi di coronaropatia (angina, alterazioni segmentarie della cinetica ventricolare all’ecocardiogramma, ischemia miocardica alla scintigrafia miocardica od all’ecocardiogramma da stress).Il cateterismo cardiaco consente uno studio emodinamico dettagliato con la misurazione delle pressioni di riempimento ventricolare e della portata cardiaca, e mantiene un ruolo importante nella valutazione della gravità e nella stratificazione prognostica dei pazienti con CMPD.

DIAGNOSI DI CMPD FAMILIARE

Lo studio di una famiglia con CMPD si basa su un’accurata costruzione dell’albero genealogico e della storia familiare (volta ad individuare il possibile pattern di trasmissione della malattia) e sullo screening clinico-strumentale (ECG, ecocardiogramma) di tutti i parenti di primo grado (genitori, fratelli/sorelle, figli) del probando (primo individuo affetto di una famiglia che giunge all’osservazione). La valutazione clinico-strumentale andrebbe ripetuta periodicamente non solo nei familiari affetti anche in quelli sani per escludere un’evoluzione tardiva della malattia dovuta alla bassa penetranza. La CMPD viene definita familiare: 1) in presenza di due o più individui affetti in una famiglia o 2) in presenza di un parente di primo grado di un paziente con CMPD che abbia avuto una morte improvvisa, documentata ed inaspettata, ad una età inferiore di 35 anni.

PROGNOSI

La prognosi della CMPD è caratterizzata da una elevata mortalità (all’inizio degli anni ’80 era stimata essere del 50% a 2 anni dalla diagnosi), risultando in linea di massima tanto peggiore quanto maggiori sono le alterazioni morfo-funzionali a carico del ventricolo sinistro (marcata dilatazione, bassa frazione di eiezione) e quanto più severi sono i sintomi (avanzata classe NYHA). Studi recenti hanno tuttavia dimostrato che una diagnosi precoce ed un altrettanto precoce impiego di farmaci efficaci come gli ACE-inibitori ed i betabloccanti possono significativamente contribuire a modificare favorevolmente la storia naturale dei pazienti con CMPD (sopravvivenza libera da trapianto cardiaco del 60% a 10 anni dalla diagnosi).

CENNI DI TERAPIA

Non sono attualmente disponibili terapie specifiche per la CMPD. Gli obiettivi principali del trattamento consistono nel limitare la progressione dello scompenso cardiaco e nel controllare le aritmie. Tra le misure generali sono incluse l’educazione del paziente, la restrizione dell’apporto di sale e fluidi con la dieta con limitazione dell’introito alcolico, il controllo del peso corporeo e l’esecuzione di un moderato esercizio fisico aerobico. Terapia medica. La terapia medica si avvale degli agenti farmacologici comunemente impiegati nel trattamento del modello dilatativo-ipocinetico di scompenso cardiaco. Fra questi, i più importanti sono gli ACE-inibitori, gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina (sartani), i betabloccanti, i diuretici tiazidici e/o dell’ansa, gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone.Gli ACE-inibitori ed i betabloccanti sono efficaci nei pazienti con scompenso cardiaco da lieve a severo (NYHA II-IV); gli ACE-inibitori lo sono anche in quelli con disfunzione ventricolare ancora in fase asintomatica (classe NYHA I). Nei casi in cui vi sia intolleranza agli ACE-inibitori, appare giustificato l’impiego dei sartani.I diuretici tiazidici e/o dell’ansa vanno impiegati con l’obiettivo di controllare il fenomeno della ritenzione idro-salina, modulando le dosi in funzione del grado di congestione polmonare e periferica. Gli antagonisti recettoriali dell’aldosterone sono indicati solo nello scompenso cardiaco moderato-severo.La digitale è utile per il controllo della frequenza ventricolare nei pazienti con fibrillazione atriale e in quelli in ritmo sinusale con scompenso persistente nonostante la terapia con antagonisti neuro-ormonali e diuretici.Nelle fasi avanzate della malattia possono essere impiegati farmaci inotropi per via endovenosa, particolarmente la dobutamina (farmaco simpaticomimetico con effetto predominante beta1-agonista) o gli inibitori delle fosfodiesterasi (amrinone, milrinone ed enoximone) che sono allo stesso tempo inotropi e vasodilatatori. Dati recenti suggeriscono l’efficacia del levosimendan, un farmaco sensibilizzatore al calcio con proprietà anche di vasodilatazione.Il trattamento anticoagulante, volto a prevenire l’embolia polmonare o sistemica, viene raccomandato nei pazienti con fibrillazione atriale o in quelli a ritmo sinusale ma con trombosi endocavitaria e/o pregressa embolia, e anche nei soggetti con marcata dilatazione ventricolare e frazione di eiezione < 20-25%.Terapia meccanica. L’impiego di “device” meccanici nel trattamento dei pazienti con CMPD, sia per quanto riguarda la prevenzione della morte improvvisa (defibrillatore impiantabile) che per il ripristino della sincronia della contrazione cardiaca (terapia di resincronizzazione cardiaca mediante pace-maker biventricolare), trova indicazione in selezionati sottogruppi di pazienti.Assistenza ventricolare meccanica e cardiochirurgia. Sono state proposte procedure chirurgiche complementari alla sostituzione cardiaca, nell’ottica di “ponte al trapianto” od a questo alternative. In pazienti selezionati, è possibile limitare la progressione della malattia correggendo l’insufficienza mitralica mediante valvuloanuloplastica.Nel corso di episodi di severa riacutizzazione della malattia oppure nei pazienti in attesa di trapianto, giunti allo stadio terminale dello scompenso cardiaco, è possibile utilizzare dispositivi meccanici che sostituiscono temporaneamente la funzione di pompa del cuore (assistenza ventricolare meccanica). L’assistenza ventricolare meccanica consente il ripristino di un’emodinamica normale e di una perfusione tissutale adeguata sostituendo la funzione di pompa del cuore con dispositivi meccanici di vario tipo. Sono in corso di valutazione nuove prospettive per un’assistenza meccanica a lungo termine potenzialmente alternativa alla sostituzione cardiaca. Trapianto cardiaco. La sostituzione cardiaca con organo di un donatore compatibile rimane allo stato attuale la soluzione più efficace per i pazienti con scompenso cardiaco severo, refrattario ad ogni forma di terapia medica (vedi Capitolo 66). La sopravvivenza ad 1 anno, 5 anni e 10 anni si è attestata rispettivamente intorno all’80, 68 e 56%. Il problema maggiore è costituito dalla carenza di donazioni.

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Capitolo 30CARDIOMIOPATIA RESTRITTIVAGianfranco Sinagra, Gastone Sabbadini, Rossana Bussani, Andrea PerkanDEFINIZIONE

Le cardiomiopatie restrittive (CMPR) sono un gruppo eterogeneo di malattie del muscolo cardiaco accomunate dal fatto che il ventricolo sinistro (o, più di rado, entrambi i ventricoli) presenta(no) un pattern di riempimento diastolico di tipo restrittivo con volume diastolico generalmente ridotto, pareti incostantemente aumentate di spessore e funzione sistolica normale o modicamente ridotta. L’espressione “pattern restrittivo” indica che durante la diastole vi è un ostacolo al riempimento del ventricolo, il quale non riesce ad accogliere il sangue perché le sue pareti sono rigide e poco distensibili. Di conseguenza, la pressione diastolica ventricolare aumenta e tale incremento si riflette a monte per cui si manifesta ipertensione anche nell’atrio, nelle vene tributarie dell’atrio, nei capillari, ecc. Il termine CMPR deve essere riservato esclusivamente a quelle patologie cardiache in cui il pattern restrittivo costituisce l'elemento caratterizzante il quadro fisiopatologico.

EZIOPATOGENESI ED ANATOMIA PATOLOGICA

Esistono forme primitive e secondarie di CMPR. Tra le prime vanno incluse la cosiddetta CMPR idiopatica (talvolta familiare con trasmissione di tipo autosomico dominante), la sindrome di Löffler e la fibrosi endomiocardica. Le forme secondarie comprendono le CMPR infiltrative (amiloidosi, sarcoidosi, ecc) e quelle da accumulo (emocromatosi, ecc). Ognuna di queste condizioni presenta specifici quadri istopatologici. Tuttavia, in linea generale, il reperto macroscopico è quello di un cuore con atri marcatamente dilatati e spesso sede di trombi, mentre i ventricoli appaiono grossolanamente normali(Patologia 33).

QUADRO CLINICO

Nella maggior parte dei casi, le prime manifestazioni cliniche sono rappresentate da sintomi e segni di scompenso cardiaco quali ridotta tolleranza allo sforzo, astenia, dispnea da sforzo, dispnea parossistica notturna ed ortopnea, edemi declivi ed ascite. La comparsa di fibrillazione atriale è un evento frequente nei soggetti con forme idiopatiche o secondarie ad amiloidosi; circa un terzo dei pazienti può presentare episodi tromboembolici. Nonostante la relativamente bassa frequenza di aritmie minacciose (blocco atrio-ventricolare di III grado o tachicardia ventricolare), la morte improvvisa rappresenta comunque un evento possibile. L'esame obiettivo consente di rilevare valori di pressione arteriosa normali o ridotti con tendenza all'ipotensione ortostatica in una significativa percentuale di pazienti. E' spesso presente tachicardia a riposo. Il I ed il II tono sono in genere normali, ma si ascoltano spesso un III e/o un IV tono. E' possibile rilevare un soffio olosistolico da rigurgito mitralico o tricuspidale. Particolarmente nelle fasi avanzate, il fegato si presenta aumentato di volume e le vene giugulari sono distese.

DATI DI LABORATORIO E STRUMENTALI

In generale, nelle CMPR idiopatiche non sono presenti significative alterazioni dei parametri ematochimici. Il riscontro di indici di flogosi alterati e di ipereosinofilia orienta verso un’endocardite di Löffler. Nelle forme da amiloidosi possono essere presenti diverse alterazioni quali anemia, leucocitosi, elevazione della velocità di eritrosedimentazione e della proteina C-reattiva, ipofibrinogenemia, iposideremia, monoclonalità all’immunoelettroforesi proteica o segni di compromissione della funzione renale ed epatica. La radiografia del torace può mettere in evidenza un aumento delle dimensioni dell’ombra cardiaca, segni di congestione interstiziale od alveolare e versamento pleurico. Le possibili anomalie elettrocardiografiche includono i bassi voltaggi dei complessi QRS nelle derivazioni periferiche, le onde Q di “pseudonecrosi” nelle derivazioni antero-settali, il sottolivellamento del tratto ST; sono frequentemente descritti anche segni di ingrandimento atriale (ECG 47), di ipertrofia ventricolare sinistra ed aritmie di vario tipo. Nei pazienti con amiloidosi, le alterazioni del sistema di conduzione non sembrano particolarmente frequenti, mentre in quelli con CMPR idiopatica sono spesso documentabili blocchi atrio-ventricolari ed intra-ventricolari.L’ecocardiogramma è l’indagine diagnostica cardine, mediante la quale è possibile evidenziare un ventricolo sinistro non ingrandito, con spessori parietali normali o solo lievemente aumentati e con funzione di pompa normale o quasi. L'ispessimento e l’aspetto granulare delle pareti del ventricolo sinistro ed in particolare del setto interventricolare ("a vetro smerigliato") è caratteristico delle forme amiloidosiche. Il ventricolo destro può presentarsi dilatato, specie nei casi con ipertensione polmonare. E’ pressoché costantemente documentabile una dilatazione biatriale. Le valvole atrio-ventricolari appaiono frequentemente ispessite, e spesso si associa un rigurgito mitralico e/o tricuspidale. Lo studio del riempimento ventricolare sinistro mediante analisi Doppler del flusso a livello della valvola mitrale documenta un pattern di tipo “restrittivo” (ECO Figura45). L’ecocardiogramma transesofageo può essere utile per ricercare in modo più accurato l’eventuale presenza di trombi endocavitari. Sebbene l'integrazione degli dati ottenibili dalla valutazione clinica e dagli esami strumentali non invasivi consenta nella maggior parte dei casi di porre correttamente la diagnosi, il cateterismo cardiaco e la biopsia endomiocardica conservano un ruolo importante nello studio della CMPR. In corso di cateterismo cardiaco, l’aspetto emodinamico caratteristico è il “segno della radice quadrata” (“dip and plateau”), che si apprezza nella curva della pressione protodiastolica ventricolare ed è dovuto ad una ripida discesa della pressione ventricolare all’inizio della diastole seguita da un brusco incremento e da un plateau in protodiastole. La pressione sistolica e la pressione di riempimento ventricolare destro possono essere elevate.

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Le pressioni di riempimento nelle sezioni di sinistra sono usualmente maggiori di 5 mmHg rispetto alle sezioni di destra, e la pressione capillare polmonare (“pressione di incuneamento”) è in genere elevata. La biopsia endomiocardica è particolarmente utile nella differenziazione istologica, immunoistichimica ed ultrastrutturale delle diverse CMPR. Nelle forme idiopatiche, i reperti sono sostanzialmente aspecifici con ipertrofia cellulare e fibrosi interstiziale in assenza, tranne che per quel che riguarda la sindrome di Loffler, di infiltrati cellulari. La presenza di amiloide nel miocardio è confermata dalla positività per il rosso Congo, che conferisce al tessuto una tipica birifrangenza all'esame con luce polarizzata. L'indagine immunoistochimica consente di differenziare i vari tipi di amiloide (catene leggere immunoglobuliniche in corso di mieloma, transitiretina, lisozima, beta2 microglobulina, fattori natriuretici). La biopsia endomiocardica consente inoltre di definire la causa di altre forme meno frequenti di CMPR da accumulo miocardico. L’accumulo di ferro intramiocardico è facilmente evidenziabile con la colorazione di Pearls; nella sindrome di Löffler, la biopsia endomiocardica evidenzia un quadro di marcata infiltrazione eosinofila dell’endocardio e del miocardio; nella fibrosi endomiocardica è dimostrabile la presenza di ampie deposizioni di tessuto collageno e di connettivo che interessano l’endocardio, il subendocardio ed il miocardio.Studi scintigrafici mirati o metodiche di risonanza magnetica cardiaca con gadolinio possono contribuire alla diagnosi e caratterizzazione di alcune di queste forme

DIAGNOSI DIFFERENZIALE

La CMPR presenta spesso aspetti clinici indistinguibili dalla pericardite costrittiva, con problemi di diagnosi differenziale difficili da risolvere (vedi Capitolo 32). Una storia di pericardite acuta, pregressa infezione tubercolare, trauma toracico, intervento cardiochirurgico o terapia radiante del mediastino può orientare verso la diagnosi di pericardite costrittiva. All’indagine invasiva, il rilievo di una pressione telediastolica del ventricolo sinistro inferiore di almeno 5 mmHg rispetto alla pressione telediastolica del ventricolo destro, di una pressione sistolica del ventricolo destro 50 mmHg ed di un rapporto pressione telediastolica/pressione sistolica del ventricolo destro 0.33 orienta verso una pericardite costrittiva.La tomografia computerizzata e la risonanza magnetica sono in grado di fornire informazioni più complete su eventuali alterazioni del pericardio e sulla struttura della parete miocardica. Anche la biopsia endomiocardica può essere di ausilio nella differenziazione della CMPR dalla pericardite costrittiva, particolarmente nei casi in cui è possibile riscontare un’infiltrazione miocardica.

CENNI DI TERAPIA

In generale, la terapia farmacologica delle CMPR si avvale dei diuretici per una terapia sintomatica della congestione secondaria allo scompenso cardiaco diastolico. Il dosaggio dei diuretici deve essere stabilito con cautela, per evitare una sindrome da bassa portata conseguente ad eccessiva riduzione del precarico. Nei pazienti affetti da amiloidosi cardiaca devono essere evitati la digitale e i calcio-antagonisti in quanto questi farmaci possono causare fenomeni tossici anche con dosaggi generalmente ritenuti terapeutici. In caso di fibrillazione atriale, è necessario tentare di ristabilire il ritmo sinusale perché l’assenza del contributo atriale al riempimento ventricolare comporta un sostanziale peggioramento della disfunzione diastolica. A questo scopo, sono indicati sia la cardioversione elettrica che quella farmacologica mediante l’impiego di agenti antiaritmici, in particolare l’amiodarone. In casi di difetti di conduzione atrio-ventricolare di grado avanzato può rendersi necessario l’impianto di un pace-maker.Il trattamento anticoagulante orale appare indicato nei pazienti con rischio tromboembolico, in particolare in quelli con riscontro ecocardiografico di trombi endocavitari, marcata dilatazione atriale, episodi ricorrenti di fibrillazione atriale parossistica o fibrillazione atriale cronica. Non esiste al momento la possibilità di migliorare l’evoluzione delle forme idiopatiche con trattamenti farmacologici specifici e, nelle fasi avanzate, il trapianto cardiaco rappresenta l’unica valida opzione terapeutica.

Capitolo 31CARDIOMIOPATIA/DISPLASIA ARITMOGENA DEL VENTRICOLO DESTROLuciano Daliento, Barbara Bauce, Cristina Basso, Alessandra Rampazzo, Gaetano Thiene, Andrea Nava DEFINIZIONE

La cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro è una malattia caratterizzata, dal punto di vista morfologico, da una sostituzione fibro-adiposa di tratti più o meno estesi del ventricolo destro (Figura 1), con un non raro interessamento del ventricolo sinistro.Le alterazioni anatomiche sono responsabili di modificazioni morfofunzionali delle pareti ventricolari, riconoscibili mediante le tecniche di imaging (Figura 2), e fungono da substrato per l’instaurarsi di aritmie da rientro (Figura 3). La malattia è di origine genetica, nella maggior parte dei casi con trasmissione autosomica dominante; sono stati finora identificati diversi geni-malattia. L’espressione clinica può essere diversa da soggetto a soggetto, sia per quanto riguarda le modificazioni morfo-funzionali cardiache che per il grado di instabilità elettrica, anche in pazienti portatori di un’identica mutazione.

QUADRO CLINICO

La presenza, in giovani adulti, di aritmie ventricolari con morfologia tipo blocco di branca sinistra, associate ad alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro, soprattutto delle zone che definiscono il cosiddetto “triangolo della displasia” (la regione sottotricuspidale, la punta e la regione dell’infundibolo)

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caratterizzano il quadro clinico e rendono possibile la diagnosi. Prevalgano in genere le forme di malattia con estensione lieve, e raramente il processo di sostituzione fibro-adiposa è così diffuso da provocare importante cardiomegalia o severa riduzione della funzione di pompa. Il fatto che venga interessato soprattutto il ventricolo destro spiega perché i pazienti affetti siano capaci, nella maggior parte dei casi, di ottime prestazioni funzionali; molti di essi, anzi, svolgono attività sportiva e spesso gli eventi aritmici maggiori si avverano proprio durante una intensa attività fisica. Non è raro, infatti, che la morte improvvisa sia la prima manifestazione clinica nei giovani pazienti.

DIAGNOSI

Una Task Force della Società Europea di Cardiologia ha definito i criteri diagnostici per la Cardiomiopatia aritmogena, basati oltre che sui dati clinico-anamnestici anche sulle modificazioni morfo-funzionali individuate con le varie tecniche di imaging (Tabella I).Nello studio clinico di un soggetto con aritmie ventricolari è fondamentale eseguire un’attenta e completa anamnesi familiare riguardo la presenza, nel gentilizio, di morti precoci ed inattese o episodi sincopali. Le metodiche di imaging (ecocardiogramma, risonanza magnetica cardiaca ed angiografia) sono indubbiamente le più valide per la definizione diagnostica delle alterazioni morfo-funzionali delle pareti ventricolari; l’elettrocardiogramma, l’esame Holter delle 24 ore e l’elettrocardiogramma ad alta amplificazione, assieme allo studio elettrofisiologico e alla ricostruzione della mappa elettroanatomica ventricolare destra, sono utili soprattutto per la stratificazione del rischio aritmico.

ElettrocardiogrammaL’ECG è normale in circa il 20% dei soggetti con diagnosi clinica di cardiomiopatia aritmogena; in questi è generalmente presente una scarsa sostituzione fibro-adiposa. La maggior parte dei pazienti, invece, presentano onde T negative nelle precordiali destre (Figura 4), ed in alcuni sono anche evidenti in queste derivazioni onde epsilon, piccole deflessioni presenti nel tratto ST o nell’onda T che esprimono la depolarizzazione estremamente ritardata di alcune zone del ventricolo destro (Figura 5). Extrasistoli ventricolari o tachicardia ventricolare con morfologia tipo blocco di branca sinistra sono molto comuni nella cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro; esistono anche forme con aritmie ventricolari ripetitive polimorfe, associate ad un maggior rischio di morte improvvisa. La morfologia dei complessi ectopici somiglia a quella del blocco di branca sinistra poiché le aritmie nascono nel ventricolo destro. L’impulso ectopico genera un’attivazione non simultanea dei ventricoli: dapprima si depolarizza il ventricolo destro, sede in cui l’impulso nasce, e poi il processo di attivazione si comunica al ventricolo sinistro; questa sequenza di diffusione dell’impulso nei ventricoli è identica a quella che si realizza nel blocco di branca sinistra. In quest’ultimo caso, però, il meccanismo da cui essa dipende è l’incapacità della branca sinistra a condurre l’impulso, per cui il processo di depolarizzazione si realizza prima nel ventricolo destro, la cui branca è integra, e solo tardivamente il fronte d’onda si trasmette anche al ventricolo sinistro. All’elettrocardiogramma amplificato si registrano potenziali tardivi (Figura 6) nella quasi totalità dei pazienti che presentano forme severe di cardiomiopatia aritmogena, nel 70-80 % dei pazienti con forme moderate e in poco più del 50% dei pazienti con forme lievi.Il test ergometrico viene utilizzato non tanto per misurare la capacità funzionale, quanto per osservare il comportamento delle aritmie e la loro eventuale scomparsa o insorgenza durante lo sforzo.

Metodiche di imagingL’ecocardiografia (Figura 7), la risonanza magnetica nucleare (Figura 8) e la cineventricolografia (Figura 9) sono metodiche idonee alla diagnosi anche nelle forme con scarsa compromissione parietale. La presenza di un bulging (rigonfiamento) diastolico o di discinesie sistoliche della parete infero-basale del ventricolo destro, giusto sotto la inserzione del lembo posteriore della valvola tricuspide, la disomogeneità della architettura trabecolare, la dilatazione dell’infundibolo, l’alterata configurazione dei margini della parete libera, soprattutto dell’apice, sono segni caratteristici della malattia.Riguardo la risonanza magnetica (Figura 8), si dà ormai più importanza al riscontro di alterazioni della cinetica dei ventricoli che all’aumento del segnale riferibile a grasso. Dati incoraggianti stanno arrivando dall’utilizzo del mezzo di contrasto gadolinio, capace di identificare le aree miocardiche che presentano fibrosi (vedi Capitolo 7).Al momento attuale, l’indagine di imaging a maggior grado di sensibilità e specificità rimane la cineventricolografia (Figura 9). La presenza di bulging diastolici della parete anteriore e sottotricuspidale, associata a trabecole disposte trasversalmente, ispessite e intervallate da profonde fessure, raggiungono la più elevata sensibilità e specificità diagnostica. L’interessamento del ventricolo sinistro è più frequente di quanto non si ritenesse in passato e solitamente lo si ritrova nei soggetti adulti.

Biopsia endomiocardicaLa biopsia endomiocardica rappresenta un valido supporto sia per la diagnosi, quando è presente nel prelievo sostituzione fibro-adiposa, sia per la stratificazione del rischio aritmico, poiché la presenza di una significativa componente infiammatoria o necrotica o di elementi apoptosici possono essere messi in relazione con una fase attiva della malattia, in cui l’instabilità elettrica è particolarmente spiccata.

GENETICA

Sono stati finora riconosciuti 11 loci di mutazione genetica associati alla cardiomiopatia aritmogena (Tabella II). Una forma autosomica recessiva associata a keratoderma palmo-plantare e capelli ricci è stata descritta in pazienti che vivono nell’isola greca di Naxos. Questa forma è causata da una mutazione del gene della Plakoglobina, localizzato nel cromosoma 17q21, che codifica per un componente chiave dei desmosomi. In pazienti che presentavano criteri clinico-diagnostici per la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro sono state identificate mutazioni del gene della Desmoplakina e della Desmogleina-2, proteine presenti nei

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desmosomi, dove svolgono un ruolo fondamentale nell’assicurare la giunzione tra una cellula e l’altra (Figura 10).In una famiglia con alta ricorrenza di morte improvvisa giovanile, aritmie ventricolari polimorfe, e lievi alterazioni morfo-funzionali del ventricolo destro è stata identificata una mutazione del gene RyR2 che regola l’attività del recettore rianodinico cardiaco. Questo gene è fra i più grandi del genoma umano, essendo costituito da 106 esoni, e codifica per il recettore rianodinico, che regola l’omeostasi intracellulare del calcio (Figura 11). La mutazione di questo gene provoca un aumento della concentrazione di ioni calcio all’interno del miocita e favorisce l’insorgenza delle aritmie ventricolari durante sforzo. Sulla base delle conoscenze genetiche, si può ipotizzare che la patogenesi molecolare di questa malattia risieda nel fatto che il danno della parete ventricolare con successivo processo riparativo sia la conseguenza di una debolezza del sistema delle giunzioni desmosomiali (Figura 12). Dato che i desmosomi sono presenti in tutto il miocardio, le alterazioni della proteine desmosomiali nei soggetti con mutazione genica sono espresse sia a livello del miocardio ventricolare destro che sinistro. Il fatto che in questa malattia siano prevalenti le alterazioni morfologiche a carico del ventricolo destro è verosimilmente dovuto al diverso spessore della parete ventricolare, molto più sottile a destra rispetto al versante sinistro. Gli studi più recenti, eseguiti con risonanza magnetica ed iniezione di gadolinio, un mezzo di contrasto che individua la fibrosi miocardica, supportano questa spiegazione, mostrando a livello dell’epicardio ventricolare sinistro la presenza di fibrosi, che in genere non comporta alterazioni della cinetica ventricolare sinistra.

CENNI DI TERAPIA

Nella maggior parte dei casi l’intervento terapeutico è rivolto alla prevenzione della morte improvvisa attraverso il controllo delle aritmie ventricolari. In presenza di aritmie complesse, soprattutto se queste sono polimorfe o si aggravano sotto sforzo, il primo provvedimento è quello di limitare l’attività fisica ed iniziare un trattamento antiaritmico farmacologico. In presenza di episodi ripetuti di tachicardia ventricolare sostenuta o di importanti sintomi aritmici si ricorre all’impianto di un defibrillatore automatico. Esiste inoltre l’opzione dell’ablazione con radiofrequenza (vedi Capitolo 60) in presenza di una lesione localizzata, se durante lo studio elettrofisiologico endocavitario si dimostra essere questa la fonte primaria dell’aritmia ventricolare.

Sezione VIII. Pericarditi, Miocarditi, Endocarditi

Capitolo 32PERICARDITIAntonio Barsotti, Gian Marco Rosa DEFINIZIONE

Si tratta di affezioni acute o croniche interessanti il foglietto parietale e viscerale del pericardio, la cui eziologia può essere infettiva, infiammatoria, neoplastica, immunitaria. Tra le malattie del pericardio possono essere enucleate le forme seguenti :

Pericarditi acute e subacute

Pericardite cronica essudativa

Tamponamento cardiaco

Pericardite cronica costrittiva

PERICARDITI ACUTE E SUBACUTE

Sono processi infiammatori del pericardio a decorso acuto o subacuto, distinguibili in forme fibrinose, caratterizzate da abbondante formazione di fibrina e scarso versamento, e forme essudative, caratterizzate da formazione di versamento.

Eziologia Il pericardio può essere interessato da infezioni virali, batteriche, micotiche o tubercolari; le forme virali sono di gran lunga le più frequenti (virus Coxackie A e B, echovirus, virus parotitico, citomegalovirus, herpes simplex, varicella, adenovirus, epstein barr e virus influenzali). (Tabella I) Una pericardite acuta si può anche sviluppare come conseguenza dell’invasione diretta del pericardio da parte di una neoplasia di organi adiacenti (neoplasie polmonari, della mammella o linfomi). Altre condizioni morbose come patologie metaboliche (uremia o mixedema) e le collagenopatie (lupus eritematoso sistemico, sclerodermia, artrite reumatoide, dermatomiosite, poliartrite nodosa) possono interessare il pericardio. Sono state segnalate pericarditi da farmaci (Isoniazide, Procainamide, Idralazina e Antracicline), su base verosimilmente immunitaria. L’infarto miocardico acuto può essere complicato dalla pericardite epistenocardica (II-IV giornata) o dalla sindrome di Dressler, pericardite autoimmune ad insorgenza più tardiva. Altre forme di infiammazione asettica del pericardio sono le post-pericardiotomiche, che si osservano dopo interventi cardiochirurgici. Tra le patologie pericardiche sono incluse anche forme caratterizzate da raccolta di liquido di tipo trasudatizio, come accade nello scompenso cardiaco e nella sindrome nefrosica. Nel pericardio si può formare una raccolta ematica (emopericardio) se si verifica rottura di strutture vascolari o cardiache. Anche la terapia radiante ad alte dosi può essere associata a interessamento pericardico, quando le radiazioni siano dirette sul mediastino.

FisiopatologiaNormalmente la cavità pericardica contiene 25-50 ml di liquido sieroso, ed al suo interno vige una pressione

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negativa. Quando un agente patogeno di tipo chimico, fisico, batterico o virale lede l’integrità funzionale dei foglietti pericardici, la quantità di liquido aumenta. Il liquido pericardico può essere sieroso, siero-fibrinoso, ematico, purulento, colesterolico, chiloso (Tabella II). Il versamento pericardico può essere di tipo trasudativo o essudativo. Il trasudato presenta bassa densità, basso contenuto proteico, e scarse cellule mesoteliali, mentre l’ essudato è più denso, contiene maggior quantità di proteine e numerose cellule infiammatorie e mesoteliali. Con la formazione del versamento, la pressione intrapericardica aumenta, cosicché viene limitato il rilasciamento delle camere cardiache, aumentano le pressioni di riempimento ventricolare, ed è ostacolato il ritorno venoso. La pressione intrapericardica dipende dalla quantità di liquido e dalla sua rapidità di formazione. Se il versamento pericardico si forma lentamente, senza che si realizzi un tamponamento cardiaco, la pressione intrapericardica subisce solo un modesto incremento, e la gittata sistolica, la portata cardiaca, e la pressione arteriosa sono mantenute nei limiti della norma. Solo se la pressione intrapericardica aumenta ulteriormente, il riempimento diastolico e la gittata sistolica diminuiscono. In questa situazione la portata cardiaca è mantenuta entro limiti normali dall’aumento della frequenza cardiaca.

Quadro clinicoIl quadro clinico è condizionato dalla gravità del processo infiammatorio, dalla quantità di liquido e dalla velocità con cui questo si accumula. In genere, dopo due–tre settimane da un episodio di tipo influenzale, compaiono i sintomi della pericardite acuta. Il dolore precordiale è uno dei sintomi più caratteristici: presenta irradiazione verso il collo, verso il margine del muscolo trapezio e verso la spalla sinistra; talvolta può avere localizzazione epigastrica tanto da simulare un addome acuto. La sua intensità può variare, esacerbandosi con l’ inspirazione, la posizione supina, la tosse, la deglutizione, mentre si riduce in alcune posizioni antalgiche (la posizione seduta o quella genupetturale oppure flettendo il torace in avanti). Il dolore ha di solito durata protratta (giorni), e si riduce o scompare quando compare il versamento.Esame obiettivo Gli sfregamenti pericardici sono i segni più caratteristici della pericardite acuta: essi originano dall’attrito tra i foglietti pericardici, resi scabri dalla deposizione di fibrina. I rumori da sfregamento sono solitamente variabili, transitori e, quando presenti, consentono di porre diagnosi sicura di pericardite; possono accentuarsi con la compressione esercitata dal fonendoscopio oppure facendo inclinare in avanti il paziente . Indagini di laboratorioSono spesso presenti segni aspecifici di flogosi quali leucocitosi, elevazione della PCR, rialzo della VES. I reperti di laboratorio possono essere utili per la diagnosi di pericardite uremica (azotemia e creatininemia) o per la diagnosi di mixedema (FT3, FT4, TSH). Si può a volte riscontrare una fluttuazione del titolo anticorpale contro il virus responsabile. L’intradermoreazione alla tubercolina è utile nella diagnosi di pericardite tubercolare. La determinazione del titolo degli anticorpi antinucleo e del fattore reumatoide va eseguita nel caso si sospetti una malattia autoimmune. L’esame del liquido prelevato con la pericardiocentesi (reazione di Rivalta) può essere molto indicativo: si tratta di un trasudato nelle sindromi edemigene, di un essudato nelle forme infettive, di un liquido emorragico in caso di neoplasie, tubercolosi, sindrome di Dressler.

Esami strumentali Elettrocardiogramma: nella pericardite acuta l’ECG mostra sopralivellamento del tratto ST, generalmente a concavità superiore, nelle derivazioni con QRS positivo; le onde T appaiono alte ed appuntite e il PR può risultare sottoslivellato (Figura 1). Successivamente il sopralivellamento di ST regredisce, e l’onda T diventa negativa e simmetrica. Segno fondamentale per la diagnosi differenziale elettrocardiografica con le alterazioni in corso di infarto miocardico è l’assenza di onde q di necrosi. Quando la pericardite si accompagna ad abbondante versamento pericardico si verifica riduzione di voltaggio di tutte le onde dell’ECG, e a volte alternanza elettrica (vedi Capitolo 3). Esame radiologico : le pericarditi acute prevalentemente fibrinose, con scarso versamento, non sono evidenziabili utilizzando i metodi radiografici tradizionali standard. L’RX del torace può essere utile solo se la raccolta di liquido è superiore a 200-250 ml: in questa situazione l’ ombra cardiaca perde la normale configurazione ed assume aspetto a “fiasca” (Figura 2). Ecocardiogramma: è l’esame più specifico e sensibile in presenza di versamento pericardico (vedi Capitolo 4). L’Ecocardiogramma monodimensionale mostra uno spazio ecoprivo compreso tra il pericardio posteriore e la parete posteriore del ventricolo sinistro; a volte, in caso di versamenti maggiori, è presente uno spazio analogo tra il pericardio parietale anteriore e la parete anteriore del ventricolo destro. L’indagine bidimensionale permette di visualizzare in modo più completo il pericardio (Figura 3). Risonanza magnetica nucleare : la RMN cardiaca fornisce precisi dati anatomici sullo stato del pericardio, permettendo una miglior evidenziazione dei recessi pericardici superiori e dei versamenti posteriori, spesso misconosciuti.

Diagnosi differenzialeIl quadro può essere confuso con quello dell’ infarto miocardico acuto per il dolore precordiale e per la presenza di alterazioni elettrocardiografiche. Gli sfregamenti pericardici, i reperti ecocardiografici, l’assenza di aumento nel siero dei marker di necrosi miocardica (vedi Capitolo 24) permettono di dirimere il dubbio.

ComplicanzeSi dividono in precoci (recidive precoci e miocarditi) e tardive (recidive tardive e pericardite costrittiva). La più importante complicanza dei versamenti pericardici è il tamponamento cardiaco (vedi più avanti).

PERICARDITE CRONICA ESSUDATIVA

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Si diagnostica in presenza di versamento pericardico persistente da almeno sei mesi. Tutti i processi infettivi cronici, le collagenopatie, le malattie metaboliche, lo scompenso cardiaco congestizio, i tumori pericardici possono provocare versamenti pericardici ad andamento cronico.

Quadro clinicoI pazienti possono essere asintomatici o paucisintomatici dal punto di vista cardiaco, pur presentando versamento pericardico all’ ecocardiogramma. I principali sintomi consistono in ridotta tolleranza all’esercizio fisico e nella dispnea da sforzo. Versamenti massivi possono accompagnarsi a sintomi come tosse, disfagia, disfonia dovuti alla compressione delle strutture mediastiniche. All’ascoltazione cardiaca i toni risultano ovattati e si possono apprezzare a volte sfregamenti pericardici . Il decorso clinico della pericardite cronica essudativa dipende prevalentemente dalla malattia di base e dalla presenza di cardiopatia sottostante. E’ possibile l’evoluzione verso la forma costrittiva .

Diagnosi L’ ecocardiogramma è l’esame di scelta per la diagnosi di pericardite cronica essudativa. L’elettrocardiogramma può essere normale, ma spesso evidenzia QRS di basso voltaggio e alterazioni aspecifiche della ripolarizzazione. Il radiogramma del torace può evidenziare aumento dell’ ombra cardiaca.

TAMPONAMENTO CARDIACO

E’ una sindrome caratterizzata da segni e sintomi di bassa portata associati ad ipertensione venosa, che si verifica quando il versamento comporta un aumento della pressione intrapericardica tale da produrre una grave limitazione del riempimento del cuore in diastole.

Eziologia: Le cause più frequenti sono:

pericardite acuta o recidiva

sanguinamento nello spazio pericardico per interventi cardiochirurgici, cateterismo cardiaco, impianto di pacemaker, traumi toracici, complicanze della terapia trombolitica e anticoagulante;

rottura del cuore o di aneurismi disseccanti dell’ aorta nel sacco pericardico;

versamento pericardico di origine tubercolare o neoplastica

FisiopatologiaIl tamponamento cardiaco si sviluppa quando la quantità di liquido che si raccoglie supera la capacità di distensione del pericardio. Ne consegue aumento della pressione intrapericardica cui fa seguito progressiva riduzione del rilasciamento diastolico fino all’adiastolia (uguaglianza delle pressioni diastoliche in ventricolo sinistro, atrio sinistro, capillari polmonari e sezioni destre), compressione del cuore e limitazione dell’ afflusso di sangue ai ventricoli. Fattori determinanti sono la distensibilità del sacco pericardico, la rapidità con cui si forma il versamento, la compliance diastolica dei ventricoli e la volemia: anche modeste quantità di liquido (per esempio, 150 ml) formatesi rapidamente possono determinare tale complicanza. Le principali conseguenze fisiopatologiche del tamponamento sono:1) Riduzione della gittata sistolica a causa del ridotto riempimento ventricolare durante la diastole. 2) Aumento della pressione venosa centrale: l’ostacolato svuotamento atriale incrementa la venosa pressione a monte degli atri. Intervengono, inoltre, meccanismi di compenso che conseguono all’aumentato tono adrenergico: tachicardia e vasocostrizione periferica. L’aumentata frequenza cardiaca cerca di opporsi alla riduzione della portata, e l’incremento delle resistenze periferiche tende a mantenere la pressione arteriosa nella norma. Quando i meccanismi di riserva cardiaca non sono più efficaci e la perfusione tessutale tende a ridursi, si verifica un vero e proprio stato di shock cardiogeno (vedi Capitolo 22).Quadro clinicoE’ dominato dalla bassa portata cardiaca, dalla ipotensione e dai segni di elevata pressione venosa, con obiettività cardiaca muta. E’ una condizione di urgenza, da risolversi rapidamente con la rimozione del liquido (pericardiocentesi). Il paziente appare sofferente, con obnubilamento del sensorio, stato ansioso, sudorazione fredda, pallore, oliguria. E’ presente tachicardia, all’ascoltazione i toni cardiaci risultano ovattati, la pressione sistolica è ridotta, il polso arterioso è frequente e “piccolo”, e può comparire il polso paradosso, cioè l’accentuazione della fisiologica riduzione di ampiezza del polso e della pressione arteriosa durante l’inspirazione (vedi Capitolo 2 ).

Esami strumentaliL’elettrocardiogramma mostra tachicardia sinusale e bassi voltaggi dei QRS. L’ecocardiogramma evidenzia un versamento pericardico abbondante, sia in sede anteriore che posteriore, e numerosi altri segni fra cui un collasso diastolico della parete libera del ventricolo destro: la riduzione del diametro telediastolico del ventricolo destro al di sotto di 7 mm è un segno molto indicativo di tamponamento cardiaco.

PERICARDITE CRONICA COSTRITTIVA

Affezione che può conseguire a malattie pericardiche acute o croniche, caratterizzata da un addensamento sclerocicatriziale del pericardio che, riducendo di molto la compliance del sacco pericardico, interferisce con il

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normale riempimento diastolico del cuore.

EziologiaUna pericardite cronica costrittiva può complicare qualsiasi forma di pericardite acuta o cronica. Le principali cause di pericardite cronica costrittiva sono : le pericarditi idiopatiche ed infettive, specie la forma tubercolare, le neoplasie, la terapia radiante, gli interventi cardiochirurgici e l’emopericardio.

FisiopatologiaAlcune malattie del pericardio, soprattutto le pericarditi fibrinose o siero fibrinose, hanno come esito la formazione di tessuto fibroso denso e calcifico. Si forma, perciò, un involucro rigido che avvolge il cuore e ostacola gravemente il riempimento dei ventricoli. Gli effetti della costrizione pericardica si manifestano essenzialmente in fase meso e telediastolica, mentre il riempimento protodiastolico può essere normale. In protodiastole la pressione ventricolare è bassa, ma subito s’innalza notevolmente perché l’afflusso del sangue ai ventricoli è limitato dall’astuccio rigido che avvolge il cuore. La curva pressoria di entrambi i ventricoli, perciò, assume un aspetto a radice quadrata (dip and plateau) (Figura 4). Il riempimento ventricolare avviene principalmente in protodiastole, mentre nelle fasi seguenti è ridotto al minimo e la pressione telediastolica tende ad essere equivalente in tutte le cavità cardiache (> 15-20 mmHg nelle forme più gravi). Gli effetti della costrizione pericardica sono più marcati a carico delle sezioni destre. Il meccanismo di Frank Sktarling non è operante, essendo il volume telediastolico dei ventricoli fisso, mentre le modificazioni della gittata cardiaca dipendono quasi esclusivamente dalle modificazioni della frequenza cardiaca. Quadro clinicoLa malattia ha un esordio insidioso e può decorrere misconosciuta per molti anni. Il quadro clinico della pericardite costrittiva simula quello di uno scompenso cardiaco congestizio, da deficit del ventricolo destro. I sintomi sono la dispnea da sforzo e l’astenia (da attribuirsi alla riduzione del flusso anterogrado) mentre raramente si verificano dispnea a riposo e ortopnea. L’astenia è il sintomo prevalente. I toni cardiaci sono di intensità normale o ridotta, si può a volte ascoltare un tono aggiunto protodiastolico (pericardial knock), da attribuirsi al brusco impedimento diastolico dell’espansione ventricolare ad opera della costrizione pericardica). Sono presenti segni di ipertensione venosa periferica e di congestione viscerale sistemica: epatosplenomegalia, edemi declivi, ascite, turgore delle giugulari. Può anche essere presente polso paradosso (vedi Capitolo 2).

DiagnosiNon sono presenti alterazioni elettrocardiografiche specifiche, ma di solito i complessi QRS sono di basso voltaggio e le onde P slargate e bifide, a indicare ingrandimento atriale (vedi Capitolo 3), e nel 20-30 % dei casi si può riscontrare una fibrillazione atriale cronica. All’RX del torace l’ombra cardiaca appare di normali dimensioni, ed è frequente il rilievo di calcificazioni pericardiche. All’ecocardiogramma si nota un ingrandimento atriale con dimensioni ventricolari normali, l’ispessimento del pericardio, la dilatazione delle vene epatiche e della vena cava inferiore; l’esame doppler mostra anomalie del riempimento ventricolare. Il cateterismo cardiaco si rende necessario quando i sintomi e i reperti strumentali non permettono una diagnosi certa. La TAC e la risonanza magnetica cardiaca vengono considerate il gold standard per la diagnosi.

Diagnosi differenzialeLa pericardite costrittiva va distinta, sulla base dei reperti obiettivi e dei dai ecocardiografici, dallo scompenso cardiaco congestizio secondario a valvulopatie acquisite (specie tricuspidali). La diagnosi differenziale con la cardiomiopatia restrittiva (vedi Capitolo 30) è difficile: l’esame emodinamico è dirimente giacché nella cardiomiopatia restrittiva la pressione telediastolica è maggiore nelle sezioni sinistre che in quelle destre, mentre nella pericardite costrittiva tende ad essere uguale in entrambe le camere ventricolari. La diagnosi differenziale con il cuore polmonare cronico, la cirrosi epatica e l’ infarto del ventricolo destro è semplice, e si basa sull’anamnesi, sul quadro clinico ed sui principali esami strumentali.

CENNI DI TERAPIA DELLE PERICARDITI

La terapia delle pericarditi acute e del versamento pericardico dipende dalla loro eziologia: per esempio, nelle forme uremiche il trattamento necessario è quello dialitico, nelle forme tubercolari quello specifico con farmaci chemioterapici. Nelle pericarditi acute virali ed in quelle postpericardiotomiche, l’approccio terapeutico è dato dai FANS che debbono essere somministrati per lungo tempo (almeno 6 mesi) per impedire la comparsa di recidive. Anche la terapia corticosteroidea appare efficace ma aumenta in maniera significativa la frequenza delle recidive entro un anno dalla risoluzione del versamento. Nelle forme lievi con versamento modesto si consiglia l’ utilizzo dei FANS, mentre nelle forme associate a versamento pericardico importante si possono utilizzare anche i cortisonici. Nelle forme postinfartuali sono controindicati i farmaci corticosteroidei, che possono indebolire la formazione della cicatrice infartuale. Il trattamento del tamponamento cardiaco è costituito dalla rimozione del liquido pericardico mediante pericardiocentesi oppure drenaggio chirurgico con creazione della finestra pleuropericardica.

Capitolo 33MIOCARDITIAntonello Ganau, Pier Sergio Saba DEFINIZIONE

Le miocarditi rappresentano le malattie infiammatorie del tessuto miocardico. Sebbene abbiano frequentemente una evoluzione benigna, recenti dati autoptici le hanno chiamate in causa nella genesi della morte improvvisa dei giovani adulti, poiché in una percentuale compresa tra l’8% e il 12% dei casi l’esame istologico del

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miocardio di giovani deceduti improvvisamente ha mostrato i caratteristici aspetti infiammatori. In ampi studi prospettici, le miocarditi sono state anche implicate nella genesi della cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…) in circa il 10% dei casi.

EZIOLOGIA

I potenziali agenti eziologici delle miocarditi sono molto numerosi (Tabella I). La causa più frequente è una infezione virale, spesso da enterovirus ed in particolare da virus Coxsackie del serotipo B. Altri ceppi virali identificati come possibili cause di miocardite sono gli adenovirus, il virus dell’epatite C (HCV) e il virus dell’immunodeficienza acquisita (HIV). Anche alcuni batteri, miceti, protozoi e parassiti possono agire come agenti patogeni. Numerosi farmaci, tra cui gli antibiotici (sulfonamidi, cefaloslosporine, penicilline), i diuretici, la digossina, gli antidepressivi triciclici e gli antipsicotici possono indurre miocardite mediante reazioni da ipersensibilità. Tra le malattie autoimmunitarie, anche la celiachia può determinare una miocardite.

PATOGENESI

Gran parte delle conoscenze sulla patogenesi delle miocarditi deriva da modelli animali che hanno identificato tre fasi. Nella prima fase si verifica l’invasione diretta del miocardio da parte di virus cardiotropi o di altri agenti infettivi. Dopo la risoluzione o l’attenuazione della infezione virale può insorgere la seconda fase di attivazione immunologica, nella quale si osserva una espansione clonale di linfociti B, che determina ulteriore miocitolisi, aggravamento della infiammazione locale e produzione di anticorpi circolanti anti-muscolo cardiaco. La terza e ultima fase è conseguenza del danno virale e autoimmunitario, ma può continuare autonomamente dopo l’insulto iniziale. E’ caratterizzata da infiltrazione miocardica da parte di cellule infiammatorie, compresi i macrofagi e le Natural Killer, con la conseguente espressione di citochine pro-infiammatorie come la interleukina-1, la interleukina-2, il tumor necrosis factor (TNF), e l’interferone- . Il TNF, in particolare, attiva le cellule endoteliali, recluta ulteriori cellule infiammatorie, incrementa la produzione di citochine e ha un effetto inotropo negativo diretto.

MANIFESTAZIONI CLINICHE

Le miocarditi si possono presentare con quadri che vanno dalle semplici anomalie elettrocardiografiche asintomatiche allo shock cardiogeno. I pazienti possono lamentare sintomi prodromici attribuibili ad una infezione virale, quali febbre, mialgie, sintomi respiratori o gastroenterici, prima della comparsa di sintomi e segni di insufficienza cardiaca acuta (vedi Capitolo…). La manifestazione clinica più drammatica è la dilatazione cardiaca ad insorgenza acuta, con grave disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e rapida insorgenza di scompenso. Talora la miocardite simula una sindrome coronarica acuta. In questi casi si osserva un aumento dei marcatori di necrosi miocardica (CK-MB, Troponina) e modificazioni elettrocardiografiche tipiche dell’ischemia miocardica, quali sopraslivellamento del tratto ST, inversione dell’onda T, comparsa di onde Q patologiche o sottoslivellamento diffuso del tratto ST. L’ecocardiogramma evidenzia spesso anomalie della cinetica ventricolare sinistra, pur in presenza di coronarie indenni da lesioni all’esame coronarografico. Le miocarditi possono inoltre produrre variabili effetti sul sistema di conduzione e sul ritmo cardiaco, e sono in grado di provocare blocchi di branca (vedi Capitolo…), blocco A-V (vedi capitolo…), battiti ectopici (vedi Capitolo…) o tachicardie. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo…) si presenta raramente all’esordio della malattia, ma si osserva frequentemente durante il follow-up a lungo termine di questi pazienti.

VALUTAZIONE DIAGNOSTICA

La diagnosi di miocardite può essere sospettata sulla base dei sintomi, dell’elettrocardiogramma, di valori elevati della proteina C reattiva e dei marker di danno miocardico (troponina o CK-MB) e di aumento delle IgM specifiche per virus a tropismo miocardico, ma la diagnosi di certezza si basa sulla istologia.Elettrocardiogramma I quadri elettrocardiografici più comuni sono caratterizzati da una diffusa inversione dell’onda T, ma può anche comparire sopraslivellamento del tratto ST, soprattutto nelle forme di miocardite con interessamento pericardico ( Figura 1).Marcatori di infiammazione e di necrosi. La VES, la proteina C reattiva ed altri marcatori di infiammazione appaiono alterati in caso di miocardite, ma sono del tutto aspecifici e non si sono dimostrati particolarmente utili nella valutazione diagnostica e prognostica dei pazienti con miocardite. I marcatori di necrosi miocardica vengono misurati nei pazienti con sospetta miocardite, anche se la loro sensibilità diagnostica è risultata in genere bassa e variabile.EcocardiogrammaIn tutti i pazienti con sospetta miocardite dovrebbe essere eseguito un ecocardiogramma per la ricerca di anomalie della contrattilità ventricolare sinistra. Il reperto iniziale più comune è il riscontro di alterazioni della cinetica parietale del ventricolo sinistro, in assenza di significativa dilatazione della camera. La disfunzione del ventricolo destro è meno frequente. Risonanza magnetica nucleareLa metodica più promettente per la diagnosi delle miocarditi è la risonanza magnetica nucleare con contrasto di gadolinio. Tale tecnica è in grado di individuare le aree miocardiche interessate dall’infiltrazione infiammatoria e consente l’effettuazione di biopsie mirate per la conferma della diagnosi ( Figura 2). Biopsia endomiocardicaLa biopsia endomiocardica è tuttora considerata il gold standard per una diagnosi di certezza della miocardite. Il tipico quadro istologico mostra l’interstizio miocardico occupato da edema e infiltrato infiammatorio, ricco di linfociti e macrofagi, e la presenza di quadri di necrosi focale di miociti ( Figura 3) Tuttavia, le classificazioni

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istopatologiche proposte attualmente forniscono informazioni clinicamente utili soltanto in una minoranza dei casi. Per tale motivo la biopsia endomiocardica è generalmente riservata ai pazienti con una cardiomiopatia rapidamente progressiva e refrattaria alla terapia standard o con una cardiomiopatia di origine sconosciuta associata a progressiva alterazione del sistema di conduzione o aritmie ventricolari minacciose per la vita.

STORIA NATURALE

La storia naturale delle miocarditi è variabile, così come la presentazione clinica. Le miocarditi che simulano un infarto del miocardio evolvono, nella stragrande maggioranza dei casi, verso il completo recupero. I pazienti che esordiscono con scompenso cardiaco possono presentare una moderata disfunzione miocardica (frazione di eiezione 40-50%), che gradualmente migliora nel giro di settimane o mesi. In una piccola percentuale di soggetti, tuttavia, la miocardite può avere inizio con una funzione sistolica gravemente depressa (frazione di eiezione del ventricolo sinistro minore del 35%) e in tal caso la metà circa dei pazienti evolve verso lo scompenso cardiaco cronico, il 25% va incontro al trapianto o alla morte, e solo nel rimanente 25% si assiste ad un progressivamente miglioramento della funzione ventricolare.Il tasso di mortalità delle miocarditi varia dal 20 al 56%, ma raggiunge l’80% a 5 anni nelle forme che alla biopsia mostrano un quadro istologico a cellule giganti. La presentazione clinica caratterizzata da sincope, disturbo della conduzione intraventricolare (blocchi di branca) o frazione di eiezione minore del 40% è gravata da un maggior rischio di morte o di evoluzione verso il trapianto.

TERAPIA

La terapia della miocardite è principalmente di supporto. Solo i pazienti che si presentano con un quadro di scompenso cardiaco grave hanno necessità di trattamenti aggressivi, e in essi è indicato l’uso di farmaci inotropi positivi, diuretici, e vasodilatatori. Dopo la stabilizzazione emodinamica iniziale, la terapia dovrebbe includere un ACE-inibitore e un ß-bloccante e, nei casi di grave disfunzione sistolica (III e IV classe funzionale NYHA), un diuretico.Risultati non ancora univoci suggeriscono l’impiego di farmaci immunosoppressori nelle miocarditi. Al momento questo tipo di terapia non è da considerare di scelta nella gestione routinaria di questi pazienti, sebbene dati incoraggianti siano stati ottenuti in quelli con miocardite a cellule giganti.

Capitolo 34ENDOCARDITE INFETTIVASergio Dalla Volta DEFINIZIONE

Questa malattia è stata nota, per molti decenni, con i termini di endocardite lenta o di endocardite batterica subacuta, che definiscono il primo l’andamento abitualmente, ma non necessariamente, torpido ed il secondo l’eziologia batterica della maggior parte dei casi. Si tratta di una forma morbosa che si sviluppa nell’endotelio del cuore già precedentemente leso, per lo più sulle valvole cardiache sia native che protesiche, su cui si impiantano dapprima le piastrine, che penetrano attraverso la lesione stessa (endocardite abatterica). In presenza di batteriemia per penetrazione di microrganismi da varie fonti (cavità orale in particolare), i germi colonizzano sulle piastrine (endocardite infettiva) e formano le cosiddette vegetazioni, arricchite poi da eritrociti, leucociti, e cellule infiammatorie. Oltre che sulle valvole, le colonie si localizzano nei difetti del setto interventricolare, nel dotto arterioso di Botallo o sull’endocardio murale; quest’ultima evenienza è possibile solo in caso di applicazione di dispositivi intracardiaci come cateteri o piccoli strumenti per chiudere difetti.Particolari condizioni, come la tossicodipendenza, le diminuite resistenze immunitarie, e l’emodialisi favoriscono la malattia, la cui frequenza è oggi stimabile tra il 2,5 ed il 6,0 per 100.000 persone.

EZIOLOGIA

Anche se molti microrganismi, non solo batterici, ma anche fungini, possono essere causa della malattia, non più di una decina di agenti è responsabile del 90% dei casi.Sulle valvole native o nei difetti intracardiaci, l’85% è costituito da streptococchi, pneumococchi o enterococchi; nei tossicodipendenti lo stafilococco aureo è presente nel 90% dei casi; tra i funghi prevale la candida. I microrganismi entrano nel torrente ematico da mucose, siti di infezioni focali, meno spesso cute. Essi aderiscono ai trombi nella quasi totalità dei casi, eccetto lo stafilococco aureo che può colpire direttamente l’endotelio sano. Una patologia cardiaca preesistente è abitualmente necessaria per l’impianto dei germi, ma la frequenza di complicanze endocarditiche nelle singole patologie cardiovascolari è variabile: il rischio è massimo nell’insufficienza valvolare aortica o mitralica, seguite dalla persistenza del dotto arterioso e dai difetti del setto ventricolare, mentre è minima nella stenosi mitralica o nel prolasso isolato della valvola mitralica. Nei portatori di protesi valvolari, il rischio è più o meno simile per ogni tipo di cardiopatia che ha richiesto l’inserzione della protesi, specie se meccanica; nei tossicodipendenti che fanno uso di siringhe non sterili con trasferimento della droga a più persone, la sede iniziale è spesso la tricuspide, ma le forme più gravi sono la localizzazione mitralica od aortica. I microrganismi penetrano per lo più in seguito a manovre strumentali sulla bocca (estrazioni dentarie) o dopo endoscopia digestiva, cateterismo delle vie urinarie, cateterismo cardiaco, emodialisi, aghi a permanenza nelle vene, raramente a causa di infezioni cutanee o ustioni.

ANATOMIA PATOLOGICA

I germi si localizzano nelle strutture sopra ricordate in presenza di endotelio non normale (quello intatto è assai resistente all’impianto di microrganismi) dal lato della cavità a minore pressione (per esempio, sulla faccia

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atriale dei lembi mitralici). Si depositano inizialmente le piastrine e quindi giungono i batteri, che formano le “colonie”, mescolati a globuli rossi e bianchi, fibrina e materiale di distruzione del tessuto valvolare. A volte i germi si moltiplicano in modo violento, formando vere e proprie ulcerazioni, ma più spesso la moltiplicazione è lenta. Poiché le vegetazioni (Figura 1) sono costituite da materiale friabile, la loro rottura è frequente, comportando la reimmissione in circolo del materiale che comprende i microrganismi (batteriemia), e provocando nuove localizzazione in vari organi e tessuti: cute, mucose, reni, milza, cervello.

PATOGENESI

Le caratteristiche del quadro clinico e gli studi sperimentali hanno dimostrato che le manifestazioni della malattia ed i sintomi e segni clinici sono la conseguenza di tre meccanismi attivi simultaneamente: 1) le conseguenze della infezione; 2) le metastasi trombo-emboliche; 3) le alterazioni immunologiche. Le conseguenze dell’infezione sono legate alla tossicità dei microrganismi ed alla intensità della loro propagazione ai vari organi; le manifestazioni emboliche, dipendenti dalla friabilità delle vegetazioni, colpiscono in modo particolare alcuni distretti; i fenomeni autoimmuni sono la conseguenza della stimolazione del sistema immunitario da parte dei germi, con formazione di autoanticorpi.

QUADRO CLINICO

I sintomi e i segni della infiammazione sono precoci e numerosi, anche se aspecifici: tra quelli generali la febbre di tipo continuo, quasi mai con brividi, con valori inferiori a 39°, compare nell’80-90% dei casi, mancando solo negli immunocompromessi o nei grandi anziani. Essa si accompagna ad inappetenza, perdita di peso e malessere; meno comuni sono sudorazione e cefalea. L’ascoltazione cardiaca può rivelare la comparsa di nuovi soffi o la modificazione di soffi preesistenti in oltre l’80% dei casi, ed indica la valvola interessata. La tachicardia è presente nella metà dei casi. La splenomegalia, oggi che la terapia antibiotica è disponibile, è rilevabile in non più del 50% dei casi, essendo un segno non precoce. Nella metà dei casi, sono riscontrabili petecchie nelle congiuntive, nella bocca, nella mucosa del palato, alle estremità; meno frequentemente si osservano i noduli di Osler, noduli teneri, piccoli come capocchie di spillo, ben visibili alle estremità delle dita e di durata da molte ore a pochi giorni. Le conseguenze emboliche della malattia comprendono: le macchie di Janeway, manifestazioni eritematose od emorragiche sulle palme delle mani o le piante dei piedi (7-10% dei malati), l’embolia splenica, l’infarto renale, l’occlusione embolica dell’arteria retinica; più rari gli ascessi embolici cerebrali con sindrome neurologica di focolaio.Tra le manifestazioni da immunocomplessi le più importanti sono le lesioni renali (insufficienza renale da glomerulonefrite con ematuria e iperazotemia), la presenza di anticorpi specifici per il fattore reumatoide o di anticorpi antisarcolemmatici ed antiendocardio. Altre manifestazioni sono l’insufficienza cardiaca da rottura di corde tendinee, l’emorragia cerebrale da rottura di emboli micotici, lo shock settico, l’insufficienza renale, che può riconoscere più meccanismi, compresa la terapia antibiotica in eccesso o con farmaci nefrotossici.

Il laboratorio mostra reperti aspecifici quali gradi variabili di anemia, leucocitosi neutrofila, aumento della velocità di sedimentazione. Di estrema utilità è l’esecuzione di ripetute emoculture, volte all’isolamento del germe responsabile. L’emocultura conferma che si tratti di endocardite infettiva con batteriemia e permette di iniziare una terapia antibiotica mirata. Di solito i germi patogeni abituali danno positività della emocultura, ma in taluni casi, specie nelle forme su protesi valvolari da germi spesso poco patogeni, l’emocultura può non essere positiva inizialmente o esserlo in ritardo.Dati di notevole importanza offre l’ecocardiografia, per via transtoracica e sopratutto transesofagea: tale esame è oggi obbligatorio in ogni caso sospetto di endocardite infettiva. Esso mostra la presenza delle vegetazioni aderenti alle valvole o alle altre sedi della infezione, sotto forma di ammassi translucidi (ECO 39,ECO 40,ECO 41,ECO 42,ECO 43). L’ecografia transtoracica dà positività in circa il 65% dei casi, per cui è la prima ricerca da eseguire, quella transesofagea dà positività vere in oltre il 90%, per cui è obbligatoria nel sospetto fondato di endocardite se l'ecocardiografia transtoracica è negativa. Il significato prognostico delle vegetazioni è piuttosto controverso, anche se il rischio embolico è particolarmente frequente se le vegetazioni sono voluminose. Durante il decorso, le vegetazioni mostrano, quando la malattia tende alla guarigione, una riduzione, sino alla loro scomparsa nella metà dei casi, mentre restano invariate, anche a lungo termine, negli altri. In presenza di complicanze, ascessi dell'anello valvolare, aneurismi micotici dei seni di Valsalva, fistole, e così via, l'ecocardiografia è di grande valore.Elettrocardiogramma, radiografia del torace, immagini da TAC o RMN non forniscono di solito dati utili alla diagnosi dell’endocardite infettiva.

Riconoscimento della malattia. Gli aspetti polimorfi della endocardite, specie oggi, visto che la terapia antibiotica ha modificato il quadro clinico, hanno sempre fornito difficoltà non piccole, per cui si è presto ricorsi alla ricerca di criteri di certezza. Oggi i criteri della Duke University (Tabella I), che classifica i dati disponibili in maggiori e minori, sono seguiti quasi senza eccezioni: due criteri maggiori o uno maggiore e tre minori o, in modo meno attendibile, cinque minori, sono considerati necessari per la diagnosi definiva. La difficoltà di riconoscimento della malattia, favorita dalla dimenticanza del postulato di Osler “qualsiasi processo febbrile che dura più di 5 giorni in un cardiopatico può essere endocardite infettiva” rende spesso tardivo il riconoscimento, per cui la diagnosi viene raggiunta dopo oltre due mesi, anche per la difficoltà di distinguere la malattia da altre patologie infettive e no, tra cui il lupus eritematoso, la brucellosi, la tubercolosi polmonare, le glomerulonefriti, le vasculiti, i tumori. Decorso, prognosi. La malattia è stata radicalmente modificata nel suo andamento e nella prognosi dall’avvento della terapia antibiotica e, in casi particolari, dalla chirurgia cardiaca. In assenza di trattamento, l’endocardite infettiva porta alla morte in circa il 90% dei casi; oggi oltre l’80% dei malati può guarire se la

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terapia, medica o chirurgica, è ben condotta. Chiaro è che una terapia iniziata tardivamente può portare alla compromissione della situazione cardiaca, soprattutto a un aggravamento di lesioni valvolari preesistenti.

CENNI DI TERAPIA

La terapia antibiotica è basata sulla identificazione del microrganismo responsabile e sulla dimostrazione della sensibilità del germe all’antibiotico. Il trattamento iniziale dovrebbe essere condotto con i dosaggi massimi del farmaco e per via endovenosa, in modo da assicurare una concentrazione costante per tutte le 24 ore. In caso di risposta positiva, la terapia va condotta per 4 settimane, e a partire dalla seconda è possibile il trattamento orale. In caso di endocardite ad emocultura negativa, si può iniziare una terapia empirica a largo spettro, che comprenda un macrolide ed un antibiotico attivo sui gram negativi a dosi elevate e, possibilmente, sostituito dalla terapia più adatta quando l’emocultura ha chiarito il microrganismo responsabile.La terapia chirurgica ha ben precise indicazioni, e può essere impiegata nelle seguenti condizioni:

infezioni incontrollate dai farmaci, dopo due settimane, in presenza di germi particolari, quali stafilococco aureo nei tossicodipendenti con grave endocardite o lo pseudomonas o talune infezioni fungine;

mancata risposta alla terapia antibiotica per presenza di grave insufficienza cardiaca;

lesione valvolare mitralica aortica o di entrambe le valvole con decorso tempestoso;

ascessi anulari, batteriemia persistente nonostante una terapia medica massimale, embolie ricorrenti;

vegetazioni molto grandi in sede valvolare.

Profilassi: poiché la malattia compare spesso dopo manovre mediche comportanti batteriemia (vedi sopra), queste dovrebbero essere precedute e seguite immediatamente da profilassi con antibiotici attivi sui gram positivi o negativi secondo le sede della manovra. La profilassi non risolve definitivamente il problema del rischio, ma ne riduce le probabilità: pertanto essa dovrebbe essere eseguita in tutti i casi in cui la possibilità di una batteriemia è consistente. Per le manovre sull’apparato respiratorio o dentario, l’amoxacillina è abitualmente adeguata, ma può essere sostituita con la vancomicina o la clindamicina in caso di intolleranza: per le manovre comportanti il rischio di germi gran negativi, la gentamicina è il farmaco più largamente impiegato.

Sezione X. Aritmie

Capitolo 36DEFINIZIONE E MECCANISMI DELLE ARITMIEGiuseppe Oreto, Marco Cerrito DEFINIZIONE

Le Aritmie sono state classicamente definite come alterazioni della formazione e/o della conduzione dell’impulso. Secondo una definizione più recente Aritmia è ogni situazione non classificabile come ritmo cardiaco normale, inteso come ritmo ad origine dal nodo del seno, regolare e con normale frequenza e conduzione.

CLASSIFICAZIONE

Una task force Italiana, incaricata nel 1999 di rivedere la classificazione delle Aritmie, ha affermato l’opportunità di abbandonare definitivamente la vecchia nomenclatura, che divideva la aritmie in ipercinetiche e ipocinetiche. Questi termini non andrebbero più impiegati per due ordini di motivi: da un lato essi utilizzano la parola “cinetica”, che di solito esprime il movimento delle pareti del cuore più che il ritmo stesso, per cui possono essere fonte di confusione, e dall’altro divergono nettamente da quelli utilizzati oltre i confini d’Italia, rendendo meno semplice la comunicazione fra gli Italiani ed il resto del mondo.La classificazione attuale delle Aritmie prevede 3 categorie: Tachicardie, Bradicardie, Battiti ectopici.Le tachicardie vengono suddivise in sopraventricolari e ventricolari, e ciascuna di queste classi ha diverse forme (Tabella I). Le bradicardie comprendono la bradicardia sinusale, il blocco seno-atriale e il blocco atrio-ventricolare. I battiti ectopici possono essere sopraventricolari (atriali e giunzionali) o ventricolari.

MECCANISMI ELETTROGENETICI

Vi sono meccanismi differenti per le tachicardie e i battiti ectopici da un lato, e le bradicardie dall’altro. Nelle tachicardie e anche nei battiti ectopici prematuri (extrasistoli) gli impulsi nascono quasi sempre al di fuori dal nodo del seno e sono anticipati rispetto al normale ritmo sinusale, per cui il problema fondamentale è l’alterata formazione dell’impulso. Nelle bradicardie, invece, il disordine principale riguarda (tranne che nella bradicardia sinusale) la conduzione più che la formazione dell’impulso.Le tachicardie e le extrasistoli condividono i tre seguenti meccanismi aritmogeni: 1) L’aumentato automatismo, 2) Il rientro, 3) I postpotenziali.

L’AUTOMATISMO

Esistono nel cuore due popolazioni fondamentali di cellule: quelle segnapassi e quelle di lavoro. Soltanto le prime possiedono la capacità dell’automatismo, cioè sono in grado di iniziare il processo di depolarizzazione, che poi si trasmette alle altre cellule. In altri termini, durante la fase 4 il potenziale di riposo di queste cellule non è costante, a circa -90 mV, ma diviene gradualmente meno negativo fino a raggiungere il potenziale soglia, in corrispondenza del quale scatta la depolarizzazione rapida (fase 0 del potenziale d’azione). In altri termini,

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mentre le cellule di lavoro si attivano solo quando vengono raggiunte da un impulso esterno, quelle segnapassi (denominate anche cellule pacemaker) vanno incontro a depolarizzazione diastolica spontanea durante la fase 4. La frequenza con cui le cellule segnapassi generano gli impulsi dipende dalla pendenza della fase 4 di depolarizzazione diastolica spontanea. Un segnapassi può incrementare la propria frequenza di scarica con tre diversi meccanismi: l’aumentata pendenza della fase 4, lo spostamento del livello massimo di polarizzazione diastolica verso valori meno negativi, lo spostamento del potenziale soglia verso valori più negativi (Figura 1). In alto (pannello 1) è rappresentata l’aumentata pendenza della fase 4: il potenziale b (tratteggiato) ha una maggiore pendenza rispetto ad a, e di conseguenza la frequenza di formazione degli impulsi aumenta. Nel pannello di mezzo (2) viene presentata la differenza fra una cellula polarizzata a -90 mV (potenziale a, linea continua) e una in cui la polarizzazione è minore, per esempio, -75 mV (potenziale b, linea tratteggiata). La seconda raggiungerà il potenziale soglia più in fretta, poiché è minore il percorso che separa il potenziale iniziale dalla soglia, e avrà una frequenza di scarica maggiore rispetto a quella dell’altra.In basso (3) si può osservare l’effetto dello spostamento della soglia verso valori meno negativi. Se la soglia si sposta da -60 mV (a) a circa -70 mV (b, linea tratteggiata) la cellula raggiungerà più in fretta il potenziale soglia e la sua frequenza di scarica aumenterà.Nel cuore vi sono numerosi pacemaker, ciascuno con il proprio automatismo, espresso dalla frequenza di scarica potenziale; i segnapassi sono soprattutto contenuti nel sistema di conduzione, particolarmente in alcune zone degli atri, nel fascio di His, nelle branche e nelle loro diramazioni, nelle cellule di Purkinje; il nodo del seno è normalmente il segnapassi dominante perché è il più rapido, e il suo impulso, diffondendosi per tutto il cuore, scarica tutte le altre cellule pacemaker prima che il loro impulso “maturi”, cioè raggiunga la soglia. Il ritmo fisiologico è, perciò, sinusale. In condizioni patologiche, altri pacemaker possono prendere il comando perché il loro automatismo, per uno dei meccanismi sopra descritti, diventa maggiore di quello del nodo del seno: ecco generarsi un battito ectopico, se il segnapassi diverso dal nodo del seno riesce a guadagnare il comando del cuore una sola volta, o un ritmo ectopico, nel caso in cui tale segnapassi riesca a depolarizzare il cuore per diversi battiti consecutivi. Vi sono molte condizioni patologiche in cui l’automatismo di un segnapassi ectopico può essere esaltato; fra queste la stimolazione simpatica, l’ischemia, l’acidosi, gli squilibri elettrolitici. Inoltre, anche una cellula che normalmente non ha attività pacemaker, può assumerla in determinate circostanze, per esempio in corso d’infarto miocardico.

IL RIENTRO

Inteso in senso “classico”, il rientro è il fenomeno in cui un impulso generatosi in una camera torna indietro a riattivare la camera da cui proveniva. In realtà lo stesso termine si applica quando un impulso torna a riattivare il tessuto da cui proveniva, indipendentemente dal concetto di “camera”.Perché il rientro abbia luogo, è necessario che siano contemporaneamente presenti 3 elementi fondamentali: il circuito, il blocco unidirezionale, la conduzione rallentata.Il circuito rappresentato nella Figura 2 corrisponde approssimativamente a quello che si realizza nel nodo A-V. Nello schema vi è una zona ineccitabile al centro (il disco) e due vie (a e ß) che si riuniscono in alto in una via superiore comune (x) e in basso in una via inferiore comune (y). Un impulso proveniente dalla via superiore comune penetra in entrambe le vie; poiché la via ß ha una elevata velocità di conduzione, l’impulso l’attraversa in un tempo breve e raggiunge la via inferiore comune quando ancora la via a, che ha una bassa velocità di conduzione, è stata percorsa solo in parte. L’impulso che proviene dalla via ß può, quindi, invadere la via a in senso retrogrado e collidere con il fronte d'onda anterogrado che sta percorrendo questa via. In questo caso vi è il circuito, ma il rientro non si realizza per la mancanza degli altri due elementi.

Il blocco unidirezionale viene schematizzato nella Figura 3. Esso si può realizzare perchè le due vie (a e ß), oltre a possedere una diversa velocità di conduzione, hanno anche un differente periodo refrattario, che è più lungo per la via rapida ß. Può sembrare strano che in un tessuto l’elevata velocità di conduzione si associ con un lungo periodo refrattario, mentre un altro tessuto possiede bassa velocità conduttiva e breve periodo refrattario. In realtà la velocità di conduzione dipende dalla pendenza (Vmax) della fase 0 del potenziale d’azione, mentre la refrattarietà dipende dalla durata del potenziale d’azione, soprattutto dalle fasi 2 e 3. E’ quindi comprensibile che una via abbia lungo periodo refrattario ed elevata velocità di conduzione, mentre l’altra ha periodo refrattario breve e bassa velocità di conduzione. Nella Figura 3, un impulso prematuro (fulmine) raggiunge simultaneamente le due vie: la via ß è ancora refrattaria, per cui l’impulso vi si blocca, mentre la via a è già uscita dalla refrattarietà, e riesce a condurre. L’impulso raggiunge attraverso la via a la via inferiore comune (y), e da qui retroinvade la via ß. Giunto all’estremità superiore della via ß, però, incontra ancora tessuto in periodo refrattario a causa della precedente attivazione anterograda, e si blocca. Il rientro, perciò, non avviene, visto che solo due elementi (il circuito e il blocco unidirezionale) sono presenti.

La conduzione rallentata, rappresentata nella Figura 4, consente infine il realizzarsi del rientro. Qui, a somiglianza della Figura 3, l’impulso prematuro proveniente dalla via superiore comune si blocca nella via ß e viene condotto dalla via a; raggiunta la via inferiore comune, poi, retroinvade la via ß. Diversamente da quanto accadeva nella Figura 3, però, qui l’impulso viene condotto così lentamente che, al momento in cui esso giunge alla parte prossimale della via ß, questa è già uscita dalla refrattarietà. Questo impulso, perciò, può “rientrare” nella via x, cioè nel tessuto dal quale proveniva, e contemporaneamente ripercorrere in senso anterogrado la via a. Il rientro può essere unico, oppure l’impulso può percorrere ininterrottamente il circuito, dando luogo a una tachicardia da rientro (Figura 4).Il rientro si può verificare in qualsiasi sede del cuore, tanto negli atri che nella giunzione A-V e nei ventricoli. Il nodo A-V è la struttura ideale per il realizzarsi del rientro, poiché possiede già in condizioni fisiologiche 2 vie con

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diversa refrattarietà e velocità di conduzione. Altra situazione in cui si verifica il rientro è la Sindrome di Wolff-Parkinson-White, nella quale il circuito di rientro comprende una via accessoria di conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 38). Anche il flutter atriale è un’aritmia da rientro, dovuta a un macrocircuito che, nella maggior parte dei casi, è contenuto nell’atrio destro.Nei ventricoli, il rientro si realizza in presenza di fibrosi miocardica, soprattutto in seguito a un infarto: l’esistenza di aree inattivabili (fibrotiche) all’interno di zone miocardiche eccitabili consente il formarsi di un circuito, da cui può originare una tachicardia ventricolare.

I POSTPOTENZIALI (ATTIVITÀ TRIGGERATA)

Una forma particolare di automatismo caratterizza l'attività triggerata. Diversamente dall'automatismo propriamente detto, nel quale la cellula segnapassi inizia la depolarizzazione autonomamente e senza l'intervento di un evento esterno scatenante, nell’attività triggerata è necessario un potenziale estraneo (trigger) che provochi la formazione dell'impulso prematuro. Il battito scatenante viene seguito da post-potenziali che, in determinate circostanze, generano un nuovo potenziale d'azione. I post-potenziali sono oscillazioni del potenziale di membrana che seguono un potenziale d'azione o si sovrappongono ad esso. Sono stati descritti due tipi di post-potenziali: precoci e tardivi (Figura 5). I post-potenziali precoci si manifestano nel corso della ripolarizzazione (fasi 2 e 3 del potenziale d'azione), prima che questa si completi. Essi si osservano solitamente durante bradicardia o ripolarizzazione prolungata, ma possono anche essere indotti dalle catecolamine e da tutta una serie di condizioni quali ipokaliemia, ipocalcemia, acidosi, ipossia, somministrazione di alcuni farmaci. I post-potenziali tardivi, che si osservano quando la ripolarizzazione si è completata (fase 4), sono oscillazioni verso la positività del potenziale di membrana, che fanno seguito ad una temporanea iperpolarizzazione (Figura 5). Quando il post-potenziale tardivo è sufficientemente ampio da raggiungere la soglia, si genera un nuovo potenziale d'azione. La durata della ripolarizzazione influenza l'ampiezza dei post-potenziali tardivi: quanto più prolungata è la ripolarizzazione tanto maggiore è il voltaggio dei post-potenziali tardivi, e di conseguenza tanto più è probabile che si inneschi l'attività triggerata. I farmaci che prolungano il potenziale d'azione, come la chinidina, possono aumentare l'ampiezza dei post-potenziali tardivi e rendere più facile lo sviluppo dell'attività triggerata. Fra le aritmie da post-potenziali vi sono la “Torsione di punte”, una tachicardia ventricolare che si associa in genere a QT lungo, le aritmie da digitale, quelle da disionia e quelle indotte da catecolamine.

ELETTROGENESI DELLE BRADICARDIE

Le bradicardie possono conseguire a due meccanismi (vedi Capitolo 41): ridotta frequenza di formazione degli impulsi o alterata conduzione di impulsi che si formano con frequenza normale. L’avviatore primario del cuore è il nodo del seno (il segnapassi dotato di maggiore automatismo), e il sistema di conduzione trasmette il suo impulso a tutte le cellule miocardiche secondo una sequenza prestabilita e costante. Diffondendosi per il miocardio, l’impulso sinusale scarica tutti gli altri potenziali segnapassi più lenti, posti un pò dovunque, prima che essi riescano ad emettere il loro impulso. Se, tuttavia, il nodo del seno diviene deficitario, tanto da emettere impulsi a frequenza troppo bassa, i segnapassi secondari possono intervenire, dando inizio alla depolarizzazione del cuore. Questo meccanismo prende il nome di scappamento, e i complessi atriali e ventricolari così generati vengono detti appunto battiti di scappamento (vedi Capitolo 37).Altro possibile meccanismo delle bradicardie è la mancata conduzione degli impulsi sinusali. Il problema può riguardare la conduzione fra il nodo del seno e l’atrio circostante (blocco seno-atriale) o la trasmissione dell’impulso dagli atri ai ventricoli (blocco atrio-ventricolare). Anche in queste circostanze possono intervenire, a depolarizzare il miocardio che l’impulso sinusale non riesce a raggiungere, i segnapassi di scappamento.

Capitolo 37BATTITI ECTOPICIFrancesco Luzza, Scipione Carerj, Sebastiano Coglitore DEFINIZIONE

In condizioni normali, il ritmo cardiaco è governato dal nodo senoatriale, che rappresenta il naturale pacemaker del cuore e, a intervalli regolari, emette impulsi elettrici che depolarizzano tutto il miocardio (Figura 1). In particolari condizioni l’attivazione del cuore, o anche di parte di esso, può dipendere da un impulso che origina in una sede diversa dal nodo senoatriale; in tali casi l’impulso è definito ectopico e il battito che ne deriva è un battito ectopico. L’emissione di un impulso ectopico può essere “anticipata” rispetto al momento in cui è atteso il complesso del ritmo di base; in tali casi si generano dei battiti prematuri detti anche extrasistoli. A seconda della sede di origine, le extrasistoli possono essere distinte in atriali, giunzionali e ventricolari. Un battito ectopico può anche manifestarsi “in ritardo” rispetto al momento in cui era atteso un complesso del ritmo di base; il fenomeno si può verificare quando viene meno il battito normale, per cui un pacemaker secondario, solitamente “silente” perchè depolarizzato dalla scarica del segnapassi primario, dà origine a un impulso che attiva il miocardio. Questi complessi ectopici si manifestano dopo un ciclo più lungo di quello di base e sono definiti battiti di scappamento. Come le extrasistoli, anche i battiti di scappamento possono essere atriali, giunzionali o ventricolari.

CRITERI GENERALI

Le extrasistoli sono un fenomeno molto frequente nella popolazione generale, e possono manifestarsi sia in pazienti cardiopatici sia in soggetti clinicamente sani. Spesso non provocano sintomatologia alcuna e il loro

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riscontro è assolutamente casuale; a volte, tuttavia, sono avvertite dal paziente e rappresentano la più frequente causa di cardiopalmo. Nella maggior parte dei casi, il paziente percepisce non il battito anticipato bensì il lungo intervallo che di solito segue il complesso prematuro (pausa postextrasistolica) e lo descrive come una sensazione di “vuoto”, di “battito mancante” o di “cuore che si ferma”. In altre occasioni, invece, è il battito del ritmo di base successivo all’extrasistole ad essere avvertito: la pausa postextrasistolica, infatti, determina un prolungamento della diastole, cioè del tempo di riempimento ventricolare, che provoca un incremento della gittata sistolica, per cui il battito cardiaco viene sentito dal paziente come un “colpo”, un “tonfo” o un “senso di calore al volto”.Alla palpazione del polso, l’extrasistole viene avvertita come un battito anticipato seguito da una pausa o, non di rado, come un “battito mancante”; infatti, se l’extrasistole è molto precoce e la diastole è breve, il ventricolo sinistro si contrae mentre contiene pochissimo sangue e la gittata sistolica è così ridotta da non generare un’onda sfigmica apprezzabile al polso.In presenza di battiti prematuri è necessario analizzare all’ECG alcuni elementi necessari per una diagnosi corretta e una completa valutazione del fenomeno.

Morfologia del complesso prematuroLe extrasistoli presentano generalmente una morfologia differente da quella dei battiti del ritmo di base. L’attivazione della camera cardiaca in cui ha origine l’extrasistole, infatti, inizia in un punto diverso e procede con una sequenza differente rispetto a quanto si verifica in condizioni normali; ciò determina nei complessi prematuri un aspetto dell’onda P e/o del QRS differente rispetto a quello dei battiti sinusali. In molti casi, specie in soggetti esenti da cardiopatia, i complessi prematuri sono uguali tra loro (extrasistoli monomorfe); non di rado, però, la loro morfologia è variabile (extrasistoli polimorfe).

Intervallo di accoppiamento tra l’extrasistole e il precedente battito del ritmo di base Questo intervallo, detto copula, è generalmente costante o presenta minime oscillazioni per battiti prematuri che hanno la stessa origine; ciò suggerisce che l’emissione dell’impulso prematuro sia in qualche modo legata alla precedente depolarizzazione dovuta al ritmo di base. Quando la copula è molto breve l’extrasistole è detta precoce, in caso contrario è detta tardiva; se la durata della copula è solo di poco inferiore a quella del ciclo di base, cosicché il complesso prematuro si manifesta appena prima del battito del ritmo di base, l’extrasistole si definisce telediastolica. A volte, battiti prematuri con identica morfologia mostrano una copula notevolmente variabile; in questi casi è molto probabile che l’impulso ectopico origini da un focus la cui attività sia indipendente da quella del ritmo di base e proceda secondo un ritmo proprio. Il fenomeno è definito parasistolia.

Intervallo tra l’extrasistole e il battito seguente del ritmo di base Il ciclo cardiaco successivo a un complesso prematuro è generalmente più lungo di quello del ritmo di base ed è definito pausa postextrasistolica. A seconda della durata, questa può essere compensatoria o non compensatoria. Nel primo caso, frequente soprattutto nelle extrasistoli ventricolari, la somma tra la durata della copula e quella della pausa equivale al doppio del ciclo di base, cosicché l’accorciamento del ciclo cardiaco provocato dall’extrasistole è perfettamente “compensato” dalla pausa successiva.Quando la pausa è non compensatoria la somma della sua durata con quella della copula è inferiore al doppio di un ciclo di base. Il fenomeno è frequente nelle extrasistoli sopraventricolari, ma a volte si può osservare anche dopo un battito prematuro ventricolare.

Modalità di comparsa dei complessi prematuriI battiti ectopici possono manifestarsi sporadicamente o, al contrario, essere relativamente frequenti. Spesso possono presentare un ritmo circadiano (ad esempio, incidenza elevata durante le ore diurne e scomparsa pressoché totale durante il riposo notturno) o comparire in occasione di eventi specifici. A volte, inoltre, possono manifestarsi con una cadenza regolare e dar luogo a sequenze più o meno prolungate di bigeminismo (alternanza regolare di un complesso del ritmo dominante e di un’extrasistole), trigeminismo (ogni extrasistole si manifesta dopo due complessi del ritmo di base), quadrigeminismo (un’extrasistole ogni tre complessi del ritmo di base) e così via.Nella maggior parte dei casi, le extrasistoli sono isolate (un solo complesso ectopico si manifesta tra due battiti del ritmo dominante) ma, a volte, possono essere ripetitive e presentarsi sotto forma di coppia (due battiti ectopici consecutivi non separati da complessi del ritmo di base) o di tripletta (tre extrasistoli consecutive). La tripletta configura già una tachicardia non sostenuta (sopraventricolare o ventricolare).

EXTRASISTOLI ATRIALI

(Figura 2, Figura 3, Figura 4, Figura 5)

Sono riconoscibili per la presenza di:

onda P prematura di morfologia differente da quella delle onde P sinusali;

pausa postextrasistolica generalmente non compensatoria;

QRS solitamente identico a quelli sinusali.

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Gli impulsi atriali prematuri sono generalmente condotti ai ventricoli in modo analogo a quanto avviene nei complessi di origine sinusale; tuttavia è possibile che, a causa della loro prematurità, trovino parte del sistema di conduzione ancora in stato di refrattarietà e vadano incontro a un rallentamento o blocco della conduzione. Il più delle volte è il nodo A-V a non avere ancora totalmente recuperato la propria eccitabilità e gli impulsi prematuri atriali possono essere condotti ai ventricoli con un intervallo PR prolungato rispetto a quello dei complessi di base o, se molto precoci, possono addirittura bloccarsi nella giunzione atrioventricolare e, in tal caso, la P prematura non è seguita da un QRS (extrasistole atriale non condotta). In altre occasioni, invece, il rallentamento o blocco della conduzione interessa il sistema di Purkinje e le extrasistoli atriali sono condotte con un blocco di branca (extrasistoli atriali condotte con aberranza). (Figura 6)I battiti prematuri atriali sono una delle cause più comuni di irregolarità del ritmo cardiaco, anche se spesso il loro riscontro è casuale; in genere, richiedono un trattamento solo nei casi in cui sono scarsamente tollerati dal paziente o quando costituiscono un potenziale meccanismo di innesco di aritmie maggiori, quali il flutter e/o la fibrillazione atriale.

EXTRASISTOLI GIUNZIONALI

Questi impulsi prematuri hanno origine nel fascio di His, prima della sua suddivisione nelle branche, e sono considerati sopraventricolari dal momento che la diffusione dell’impulso all’interno dei ventricoli procede in modo analogo a quella degli impulsi sinusali o atriali. (Figura 7) Sono caratterizzate da:

QRS prematuro uguale a quelli del ritmo di base;

assenza di rapporti tra il QRS prematuro e la P sinusale. L’onda P, infatti, può precedere il QRS extrasistolico, ma a una distanza più breve del normale e non compatibile con la conduzione A-V, oppure può coincidere con il complesso ventricolare o anche manifestarsi immediatamente dopo di esso. In altri casi, invece, l’impulso prematuro attiva gli atri prima dell’impulso sinusale e si manifesta un’onda P dovuta alla retroconduzione dell’impulso giunzionale agli atri; in questo caso la P retrocondotta può precedere, seguire o anche coincidere con il QRS prematuro.

EXTRASISTOLI VENTRICOLARI

(Figura 8, Figura 9, Figura 10)

La diagnosi si basa sui seguenti elementi:

QRS prematuri, slargati, differenti da quelli del ritmo di base;

mancanza di rapporti precisi tra i QRS prematuri e le onde P sinusali o, in alternativa, comparsa di onde P retrocondotte che seguono i QRS extrasistolici;

pausa postextrasistolica generalmente di tipo compensatorio.

La diagnosi delle extrasistoli ventricolari è meno semplice quando il ritmo di base è una fibrillazione atriale e le onde P sono assenti. In questo caso, infatti, l’improvvisa comparsa di QRS larghi, differenti da quelli di base, potrebbe essere l’espressione di una conduzione aberrante degli impulsi sopraventricolari e non di un’origine ventricolare dei QRS. A volte asintomatiche, le extrasistoli ventricolari sono in genere più facilmente causa di cardiopalmo di quelle sopraventricolari soprattutto per la lunga pausa postextrasistolica che le caratterizza. La loro prognosi dipende dal contesto clinico: generalmente è favorevole nei soggetti esenti da cardiopatia, nei quali può non essere necessario alcun trattamento specifico, viceversa può essere sfavorevole in presenza di una cardiopatia, in particolar modo nel corso di eventi ischemici acuti.

I BATTITI DI SCAPPAMENTO

Si manifestano quando un pacemaker secondario, dotato di bassa frequenza di scarica e solitamente depolarizzato dal segnapassi dominante, riesce a emettere il proprio impulso. Il fenomeno si osserva in caso di un improvviso rallentamento del pacemaker dominante (conseguente a patologia intrinseca come nella malattia del nodo del seno, ipertono vagale, effetto di farmaci, etc.) o anche per un disturbo di conduzione dell’impulso del ritmo dominante (blocco senoatriale o A-V, vedi Capitolo 41). In alcuni casi anche una pausa postextrasistolica particolarmente prolungata può causare l’insorgenza di un complesso di scappamento. I battiti di scappamento non necessitano di terapia, ma spesso bisogna trattare la condizione che ne ha determinato la comparsa.Scappamento atrialeLa diagnosi si basa sulla presenza di un’onda P differente da quella sinusale, che si inscrive al termine di un intervallo più lungo del ciclo di base. Scappamento giunzionale (Figura 11, Figura 12)Può essere riconosciuto per la presenza di QRS identici a quelli del ritmo di base, che si manifestano al termine di intervalli più lunghi di quello sinusale e non sono preceduti da un’onda P. A volte la P sinusale compare prima dello scappamento giunzionale, ma con un intervallo molto breve, incompatibile con la conduzione A-V. Scappamento ventricolare (Figura 13)E’ facilmente riconoscibile per la comparsa di un QRS largo, differente da quelli del ritmo di base, al termine di un intervallo relativamente lungo, più del ciclo sinusale. Analogamente a quanto accade per lo scappamento giunzionale, la P sinusale può essere riconoscibile ma appare dissociata dal QRS di scappamento, oppure manca, ed è sostituita da una P retrocondotta.

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Capitolo 38TACHICARDIE PAROSSISTICHE SOPRAVENTRICOLARIRossella Troccoli, Matteo Di Biase DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia parossistica sopraventricolare (TPS) una sindrome clinica caratterizzata da una tachicardia rapida e regolare, con improvviso inizio ed improvvisa interruzione. La maggior parte delle TPS è dovuta ad un meccanismo di rientro (vedi Capitolo 36), che può realizzarsi nel nodo atrio-ventricolare (tachicardia da rientro nodale) oppure in un circuito che include atri, ventricoli, il normale sistema di conduzione (nodo AV, Fascio di His, Branche ) ed una connessione atrio-ventricolare anomala (tachicardia da rientro atrio-ventricolare).

TACHICARDIA DA RIENTRO NODALE

La tachicardia da rientro nodale rappresenta i 2/3 circa di tutte le TPS e si riscontra nel 2-3% della popolazione generale. La sua più comune manifestazione avviene nel quarto decennio di vita. Colpisce prevalentemente il sesso femminile (rapporto 2:1).

FisiopatologiaAlla base di questa tachicardia vi è un rientro intranodale dovuto alla dissociazione longitudinale del nodo in una via rapida e una via lenta (Figura 1). Il rientro si può realizzare perché le due vie sono caratterizzate da una diversa velocità di conduzione (nella via rapida la conduzione è più veloce) e un differente periodo refrattario, che è più breve nella via lenta. Durante ritmo sinusale, l’impulso percorre entrambe le vie (Figura 2A). La via rapida verrà attraversata in un tempo più breve e raggiungerà la via inferiore comune quando la via lenta è stata attivata solo in parte. L’impulso che proviene dalla via rapida può, quindi, percorrere la via lenta in senso retrogrado e collidere con il fronte d’onda anterogrado che sta percorrendo questa via (vedi Capitolo 36). L’impulso sinusale, pertanto attiva i ventricoli soltanto attraverso la via rapida, e l’intervallo P-R, espressione del tempo di conduzione atrio-ventricolare, sarà breve. Un impulso prematuro (extrasistole) atriale può incontrare la via rapida nel periodo refrattario e bloccarsi, mentre la via lenta, fuori dal periodo refrattario, è percorribile (Figura 2B). L’impulso che percorre la via lenta raggiunge la via inferiore comune e può invadere in senso retrogrado la via rapida: a causa del lungo tempo che l’impulso ha impiegato a percorrere la via lenta, la via rapida sarà uscita completamente dalla refrattarietà e potrà, essere percorribile in senso retrogrado (Figura 2C). L’impulso può, quindi, raggiungere gli atri e contemporaneamente invadere il fascio di His progredendo verso i ventricoli. Se questo meccanismo si mantiene, si instaura una tachicardia da rientro nodale. L’impulso atriale prematuro che scatena il rientro si associa ad un marcato allungamento dell’intervallo PR (“salto” della conduzione dalla via rapida alla via lenta). La tachicardia da rientro con conduzione anterograda lungo la via lenta e retrograda lungo la rapida viene definita di tipo “comune”.

Caratteristiche clinicheI pazienti con una TPS da rientro nodale possono lamentare cardiopalmo ritmico ad insorgenza improvvisa, non correlata con eventi particolari, ed interruzione altrettanto brusca. Talora presentano lipotimie o, in presenza di elevata risposta ventricolare dispnea, angina, sincope. Un sintomo non infrequente è la poliuria pallida, dovuta ad aumentata increzione di peptide natriuretico atriale durante la tachicardia.

ElettrocardiogrammaLa tachicardia da rientro nodale è caratterizzata da QRS stretti con intervalli R-R costanti, a frequenza in genere compresa tra 120 e 200/m’. Nella forma tipica l’onda P è nascosta nel QRS, poiché atri e ventricoli si attivano simultaneamente, o può essere inscritta appena prima o appena dopo il complesso QRS simulando un’onda r’ in V1 o una pseudo-s nelle derivazioni II, III e aVF (Figura 3). La stimolazione atriale, eseguita durante studio elettrofisiologico transesofageo o intracavitario, permette di indurre la tachicardia, caratterizzata dalla contemporanea attivazione degli atri e dei ventricoli.

TerapiaL’interruzione della tachicardia da rientro nodale si ottiene stimolando il vago in modo da indurre il blocco dell’impulso in una parte del circuito. Poiché la persistenza della tachicardia dipende dall’ininterrotto circolare dell’impulso, l’impossibilità del fronte d’onda a proseguire il suo percorso corrisponde al cessare della tachicardia. Le manovre che incrementano il tono vagale come la manovra di Valsalva, il massaggio del seno carotideo, il conato di vomito, l’immersione del viso in acqua fredda, sono utili e di solito rappresentano il primo tentativo per l’interruzione dell’aritmia. Se le manovre vagali sono inefficaci si possono utilizzare farmaci somministrati per via venosa, fra i quali l’adenosina, il Verapamil e gli antiaritmici della Classe 1C (vedi Capitolo 58). Nel trattamento a lungo termine della tachicardia da rientro nodale l’approccio di scelta è l’ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61), ottenuta erogando energia a radiofrequenza sulla via nodale lenta attraverso un catetere ablatore posto in corrispondenza del triangolo di Koch (area compresa tra seno coronarico, tendine di Todaro e lembo settale della tricuspide).

TACHICARDIA DA RIENTRO ATRIO-VENTRICOLARE

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Le vie anomale di conduzione atrio-ventricolare forniscono il substrato per queste tachicardie reciprocanti, che vengono distinte in ortodromiche e antidromiche.

FisiopatologiaLe vie accessorie sono connessioni atrio-ventricolari anomale congenite, derivanti da una incompleta separazione dell’atrio dal ventricolo primitivo da parte dell’anello fibroso durante lo sviluppo embrionale del cuore. Normalmente la comunicazione elettrica fra atri e ventricoli è affidata solo al sistema di conduzione (nodo A-V, fascio di His, branche), mentre in alcuni soggetti esiste un’altra (a volte più di una) via di conduzione che connette direttamente l’atrio al ventricolo: il fascio di Kent (Patologia 44). La presenza di due vie crea un circuito che comprende l’atrio, il nodo A-V, il fascio di His, una branca, un ventricolo e il fascio di Kent (Figura 4): è quindi possibile lo scatenarsi di una tachicardia da rientro, definita atrio-ventricolare poiché sia l’atrio che il ventricolo fanno parte del circuito. Il fascio di Kent è formato da miocardio comune, cioè da fibre rapide Na dipendenti, per cui possiede una velocità di conduzione maggiore rispetto alla via nodo-hissiana, ed è in grado di trasmettere l’impulso sia in senso anterogrado che retrogrado; in diversi casi, tuttavia, la conduzione è solo retrograda. Durante ritmo sinusale, la via accessoria riesce a depolarizzare una parte più o meno grande dei ventricoli prima che questi vengano raggiunti dall’impulso condotto attraverso il normale sistema di conduzione. Si realizza così il quadro della preeccitazione, caratterizzata da intervallo P-R breve, onda delta e QRS largo (vedi Capitolo 3) (ECG 37). Quando a questi caratteri ECG si associa la tachicardia parossistica sopraventricolare da rientro A-V, si delinea la sindrome di Wolff-Parkinson-White (WPW). Le tachicardie da rientro A-V si distinguono in ortodromiche e antidromiche. Nelle prime la conduzione anterograda avviene lungo il normale sistema di conduzione e quella retrograda lungo la via accessoria, mentre nelle forme antidromiche la conduzione anterograda avviene lungo la via accessoria e quella retrograda attraverso il normale sistema di conduzione. L’impulso proveniente dall’atrio si diffonde nei ventricoli mediante il normale sistema di conduzione (branche e rete di Purkinje) nelle tachicardie ortodromiche, mentre nelle antidromiche l’impulso raggiunge i ventricoli tramite la via accessoria, e quindi si diffonde attraverso il miocardio comune. In quest’ultimo caso la tachicardia sarà a QRS larghi, mentre nelle forme ortodromiche i complessi saranno stretti (tranne che non vi sia un blocco di branca), in accordo con la normale conduzione intraventricolare dell’impulso.

Caratteristiche clinicheLa maggior parte dei pazienti con tachicardia sopraventricolare da rientro atrio-ventricolare non presenta cardiopatie organiche sottostanti. Tuttavia, in circa il 20% dei bambini con preeccitazione è possibile riscontrare una cardiopatia congenita (anomalia di Ebstein, vedi Capitolo 53).I pazienti in genere lamentano cardiopalmo ritmico o aritmico, talora associato a dispnea o sincope. La tachicardia, spesso correlata allo sforzo, insorge e si risolve improvvisamente.

ElettrocardiogrammaA ritmo sinusale l’ECG può presentare i segni della preeccitazione o essere normale. Durante tachicardia ortodromica il QRS è generalmente stretto, gli intervalli RR sono regolari, e l’onda P si localizza nel tratto ST o nell’onda T, con intervallo RP > 70 msec.Durante tachicardia antidromica, invece, il QRS è largo come nelle tachicardie ventricolari, e la morfologia del QRS è simile a quella che si ha durante preeccitazione massima. In circa il 10% dei pazienti con Sindrome di WPW compare una fibrillazione atriale (Figura 5). In questi è possibile che per la rapida conduzione degli impulsi di fibrillazione lungo la via accessoria si raggiunga un’alta frequenza ventricolare, che può degenerare in fibrillazione ventricolare.

TerapiaFarmaci in grado di bloccare la conduzione atrio-ventricolare, come l’adenosina e i calcio-antagonisti, bloccano o rallentano la conduzione nel nodo A-V, parte del circuito, ed interrompono il rientro, arrestando la tachicardia Nel trattamento a lungo termine sono efficaci i farmaci di classe I e III (vedi Capitolo 58). Nei pazienti sintomatici, con TPS mal tollerata, oppure sincope o fibrillazione atriale pre-eccitata l’ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61) rappresenta la terapia di scelta. Questo trattamento viene attualmente indicato anche in tutti i Pazienti paucisintomatici ed in tutti quelli che svolgono particolari attività lavorative (atleti, piloti, ecc.).

Capitolo 39FIBRILLAZIONE E FLUTTER ATRIALEAntonio Montefusco, Lucia Garberoglio, Alessandro Blandino, Antonella Corleto, Fiorenzo Gaita DEFINIZIONE

La fibrillazione atriale (FA) è un’aritmia nella quale il ritmo cardiaco non è governato dal nodo del seno, ma si generano negli atri impulsi a frequenza elevata (fino a 600 al minuto), con cicli irregolari; solo alcuni di essi, però, sono condotti i ventricoli, mentre un numero più o meno grande di impulsi atriali va incontro a un blocco nel nodo atrio-ventricolare, per cui la frequenza ventricolare è molto minore di quella atriale.

EZIOLOGIA

Le cause della FA possono essere molteplici (Figura 1). In passato la patologia sottostante più frequente era rappresentata da patologie valvolari (soprattutto a carico della valvola mitrale), mentre nell’ultimo ventennio le malattie che più frequentemente determinano un aumento della pressione in atrio sinistro, con conseguente

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aumento di volume atriale e quindi maggiore predisposizione alla FA, sono l’ipertensione arteriosa e le cardiomiopatie. In circa il 30% dei casi non è identificabile nessuna patologia: in tali casi la FA viene definita come idiopatica o “lone fibrillation”.

ELETTROGENESI E FISIOPATOLOGIA

Diversamente da altre aritmie, la FA non ha un meccanismo elettrogenetico unico, ma più fattori concorrono a determinare la sua genesi e il suo mantenimento. Sono stati identificati, specialmente nelle vene polmonari, segnapassi capaci di emettere impulsi a frequenza molto elevata, ed inoltre si realizzano negli atri multipli circuiti di rientro, che operano indipendente gli uni dagli altri. Nella FA non esiste un unico fronte di attivazione che, partendo dal nodo del seno, invada progressivamente in maniera ordinata tutta la massa atriale in un tempo relativamente breve, ma si realizzano multipli fronti d’onda che, disordinatamente e in maniera continuamente variabile, attivano ciascuno una regione più o meno limitata dell’atrio. Mentre nel ritmo sinusale la depolarizzazione degli atri occupa solo una piccola parte del ciclo cardiaco (circa 70-90 millisecondi, come espresso dalla durata dell’onda P normale), nella FA l’atrio si attiva ininterrottamente: in ogni momento del ciclo cardiaco, infatti, vi sono aree atriali che si depolarizzano mentre altre zone si stanno ripolarizzando. Ciò spiega la presenza di onde atriali (onde f, vedi più avanti) per tutto il ciclo cardiaco.Da un punto di vista meccanico, la FA corrisponde ad una paralisi atriale: le singole fibrocellule si contraggono, ma la loro contrazione non è efficace nel favorire la progressione del sangue perchè non vi è sincronismo nell’attività delle diverse aree atriali, ciascuna delle quali si contrae in un momento diverso. La mancanza della spinta atriale non necessariamente compromette il riempimento diastolico ventricolare, soprattutto se la frequenza ventricolare non è elevata e se non vi è disfunzione ventricolare: anche quando il ritmo è sinusale, infatti, la maggior parte del sangue passa dall’atrio al ventricolo durante la proto e mesodiastole, cioè passivamente, e la contrazione dell’atrio interviene solo in telediastole a completare il riempimento ventricolare. Quando, invece, la funzione diastolica del ventricolo sinistro è compromessa (per esempio, per via dell’ipertrofia ventricolare) il ruolo della contrazione atriale diviene preminente nel favorire il riempimento ventricolare, per cui la FA, con la perdita dell’attività meccanica atriale, può provocare una importante riduzione della gittata cardiaca, ed essere causa determinante dello scompenso cardiaco.

EPIDEMIOLOGIA

La fibrillazione atriale è molto frequente nella pratica clinica, e la sua incidenza aumenta con l’età; circa il 5% della popolazione con età maggiore di 65 anni ne è affetto. Pur non rappresentando sempre una condizione clinica di emergenza, la FA è una importante causa di incremento di mortalità per malattie cardiovascolari ed è associata ad un aumento di episodi di stroke ed a peggioramento della qualità di vita.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della FA è legata alla irregolarità del ritmo ed alla frequenza ventricolare media generalmente elevata, ed è rappresentata dalle palpitazioni. In corso di FA vi è la perdita della contrazione atriale con conseguente possibile riduzione della gittata cardiaca e per tale ragione essa può anche manifestarsi con dispnea, affaticabilità, dolore toracico (Figura 2). In circa il 20% dei casi la FA è completamente asintomatica: e questo avviene frequentemente in soggetti con condizioni fisiologiche (ipertono vagale) che rallentino la conduzione atrio-ventricolare. Con la palpazione del polso radiale è di solito possibile apprezzare la completa irregolarità del ritmo e la variabile ampiezza dell’onda sfigmica. Quest’ultimo fenomeno esprime il rapporto tra gittata sistolica e durata della diastole: durante una diastole lunga il ventricolo ha la possibilità di ricevere una elevata quantità di sangue, per cui la gittata sistolica è abbondante e il polso è ampio; dopo una diastole breve, invece, il ventricolo è relativamente vuoto di sangue quando si contrae, e di conseguenza la gittata sistolica è modesta e il polso piccolo. Quando la diastole diventa brevissima, come in caso di elevata risposta ventricolare, in alcune (o in molte) delle contrazioni il ventricolo contiene così poco sangue da non riuscire provocare l’apertura delle cuspidi aortiche; in questo caso non si genera un’onda sfigmica e al polso il battito è del tutto assente. In questa situazione, la frequenza cardiaca valutata al polso è minore di quella reale (“deficit cuore-polso”): in pazienti con FA, perciò, la frequenza cardiaca va rilevata non solo al polso ma anche mediante ascoltazione cardiaca sul focolaio della punta.La frequenza ventricolare durante FA è influenzata in modo significativo dal tono del sistema nervoso autonomo: può diventare molto rapida quando aumenta il tono simpatico e diminuisce il tono parasimpatico, come accade durante esercizio fisico.Le complicanze della FA possono essere dovute alla sua irregolarità, alla elevata frequenza cardiaca e alla perdita della contrazione atriale. L’irregolarità e l’elevata frequenza cardiaca possono provocare una riduzione della funzione contrattile ventricolare sinistra, che in presenza di altre patologie concomitanti può esitare in scompenso cardiaco. La perdita della contrazione atriale, inoltre, determina un rallentamento del flusso ematico che facilita la formazione di trombi all’interno degli atri, specialmente nelle auricole. I trombi sono generalmente adesi alla parete atriale, ma possono anche staccarsi, specialmente quando, col ripristino del ritmo sinusale, l’atrio riprende a contrarsi. Un trombo formatosi nell’atrio sinistro può quindi, attraverso la circolazione sistemica, embolizzare in qualsiasi distretto periferico: non di rado viene colpito l’encefalo e si manifesta un ictus. La comparsa di scompenso, ma soprattutto le complicanze tromboemboliche, sono la causa dell’aumentata mortalità nei pazienti con FA.

ELETTROCARDIOGRAMMA

L'ECG mostra l’assenza delle onde P (che sono l’espressione dell’attività elettrica atriale normale) e la presenza delle caratteristiche onde fibrillatorie rapide (onde f), le quali appaiono come irregolari ondulazioni della linea isoelettrica (Figura 3), e sono continue, durando per tutto il ciclo cardiaco. La loro frequenza varia tra 380 e

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600 al minuto; l’ampiezza e la morfologia mostrano notevole variabilità da momento a momento. Le onde fibrillatorie possono essere di basso voltaggio e quindi scarsamente visibili (FA ad onde fini, Figura 3A), oppure di voltaggio più elevato (FA ad onde grossolane Figura 3B).Gli intervalli fra i complessi ventricolari (intervalli R-R) sono irregolari, essendo molti stimoli bloccati a livello del nodo atrio-ventricolare che funge da “filtro” nel passaggio degli impulsi elettrici tra atri e ventricoli.

CLASSIFICAZIONE

Sono stati proposti diversi schemi di classificazione clinica della FA, ma nessuno comprende in modo completo tutti gli aspetti dell’aritmia. Dal punto di vista clinico (Figura 4) è utile distinguere un primo episodio documentato indipendentemente dai sintomi e dalla durata. Nel caso in cui il paziente presenti 2 o più episodi, la FA è considerata ricorrente. Se l’aritmia termina spontaneamente, la recidiva di FA viene definita parossistica; mentre se dura più di 7 giorni, la FA viene detta persistente. Nella FA persistente, il ripristino del ritmo sinusale (cardioversione) si ottiene con farmaci o con mezzi elettrici (vedi più avanti). La categoria della FA permanente comprende i soggetti nei quali la cardioversione è fallita o non è stata tentata.

TRATTAMENTO

Profilassi degli eventi cardioemboliciPoiché la FA aumenta significativamente il rischio di eventi tromboembolici, esiste unanime consenso sul fatto che tutti i pazienti con patologia cardiaca valvolare e FA richiedano l’anticoagulazione con dicumarolici. In pazienti con FA non valvolare l’indicazione al trattamento anticoagulante dipende dal rischio tromboembolico (Figura 5) calcolato in base ai fattori di rischio (scompenso cardiaco, ipertensione arteriosa, età > 75 anni, diabete mellito, precedente storia di ictus o TIA). E’ necessario comunque conoscere che la terapia anticoagulante con dicumarolici comporta un rischio di stroke emorragico pari all’1% per anno.CardioversioneCon tale termine si definisce l’interruzione della FA, con ripristino del ritmo sinusale. Quando la cardioversione non avviene spontaneamente, un episodio di FA persistente può essere interrotto eseguendo una cardioversione elettrica o farmacologica. La cardioversione elettrica (CVE) consiste nella somministrazione di una scarica elettrica per mezzo di due piastre applicate al torace del paziente, cui consegue l’azzeramento del potenziale di azione di tutte le cellule cardiache e quindi l’interruzione dell’aritmia. Numerosi farmaci antiaritmici possono essere utilizzati per eseguire una cardioversione farmacologica; tra questi il propafenone, la flecainide e l’amiodarone sono quelli maggiormente efficaci. Il successo della CV farmacologica dipende dalla durata della FA, raggiungendo l’80% in caso di FA con durata minore di 24 ore, mentre la percentuale di successo è inferiore al 35% in caso di FA persistente.Un rischio della cardioversione, indipendente dal fatto che il ripristino del ritmo sinusale sia spontaneo o indotto elettricamente o con farmaci, è che si verifichi un’embolia arteriosa sistemica. Se, infatti, durante il periodo in cui l’aritmia è stata presente si è formato un trombo in atrio sinistro, la ripresa della contrazione atriale favorisce il distacco del trombo, che migra quindi nel circolo sistemico. Per questo motivo si può cardiovertire elettricamente la FA se questa è insorta da meno di 48 ore, mentre se l’episodio di FA ha una durata maggiore, la cardioversione, sia elettrica che farmacologica, deve essere preceduta da un periodo di anticoagulazione efficace di almeno 4 settimane. Controllo del ritmo e controllo della frequenza Nei pazienti con FA, la terapia farmacologica può avere come scopo il mantenimento del ritmo sinusale (controllo del ritmo) o, nella FA permanente, il mantenimento di una frequenza ventricolare media accettabile (controllo della frequenza). La prima strategia viene scelta solitamente in soggetti giovani o molto sintomatici o con deterioramento emodinamico dovuto alla fibrillazione atriale. La seconda è generalmente preferita in pazienti anziani o paucisintomatici.Per il controllo del ritmo i farmaci antiaritmici più utilizzati (vedi Capitolo 58) sono quelli della classe I (chinidina, flecainide, propafenone) e III (sotalolo, amiodarone, dronedarone, azimilide). Tali farmaci hanno una efficacia nel mantenere il ritmo sinusale ad un anno che va dal 45-50% per quelli della classe I al 70-75 % per i farmaci della classe III. Purtroppo l’incidenza di importanti effetti collaterali coinvolge quasi un quarto dei pazienti trattati. In caso di inefficacia e/o di effetti collaterali della terapia farmacologica, la strategia del controllo del ritmo può essere perseguita utilizzando metodiche di ablazione transcatetere o chirurgiche che consistono nell’isolamento elettrico delle vene polmonari e nell’esecuzione di lesioni lineari (Figura 6).Per quanto riguarda il controllo della frequenza, evidenze cliniche hanno dimostrato come, soprattutto nei pazienti anziani, tale strategia possa risultare una valida alternativa terapeutica. Essa può essere raggiunta con l’impiego di tre diversi farmaci: la digossina più utilizzata nei pazienti con scompenso cardiaco, i ß-bloccanti generalmente più efficaci per il loro effetto nel controllo della frequenza sotto sforzo e i Calcio-antagonisti.

DEFINIZIONE

Il flutter atriale è un’aritmia caratterizzata da un’attivazione atriale regolare e rapida con una frequenza generalmente compresa tra i 240 e i 300/m’. La risposta ventricolare, cioè il numero di impulsi atriali che raggiungono i ventricoli, dipende dal nodo atrio-ventricolare, che funge da filtro, impedendo che la frequenza ventricolare raggiunga livelli troppo elevati. Generalmente la conduzione atrio-ventricolare avviene con un rapporto 2:1 (solo un impulso atriale su due è condotto ai ventricoli) ma talora può presentare rapporti di conduzione diversi (3:1, 4:1, 3:2).L’incidenza del flutter atriale nella popolazione generale è stimata in 88 su 100000 abitanti. Molto spesso il flutter atriale si associa a fibrillazione atriale; la maggior parte dei casi si verifica in presenza di una condizione predisponente o di una malattia cardiaca strutturale.

ELETTROGENESI

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Il meccanismo elettrogenetico del flutter atriale è il rientro (vedi Capitolo 36). Si tratta, nelle forme tipiche, di un circuito posto nell’atrio destro, delimitato dall’anello tricuspidalico, dalla crista terminalis e dalla valvola di Eustachio. Il fronte d’onda può percorrere il circuito in direzione antioraria (flutter comune) o oraria (flutter non comune) dando luogo a due quadri diversi da un punto di vista dell’Elettrocardiogramma. La zona critica per l’innesco ed il mantenimento dell’aritmia è rappresentata dall’istmo cavo-tricuspidale, compreso fra l’anulus della tricuspide e l’orificio della vena cava inferiore. Sono possibili altri macrocircuiti di rientro sia nell’atrio destro che in quello sinistro; quando la sede del circuito è diversa da quella classica, il flutter atriale viene definito atipico.

QUADRO CLINICO

I sintomi del flutter atriale sono simili a quelli della fibrillazione atriale e dipendono in larga misura dalla frequenza ventricolare: il disturbo più comune è la palpitazione, ma possono anche verificarsi vertigini, dispnea, debolezza, e raramente angina o sincope.

CLASSIFICAZIONE

Il flutter atriale si presenta all’ECG con una serie di onde atriali (onde F) regolari, a frequenza intorno a 300 al minuto; il numero dei complessi ventricolari è quasi sempre minore, dato che solo alcuni impulsi atriali vengono condotti ai ventricoli. In base alla morfologia delle onde F, il flutter si distingue in tipico ed atipico.Nel flutter atriale tipico le onde F hanno un aspetto a dente di sega, e si susseguono senza interruzione, non essendo separate da linea isoelettrica (Figura 7); nel flutter atipico, invece, le onde F non hanno morfologia a denti di sega e sono separate da linea isoelettrica (Figura 8). Nel flutter tipico comune (antiorario) le onde F sono negative nelle derivazioni inferiori (II, III, aVF) e positive in V1, mentre nella forma non comune (oraria) hanno polarità positiva nelle derivazioni inferiori e negativa in V1.

TRATTAMENTO

Il trattamento del flutter atriale può avere come scopo il mantenimento di una frequenza ventricolare non troppo elevata oppure l’interruzione dell’aritmia. I calcioantagonisti e i beta-bloccanti (vedi Capitolo 58) sono farmaci di prima scelta per rallentare la frequenza ventricolare, poiché essi aumentano la refrattarietà del nodo A-V e quindi diminuiscono il numero degli impulsi atriali che raggiungono i ventricoli. Per far cessare il flutter atriale e ripristinare il ritmo sinusale, viene comunemente impiegata l’ibutilide somministrata per via endovenosa . Un altro metodo efficace per interromper il flutter è la cardioversione elettrica (vedi il paragrafo “Trattamento” della sezione Fibrillazione atriale). Come per la fibrillazione, anche i pazienti con flutter atriale che dura da più di 48 ore richiedono un opportuno periodo di scoagulazione. Anche la stimolazione elettrica atriale può efficacemente porre fine al flutter; essa si esegue con un elettrocatetere introdotto nell’atrio destro per via venosa oppure con un elettrodo inserito nell’esofago e posto a stretto contatto con l’atrio sinistro, che si trova in immediata continuità con l’esofago. Gli stimoli elettrici ad elevata frequenza, erogati da un apposito stimolatore, possono far cessare il flutter perché rendono refrattaria una parte del circuito di rientro, impedendo l’ulteriore progressione dell’impulso e quindi il perpetuarsi dell’aritmia.E’ possibile curare il flutter atriale radicalmente, rendendo inagibile in modo definitivo il circuito di rientro mediante un intervento di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 61). Nel flutter tipico l’ablazione viene eseguita inserendo un elettrocatetere nel cuore destro ed inducendo, con erogazioni di energia a radiofrequenza, una lesione stabile a livello dell’istmo cavo-tricuspidalico. Quando questo tessuto diventa incapace di condurre l’impulso, l’aritmia non può più essere scatenata per l’impossibilità che l’impulso percorra il circuito, una parte del quale è divenuta ineccitabile in seguito al trattamento.

Capitolo 40TACHICARDIE VENTRICOLARIStefano Favale, Pierangelo Basso, Franceso Capestro, Valentina D’Andria, Annalisa Fiorella DEFINIZIONE

Si definisce tachicardia ventricolare (TV) una successione di almeno 3 battiti ectopici di origine ventricolare con frequenza =100 al minuto. La TV viene classificata come sostenuta se ha durata >30 secondi o, pur avendo durata inferiore, richiede un immediato intervento terapeutico per l’insorgenza di grave compromissione emodinamica, e non sostenuta se ha durata inferiore a 30 secondi. In base alla morfologia dei complessi ventricolari all’elettrocardiogramma, la TV si definisce monomorfa se tutti i QRS sono identici e polimorfa quando sono evidenti variazioni nella configurazione del QRS. Si distinguono, inoltre, le forme seguenti: TV Iterativa (episodi di TV non sostenuta a regressione spontanea, generalmente a frequenza <150 b/m), TV Incessante (persistente per oltre l'80% della giornata), TV lenta (a frequenza compresa tra 100 e 150 b/m).

ELETTROGENESI

La genesi delle TV è dovuta alla presenza di un anomalo generatore di impulsi nei ventricoli, da ricondurre a uno dei seguenti meccanismi: rientro, esaltato automatismo, attività triggerata (vedi Capitolo 36). Un esempio paradigmatico di rientro è dato dalla tachicardia ventricolare post-infartuale. Il miocardio ventricolare andato incontro ad infarto è costituito da aree cicatriziali frammiste ad aree di miocardio ancora vitale che nell’insieme costituiscono un circuito fibrocellulare chiuso, con disomogeneità dei periodi refrattari in vari punti di esso. Un extrastimolo precoce può subire un blocco unidirezionale nella zona con periodo refrattario più lungo (quindi ancora ineccitabile) e percorrere con rallentamento della conduzione la zona con

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periodo refrattario più corto, e che quindi è già eccitabile. Una volta percorsa l’area di miocardio eccitabile, l’impulso può rientrare in senso opposto nella zona precedentemente ineccitabile (che nel frattempo ha recuperato dalla refrattarietà) e percorrere l’intero circuito. In questo modo il fronte d’onda trova sempre davanti a sé tessuto eccitabile e ciò consente l’automantenimento dell’aritmia che si è generata.

EZIOLOGIA

Le TV possono verificarsi in presenza o in assenza di alterazioni anatomiche macroscopicamente evidenti del cuore. In quest’ultimo caso esiste un’alterazione anatomica di dimensioni troppo piccole per essere messa in evidenza dai comuni presidi diagnostici (tachicardie cosiddette idiopatiche) o esiste un difetto funzionale dei canali ionici, generalmente su base congenita (per esempio, sindrome del QT lungo congenito, Sindrome di Brugada). Le forme idiopatiche costituiscono circa il 10% di tutte le TV. Le TV che si associano ad una alterazione anatomica del cuore possono complicare, talora con significato di evento terminale, tutte le cardiopatie, alcune in particolare.

TV ASSOCIATA AD ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

La Cardiopatia ischemica rappresenta il principale fattore eziologico della TV: nell’infarto miocardico acuto una TV sostenuta si presenta nel 5-10% dei casi, ed è frequente anche in pazienti con pregresso infarto miocardico. In seguito alla necrosi miocardica, infatti, si creano aree adiacenti non omogenee costituite da tessuto fibroso e miocardio vitale, che rappresentano il substrato ideale per il rientro. Nella Cardiomiopatia dilatativa, la TV fa parte della storia naturale (vedi Capitolo 29). La morte improvvisa, in questi pazienti, è prevalentemente tachiaritmica (80%) nelle classi NYHA meno avanzate (II-III), mentre nelle fasi più avanzate incidono anche le bradicardie, la dissociazione elettromeccanica e le tromboembolie. La frazione d’eiezione ridotta e la comparsa di sincope sono i fattori maggiormente predittivi di morte improvvisa nella cardiomiopatia dilatativa. Nella Cardiomiopatia ipertrofica la presenza, oltre che di ipertrofia ventricolare, di malallineamento dei miociti (disarray) rappresenta il substrato per la genesi di aritmie ventricolari (vedi Capitolo 28). Non raramente questa cardiopatia si manifesta per la prima volta con sincope o con morte improvvisa aritmica in pazienti prevalentemente giovani e peraltro asintomatici. La presenza di una marcata ipertrofia ventricolare sinistra, di una storia familiare di morte improvvisa, di sincope, risultano altamente predittivi del rischio di morte improvvisa in questi pazienti.La Cardiomiopatia/Displasia aritmogena del ventricolo destro si manifesta essenzialmente con aritmie ventricolari maligne e in particolare con TV sostenuta con morfologia tipo blocco di branca sinistra (vedi Capitolo 31). Nella Stenosi aortica circa il 20% dei pazienti muore improvvisamente per aritmie ventricolari maligne (vedi Capitolo 16).Anche il Prolasso valvolare mitralico, quando è di entità severa, con rilevante insufficienza valvolare, può dare luogo alla comparsa di aritmie, inclusa la TV (vedi Capitolo 15).

TV IN ASSENZA DI ALTERAZIONI ANATOMICHE DEL CUORE

Può verificarsi per difetto funzionale dei canali ionici (Sindrome del QT lungo, Sindrome di Brugada), per l’effetto di farmaci, squilibri elettrolitici o ipossia.La Sindrome del QT lungo (LQTS) è una malattia su base genetica, caratterizzata da alterazioni strutturali dei canali ionici, in grado di provocare un’anomalia nella ripolarizzazione delle cellule cardiache (vedi Capitolo 43). In questi pazienti, la sincope, che può esitare in morte improvvisa, è causata dall’insorgenza di una “torsione di punta”, una tachicardia ventricolare polimorfa, caratterizzata da complessi QRS di ampiezza variabile e con progressiva inversione di polarità. La morte improvvisa può essere determinata dalla degenerazione della torsione di punta in una fibrillazione ventricolare.La Sindrome di Brugada è una malattia elettrica primaria su base genetica, in cui all’alterazione di un canale ionico consegue l’accorciamento del potenziale d’azione, soprattutto a livello epicardico, per cui si crea un gradiente elettrico dopo la completa attivazione del miocardio ventricolare. Ciò è responsabile di alcune alterazioni dell’ECG di base (onda J, sopraslivellamento di ST in V1 e V2) e della possibilità di innesco di tachicardia ventricolare. (vedi Capitolo 43).Alcuni Farmaci, ad esempio digitale, simpaticomimetici, antiaritmici ed alcuni Squilibri idroelettrolitici come Ipokaliemia, iperkaliemia, ipercalcemia, possono provocare una TV.

CONSEGUENZE EMODINAMICHE

I principali fattori che incidono nel deterioramento emodinamico indotto dalla TV sono: 1) la frequenza, 2) il mancato coordinamento fra gli atri e i ventricoli, 3) l’attivazione eccentrica del miocardio. Per frequenze elevate, la fase di riempimento diastolico risulta compromesso e diviene insufficiente per permettere l’adeguato riempimento ventricolare, per cui la portata si riduce la pressione arteriosa tende a cadere. Nella TV, inoltre, vi è in circa il 50% dei casi la dissociazione fra l’attivazione atriale e quella ventricolare, mentre nel restante 50% l’impulso ventricolare viene retrocondotto agli atri. In questi casi, la contrazione atriale si verifica sempre (retroconduzione) o spesso (dissociazione) a valvole AV chiuse, con aumento della pressione atriale, inversione del flusso dall’atrio alle vene e perdita totale del contributo atriale al riempimento ventricolare. Un altro fenomeno che caratterizza le TV è l’attivazione eccentrica del miocardio. L’attivazione del miocardio ventricolare secondo le normali vie di conduzione del segnale elettrico è necessaria per una contrazione efficace dei ventricoli. Nella TV, invece, l’attivazione ventricolare è abnorme: dal punto di origine dell’ aritmia (circuito o

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focus ) l'impulso segue vie non fisiologiche, con il risultato di una desincronizzazione tra le varie parti dei ventricoli, in grado di compromettere l’efficacia della contrazione La funzione ventricolare sinistra e l'eziologia della TV ne influenzano in modo determinante le manifestazioni cliniche. In un cuore sano, con normale frazione di eiezione, il quadro emodinamico è compromesso solamente per le caratteristiche intrinseche della TV (frequenza, dissociazione ed eccentricità). Una TV in un paziente con severa disfunzione ventricolare sinistra (bassa frazione di eiezione), invece, può determinare importanti riduzioni di portata cardiaca anche a frequenze non molto elevate.

QUADRO CLINICO

La sintomatologia della TV è estremamente variabile, e si possono osservare tanto pazienti asintomatici quanto pazienti che arrivano a presentare sincope o arresto cardiocircolatorio. I fattori fondamentali nel determinare la sintomatologia sono la frequenza dell’aritmia, la durata della stessa e la cardiopatia di base. La sensazione più comunemente riportata dai pazienti è quella del cardiopalmo, legata all’aumento della frequenza delle contrazioni ventricolari. In certi casi il paziente può riferire angor legato in questo caso alla discrepanza (squilibrio tra richiesta e apporto di O2) soprattutto nei pazienti che presentano di base una cardiopatia ischemica. Altro sintomo può essere la dispnea, associata alla slatentizzazione di un sottostante scompenso cardiaco. All’esame obiettivo va posta particolare attenzione al polso che si presenterà frequente, piccolo e ritmico. Un dato non raro, e generalmente sottovalutato, è la variabilità dell’ampiezza del polso, che si rileva in presenza di dissociazione atrio-ventricolare, cioè in circa il 50% dei casi. Quando l’attività ventricolare è dissociata da quella atriale, la contrazione degli atri potrà avvenire in qualunque momento del ciclo cardiaco; se essa cade a valvole A-V chiuse non ci sarà alcun contributo dell’atrio al riempimento ventricolare, mentre quando gli atri si contraggono poco prima della sistole ventricolare, nella fase in cui le valvole A-V sono aperte, aumenterà il riempimento ventricolare, e con esso la gittata sistolica di quel battito. In questa circostanza anche l’ampiezza del polso sarà maggiore rispetto a quando gli atri si contraggono a valvole A-V chiuse, e poiché la corretta sincronizzazione A-V (onda P poco prima del QRS) è casuale, si avrà ogni tanto una pulsazione più ampia, pur mantenendosi ritmico il polso. L’ascoltazione cardiaca evidenzierà toni ritmici e tachicardici, con a volte variabile intensità del I tono (la genesi di questo fenomeno è identica a quella che governa la variabile ampiezza del polso), mentre quella polmonare potrà essere silente o evidenziare rumori umidi (rantoli a piccole o medie bolle) nel caso in cui la tachicardia ventricolare porti ad un quadro di edema polmonare. Infine, a seconda della compromissione emodinamica, subentrano quelli che sono i sintomi legati alla bassa portata quali l’ipotensione (sudorazione, pallore, etc.), le vertigini o la sincope (per ipoperfusione della sostanza reticolare).

ELETTROCARDIOGRAMMA

La diagnosi di Tachicardia Ventricolare si avvale fondamentalmente dell’elettrocardiogramma, che mette in evidenza:- una sequenza di 3 o più battiti ventricolari consecutivi;- complessi QRS di durata uguale o superiore a 0.12 sec;- la possibile dissociazione atrio-ventricolare (Figura 1).Il QRS, in corso di TV, ha una durata sempre (0.12 sec, mentre la sua morfologia assumerà un aspetto tipo blocco di branca destra o sinistra a seconda del ventricolo in cui insorge l’aritmia. Nella TV, infatti, il ventricolo da cui nasce l’aritmia si attiva prima del controlaterale, che viene raggiunto dal processo di depolarizzazione tardivamente; lo stesso sfasamento si realizza nel blocco di branca, dove il ventricolo la cui branca è incapace di condurre si attiva in ritardo. Perciò quando la TV nasce nel ventricolo destro la morfologia del QRS somiglierà a quella di un blocco di branca sinistra (prima si attiva il ventricolo destro, poi il sinistro), e una TV originatasi nel ventricolo sinistro avrà un aspetto simile a un blocco di branca destra. Bisogna fare attenzione alla non semplice diagnosi differenziale fra le TV e le tachicardie sopraventricolari a QRS largo per conduzione aberrante frequenza-dipendente o per blocco di branca preesistente; inoltre anche le tachicardie sopraventricolari condotte ai ventricoli attraverso una via anomala hanno QRS larghi (vedi Capitolo 38). Particolare è il quadro elettrocardiografico in caso di Torsione di Punta dove, su un ritmo di base solitamente bradicardico e con QT allungato (soprattutto nei casi di ipokalemia), si osserva una sequenza di ventricologrammi con continua e graduale variazione della polarità, che diviene da positiva a negativa e viceversa.Altri mezzi diagnostici sono una registrazione più dettagliata dell’attività atriale tramite l’ECG transesofageo (registrato ponendo un sondino munito di un elettrodo a livello esofageo) che permette di valutare meglio il rapporto atrio-ventricolare, e l’ECG endocavitario, registrato tramite cateteri in atrio e in ventricolo.

CENNI DI TERAPIA

Bisogna innanzitutto differenziare la terapia da effettuare in acuto rispetto a quella volta a prevenire le recidive. Nei casi di TV con compromissione emodinamica trovano spazio innanzitutto presidi elettrici quali il DC Shock sincronizzato (scariche di defibrillatore a 200-250 joules) o il pacing ventricolare (stimolazione a frequenze superiori a quelle dell’aritmia nel tentativo di interromperla). Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, il farmaco più comunemente usato in acuto è la Lidocaina. In alternativa, è possibile usare l’Amiodarone, la Mexiletina o il Propafenone a seconda dell’eziologia della TV e dalla cardiopatia di base del paziente. Per la prevenzione delle recidive va innanzitutto chiarita l’eziologia della TV (strutturale o idiopatica) e va fatta un’attenta valutazione del paziente, comprendente un Holter (ECG dinamico delle 24 ore) e, se

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necessarie, indagini invasive (studio elettrofisiologico, coronarografia). La profilassi delle recidive verrà condotta esclusivamente con terapia farmacologia (amiodarone, mexiletina, ß-bloccanti) nei pazienti a minor rischio, mentre i farmaci verranno affiancati da supporti elettrici (defibrillatore impiantabile) nei pazienti con rischio più elevato di recidive, soprattutto in quelli con grave disfunzione ventricolare.

Capitolo 41BRADICARDIEFrancesco Arrigo, Giuseppe AndòDEFINIZIONE

Ogni ritmo cardiaco diverso dalla fisiologica cadenza degli impulsi regolata del NSA, con frequenza e conduzione normali, si definisce aritmia. Secondo la nomenclatura oggi condivisa, le alterazioni del ritmo che si manifestano con riduzione della frequenza cardiaca vengono definite bradicardie. Nel capitolo delle bradicardie sono tuttavia incluse alcune manifestazioni aritmiche che non si accompagnano necessariamente a riduzione della FC, come l’aritmia sinusale, il segnapassi migrante, il blocco A-V (BAV) di I grado (Tabella I). Le aritmie con riduzione della frequenza cardiaca sono causate da deficit dell’automatismo o da compromissione della conduzione e sono riconducibili a due grandi gruppi, le disfunzioni sinusali e i BAV.Legenda degli acronimi impiegati nel testo AV - atrio-ventricolareBAV - blocco atrio-ventricolare BSA - blocco seno-atriale bpm - battiti per minutoECG - elettrocardiogrammaFC - frequenza cardiaca MAS - Sindrome di Morgagni-Adams-StokesNAV - nodo atrio-ventricolare (nodo di Tawara)NSA - nodo seno-atriale (nodo di Keith e Flack).SSS - sick sinus syndrome, sindrome del seno malato.

MECCANISMI ELETTROFISIOLOGICI

I meccanismi che possono indurre bradicardia sono fondamentalmente la depressione dell’automatismo e le alterazioni della conduzione seno-atriale ed atrio-ventricolare (AV). La stimolazione regolare e continua del cuore è assicurata da fibrocellule specializzate, poste principalmente nel NSA, ma anche - in misura sempre minore - nel tessuto di conduzione e nel miocardio di lavoro. Queste cellule sono dotate di automatismo, cioè della proprietà di depolarizzarsi spontaneamente a riposo (depolarizzazione in fase 4): il potenziale di riposo decresce gradualmente fino a raggiungere il potenziale soglia che innesca il potenziale d’azione (vedi Capitolo 40). Le fibrocellule specializzate poste nel NSA (cellule P) sono immerse in una matrice fibrosa e circondate da un alone di cellule di transizione (cellule T o tessuto perinodale) nelle quali la trasmissione dell’impulso è rallentata. La depolarizzazione cardiaca, iniziata dalle cellule del NSA, si estende poi attraverso vie di conduzione specifiche prima al miocardio atriale e, attraverso il NAV, al sistema di conduzione intraventricolare (fascio di His e branche) ed al miocardio di lavoro (Figura 1).La frequenza di depolarizzazione del NSA è posta sotto il controllo dell’equilibrio autonomico tra il sistema nervoso simpatico ed il parasimpatico e presenta nelle diverse specie animali una grossolana correlazione inversa con le dimensioni corporee. Nell’uomo adulto, la FC viene convenzionalmente definita normale quando è compresa tra 60 e 100 bpm; pertanto una FC inferiore a 60 bpm è definita bradicardia, una FC superiore a 100 bpm è definita tachicardia. Una FC inferiore a 60 bpm è un reperto comune nella pratica clinica e, pur essendo spesso un riscontro occasionale e del tutto benigno, può talora determinare una sensibile riduzione della portata cardiaca con conseguenze cliniche di rilievo. Occorre tenere ben presente che la FC varia fisiologicamente da individuo a individuo in base all’età, al grado di allenamento fisico ed al momento dell’osservazione. Ad esempio, negli atleti allenati è facile osservare una FC a riposo inferiore a 40 bpm, senza che ciò abbia un significato patologico. Anche durante il sonno, specie durante la fase REM, una FC inferiore a 40 bpm è del tutto normale. Un importante aspetto per la valutazione di una FC bassa è la risposta cronotropa allo sforzo fisico, ovvero la capacità del cuore di aumentare la frequenza in base al grado di esercizio. Una risposta cronotropa inadeguata (incompetenza cronotropa), insieme all’incapacità di raggiungere la FC massima teorica prevista per l’età del soggetto al picco dello sforzo (definita in bpm dalla formula 220 - età in anni) suggeriscono fortemente l’esistenza di un’alterata funzione sinusale che richiede attenzione clinica. In conclusione, anche se scolasticamente è definita come una FC inferiore a 60 bpm, la bradicardia può essere meglio caratterizzata come una frequenza inappropriatamente bassa in relazione all’età, al livello di attività fisica ed al grado di allenamento. Pertanto, la bradicardia deve essere oggetto di ulteriori approfondimenti diagnostici o di una terapia specifica solo quando è associata a sintomi acuti o cronici di bassa portata cardiaca, a riposo o durante esercizio fisico. Le fasi necessarie per la definizione della natura fisiologica o “patologica” della bradicardia e per una corretta gestione clinica del paziente bradicardico sono dunque:

la comprensione del meccanismo fisiopatologico (alterazione della formazione e/o della conduzione dello stimolo) responsabile della bassa o inappropriata frequenza cardiaca;

l’identificazione delle cause, reversibili o irreversibili, della bradicardia;

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la valutazione del rischio di potenziali conseguenze infauste come la sincope, l’insufficienza cardiaca, le tachicardie , i fenomeni trombo-embolici e la morte improvvisa per asistolia prolungata;

la scelta di una terapia individualizzata.

ASPETTI CLINICI

Le bradicardie possono essere congenite o acquisite. Le disfunzioni sinusali congenite sono estremamente rare, mentre il BAV congenito è spesso associato ad altre cardiopatie. Fra le forme acquisite, le più frequenti sono quelle legate a fenomeni degenerativi senili ed alla cardiopatia ischemica. Altre cause frequenti sono le cardiomiopatie infiltrative, come la sarcoidosi, l’amiloidosi e l’emocromatosi. Più rari sono oggi i BAV dovuti a malattia reumatica. Particolare attenzione va posta alle forme iatrogene causate sia da farmaci che deprimono la conduzione, in particolare i glucosidi della digitale, sia dalle procedure interventistiche cardiache che possono provocare lesioni del sistema di conduzione.La presenza di manifestazioni cliniche dipende dal grado e dalla rapidità di riduzione della portata cardiaca. Finché l’aumento compensatorio della gittata sistolica controbilancia la diminuzione della frequenza, anche i pazienti con bradicardia spiccata possono rimanere asintomatici e la loro bradicardia essere scoperta occasionalmente. All’altro estremo dello spettro clinico, il paziente può presentarsi con un’ampia varietà di segni e sintomi. Le bradicardie sono associate a due quadri fisiopatologici principali, la sindrome da ipoperfusione cerebrale e la sindrome da bassa portata.Tra questi la sincope (vedi Capitolo 42), cioè la perdita di coscienza che segue un arresto cardiaco prolungato, è il più drammatico. Brevi periodi di arresto della durata di pochi secondi possono, infatti, passare inosservati, ma se l'arresto cardiaco si prolunga, per 5-6 secondi in posizione eretta e per 8-10 secondi in posizione supina, in assenza di un ritmo di scappamento che possa mantenere l'attività cardiaca, si verifica l’improvvisa perdita della coscienza con caduta a terra per mancanza del tono posturale. Fortunatamente, nella maggior parte dei casi, quando si verifica un arresto per disfunzione sinusale o per mancata conduzione dell'impulso dagli atri ai ventricoli, centri automatici inferiori si depolarizzano spontaneamente e danno luogo a ritmi di scappamento che mantengono un'attività cardiaca emodinamicamente sufficiente anche se a bassa frequenza. Pertanto la condizione essenziale perché si verifichi un arresto cardiaco sintomatico in corso di bradicardia è la mancata attivazione di un centro ectopico vicariante. Gli episodi sincopali maggiori dovuti a bradicardie parossistiche sono stati definiti come Sindrome di Morgagni-Adams-Stokes (MAS), dal nome degli autori che per primi hanno descritto questo quadro: perdita improvvisa della coscienza, con caduta ed eventuali fasi convulsive con scosse tonico-cloniche, non preceduta da alcun sintomo ed indipendente dalla posizione o da altre situazioni note per indurre sincope. Si ha anche la perdita del controllo degli sfinteri e compaiono cianosi, gasping respiratorio e morte, in caso di prolungamento della asistolia.Altre volte, i sintomi della bradicardia possono essere non specifici ed avere un andamento cronico: le vertigini transitorie, lo stato confusionale, la sensazione di “testa vuota” sono fenomeni che riflettono uno stato di ipoperfusione cerebrale relativa dovuta alla ridotta portata cardiaca; gli episodi di facile stancabilità e la debolezza muscolare con intolleranza all’esercizio fisico sono espressione del mancato o insufficiente aumento dell’apporto ematico ai muscoli scheletrici. La bradicardia può inoltre essere percepita soggettivamente sotto forma di palpitazioni, particolarmente se intervengono battiti prematuri, a causa della maggiore gittata sistolica del battito che segue quello prematuro e del più energico itto della punta. Chiare manifestazioni di insufficienza cardiaca, a riposo o durante sforzo, possono anch’esse essere determinate da bradicardia spiccata, specialmente nei pazienti con ridotta funzione ventricolare sinistra.

LA DISFUNZIONE SINUSALE

Eziologia La degenerazione fibrosa è considerata la più comune se non l’unica causa di disfunzione del NSA. Infatti, le modificazioni strutturali si associano alla progressiva riduzione della frequenza intrinseca di scarica del NSA che si verifica con l’invecchiamento. La malattia coronarica è molto frequente nei pazienti con disfunzione sinusale e l’ischemia della regione del NSA probabilmente contribuisce alla genesi delle bradiaritmie (ed anche delle tachicardie nella sindrome bradicardia-tachicardia).

Aspetti diagnostici bradicardia sinusale. E’ definita dalla presenza di depolarizzazioni sinusali ad una frequenza inferiore a 60 bpm. La bradicardia sinusale è un reperto fisiologico negli atleti allenati, che spesso hanno una frequenza a riposo da svegli tra 40 e 50 bpm e possono avere una frequenza durante il sonno anche di 30 battiti al minuto; l’elevato tono vagale di questi soggetti può determinare anche pause sinusali o fasi di BAV di II grado tipo Wenckebach che producono pause asistoliche finanche di 3 secondi. In altri casi va posta molta cura nell’escludere cause farmacologiche attraverso un’accurata anamnesi.aritmia sinusale. In presenza di ritmo sinusale, gli intervalli P-P sono relativamente costanti, con variazioni da un intervallo dell'altro che non eccedono 0,16 secondi . Quando la differenza tra il ciclo più lungo e quello più corto è superiore a 0,16 secondi si parla di aritmia sinusale. Generalmente le onde P sono normali per asse e morfologia e l'intervallo PR resta costante, nonostante l’irregolarità dei cicli. La forma più frequente di aritmia sinusale è correlata all'attività respiratoria, con un accorciamento dell’intervallo P-P durante l'ispirazione per inibizione del tono vagale (aritmia sinusale respiratoria). Si tratta di una variante di normalità tipica dei giovani, senza alcun significato patologico. L’aritmia sinusale non respiratoria (Figura 2A) è invece caratterizzata da variazioni irregolari dell'intervallo P-P non correlate all'attività respiratoria e può essere espressione di una disfunzione sinusale.

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Arresto sinusale, blocco seno-atriale e sindrome bradicardia-tachicardia. La pausa sinusale (definita come un’assenza di attività elettrica più lunga del 150% di un ciclo cardiaco sinusale basale) può essere dovuta alla mancata formazione dell’impulso nel NSA (arresto sinusale) o ad un difetto nella conduzione dell’impulso dal NSA al tessuto atriale circostante (BSA). La manifestazione elettrocardiografica è in entrambi i casi l’assenza di un’onda P sinusale; nel BSA l’intervallo P-P durante la pausa è generalmente, ma non sempre, un multiplo dell’intervallo P-P normale (Figura 2C), mentre nell’arresto sinusale (Figura 2B) non è possibile dimostrare alcun rapporto numerico tra la durata del ciclo P-P basale e la durata della pausa. Le pause sinusali di durata inferiore a 3 secondi non hanno un significato clinico, ma l’emergenza di un ritmo di scappamento da un segnapassi atriale o giunzionale può favorire l’insorgenza di tachiaritmie atriali, come la fibrillazione atriale o il flutter atriale. Pause più lunghe possono invece causare episodi sincopali.La sindrome bradicardia-tachicardia è una manifestazione della disfunzione sinusale che determina sintomi importanti ed è caratterizzata dalla coesistenza di fasi di bradicardia o asistolia e di tachiaritmie atriali. La coesistenza dei due tipi di aritmia non è casuale, in quanto da un lato la spiccata bradicardia o le pause prolungate dovute ad arresto sinusale o a BSA possono facilitare l'innesco di una tachiaritmia atriale; dall’altro un’aritmia rapida atriale deprime l'automatismo del NSA di modo che alla sua cessazione la ripresa dell'attività spontanea sinusale è lenta e possono manifestarsi bradicardia molto spiccata o pause prolungate, dette pause pre-automatiche (Figura 2D).

Aspetti fisiopatologici e cliniciLe manifestazioni cliniche delle disfunzioni sinusali risultano spesso dalla combinazione di più tipi di aritmia e sono riportabili a due quadri specifici, la sindrome del seno malato e la sindrome del seno carotideo. La bradicardia sinusale isolata è un reperto generalmente benigno, di osservazione clinica frequente, e solo in casi selezionati necessita di trattamento.La sindrome del seno malato (sick sinus syndrome, SSS, o malattia aritmica atriale) è una delle cause più frequenti di bradicardia nel soggetto anziano e comprende non solo una depressione dell’automatismo del NSA, ma anche un’alterazione della conduzione seno-atriale ed intra-atriale ed aritmie atriali rapide tra cui soprattutto la fibrillazione atriale. La SSS si esprime clinicamente con vari gradi di gravità che vanno dalle forme più semplici di bradicardia sinusale o di FC inappropriata, generalmente benigna ed asintomatica (1° stadio), alle forme persistenti con bradicardia spiccata, arresto sinusale o BSA e sintomi di bassa portata o di ipoperfusione cerebrale e sincope (2° stadio), alle forme con alternanza di bradicardia e tachicardia (sindrome bradicardia-tachicardia o bradi-tachi) per lo più fortemente sintomatiche, anche con episodi sincopali maggiori.Per il corretto inquadramento diagnostico e per operare scelte terapeutiche mirate è di fondamentale importanza mettere in relazione eventuali sintomi con le suddette aritmie, finalità per la quale spesso l’ECG convenzionale non è sufficiente, poiché gli episodi aritmici sono intermittenti: nello stesso paziente ed in diversi momenti di osservazione possono essere presenti manifestazioni aritmiche differenti. In questi casi, la diagnostica strumentale deve essere integrata con l’ECG dinamico (Holter), i sistemi di registrazione elettrocardiografica impiantabili e lo studio elettrofisiologico. In particolare, per rivelare la presenza di una depressione dell'automatismo sinusale si ricorre alla stimolazione atriale rapida, mediante la quale viene calcolato il cosiddetto tempo di recupero del NSA; con la stessa metodica può esser misurato il tempo di conduzione seno-atriale.Poiché la disfunzione sinusale può essere espressa da un’incompetenza cronotropa, l’esercizio fisico o uno stress farmacologico possono rivelare l’incapacità del NSA di incrementare la frequenza; un incremento della FC inferiore al 50% in risposta all'esercizio fisico ed inferiore al 30% dopo somministrazione di atropina sono indici di disfunzione sinusale.La sindrome del seno carotideo, nella sua variante cardio-inibitoria, consiste nella comparsa di episodi di asistolia per arresto sinusale o BSA. Meno frequentemente il fenomeno è causato da un BAV parossistico. La sindrome viene innescata dalla stimolazione del seno carotideo, anche meccanica, che induce una marcata risposta vagale. Nella variante vaso-depressiva si osserva una diminuzione della pressione sistolica uguale o superiore a 50 mmHg. I pazienti con sindrome del seno carotideo (vedi Capitolo 42) sono sintomatici per sincopi o lipotimia, ma non sempre l'evento clinico è riferibile all'aritmia. Occorre anche in questo caso dimostrare la coincidenza tra l’alterazione elettrocardiografica ed il fenomeno clinico, dimostrazione che può essere ottenuta con relativa semplicità mediante l’esecuzione di un massaggio del seno carotideo o durante il tilt test che si esegue per lo studio della sincope vaso-vagale. Nella forma puramente cardio-inibitoria la stimolazione cardiaca permanente può risolvere i sintomi.

IL BLOCCO ATRIO-VENTRICOLARE

Lo stimolo generato dal NSA si diffonde agli atri, attraversa il nodo AV e viene condotto ai ventricoli per mezzo del fascio di His e del sistema di conduzione intraventricolare. Tutto ciò avviene fisiologicamente in un tempo compreso tra 0,12 e 0,20 secondi. Alterazioni organiche o funzionali del sistema di conduzione possono determinare un rallentamento della conduzione dell’impulso atriale, con prolungamento dell’intervallo PR oltre 0,20 secondi (BAV di I grado), o un blocco parziale della conduzione, con la conseguenza che alcune onde P non sono seguite da complessi QRS (BAV di II grado), o una completa interruzione della conduzione, per cui nessun impulso sinusale viene condotto ai ventricoli (BAV di III grado o completo). Il rallentamento o il blocco della conduzione possono verificarsi, in maniera transitoria o stabile, a livello di tutte le componenti del sistema di conduzione, ovvero a livello del NAV (blocco intra-nodale o sopra-hisiano), a livello del fascio di His (blocco intra-hisiano), o nelle branche (blocco sotto-hisiano). Di norma, i blocchi sotto-hisiani si associano a complessi QRS larghi (superiori a 0,12 secondi), particolarmente se il ritmo di scappamento è ventricolare. La distorsione della depolarizzazione ventricolare, espressa all’ECG dal QRS largo, determina un’alterazione del sincronismo di contrazione ventricolare la quale produce effetti emodinamici negativi indipendenti da quelli dovuti alla bradicardia ed alla dissociazione AV ed additivi rispetto ad essi; pertanto, i

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blocchi sotto-Hisiani sono emodinamicamente tollerati peggio dei blocchi più prossimali.

Aspetti diagnostici

BAV di I grado. É riconoscibile all'elettrocardiogramma per il prolungamento dell’intervallo PR al di sopra di 0,20 secondi, con onde P sempre seguite da un complesso ventricolare. Dal punto di vista elettrofisiologico la sede del ritardo può essere a tutti i livelli del sistema di conduzione (NAV, fascio di His o branche).

BAV di II grado. Del BAV di II grado si distinguono 4 diversi tipi. 1) BAV di II grado tipo 1 (o tipo Wenckebach). Questa forma è caratterizzata dal progressivo allungamento dell’intervallo PR, fin quando un impulso si blocca e non viene condotto ai ventricoli, cioè un’onda P non è seguita da un QRS, per cui si verifica una pausa. Subito dopo questa, l’intervallo PR è normale o comunque più breve di quello del ciclo precedente il blocco, mentre nei battiti successivi il PR si allunga di nuovo in maniera progressiva fino al blocco di un altro impulso, realizzando così dei periodismi, detti di Luciani-Wenckebach (Figura 3A). Il BAV di II grado tipo Wenckebach è in genere dovuto ad una lesione, per lo più reversibile, in sede nodale ed è particolarmente sensibile alle influenze vegetative (tono vagale) e farmacologiche.2) BAV di II grado tipo 2 (o tipo Mobitz). Questa forma è caratterizzata dall’improvviso blocco della conduzione di un impulso, con una pausa asistolica uguale al doppio di un ciclo sinusale. Gli intervalli PR sono costanti prima e dopo il ciclo bloccato, senza allungamento dell’intervallo PR nel ciclo che precede la P bloccata; anche nel ciclo successivo all’impulso bloccato l’intervallo PR è identico a quello del ciclo precedente (Figura 3B). Il BAV di II grado tipo Mobitz è in genere dovuto ad una lesione intra-Hisiana, o sotto-Hisiana. 3) BAV di II grado 2: 1. Il BAV 2:1 è caratterizzato dall’alternanza di un impulso condotto e di un impulso bloccato (Figura 3C). 4) BAV di II grado avanzato. È definito dal blocco di due o più onde P consecutive (Figura 3D). BAV di III grado. Il BAV di III grado (o BAV completo) è caratterizzato dall’assenza della conduzione degli impulsi atriali ai ventricoli e dalla completa dissociazione dell’attività atriale, più rapida e caratterizzata dalle onde P sinusali, da quella ventricolare, che è governata da un ritmo di scappamento la cui analisi può fornire un’indicazione sulla sede del blocco (Figura 4). La presenza di un ritmo stabile, con frequenza tra 40 e 50 e complessi QRS stretti, suggerisce un ritmo di scappamento giunzionale; un ritmo di scappamento a complessi QRS larghi e a frequenza inferiore a 40, invece, suggerisce un blocco a livello più distale (blocco sotto-hisiano) e pertanto la necessità più urgente di un intervento terapeutico di elettrostimolazione cardiaca. Dissociazione AV. Con il termine dissociazione AV si indica la condizione in cui gli atri ed i ventricoli si attivano indipendentemente gli uni dagli altri; un segnapassi, in genere il NSA, attiva gli atri, un altro segnapassi, posto a livello giunzionale, fascicolare o ventricolare attiva i ventricoli. La dissociazione AV rappresenta una conseguenza implicita del BAV completo, ma non si identifica con esso in quanto è un fenomeno elettrofisiologico che può essere riconosciuto in diverse manifestazioni aritmiche, come ad esempio nel BAV di II grado o nella tachicardia ventricolare.

Aspetti eziologici, fisiopatologici e clinici Il BAV di I grado è presente nel 5% circa della popolazione apparentemente sana ed è un reperto relativamente frequente anche fra i cardiopatici, poiché i fattori capaci di alterare la conduzione A-V, soprattutto a livello del NAV, sono numerosi. In forma isolata, è spesso un reperto elettrocardiografico occasionale, poiché nella maggior parte dei casi non determina sintomi e non necessita quindi di approfondimenti diagnostici specifici, se non per il riconoscimento della eziologia, potendo essere la prima manifestazione di una malattia reumatica passata inosservata, di una malattia infiltrativa cardiaca, di una disfunzione tiroidea, ecc. (Tabella II). Quando si può stabilire con sicurezza l'insorgenza recente del blocco, se si tratta di un paziente giovane occorre pensare a una malattia reumatica. In pazienti anziani con anamnesi di sincope ed in assenza di farmaci che deprimono la conduzione AV, un BAV di I grado di recente insorgenza è fortemente suggestivo di BAV parossistico di grado avanzato e richiede l'impianto di un pacemaker. Generalmente, il BAV di I grado non ha alcuna conseguenza emodinamica di rilievo. E’ possibile tuttavia che intervalli PR particolarmente lunghi, superiori a 0,30 secondi, possano determinare sintomi anche in assenza di gradi maggiori di BAV. Infatti, a causa del ritardo elevato, la sistole atriale si può verificare durante la protodiastole del ciclo cardiaco precedente o addirittura durante la sistole precedente, producendo una contrazione atriale contro le valvole atrio-ventricolari chiuse. In questi casi, il riempimento ventricolare viene compromesso, si perde il sincronismo atrio-ventricolare e possono conseguirne un aumento della pressione di incuneamento nei capillari polmonari ed una riduzione della portata cardiaca. Il BAV di II grado tipo 1 (Wenckebach) raramente si manifesta con sincope e più di frequente è un riscontro ECG incidentale o associato a sintomi aspecifici. Nella quasi totalità dei casi è l’espressione di un disturbo funzionale e reversibile della conduzione a livello del NAV, spesso causato dalla somministrazione di farmaci attivi sul NAV come la digitale, i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti non diidropiridinici. È frequente l’associazione con l’infarto miocardico acuto inferiore, nel quale è in genere transitorio, non modifica la prognosi e raramente richiede una terapia specifica (corticosteroidi endovena o elettrostimolazione temporanea).I BAV di II grado tipo 2 (Mobitz), ed avanzato sono espressione di un danno organico del sistema di conduzione sotto-hisiano e quasi sempre progrediscono improvvisamente verso il BAV completo. Per tali motivi, queste forme di BAV di II grado richiedono in tutti i casi l’elettrostimolazione cardiaca permanente. Il BAV di III grado provoca in genere evidenti segni e sintomi, dovuti alla riduzione della portata cardiaca. I sintomi possono insorgere in maniera improvvisa con una sincope, o in maniera più lenta ed insidiosa, causando ad esempio astenia marcata o dispnea da sforzo, soprattutto se il BAV ha sede nodale ed è presente un ritmo di scappamento giunzionale che assicuri una portata cardiaca sufficiente a non determinare una importante riduzione della perfusione cerebrale, ma incapace di garantire un buon adattamento allo sforzo o ad altre situazioni in cui è richiesto un aumento della portata.

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PRINCIPI DI TRATTAMENTO DELLE BRADICARDIE

La decisione di trattare una bradicardia è basata soprattutto sulla presenza di sintomi attribuibili direttamente ad essa. Il primo approccio sta nel riconoscimento delle bradicardie reversibili, spesso indotte da farmaci o legate a situazioni identificabili e clinicamente reversibili come gli squilibri elettrolitici o l’infarto miocardico acuto, nell’eliminazione del meccanismo fisiopatologico e nella cura della causa scatenante. Ad esempio, nella malattia di Lyme, il BAV è reversibile, come pure in presenza di iperpotassiemia. Al contrario, nelle malattie neuromuscolari ed in alcune patologie infiltrative del miocardio, come la sarcoidosi e l’amiloidosi, l’impianto di un pacemaker è da raccomandare anche quando il BAV sia stato transitorio, a causa della imprevedibile possibilità di progressione del disturbo di conduzione.

Terapia farmacologica Un intervento terapeutico non è quasi mai necessario nei pazienti con bradicardia sinusale, aritmia sinusale, pause sinusali o arresti sinusali inferiori a 3 secondi. Per bradicardie più rilevanti l’atropina endovenosa rappresenta un presidio terapeutico di emergenza che può essere impiegato per accelerare la frequenza cardiaca sinusale e migliorare la conduzione AV, quando la sede del BAV sia chiaramente a livello nodale. Per la cura del BAV completo è stato impiegato, in condizioni di emergenza, l’isoproterenolo endovena per aumentare la frequenza di un eventuale segnapassi di scappamento ventricolare; tale farmaco è ormai poco usato per i rischi connessi al suo potenziale aritmogeno e per la maggiore efficacia e sicurezza della elettrostimolazione cardiaca temporanea. Pertanto, tutti i pazienti che si presentano con sintomi legati ad una disfunzione del nodo del seno o a disturbi della conduzione AV dovrebbero essere presi in considerazione per l’impianto di un pacemaker cardiaco temporaneo o definitivo.

I pacemaker cardiaciI pacemaker cardiaci sono generatori di impulsi che erogano stimoli elettrici, trasmessi attraverso uno o più elettrocateteri a determinate zone del cuore. L’impulso elettrico erogato dal generatore si propaga a tutto il miocardio e ne determina la depolarizzazione. L’attivazione elettrica delle camere cardiache indotta dal pacemaker non si propaga attraverso le normali vie di conduzione ma è trasmessa attraverso il miocardio di lavoro, il che può avere delle importanti conseguenze elettriche e meccaniche, provocando dissincronia inter- ed intra-ventricolare, e dissociazione AV in caso di sola stimolazione ventricolare. La necessita di ottenere una stimolazione cardiaca “fisiologica” ha portato allo sviluppo di pacemaker che mirano a preservare e/o ripristinare il normale sincronismo AV o interventricolare stimolando sequenzialmente prima l’atrio destro e poi l’apice del ventricolo destro (pacemaker bicamerali) ed eventualmente anche la parete laterale del ventricolo sinistro (pacemaker tricamerali). Inoltre sono stati messi a punto sensori che modulano la frequenza di stimolazione cardiaca (pacemaker rate-responsive) in base all’attività del paziente in maniera da simulare le variazioni fisiologiche del cronotropismo. Date le ampie possibilità di scelta, la terapia di elettrostimolazione definitiva con pacemaker deve essere adattata individualmente ad ogni singolo paziente tenendo conto del tipo di difetto di conduzione, della condizione emodinamica del paziente e del suo livello di attività.

Principi di terapia della disfunzione sinusaleLa disfunzione sinusale è una delle cause più frequenti di indicazione all’impianto di un pacemaker cardiaco; tuttavia, pur permettendo un evidente miglioramento o la scomparsa dei sintomi dovuti alla bradicardia, l’elettrostimolazione cardiaca permanente non è chiaramente associata ad un aumento della sopravvivenza.Tutte le forme di disfunzione sinusale, inclusa la sindrome bradi-tachi, quando determinano sintomi rappresentano un’indicazione assoluta alla elettrostimolazione cardiaca. Anche la bradicardia iatrogena che consegue a trattamenti farmacologici a lungo termine, per i quali non esistano alternative (per esempio i beta-bloccanti), rappresenta un’indicazione all’impianto di un pacemaker.L’indicazione all’impianto è meno perentoria, ma tendenzialmente accettata, in pazienti sintomatici quando non vi sia stata una chiara dimostrazione che i sintomi siano effettivamente dovuti alla bradicardia, ma la disfunzione sinusale, spontanea o iatrogena, determina una FC inferiore a 40 bpm. Lo stesso criterio si applica quando, a seguito di una sincope da causa inspiegata, venga dimostrata allo studio elettrofisiologico una marcata anomalia della funzione sinusale, pur senza la coincidenza documentata con eventi clinici.

Principi di terapia del BAVL’elettrostimolazione cardiaca permanente migliora non solo la qualità di vita dei pazienti con BAV ma soprattutto la prognosi a lungo termine; le indicazioni all’impianto di un pacemaker in presenza di un BAV dipendono dai sintomi e da semplici indicatori quali in primo luogo la durata del QRS e la durata delle pause.Il BAV di III grado e il BAV di II grado avanzato hanno una indicazione assoluta all’impianto di pacemaker, indipendentemente dalla sede elettrofisiologica del blocco, quando sono presenti sintomi dovuti alla bradicardia oppure, in pazienti svegli ed asintomatici, pause superiori a 3 secondi o un ritmo di scappamento a frequenza inferiore a 40 bpm.Anche nei pazienti con BAV di II grado tipo Mobitz sintomatici l’indicazione all’impianto di pacemaker è assoluta. L’indicazione è meno perentoria ma tendenzialmente accettata nei pazienti con BAV di II grado tipo Mobitz asintomatici, specialmente se con QRS largo, per l’elevata probabilità di progressione verso gradi più avanzati di blocco. In questi casi, l’indicazione alla cardiostimolazione potrebbe essere posta in dubbio solo se il BAV fosse asintomatico e associato a QRS stretti, ma la sussistenza di entrambe le condizioni è di rarissima osservazione clinica. Il BAV 2: 1 può avere, come detto, una localizzazione sopra-Hisiana (nodale), intra-Hisiana o sotto-Hisiana, ma in genere determina sintomi a causa dell’importante riduzione della frequenza cardiaca; pertanto richiede quasi

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sempre l’impianto di pacemaker.Il BAV di I grado isolato ed il BAV di II grado tipo Wenckebach con complessi QRS stretti sono in genere manifestazione di una lieve alterazione della conduzione nodale e non hanno alcun significato prognostico negativo. Inoltre queste forme di BAV, quando insorte in seguito ad infarto miocardico inferiore, ad interventi cardiochirurgici o come effetto di farmaci, sono quasi sempre reversibili. Tuttavia, nei pazienti con BAV di II grado tipo Wenckebach non dovuto a cause reversibili e sintomatici, l’indicazione all’impianto di pacemaker è assoluta.

Sezione XI. Sincope e Arresto CardiocircolatorioCapitolo 42SINCOPELuigi Padeletti, Alfonso Lagi DEFINIZIONE

La sincope è una perdita improvvisa della coscienza e del tono muscolare, di breve durata e a risoluzione spontanea. E’ la conseguenza dell’ischemia generalizzata di entrambi gli emisferi cerebrali e/o del tronco. La sincope è un sintomo comune a molte malattie, al pari della febbre o dell’anemia. La sua importanza deriva da due considerazioni: la prima, esclusivamente medica, che la sincope può essere anticipatrice di una morte improvvisa nel futuro prossimo; la seconda, riguardante il grande impatto emotivo sull’individuo che ne soffre e sulla famiglia, che la sincope rappresenta una vera interruzione della vita, anche se breve ed a risoluzione spontanea, così da far pensare che l’esperienza si possa ripetere con risultati non altrettanto favorevoli. Se l’etimologia della parola significa “interrompere” (dal greco) bisogna ben considerare che “the only difference between syncope and sudden death is that in one you wake up”.Il momento fisiopatologico determinate della sincope è la ipoperfusione dell’encefalo, ma ciò non significa che il fenomeno dipenda necessariamente da una ipotensione acuta e transitoria. I fattori determinanti la pressione arteriosa sono il volume circolante nel distretto arterioso, la gittata cardiaca, e le resistenze periferiche. Le alterazioni di uno o più di questi parametri possono portare alla sincope. La riduzione della gittata cardiaca può conseguire a diminuzione della gittata sistolica, a critiche variazioni della frequenza cardiaca (tachicardie o bradicardie estreme ) o a diminuzione del volume circolante; la riduzione delle resistenze periferiche è l’effetto di mediatori fisiologici o patologici (farmaci con azione simpaticolitica, eventi riflessi, malattie neurologiche).E’ fondamentale tener presente che varie malattie possono mimare la sincope, soprattutto le epilessie generalizzate non convulsive (crisi di piccolo male), i disturbi del sonno e le forme psicogene (crisi di ansia generalizzata).

EPIDEMIOLOGIA

La sincope è molto frequente. Si calcola che nel nostro paese vi siano oltre 100.000 casi/anno. Il 75% della popolazione sana va incontro ad almeno un episodio sincopale in un arco di tempo di 26 anni; nei nostri Ospedali la sincope rappresenta il 3% delle presentazioni, e nel 25 % dei casi si manifesta una recidiva.La sincope colpisce tutte le età, con un’incidenza progressivamente crescente con il passare del tempo. La ricorrenza della sincope è molto frequente, stimata al 30% della popolazione che già ne ha sofferto.

CLASSIFICAZIONE

La sincope è una fra le transitorie perdite di coscienza. Una adeguata classificazione deve prendere in considerazione anche quelle affezioni che possono mimare la sincope, per poter avviare una adeguata diagnosi differenziale. Queste situazioni vengono spesso indicate come “syncope like” La sincope può essere classificata come segue.

Neuromediata: vasovagale, situazionale, sindrome da ipersensibilità del seno carotideo, nevralgia glossofaringea e trigeminale

Ipotensione ortostatica: disautonomia, farmaci, deplezione di volume

Aritmica

Cardiopatia strutturale: cardiopatia ischemica, cardiomiopatie , cardiopatie con ostruzione all’efflusso

Cerebrovascolare: furto della succlavia

Syncope like

Epilessia generalizzata

Sincope psicogena: attacchi di panico, ansia generalizzata

Ipossiemia acuta transitoria: intossicazione da CO, esposizione a base concentrazioni di ossigeno

La sincope neuromediata è la forma più comune, e consegue ad un riflesso che può essere scatenato da molteplici fattori (odori, dolore, emozioni, vista di episodi sgradevoli, prolungata stazione eretta). In genere si accompagna ad un insieme di sintomi (nausea e/o vomito, pallore, sudorazione) la cui presenza permette un alto grado di sospetto. La sincope da ipersensibilità del seno carotideo (SSC), frequente nella popolazione anziana, è caratterizzata dal fatto che uno stimolo anche lieve, portato nella zona del seno carotideo (massaggio del seno carotideo – MSC)

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diventa efficiente nel provocare la sintomatologia. Questo ha un’evidente corrispondenza in clinica nella comparsa degli episodi spontanei. La sincope situazionale, più frequente nel giovane, permette una diagnosi di certezza solo su base anamnestica (minzione, defecazione, deglutizione).Marker diagnostico di tutte le forme neuromediate, quando esse sono colte dall’osservatore o provocate in laboratorio durante il tilt test o il MSC, è la presenza di bradicardia e/o ipotensione da vasodilatazione, con differente prevalenza dei due aspetti patogenetici La sincope ortostatica è comune, e si manifesta a seguito dell’assunzione della posizione eretta. Può essere accompagnata da sintomi che esprimono la riduzione più o meno rapida della pressione arteriosa in ortostatismo (sensazione di testa vuota, vertigine, astenia) con recupero della sensazione di benessere alla riassunzione della posizione seduta o distesa. Una disfunzione autonomica deve essere sospettata nell’anziano, associata o meno a sintomi di malattie sistemiche (amiloidosi e diabete) o neurologiche degenerative (Morbo di Parkinson). Altre cause sono l’uso di farmaci ipotensivi o di diuretici e alcune malattie endocrine (Ipocorticosurrenalismo primitivo o secondario). Le aritmie cardiache sono causa di sincope quando inducono un’eccessiva bradicardia o tachicardia. Entrambi i fenomeni provocano la caduta della gittata cardiaca e quindi della perfusione cerebrale. Le bradicardie secondarie a disfunzione del nodo del seno (sick sinus sindrome) e quelle legate a disturbi della conduzione atrio-ventricolare (vedi Capitolo 40), sono le più frequenti, seguite dalle tachicardie ventricolari (vedi Capitolo 39). La perdita di coscienza si può verificare all’inizio dell’aritmia o alla fine, quando interrompendosi improvvisamente il ritmo anomalo, si registra una pausa prolungata che precede il recupero del ritmo normale. La sick sinus syndrome (SSS) esprime una combinazione di bradicardia (sinusale, pause sinusali, blocchi senoatriali ) e di tachicardia, in genere flutter o fibrillazione atriale. I periodi di bradiaritmia sono considerati più frequentemente in causa nella patogenesi della sincope. I disturbi della conduzione AV possono esser causa di sincope. Si deve dare poca importanza al blocco AV di I grado e a quello di II grado tipo Mobitz I (Wenckebach), mentre più frequente è la sincope in corso di blocco AV di II grado tipo Mobitz II o di blocco AV di III grado. La tachicardia ventricolare (vedi Capitolo 39) è una frequente causa di sincope. La sindrome del QT lungo congenita o acquisita (vedi Capitolo 42) favorisce la comparsa di una tachicardia ventricolare a torsione di punta, specialmente in associazione a periodi di bradicardia o in concomitanza di ipokaliemia. La tachicardie sopraventricolari sono di rado causa di sincope, solo quando si associano a bassa gittata; in genere i soggetti anziani sono quelli che presentano più frequentemente la sincope in corso di tachicardia sopraventricolare . La malattie cerebrovascolari sono cause rare di sincope. In particolare il furto della succlavia (vedi Capitolo 53) provoca, in condizione critiche, una ipoperfusione a livello del circolo cerebrale posteriore che rientra fra gli attacchi ischemici transitori. Le situazioni raggruppate sotto la dizione “syncope like” comprendono un’ampia varietà di condizioni morbose, che vanno da crisi epilettiche generalizzate non convulsive associate a ipotonia muscolare (attacchi di piccolo male), a episodi critici in corso di ansia generalizzata (crisi di panico), a disturbi del sonno, a episodi di amnesia globale transitoria. Alcune di queste evenienze sono di facile diagnosi, se accadono in presenza di testimoni che possono descrivere il comportamento dei paziente, ma sono di difficile inquadramento quando il paziente ne soffre senza che alcuno sia presente all’episodio critico.

DIAGNOSI

L’obiettivo primario della strategia diagnostica è definire il profilo di rischio del paziente: l’obiettivo fondamentale a cui devono mirare le indagini è l’esclusione di una patologia cardiaca. Quando questa possa essere esclusa, l’identificazione della causa della sincope permetterà di mettere in atto una serie di provvedimenti che migliorino la qualità di vita e riducano la morbilità associata. Una volta esclusa la patologia aritmica (bradicardie o tachicardie critiche), il medico ha a che fare con una sincope anamnestica. E’ quindi necessario un algoritmo diagnostico che miri alla individuazione delle cause cardiogene e, una volta escluse queste, alla ricerca di altre malattie.L’anamnesi è il momento diagnostico più importante poiché permette la diagnosi in oltre il 70% dei casi, specialmente quando essa può essere confermata da un testimone. Nella pratica clinica, occorre richiedere al paziente di concentrarsi e descrivere l’ultimo evento critico, poiché si presuppone che esso sia più facilmente riferibile, e successivamente valutare e confrontare con l’ultimo gli episodi precedenti. Alcuni elementi sono fortemente indicativi per la diagnosi: si devono valorizzare precedenti patologici quali la presenza di cardiopatia, di malattie del sistema nervoso centrale, (per esempio, malattia di Parkinson, epilessia), di morte improvvisa nella famiglia, della recente assunzione di farmaci, di malattie psichiatriche. Successivamente si deve ricercare la presenza dei sintomi e segni elencati nella Tabella I come post critici, critici e pre critici in relazione al periodo di comparsa.Nel dare un peso ai sintomi e ai segni rilevabili durante la raccolta dell’anamnesi si deve ricordare che nelle forme ospedalizzate la sincope neuromediata giustifica il 66% delle osservazioni, la forma cardiogena ne comprende l’11% e le forme sincope-like rappresentano il 6% della casistica. La perdita di coscienza in soggetto con età superiore a 54 anni, con meno di due episodi, in associazione a palpitazioni orienta per una forma cardiogena, mentre l’associazione di nausea, sudorazione, visione confusa o sensazione di testa vuota che precedono o seguono la sincope è indicativo di una forma neuromediata. La sincope cardiogena appare molto probabile quando vi è rilievo anamnestico di cardiopatia, mentre l’assenza di cardiopatia anamnestica esclude la sincope cardiogena nel 97% dei pazienti.

STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO

La sincope cardiogena è la prima diagnosi da confermare o escludere poiché può essere annunciatrice di morte o di gravi complicanze. E’ quindi necessario per ogni paziente definire il profilo di rischio, cioè la probabilità di essere affetto da una malattia potenzialmente letale. I due più forti indicatori di sincope cardiogena sono l’anamnesi di cardiopatia strutturale e l’ECG

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patologico. La registrazione dell’elettrocardiogramma tradizionale a 12 derivazioni è troppo breve per potere cogliere aritmie significative, ma fornisce informazioni sul ritmo e sulla conduzione AV. La bradicardia sinusale, l’intervallo PR prolungato (blocco A-V di I grado) o la presenza di un blocco di branca aumentano la possibilità di una disfunzione sinusale o di un blocco atrio-ventricolare intermittente (vedi Capitolo 40) da cui la sincope può dipendere. L’esame del complesso QRS può permettere di identificare un’onda delta, indice di una via accessoria (vedi Capitoli 3 e 38) e di una sindrome di Wolff-Parkinson-White, potenzialmente responsabile della sincope. Le malattie genetiche classificate oggi come canalopatie o malattie dei canali ionici (Sindrome del QT lungo e Sindrome di Brugada, vedi Capitolo 42), possono essere identificate con l’ECG, come anche, in alcuni casi, la cardiomiopatia/displasia aritmogena del ventricolo destro o altre cardiomiopatie; anche i segni di necrosi miocardica, indicativi di un pregresso infarto, vengono rivelati dall’ECG. In tutte queste condizioni, la sincope può essere provocata da una tachicardia ventricolare.

ITER DIAGNOSTICO SUCCESSIVO ALLA SINCOPE

In assenza di cardiopatia strutturale e di pregresse aritmie si deve considerare fortemente sospetta la forma neuromediata (nei giovani) o da ipotensione ortostatica (negli anziani). In questi casi l’indagine diagnostica di scelta è il tilt test (test all’ortostatismo passivo), eseguito ponendo il soggetto su un letto che viene poi inclinato, in modo che la persona assuma una posizione ortostatica, con i piedi che poggiano su un’apposita pedana. Quando un essere umano sta in piedi, muove necessariamente le gambe, e la contrazione dei muscoli (pompa muscolare) favorisce il ritorno venoso al cuore. Quando, invece, l’ortostatismo viene mantenuto passivamente per un certo tempo (in genere da 40 minuti a un’ora), si verifica un sequestro di sangue negli arti inferiori, e il ritorno venoso si riduce. I ventricoli, perciò, si contraggono mentre sono relativamente vuoti di sangue, e la portata cardiaca tende a diminuire: ciò provoca un incremento reattivo del tono simpatico, che aumenta la contrattilità ventricolare; la vigorosa contrazione dei ventricoli che contengono poco sangue stimola i meccanocettori delle pareti ventricolari, generando un riflesso vagale che esita infine in bradicardia e ipotensione indotta dalla vasodilatazione arteriolare. Questi meccanismi (cardioinibizione e vasodepressione) possono indurre la sincope, che può essere cardioinibitoria, vasodepressiva o mista, a seconda della prevalenza di una componente sull’altra. Il tilt test è positivo per sincope neuromediata quando si verifica una perdita di coscienza o comunque una condizione di pre-sincope associata a bradicardia e ipotensione; di contro l’ipotensione ortostatica viene diagnosticata per la presenza di ipotensione senza bradicardia. La perdita di coscienza durante tilt test in assenza di modificazioni significative della pressione arteriosa e/o della frequenza cardiaca invece, indica una sincope psicogena. Anche il massaggio del seno carotideo, manovra che induce una stimolazione vagale riflessa, trova indicazione nei casi di sincope senza dimostrata cardiopatia strutturale, quando i dati anamnestici orientino verso la diagnosi di sincope senocarotidea (sincope che fa seguito a bruschi movimenti del collo). Teoricamente la manovra dovrebbe essere condotta in posizione semi-ortostatica per valutare sia la risposta cardioinibitoria, che quella vasodepressiva, ma in pratica il test viene eseguito in posizione distesa, valorizzando solo la risposta cardioinibitoria, che viene considerata patologica quando l’intervallo fra due battiti cardiaci supera 3,5 secondi .L’Ecg da sforzo raramente trova indicazione nell’iter diagnostico della sincope, a meno che la sintomatologia non abbia una stretta correlazione con l’attività fisica. In questi casi esiste la possibilità di una patologia dell’efflusso dal ventricolo sinistro (cardiomiopatia ipertrofica ostruttiva, vedi Capitolo 28) che in genere è evidenziata con l’ecocardiogramma, ma esiste anche la possibilità di una cardiopatia ischemica o di una malattia disautonomica. La registrazione ambulatoriale dell’ECG (Holter-24 ore) viene spesso utilizzata in pazienti con sincope per cogliere aritmie potenzialmente pericolose (tachicardia ventricolare sostenuta o non sostenuta, asintomatica o sintomatica, bradicardia paucisintomatica). Se gli episodi sincopali sono rari, è possibile utilizzare registratori che il paziente porta per periodi più lunghi di 24-48 ore. Esistono i “loop-recorder” esterni che permettono la registrazione dell’elettrocardiogramma per diversi giorni e quelli impiantabili sottocute, che possono arrivare a registrare fino a 18 mesi di attività cardiaca. Nelle sincopi la cui causa rimane indeterminata alla fine del percorso diagnostico standard, il loop recorder impiantabile permette di giungere alla diagnosi fino al 43% dei casi. L’ecocardiogramma (vedi Capitolo 4) e l’esame Doppler dei tronchi sopraortici (vedi Capitolo 12) permettono di individuare cardiopatie strutturali (per esempio, stenosi aortica, mixoma atriale) o anomalie vascolari che giustifichino la sincope. Lo studio elettrofisiologico (SEF, vedi Capitolo 60) valuta la funzione del nodo sinusale, la conduzione AV e la suscettibilità a sviluppare tachicardie sopraventricolari o ventricolari. Le malattie neurologiche, syncope like (vedi classificazione), richiedono accertamenti orientati e specifici. Esse sono sospettate sulla base di sintomi focali che precedono o accompagnano la perdita di coscienza (aura, parestesie, diplopia, disartria). I test da utilizzare in questi casi sono indagini neurologiche di tipo funzionale (Elettroencefalogramma) e di imaging (TC ed RM dell’encefalo).

CENNI DI TERAPIA

A stretto rigore di termini dobbiamo parlare di prevenzione delle recidive sincopali piuttosto che di terapia della sincope. I nostri sforzi sono diretti a prevenire nuovi episodi sincopali trattando la malattia e i meccanismi patogenetici che sottendono la sincope.La sincope neuromediata o vasovagle, di gran lunga la forma più frequente, ha poche possibilità di un’efficace prevenzione. Molti sono infatti i fattori scatenanti che devono essere individuati ed evitati. Il paziente deve essere educato ad evitare tutte le condizioni favorenti e scatenanti il riflesso patogeneticamente efficiente, come gli ambienti affollati, i luoghi con temperatura eccessiva, le condizioni fisiche e farmacologiche che favoriscono la disidratazione e l’ipovolemia. Egli dovrà essere sensibilizzato al riconoscimento dei sintomi premonitori e dovrà conoscere le manovre che sono in grado di far abortire la crisi sincopale, prima fra tutte il mettersi in posizione supina non appena egli avverte i sintomi premonitori. Il soggetto deve essere rassicurato

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sulle sue condizioni di salute e reso edotto della benignità dell’evento di cui ha sofferto e della possibilità di una recidiva, al fine di evitare gli aspetti psicologici, come ansia e depressione, che possono accompagnare uno o più episodi sincopali. In caso di sincope vasovagale ricorrente e in pazienti molto motivati, la prescrizione di periodi prolungati di postura eretta od altre manovre fisiche specificamente orientate possono essere utili nel ridurre gli episodi ricorrenti. Scarsa indicazione trovano oggi, alla luce delle esperienze attuali, i numerosi farmaci che sono stati proposti in passato quali i (-bloccanti e i vasocostrittori. L’impianto di un pacemaker si è dimostrato efficace nella Sindrome del seno carotideo cardioinibitoria, di cui è ormai diventato il trattamento di scelta. Lo stesso non si può dire per la sincope vasovagale, che è stata oggetto di numerosi trial in cui il braccio terapeutico efficace era rappresentato da un pacemaker. Dopo alcuni studi condotti su popolazioni limitate di pazienti e non in doppio cieco, è stata dimostrata la non superiorità del trattamento con pacemaker rispetto al placebo. L’efficacia dei pacemaker, invece, è dimostrata in tutte le forme da disfunzione del nodo sinusale o da blocco AV (vedi Capitolo 40). Le tachicardie parossistiche sopraventricolari hanno indicazione all’uso di farmaci antiaritmici, ed in realtà molte se ne giovano, anche se transitoriamente. L’uso sempre più diffuso delle tecniche di ablazione transcatetere (vedi Capitolo 60) ha permesso il successo anche nei casi non sensibili ai farmaci, evitandone gli effetti collaterali e rendendo permanente l’efficacia della terapia. Quando è la tachicardia ventricolare a indurre la sincope, trova indicazione il trattamento farmacologico o l’impiego di specifici device. I farmaci antiaritmici di Classe I (vedi Capitolo 58) non sono indicati per il loro effetto inotropo negativo; l’amiodarone è invece il farmaco di scelta per la virtuale assenza di effetti inotropi negativi. In alternativa, si può impiegare il defibrillatore impiantabile (ICD, implantable cardioverter defibrillator), che riconosce la tachicardia e la fibrillazione ventricolare e la tratta con uno shock elettrico in grado di interromperla (vedi Capitolo 43).

Capitolo 43MORTE CARDIACA IMPROVVISALia Crotti, Peter J. Schwartz DEFINIZIONECon il termine “morte cardiaca improvvisa” si intende il decesso per cause naturali di origine cardiaca che consegua ad una improvvisa perdita di coscienza entro un’ora dall’esordio dei sintomi. I soggetti possono anche essere cardiopatici noti, ma la modalità e il momento dell’insorgenza della perdita di coscienza devono essere inattesi.

EPIDEMIOLOGIA

Negli Stati Uniti la morte cardiaca improvvisa è all’origine di 300000-400000 vittime all’anno e nei paesi industrializzati è la causa di morte più frequente per i soggetti in età produttiva (20-65 anni), in particolare di sesso maschile. Nella stragrande maggioranza dei casi la morte cardiaca improvvisa è dovuta ad una tachiaritmia fatale (fibrillazione ventricolare primaria o tachicardia ventricolare degenerante in fibrillazione ventricolare). Nel 10-15% dei casi la causa è un’asistolia (assenza del battito cardiaco); più raramente una dissociazione elettro-meccanica (presenza di attività elettrica in assenza di contrazione efficace del cuore). La patologia coronarica è senz’altro la causa più frequente di morte cardiaca improvvisa e per tale motivo sia la distribuzione sia i principali fattori di rischio sono comuni alle due condizioni.L’incidenza della morte cardiaca improvvisa mostra un ritmo circadiano con una prevalenza tra le ore 6 del mattino e mezzogiorno. Questo ritmo circadiano è molto simile a quello osservato per l’insorgenza di altri eventi cardiaci acuti quali l’infarto del miocardio e l’ischemia miocardica transitoria. Anche se il meccanismo di questo picco mattutino non è noto con certezza, è verosimile che dipenda almeno in parte dall’aumento di attività simpatica che compare al risveglio. Infatti, nelle prime ore del mattino si osserva un aumento del tono vasocostrittore coronarico, della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, delle catecolamine plasmatiche e dell’adesività piastrinica. Esistono due picchi di incidenza della morte improvvisa; il primo nei primi sei mesi di vita (Sudden Infant Death Syndrome o SIDS) e il secondo tra i 45 e 75 anni di età. Poiché la morte cardiaca improvvisa nel primo anno di vita riconosce meccanismi fisiopatologici diversi rispetto alla morte improvvisa dell’adulto, alla sua trattazione è riservato un paragrafo a parte.

FISIOPATOLOGIA

La genesi della morte cardiaca improvvisa coinvolge una serie di fattori con ruoli diversi. Un modello efficace di morte cardiaca improvvisa prevede l’esistenza di un substrato miocardico, di fattori scatenanti e di fattori modulanti o favorenti che interagiscono a causare la tachicardia o fibrillazione ventricolare (la causa più frequente di arresto cardiaco).Con il termine substrato si intende la presenza di alterazioni strutturali o elettriche cardiache che favoriscono il rischio aritmico: 1) alterazioni strutturali possono ad esempio essere rappresentate da una cardiopatia congenita, da alterazioni conseguenti alla ipertrofia o alla fibrosi miocardica, che possono ad esempio seguire ad un infarto del miocardio; 2) alterazioni elettriche sono tipicamente quelle presenti in cardiopatie aritmogene ereditarie, legate a difetti di canali ionici cardiaci, quali la Sindrome del QT Lungo o la Sindrome di Brugada (vedi Capitolo…).Un fattore scatenante importante è costituito, ad esempio, da un episodio ischemico acuto. La frequente assenza, nei vasi coronarici esaminati all’autopsia, di lesioni occlusive sottolinea la possibilità che a scatenare l’episodio di arresto cardiaco sia una ischemia miocardica solo transitoria. In accordo con questa ipotesi è il fatto che solo una minoranza dei soggetti risuscitati dopo arresto cardiaco sviluppa un infarto del miocardio.Con il termine “fattore modulante” si intende un fattore variabile nel tempo, che possa in talune circostanze presentarsi con caratteristiche tali da favorire l’insorgenza, la perpetuazione o la degenerazione di un’aritmia ventricolare minacciosa. Esempi tipici sono rappresentati dalla presenza di alterazioni elettrolitiche quali

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l’ipopotassiemia. Altre possibilità sono costituite da situazioni transitorie di ipossia o di acidosi o dall’utilizzo di farmaci con potenziale effetto proaritmico. Un posto di primaria importanza nell’ambito dei fattori modulanti spetta al sistema nervoso autonomo. Numerosi studi sperimentali hanno indicato l’effetto sfavorevole rappresentato da una eccessiva attivazione simpatica nella genesi delle aritmie ventricolari maligne, in particolare in occasione di ischemia miocardica acuta. Una eccessiva attivazione adrenergica esercita una serie di effetti sfavorevoli sia nel senso di un aumento della gravità dell’ischemia (per aumento del consumo di ossigeno e delle resistenze coronariche) sia di un aumento della probabilità di aritmie. Ciò si verifica per una facilitazione sia delle aritmie da rientro (favorite dalla riduzione della refrattarietà ventricolare) sia di aritmie scatenate da un alterato automatismo (vedi Capitolo…). L’attivazione parasimpatica si è dimostrata in grado di antagonizzare efficacemente gli effetti sfavorevoli di una aumentata attività adrenergica. Questi concetti hanno trovato applicazione nella pratica clinica, grazie all’utilizzo di indici autonomici, quali la sensibilità barocettiva e la variabilità della frequenza cardiaca, che si sono dimostrati di estrema utilità per la stratificazione del rischio nel post-infarto e per l’individuazione dei pazienti a maggior rischio di morte cardiaca improvvisa (vedi Capitolo…).

PRINCIPALI CONDIZIONI PATOLOGICHE ASSOCIATE A MORTE CARDIACA IMPROVVISA

La cardiopatia ischemica è responsabile di circa l’80% delle morti improvvise nei paesi occidentali e le cardiomiopatie si rendono responsabili di un altro 10-15%. Tuttavia, la completa comprensione della morte cardiaca improvvisa richiede il riconoscimento di altre cause, che sebbene più rare, sono importanti, da una parte, per una miglior comprensione delle basi fisiopatologiche della morte improvvisa e dall’altra, per la possibilità di agire a livello preventivo attraverso l’attuazione di adeguate misure terapeutiche. Tra l’altro molte di queste “entità minori” sono tra le principali cause di morte improvvisa in adolescenti e giovani adulti in cui è molto più bassa la prevalenza della aterosclerosi coronarica.Ci sono inoltre dei casi in cui la causa della morte cardiaca improvvisa o della fibrillazione ventricolare resuscitata non riesce ad essere identificata e si parla quindi di “Fibrillazione Ventricolare Idiopatica”. A cinque anni di follow-up questi pazienti hanno un rischio del 30% di avere un nuovo arresto; per tale motivo esiste un’indicazione assoluta all’impianto del defibrillatore automatico, un apparecchio simile ad un pace-maker, ma in grado di riconoscere e trattare attraverso shock elettrico le aritmie ventricolari maligne.

Cardiopatia ischemicaCirca il 5% dei pazienti che giungono vivi in ospedale con un infarto miocardio acuto, ha un episodio di fibrillazione ventricolare (FV) nelle prime 24 ore successive all’infarto. In generale l’occorrenza dell’episodio di fibrillazione ventricolare non è giustificata né dall’estensione particolarmente importante dell’infarto né dalle condizioni di particolare compromissione della funzione ventricolare sinistra. Da cosa dipenda questa predisposizione a rispondere all’ischemia miocardica acuta con aritmie fatali è uno dei problemi maggiori ancora irrisolti della cardiologia contemporanea. Il “Paris Prospective Study”, uno studio condotto su oltre 7500 dipendenti pubblici ha dimostrato che la morte cardiaca improvvisa di uno dei due genitori aumenta il rischio relativo di tale evenienza nel soggetto di circa due volte e addirittura di nove volte se entrambi i genitori sono morti improvvisamente. Due recenti studi clinici hanno confermato che la storia familiare di morte cardiaca improvvisa è il principale predittore di FV durante la fase acuta di un infarto del miocardio, supportando l’ipotesi che esista una predisposizione, almeno in parte geneticamente trasmessa, ad una aumentata instabilità elettrica che possa favorire l’insorgenza di FV in presenza di un appropriato substrato clinico.I pazienti sopravvissuti ad un infarto del miocardio sono quelli studiati più a fondo in senso prognostico, in quanto è stato facile rendersi conto che molti di essi muoiono improvvisamente e che l’incidenza massima di questo evento è nel primo anno successivo all’infarto. Diversi sono i fattori di rischio che sono stati identificati, quali la riduzione della frazione di eiezione, la presenza di frequenti battiti ectopici ventricolari, un intervallo QT costantemente prolungato ed un episodio di FV nella fase acuta di un infarto a sede anteriore. Negli ultimi anni sono aumentati i dati che indicano uno stretto rapporto tra morte improvvisa e sistema nervoso autonomo. In particolare nei pazienti con infarto del miocardio uno squilibrio autonomico caratterizzato da una ridotta attività vagale e da una aumentata attività simpatica si associa in modo significativo ad un aumento della mortalità cardiaca e di quella improvvisa. I parametri clinici più utilizzati per valutare il profilo autonomico sono la variabilità della frequenza cardiaca e la sensibilità barocettiva, che si è rivelata predittiva anche nei soggetti con frazione di eiezione conservata e anche oltre i 65 anni (vedi Capitolo…).Dall’insieme di queste considerazioni dovrebbe essere chiaro che un notevole progresso è stato fatto nella identificazione di quei soggetti che, dopo un infarto del miocardio, sono ad alto rischio di morte improvvisa. E’ anche chiaro però che stiamo parlando di morti improvvise non totalmente inattese.Da un punto di vista pratico il problema dell’identificazione dei soggetti a rischio di morte improvvisa rimane molto complesso. Infatti, non si può prescindere dal numero totale di eventi e dalla popolazione di pazienti nei quali tali eventi si verificano. Se è vero che vi sono dei gruppi di pazienti, ad esempio quelli che hanno avuto un episodio di tachicardia o FV dopo un infarto miocardico, con un rischio molto alto di morte cardiaca improvvisa, è anche vero che il contributo in termini assoluti al numero totale delle vittime di morte improvvisa è relativamente modesto. E’ infatti nella popolazione non selezionata, nella quale l’incidenza di morte cardiaca improvvisa è estremamente ridotta (1-2 per mille per anno), che si verifica il numero maggiore di eventi. In questi soggetti la morte improvvisa rappresenta generalmente la prima manifestazione della malattia (per lo più coronarica) e si tratta quindi di morte cardiaca improvvisa totalmente inattesa.

CardiomiopatieTre sono le principali cardiomiopatie che si associano al rischio di morte improvvisa:

Cardiomiopatia dilatativa (vedi Capitolo…). E’ una malattia del miocardio caratterizzata da dilatazione e da compromissione della funzione contrattile del ventricolo sinistro o di entrambi i ventricoli. La

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cardiomiopatia dilatativa è rappresentata in prevalenza da forme primitive, ad etiologia non nota, le cosiddette forme idiopatiche. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. La morte improvvisa è responsabile di circa la metà delle morti dei pazienti con questa patologia; tuttavia, tende a manifestarsi più tardivamente, quando sono spesso già presenti sintomi da compromissione emodinamica.

Cardiomiopatia ipertrofica (vedi Capitolo…). E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, a trasmissione autosomica dominante, caratterizzata da un’ipertrofia ventricolare sinistra e/o destra di eziologia ignota, associata ad un aspetto istologico di disorganizzazione (disarray) delle fibrocellule miocardiche. Tipicamente l’ipertrofia è asimmetrica ed il setto interventricolare è il distretto più frequentemente interessato. Nel 70% circa dei casi la cardiomiopatia ipertrofica riconosce un andamento familiare e sono stati identificati una serie di geni, codificanti per proteine del reticolo sarcoplasmatico, alla base della malattia. In questa patologia il rischio di aritmie ventricolari maligne è elevato e la morte improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia. La cardiomiopatia ipertrofica è la prima causa di morte improvvisa negli atleti al di sotto dei 35 anni di età.

Cardiomiopatia-Displasia aritmogena del ventricolo destro. E’ una patologia primitiva del muscolo cardiaco, caratterizzata da sostituzione fibroadiposa dei miocardiociti, che tipicamente interessa il ventricolo destro e può successivamente andare ad interessare anche il ventricolo sinistro. Nel 30-50% dei casi tale patologia sembra avere una distribuzione familiare, con modalità di trasmissione di tipo autosomico dominante. Tale patologia si associa ad un elevato rischio di aritmie ventricolari sostenute, tipicamente a partenza dal ventricolo destro, che possono anche portare alla morte improvvisa, frequentemente indotta dall’esercizio fisico. Per tale motivo, specialmente nel Veneto dove questa patologia ha un’elevata prevalenza, essa rappresenta una delle principali cause di morte improvvisa nei giovani atleti.

Patologie valvolariSe non trattata chirurgicamente, la stenosi valvolare aortica severa (vedi Capitolo…) si associa ad un elevato rischio di morte cardiaca improvvisa. Dopo sostituzione valvolare, l’incidenza di morte improvvisa si riduce moltissimo, tuttavia permane, data la possibilità di disfunzioni protesiche, aritmie o coesistenza di coronaropatia.E’ tuttora controverso se il prolasso della valvola mitrale (vedi Capitolo…) si correli con un incremento del rischio di morte improvvisa. Considerata l’alta prevalenza di prolasso mitralico, è verosimile che il rilievo anatomopatologico di prolasso nei soggetti deceduti improvvisamente rappresenti una coincidenza casuale più che una condizione causale. Tuttavia, se il prolasso è complicato da insufficienza mitralica significativa, disfunzione ventricolare sinistra o degenerazione mixomatosa della valvola, il rischio di eventi tromboembolici, endocardite infettiva e morte improvvisa aumenta notevolmente.

Cardiopatie aritmogene ereditarieLe cardiopatie aritmogene ereditarie, sono un gruppo di patologie geneticamente trasmesse che si associano ad un rischio di morte cardiaca improvvisa per lo più in giovane età. In queste patologie il cuore risulta strutturalmente normale, ma sono presenti difetti a carico di canali ionici cardiaci che favoriscono la genesi di aritmie ventricolari maligne. Si riconoscono quattro principali cardiopatie aritmogene ereditarie:

Sindrome del QT Lungo (LQTS). E’una cardiopatia a trasmissione per lo più autosomica dominante, caratterizzata da un prolungamento dell’intervallo QT all’ECG di superficie (QTc>440 msec) e da un elevato rischio di aritmie ventricolari maligne che tendono a manifestarsi più frequentemente in giovane età e che sono tipicamente indotte da stress fisici od emotivi. Date le caratteristiche della LQTS, il caso tipico non presenta particolari difficoltà dal punto di vista della diagnosi per il medico che ha familiarità con questa malattia. Tuttavia, i casi borderline sono più complessi e richiedono l’attenta valutazione di più variabili, oltre ovviamente all’anamnesi e all’intervallo QT, quali la storia familiare, le anomalie morfologiche dell’onda T e la variabilità dell’intervallo QT durante le 24 ore e a seguito di test quali il test ergometrico e quello all’iperventilazione. Lo screening molecolare è ormai un componente importante del processo diagnostico, specialmente per i casi borderline. Tuttavia è bene ricordare che circa il 25-30% di casi indubbi di LQTS sfuggono alla diagnosi molecolare. Un’area in cui lo screening molecolare dà un apporto importante ed unico è nella diagnosi dei familiari con QT normale. Esistono tre varianti genetiche principali di Sindrome del QT Lungo, pur essendo ad oggi noti ben 10 geni alla base della malattia. Nella variante LQT1, dovuta a difetti sul gene KCNQ1, la maggior parte degli eventi si manifestano in condizioni di stress fisico ed il nuoto è un’attività particolarmente rischiosa. In questi pazienti la terapia beta-bloccante è estremamente efficace. I pazienti LQT2 hanno la maggior parte dei loro eventi in condizioni di stress emotivo e tipicamente a seguito di rumori improvvisi specie se al risveglio; in questo sottogruppo genetico l’efficacia dei beta-bloccanti è buona. I pazienti LQT3 sono quelli di più difficile gestione. Essi hanno mutazioni sul gene SCN5A e la maggior parte dei loro eventi avviene a riposo o durante il sonno. La terapia beta-bloccante è solo parzialmente efficace e spesso si devono considerare misure terapeutiche aggiuntive quali il bloccante del sodio mexiletina, la denervazione simpatica cardiaca di sinistra o l’impianto del defibrillatore. La morte improvvisa può essere la prima manifestazione della malattia in un 10-12% dei casi di Sindrome del QT Lungo ed in uno studio recente mutazioni responsabili della LQTS sono state identificate in ben il 20% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa (9). Poiché in questa malattia esiste una terapia (farmaci beta-bloccanti) in grado di ridurre significativamente il rischio di aritmie fatali, non vi sono giustificazioni per l’esistenza di pazienti sintomatici senza diagnosi.

Sindrome del QT Corto. E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante di recente descrizione. E’ caratterizzata dalla presenza di un intervallo QT corto all’ECG di superficie (QTc<340 msec) e da un elevato rischio di aritmie ventricolari maligne. Purtroppo nessuna terapia farmacologia si è dimostrata fino

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ad ora in grado di ridurre in maniera significativa il rischio aritmico, pertanto l’impianto di un defibrillatore rimane per il momento l’opzione di scelta per la prevenzione della morte improvvisa.

Sindrome di Brugada. E’ una cardiopatia caratterizzata all’ECG da un’onda terminale positiva larga (onda J), che simula un blocco di branca destra completo o incompleto, e da un sopraslivellamento del tratto ST da V1 a V3. Questa patologia si associa ad un significativo rischio di morte improvvisa, che avviene tipicamente nel sonno o in condizioni di riposo. La distribuzione per sesso ed età sembra privilegiare il sesso maschile fra la terza e la quinta decade di vita. Anche in questo caso l’unico strumento di prevenzione della morte improvvisa è l’impianto del defibrillatore, che viene riservato a quei pazienti con un elevato profilo di rischio (pregresso arresto cardiaco o sincope di verosimile origine aritmica, pattern diagnostico spontaneo con inducibilità di aritmie ventricolari maligne allo studio elettrofisiologico, familiarità per morte improvvisa)

Tachicardia Ventricolare Catecolaminergica (CPVT). E’ una cardiopatia a trasmissione autosomica dominante caratterizzata dallo sviluppo di tachicardie ventricolari polimorfe, tipicamente bidirezionali, che possono degenerare in fibrillazione ventricolare e quindi morte improvvisa. Le aritmie sono tipicamente indotte dall’esercizio fisico, pertanto per fare una diagnosi corretta è necessario effettuare un test ergometrico od un ECG Holter delle 24 ore, mentre l’ECG di base è solitamente normale. Da uno studio è emerso che mutazioni responsabili della CPVT sono state identificate nel 15% delle morti improvvise di giovani con autopsia negativa. Anche per questa malattia esiste una terapia (beta-bloccante) in grado di ridurre il rischio di aritmie fatali. Se la terapia beta-bloccante non è sufficiente sono disponibili misure terapeutiche aggiuntive come la denervazione simpatica cardiaca di sinistra ed eventualmente l’impianto del defibrillatore.

Cardiopatie CongeniteUn aumento del rischio di morte cardiaca improvvisa è stato descritto fondamentalmente in quattro condizioni, e cioè nella tetralogia di Fallot, nella trasposizione delle grandi arterie, nella stenosi aortica e nell’ostruzione vascolare polmonare (vedi Capitolo…). Il rischio persiste dopo l’intervento cardiochirurgico ed è presente anche nell’ipertensione polmonare primitiva e secondaria. Nella tetralogia di Fallot la durata del QRS si correla con le dimensioni del ventricolo destro e con il rischio di morte improvvisa.

Altre patologie cardiovascolariAltre patologie cardiovascolari che possono associarsi al rischio di morte improvvisa sono l’embolia polmonare (vedi Capitolo…), la dissezione aortica (vedi Capitolo…), e tutti quei processi infiammatori, infiltrativi, neoplastici e degenerativi che possono interessare il miocardio. Alcuni esempi sono rappresentati dall’amiloidosi, dalla sarcoidosi dall’emocromatosi e da tutte le possibili diverse forme di miocardite.

SIDS

Il termine “Sudden Infant Death Syndrome” (SIDS) identifica una morte improvvisa nel primo anno di vita che risulta inaspettata in base alla storia clinica del soggetto ed in cui l’esame autoptico non riesce a dimostrare un’adeguata causa di morte. La SIDS è la principale causa di morte infantile nei paesi occidentali e colpisce circa 1 bambino ogni 2000 nati vivi. Esistono diverse ipotesi riguardo la genesi della SIDS, le due più accreditate sono la teoria respiratoria e quella cardiaca. Già negli anni settanta era stato ipotizzato che alcuni casi SIDS fossero legati a fibrillazione ventricolare ed era stato proposto che la Sindrome del QT Lungo potesse essere responsabile di alcuni di questi casi. Questa ipotesi venne supportata dai risultati di uno studio prospettico su 34442 neonati dimostranti che i neonati con un QTc > 440 ms avevano un rischio di SIDS 41 volte superiore a quelli con intervallo QT normale. La dimostrazione finale della validità dell’ipotesi per cui un certo numero di casi di SIDS può dipendere dalla LQTS è giunta da uno studio molecolare in oltre 200 casi SIDS ed un simile numero di controlli. E’ emerso che il 10% delle vittime SIDS ha mutazioni sui geni responsabili per la Sindrome del QT Lungo. Questo dato indica che almeno una parte di queste tragedie con devastanti effetti familiari può essere evitata, e pone l’attenzione sulla necessità di effettuare screening elettrocardiografici nel primo mese di vita, per individuare il più precocemente possibile pazienti affetti da Sindrome del QT Lungo e potenzialmente a rischio di morte cardiaca improvvisa, sia nel primo anno di vita che più avanti, se non correttamente diagnosticati e trattati.

Sezione XII. Ipertensione arteriosa

Capitolo 45L'IPERTENSIONE ARTERIOSAMassimo Volpe, Sebastiano Sciarretta DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

Per “Ipertensione arteriosa” si intende una condizione clinica morbosa caratterizzata da un aumento anomalo stabile, e non legato a normali variazioni fisiologiche, dei livelli di pressione arteriosa. Tale aumento riguarda più frequentemente entrambe le pressioni sistolica e diastolica, ma esistono forme di ipertensione caratterizzate da aumento solo della pressione sistolica (ipertensione sistolica isolata), condizione più frequente negli anziani, o più raramente solo della diastolica. In base alle ultime Linee Guida europee sulla gestione clinica del paziente iperteso, la presenza di ipertensione arteriosa viene definita arbitrariamente da valori di pressione arteriosa > 140 mmHg per quanto riguarda la pressione sistolica e/o > 90 mmHg per quanto riguarda la pressione diastolica. Sulla base dei livelli pressori inoltre, la malattia ipertensiva può essere classificata in 3 diversi gradi di severità clinica (grado I: 140-159/90-99 mmHg; grado II: 160-179/100-109 mmHg; grado III: > 180/>110 mmHg) che, come è intuibile, possono avere un diverso impatto sulla storia naturale della malattia.

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L’ipertensione arteriosa viene definita “essenziale” quando non è possibile risalire ad una eziologia chiaramente identificabile alla base del suo sviluppo, e questa rende conto di oltre il 90% dei casi di ipertensione arteriosa. Di contro, quando l’aumento dei valori pressori è secondario a disordini d’altra natura, l’ipertensione arteriosa viene definita “secondaria”. L’ipertensione arteriosa essenziale è una condizione di enorme rilevanza epidemiologica, pressoché ubiquitaria nel nostro pianeta. Nella maggioranza dei casi, interessa soggetti adulti con prevalenza direttamente correlata all’età. Si presume che nel mondo vi siano circa 690 milioni di soggetti attualmente affetti da ipertensione arteriosa. La prevalenza nella popolazione generale è di circa il 20%, ma sale ad oltre il 50% nella popolazione d’età superiore ai 60 anni. Per quanto riguarda il sesso, la prevalenza d’ipertensione è maggiore nei maschi quando si considerano soggetti con età inferiore ai 50 anni, mentre è uguale tra i 2 sessi per età superiori. In termini sociali, l’ipertensione arteriosa è più frequente nelle zone urbane rispetto a quelle rurali, in particolare nei quartieri meno agiati, nonché nei Paesi industrializzati, mentre per quanto riguarda la razza, la prevalenza d’ipertensione è maggiore in quella nera. In base a queste considerazioni si prevede che entro il 2025 vi saranno nel mondo oltre 1 miliardo e 200 milioni di ipertesi, con un impatto di gran lunga superiore a qualunque altra condizione in termini di “carico di malattia”.

EZIOPATOGENESI E FISIOPATOLOGIA

Se l’ipertensione di tipo secondario riconosce i suoi fattori eziopatogenetici nella malattia primitiva a cui è associata, alla base dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale vi sono molti fattori causali per lo più non identificati. L’ipertensione arteriosa essenziale può essere definita una malattia multifattoriale, dove elementi di tipo genetico ed ambientale agiscono sinergicamente su numerosi processi biochimici e metabolici che a loro volta sono alla base del suo sviluppo. Tra i fattori ambientali, i più importanti sono legati allo stile di vita e all’alimentazione, e sono la sedentarietà, lo stress psichico, l’abitudine tabagica, una dieta ipersodica ed iperlipidica, ed il frequente ed eccessivo consumo di alcool e caffè. Tra i fattori genetici identificati e più probabilmente coinvolti, vanno annoverati invece quelli determinanti una maggiore attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, un aumento costituzionale del tono adrenergico, un aumento della risposta vascolare a sostanze vasocostrittrici quali l’endotelina, una ridotta escrezione renale di sodio ed infine una ridotta sintesi endoteliale di sostanza vasodilatanti (prostacicline, EDRF etc…).Fisiologicamente la pressione arteriosa è determinata dal prodotto delle resistenze periferiche per la gittata cardiaca, la quale è a sua volta la risultante del prodotto della frequenza cardiaca per la gittata sistolica. Pertanto è proprio sulle resistenze periferiche, la frequenza cardiaca e la gittata sistolica che agiscono i differenti meccanismi fisiologici che regolano la pressione arteriosa. Per esempio, le resistenze periferiche sono condizionate dal sistema simpatico, che regola il tono vascolare, così come lo è la frequenza cardiaca, mentre la gittata sistolica è prevalentemente regolata dalla contrattilità miocardica e dal precarico, a sua volta correlato alla volemia. In generale, i meccanismi preposti al controllo della pressione arteriosa possono essere distinti in meccanismi a breve, medio e lungo termine. Tra i meccanismi a breve termine possono essere annoverati i sistemi baro- e chemo-recettoriali, che modificano in pochi secondi il tono simpatico modulando l’attività cardiaca, il tono arteriolare e i livelli pressori. I meccanismi a medio termine sono invece quelli di tipo umorale mediati principalmente dal sistema renina-angiotensina-aldosterone, dalla vasopressina e dal sistema delle chinine. Il rene è invece deputato al controllo a lungo termine della pressione arteriosa, principalmente attraverso la regolazione della volemia.Pertanto qualsiasi alterazione patologica dei suddetti determinanti fisiologici della pressione arteriosa e dei suoi meccanismi di regolazione può determinare l’insorgenza di uno stato ipertensivo. In particolare, tra i meccanismi fisiopatologici responsabili dello sviluppo dell’ipertensione arteriosa essenziale quelli maggiormente implicati sono legati ad un’alterata omeostasi elettrolitica soprattutto del sodio, al rimodellamento vascolare, ad un’iperattività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad una ridotta sensibilità insulinica ed in ultimo ad una funzione endoteliale alterata.Un aumento delle concentrazioni organiche di sodio è sicuramente coinvolto nella genesi della malattia ipertensiva, in particolare attraverso un aumento del volume plasmatico ed un aumento delle resistenze periferiche. Tuttavia studi clinici hanno mostrato come solo in una frazione (20-30%) dei soggetti ipertesi una riduzione dell’introito di sodio determini una significativa riduzione dei valori pressori. Sulla base di tale risposta individuale alla riduzione dell’introito di sodio è stata coniata la definizione di ipertensione arteriosa sodio-sensibile. Anche altri elettroliti sono coinvolti nella genesi dell’ipertensione arteriosa tra cui il potassio ed il calcio, le cui concentrazioni sono inversamente associate ai valori pressori. Tuttavia diversi studi che hanno valutato gli effetti di un aumento dell’assunzione dietetica di potassio e calcio sulla riduzione della pressione hanno fornito finora risultati controversi.L’ipertensione arteriosa è associata nella maggior parte dei casi ad un aumento delle resistenze periferiche, e se nelle fasi iniziali del suo sviluppo tale aumento è spesso secondario ad una vasocostrizione arteriolare di origine funzionale, dipendente da un aumentato stimolo da parte di sostanze vasoattive quali catecolamine, angiotensina II o endoteline, o ad un’elevazione persistente della portata cardiaca, successivamente un rimodellamento vascolare strutturale è implicato nel perpetuarsi di elevati valori pressori. Infatti l’incremento della pressione ed il costante insulto meccanico sulle pareti dei vasi stimolano lo sviluppo di un’ipertrofia delle cellule muscolari lisce vascolari, con ulteriore riduzione del lume arteriolare, ed il conseguente aumento delle resistenze periferiche, le quali determinano la persistenza od anche il peggioramento dello stato ipertensivo, anche quando i potenziali fattori causali iniziali vengano a mancare.Tra i determinanti fisiologici del tono vascolare, ha un ruolo primario il sistema renina-angiotensina-aldosterone, il quale esercita importanti azioni regolatorie sulla pressione arteriosa anche attraverso la regolazione dell’omeostasi elettrolitica e del riassorbimento di sodio e acqua a livello tubulare; inoltre, attraverso effetti di tipo autocrino e paracrino, in alcuni tessuti l’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone regola la crescita e la differenziazione cellulare e favorisce lo sviluppo di fibrosi tissutale, in particolare a livello vascolare.

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Pertanto, una disregolazione dell’attività del sistema renina-angiotensina-aldosterone, ad esempio un’attività sproporzionata rispetto all’assunzione di sodio o ai livelli pressori stessi, determina un aumento dei valori pressori e progressive modificazioni strutturali vascolari e cardiache, tali da giustificare l’intervento farmacologico su questo sistema.Anche l’insulina svolge delle azione regolatorie importanti sulla pressione arteriosa: legandosi ai recettori tirosin-kinasici essa determina a livello endoteliale una cascata trasduzionale intracellulare che porta all’aumentata trascrizione genica e successivamente alla sintesi dell’enzima ossido nitrico sintetasi, il quale catalizza la produzione di ossido nitrico, sostanza con potente azione vasodilatatoria ed anti-infiammatoria. Quindi nelle condizioni caratterizzate da una ridotta sensibilità insulinica a livello vascolare si assiste ad una riduzione della sintesi di ossido nitrico con conseguente aumento delle resistenze periferiche e dei valori pressori. Inoltre, l’aumento compensatorio delle concentrazioni di insulina negli stati di insulino-resistenza si associa ad un incremento del tono simpatico con un ulteriore aumento del tono vascolare ed una riduzione della funzionalità endoteliale.Quest’ultima è sicuramente un altro importante elemento sottostante allo sviluppo di ipertensione arteriosa. L’endotelio, infatti, svolge importanti azioni protettive a livello vascolare, attraverso la produzione di sostanze vasodilatanti ad azione autocrina e paracrina quali l’ossido nitrico, le prostacicline e l’endothelium-derived relaxing factor (EDRF), ed anche attraverso la produzione di sostanze antitrombotiche (vedi Capitolo 48). Tuttavia quando questo è sottoposto all’azione dannosa dei diversi fattori di rischio quali fumo e diabete, si realizza a livello vascolare e cellulare un’infiammazione subclinica ed un aumento dello stress ossidativo, i quali danneggiano le cellule endoteliali e conseguentemente portano allo sviluppo della loro disfunzione. Quando si instaura una disfunzione endoteliale vengono meno le suddette funzioni protettive collegate ad un endotelio integro, con conseguente aumento della reattività vascolare, aumentata espressione di molecole d’adesione leucocitaria che portano al perpetuarsi dell’infiammazione vascolare, ed in ultimo un’aumentata suscettibilità alla evoluzione aterosclerotica e alla formazione di trombosi. Questi processi promuovono in ultima istanza lo sviluppo di eventi aterotrombotici (vedi Capitolo 46).

IMPATTO CLINICONella maggioranza dei casi, l’ipertensione arteriosa non determina lo sviluppo né di sintomi o disturbi, né di complicanze a breve termine, bensì può decorrere asintomatica per molti anni, determinando progressive e sempre più gravi alterazioni strutturali e funzionali a carico del sistema cardiovascolare, renale e cerebrale. Complicanze anche molto gravi, spesso precedute da alterazioni di tipo pre-clinico, possono palesarsi improvvisamente con eventi acuti e drammatici quali l’infarto del miocardio, l’ictus cerebrale e lo scompenso cardiaco. La relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento dell’incidenza di patologie cardiovascolari fu illustrato in maniera molto chiara dalle ormai mitiche tabelle elaborate dagli studi condotti da una compagnia assicurativa nordamericana, la Metropolitan Life Insurance Company, che dimostravano come in una popolazione di uomini di quarantacinque anni, valori pressori di 130/90 mmHg rispetto a valori pressori inferiori erano in grado di determinare una riduzione dell’aspettativa di vita di 3 anni, e, se ci si spingeva fino a valori pressori di 140 su 95 mmHg l’aspettativa di vita si riduceva di 6 anni. Ancor più, se si consideravano uomini con valori pressori di 150 su 100 mmHg l’aspettativa di vita media si riduceva di 11.5 anni. Una conferma di questi dati ci è stata fornita da diversi studi epidemiologici tra cui quello condotto da Wilhelmsen, nel quale veniva dimostrato come l’aumento dei valori pressori anche se limitato a 10 mmHg, corrispondesse ad un brusco incremento della incidenza di coronaropatia, anche nell’ambito del range dei valori pressori normali. La Prospective Studies Collaboration ha comunque fornito le evidenze più importanti sulla relazione tra ipertensione arteriosa ed aumento del rischio cardiovascolare. Questa analisi ha preso in esame circa 1 milione di pazienti in 61 studi prospettici osservazionali per 12 anni. A partire da un’età compresa tra 40 e 69 anni, ogni aumento di 20 mmHg di pressione arteriosa o di 10 mmHg di pressione diastolica è risultato associato ad aumenti di 2 volte di mortalità per cardiopatia ischemica e circa 4 volte per ictus. La mortalità vascolare risultava superiore al 50% nella decade 80-89 anni, mentre il rischio relativo era maggiore nei soggetti più giovani, con un aumento di circa 10 volte.L’ipertensione arteriosa viene pertanto considerata un classico fattore di rischio per lo sviluppo di malattie cardiovascolari.Il significato ed il valore predittivo dei valori di pressione arteriosa nei confronti delle principali malattie cardiovascolari quali la cardiopatia ischemica e l’ictus cerebrale è stato già identificato da alcuni decenni. E’ stato a tal proposito dimostrato che persino nell’ambito di popolazioni non ipertese il progressivo incremento dei valori pressori corrisponde ad una graduale riduzione dell’aspettativa di vita. Se da un lato valori pressori elevati sono associati ad un aumento del rischio cardiovascolare, parallelamente la loro riduzione è in grado di prevenire lo sviluppo di una considerevole percentuale di complicanze soprattutto di natura cerebrovascolare. La relazione tra ipertensione arteriosa e rischio cardiovascolare aumentato non è comunque secondaria solo alla presenza di elevati valori pressori, bensì è una conseguenza anche di altri fattori di rischio cardiovascolari che sono frequentemente presenti nel paziente iperteso, quali la dislipidemia, il diabete mellito, l’obesità ed il fumo. La presenza contemporanea di fattori di rischio multipli è stata indagata nel corso dello studio di Framingham che ha dimostrato come la presenza isolata d'ipertensione arteriosa si osservi solo nel 20% dei pazienti, mentre nel 50% dei casi elevati valori pressori si associano a 2 o 3 fattori di rischio concomitanti. Questa frequente associazione tra ipertensione arteriosa ed altre anomalie del profilo metabolico quali il diabete mellito e la dislipidemia suggerisce come queste associazioni non siano casuali ma siano probabilmente legate alla presenza di fattori eziopatogenetici comuni alla base dello sviluppo di tali anomalie. Il riscontro di alterazioni del profilo lipidico caratterizza un'ampia percentuale della popolazione ipertesa e contribuisce in maniera sostanziale allo sviluppo di complicanze cardiovascolari. L'alterazione del profilo lipidico più frequentemente associata alla presenza di ipertensione è certamente l’ipercolesterolemia, presente in oltre il 40% dei pazienti con valori pressori francamente elevati e con una prevalenza progressivamente crescente al

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crescere della gravità del quadro ipertensivo, supportando un’eventuale correlazione tra tali due fattori di rischio anche in ambito patogenetico. Dislipidemia ed elevati valori pressori sono inoltre elementi costitutivi della cosiddetta sindrome metabolica, condizione clinica frequentemente associata alla presenza di ipertensione arteriosa. Questa sindrome è caratterizzata, da un punto di vista clinico, dalla presenza di più fattori di rischio associati, mentre da un punto di vista fisiopatologico dalla presenza di un’obesità viscerale, particolarmente aterogena, da una condizione di insulino-resistenza, ed infine da uno stato infiammatorio cronico subclinico. Anche il diabete mellito di tipo 2 risulta associato frequentemente all’ipertensione arteriosa con la quale condivide la responsabilità di una significativa quota della mortalità e morbilità cardiovascolare, nonché alcuni importanti tratti fisiopatologici. Le conseguenze patologiche dell’ipertensione arteriosa possono essere di tipo preclinico e clinico; le prime sono caratterizzate da modificazioni strutturali e funzionali a carico degli organi bersaglio senza che queste si manifestino con sintomi o segni clinici, le seconde consistono invece in alterazioni organiche più gravi che si palesano con dei quadri clinici ben definiti, soprattutto l’infarto del miocardio, lo scompenso cardiaco e l’ictus cerebri. In generale la conseguenza patologica classica della malattia ipertensiva è lo sviluppo di aterosclerosi, che vede maggiormente coinvolti il cuore con i vasi arteriosi, il rene ed il sistema nervoso centrale. Le principali alterazioni precliniche cardiache associate all’ipertensione sono legate ai processi di rimodellamento ventricolare sinistro in risposta allo stato ipertensivo e sebbene siano asintomatiche, configurano comunque una condizione clinica fortemente predittiva di eventi cardiovascolari futuri, condizione identificata con il termine di “cardiopatia ipertensiva” (Patologia 46). Tali alterazioni cardiache riconoscono nell’ipertrofia ventricolare sinistra e nella disfunzione diastolica le manifestazioni principali. La prima è caratterizzata dall’aumento della massa cardiaca soprattutto in risposta all’aumento dello stress sistolico determinato dalla pressione elevata, e può essere di tipo concentrico od eccentrico. Il primo tipo è caratterizzato dall’ispessimento delle pareti ventricolari per la classica apposizione di nuovi sarcomeri “in parallelo”, senza un aumento della cavità ventricolare, il secondo tipo è invece caratterizzato dall’aumento del diametro ventricolare consensuale all’aumento degli spessori parietali, secondariamente all’apposizione, a livello miocardico, di nuovi sarcomeri “in serie”. La prevalenza di ipertrofia ventricolare sinistra, diagnosticata all’ECG (vedi Capitolo 3) è del 3-8% nei pazienti con ipertensione lieve-moderata, mentre all’esame ecocardiografico (vedi Capitolo 4) la massa ventricolare è aumentata in ipertesi non selezionati dal 12 al 30%, e dal 20 al 60% nei centri di riferimento.L’ ipertrofia ventricolare sinistra diagnosticata con l’ecocardiogramma è un potente fattore di rischio indipendente per eventi avversi cardiovascolari maggiori, ed aumenti progressivi della massa ventricolare sono correlati continuativamente con il rischio cardiovascolare sia negli uomini che nelle donne, come dimostrato in numerosi studi. Per disfunzione diastolica del ventricolo sinistro s’intende invece l’incapacità di questa camera cardiaca, durante la diastole, di accogliere il sangue a basse pressioni di riempimento, per cui il ventricolo può raggiungere un volume telediastolico tale da garantire un’adeguata gittata sistolica solo a spese di un’aumentata pressione diastolica la quale, a sua volta, si riflette in un incremento della pressione in atrio sinistro e nelle vene polmonari. Dal punto di vista fisiopatologico, la disfunzione diastolica può essere conseguenza di alterazioni funzionali della fase attiva del rilasciamento ventricolare in protodiastole, o essere secondaria ad alterazioni della geometria ventricolare sinistra o dell’architettura miocardica tali da compromettere le fisiologiche proprietà elastiche del ventricolo sinistro coinvolte nel riempimento telediastolico. La prevalenza di disfunzione diastolica negli ipertesi anziani è stata stimata intorno al 25%, ed è stato dimostrato come questa rappresenti un predittore indipendente di eventi cardiovascolari avversi.Le manifestazioni cliniche cardiache più gravi e comuni dell’ipertensione arteriosa sono identificate invece nella cardiopatia ischemica, rappresentando l’infarto del miocardio la più frequente causa di mortalità nel paziente iperteso, e la complicanza meno efficacemente influenzata dal trattamento antiipertensivo. Le manifestazioni ischemiche nell’ipertensione arteriosa sono per lo più secondarie alla presenza di placche aterosclerotiche coronariche, ma spesso possono essere caratterizzate da una disfunzione del microcircolo subendocardico che determina una riduzione della riserva coronarica. La malattia ipertensiva si manifesta anche con lo scompenso cardiaco, di tipo sistolico o diastolico (vedi Capitolo 19). Il primo si verifica nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra sistolica insorta secondariamente alla presenza di una cardiopatia ischemica o di una cardiopatia ipertensiva evoluta attraverso lo sviluppo di una disfunzione contrattile (evoluzione ipocinetica), il secondo tipo si associa invece ad una normale funzione contrattile ventricolare e sembra essere secondario alla presenza di una disfunzione diastolica. In ultimo, altre complicanze cardiache comuni nell’ipertensione arteriosa sono le aritmie, in particolare la fibrillazione atriale. Questa aritmia è considerata secondaria alle modificazioni strutturali dell’atrio sinistro conseguenti all’ aumento cronico delle pressioni atriali solitamente secondario alla presenza di una disfunzione diastolica. Complicanze aritmiche più temibili sono invece quelle ventricolari che possono precipitare in una morte improvvisa. In questo contesto è verosimile che giochino un ruolo fenomeni di rientro elettrico ventricolare causati da un progressivo disarrangiamento dell’architettura miocardica, caratterizzato soprattutto da un aumento della fibrosi interstiziale, frequentemente osservabile nelle alterazioni della geometria ventricolare sinistra.L’ipertensione arteriosa ha effetti patologici importanti anche sui reni, infatti circa il 20% degli ipertesi è affetto da insufficienza renale cronica. Tuttavia la progressione dall’ipertensione non complicata all’insufficienza renale non è rapida, bensì dura anni, periodo nel quale si verificano progressive alterazioni strutturali a carico dei reni che, se dapprima non hanno delle ripercussioni funzionali importanti, successivamente determinano una progressiva riduzione del filtrato glomerulare e lo sviluppo di insufficienza renale. Un indice precoce di danno renale preclinico, in particolare negli ipertesi diabetici, è la presenza di microalbuminuria, che consiste in un’aumentata escrezione di albumina nelle urine, compresa per definizione

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tra i 30 ed i 300 mg/die, infatti oltre i 300 mg questa si definisce invece macroalbuminuria. Un aumento dell’escrezione di albumina può semplicemente rappresentare una conseguenza dell’aumento della pressione idrostatica intraglomerulare, ma può anche derivare da un danno della barriera glomerulare, o da un’alterazione del riassorbimento tubulare dell’albumina filtrata. Anche la microalbuminuria rappresenta un predittore di rischio indipendente per eventi cardiovascolari maggiori, particolarmente negli ipertesi diabetici, ed è stato dimostrato come un rischio aumentato sussiste già per valori di microalbuminuria al di sotto del “cut-off” di normalità.Se non trattata, l’ipertensione arteriosa determina con il tempo una progressione inesorabile del danno renale, particolarmente quando si associa al diabete, verso una riduzione significativa del filtrato glumerulare con lo sviluppo d’insufficienza renale cronica, che è anche conseguente all’aumento importante delle resistenze vascolari intraparenchimali renali. Questa evoluzione spinge i valori pressori ad aumentare ulteriormente rendendo ancor più grave il quadro clinico e più difficile il trattamento. Infine, va sottolineato che il danno vascolare tipico dell’ipertensione coinvolge in modo significativo l’encefalo, in conseguenza dell’accelerato processo di aterosclerosi, nonché attraverso lo stimolo meccanico costituito dagli elevati valori pressori. Alterazioni relativamente precoci sono osservate a carico del distretto carotideo, e possono essere caratterizzate da un lieve ispessimento del complesso intima-media carotideo, o da lesioni aterosclerotiche non stenosanti, oppure da placche che determinano stenosi di variabile severità del lume vascolare. Tutte queste alterazioni, anche quando ancora nello stato preclinico, sono associate ad un rischio aumentato di sviluppare eventi acuti cerebrovascolari, e per tal motivo una loro precoce individuazione permette una migliore stratificazione del rischio del paziente iperteso e di conseguenza la scelta corretta della strategia terapeutica più efficace.Quando si manifesta clinicamente, la cerebrovasculopatia ipertensiva può essere caratterizzata da un quadro di emorragia cerebrale, o più frequentemente dall’ictus ischemico o da un attacco ischemico transitorio (TIA), da un infarto lacunare, od in ultimo da un’encefalopatia acuta ipertensiva.

VALUTAZIONE CLINICO-STRUMENTALE E STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO CARDIOVASCOLARE

L'ipertensione arteriosa rappresenta una condizione clinica che comporta un incremento del rischio cardiovascolare, sia di per sé, attraverso i valori pressori elevati, sia perché tipicamente associata alla presenza di una serie complessa di altri fattori di rischio ed alterazioni morfo-funzionali i quali, presentandosi nello stesso soggetto secondo diverse possibili combinazioni, contribuiscono a definirne il profilo di rischio globale. Pertanto la classificazione dell'ipertensione arteriosa basata sulla sola valutazione dei valori pressori non permette un'adeguata rappresentazione del rischio individuale della patologia, che è invece la risultante dell'interazione tra incremento pressorio e profilo di rischio concomitante. Negli ultimi anni è di conseguenza radicalmente mutato l’orientamento clinico nei confronti del paziente iperteso, con un approccio non più mirato solo alla riduzione dei valori pressori, ma basato innanzitutto sulla valutazione del rischio cardiovascolare globale il quale deve successivamente guidare la condotta terapeutica. Nell'approccio razionale al rischio cardiovascolare nel paziente iperteso, uno degli elementi essenziali è certamente rappresentato dalla possibilità di quantificare il rischio del paziente attraverso una valutazione integrata del contributo relativo di ciascuno dei fattori di rischio prima elencati (Tabella I). Secondo questa logica, in un paziente con un aumento lieve dei valori di pressione arteriosa, la presenza di altri fattori di rischio associati determina una probabilità di sviluppo di complicanze cardiovascolari comparabile o addirittura maggiore rispetto a quella che caratterizza i pazienti con un aumento pressorio più marcato, ma isolato (Figura 1).Sulla base di tali considerazioni, l’obiettivo principale della valutazione clinico-strumentale del paziente iperteso è dunque quello di definirne il profilo di rischio globale, sia attraverso una buona raccolta anamnestica, che permetta di capire quali altri fattori di rischio sono associati alla presenza di ipertensione, sia attraverso il loro riscontro diretto mediante esami ematochimici o strumentali. Attraverso gli esami strumentali possiamo valutare soprattutto se sono già presenti segni di danno d’organo causato dallo stato ipertensivo, la cui presenza, come già precedentemente discusso, identifica una condizione a rischio aumentato.

Anamnesi. Nella raccolta della storia clinica occorre porre particolare attenzione ad individuare tutti quegli elementi che possono indicare un aumento del rischio cardiovascolare.

Anzitutto è importante una raccolta di informazioni sui fattori che possono determinare un aumento della pressione arteriosa del soggetto in esame, quali l’età, il sesso, l’ereditarietà, la razza, il consumo di alcool e di caffè e lo stress. Successivamente è fondamentale chiedere informazioni sulla presenza di altri elementi che possono influenzare il profilo di rischio, quali il diabete, la dislipidemia, il fumo di sigaretta, lo stile di vita e la familiarità per malattie cardiovascolari. Durante la raccolta anamnestica si deve porre attenzione inoltre all’eventuale uso di farmaci che possono determinare un aumento dei valori pressori, quali i FANS, gli spray nasali ed i cortisonici, ed escludere l’assunzione di sostanze stupefacenti, in particolare i simpatico-mimetici indiretti come la cocaina e l’anfetamina. Bisogna infine indagare se già si sono verificati degli eventi cardiovascolari maggiori, quali l’angina o l’infarto, o l’ictus, perché in tal caso il rischio cardiovascolare del soggetto è molto elevato (Tabella II).

Esame obiettivo.

Anche se la maggior parte dei pazienti risulta normale all’esame fisico, un’attenta valutazione del paziente iperteso è necessaria al fine di scoprire se vi sono segni che facciano sospettare un’ipertensione secondaria e per valutare l’eventuale presenza di complicanze cardiovascolari (Tabella III).Un momento importante nella raccolta dei dati obiettivi durante la visita medica è la misura della pressione

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arteriosa. Grande attenzione deve essere posta nell'ottenere una misurazione corretta, focalizzandosi in particolare sui seguenti aspetti:

il paziente non deve aver fumato o assunto caffeina nei 30 minuti precedenti la misurazione;

il paziente deve essere seduto comodamente con il bracciale posto a livello del cuore;

la misurazione deve essere effettuata dopo almeno 5 minuti di riposo;

si devono misurare le pressioni sistolica e diastolica utilizzando rispettivamente il I e il V tono di Korotkoff; va quindi effettuata la media fra due o più misurazioni, separate da un intervallo di almeno 2 minuti;

devono essere impiegati sfigmomanometri a mercurio (tipo Riva-Rocci) o in alternativa apparecchi aneroidi tarati di recente; i bracciali devono essere di dimensioni appropriate, cioè con un manicotto che circondi il braccio del paziente completamente o almeno per l'80%; nei bambini e negli obesi è opportuno utilizzare bracciali specifici.

Nella valutazione del paziente in esame, oltre all’ esame obiettivo generale e cardiovascolare, è importante rilevare il peso e la distribuzione del grasso corporeo, in particolare mediante la misurazione della circonferenza addominale. L'obesità addominale rappresenta, infatti, un riconosciuto fattore di rischio cardiovascolare. Inoltre tra massa corporea e ipertensione arteriosa vi è una correlazione significativa che è indipendente dall'età e dal sesso, e tale relazione è confermata anche quando vengono impiegate le tecniche più raffinate per lo studio del grasso corporeo. A tal proposito i normotesi obesi hanno maggiori probabilità di diventare ipertesi e gli ipertesi magri di diventare obesi. Infine, a conferma dell'importanza di questo fattore, è stato dimostrato che diminuzioni del peso corporeo di 12 kg e 3 kg indurrebbero riduzioni pressorie sistolica e diastolica rispettivamente di 21/13 mmHg e di 7/4 mmHg.

Esami ematochimici e strumentali. Anche nelle recenti Linee Guida è stato raccomandato di effettuare una serie di esami bioumorali e strumentali, allo scopo non solo di definire la presenza di danno d'organo nel paziente, ma anche di identificare altri eventuali fattori di rischio associati. Alcune di queste indagini devono essere orientate da informazioni desunte dall'anamnesi e dall'esame obiettivo.

- Esame emocromocitometrico: studia la crasi ematica, gli stati anemici, gli stati infettivi, etc…- Creatininemia e clearance della creatinina: studio della funzione renale. Queste analisi permettono di scoprire alterazioni renali che possono concorrere allo sviluppo di ipertensione o esserne una conseguenza. Se la creatininemia inizia a elevarsi quando la funzione renale scende sotto i 50-45 ml/min, il calcolo della clearance invece, fornisce informazioni più precise.- Glicemia basale, colesterolemia totale e le sue frazioni LDL ed HDL, la trigliceridemia e l’uricemia: quando alterati, questi parametri amplificano gli effetti lesivi dell'ipertensione costituendo ulteriori fattori di rischio cardiovascolare. - Potassiemia: in genere è marcatamente alterata (ipopotassiemia) nella sindrome di Conn, nella sindrome di Cushing, nell'ipertensione nefrovascolare e durante l'assunzione non controllata di diuretici.- Esame delle urine: può mostrare una microalbuminuria od una proteinuria franca, oppure la presenza di cilindri, leucociti, emazie, etc. - Elettrocardiogramma (vedi Capitolo 3): può evidenziare un sovraccarico o un'ipertrofia del ventricolo sinistro mediante i criteri di Sokolow- Lyon (SV1+RV5 o V6 = 3,8 mV) o di Cornell-voltaggio (SV3+Ra Vl = 2,8 negli uomini e 2,0 mV nelle donne). Rispetto all'ecocardiogramma è comunque un test molto meno sensibile anche se specifico.- Ecocardiogramma (vedi Capitolo 4): fornisce dati più affidabili su un'eventuale presenza di ipertrofia e sulla geometria e funzionalità del ventricolo sinistro. Consente inoltre di determinare la presenza di una disfunzione diastolica e di classificarla nei suoi 3 pattern di disfunzione a gravità crescente.- Eco-Doppler arterioso (vedi Capitolo 12): per lo studio dei distretti arteriosi epiaortico e degli arti inferiori. Particolarmente importante lo studio ecoDoppler delle arterie carotidi, per la quantificazione dello spessore del complesso intima-media carotideo. - Monitoraggio dinamico della pressione arteriosa per 24 ore (ABPM): consiste nella registrazione per 24 h dei valori di pressione arteriosa campionati circa ogni 30 minuti. Può fornire importanti informazioni quando vi sono marcate differenze fra i valori pressori riscontrati in più visite, o quando ci sono discordanze tra i livelli riscontrati dal medico e quelli registrati dal paziente; è inoltre utile per verificare il ritmo circadiano della pressione e l’efficacia della terapia antiipertensiva.- Automisurazione della pressione arteriosa a domicilio dal paziente: consente la raccolta di valori pressori per diversi giorni e offre la possibilità di ottenere la loro media anche su molti mesi, coinvolgendo il paziente nella gestione del suo problema. La Tabella IV propone i valori di riferimento della popolazione normale con le differenti tecniche di misurazione della pressione arteriosa.- Esame del fondo dell'occhio: rileva le alterazioni delle arterie retiniche legate allo stato ipertensivo. Secondo le ultime Linee Guida assume un valore specifico solo in forme gravi di ipertensione, in grado di determinare la comparsa di essudati ed emorragie della retina (III-IV stadio della classificazione della retinopatia secondo Keith e Wegener).

IPERTENSIONE ARTERIOSA SECONDARIAL’ipertensione arteriosa secondaria rappresenta circa il 5% dei casi di ipertensione ed è la conseguenza di un disordine primitivo soprattutto di tipo renale od endocrinologico. La ricerca di un'ipertensione secondaria dev'essere attuata con massimo scrupolo, soprattutto nei soggetti giovani, in quanto nella maggior parte dei casi la sua causa può essere rimossa ed in questi casi l’ipertensione può essere curata evitando una terapia per il resto della vita. Per tal motivo, quando vi è il sospetto di

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un’ipertensione arteriosa secondaria è necessario procedere con la valutazione strumentale del paziente con l’ausilio di esami specifici.

Ipertensione nefroparenchimale. Tutte le patologie parenchimali renali che determinino una riduzione dell’escrezione di acqua e sodio, ed un’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone provocano lo sviluppo di ipertensione. Uno stato ipertensivo si associa infatti a malattie renali acute quali l’insufficienza acuta secondaria a cause renali e post-renali o le sindromi nefritiche, o a disordini di tipo cronico quali il rene policistico e l’insufficienza renale cronica. Cause più rare di ipertensione nefroparenchimale sono i tumori secernenti renina.

Nel sospetto di un’ ipertensione nefroparenchimale sono utili gli esami ematochimici per valutare la funzionalità renale, l’esame dell’urine, e in alcuni casi l’ecografia renale.

Ipertensione nefrovascolare. Questa frequente causa di ipertensione secondaria è associata ad una stenosi mono o bilaterale dell’arteria renale dovuta ad un processo aterosclerotico, o, nel caso di soggetti giovani soprattutto se donne, alla presenza di una displasia fibro-muscolare. La riduzione del flusso renale secondaria alla stenosi determinerà un’aumentata e non regolata secrezione di renina e la successiva formazione di angiotensina II con un aumento della vasocostrizione periferica, aumento del riassorbimento di acqua e sodio, e incremento rapido dei valori di pressione arteriosa. Ed è proprio uno sviluppo rapido di uno stato ipertensivo non controllabile con la terapia medica, od insorto in un paziente giovane, che deve assolutamente porre il sospetto di un’ipertensione nefrovascolare.

Questa dal punto di vista ematochimico si manifesta con ipopotassiemia, e con un aumento combinato dei livelli di renina ed aldosterone. Esami strumentali molto utili ai fini diagnostici sono l’ecocolor-Doppler dell’arterie renali nel caso di stenosi prossimali, o alternativamente l’angio-TC e l’angio-RM renali. La metodica “gold standard”, anche se raramente viene impiegata per la prima diagnosi, è l’angiografia delle arterie renali. Nel sospetto di un’ipertensione nefrovascolare bisogna prescrivere con estrema cautela ed a bassi dosaggi i farmaci ACE-inibitori, per il rischio di ipotensioni acute o di una riduzione brusca della perfusione renale con lo sviluppo di insufficienza acuta.

Iperaldosteronismo primitivo. Le sindromi da eccesso primitivo di mineralcorticoidi sono rappresentate nel 30% dei casi da un adenoma surrenalico, più frequente nelle donne e nei bambini, e nel 70% dei casi da un’iperplasia surrenalica. Condizioni più rare sono secondarie al carcinoma surrenalico o all’iperaldosteronismo sensibile ai glucocorticoidi. Un iperaldosteronismo va sospettato in presenza di un’ipertensione resistente alla terapia, eventualmente associata ad astenia, crampi muscolari, poliuria, polidipsia e palpitazioni. Il dato ematochimico più importante è l’ipopotassiemia associata ad un’aumentata potassiuria, con un pH ematico che risulta aumentato per incremento dei bicarbonati. I livelli di aldosterone sono aumentati, mentre quelli di renina soppressi, per cui il rapporto aldosterone plasmatico/attività reninica plasmatica è generalmente aumentato. Per la diagnosi definitiva di iperaldosteronismo primario ci si può avvalere di test dinamici di conferma. Tra questi il più diffuso è quello del ”carico salino”: se i livelli sierici di aldosterone non risultano soppressi dopo il test si può fare diagnosi di iperaldosteronismo primitivo. La diagnosi di iperaldosteronismo può essere confermata anche dal test di soppressione al fludrocortisone. In presenza di iperaldosteronismo primario la somministrazione per 4 giorni di fludrocortisone non determina la soppressione dei livelli plasmatici di aldosterone.

Feocromocitoma. Il feocromocitoma è un tumore del tessuto cromaffine della midollare del surrene o del tessuto paragangliare, e si manifesta clinicamente attraverso l’ aumentata increzione di adrenalina e noradrenalina. Il feocromocitoma rappresenta una causa rara di ipertensione arteriosa, ma se non riconosciuta mette seriamente in pericolo la vita del paziente. Uno stato ipertensivo è presente in tutti i soggetti affetti, più frequentemente a crisi o talora cronico. I sintomi più comuni sono l’ansietà, le palpitazioni, la cefalea, l’arrossamento improvviso del viso (flushing) e le sudorazioni profuse.

La diagnosi di feocromocitoma può essere fatta mediante il dosaggio delle catecolamine plasmatiche ed urinarie e dei loro metaboliti, più facilmente se i campioni vengono ottenuti durante le crisi ipertensive. I dosaggi dell’acido vanilmandelico e delle metanefrine plasmatiche e urinarie frazionate rappresentano gli esami più attendibili. Nel sospetto diagnostico si può ricorrere anche all’impiego di test farmacologici di inibizione o stimolazione, con clonidina e glucagone rispettivamente, o utilizzare subito metodiche d’”imaging” quali l’ecografia, la TC o la RMN, di solito impiegate per localizzare il tumore.

Coartazione Aortica. La coartazione aortica (vedi Capitolo 52) consiste in una stenosi congenita dell’aorta generalmente distale all’origine del dotto arterioso che si associa frequentemente ad altre anomalie quali la bicuspidia aortica gli aneurismi “a bacca” cerebrali. Questa è una causa rara di ipertensione arteriosa secondaria soprattutto nei bambini e negli adolescenti. La diagnosi è di solito clinica ed è legata al riscontro di un’ipertensione esclusivamente a livello degli arti superiori e di un ipotensione a livello degli arti inferiori, alla presenza di un ritardo del polso femorale rispetto a quello radiale, all’ascoltazione di un soffio continuo al dorso, nella regione interscapolare, ed alla presenza di una spiccata pulsatilità delle arterie intercostali. La diagnosi di conferma invece può essere fatta invece agevolmente mediante un angio-TC del torace ed un’aortografia. La terapia della coartazione aortica può essere percutanea, mediante l’apposizione di stent, o chirurgica.

Ipertensione indotta da farmaci. Alcune sostanze e farmaci possono determinare un’ipertensione arteriosa e queste sono: la liquirizia, gli spray nasali vasocostrittori, i contraccettivi orali, i FANS, i corticosteroidi, la ciclosporina e l’eritropoietina. Fondamentale pertanto è la ricerca anamnestica dell’uso di tali sostanze per poter effettuare una diagnosi rapida.

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TRATTAMENTOLa finalità principale del trattamento dell’ipertensione arteriosa consiste soprattutto nella prevenzione dello sviluppo delle sue complicanze cardio- e cerebrovascolari, e tali benefici terapeutici possono essere raggiunti non solo mediante la riduzione dei valori pressori, peraltro implicati direttamente nello sviluppo di alcune complicanze, ma anche attraverso la correzione dei diversi fattori di rischio frequentemente associati all’ipertensione. Di conseguenza è molto importante, prima di iniziare un trattamento antiipertensivo, una valutazione clinica globale del paziente che miri a definire al meglio il suo profilo di rischio cardiovascolare, sia sulla base dell’entità della malattia ipertensiva, sia sulla base degli altri fattori di rischio associati. Gli interventi terapeutici antipertensivi possono essere divisi in interventi di tipo non farmacologico, basati sulle modifiche dello stile di vita e delle abitudini comportamentali, ed in interventi di tipo farmacologico, basati sull’impiego di diverse classi di farmaci sia da soli che in associazione tra loro. Sulla base delle ultime Linee Guida emanate dall’ESH/ESC del 2007 sulla gestione clinica dell’ipertensione arteriosa, nei pazienti a rischio cardiovascolare basso-moderato in generale è indicato iniziare solo un trattamento non farmacologico rivalutando dopo pochi mesi i soggetti, ed associando successivamente un trattamento farmacologico qualora i valori pressori non risultino controllati. Di contro, nei soggetti a rischio elevato è in genere opportuno un approccio terapeutico più aggressivo, combinando gli interventi non farmacologici con una terapia farmacologica (monoterapia o terapia di associazione) (Figura 2).

Interventi di tipo non farmacologico

Gli interventi non farmacologici possono contribuire a ridurre i valori pressori ed il rischio cardiovascolare globale del paziente iperteso, nonché a favorire un ricorso più contenuto alla terapia farmacologica. Sebbene siano spesso di non facile attuazione pratica e non ne siano mai stati documentati in maniera completa gli effetti a lungo termine sulla morbilità e mortalità cardiovascolare e globale, gli interventi non farmacologici non presentano (al contrario di quelli farmacologici) controindicazioni di impiego.Tre approcci terapeutici si sono dimostrati in grado di esercitare documentati effetti antipertensivi: il calo ponderale, la dieta iposodica e l’esercizio fisico regolare.Considerata l'evidenza epidemiologica di una relazione diretta tra peso corporeo, distribuzione anatomica del grasso corporeo e pressione, non sorprende che una restrizione dell'apporto calorico si sia dimostrata in grado di ridurre i valori pressori, essendo l'entità dell'effetto antipertensivo medio pari ad una diminuzione di circa 1,5 mmHg di pressione arteriosa sistolica e 1,3 mmHg di diastolica per ciascun chilo di peso corporeo perso. Gli effetti antipertensivi di una restrizione alimentare sodica sono stati oggetto di numerose meta-analisi, che complessivamente hanno evidenziato un’azione antipertensiva piuttosto modesta (3-5 mmHg per la sistolica e 2-3 per la diastolica). La restrizione sodica inoltre, non deve essere marcata (consumo giornaliero <2 grammi NaCl), perché è stato dimostrato come questa induca effetti metabolici sfavorevoli e stimoli il sistema renina-angiotensina ed il sistema nervoso adrenergico. Allo stato attuale pertanto, una modica restrizione sodica (consumo giornaliero <4 grammi NaCI) è indicata nel trattamento del paziente iperteso, specie considerando come questo intervento non farmacologíco si sia dimostrato in grado di potenziare l'efficacia antipertensiva della stessa terapia farmacologica.Infine studi clinici controllati hanno pressoché uniformemente dimostrato che l'esercizio fisico regolare di moderata intensità (rappresentato da un incremento pari a circa il 40% del consumo di ossigeno valutato a riposo) è in grado, dopo un congruo periodo di tempo, di ridurre i valori pressori sisto-diastolici (circa 6-8 mmHg a seconda dei valori pressori di partenza e del tipo di attività fisica). Tali modificazioni si accompagnano ad un miglioramento del profilo di rischio cardiovascolare in virtù degli effetti emodinamici (vasodilatazione) e metabolici favorevoli (miglioramento dell’ insulino-sensibilità e del profilo lipidico) di un training fisico costante.

Interventi antiipertensivi di tipo farmacologico

Il trattamento farmacologico dell’ipertensione arteriosa deve essere intrapreso quando non si ottengono risultati sufficienti con gli interventi non farmacologici, o quando i valori pressori basali ed il rischio cardiovascolare del paziente sono molto elevati.L’obiettivo terapeutico essenziale della terapia farmacologica è il raggiungimento di valori pressori ottimali, e se questo non è possibile con l’impiego di un solo farmaco è consigliabile adottare un’associazione tra due o, se necessario, più molecole. La scelta del tipo di farmaco da prescrivere ad un paziente iperteso non è però basata solo sulla efficacia antiipertensiva, bensì anche sui possibili effetti benefici sulla riduzione del danno d’organo cardiovascolare e renale, su eventuali sue azioni positive sulle alterazioni metaboliche concomitanti, quali il diabete o la dislipidemia, ed in ultimo, deve tener conto della tipologia del paziente (età, sesso, comorbidità), degli effetti collaterali, delle preferenze del paziente, di precedenti esperienze terapeutiche e di aspetti socio-economici (Tabella V). Le principali classi di farmaci anti-ipertensivi (vedi Capitolo 58) sono:

Ace-inibitori: sono una classe di farmaci con documentata efficacia antipertensiva, caratterizzata da effetti benefici sull’apparato cardiovascolare, particolarmente nei pazienti con cardiopatia ischemica, disfunzione ventricolare sinistra e scompenso cardiaco. Sono molto utili per rallentare la progressione del danno renale, in particolare nei diabetici, ed hanno un profilo metabolico sostanzialmente neutro. Principali effetti collaterali sono la tosse, l’ipotensione da prima dose e raramente l’angio-edema della glottide. Le principali controindicazioni sono l’insufficienza renale cronica, la gravidanza e la stenosi bilaterale delle arterie renali.

Calcio-antagonisti: i calcio-antagonisti possono svolgere i loro effetti prevalentemente sul cuore (non diidropiridinici, diltiazem o verapamil) od essere principalmente dei vasodilatatori periferici (diidropiridinici); quest’ultimi in particolare hanno una spiccata azione anti-ipertensiva e si sono dimostrati efficaci nel ridurre gli eventi cardiovascolari. Sono molto utili in prescrizione singola od in associazione con altri farmaci in particolare gli inibitori del sistema renina-angiotensina-aldosterone.

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Bloccanti recettoriali dell’angiotensina II (o sartanici): sono farmaci efficaci e molto ben tollerati anche in quanto caratterizzati da un’azione farmacologia molto selettiva (blocco dei recettori AT-1 dell’angiotensina II). Questa classe è particolarmente utile nell’ipertensione arteriosa, in particolare nei pazienti con danno d’organo sia cardiaco che renale, e con presenza di diabete o sindrome metabolica.

Diuretici: sono i farmaci antiipertensivi più lungamente sperimentati, e quelli tiazidici sono particolarmente efficaci nel ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari maggiori. Sono inoltre spesso prescrivibili in associazione precostituita con farmaci inibitori del sistema renina-angiotensina. Le controindicazioni all’uso dei diuretici sono soprattutto la scarsa “compliance” del paziente legata ad effetti indesiderati ed alcuni effetti collaterali quali lo squilibrio elettrolitico, in particolare l’ipopotassemia, l’iperuricemia e le alterazioni del metabolismo glico-lipidico.

Beta-bloccanti: sono particolarmente indicati nei pazienti ipertesi affetti da cardiopatia ischemica, disfunzione ventricolare sinistra sistolica, tachicardia, oppure ipertiroidismo. Sono controindicati nei pazienti bradicardici o con turbe della conduzione atrio-ventricolare, con asma o con broncopneumopatia cronica ostruttiva, con vasculopatia periferica o con insulino-resistenza.

I farmaci antiipertensivi appartenenti a queste classi farmacologiche possono essere associati tra loro specialmente se presentano meccanismi d’azione diversi e complementari, se l’efficacia ipotensivante è superiore quando associati rispetto a quando somministrati in monoterapia, ed in ultimo se l’associazione è ben tollerata. Altri farmaci antiipertensivi da usare in terapia addizionale, qualora non vengano raggiunti gli obiettivi, includono gli alfa-bloccanti, in particolare nei pazienti con ipertrofia prostatica, gli anti-ipertensivi ad azione centrale, soprattutto alfa-metildopa e clonidina, ed i farmaci anti-aldosteronici, che trovano indicazione soprattutto nelle forme legate ad iperaldosteronismo e nell’ipertensione refrattaria o resistente.

URGENZE ED EMERGENZE IPERTENSIVE

Le urgenze ed emergenze ipertensive sono forme cliniche caratterizzate da un notevole rialzo pressorio (solitamente PAD >130 mmHg) che richiedono un abbassamento rapido della pressione. Queste condizioni possono essere distinte in urgenze ed emergenze ipertensive. Per urgenza ipertensiva s’intende un marcato e rapido rialzo pressorio peraltro non associato a segni di danno d’organo acuto cardiaco o neurologico e possono essere risolte nell’arco delle 24 ore. Le emergenze ipertensive sono  invece quelle  situazioni  nelle quali, per la presenza di segni di danno d'organo collegati al rialzo pressorio, e per grave pericolo di vita, è indispensabile una riduzione della pressione arteriosa  entro 1 ora.  Le alterazioni d’organo che possono essere riscontrate nell’emergenza ipertensiva sono l’infarto miocardico acuto o l’angina instabile, lo scompenso cardiaco acuto, la dissezione aortica e l’emorragia cerebrale. Un altro tipo particolare ed altrettanto grave di emergenza ipertensiva è l’encefalopatia ipertensiva, caratterizzata da disturbi neurologici reversibili come la cefalea, alterazioni visive e dello stato di coscienza, nausea e vomito. Questa, se non trattata può evolvere rapidamente in uno stato di coma e successivamente in exitus. La fisiopatologia dell’encefalopatia ipertensiva è legata alla presenza di una necrosi fibrinoide arteriolare generalizzata e di una dilatazione sproporzionata delle arterie cerebrali con un conseguente iperafflusso sanguigno. Nelle emergenze ipertensive il trattamento deve essere  iniziato il più rapidamente possibile con l'obiettivo non di  ottenere  l'immediato ripristino di livelli pressori normali,  ma  di arrivare a limiti di "sicurezza" senza indurre, nello stesso tempo,  complicanze cerebrali, coronariche o renali legate all’induzione di ipotensione troppo rapida. I  farmaci di elezione nell’emergenza ipertensiva somministrati per via endovenosa sono la clonidina, il nitroprussiato o nitroglicerina ed il labetalolo. Di solito è sempre consigliabile embricare alla terapia endovenosa una terapia per via orale.

Sezione XIII. Arteriosclerosi

Capitolo 46L'ATEROSCLEROSIPaolo Golino DEFINIZIONE

L’aterosclerosi, dal greco atére (sostanza pastosa) e sclerosis (indurimento), è un processo degenerativo che si sviluppa a carico della parete delle arterie di grosso e medio calibro. La lesione anatomo-patologica fondamentale dell’aterosclerosi è rappresentata dall’ateroma o placca, una deposizione rilevata, focale, fibro-adiposa della parete arteriosa. L’ateroma è costituito da un centro, o core, composto prevalentemente da lipidi e matrice extracellulare, ma anche da una componente cellulare (cellule muscolari lisce, macrofagi, linfociti); un cappuccio fibroso riveste il core lipidico e lo separa dal sangue circolante (Figura 1).

ANATOMIA PATOLOGICA

Considerazioni introduttive L’aterosclerosi è la causa principale di numerose importanti malattie del sistema cardiovascolare, quali l’infarto miocardico, l’angina pectoris, e l’ictus cerebrale, che insieme rappresentano di gran lunga la causa di morte più frequente nei paesi occidentali. Fino a venti anni or sono, il nostro concetto dell’aterosclerosi era quello di una lenta malattia da accumulo di lipidi: i depositi lipidici che si venivano a formare sulla superficie delle arterie crescevano sporgendo all’interno del lume fino a compromettere ed eventualmente bloccare completamente il

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flusso ematico ai tessuti interessati, causandone la necrosi ischemica. Questo concetto “tradizionale” dell’aterosclerosi guardava alle arterie come condotti passivi sui quali si andavano a depositare i lipidi circolanti che rappresentavano quindi il centro fisiopatologico della malattia. Questa teoria è stata oggi soppiantata, in quanto sappiamo che la parete arteriosa non possiede un ruolo passivo ma, al contrario, è una struttura complessa formata da numerosi tipi cellulari che partecipano attivamente al processo aterosclerotico. Sappiamo inoltre che l’infiammazione gioca un ruolo chiave in tutti gli stadi di sviluppo dell’aterosclerosi, dalla formazione della lesione iniziale, allo sviluppo della placca, fino alla sua complicanza (erosione, ulcerazione, etc) con conseguente formazione di un trombo intravascolare. E’ proprio il trombo che, causando una improvvisa ostruzione al flusso ematico, si rende responsabile delle conseguenze più gravi e temibili dell’aterosclerosi, come l’infarto miocardico e l’ictus cerebrale. Negli ultimi anni, data la difficoltà a tenere separati il processo aterosclerotico da quello trombotico, si preferisce parlare di aterotrombosi, a sottolineare la presenza di un continuum fisiopatologico che unisce i due fenomeni (Figura 2).

Le fasi dell’aterosclerosi

Fase di inizio. Le prime fasi dell’aterogenesi nell’uomo rimangono largamente speculative. Tuttavia, l’integrazione di osservazioni ottenute in giovani adulti deceduti per cause traumatiche con quelle degli studi condotti negli animali da esperimento possono dare utili spunti. In condizioni normali, il monostrato di cellule endoteliali che riveste tutto l’albero vascolare si oppone all’adesione dei leucociti. Tuttavia, la presenza di alcuni elementi induttori, quali una dieta ad alto contenuto di grassi saturi, il fumo di sigaretta, l’ipertensione e l’iperglicemia possono favorire l’espressione da parte delle cellule endoteliali di alcune proteine cosiddette di adesione, in grado cioè di legare alcuni recettori presenti sulla membrana dei leucociti. Tra queste, la “vascular cell adhesion molecule-1” (VCAM-1) sembra particolarmente importante perché si lega ad un recettore presente sulla membrana dei monociti e dei linfociti T, due tipi cellulari presenti pressoché costantemente nelle lesioni aterosclerotiche iniziali (Figura 3). Una volta che i leucociti abbiano aderito all’endotelio, devono ricevere un segnale specifico per penetrare nello spazio sottoendoteliale. Diversi mediatori chimici di natura proteica, denominati chemochine, con proprietà chemiotattiche nei confronti dei leucociti, sono deputati a svolgere questo compito (Figura 3). Due gruppi di chemochine sono particolarmente importanti nel reclutare i monociti all’interno delle lesioni iniziali: una è la cosiddetta “monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1), che viene prodotta dalle cellule endoteliali e muscolari lisce in risposta ad alcuni stimoli nocivi come le lipoproteine ossidate. MCP-1 promuove la migrazione unidirezionale (chemiotassi) dei monociti all’interno della parete vasale. L’importanza di MCP-1 nel contribuire all’iniziale reclutamento dei monociti all’interno della parete vasale durante le fasi precoci dell’aterogenesi è dimostrata da alcuni studi condotti nell’animale da esperimento in cui la produzione di MCP-1 veniva inibita attraverso tecniche di ingegneria genetica. Negli animali geneticamente modificati e sottoposti a dieta aterogena, le lesioni aterosclerotiche risultavano più piccole e meno numerose rispetto agli animali di controllo. Altre chemochine importanti nel reclutare i monociti in questa fase dell’aterogenesi sono l’interleuchina-8 e l’interferone , ambedue presenti in alte concentrazioni all’interno delle lesioni iniziali.

Focalità delle lesioni aterosclerotiche E’ interessante notare che le lesioni aterosclerotiche non si sviluppano a caso all’interno dell’albero coronarico ma al contrario tendono a crescere con maggior frequenza in zone specifiche, come ad esempio le biforcazioni, probabilmente a causa del tipo di flusso ematico che in queste aree si forma. Un ruolo importante nella regolazione delle funzioni endoteliali è infatti svolto dallo “shear stress”, cioè dalle forze tangenziali che il sangue esercita sulla parete vasale. Uno shear stress laminare ed uniforme induce l’aumento di espressione di una serie di geni, quali la superossido-dismutasi, la ciclo-ossigenasi e la NO-sintetasi, enzimi che possiedono attività antiossidanti, antitrombotiche ed antiadesive nei riguardi delle piastrine e dei leucociti e quindi, in definitiva, svolgono attività di protezione nei riguardi del vaso rispetto all’aterogenesi. Lo shear stress turbolento o comunque non laminare non induce i suddetti geni ateroprotettivi, per cui l’endotelio per flussi lenti e turbolenti, quali quelli che si formano in corrispondenza delle biforcazioni, è meno protetto dagli agenti aterogeni.

Formazione delle strie lipidiche Una volta giunti nello spazio sottoendoteliale, i monociti si trasformano in macrofagi, esprimono elevate quantità di recettori “spazzini” sulla loro membrana, soprattutto nei confronti delle lipoproteine modificate dallo stress ossidativo, e cominciano a fagocitare le lipoproteine, fino a riempire gran parte del citoplasma, diventando cellule schiumose, cellule di grosse dimensioni il cui citoplasma è letteralmente stipato di lipidi, esteri del colesterolo e lipoproteine ossidate. Allo stesso tempo, i macrofagi proliferano, aumentando di numero, e producono numerosi fattori di crescita e citochine che agiscono sostenendo e amplificando i segnali pro-infiammatori. A questo stadio, la lesione aterosclerotica è rappresentata dalla cosiddetta stria lipidica che macroscopicamente appare come una stria giallastra (dato l’alto contenuto in lipidi) sulla superficie della tonaca intima (Figura 4). Non tutte le strie lipidiche però evolvono verso la formazione di una placca avanzata e, d’altra parte, esse vengono evidenziate all’esame autoptico molto frequentemente anche in soggetti giovani e sani. La stria lipidica, quindi, non possiede necessariamente un significato patologico. Tuttavia, nella società moderna dove prevale uno stile di vita caratterizzato da una elevata sedentarietà e da un eccesso di disponibilità di cibo, la progressione della lesione aterosclerotica dalla stria lipidica alla formazione della placca conclamata è purtroppo un evento frequente che può verificarsi precocemente nel corso della vita. Studi autoptici hanno dimostrato che negli Stati Uniti 1 teenager su 6 mostra un ispessimento patologico delle arterie

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coronarie, indicando che nelle società contemporanee l’aterosclerosi è un processo che comincia precocemente nella vita di un individuo, anche se le sue complicanze sono caratteristiche della mezza età.

Formazione della placca conclamata Da un punto di vista istologico la stria lipidica è principalmente caratterizzata dalla presenza di macrofagi che hanno fagocitato elevate quantità di lipidi (cellule schiumose). Caratteristiche più complesse, come la fibrosi, la necrosi del core lipidico, la trombosi e l’elevato grado di calcificazione, sono tipicamente assenti nelle strie lipidiche, che rappresentano lesioni iniziali e largamente reversibili, almeno in determinate condizioni. Che cosa allora si rende responsabile, in alcuni individui, della progressione della stria lipidica verso la placca conclamata? Nell’ultima decade la ricerca medica è stata particolarmente attiva in questo ambito e numerosi studi, sia clinici che sperimentali, hanno dimostrato un ruolo fondamentale dell’infiammazione e del sistema immunitario nel processo dell’aterogenesi.Nella fase precoce della formazione dell’ateroma, il macrofago-cellula schiumosa reclutato all’interno della parete vasale serve non solo come deposito dei lipidi in eccesso ma anche come promotore di fenomeni infiammatori. Infatti, tale cellula è in grado di produrre una grande quantità di citochine e chemochine pro-infiammatorie, nonché alcuni mediatori chimici di derivazione dall’acido arachidonico, come i leucotrieni e le prostaglandine. Inoltre, i macrofagi sono in grado di produrre elevate quantità di specie molecolari altamente ossidanti, come l’anione superossido, che contribuisce ad ossidare ulteriormente le lipoproteine presenti all’interno della lesione, aumentando quindi i fenomeni di infiammazione locale e contribuendo alla formazione di un circolo vizioso che culmina con la progressione della lesione aterosclerotica. In questo contesto, il sistema immunitario gioca un ruolo di primaria importanza nel sostenere e favorire la progressione della placca.Il termine immunità innata si riferisce quella serie di eventi che amplificano la risposta infiammatoria in assenza di stimolazione antigenica (Figura 5). Fanno parte dell’immunità innata i fenomeni di fagocitosi, la produzione di molecole pro-infiammatorie come le proteine di fase acuta, tipicamente rappresentate dalla proteina C-reattiva, ecc.Oltre all’immunità innata, numerose evidenze hanno ampiamente dimostrato l’importanza dell’immunità acquisita nel modulare i fenomeni aterosclerotici. L’immunità acquisita, o antigene-specifica, costituisce la risposta dell’organismo nei confronti di sostanze estranee (antigeni) ed è un fenomeno di grande complessità non ancora compreso completamente (Figura 5). Viene oggi largamente riconosciuto che la lesione aterosclerotica possiede tutte le caratteristiche di una malattia infiammatoria cronica a progressione lenta con coinvolgimento di molti tipi cellulari a funzione immuno-infiammatoria come i monociti/macrofagi, le mast cellule, le cellule dendritiche, i linfociti T e le cellule “natural killer”. Inoltre, nelle lesioni avanzate si ritrovano anche componenti del sistema del complemento in stretta vicinanza alla proteina C reattiva e ad immunoglobuline spesso legate ad antigeni specifici a formare immuno-complessi. E’ stato poi osservato che componenti cellulari costitutivi della parete vasale, come le cellule muscolari lisce, possono, in determinate condizioni, aumentare l’espressione delle molecole HLA di classe II che sono coinvolte nel processo di riconoscimento dell’antigene da parte dei linfociti T. Infine, il ruolo del sistema immunitario nel modulare lo sviluppo e la crescita delle lesioni aterosclerotiche viene anche indirettamente dimostrato dalle numerosi osservazioni ottenute nell’animale da esperimento che dimostrano come l’andamento dell’aterogenesi possa essere significativamente modificato da interventi che interferiscono con i vari aspetti della risposta immune.Se da un lato esistono pochi dubbi circa l’importanza dell’immunità acquisita nella formazione e nell’evoluzione della lesione aterosclerotica, dall’altro le ipotesi riguardo l’identità dell’antigene(i) coinvolto(i) in tale fenomeno rimangono largamente speculative. Possibili candidati sono le lipoproteine ossidate che, esposte ad un microambiente altamente ossidante quale lo spazio sottoendoteliale, vengono modificate nella loro struttura terziaria in modo da renderle estranee (“non-self”) al sistema immunitario. Un’altra possibilità è rappresentata dalla presenza di antigeni batterici o virali che risultano simili ad alcune sostanze dell’organismo. In tal caso, si verrebbe a creare l’attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni propri dell’organismo perché simili antigenicamente a sostanze estranee (fenomeno della somiglianza antigenica). Un esempio a tale riguardo potrebbe essere la proteina legata allo shock termico (Heat Shock Protein, HSP). Le HSP sono una famiglia di proteine che hanno lo scopo di riparare altre molecole proteiche che hanno subito un danno da agenti nocivi, come ad esempio il riscaldamento eccessivo, da cui il nome. Esse sono molto importanti filogeneticamente per l’economia cellulare, tant’è che sono presenti praticamente in tutti gli esseri viventi, dai batteri agli organismi complessi come i mammiferi. E’ stato osservato che alcune HSP batteriche, in particolare quelle della Clamidia Pneumoniae, hanno una forte somiglianza antigenica con la HSP 45 umana, ed è quindi possibile che una infezione da Clamidia con successiva localizzazione dell’agente patogeno all’interno della placca aterosclerotica possa portare alla attivazione del sistema immunitario nei confronti di antigeni “self”. In ogni caso, una volta che l’antigene viene riconosciuto come estraneo, si verifica l’attivazione delle cellule T che, a loro volta, secernono una grande quantità di citochine che vanno a modulare i vari processi dell’aterosclerosi.Mentre gli eventi iniziali della formazione dell’ateroma coinvolgono primariamente la disfunzione endoteliale e il reclutamento dei leucociti, la successiva evoluzione verso la formazione di una placca complessa coinvolge anche le cellule muscolari lisce della parete arteriosa. Le cellule muscolari lisce presenti nella lesione aterosclerotica provengono per migrazione da quelle normalmente presenti nella tonaca media; lo stimolo chemiotattico è in questo caso rappresentato principalmente dal “platelet-derived growth factor” (PDGF), secreto dalle piastrine e dai macrofagi, che possiede anche potenti effetti mitogeni. Infatti, all’interno della lesione, le cellule muscolari lisce vanno incontro sia a fenomeni proliferativi, aumentando di numero, che di aumento della produzione e secrezione della matrice extracellulare. I due fenomeni, proliferazione cellulare e secrezione della matrice, sommati insieme contribuiscono in questa fase dell’aterogenesi alla crescita della placca, anche se la matrice piuttosto che la componente cellulare contribuisce maggiormente al volume della placca. Le macromolecole più importanti che costituiscono la matrice cellulare sono il collagene (tipo I e III), alcuni proteoglicani e le fibre di elastina. Le cellule muscolari lisce sono i principali tipi cellulari responsabili della produzione della matrice extracellulare la cui sintesi viene favorita da alcune sostanze, quali il PDGF e il

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“transforming growth factor-beta” (TGF-ß) che vengono prodotti da numerosi tipi cellulari all’interno della placca.E’ importante sottolineare che la crescita della placca non è un fenomeno lineare e costante come si è ritenuto fino a pochi anni or sono, ma è piuttosto caratterizzato da una crescita non costante, dove accelerazioni improvvise si alternano a periodi di relativa quiescenza. Queste crisi proliferative possono essere messe in relazione ad episodi di danno meccanico della placca stessa, con attivazione delle piastrine circolanti e della cascata coagulativa e successiva esposizione delle cellule muscolari lisce a mitogeni potenti quali la stessa trombina.

La lesione avanzata: necrosi e calcificazione Le placche avanzate spesso sviluppano aree di calcificazione al loro interno, ed infatti già gli studi dell’inizio del secolo scorso avevano descritto la presenza all’interno delle placche di caratteristiche morfologiche tipiche del processo di ossificazione. In anni più recenti si è scoperto che alcuni sottotipi di cellule muscolari lisce, sotto l’effetto di citochine particolari con effetti osteogenetici come il TGF-ß, sono in grado di produrre zone di intensa calcificazione della placca. Inoltre, nelle placche avanzate vi sono proteine contenenti numerosi residui di acido glutammico carbossilato in posizione gamma specializzate nel sequestro di ioni calcio e quindi nel favorire i fenomeni di calcificazione.Un’altra caratteristica delle placche avanzate è la presenza di aree di necrosi, nelle quali si è avuto la morte delle cellule muscolari lisce ad opera di fenomeni di apoptosi che quindi possono contribuire all’indebolimento della placca favorendone la rottura.

FISIOPATOLOGIA

I fattori di rischio In Italia le malattie cardiovascolari costituiscono una delle principali cause di mortalità, di morbosità e di invalidità. Nel 2004 sono stati registrati quasi 600.000 decessi, di cui 80.000 per le malattie ischemiche del cuore e 65.000 per le malattie cerebrovascolari: quindi, in Italia, un decesso su 4 è dovuto a queste malattie che riconoscono una genesi comune. Secondo i dati dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare, nella popolazione italiana, su 1000 adulti tra 25 ed 84 anni, 15 uomini e 4 donne hanno una storia di infarto del miocardio, mentre ogni anno, nelle stesse età, 2 uomini su 1000 e 1 donna su 1000 va incontro ad un evento coronarico maggiore.Non esiste una causa unica dell’aterosclerosi. Sono però noti da lungo tempo diversi fattori, denominati fattori di rischio, che aumentano il rischio di sviluppare la malattia e predispongono l’organismo ad ammalare (vedi Capitolo 46). I più importanti sono: l’abitudine al fumo di sigaretta, il diabete, l’obesità, i valori elevati della colesterolemia, l’ipertensione arteriosa e la scarsa attività fisica, oltre alla familiarità, all’età e al sesso.

Dai fattori ambientali ai fattori geneticiLa malattia aterosclerotica è una malattia multifattoriale la cui espressione fenotipica è il risultato di un'interazione tra fattori genetici e fattori ambientali: da un lato può essere presente una predisposizione genetica alla malattia aterosclerotica, dall'altro vi sono i fattori ambientali che possono modificare l'espressione di alcuni geni favorendo lo sviluppo della malattia stessa. Nella valutazione del rischio cardiovascolare individuale e nella conseguente elaborazione di strategie preventive e terapeutiche personalizzate, in futuro si dovrà tener conto sia dei classici fattori di rischio legati allo stile di vita e all'età, sia dei fattori genetici.

PRESENTAZIONE CLINICA

L’aterosclerosi è una malattia cronica che progredisce lentamente al di sotto dell’orizzonte clinico, rimanendo asintomatica per molti anni, spesso anche per decadi. Tuttavia, la velocità con cui la lesione aterosclerotica evolve dalla semplice stria lipidica alla placca conclamata è estremamente variabile da un individuo all’altro, e non è raro trovare soggetti sintomatici anche molto precocemente. E’ questo il caso di pazienti che sviluppano un evento cardiovascolare maggiore nella terza/quarta decade di vita, mentre altri soggetti, magari con numerosi fattori di rischio, non sviluppano mai eventi cardiovascolari. Questa apparente discrepanza dipende sostanzialmente dall’interazione geni/ambiente, cioè dall’interazione del background genetico di un determinato individuo con gli eventuali fattori di rischio; questa interazione è tale da rendere particolarmente suscettibili di ammalare quei soggetti che hanno un profilo genetico particolarmente sfavorevole, e particolarmente resistenti coloro i quali possiedono un profilo genetico “protettivo”. Al pari del diabete, non esiste un solo gene coinvolto nell’aterogenesi, ma piuttosto essi sono numerosi (l’aterosclerosi è una malattia poligenica) e non ancora identificati completamente.

Le stenosi arteriose Anche quando l’aterogenesi è nella sua fase “florida”, la crescita della placca può essere compensata da fenomeni di rimodellamento positivo, cioè di crescita della placca verso l’esterno. Tuttavia, da un certo punto in poi la crescita della placca eccede la capacità di rimodellamento positivo del vaso e la placca stessa comincia a sporgere all’interno del lume arterioso riducendolo in maniera più o meno significativa. Anche questa fase può rimanere per un certo periodo di tempo largamente asintomatica, fino a quando la placca diventa emodinamicamente significativa. Con questo termine intendiamo definire quelle placche che restringono il lume del vaso colpito, causando un ostacolo al flusso ematico. Il principale meccanismo di compenso mediante il quale viene mantenuto un adeguato flusso ematico a riposo è rappresentato dalla vasodilatazione delle arteriole di resistenza sottostanti al vaso malato (vedi capitolo 23). E’ a questo punto che la placca vira dalla fase asintomatica a quella in cui diventa apparente sul piano clinico. Le manifestazioni cliniche dell’aterosclerosi cronica sono quindi conseguenti al restringimento dell'arteria colpita, che rende il flusso ematico relativamente fisso, cioè incapace di aumentare quando le condizioni funzionali lo richiedono, come ad esempio durante gli sforzi fisici. Di conseguenza la sintomatologia, in particolare il dolore ischemico, tende ad essere assente a

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riposo e a presentarsi in occasione di esercizio fisico più o meno intenso, a seconda della gravità dell'ostruzione arteriosa. Tipiche sindromi croniche sono: l’angina pectoris stabile, l’angina abdominis, la claudicatio intermittens, nella quale il dolore insorge durante la deambulazione e scompare tipicamente dopo pochi minuti di riposo.

La rottura della placca e la trombosi L’aterosclerosi, esclusivamente intesa come formazione e sviluppo delle placche aterosclerotiche, è una malattia relativamente benigna. Infatti, anche in quei casi in cui l’ateroma progredisce fino ad occludere completamente il lume del vaso interessato, generalmente ciò accade in un arco di tempo piuttosto lungo. In queste circostanze, il letto vascolare interessato ha il tempo di adattarsi alla nuova condizione sfavorevole attraverso un processo denominato neoangiogenesi, mediante il quale si formano circoli collaterali vicarianti che sostituiscono funzionalmente il vaso occluso. Il risultato finale è quello di evitare la necrosi ischemica del tessuto interessato che invece accadrebbe se l’occlusione arteriosa fosse improvvisa. Al contrario, l’occlusione acuta di natura trombotica rappresenta la complicanza più temibile dell’aterosclerosi: poiché l’organo interessato non ha il tempo sufficiente per stimolare lo sviluppo di un adeguato circolo collaterale, l’inevitabile conseguenza della trombosi arteriosa è di solito la necrosi (morte cellulare) del tessuto ischemico. Tale processo si può localizzare a livello del circolo coronarico, causando l’insorgenza di una cosiddetta sindrome coronarica acuta (infarto miocardico o angina instabile), o a livello del circolo cerebrale, causando un ictus, o in un qualsiasi tessuto periferico, causando la necrosi dello stesso.La complicanza (rottura, ulcerazione, erosione) di una placca aterosclerotica è stata identificata come la causa più frequente di trombosi arteriosa. La rottura della placca espone sostanze pro-trombotiche contenute nella placca stessa (tissue factor, collageno, fattore di von Willebrand, etc) che attivano la cascata della coagulazione e le piastrine circolanti e che culminano quindi con la formazione di un trombo intrarterioso (Figura 6).Le placche che sono destinate a rompersi sono difficili da identificare, anche perché la severità della stenosi causata dalla placca aterosclerotica misurata con l’angiografia mal si correla con l’insorgenza clinica di un evento acuto. Infatti, molti studi hanno dimostrato in maniera inequivocabile che le placche cosiddette vulnerabili, cioè quelle maggiormente prone alla rottura, causano in genere stenosi non significative, in molti casi addirittura meno del 50% del diametro luminale. Queste placche vulnerabili e instabili, poiché non sono significative dal punto di vista emodinamico, sono di solito silenti sul piano clinico, fino a quando vanno incontro a rottura e, attraverso l’ostruzione trombotica del flusso ematico coronarico, causano l’insorgenza di un evento acuto.La sequenza di eventi che porta alla complicanza della placca non è nota con esattezza, ma fattori meccanici, come lo stress tangenziale di parete e l’assottigliamento del cappuccio fibroso che riveste il core lipidico giochino sicuramente un ruolo importante nell’influenzare il destino della placca. Accanto a questa teoria puramente “meccanica”, nel corso degli ultimi 15 anni una grande massa di dati ha contribuito a far avanzare le nostre conoscenze sulla fisiopatologia della complicanza della placca, suggerendo che l’infiammazione e il coinvolgimento del sistema immunitario giocano un ruolo importante non solo nella formazione della lesione aterosclerotica, ma anche della sua complicanza. Questa affascinante ipotesi venne inizialmente formulata sulla scorta di alcune osservazioni morfologiche che dimostrarono la presenza di linfociti T e macrofagi in numero molto più elevato nelle placche complicate rispetto alle loro controparti stabili. Qual è allora il ruolo preciso e come può il sistema immunitario alterare la stabilità di una placca aterosclerotica? E’ affascinante pensare ad un ruolo dei macrofagi come cellule effettrici del fenomeno. Queste cellule infatti, una volta attivate, sono in grado di rilasciare radicali dell’ossigeno e vari enzimi proteolitici, come le metalloproteasi, enzimi ad azione litica nei confronti della matrice cellulare, che possono ridurre la resistenza del cappuccio fibroso e quindi favorirne la rottura (Figura 7). Questa teoria trova riscontro nell’osservazione che le metalloproteasi sono presenti in elevate concentrazioni nelle placche complicate insieme ad altri prodotti di derivazione macrofagica. Poiché è noto che i macrofagi possono essere attivati dai linfociti T, l’attivazione di tali cellule all’interno della placca può rappresentare un meccanismo fisiopatologico importante nella complicanza della placca stessa. In questo senso vi sono diverse evidenze, anche se indirette, dell’esistenza di tale fenomeno. Per esempio, studi autoptici hanno rivelato l’esistenza di cellule T attivate all’interno della placca instabile, mentre altri studi hanno dimostrato la presenza di linfociti T attivati in campioni di placca instabile prelevati da pazienti in corso di procedure di rivascolarizzazione percutanea.

CENNI DI TERAPIA

Modificazione dei fattori di rischio. Evidenze scientifiche dimostrano che la riduzione dei livelli medi dei fattori di rischio riduce l’incidenza delle complicanze dell’aterosclerosi, sia diminuendo l’incidenza delle malattie cardiovascolari che la mortalità a loro correlata. La prevenzione dell’aterosclerosi coincide in gran parte con gli sforzi della collettività per l’adozione di stili di vita salutari: alimentazione sana, esercizio fisico, non dipendenza dal fumo di tabacco.

Terapia farmacologica Attualmente il medico ha a disposizione alcuni farmaci molto efficaci nel diminuire i livelli ematici di colesterolo, uno dei più importanti fattori di rischio per l’aterosclerosi. In particolare, le statine si sono dimostrate molto efficaci in questo ambito. Tali farmaci riconoscono come meccanismo d’azione il blocco della prima tappa biochimica della sintesi del colesterolo in quanto inibiscono l’enzima idrossi-metil-glutaril Coenzima A redattasi, enzima chiave sulla via biosintetica del colesterolo. Come conseguenza di tale inibizione, le cellule dell’organismo e quelle epatiche in particolare, si “impoveriscono” di colesterolo endogeno. Poiché il colesterolo costituisce un elemento fondamentale per la vita della cellula (è un componente molto importante, tra l’altro, delle membrane cellulari), la cellula reagisce aumentando l’espressione dei recettori di membrana per le LDL, le lipoproteine responsabili del trasporto ematico del colesterolo. L’aumento dei recettori di membrana per le LDL,

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a sua volta, causa l’abbassamento dei livelli ematici di colesterolo fino al 50%. E’ stato dimostrato che l’uso delle statine nei soggetti a rischio particolarmente elevato di sviluppare eventi cardiovascolari maggiori non solo abbassa il loro livello di rischio ma, in alcuni casi, porta ad un rallentamento della crescita delle lesioni aterosclerotiche e talvolta addirittura alla loro regressione.

CONCLUSIONI E POSSIBILI SVILUPPI FUTURI

L’aterosclerosi è una malattia degenerativa e progressiva delle arterie di grande e medio calibro a grande componente infiammatoria: l’infiammazione è infatti in grado di modulare fortemente tutte le fasi dell’aterogenesi, dalla formazione della lesione iniziale alla complicanza della placca con occlusione trombotica del lume vasale. La Figura 8 riassume in maniera visiva quanto detto in questo capitolo.Sebbene molto sia stato fatto in termini di chiarimento dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base dell’aterosclerosi, ancora poco si può fare per identificare le placche vulnerabili, quelle cioè particolarmente a rischio di complicanza. La sfida per la moderna cardiologia nei prossimi 5-10 anni è proprio rappresentata dalla identificazione di metodiche non invasive che possano distinguere le placche stabili da quelle a rischio, indirizzando quindi verso quest’ultime i maggiori sforzi terapeutici.

Capitolo 47LA VALUTAZIONE DEL RISCHIO CORONARICOSalvatore Novo, Gisella Rita Amoroso, Giuseppina Novo DEFINIZIONE

La probabilità di coronaropatia aumenta in presenza dei fattori di rischio cardiovascolare i quali, se in numero > 1, potenziano il rischio in maniera non additiva ma esponenziale. Un fattore di rischio è tale se trial prospettici su popolazioni numerose hanno dimostrato un’associazione di tipo statistico tra presenza del fattore di rischio e incidenza di nuovi casi di malattia, e se esiste la dimostrazione che correggendo il fattore di rischio si riduce prospetticamente l’incidenza di nuovi casi di malattia. I fattori di rischio possono essere distinti in tradizionali ed emergenti. Per questi ultimi non vi è ancora la possibilità di correzione farmacologica e/o la dimostrazione che correggendo il fattore di rischio diminuiscono i nuovi casi di malattia.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI

Distinguiamo fattori di rischio non modificabile e modificabile, cioè correggibile con modifiche comportamentali o con trattamenti farmacologici. I non modificabili sono l’età, il genere e la familiarità. Tra i modificabili i più importanti sono sicuramente la dislipidemia, l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito e il fumo di sigaretta. Vanno menzionati, come fattori di rischio minori, anche: l’inattività fisica, l’alcool, l’obesità, lo stress, la frequenza cardiaca elevata.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI NON MODIFICABILI

EtàIl rischio di coronaropatia aumenta con l’età, in particolare dopo i 65 anni, essendo la malattia aterosclerotica una patologia cronico-degenerativa. In particolare, con l’età aumenta l’attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e la produzione di radicali tossici dell’ossigeno che favoriscono la disfunzione endoteliale e l’innesco di fenomeni apoptotici.

GenereL’incidenza di coronaropatia è più elevata negli uomini rispetto alle donne in età fertile, in quanto sembra che gli estrogeni svolgano un ruolo protettivo. Dopo la menopausa tale differenza si annulla, poiché la carenza di estrogeni comporta variazioni sfavorevoli dell’assetto lipidico, con aumento delle LDL e riduzione delle HDL, modificazioni dell’emostasi in senso procoagulante e disfunzione endoteliale.

FamiliaritàNumerosi studi epidemiologici hanno evidenziato una predisposizione familiare alla malattia coronarica che sarebbe determinata dall’interazione tra ereditarietà a carattere poligenico e fattori ambientali. Si considera a rischio un individuo in cui un familiare di primo grado abbia presentato un evento coronarico ad un’età < 55 anni se uomo e < 60 anni se donna.

FATTORI DI RISCHIO TRADIZIONALI MODIFICABILI

DislipidemiaElevati livelli di colesterolo totale si associano ad un’aumentata incidenza di malattia aterosclerotica, mentre una loro riduzione mediante dieta e/o terapia farmacologica, rallenta la progressione della stessa e favorisce la stabilizzazione delle placche. Particolarmente importante è il riscontro di elevati livelli di colesterolo-LDL, essendo queste lipoproteine ricche in colesterolo e capaci di infiltrare la parete vasale, quando ossidate (vedi Capitolo 46). Il colesterolo LDL si può calcolare semplicemente applicando la formula di Friedewald: LDL-C = CT – HDL-C – TG/5. Elevati livelli di trigliceridi sono anche un fattore di rischio; infatti, spesso si associano al diabete o alla sindrome da resistenza insulinica, e sono in grado di ridurre la fibrinolisi attraverso un’inibizione dell’attivatore del plasminogeno. Le lipoproteine HDL, invece, riescono a mobilizzare il colesterolo dagli ateromi trasportandolo al fegato per la metabolizzazione; inoltre, esplicherebbero azioni protettive quali l’inibizione dell’adesione dei monociti

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all’endotelio, la riduzione della proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’induzione della vasodilatazione endotelio-mediata e l’inibizione dell’ossidazione delle LDL. Pertanto, elevati livelli di HDL-C esplicano un’azione protettiva, mentre bassi livelli di HDL-C sono un fattore di rischio. Per qualunque livello di colesterolo totale o LDL il rischio aumenta se contemporaneamente vi sono bassi livelli di HDL-C.Soltanto l’esercizio fisico e il consumo moderato di vino rosso aumentano il livello di HDL-C, mentre l’obesità e il fumo lo riducono.

DiabeteIl diabete costituisce un importante fattore di rischio, tanto che è stato considerato dalle Linee Guida una condizione di “cardiopatia ischemica equivalente”. Nel paziente diabetico coesistono in genere multipli fattori di rischio, essendo comuni l’obesità viscerale, alterazioni del metabolismo lipidico, con elevazione dei trigliceridi, riduzione di HDL-C e presenza di LDL piccole e dense, aumento dei radicali liberi dannosi per l’endotelio, iperaggregabilità piastrinica e iperfibrinogenemia.Nel paziente con diabete la riserva coronarica è spesso diminuita, e la malattia coronarica è severa e plurivasale, con lesioni prevalentemente distali, tali da rendere difficoltoso sia l’approccio interventistico che quello chirurgico. I pazienti diabetici hanno anche un maggiore rischio di sviluppare insufficienza cardiaca a causa della cardiomiopatia diabetica.

Ipertensione arteriosaMolti studi epidemiologici hanno dimostrato l’inequivocabile correlazione lineare tra ipertensione arteriosa e malattie cardiovascolari, in particolare ictus cerebrale e infarto del miocardio. Da un lato l’ipertensione favorisce la disfunzione endoteliale attraverso l’aumento dello shear-stress, dall’altro si associa spesso ad elevati livelli di angiotensina II, che esercita un’azione vasocostrittrice e proinfiammatoria e stimola la proliferazione delle cellule muscolari lisce.

Fumo di sigarettaIl fumo aumenta il rischio di cardiopatia ischemica, proporzionalmente con il numero di sigarette fumate e gli anni di fumo; sembra che anche il fumo passivo sia un fattore di rischio.La nicotina attiva il sistema simpatico adrenergico con conseguente aumento della frequenza cardiaca, del lavoro cardiaco, della pressione arteriosa e possibile riduzione del flusso coronarico per vasocostrizione. Il monossido di carbonio agisce con un meccanismo tossico diretto sull’endotelio che diventa più permeabile alle lipoproteine, e provoca ipossia relativa secondaria all’aumento della carbossiemoglobina. Il fumo, inoltre, aumenta l’aggregabilità piastrinica e la viscosità ematica.I benefici della cessazione del fumo sono già evidenti dal primo anno, e dopo circa tre-cinque anni, il rischio relativo dell’ex-fumatore diviene simile a quello del non fumatore.

ObesitàL’obesità, e soprattutto l’accumulo di grasso viscerale, si associano a dislipidemia e resistenza insulinica, con livelli elevati di trigliceridi, bassi di HDL-C e ridotta tolleranza al glucosio; tale cluster di fattori di rischio è comunemente indicato come sindrome metabolica.

Inattività fisicaI più importanti studi epidemiologici hanno dimostrato che la vita sedentaria e la mancanza di attività fisica regolare costituiscono un fattore di rischio. Viceversa, l’attività fisica svolta con regolarità riduce significativamente il rischio cardiovascolare, sia in prevenzione primaria sia in prevenzione secondaria. Essa determina una riduzione della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa sotto sforzo, e quindi del consumo di ossigeno del miocardio; favorisce, inoltre, l’aumento del colesterolo HDL, la riduzione dei trigliceridi, della glicemia (nel diabete) e dell'obesità, e diminuisce l'aggregabilità piastrinica.

AlcoolRecenti studi hanno messo in evidenza un possibile ruolo dell’abuso di alcool come fattore di rischio cardiovascolare. Al contrario, un uso controllato e limitato di vino rosso, sembra favorire l’aumento del colesterolo HDL e svolgere azione antiossidante grazie alla presenza di polifenoli e rosveratrolo.

Frequenza CardiacaNegli ultimi anni è stato dimostrato un ruolo dell’incremento della frequenza cardiaca e della riduzione della sua variabilità, anche in soggetti sani, nel predire eventi patologici cardiovascolari.

Pattern comportamentaleNumerose osservazioni hanno evidenziato che una particolare condizione comportamentale, definita come personalità di “tipo A” e caratterizzata da atteggiamenti caratteriali quali fretta, impazienza, eccessiva competitività ed ostilità verso l'ambiente sociale, lavorativo e familiare, possa aumentare il rischio coronarico. Il meccanismo imputabile è verosimilmente un’aumentata reattività cardiovascolare secondaria ad una maggiore liberazione di catecolamine e all’ipercortisolemia. Tuttavia, in tali soggetti il rischio aumenterebbe solamente quando non si realizzino gli obiettivi prefissati.

FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI

Sindrome MetabolicaLa sindrome metabolica è costituita da una combinazione di fattori di rischio che, coesistendo, conferiscono un rischio elevato di sviluppare cardiopatia ischemica. Esistono diverse classificazioni della malattia: secondo

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quella del NECP-ATP III la sindrome è definita dalla coesistenza di almeno tre dei seguenti fattori di rischio: 1) circonferenza vita > 102 cm nell’uomo e di 88 cm nella donna, 2) trigliceridemia =150 mg/dL, HDL-C < 40 mg/dL nell’uomo e < 50 mg/L nella donna, 3) pressione arteriosa = 130/85mmHg, 4) glicemia a digiuno = 100 mg%. La prevalenza della sindrome metabolica aumenta con l’età con maggiore frequenza nel sesso maschile fino a 45 anni di età e successivamente nel sesso femminile. Infiammazione Recenti studi, hanno dimostrato che le lesioni aterosclerotiche sono il frutto di un processo infiammatorio cronico, e che la stessa flogosi contribuisce alla rottura e/o all’erosione della placca predisponendo allo sviluppo di una sindrome coronarica acuta (vedi Capitolo 46). Alcune noxae (LDL ossidate, ipertensione, fumo, diabete, agenti infettivi, etc.) sono in grado di alterare la funzione dell’endotelio inducendo la produzione di citochine proinfiammatorie (IL1, TNFalfa, IL6, sCD40L, etc.) e rendendolo suscettibile all’infiltrazione di lipidi e cellule infiammatorie. Queste amplificano il processo infiammatorio producendo altre citochine, fattori di crescita e fattori chemiotattici. Più una placca è ricca di lipidi e cellule infiammatorie (in particolare macrofagi in grado di produrre proteasi capaci di lisare il cappuccio fibroso, come le metalloproteinasi) più è incline alla rottura e quindi all’insorgenza di una sindrome coronarica acuta (SCA). In tal senso l’infiammazione costituisce un fattore di rischio. La PCR, una proteina di fase acuta prodotta a livello epatico, è il marker di flogosi più ampiamente studiato anche perchè essa é dosabile nel sangue periferico in maniera semplice e poco dispendiosa. I livelli plasmatici di PCR (ultrasensibile = hsPCR) costituiscono un marker di rischio in pazienti asintomatici con fattori di rischio e un predittore prognostico in pazienti con angina instabile e SCA. La PCR è in grado di attivare il complemento e di indurre l’espressione di tissue factor, quindi di attivare la cascata coagulativa.Esiste anche un’associazione forte fra livelli di fibrinogeno ed eventi cardiovascolari. Il fibrinogeno aumenta la viscosità ematica, incrementa la trombogenicità del sangue ed esalta l’aggregazione piastrinica favorendo la trombosi e, infine, incrementa la formazione di fibrina portando conseguentemente ad un aumento delle dimensioni dei trombi e ad una riduzione della loro suscettibilità alla lisi. IperomocisteinemiaL’omocisteina è un composto intermedio del metabolismo della metionina. L’assenza genetica dell’enzima metilentetraidrofolatoreduttasi (MTHFR) che trasforma l’omocisteina in metionina rappresenta una delle cause di iperomocisteinemia e si associa ad aterosclerosi accelerata ed a trombosi arteriosa e venosa. L’omocisteina sembrerebbe indurre il danno vascolare interferendo con la produzione di ossido nitrico da parte dell’endotelio, e con la funzione piastrinica e incrementando la tendenza alla trombosi. Tuttavia, gli studi di intervento finora condotti non sono stati in grado di dimostrare che riducendo le concentrazioni di omocisteina si riducano gli eventi cardiovascolari.

MicroalbuminuriaIl termine microalbuminuria indica l’aumento subclinico dell’escrezione urinaria di albumina, con valori di compresi tra 30 e 300 mg/24 h, in assenza di macroproteinuria e di nefropatia conclamata. L’aumento della permeabilità dei capillari glomerulari favorirebbe il passaggio transmembrana di albumina ma anche di lipoproteine aterogene nella parete vascolare, e sarebbe un indice di disfunzione endoteliale. La microalbuminuria rappresenta un marker di danno vascolare globale utile principalmente nella stratificazione del rischio di pazienti diabetici e ipertesi.

Infezioni Vi sono evidenze che alcuni microrganismi come cytomegalovirus, herpes virus, chlamydia pneumoniae, helicobacter pylori (in particolare, il ceppo citotossici), possano contribuire all’insorgenza della malattia aterosclerotica, nonché rendere instabili le placche aterosclerotiche, agendo come noxae sull’endotelio. L’incremento del titolo anticorpale verso tali patogeni è stato utilizzato come predittore di eventi cardiovascolari futuri in pazienti con infarto acuto del miocardio. L’ipotesi infettiva dell’aterosclerosi resta tuttavia ancora controversa e i trial finora condotti con antibiotici non hanno dato alcun risultato significativo nel ridurre gli eventi cardiovascolari.

MARKER STRUMENTALI DI DANNO VASCOLARE PRECLINICO

Nella stratificazione del rischio coronarico oltre alla valutazione dei fattori di rischio è utile la ricerca di segni di aterosclerosi preclinica, oggi possibile mediante lo studio ultrasonografico delle arterie carotidi, la misurazione dell’Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI) e la valutazione non invasiva della funzione endoteliale.

Ispessimento Intima-Media (IMT) e Placca Asintomatica Carotidea Diversi studi epidemiologici hanno dimostrato un’associazione tra l’incremento dello spessore medio-intimale carotideo (IMT) o la presenza di placche aterosclerotiche asintomatiche (PCA) delle carotidi e l’incidenza di malattia cerebro- e cardiovascolare (ictus ed infarto miocardico) nella popolazione generale (vedi Capitolo 54).

Indice di Pressione Caviglia-Braccio (ABI)Normalmente misurando la pressione arteriosa sistolica alla caviglia (tibiale posteriore) o alla tibiale anteriore e rapportandola alla pressione sistolica brachiale il rapporto è > 1. Se tale rapporto è < 0.9 questo significa che il paziente è portatore di aterosclerosi preclinica a livello dell’albero arterioso iliaco-femoro-popliteo (vedi Capitolo 12). Numerosi studi epidemiologici hanno evidenziato che una riduzione dell’ABI è associato ad aterosclerosi in altri distretti (coronarie e carotidi) ed a futuri eventi cerebro- e cardiovascolari.

Disfunzione Endoteliale La disfunzione endoteliale rappresenta il primum movens nella patogenesi dell’aterosclerosi (vedi Capitolo 48). La disfunzione endoteliale può essere dimostrata dalla vasocostrizione conseguente all’iniezione intrarteriosa di

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acetilcolina, in arteria brachiale o durante angiografia coronarica. Invece, se l’endotelio è integro, tale sostanza provoca vasodilatazione stimolando la liberazione di Nitrossido (NO) da parte dell’endotelio. Recentemente è stata messa a punto una tecnica non invasiva per lo studio la valutazione della funzione endoteliale attraverso lo studio della dilatazione flusso mediata (FMD) dell’arteria brachiale con tecnica ultrasonografica. Pazienti con scarsa FMD hanno un’alta probabilità di sviluppare eventi cardiovascolari rispetto a quei soggetti con normale FMD. Tale risultato evidenzia, infatti, una carente sintesi di ossido nitrico (NO) da parte dell’NO sintetasi endoteliale, fattore cruciale della disfunzione endoteliale.

RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE E CARTE DEL RISCHIO

Il rischio cardiovascolare è un processo complesso, influenzato da fattori genetici, ambientali, sociali e culturali. Pertanto, al fine di valutarlo in maniera obiettiva si è reso necessario introdurre il concetto di Rischio Cardiovascolare Globale (RCVG) e formulare le carte del rischio. Queste, mediante algoritmi e/o sistemi a punteggio che valutano una serie di parametri, consentono di stimare il rischio di eventi cardiovascolari nei successivi 10 anni. La prima carta del rischio è stata quella di Framingham, che si basa sul calcolo del risk score ottenuto dalla somma del punteggio attribuito ai singoli fattori di rischio presenti. La carta europea del rischio utilizza per il calcolo una mappa di mortalità cardiovascolare a codifica di colore e distingue in Europa 2 zone, una ad alto ed una a basso rischio, di cui fa parte l’Italia. Per stimare il rischio di presentare un evento cardiovascolare maggiore a 10 anni, l'Istituto Superiore di Sanità ha elaborato una carta italiana (Progetto Cuore), che distingue 4 categorie di soggetti: uomo diabetico (Figura 1), uomo non diabetico (Figura 2), donna diabetica (Figura 3), donna non diabetica (Figura 4), in cui il rischio è attribuito in base alla presenza o meno, e al valore crescente, di: età, genere, diabete, abitudine al fumo, valori di pressione arteriosa sistolica e colesterolemia. Il RCVG è calcolabile per uomini e donne esenti da precedenti eventi cardiovascolari, di età compresa fra 40 e 69 anni. Il livello di rischio a 10 anni è distinto in: < 5%; tra 5 e 10%; tra 10 e 15%; tra 15 e 20%; tra 20 e 30%; > 30%. La stratificazione del rischio coronarico non costituisce un mero calcolo matematico, ma ha delle ovvie implicazioni di ordine pratico nella prevenzione di eventi cardiovascolari (Tabella I).

PREVENZIONE PRIMARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Per prevenzione primaria s’intende la messa in atto di una strategia d’intervento sulla popolazione mirata a prevenire un evento mai manifestatosi in precedenza. Il fulcro della prevenzione primaria è la correzione dei fattori di rischio ovvero l'abolizione dell'abitudine al fumo, la dieta alimentare (ridurre l'assunzione di zuccheri semplici, di alcool, di proteine animali, di sale e di colesterolo, prediligendo gli acidi grassi insaturi), il controllo del peso corporeo, l’attività fisica regolare, il trattamento dell’ipertensione, delle dislipidemie e dell’iperglicemia. I pazienti ipertesi ad alto rischio dovrebbero mirare a raggiungere una pressione arteriosa < 130/80 mm Hg, mentre valori < 140/90 mm Hg sono accettabili per l’ipertensione non complicata. Inoltre, se il rischio globale è > 20% va istituito un trattamento farmacologico dell’ipercolesterolemia anche lieve.Nella Tabella II sono riportati i target raccomandabili per il colesterolo-LDL, per categoria di rischio, secondo le Linee Guida NCEP-ATP III e le indicazioni ad instaurare una terapia.Per quanto riguarda le HDL-C il valore desiderabile dovrebbe essere > 40 mg/dl per gli uomini e > 50 mg/dl per le donne, per i trigliceridi < 150 mg/dl.Le modificazioni dello stile di vita prima discusse comportano un aumento del 10-20% dei livelli plasmatici delle HDL-C ed una riduzione dei trigliceridi. Nelle ipertrigliceridemie elevate > 500 mg/dl, l’intervento farrmacologico è necessario. Nel paziente diabetico, per il rischio particolarmente elevato è fondamentale l'ottimale controllo glicemico e lo stretto controllo di tutti i concomitanti fattori di rischio.

Prevenzione nei pazienti a rischio intermedio, con aterosclerosi preclinicaI soggetti con almeno 2 fattori di rischio, i quali secondo il Progetto Cuore hanno un rischio intermedio, in realtà se coesistono segni strumentali di aterosclerosi preclinica (IMT > 1 mm o PCA, o ABI < 0.9 o ridotta FMD) si collocano ad un livello di rischio molto più elevato. Tali soggetti necessitano di una strategia di prevenzione più aggressiva e di misure farmacologiche anche se in tal senso il consenso non è ancora unanime.

PREVENZIONE SECONDARIA DELLA CARDIOPATIA ISCHEMICA

Per prevenzione secondaria si intende l’attuazione di una strategia terapeutica in soggetti che hanno avuto un evento cardiovascolare. Si basa sull’interazione tra modifiche dello stile di vita ed uso ragionato dei farmaci. Numerosi studi clinici hanno dimostrato l'utilità delle statine sia per il controllo dell'assetto lipidico sia per gli effetti di stabilizzazione sulla placca. Nel controllo dei valori pressori vanno considerati di prima scelta gli ACE-inibitori, i sartani e i beta-bloccanti; questi ultimi hanno effetto cardioprotettivo, riducono il consumo di ossigeno e la mortalità. Inoltre, un ruolo fondamentale è svolto dai farmaci antitrombotici, in particolare dall’acido acetilsalicilico, che assunto con dosaggio da 75 a 325 mg/die riduce del 33% il rischio di reinfarto e del 25% la mortalità.

Capitolo 48LE FUNZIONI DELL'ENDOTELIOMarika Massaro, Egeria Scoditti, Maria Annunziata Carluccio, Raffaele De Caterina L’ENDOTELIO VASCOLARE: DAL CONCETTO DI “CONTENITORE PER LA CIRCOLAZIONE” A QUELLO DI “CONTROLLO DELL’ OMEOSTASI VASCOLARE”

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I vasi sanguigni giocano un ruolo chiave nel mantenimento dell’omeostasi cellulare e della fisiologia d’organo. Essi infatti permettono al sangue di circolare ininterrottamente attraverso tutte le parti dell’organismo, e così assicurano sia la distribuzione capillare dei nutrienti e dell’ossigeno sia la rimozione dei cataboliti e degli xenobiotici da tutti gli organi e dai tessuti. William Harvey fu il primo a descrivere, agli inizi del quindicesimo secolo, i principi fondamentali della circolazione del sangue. Egli rimase talmente impressionato dalla sua complessità da affermare nel suo libro “Exercitatio Anatomica de Motu Cordis et Sanguinis in Animalibus” che sentiva quasi “che il moto del cuore e del sangue potesse essere compreso realmente solo da Dio”. Gli esperimenti di Harvey confermavano i principi secondo i quali il sangue rifluiva e circolava nel sistema vascolare, un’idea già presente nelle convinzioni di Galeno quindici secoli prima e che era stata successivamente sviluppata da Andrea Cesalpino nella seconda metà del ‘500. Da Cisalpino infatti per la prima volta il moto del sangue fu definito “circulatio” e fu puntualizzato che il cuore, e non il fegato, costituiva il centro del movimento. Ma la genialità della concezione di Harvey fu quella di considerare, per la prima volta nella storia della medicina, la circolazione da un punto di vista “meccanico e dinamico”. Egli tuttavia non riuscì a stabilire quale fosse il punto di unione tra sistema arterioso e venoso ossia come il sangue passa dalle arterie alle vene. Quindi, il suo “circolo” anatomico restò “aperto” almeno fino a quando Marcello Malpighi non rivelò, nel 1661, che arterie e vene erano collegate da una finissima rete di capillari, un’osservazione tanto importante da essere considerata la seconda maggiore scoperta, dopo quella di Harvey, della medicina vascolare. Il passo successivo nella caratterizzazione strutturale e funzionale dei vasi sanguigni, fu ad opera di von Recklinghausen, il quale, nel 1861 dimostrò che i vasi sanguigni non sono delle semplici strutture di conduzione che si affondano inerti nei tessuti, ma sono costituiti, e internamente ricoperti, da organizzazioni cellulari vitali. Altrettanto importanti acquisizioni furono ottenute verso la fine dello stesso secolo da Starling, il quale attraverso la formulazione delle leggi sulla “meccanica degli scambi capillari” (1896) dell’apprezzò l’endotelio come una “barriera selettiva”. Tuttavia è stato solo con gli studi di microscopia elettronica condotti da Palade nella metà degli anni ‘50 e con quelli di fisiologia cellulare condotti da Gowans poco anni dopo che si è dimostrata la possibilità di un’interazioni fisica fra linfociti e cellule endoteliali e quindi si è sancito in via definitiva il ruolo “attivo” giocato dall’endotelio nella fisiologia vascolare. Altra tappa fondamentale nella storia della biologia vascolare è stata la scoperta nel 1976 ad opera di Moncada e Vane, della prostaciclina (PGI2), per la cui importanza biologica Vane è stato insignito del premio Nobel nel 1982. Infine, nel 1980, Furchgott e Zawadzki hanno dimostrato in vitro che il rilassamento arterioso in risposta all’acetilcolina era subordinato alla produzione, da parte delle cellule endoteliali, di un “fattore” poi identificato da Moncada come nitrossido (NO), e per il quale riconoscimento Furchgott è stato insignito del premio Nobel nel 1987. Questa importante osservazione è stata la scintilla per l’esplosione di nuova serie di conoscenze tutte concordanti nell’indicare che l’endotelio svolge un ruolo chiave nell’assicurare la flessibilità funzionale dell’albero vascolare. Gli innumerevoli studi che da allora si sono succeduti hanno infatti permesso la caratterizzazione dell’endotelio vascolare come l’organo a più ampia diffusione, eterogeneità e dinamicità dell’organismo umano espletando funzioni vitali di carattere sintetico, secretorio, metabolico ed immunologico. Queste funzioni, come si apprezzerà nei paragrafi successivi, appaiono costantemente volte al mantenimento dell’omeostasi vascolare: in condizioni fisiologiche le cellule endoteliali garantiscono l’integrità vascolare attraverso una modulazione funzionale della liberazione di vari fattori vasoattivi, mentre negli stati patologici questa flessibilità, e dunque le potenzialità omeostatiche dell’endotelio, diminuiscono a favore di un’attività specifica che prende il sopravvento (Figura 1).

RUOLO DELL’ENDOTELIO NELL’OMEOSTASI VASCOLARE

Le cellule endoteliali svolgono un ruolo importante in molti processi fisiologici ed eseguono una grande quantità di funzioni, come la regolazione del trasporto di acqua e di soluti, la regolazione delle reazioni immunologiche ed infiammatorie, il mantenimento della fluidità del sangue nonché la regolazione del calibro dei vasi sanguigni nelle diverse condizioni emodinamiche od ormonali. Per la loro strategica localizzazione anatomica, tra il sangue circolante e la muscolatura liscia, le cellule endoteliali hanno la capacità di percepire variazioni emodinamiche (come le forze di shear stress e di pressione) e chimiche (ormoni, sostanze liberate dalle piastrine e peptidi prodotti localmente), e di rispondere a tutti questi stimoli con la produzione di molti fattori biologicamente attivi. Tali fattori includono il nitrossido (NO), la prostaciclina (PGI2) e il fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale (endothelium-derived hyperpolarizing factor, EDHF), ma anche sostanze con effetti opposti, ad azione vasocostrittrice, pro-aggregante e pro-mitogena, come il trombossano(TX) A2 la prostaglandina (PG)H2, l'endotelina(ET)-1 e l’angiotensina(Ang) II (Figura 1). E’ per questo motivo che l’endotelio viene considerato uno dei più importanti organi che partecipano all’omeostasi cardiovascolare (Tabella I). Cambiamenti in alcune di queste funzioni indotte da stimoli qualitativamente o quantitativamente anormali possono risultare nell’alterazione localizzata delle proprietà anti-emostatiche, del controllo del tono vascolare, e nell’acquisizione di un fenotipo iperadesivo verso i leucociti circolati o in una produzione aumentata di citochine e fattori di crescita. Queste alterazioni sono collettivamente indicate con il termine di “disfunzione endoteliale”, e poiché sono diverse, con fenotipo spesso diverso (vedi l’endotelio nell’infiammazione acuta contro l’endotelio nell’aterosclerosi), appare appropriato il termine di “disfunzioni”, al plurale. Il termine di “attivazione endoteliale” più specificatamente designa l’insieme delle disfunzioni endoteliali caratterizzate dall’acquisizione, sotto l’influenza di stimuli specifici, di nuove proprietà antigeniche e funzionali che condizionano soprattutto le interazioni dell’endotelio con i leucociti circolanti.

MORFOLOGIA DELLE CELLULE ENDOTELIALI

Morfologicamente le cellule endoteliali si presentano di forma approssimativamente poligonale, appiattite verso l’estremità e leggermente ingrossate al centro in corrispondenza del nucleo cellulare. Esse costituiscono un monostrato dello spessore di 0.2-4 µm che riveste, in maniera ininterrotta, la superficie interna dei vasi. Si stima che l’endotelio possa coprire in media un’area di 5,000 m2 e che la rete vascolare possa svilupparsi su 100,000 km di lunghezza. Inoltre, con un peso totale approssimativo di 1 kg per 6 trilioni di cellule, l’endotelio, rappresenta l’1% dell’intera massa corporea, e per questo motivo può a ben ragione essere considerato fra i più

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“grossi” organi del corpo umano. Sia la forma che l’orientamento delle cellule endoteliali dipendono dall’organizzazione del citoscheletro. In particolare l’orientamento delle cellule endoteliali, tipicamente nella direzione del flusso ematico, dipende dai processi di riorganizzazione cui vanno incontro le fibre di stress in seguito alle sollecitazioni emodinamiche. Tali sollecitazioni sono in grado infatti di determinare la riorganizzazione dei fasci di filamenti di actina ed actinina soprattutto verso la periferia della cellula determinando così l’orientamento cellulare. Marcatori delle cellule endoteliali sono l’enzima di conversione dell’angiotensina (angiotensin converting enzyme, ACE), il fattore di von Willebrand (vWF, immagazzinato nei corpi di Weibel-Palade), i recettori per il fattore di crescita endoteliale (vascular endothelial growth factor receptor, VEGFR) di tipo 1 e di tipo 2, la vascular endothelial (VE)-caderina, la platelet-endothelial cell adhesion molecole(PECAM)-1 (o CD31), la P-selettina, la molecola simil-mucina CD34, e la E-selettina. Tuttavia, mentre la VE-caderina, la E-selettina e i recettori per il VEGF sono marcatori specifici per l’endotelio, l’ACE, il vWF, il CD31, la P-selettina e il CD34 sono presenti anche sui megacariociti, sulle piastrine e su diversi altri tipi cellulari ematopoietici (Figura 2).

LA FUNZIONE DI BARRIERA DELL’ENDOTELIO

Il monostrato endoteliale si presenta strutturalmente molto compatto. Esso infatti mostra degli spazi intercellulari molto ristretti tanto da costituire una barriera altamente selettiva al passaggio di sostanze tra il sangue e i tessuti. Diversi fattori regolano la permeabilità e l’integrità del monostrato endoteliale. Questi includono a) le giunzioni intercellulari, b) alcune proteine di legame espresse sulla superficie cellulare, c) le cariche elettrostatiche della membrana cellulare e d) la struttura e la composizione della membrana basale. Le giunzioni intercellulari sono delle strutture che determinano uno stato di aderenza stretta tra le membrane cellulari appartenenti a due cellule contigue. Esse sono formate da proteine trans-membrana possibilmente legate a proteine citoplasmatiche e/o a proteine del citoscheletro, e costituiscono un sistema così dinamico e reversibile da assicurare entro pochi minuti, attraverso un cambiamento nella propria organizzazione strutturale, il passaggio dei componenti del sangue all’interno dei tessuti. I tre principali tipi di giunzioni intercellulari identificabili in un monostrato endoteliale sono: le giunzioni strette (o tight junctions), le giunzioni comunicanti (o gap junctions) e le giunzioni aderenti (zonulae adherentes) (Figura 3).

Le giunzioni stretteLe giunzioni strette sono quelle che determinano un contatto serrato fra due cellule endoteliali adiacenti, tanto da impedire il passaggio paracellulare dei fluidi e dei soluti. La frequenza delle giunzioni strette varia in relazione al letto vascolare: mentre nelle arterie cerebrali e nelle arterie di grosso calibro la loro frequenza è molto elevata, l’endotelio delle venule postcapillari può addirittura non mostrare alcuna giunzione stretta. Strutturalmente sono costituite da una proteina transmembrana, detta occludina, che sul versante intracellulare si associa con alcune proteine citosoliche a localizzazione periferica come la zonula occludens(ZO)-1 e -2, la cingolina, e la rabl3 le quali, complessivamente, collegano l’occludina al citoscheletro (Figura 3A). Nell’endotelio, in particolare, la ZO-1 si localizza immediatamente al di sotto della membrana plasmatica ed interagisce direttamente con l’occludina, mentre la cingolina e la ZO-2 fanno da ponte tra la ZO-1 e i microfilamenti di actina del citoscheletro (Figura 3A). Studi recenti evidenziano che le giunzioni strette proteggono l’endotelio dallo sviluppo di lesioni aterosclerotiche. E’ stato osservato infatti che il numero delle giunzioni strette aumenta nelle cellule endoteliali in coltura esposte a forze frizionali di tipo laminare. Ciò spiegherebbe quanto avviene in vivo in quelle regioni dell’aorta esposte ad alti livelli di forze frizionali (shear stress) e in cui la deposizione dei lipidi e la formazione delle lesioni aterosclerotiche sono eventi piuttosto rari.

Giunzioni comunicanti Le giunzioni comunicanti o “gap junctions” (sinonimi: nexuses, giunzioni facilitanti intervallate, maculae communicantes) sono costituite da canali transmembrana che connettono i comparti citoplasmatici di cellule adiacenti permettendo uno scambio diretto di ioni e secondi messaggeri. I canali delle giunzioni comunicanti consistono di due emicanali chiamati connessoni ognuno dei quali è costituito da sei unità denominate connessine (Figura 3B). Le connessine fanno capo ad una famiglia multigenica composta da 15 membri, ognuno dei quali esibisce differenti proprietà di permeabilità, di trasporto e d’interazione con gli altri membri della stessa famiglia. Le giunzioni comunicanti costituiscono il mezzo di comunicazione intercellulare d’elezione sia tra tipi cellulari omologhi (comunicazione “omotipica” se ad esempio tali giunzioni sono stabilite fra due cellule endoteliali) che fra tipi cellulari diversi (comunicazione “eterotipica” se ad esempio stabilita fra cellule endoteliali e cellule muscolari lisce o fra cellule endoteliali e leucociti). Questo genere di comunicazione “giunzionale” gioca, ad esempio, un ruolo critico nella coordinazione della migrazione, della replicazione e della successiva organizzazione strutturale delle cellule endoteliali, dei periciti e delle cellule muscolari di supporto durante l’angiogenesi. Inoltre è stato recentemente ipotizzato un loro possibile coinvolgimento nell’aterogenesi, essendo stata osservata un’alterazione nel quadro di espressione delle connessine endoteliali e muscolari sia nelle placche aterosclerotiche umane che nelle lesioni sperimentalmente indotte in animali da laboratorio.

Giunzioni aderenti (zonulae adherentes)Le giunzioni aderenti sono costituite da una serie di proteine transmembrana conosciute con il termine di caderine (Figura 3C). Esse assicurano alle cellule endoteliali il riconoscimento omotipico calcio-dipendente, ed è per questa ragione che molti autori sostengono la loro essenzialità nell’organizzazione dei contatti inter-endoteliali. Le giunzioni aderenti sembrano inoltre giocare un ruolo importante nel controllo della migrazione, della crescita e della differenziazione delle cellule endoteliali. L’endotelio esprime caderine specifiche e non specifiche. Le caderine non specifiche, e quindi presenti in diversi tipi cellulari, includono la N-caderina, la P-caderina e la E-caderina. Il loro ruolo nel mantenimento della struttura endoteliale rimane controverso. Diversamente, la VE-caderina è espressa solo dalle cellule endoteliali tanto da rappresentarne un marker di riconoscimento specifico. Solo recentemente è stata investigata la sua espressione in relazione all’aterosclerosi.

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A questo riguardo è emersa un‘alterazione della sua espressione nelle lesioni aterosclerotiche in corrispondenza delle cellule endoteliali che hanno dato luogo a fenomeni di neovascolarizzazione intraplacca. In particolare, la riduzione dell’espressione della VE-caderina in questi neovasi sembra coincidere con un aumento dell’entrata di cellule immunocompetenti nella matrice intimale circostante le strutture neovascolari. Ciò suggerisce che la disorganizzazione delle interazioni fra le cellule endoteliali entro la neovasculatura può costituire un evento significativo alla base della progressione della malattia aterosclerotica

LA REGOLAZIONE DEL TONO VASCOLARE E DELLA FUNZIONE PIASTRINICA

L’NO: biochimica e funzioniL’NO è il principale vasodilatatore prodotto dalle cellule endoteliali. Esso viene sintetizzato per azione della ossido nitrico sintasi (nitric oxide synthase - NOS), che catalizza l’ossidazione dell’azoto contenuto nella L-arginina, producendo NO e L-citrullina in presenza di NADPH. Una serie di studi di biologia molecolare ha portato all’identificazione di tre distinti geni che codificano tre diverse isoforme dell’enzima NOS: la “NOS di tipo I” o “nNOS”, contenuta nei neuroni e nel muscolo scheletrico; la “NOS di tipo II” o “iNOS”, inducibile in molti tipi cellulari (leucociti, endotelio, cellule muscolari lisce e miociti cardiaci); e la “NOS di tipo III” o “eNOS”, espressa soprattutto nell’endotelio, ma anche dalle piastrine, dai miociti cardiaci e dai neuroni dell’ippocampo. Le tre isoforme enzimatiche condividono molte caratteristiche strutturali e presentano dei meccanismi catalitici largamente sovrapponibili. Ad esempio, richiedono una serie di cofattori e gruppi prostetici per esplicare la loro attività, fra i quali il flavin adenina dinucleotide (FAD), il flavin mononucleotide (FMN), l’eme, la calmodulina (CaM) e la tretraidrobiopterina (BH4). Per la loro attività catalitica sono necessari tre distinti domini, che – a partire dall’estremità C-terminale – sono: un dominio reduttasico, un dominio di legame della CaM, ed un dominio ossigenasico. Il dominio reduttasico accoglie il FAD e l’FMN e trasferisce gli elettroni dal NADPH al dominio ossigenasico. Il dominio ossigenasico catalizza la conversione dall’arginina in citrullina ed NO, e contiene i siti di legame per l’eme, la BH4 e l’arginina.La NOS di tipo II è l’unica isoforma inducibile e calcio-insensibile, dal momento che viene espressa solo dopo attivazione cellulare ed è attiva anche a basse concentrazioni di Ca2+. Questo avviene perché la CaM rimane costantemente legata all’enzima, comportandosi come una sua subunità. La sua espressione può essere indotta in diversi tipi cellulari, primi fra tutti i macrofagi, in seguito a stimolazione con citochine proinfiammatrie come l’interleuchina(IL)-1 ed il fattore di necrosi tumorale(TNF)a. Si tratta dell’isoforma responsabile della produzione massiva di NO che è alla base dell’azione battericida e tumoricida dei macrofagi e dei neutrofili. Le isoforme NOS I e NOS III sono invece espresse costitutivamente, e sono calcio-sensibili, in quanto l’attività basale può essere aumentata dal legame della CaM a seguito dall’aumento dei livelli intracellulari di calcio. Le tre isoforme differiscono per la localizzazione intracellulare: la NOS I nel tessuto nervoso è localizzata nella membrana post-sinaptica, mentre nel muscolo scheletrico è associata con il citoscheletro, tramite un’interazione con il complesso della distrofina; la NOS II, inizialmente ritenuta citoplasmatica, è risultata invece essere associata alla membrana plasmatica, sia pure in modo ancora indefinito; la NOS III, infine, è situata nella membrana plasmatica, in corrispondenza di microdomini altamente specializzati detti “caveole”. Le caveole si presentano come invaginazioni della membrana plasmatica composte essenzialmente da glicosfingolipidi e colesterolo, mentre le principali proteine che ne formano l’impalcatura strutturale sono le “caveoline”, proteine palmitoilate di 20-24 kDa, di cui si conoscono almeno tre isoforme: la caveolina 1, presente in un’ampia varietà di cellule, endotelio compreso; la caveolina 2 espressa principalmente negli adipociti; la caveolina 3 contenuta soprattutto nei muscoli striati, compreso il miocardio. Le caveole svolgono una funzione chiave nella regolazione dell’attività enzimatica. La eNOS infatti lega la caveolina o la CaM in una maniera mutualmente esclusiva: in condizioni basali il legame della eNOS alla caveolina riduce l’attività enzimatica, mentre in condizioni di attivazione cellulare l’aumento dei livelli intracellulari di calcio (in seguito ad esempio a stimolazione con acetilcolina o bradichinina) promuove la dissociazione reversibile della eNOS dalla caveolina e il successivo legame alla CaM che ne determina l’attivazione. La produzione endoteliale di NO è tuttavia regolabile non solo a livello dell’attività enzimatica, ma anche a livello pre- e post-trascrizionale. Gli estrogeni, alcuni componenti delle low density lipoprotein (LDL) come la fosfatidilcolina e lo shear stress inducono l’espressione della eNOS a livello trascrizionale. Diversamente, gli inibitori dell’enzima 3-idrossi-3-metilglutaril-CoA reduttasi, fra i quali la simvastatina, aumentano l’espressione della eNOS prolungando l’emivita del suo messaggero. Infine sono state mostrate forme di modulazione post-traduzionali dovute a meccanismi di interazione proteina-proteina come con le heat shock protein 90 (hsp90), oppure ad eventi di fosforilazione a carico di siti specifici come in ser1177 che aumentano l’attività enzimatica potenziando il flusso di elettroni dal dominio di riduzione a quello ossigenasico.L’NO ha un’emivita approssimativa di 3-5 secondi. Una volta prodotto, esso diffonde facilmente verso le cellule della muscolatura liscia dove, attivando la guanilato ciclasi, determina il rilassamento della muscolatura e la vasodilatazione. L’attivazione della guanilato ciclasi è dovuta al legame dell’NO con l’eme dell’enzima: quest’interazione altera la conformazione dell’eme e disloca il Fe3+ dal piano dell’anello porfirinico. In questa maniera viene rimossa l’inibizione che il ferro esercita sull’enzima, e s’innesca una produzione massiva di guanosin monofosfato ciclico (cGMP) a partire dalla guanosina-5’-trifosfato (GTP). Il cGMP determina il rilassamento muscolare attraverso diversi meccanismi, fra i quali la fosforilazione delle chinasi della catena leggera della miosina (MLCK), che determina la riduzione nei tassi di fosforilazione della miosina e quindi aumenta la stabilità della miosina inattiva, nonché attraverso la riduzione dei livelli intracellulari di calcio. Oltre che in direzione abluminale, le cellule endoteliali liberano NO anche in direzione luminale e quindi, nella circolazione sanguigna. Qui l’NO può venire in contatto con le piastrine e i leucociti circolanti e sortire altrettanti importanti effetti biologici in termini sia di riduzione dell’adesività leucocitaria che dell’adesione e dell’aggregazione piastrinica, sempre secondo meccanismi cGMP-dipendenti.

L’NO nelle malattie cardiovascolariLe alterazioni funzionali della trasduzione del segnale lungo la via biosintetica della L-arginina/NO possono

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svolgere un ruolo importante nella fisiopatologia delle malattie cardiovascolari, in quanto si associano ad una riduzione della vasodilatazione endotelio-dipendente con conseguente riduzione potenziale del flusso ematico locale e ad un ridotto potere antitrombotico e antiaterogeno dell’endotelio. Nell’uomo le coronarie con aterosclerosi presentano una ridotta risposta vasodilatatoria all’acetilcolina rispetto alle arterie normali; anche nei vasi di soggetti ipertesi tale risposta risulta diminuita, ma non è chiaro se questi comportamenti anomali siano primari o secondari alla malattia. Il fatto che questa alterata vasomotilità sia presente anche in coronarie angiograficamente integre ne suggerisce un ruolo primario. Corrispondentemente, in modelli animali di ipercolesterolemia l’inibizione farmacologica della NOS accelera l’aterosclerosi, mentre un’aumentata disponibilità di NO diminuisce o addirittura reverte la formazione delle lesioni aterosclerotiche. Tuttavia sebbene la somministrazione orale di L-arginina in animali ipercolesterolemici abbia generalmente sortito effetti benefici, i risultati nell’uomo sono stati più contrastanti, probabilmente a causa del numero limitato di soggetti arruolati e dei brevi periodi di osservazione cui gli stessi soggetti erano sottoposti.

ProstanoidiIl termine “eicosanoidi” indica diverse famiglie di mediatori lipidici bioattivi, quali le prostaglandine (compresa la prostaciclina), i trombossani, i leucotrieni e gli acidi idrossieicosatetraenoici. Queste sostanze derivano dal metabolismo di acidi grassi poliinsaturi a venti atomi di carbonio, fra i quali il più comune e il più rappresentato è l’acido arachidonico, un componente dei fosfolipidi della membrana plasmatica. La prima tappa nella biosintesi degli eicosanoidi è la liberazione dell’acido arachidonico dalla membrana per azione della fosfolipasi A2 (Figura 4). Una volta liberato, l’acido arachidonico può essere convertito in prodotti ossigenati da distinti sistemi enzimatici, fra i quali le “prostaglandine H sintasi-1 e -2, detti anche cicloossigenasi(COX)-1 e -2, i cui prodotti, raggruppati sotto il termine di prostanoidi, sono tra i più importanti mediatori prodotti dalla parete vasale. Mentre molti tessuti umani esprimono costitutivamente COX-1, tanto da far considerare questa una “housekeeping molecule”, l’espressione di COX-2 è inducibile in risposta a stimolazione con fattori di crescita, promotori tumorali, citochine, lipopolisaccaride batterico (LPS) e trombina. Entrambi gli isoenzimi COX possiedono un’attività cicloossigenasica, responsabile della captazione di due molecole di ossigeno e della ciclizzazione della catena idrocarburica dell’acido arachidonico, e un’attività perossidasica, che catalizza la riduzione del gruppo idroperossido legato al carbonio 15 in gruppo idrossile, essenziale per l’attività biologica. Il prodotto dell’attività cicloosigenasica, la PGH2, ha un’emivita molto breve, dell’ordine dei 5 minuti, e causa vasocostrizione. Esso tuttavia costituisce solo un prodotto intermedio, e infatti subisce un’immediata conversione enzimatica in una prostaglandina(PG) del tipo D2, E2, F2a, o in PGI2, oppure in TXA2, a seconda del tipo di isomerasi/sintasi che opera la trasformazione (Figura 4). Poiché esiste una variazione tessutale nell’espressione delle isomerasi, il profilo dei prostanoidi prodotti varia in maniera tessuto-specifica. I prostanoidi realizzano i loro effetti cellulari previo legame a recettori appartenenti alla superfamiglia dei recettori accoppiati alle proteine G. Nell’endotelio in condizioni basali (di non attivazione), l’azione costitutiva e concertata della COX-1 e della PGI2 sintasi (PGIS) produce PGI2. Questa, attraverso l’attivazione del corrispondente recettore IP presente sulle cellule muscolari lisce e sulle piastrine, causa vasodilatazione e inibisce l’aggregazione piastrinica secondo un meccanismo che prevede l’attivazione della adenilato ciclasi e l’aumento dei livelli intracellulari dell’adenosin monofosfato ciclico (cAMP). Tuttavia, in condizioni proinfiammatorie (attivazione cellulare mediata da citochine e fattori di crescita), l’induzione di COX-2 determina, oltre all’accumulo di PGI2, un aumento significativo nella produzione di PGE2 (e in minor misura di PGD2), anche per effetto della concomitante induzione della PGE sintasi microsomiale (mPGES). Inoltre, le cellule endoteliali sono anche in grado di sintetizzare il TXA2, un prostanoide fino a pochi anni fa ritenuto di esclusiva produzione piastrinica. Altri prodotti endoteliali dell’acido arachidonico sono rappresentati da una nuova classe di biolipidi, noti come isoprostani. Gli isoprostani sono prodotti di perossidazione dell’acido arachidonico e strutturalmente possono essere considerati isomeri delle prostaglandine convenzionali. Pur essendo mediata dai radicali liberi, la produzione di isoprostani nell’endotelio è inibibile dall’indometacina. E’ stato perciò ipotizzato un modello secondo il quale COX-2 contribuisce alla produzione endoteliale di isoprostani non in termini di catalisi enzimatica classica ma attraverso la generazione di specie radicaliche. Il contributo relativo di COX-1 e di COX-2 alla fisiopatologia dell’aterosclerosi rimane ancora molto dibattuto nonostante l’enorme interesse scientifico e la mole di lavoro prodotto. A differenza delle arterie normali che esprimono prevalentemente COX-1, RNA messaggero sia per COX-1 che per COX-2 è stato dimostrato nelle placche aterosclerotiche umane in corrispondenza dei macrofagi, delle cellule muscolari lisce e dell’endotelio. E’ stato ipotizzato che l’induzione di COX-2 in sede lesionale possa contribuire all’instabilizzazione della placca favorendo la digestione del cappuccio fibroso, secondo un meccanismo di accoppiamento funzionale fra COX-2 e la produzione, PGE2-mediata, di metalloproteinasi della matrice(MMP). Inoltre, fenomeni di neoangiogenesi intraplacca sono stati riconosciuti essere criticamente implicati nella crescita e nella instabilizzazione delle placche aterosclerotiche umane. Poiché diverse linee di evidenze sperimentali indicano un ruolo proangiogenico dei prodotti enzimatici di COX-2, e poiché è stato osservato che COX-2, la MMP di tipo 9, e la “membrane type-1 MMP” colocalizzano nelle cellule endoteliali dei vasa vasorum di aorte aterosclerotiche umane, si ipotizza che la produzione di prostaglandine COX-2-mediata possa contribuire alla crescita e all’instabilizzazione della placca aterosclerotica anche attraverso l’induzione e il mantenimento dei processi di neoangiogenesi.

L’ EDHFGià nei primi anni ’80 diverse linee di evidenza cominciavano a indicare che la vasodilatazione endotelio-dipendente non poteva essere spiegata esclusivamente con la produzione endoteliale di PGI2 ed NO. Infatti, soprattutto nelle arterie di resistenza, l’inibizione farmacologica o il silenziamento genico delle NOS, con e senza inibizione della produzione di PGI2, non riusciva ad inibire completamente il vasorilassamento endotelio-dipendente indotto sia in risposta a stimoli chimici (acetilcolina e bradichinina) che meccanici (shear stress). Si constatò in seguito che tale attività vasorilassante residua implicava l’iperpolarizzazione delle cellule muscolari lisce (oltre che dello stesso endotelio), indipendentemente dall’aumento dei livelli intracellulari di nucleotidi

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ciclici. Per queste ragioni si sospettò l’esistenza di quello che fu denominato “fattore iperpolarizzante di derivazione endoteliale”(o endothelium-derived hyperpolarizing factor, EDHF), e s’ipotizzo che l’EDHF avrebbe potuto sortire i suoi effetti inducendo, direttamente o indirettamente, l’apertura dei canali del potassio sulle cellule muscolari lisce oppure determinando l’iperpolarizzazione delle cellule endoteliali che sarebbe stata, a sua volta, trasmessa alle cellule muscolari lisce da un’accoppiamento elettrico tra i due tipi cellulari. Rimangono tutt’ora aperte molte questioni, prima fra tutte quella dell’identità chimica dell’EDHF. Si ritiene che l’eterogeneità tessutale e di specie comporti l’esistenza di forme diverse di EDHF, tanto che fino ad ora sono stati proposti almeno quattro candidati. Evidenze ben documentate propongono un ruolo per i prodotti dell’acido arachidonico ottenuti attraverso la via dell’epossigenasi P450, ossia degli acidi epossieicosatetraenoici (EET), che almeno in alcuni letti vascolari funzionano come EDHF. Ciò è basato sull’osservazione che, a seguito di un’adeguata stimolazione recettoriale, gli EET sarebbero sintetizzati e liberati dall’endotelio e diffonderebbero verso le cellule muscolari lisce nelle quali indurrebbero l’iperpolarizzazione in seguito all’apertura dei canali del potassio ad alta conduttanza (BKCa). Una seconda candidatura è stata proposta per un altro prodotto dell’acido arachidonico, ossia per il cannabinoide endogeno anandamide. L’anandamide infatti, attivando i recettori dei cannabinoidi sia nelle cellule endoteliali che nelle cellule muscolari, induce iperpolarizzazione e vasorilassamento. Una terza ipotesi riconosce gli ioni potassio (K+) come possibili EDHF. E’ stato ipotizzato, infatti, che un’adeguata stimolazione dei recettori endoteliali possa attivare l’apertura dei canali del potassio a bassa e media conduttanza (SKCa e IKCa) nelle cellule endoteliali, che porterebbe alla liberazione di K+ e quindi all’aumento del K+ extracellulare. Questo, a sua volta, indurrebbe l’iperpolarizzazione e il rilassamento delle cellule muscolari attivando i canali del K+ di tipo rettificante in entrata (KIR) e la Na+ -K+ -ATPasi. Una quarta ipotesi, quella oggi più accreditata, riconosce nelle giunzioni comunicanti mio-endoteliali la struttura essenziale alla base dell’attività vasodilatatoria endotelio-dipendente mediata dall’EDHF. Il numero di queste giunzioni eterocellulari infatti aumenta con la diminuzione del diamentro dell’arteria, osservazione che coincide con la prevalente attività dell’EDHF nei vasi di minori dimensioni. Si ritiene che questi meccanismi non siano mutualmente esclusivi, ma anzi possano realizzarsi simultaneamente o sequenzialmente così da determinare un effetto additivo o sinergico. Gli effetti biologici dell’EDHF sono ridotti nella malattia vascolare aterosclerotica associata all’invecchiamento e dall’ipercolesterolemia. Perciò è stato suggerito che una diminuizione della produzione di EDHF possa essere responsabile, almeno in parte, delle alterazioni della risposta vascolare nell’aterosclerosi.

Endoteline In netto contrasto con tutte le sostanze descritte fino ad ora, le endoteline (ET) sono dei potenti vasocostrittori. Si tratta di polipeptidi strettamente affini alla safratossina (componente tossico di alcuni veleni di serpente) e prodotti da diversi tessuti in tre forme: l‘ET-l, l’ET-2 e l’ET-3. Le cellule endoteliali producono solo l’ET-l, che è stata isolata per la prima volta, nel 1988, proprio dal mezzo condizionato di cellule endoteliali di aorta porcina. L’ET-1 deriva da un precursore a 203 residui amminoacidici, detto pre-pro-endotelina, che viene processato in successione per essere definitivamente convertito, in una reazione catalizzata dall’enzima di conversione dell’endotelina (ECE), nella forma biologicamente attiva a 21 aminoacidi. In natura esistono diverse isoforme dell’ECE, fra le quali la ECE-la, la ECE-lb e la ECE-2, ma le cellule endoteliali esprimono esclusivamente l’isoenzima-1a. Il 75% della produzione endoteliale di ET-1 diffonde abluminalmente verso le cellule muscolari lisce, mentre il restante 25% è liberato nel lume vasale, cosicché bassi livelli di ET-1 sono misurabili nel plasma anche in soggetti sani. L’ET-1 realizza i suoi effetti biologici attraverso la stimolazione di specifici recettori accoppiati alle proteine G, noti come recettori di tipo A (ETA) e di tipo B (ETB). Le cellule muscolari lisce esprimono soprattutto il recettore ETA e solo scarsamente il recettore ETB. La stimolazione di entrambi i recettori induce vasocostrizione attraverso due differenti meccanismi: aumento dell’influsso di calcio e attivazione della fosfolipasi C e della fosfolipasi A2. Gli stessi recettori ETB sono espressi anche dalle cellule endoteliali, nelle quali la loro stimolazione induce la produzione e la liberazione di NO e PGI2, allo scopo di ripristinare il normale tono vascolare. Un’alterata produzione endoteliale di ET-1 caratterizza gli stati di disfunzione endoteliale legati alla malattia aterosclerotica. In accordo con questo, molti dei fattori associati allo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche, come le citochine infiammatorie e le LDL ossidate, inducono la produzione endoteliale di ET-l. Inoltre l’aumento nella produzione e nell’espressione di ET-1 nelle placche aterosclerotiche umane ne conferma un potenziale ruolo patogenetico. Si ipotizza inoltre che l’ET-1 possa contribuire allo sviluppo dell’aterosclerosi non solo inducendo perturbazioni del flusso ematico, ma anche stimolando la proliferazione delle cellule muscolari lisce, l’espressione endoteliale delle molecole di adesione e la chemiotassi dei leucociti circolanti.

Il sistema renina-angiotensina nell’endotelioIl sistema renina-angiotensina è un complesso apparato enzimatico-ormonale deputato alla regolazione a lungo termine del bilancio idro-salino, della pressione sanguigna e del volume dei liquidi extra-cellulari. In condizioni fisologiche, il sistema viene attivato quando si verifica ipovolemia o una caduta di pressione (ad esempio in seguito ad un’emorragia). In queste condizioni, la diminuita perfusione dell’apparato iuxtaglomerulare dei reni stimola le cellule iuxtaglomerulari a liberare un enzima, la renina (che può anche essere liberata dai vasi sanguigni in seguito ad insulto meccanico o di altra natura), che converte un peptide inattivo di derivazione epatica, l’angiotensinogeno, in angiotensina (Ang) I; questo peptide viene a sua volta convertito in Ang II dall’enzima di conversione dell’angiotensina (angiotensin converting enzyme, ACE) espresso principalmente dai capillari polmonari e in generale dall’endotelio vascolare. L’Ang II agisce da vasocostrittore, aumentando la pressione sanguigna e stimolando la secrezione di aldosterone, che a sua volta promuove la ritenzione di sodio. Nei vasi sanguigni, l’ACE è localizzato sulla superficie luminale delle cellule endoteliali dove, oltre a convertire l’Ang I in Ang II, degrada e inattiva la bradichinina, aumentando così, con la sua attività, l’effetto vasocostrittorio. Gli effetti biologici dell’Ang II sono generalmente mediati da una classe di recettori che comprende: AT1A, AT1B e AT2. Nelle cellule muscolari lisce, gli effetti di contrazione e di stimolazione della proliferazione cellulare sono mediati esclusivamente da AT1. Moltissime linee di evidenza suggeriscono un

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profondo coinvolgimento del sistema renina-angiotensina nello sviluppo della malattia cardiovascolare. L’accumulo dei lipidi all’interno della parete vascolare aumenta l’espressione di tutti i componenti del sistema renina-angiotensina, con il risultato di un aumento netto nella produzione di Ang II e quindi dei suoi effetti vasocostrittori e pro-mitogeni. Inoltre l’Ang II può modulare, in via diretta, lo sviluppo delle lesioni aterosclerotiche attraverso un effetto pro-infiammatorio sulle cellule endoteliali. Ciò è stato ampiamente dimostrato in vitro dall’induzione, Ang II-mediata, di una serie di molecole di adesione, quali la vascular cell adhesion molecule(VCAM)-1 e la intercellular adhesion molecule(ICAM)-1, caratteristicamente implicate nelle fasi precoci di reclutamento leucocitario che accompagna la formazione della lesione aterosclerotica. Inoltre è stato accertato che questi effetti pro-infiammatori sono mediati dall’attivazione dei recettori endoteliali di tipo AT1, dal momento che il loro blocco farmacologico previene ogni effetto pro-infiammatorio dell’AngII.

RUOLO DELL’ENDOTELIO NEL CONTROLLO DELL’EMOSTASI

L’endotelio gioca un ruolo chiave nel controllo dell’emostasi, influenzando la funzionalità piastrinica, la coagulazione e la fibrinolisi. In condizioni normali l’endotelio possiede proprietà anti-piastriniche, anti-coagulanti e pro-fibrinolitiche; l’instaurazione di uno stato disfunzionale è caratterizzato dallo spostamento della bilancia emostatica da uno stato anti-trombotico verso un franco stato pro-trombotico (Figura 1, Figura 6).

Controllo della funzionalità piastrinicaIn condizioni normali le piastrine circolanti non interagiscono con l’endotelio vascolare sia a causa della liberazione costitutiva di NO e PGI2 da parte dell’endotelio, sia per l’espressione endoteliale, anch’essa costitutiva, dell’enzima anti-piastrinico noto come ecto-ADPasi/CD39. L’NO, oltre ad esplicare un potente effetto vasodilatatorio, inibisce l’adesione, l’attivazione e l’aggregazione piastrinica attraverso diversi meccanismi. Esso induce l’aumento dei livelli intrapiastrinici di cGMP, inibisce l’espressione della P-selettina, previene l’aumento intrapiastrinico di calcio, e promuove la disaggregazione piastrinica inibendo l’attività della fosfatidil-inositolo 3-chinasi. Anche la PGI2, oltre a regolare il tono vascolare, inibisce fortemente l’aggregazione piastrinica, attraverso l’attivazione dei recettori IP presenti sulle piastrine e il successivo aumento dei livelli di cAMP.Altra attività anti-piastrinica messa in atto dall’endotelio normale è quella che fa capo all’espressione della ecto-nucleasi di membrana conosciuta come ecto-ADPasi/CD39. L’ADP, interagendo con il recettore piastrinico P2Y12, funziona da potente attivatore delle piastrine. La ecto-ADPasi endoteliale, essendo una ATP-difosfoidrolasi, metabolizza efficientemente l’ADP in AMP, contribuendo in tal modo al mantenimento delle piastrine in una condizione basale di non attivazione.

Proprietà anticoagulanti dell’endotelioLa coagulazione del sangue è il risultato di una serie di processi che possono realizzarsi all’interno o all’esterno di un vaso sanguigno, e che portano alla formazione di un coagulo o un di trombo. Pur essendo il processo di coagulazione unico, è possibile distinguere una forma fisiologica, detta emostasi, che avviene all’esterno di un vaso e conduce alla riparazione di una ferita, e una forma patologica, detta trombosi, consistente nella formazione di una massa solida nelle cavità cardiache o vascolari, e che può portare a conseguenze cliniche anche gravi. In entrambe le situazioni, la stabilizzazione dell’aggregato piastrinico primario è subordinata alla formazione e alla deposizione di un reticolo polimerico di fibrina. La fibrina deriva dalla scissione del fibrinogeno ad opera della trombina, una serin-proteasi che oltre all’attivazione del fibrinogeno contribuisce all’attivazione di diversi altri enzimi e cofattori della cascata coagulativa (Figura 5). Non è sorprendente quindi che diverse “vie di contro-regolazione” si siano evolute per contrastare fisiologicamente la generazione eccessiva di trombina. In questo senso l’endotelio gioca un ruolo di primo piano, orchestrando almeno tre meccanismi anti-coagulanti: a) il sistema eparina-antitrombina; b) il sistema di inibizione della via del fattore tessutale; c) il sistema anticoagulante della trombomodulina-proteina C. La matrice extracellulare a contatto con l’endotelio è particolarmente ricca di eparansolfati e glicosamminoglicani di derivazione endoteliale, molecole che promuovono l’attivita dell’anti-tromina(AT). Questo complesso inattiva la trombina, il fattore VIIa legato al fattore tessutale (TF), il fattore X e Xa (Figura 5). L’espressione degli eparansolfati e dei glicosaminoglicani da parte dell’endotelio è ridotta in condizioni pro-infiammatorie. L’endotelio previene la formazione di trombina anche attraverso la produzione dell’inibitore della via del TF (tissue factor pathway inhibitor, TFPI), il quale lega e inattiva il fattore Xa in un complesso quaternario costituito da TF/VIIa/Xa/TFPI (Figura 5). Sia la produzione di TFPI che di AT sono alterate negli stati protrombotici che accompagnano le complicanze cliniche su base aterosclerotica. La trombomodulina è una proteina di 74 kDa sintetizzata dalle cellule endoteliali, ed espressa sulla superficie luminale delle stesse a livello dei capillari, delle arterie, delle vene, e dei vasi linfatici. E’ stato stimato che le cellule endoteliali della vena del cordone ombelicale possono esprimere fino a 50,000 molecole di trombomodulina per cellula. Quando la trombina viene legata dalla trombomodulina (Figura 5), essa perde le sue proprietà procoagulanti e il complesso diviene un potente attivatore della proteina C, proteina a funzione anticoagulante prodotta e liberata dal fegato fino al raggiungimento di una concentrazione plasmatica di 4 µg/mL. Il tasso di attivazione della proteina C è più alto quando essa si lega, in maniera reversibile (KD ˜ 30 nM), al rispettivo recettore espresso dalle endoteliali noto come “recettore endoteliale della proteina C” (EPCR). Una volta attivata, la proteina C (ora “activated protein C”, APC), mantiene la sua affinità di legame per ECPR, ma questo complesso non sembra più possedere attività anticoagulante. L’APC infatti, quando si dissocia da ECPR, forma un complesso con la proteina S, una molecola sintetizzata nel fegato e nelle cellule endoteliali, catalizzando l’inattivazione dei fattori Va e VIIIa (Figura 5). Il TNFa riduce l’espressione della trombomodulina inibendo la trascrizione del suo RNA messaggero e favorendo la degradazione della proteina matura nei lisosomi. Il riscontro di una ridotta espressione in pazienti con angina instabile ha fatto ipotizzare un ruolo per la proteina S nello sviluppo della malattia vascolare. Proprietà procoagulanti dell’endotelioIl passaggio chiave nella trasformazione dell’endotelio da una superficie anti-coagulante ad una pro-coagulante consiste nell’espressione del TF. Il TF è una glicoproteina di 263 residui aminoacidici strutturati in un dominio

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extracellulare di 219 residui, in una singola sequenza trans-membrana e in un corto dominio intracitoplasmatico. Poiché il TF catalizza l’attivazione della via estrinseca della coagulazione (Figura 5), in condizioni normali esso non è espresso. Esso invece risulta sovraespresso in corrispondenza di molte lesioni aterosclerotiche, e ciò giustificherebbe l’elevata trombogenicità di alcune placche. Corrispondentemente, l’espressione del TF è inducibile in vitro in risposta a diversi fattori pro-aterogeni, fra i quali le LDL ossidate, lo shear stress, le IL1a e ß, il TNFa, oltre che dall’attivazione del recettore del CD40 da parte di linfociti T e di piastrine esprimenti il corrispondente ligando (CD40 ligando). Le cellule endoteliali possono anche liberare il TF nel plasma, e questo avviene attraverso l’immissione del TF all’interno di strutture microparticellari. Infine le cellule endoteliali contribuiscono agli eventi coagulativi esprimendo sulla propria superficie i recettori per la fibrina e per i suoi prodotti di degradazione.

Controllo della fibrinolisiLa fibrinolisi è il processo mediante il quale il reticolo di fibrina viene dissolto dalla plasmina così da evitare la persistenza del coagulo e/o la formazione di trombi. La fibrinolisi ha inizio con la trasformazione del plasminogeno in plasmina per azione degli attivatori del plasminogeno come il tissue-type plasminogen activator (tPA) o l’urokinase-type plasminogen activator (uPA). Sebbene inizialmente si ritenesse che la produzione e la secrezione di tPA fosse propria di tutte le cellule endoteliali, studi più recenti condotti in vivo hanno dimostrato la produzione di tPA solo in alcune sotto-popolazioni di cellule endoteliali microvascolari. Analogamente, l’uPA non viene prodotto in condizioni basali, ma solo dopo stimolazione con plasmina. L’endotelio è anche in grado di produrre gli inibitori dell’attivatore del plasminogeno (plasminogen activator inhibitor, PAI). Sebbene il fegato rappresenti la maggiore sorgente di PAI, l’esposizione a diversi stimoli pro-infiammatori stimola le cellule endoteliali a produrre abbondanti quantità di PAI indipendentemente dal distretto tissutale di appartenenza. Infine il legame della trombina alla trombomodulina determina l’attivazione di una proteasi conosciuta come “inibitore della fibrinolisi attivabile dalla trombina” (thrombin-activatable fibrinolysis inhibitor, TAFI). Il TAFI è una carbossipeptidasi in grado di scindere i residui carbossiterminali della fibrina. Ciò risulta in una perdita dei siti di legame per il t-PA, con conseguente rallentamento del processo fibrinolitico.

DANNO ENDOTELIALE E LESIONE ATEROSCLEROTICA

Le lesioni aterosclerotiche hanno origine in punti critici della circolazione sanguigna, principalmente nei punti di diramazione di collaterali, nelle biforcazioni e sul lato convesso di arterie curve, dove gli shear stress, cioè le forze frizionali messe in gioco dallo scorrimento del sangue contro una parete vascolare ferma, sono bassi od oscillanti. Tali condizioni circolatorie probabilmente favoriscono sia il trasporto passivo di componenti del sangue arterioso nella parete vascolare che l’espressione di componenti della matrice (proteoglicani ricchi in condroitina), altamente ritensivi verso le LDL, che così vengono intrappolate nel sotto-endotelio. Le lesioni aterosclerotiche avanzate, come abitualmente osservate nell’adulto, prendono aspetti assai diversi e variegati, riflettendo stadi diversi dell’evoluzione delle placche e probabilmente storie naturali diverse tra placche diverse. A fronte di questa notevole varietà di aspetti “tardivi”, il primo stadio di sviluppo della placca aterosclerotica è ritenuto essere una lesione precoce denominata “stria lipidica”. Questo tipo di lesione è il primo a comparire nei modelli di aterosclerosi da ipercolesterolemia in diverse specie animali, compreso quello della scimmia con ipercolesterolemia moderata, il modello animale sicuramente più vicino alla patologia aterosclerotica umana, ed è stato riscontrato nelle coronarie del 50% di adolescenti tra i 10 e i 14 anni, venuti all’osservazione autoptica. La stria lipidica è un’area di ispessimento intimale focale, determinato dall’accumulo di macrofagi carichi di lipidi (cellule schiumose), circondato da una matrice extracellulare e da un numero variabile di linfociti. Molti considerano questa lesione reversibile, ma il consenso attuale è che la stria lipidica, benché potenzialmente reversibile, proceda invariabilmente verso lesioni più avanzate. Placche aterosclerotiche si sviluppano negli stessi siti dell’albero vascolare dove si localizzano inizialmente le strie lipidiche. Per questi motivi, l’origine dell’aterosclerosi può essere ragionevolmente ricondotta alla patogenesi della stria lipidica. Oggi è generalmente accettato che l’inizio dell’aterosclerosi non richieda un “danno” endoteliale, nella forma di desquamazione focale con denudamento intimale, ma piuttosto l’intero processo sembra avere origine da un insieme meno evidente di alterazioni che non richiedono la perdita fisica dello strato endoteliale. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, in condizioni normali l’endotelio vascolare contribuisce all’omeostasi della parete modificando adattativamente il proprio stato funzionale. Alterazioni delle funzioni endoteliali indotte da stimoli qualitativamente o quantitativamente abnormi possono modificare l’interazione tra componenti cellulari e macromolecolari che agiscono all’interfaccia sangue-parete vascolare. In generale, l’adesione di leucociti all’endotelio viene riscontrata in un gran numero di disturbi infiammatori ed immunologici. Famiglie diverse di proteine, ognuna con una distinta funzione, forniscono “segnali di traffico” per i leucociti. Queste famiglie comprendono: a) le “selettine”, che riconoscono come ligandi i carboidrati sialilati o fucosilati; b) i chemoattrattanti, alcuni dei quali, “classici”, come gli N-formil-peptidi, componenti del complemento, il leucotriene B4 e il platelet-activating factor- PAF-, agiscono ad ampio spettro, su neutrofili, eosinofìli, basofìli e monociti, altri, di più recente caratterizzazione, come la monocyte chemoattractant protein-1 (MCP-1) e l’IL-8 mostrano un’elevata selettività per monociti e linfociti T; c) la superfamiglia delle immunoglobuline endoteliali quali ICAM-l, -2, e -3, e VCAM-1, che riconoscono come ligandi “integrine” sulla superficie leucocitaria.Mentre le selettine mediano il legame iniziale dei leucociti all’endotelio, rallentandone la corsa e provocando il loro “rotolamento” sulla superficie endoteliale, il legame più tenace dei leucociti all’endotelio richiede l’interazione dei ligandi integrinici sulla superficie leucocitaria con immunoglobuline endoteliali quali VCAM-1 e ICAM-1. ICAM-1, il cui ligando coniugato integrinico leucocitario è la molecola CD11/CD18, è costitutivamente espressa a bassi livelli sulla superficie delle cellule endoteliali non stimolate, ma in seguito alla stimolazione con citochine infiammatorie quali l’IL-1, il TNFa e l’interferone(IFN)-( la sua espressione aumenta notevolmente. Il suo picco di espressione viene raggiunto dopo sei ore dalla stimolazione e rimane costante per almeno 72 h. L’espressione di ICAM-1 è regolata soprattutto a livello trascrizionale. Diverse sequenze induttrici sono state riconosciute nel promotore di ICAM-1, fra le quali siti di legame per nuclear factor(NF)- B, Spl, l’activator

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protein(AP)-1, elementi responsivi all’acido retinoico e C/EBP. VCAM-1 sembra giocare un ruolo chiave nel reclutamento leucocitario dell’aterosclerosi, in quanto media specificatamente l’adesione dei monociti, dei linfociti e dei basofili all’endotelio attivato, ma non l’adesione dei neutrofili. Noti induttori di VCAM-1 comprendono citochine come il TNFa, e l’IL-1, le LDL modificate e i prodotti di glicazione avanzata del diabete (advanced glycation endproducts, AGE). In maniera simile a quella di ICAM-1, la regolazione trascrizionale di VCAM-1 richiede l’attivazione di NF- B e AP-1. La recente osservazione di un ridotto numero di lesioni aterosclerotiche in topi geneticamente predisposti allo sviluppo dell’aterosclerosi, ma esprimenti un forma ipofunzionale di VCAM-1, ha fornito una forte evidenza a sostegno del ruolo causale di VCAM-1 nell’aterogenesi precoce. La fase finale di emigrazione dei leucociti attraverso l’endotelio implica invece un ruolo più attivo per la PECAM-1. Questa molecola è normalmente localizzata in corrispondenza delle giunzioni intercellulari, dove interazioni omodimeriche legano due cellule endoteliali adiacenti (Figura 2, Figura 6). Poiché PECAM-1 è anche espressa sulla superficie dei leucociti, la rottura del dimero endoteliale PECAM-1/PECAM-1 a favore della formazione di un nuovo dimero fra leucocita emigrante e la cellula endoteliale costituisce l’evento alla base della diapedesi dei leucociti, Tuttavia il ruolo patogenetico di PECAM-1 nell’aterogenesi è ancora incerto poiché non si osservano modificazioni significative della sua espressione in corrispondenza delle placche aterosclerotiche umane o in topi geneticamente predisposti allo sviluppo dell’aterosclerosi.

Ruolo del fattore di trascrizione NF- B nella disfunzione endotelialeL'espressione genica delle molecole di adesione endotelio-leucociti come VCAM-1, ICAM-1 e di alcuni chemoattrattanti endoteliali solubili quali MCP-1 e IL-8, è aumentata di parecchie volte in risposta ai diversi mediatori molecolari del rischio cardiovascolare, come le LDL modificate, gli AGE o le citochine infiammatorie IL-1 e il TNFa. Le cellule endoteliali a riposo, non attivate, esprimono quantità trascurabili o assai basse di tali molecole, con l’eccezione di ICAM-1. Poiché la maggior parte delle molecole di adesione non viene espressa in condizioni basali, l’attivazione richiede evidentemente l’inizio di una trascrizione del corrispondente gene. Inoltre l’espressione delle diverse molecole di adesione procede simultaneamente all’espressione dei fattori endoteliali solubili. Dunque è necessario che avvenga un’attivazione concertata di tali geni, e ciò è reso possibile dall’attivazione di uno o di pochi fattori di trascrizione, tra cui NF- B. Quest’ultimo, in particolare, ha ricevuto un’attenzione crescente negli ultimi anni come denominatore comune dell’attivazione endoteliale, legato causalmente all’espressione delle molecole di adesione. Sequenze nucleotidiche capaci di legare specificamente fattori NF- B-simili sono stati identificati in molti geni, tra cui quelli delle molecole di adesione inducibili e delle citochine solubili. Il sistema NF- B comprende una famiglia di fattori di trascrizione originariamente identificati nelle cellule B e poi scoperti essere ubiquitariamente espressi oltre che filogeneticamente conservati, essendo stati riconosciuti anche in Drosophila. I membri di questa famiglia comprendono: p65 (RelA), RelB, c-Rel, NF- B1 (p50), e NF- B2 (p52), come pure le loro subunità inibitorie I Ba, I Bß, e I B(. Le subunità di NF- B formano complessi sia omo- che etero-dimerici, il più comune dei quali è l’eterodimenro p65/p50 che si lega alla sequenza consensus decamerica GGGRNNTYCC (R=G o A, Y=C o T, N un qualsiasi nucleotide), così inducendo l’espressione dei geni bersaglio. Normalmente tale dimero è sequestrato nel citoplasma in forma inattiva attraverso l’interazione con la subunità inibitrice. Sotto l’influenza di diversi stimoli fisiopatologici, tra i quali TNFa, IL-1, lipopolisaccardide batterico (LPS), AGE, alta concentrazione di glucosio, shear stress, LDL ossidate e ischemia/riperfusione, si assiste alla degradazione proteolitica di I B e alla conseguente migrazione di NF- B nel nucleo, dove NF- B attiva una varietà di geni implicati nell’attivazione endoteliale. Una peculiarità di NF- B è rappresentata dalla natura rapida e transitoria della sua attivazione che lo rende ben adatto a regolare l’espressione di quei geni che necessitano di essere espressi “su domanda” e per un periodo di tempo limitato. Indipendentemente dallo stimolo, l’attivazione di NF- B può essere inibita dal trattamento con antiossidanti o chelanti dei metalli. Per questo motivo è stato suggerito che l’attivazione di NF-

B possa essere stimolata da modificazioni nel bilancio redox cellulare.Il sistema NF- B è quindi una potenziale via comune per coordinare l’espressione di un gran numero di geni implicati nell’attivazione e nella disfunzione endoteliale come VCAM-1, E-selettina, IL-1, IL-6, IL-8, TF, PAI-1, COX-2, e iNOS. Questo concetto è supportato dal fatto che l’attivazione di NF- B risulta ben evidente nelle lesioni aterosclerotiche umane ed animali.

CONCLUSIONI

E’ stato ormai definitivamente accettato che l’endotelio non costituisce una semplice barriera di separazione statica tra sangue e tessuti, ma svolge un ruolo attivo nel mantenimento dell’omeostasi vascolare. Attraverso la secrezione di una serie di molecole specifiche, le cellule endoteliali assicurano l’appropriata regolazione del flusso ematico, prevengono l’attivazione delle piastrine e gli eventi indiscriminati di coagulazione. In condizioni normali, ad esempio, le cellule endoteliali rispondono a stimoli diversi modificando dinamicamente le proprie proprietà funzionali a sostegno della crescita dei vasi o della loro riparazione, o per guidare la risoluzione di un processo. Queste alterazione transitorie del fenotipo endoteliale terminano di solito con la ristabilizzazione dell’omeostasi vascolare. Tuttavia in certe condizioni patologiche, come nell’aterosclerosi, in cui il comportamento delle cellule endoteliali è cronicamente perturbato, le alterazioni della fisiologia endoteliale assumono una connotazione patologica e dànno l’avvio allo sviluppo della malattia. Negli ultimi vent’anni l’esplorazione della biologia endoteliale ha caratterizzato dal punto di vista cellulare e molecolare le funzioni dell’endotelio, compresi i meccanismi alla base delle sue modificazioni funzionali acute e croniche. Tutti gli sforzi fatti per comprendere le caratteristiche fisiologiche dell’endotelio, i meccanismi che sottendono i cambiamenti a lungo termine e la possibilità di correggerli certamente costituiscono la migliore via, e forse l’unica, per la scoperta di nuove strategie terapeutiche per il trattamento di condizioni patologiche in cui la disfunzione endoteliale gioca un ruolo patogenetico di primo piano.

Sezione XIV. Cuore Polmonare ed Embolia Polmonare

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Capitolo 49IL CUORE POLMONARE CRONICOCesare Fiorentini, Piergiuseppe Agostoni, Elisabetta Doria DEFINIZIONE

Si definisce “cuore polmonare” la dilatazione e/o l’ipertrofia del ventricolo destro per aumento del postcarico dovuto a malattie dei polmoni, della parete toracica, dei vasi polmonari o dei centri del controllo della ventilazione. Sono escluse dalla definizione di cuore polmonare le patologie del cuore destro dovute a cardiopatie congenite o a malattie del cuore sinistro.

FISIOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

La circolazione polmonare è interposta tra il ritorno venoso sistemico e l’atrio sinistro; oltre a rivestire un ruolo chiave negli scambi dei gas, il circolo polmonare concorre alla regolazione biochimica, termica ed umorale del sangue. In condizioni normali, la forza che guida il sangue attraverso il polmone dipende in ugual misura dal ventricolo destro e dalla respirazione. La funzione di pompa del ventricolo destro, tuttavia, diviene rilevante solo in condizioni patologiche. In alcune procedure cardiochirurgiche (ad esempio l’intervento di Fontan), infatti, si esegue un by-pass del ventricolo destro, mettendo in comunicazione diretta l’atrio destro con l’arteria polmonare, senza che il ritorno venoso al cuore sinistro venga compromesso; ciò dimostra come la circolazione polmonare possa avvenire normalmente anche senza il contributo del ventricolo destro. La caratteristica principale del circolo polmonare è che le pressioni sono basse. Per generare ed aumentare il flusso del sangue occorre superare la pressione di apertura dei vasi, reclutare progressivamente nuovi vasi e dilatare quelli già aperti. La relazione tra la pressione guida (differenza tra pressione arteriosa polmonare media e pressione atriale sinistra) e il flusso, perciò, è curvilinea e non origina dallo zero degli assi cartesiani (Figura 1). La resistenza vascolare è la relazione tra pressione e flusso. Nel circolo polmonare si misura la resistenza vascolare arteriolare, con la formula seguente:

e la resistenza vascolare totale, la cui formula è:

In entrambi i casi si assume una relazione pressione/flusso lineare, assunto del tutto erroneo. Per esempio, nella Figura 1 (pannello A) i punti 1 e 2 sono sulla stessa curva pressione/flusso (curva isoresistenza) ma su differenti resistenze calcolate, mentre i punti 1 e 2 del pannello B hanno la stessa resistenza calcolata ma sono su curve pressione/flusso diverse. Per calcolare veramente la resistenza vascolare polmonare, perciò, occorre costruire la relazione misurando almeno 3 punti identificati da pressione e flusso. Questo può essere fatto modificando la portata cardiaca con variazioni della postura o con l’esercizio fisico. La pressione polmonare a catetere incuneato o “wedge” si misura occludendo con la punta del catetere un ramo periferico dell’ arteria polmonare. Quella che si registra è la pressione del punto più lontano dal catetere in cui vi è ripresa di flusso (Figura 2). L’occlusione in A legge la pressione in B mentre l’occlusione in C legge la pressione in D. In clinica, però, non siamo in grado di percepire la differenza tra la pressione ottenuta occludendo A o C. La distribuzione del flusso di sangue nel polmone è funzione del rapporto tra pressione arteriosa polmonare, pressione venosa polmonare e pressione alveolare. Le camere del cuore destro sono cavità ad alta compliance, che possono accettare grandi volumi di sangue con piccole variazioni di pressione. Il sistema va “in crisi” in presenza di ipertensione polmonare, che si definisce presente se la pressione polmonare media è, a riposo e a livello del mare, > 20 mm Hg.

FISIOPATOLOGIA DEL CUORE POLMONARE CRONICO

Il ventricolo destro assume un ruolo molto importante in presenza di malattie del polmone o del circolo polmonare. In un cuore normale, la portata cardiaca comincia a ridursi quando la pressione polmonare sistolica è 30-40 mm Hg. Il ventricolo destro non è in grado di tollerare pressioni di 60-80 mm Hg, ma se il sovraccarico di pressione si instaura gradualmente, il ventricolo si ipertrofizza e si dilata, riuscendo a mantenenere pressioni molto più alte, in alcuni casi addirittura superiori a quelle del ventricolo sinistro. Ci può essere ipertensione polmonare in caso di: a) malattie cardiache congenite, b) malattie a carico del cuore sinistro (atrio, valvola mitrale, ventricolo, valvola aortica), c) malattie respiratorie, e d) malattie che interessano il circolo polmonare. Per definizione solo le condizioni c e d possono essere causa di cuore-polmonare.

Vasocostrizione ipossicaIn presenza di ipossia alveolare, i vasi che portano sangue agli alveoli interessati dalla ipossia si costringono. Se localizzato, questo è un meccanismo di difesa utile perché riduce la perfusione di alveoli poco efficienti, favorendo la perfusione di alveoli normossici. Se il fenomeno è generalizzato, o comunque interessa una grossa parte del polmone, si sviluppa ipertensione polmonare ipossica. Questa permette di reclutare nuovi vasi polmonari ma, se la portata si mantiene, fa aumentare il lavoro del ventricolo destro. L’ipossia alveolare può

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essere acuta (apnee del sonno), subacuta (ARDS, edema polmonare da alta quota) o cronica (patologia polmonare, della parete toracica o del controllo della ventilazione). In presenza di ipossia cronica, le arterie polmonari sviluppano uno strato muscolare che aumenta progressivamente, in rapporto alla durata ed all’entità dell’ipossia alveolare. Esistono fattori che aumentano la risposta ipertensiva all’ipossia alveolare, quali l’aumento della PaCO2, l’aumento dell’ematocrito che incrementa la viscosità del sangue, l’aumento o la riduzione importante del volume polmonare ed, infine, la riduzione anatomica o funzionale del letto vascolare polmonare. Bisogna ricordare che la resistenza vascolare polmonare dipende dal volume polmonare: per i vasi alveolari aumenta con l’aumento del volume polmonare, mentre per i vasi extra-alveolari si riduce con l’aumento del volume polmonare. La somma dà la effettiva resistenza vascolare alla capacità funzionale residua (Figura 3). Episodi di ipossia alveolare, come quelli associati alle apnee notturne, possono causare o concorrere a causare cuore polmonare. Un esempio classico di questo è il cuore polmonare della sindrome di Pickwick (obesità, sonnolenza, policitemia) o quello dei “russatori” per alcool, bronchite cronica, obesità. L’ipossia alveolare cronica si sviluppa in corso di ipoventilazione alveolare e si associa ad ipercapnia. Le cause includono enfisema, fibrosi polmonare, patologia polmonare restrittiva e bronchite cronica.

Restringimento meccanico dei vasiLe modificazioni dei volumi polmonari hanno un ruolo importante nella genesi dell’ ipertensione polmonare. In presenza di malattia polmonare ostruttiva, il volume del polmone aumenta. Inoltre si può sviluppare il fenomeno del “air-trapping” per l’insufficiente flusso espiratorio. Se la ventilazione aumenta, questo fenomeno diviene sempre più rilevante con zone di polmone che per l’insufficiente espirazione sono ad alta pressione e comprimono i vasi. In questo caso, per mantenere il flusso deve esserci un ulteriore aumento della pressione vascolare. Anche la riduzione del volume polmonare si associa ad aumento della resistenza vascolare polmonare (Figura 3).

Sovraccarico pressorio attorno al cuore destroIl cuore è circondato in gran parte dal polmone. Nel cuore polmonare la rigidità del polmone è significativamente aumentata, e ciò aumenta il lavoro esterno, quello soprattutto del ventricolo destro, le cui pareti sono sottili e meno potenti di quelle del ventricolo sinistro. Il movimento del cuore in sistole e diastole è a maggiore costo energetico in presenza di polmone rigido.

Aumento della portata cardiacaL’ ipossia alveolare riduce il contenuto arterioso di ossigeno. Questa riduzione è compensata da un aumento dell’emoglobina e dall’aumento della portata cardiaca. Quest’ultima è un ulteriore elemento di sovraccarico per il cuore destro.

QUADRO CLINICO

Non ci sono sintomi specifici di dilatazione e/o ipertrofia del ventricolo destro, ma il quadro clinico è dominato dalla malattia che causa il sovraccarico ventricolare. In presenza di scompenso del cuore destro si ha un aumento della pressione venosa sistemica, da cui dipendono edemi declivi, turgore giugulare, epatomegalia ed ascite. Le sindromi che possono essere alla base del cuore polmonare cronico sono: a) malattia polmonare ostruttiva, b) malattia polmonare restrittiva, c) malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva) e d) malattie vascolari polmonari.

Malattia polmonare ostruttivaIl quadro clinico è quello del fumatore, con frequenti episodi di bronchite soprattutto nei mesi invernali. Il paziente riferisce a volte sintomi correlati all’incremento della CO2, quali confusione mentale e disorientamento. I segni più frequenti sono quelli legati all’aumento della pressione venosa (turgore giugulare, epatomegalia, edemi declivi) e quelli dipendenti dall’ipossia, come la cianosi labiale e delle estremità; è quasi sempre presente tachicardia sinusale e non di rado fibrillazione atriale. La radiografia del torace dimostra un cuore ingrandito, salienza del secondo arco di sinistra per dilatazione dell’arteria polmonare ed aspetto ad albero potato della vascolatura polmonare in periferia. I test di funzione respiratoria dimostrano riduzione di FEV1, FEV1/FVC e capacità vitale, ed aumento consistente del volume residuo. La diffusione alveolo-capillare è ridotta. L’emogasanalisi dimostra ipossiemia e ipercapnia. La somministrazione incongrua di ossigeno può peggiorare il quadro emogasanalitico. L’ECG (ECG 03) mostra ingrandimento dell’atrio destro e ipertrofia ventricolare destra (vedi Capitolo 3). L’ecocardiogramma rivela l’ipertrofia e la dilatazione del ventricolo destro, ed anche l’ipertensione polmonare, valutata con metodica Doppler (Figura 4). La terapia è la sospensione del fumo, la riduzione del rischio di recidiva delle infezioni delle vie aeree e dei polmoni, la riabilitazione respiratoria, l’uso di broncodilatatori e mucolitici, l’impiego congruo di ossigeno . La terapia farmacologia dell’ipertensione polmonare secondaria non ha successo.

Malattia polmonare restrittivaLe malattie restrittive che portano al cuore polmonare cronico hanno prognosi infausta. Si possono riconoscere due gruppi di malattie restrittive: il primo comprende le alveoliti fribrotizzanti, le pneumoconiosi, le malattie della gabbia toracica e del suo apparato neuro-muscolare. Tutte queste malattie portano ad insufficienza ventilatoria con iperventilazione. Il secondo gruppo di malattie restrittive che portano a cuore polmonare è caratterizzato fin dall’ inizio da ipoventilazione. La terapia delle fasi più avanzate è solo il supporto ventilatorio.

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Malattia polmonare mista (ostruttiva e restrittiva)I due quadri possono essere presenti: l’ aspetto clinico più tipico è quello del fumatore obeso.

Malattie vascolari polmonariL’ostruzione o la distruzione del letto vascolare polmonare può causare ipertensione polmonare che, a sua volta, porta a cuore polmonare. In questo caso la pressione polmonare può essere molto elevata, più che nelle forme ipossiche. L’ipertensione polmonare può essere post-embolica, di solito successiva a molti episodi embolici più o meno sintomatici e spesso clinicamente non riconosciuti, oppure causata da vasculopatia per ipertensione polmonare primitiva (vedi Capitolo 51) o associata a varie vasculiti. L’incidenza dell’ipertensione polmonare post-embolica è minore di quanto ci si potrebbe aspettare dal numero di embolie ritrovate all’autopsia: ciò dipende verosimilmente dall’estensione del letto vascolare polmonare e dai potenti meccanismi trombolitici dell’endotelio polmonare.

Capitolo 50L'EMBOLIA POLMONAREGiuseppe Mercuro, Francesco Peliccia DEFINIZIONE ED EPIDEMIOLOGIA

L’embolia polmonare (EP) è l’occlusione acuta del tronco o di un ramo dell’arteria polmonare, che determina un ostacolo allo svuotamento del ventricolo destro e un’interruzione del flusso ematico nel distretto polmonare a valle dell’occlusione. Il grado di compromissione emodinamica e respiratoria dipende dalla dimensione dell’embolo, che può interessare la biforcazione dell’arteria polmonare (embolo a sella) o un suo ramo (Figura 1). L’incidenza dell’EP è dello 0.5-1‰, con un rapido incremento dopo i 60 anni di età. La mortalità per EP è >15% nei primi 3 mesi dalla diagnosi.

EZIOLOGIA

All’origine di un’EP sta, nella quasi totalità dei casi, la mobilizzazione di un trombo venoso dalla sua sede di formazione periferica, usualmente le vene degli arti inferiori: il trombo percorre il circolo venoso refluo, l’atrio ed il ventricolo destro ed embolizza la circolazione arteriosa polmonare. Circa la metà dei pazienti con trombosi venosa profonda (TVP) pelvica o prossimale delle gambe subiscono un’EP, che rimane assai spesso asintomatica. Emboli a partenza dalle vene del polpaccio sono più raramente causa di EP, ma rappresentano la sorgente più probabile di emboli paradossi, che possono raggiungere la circolazione arteriosa sistemica attraverso un forame ovale pervio o un difetto del setto interatriale. L’origine di un trombo dagli arti superiori è possibile a causa dell’utilizzo crescente di cateteri venosi a permanenza per alimentazione parenterale o chemioterapia, nonché di elettrocateteri di pacemaker e defibrillatori cardiaci. Gli stati di ipercoagulabilità che possono causare un’EP, i fattori di rischio e le condizioni cliniche associate che possono favorirla sono gli stessi coinvolti nel determinismo della TVP (v. Capitolo …). Una predisposizione congenita deve essere considerata nei rari casi in cui l’EP colpisce soggetti <40 anni, con storia di ricorrenti TVP o con anamnesi familiare positiva. I difetti genetici più frequentemente in causa sono la resistenza alla proteina C attivata, la mutazione factor II 20210A, l’iperomocisteinemia e le carenze di Antitrombina III, proteina C e proteina S. In una minoranza di casi (<5%) l’embolo non deriva da un trombo, ma è di natura gassosa (posizionamento o rimozione di un catetere centrale), neoplastica, grassosa (trauma o frattura), amniotica o settica.

FISIOPATOLOGIA

Un aumento della resistenza arteriosa polmonare è l’effetto dell’ostruzione del vaso da parte dell’embolo e, in parte, della liberazione di serotonina dalle piastrine del trombo. Sul versante respiratorio si verifica una diminuzione degli scambi gassosi – con ipossiemia nelle forme più gravi – derivante da: a. dissociazione tra ventilazione e perfusione polmonare, con estensione dello spazio morto respiratorio all’area interessata dall’EP; b. shunt di circolo a livello polmonare, per apertura di anastomosi artero-venose; c. ridotta compliance polmonare, dovuta a perdita di surfactante e ad edema alveolare. Il subitaneo innalzamento del postcarico per l’ostruzione vascolare polmonare può produrre dilatazione del ventricolo destro e rigurgito tricuspidale. La dilatazione del ventricolo destro, cui può accompagnarsi aumento dei livelli circolanti di BNP, determina una deviazione del SIV verso sinistra, limitando il riempimento diastolico del ventricolo sinistro. Questo evento, insieme con il ridotto precarico ventricolare sinistro secondario all’insufficienza ventricolare destra può causare diminuzione della gittata sistolica, della pressione arteriosa sistemica e della perfusione coronarica.

QUADRO CLINICO

La dispnea è il sintomo più frequente dell’EP (Tabella I). Un dolore toracico tipico è presente in caso di ischemia miocardica, specie in soggetti con precedente cardiopatia. Altri sintomi comuni sono la tosse, la sincope e l’emottisi. L’esame clinico mostra quasi senza eccezione tachicardia, e a volte distensione delle vene del collo, accentuazione della componente polmonare del II tono e cianosi. E’ utile classificare l’EP in diversi quadri clinici, per attuare la migliore strategia terapeutica e determinare la prognosi.Un’EP massiva interessa almeno la metà del circolo arterioso polmonare, è spesso bilaterale e induce facilmente cianosi, ipotensione arteriosa, sincope e shock cardiogeno. I pazienti con EP da moderata a sub-massiva, che interessa all’incirca 1/3 del circolo polmonare, mostrano una PA normale, che maschera l’instabilità emodinamica del ventricolo destro (ipocinesia, insufficienza

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tricuspidale). Nell’EP lieve un trombo di modeste dimensioni si disloca nella periferia del parenchima polmonare e può interessare il foglietto pleurico con comparsa di dolore pleuritico e tosse. Un infarto polmonare può prodursi in questa sede in capo a 3-7 giorni, associandosi a febbre, leucocitosi, emottisi ed un quadro radiologico tipico. La pressione arteriosa è normale e la funzione del ventricolo destro conservata.

DIAGNOSI

Per giungere alla diagnosi di EP è di grande importanza maturarne il sospetto, sulla base del profilo di rischio, dell’anamnesi e della recente storia clinica. Peculiare dell’EP è la rapida insorgenza dei sintomi, inaspettata rispetto alle preesistenti condizioni cliniche del paziente. Occorre poi integrare questi dati con l’esame fisico e con gli esiti delle indagini di laboratorio e strumentali.

Test clinici e di laboratorio. Il test semi-quantitativo a punti di Wells, rappresentato da 7 domande da porre al paziente (Tabella II), ha un valore diagnostico di esclusione dell’EP quando rivela un punteggio =4.Il dosaggio del D-dimero nel plasma è molto sensibile ma poco specifico, perché esso può aumentare nel decorso post-chirurgico come pure in caso di IMA, sepsi, cancro e patologie sistemiche in generale. Elevatissimo è il suo potere predittivo negativo (>99%): virtualmente, nessun paziente con EP in atto risulta negativo al dosaggio del D-dimero. Elevati valori ematici di biomarker cardiaci, quali troponina e BNP correlano con il grado di compromissione funzionale del ventricolo destro e rappresentano un indice predittivo di eventi e di morte cardiaca. La troponina si libera in presenza di microinfarti; il BNP è secreto dai cardiomiociti in risposta all’aumentato stress di parete. La misura dell’ipossiemia non appare discriminante per la diagnosi di EP poiché non meno del 20% dei pazienti mostra una PaO2 normale. Inoltre, per quanto la maggior parte dei pazienti con EP siano ipocapnici a causa dell’iperventilazione, la differenza in O2 alveolo-arteriosa è normale nel 15-20% dei casi.

Tecniche strumentali e di imaging.Pazienti con EP possono mostrare un ECG del tutto normale, ovvero con manifestazioni di interessamento ventricolare destro (blocco di branca incompleto o completo), un aspetto S1Q3T3 (onda S in D1, onda Q e T invertita in D3), sopraslivellamento di ST in V1-V2 e T negative da V1 a V4 (ECG 50). Inoltre, l’ECG serve ad escludere un infarto miocardico acuto. La radiografia del torace presenta anormalità in non più del 25% dei casi; il reperto più comune è la cardiomegalia. In taluni casi l’esame identifica aspetti patognomonici, quali l’oligoemia zonale, indice di un’EP massiva e centrale, una densità periferica a forma di cuneo, indice di infarto polmonare, o una distensione dell’arteria polmonare discendente destra (Figura 2). L’ecocardiografia transtoracica (ETT) è una tecnica aspecifica, poiché l’esame risulta nella norma in circa la metà dei pazienti con EP. Del resto, l’enorme diffusione e rapidità d’esecuzione dell’ETT, insieme con l’elevata sensibilità nell’apprezzare la dilatazione e la disfunzione del ventricolo destro, la rendono preziosa per la stratificazione del rischio in pazienti con EP già diagnosticata. Segni di EP deducibili con l’ETT sono la rara visualizzazione diretta del trombo, il movimento anormale del setto interventricolare, il rigurgito tricuspidale, la dilatazione dell’arteria polmonare, il mancato collasso inspiratorio della vena cava inferiore. Infine, l’ETT può escludere altre patologie, quali infarto miocardico acuto, dissezione aortica o pericardite.La TC del torace con contrasto e.v. è divenuta il test di imaging elettivo nella maggior parte dei pazienti con fondato sospetto di EP (potere predittivo negativo >99%; (Figura 3). Apparecchi di ultima generazione sono destinati a soppiantare l’angiografia polmonare come gold standard per la diagnosi dell’EP, consentendo l’acquisizione in pochi secondi dell’intero torace con una risoluzione inferiore a 1 mm. D’altra parte, la TC fornisce informazioni dettagliate sulle dimensioni e la funzione del ventricolo destro. La scintigrafia polmonare rappresenta oggi un’indagine di seconda scelta in caso di sospetta EP, mentre è riservata a pazienti in gravidanza, oppure con insufficienza renale o allergia al contrasto. La risonanza magnetica (RM) angiografica utilizza un mezzo di contrasto non nefrotossico e pressoché esente da reazioni allergiche. Sensibilità e specificità diagnostiche sono paragonabili a quelle della TC di prima generazione, consentendo l'identificazione di EP segmentarie. La RM è in grado di valutare anche la funzione del ventricolo destro.

Tecniche invasiveL’angiografia polmonare è idonea a riconoscere emboli di 1–2 mm quali difetti di riempimento vasale intraluminale. Segni secondari di EP sono la netta interruzione di un vaso, l’oligoemia segmentale o una totale mancanza di circolo ed una fase arteriosa prolungata. L’angiografia è riservata ai pazienti con TC non diagnostica o che devono essere sottoposti ad embolectomia transcatetere o trombolisi mirata.

Nella pratica clinica, è auspicabile un approccio diagnostico integrato, esemplificato dal diagramma in Figura 4. Esso prevede a. l’anamnesi indirizzata al profilo di rischio tromboembolico, l’esame fisico e il calcolo dell’indice di Wells; b. un ECG ed una radiografia del torace; c. il dosaggio del D-dimero che, se negativo, esclude l’EP in soggetti con indice di Wells =4; d. la TC o la scintigrafia polmonare, nonché l’ecografia venosa degli arti. In sintesi, l’EP può essere esclusa in pazienti con bassa probabilità clinica e D-dimero negativo, così come in quelli a rischio elevato, ma con TC negativa.Purtroppo, per quanto il test del D-dimero per l’esclusione dell’EP e quello della TC per la sua visualizzazione abbiano nettamente perfezionato la sensibilità diagnostica, l’EP rimane ancora ardua da diagnosticare e quadri di EP sub-massiva o moderata rimangono non riconosciuti in non meno del 50% dei pazienti.

TERAPIA

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Una rapida stratificazione della gravità dell’EP è fondamentale per il corretto inquadramento clinico del paziente e per la scelta della terapia più appropriata. A questo scopo può essere utilizzato l’indice a punti di Ginevra che si basa su parametri anamnestici, clinici e strumentali facilmente ottenibili (Tabella III).Il trattamento dei pazienti con EP può essere farmacologico, interventistico o chirurgico. La scelta tra queste tre strategie dipende sia dalla loro disponibilità sia, soprattutto, dal grado di compromissione clinica e funzionale determinato dall’EP. Supporti terapeutici immediati sono la somministrazione di 02 e la sedazione del dolore toracico con antinfiammatori non-steroidei. In soggetti a basso rischio, con pressione sistemica normale e senza evidenza di disfunzione ventricolare destra, il trattamento è mirato alla prevenzione di ricorrenti EP e/o TVP e si basa sulla sola anticoagulazione. Caposaldo di tale trattamento è l’eparina non frazionata (ENF), la cui somministrazione previene l’ulteriore formazione di trombi e consente alla fibrinolisi endogena di dissolvere il trombo già formato. Una valida alternativa all’ENF è oggi rappresentata dalle eparine a basso peso molecolare, frammenti di eparina con migliore biodisponibilità e più lunga emivita dell’ENF e che, a differenza di questa, non richiedono un monitoraggio della terapia con determinazione del PTT. Insieme all’eparina occorre iniziare la somministrazione di un anticoagulante orale (AO), warfarin o acenocumarolo, il cui pieno effetto si manifesta in genere dopo 5 giorni. L’eparina garantisce l’effetto anticoagulante finché l’AO non abbia prodotto valori di INR superiori a 2 per almeno 2 giorni consecutivi. In seguito, la dose di AO va scelta con l’obiettivo di mantenere l’INR tra 2 e 3. In caso di emorragia in atto, di controindicazione all’uso degli anticoagulanti ovvero di EP ricorrente nonostante l’AO. è possibile ricorrere al posizionamento di un filtro nella vena cava inferiore. Pazienti con EP massiva e shock cardiogeno o portatori di vasta trombosi ileo-femorale, sono candidati alla trombolisi, al fine di ridurre la mortalità e prevenire la ricorrenza di EP. Ciò avviene attraverso la dissoluzione sia del trombo occludente l’arteria polmonare, con rapido miglioramento dello scompenso cardiaco destro, sia dei trombi emboligeni presenti nella periferia del sistema venoso. Quando un’EP massiva determina una grave compromissione delle funzioni cardiorespiratorie, imponendo la ventilazione assistita e il supporto cardiocircolatorio, oppure quando la trombolisi non abbia avuto successo o sia controindicata, è appropriata l’embolectomia, con rimozione meccanica del materiale trombotico dall’arteria polmonare. Questa tecnica è stata eseguita per molti anni solo chirurgicamente, a torace aperto, in arresto di circolo o a cuore battente, costituendo un intervento efficace, ma gravato da una significativa mortalità. Attualmente, è invece possibile l’embolectomia per via percutanea in sala di emodinamica. La procedura non necessita di anestesia generale, richiede solo un accesso venoso, in genere a livello femorale e si esegue con speciali cateteri che frammentano e aspirano il trombo occlusivo.In considerazione della difficoltà di diagnosticare l’EP e di contenere il danno clinico che essa produce, è fondamentale attuare un’efficace prevenzione del tromboembolismo venoso. Occorre diffondere l’opinione che virtualmente tutti i soggetti ospedalizzati sono a rischio di EP e, se del caso, debbono ricevere misure preventive appropriate. Per i pazienti a rischio più elevato la terapia anticoagulante (eparine a basso peso molecolare o AO) ed i presidi meccanici (calze elastiche o compressione pneumatica intermittente) che incrementano il flusso venoso e stimolano la fibrinolisi endogena, rappresentano una profilassi con un rapporto costo/beneficio assai vantaggioso.

Capitolo 51L'IPERTENSIONE POLMONARE PRIMITIVACarmine Dario Vizza, Roberto Badagliacca, Roberto Poscia, Francesco Fedele DEFINIZIONE

L’ ipertensione polmonare viene definita come un aumento della pressione polmonare media superiore a 25 mmHg in condizioni di riposo o di 35 mmHg durante attività fisica. Per cuore polmonare cronico (vedi Capitolo 48) si intendono gli adattamenti morfofunzionali del ventricolo destro che si osservano in corso di ipertensione polmonare, caratterizzati da aumento dello spessore della parete libera, dilatazione della cavità e riduzione della funzione sistolica.

CENNI DI FISIOLOGIA E FISIOPATOLOGIA DEL CIRCOLO POLMONARE

Il circolo polmonare è caratterizzato da alto flusso e basse resistenze: è sufficiente una pressione media di soli 12-15 mmHg per far fluire tutta la portata cardiaca (circa 4-5 litri) attraverso i polmoni. Da un punto di vista emodinamico, dobbiamo distinguere due diverse forme di ipertensione:

ipertensione polmonare precapillare, che coinvolge il circolo polmonare a livello arteriolare, provocando un aumento della pressione solo nell’arteria polmonare;

ipertensione polmonare postcapillare, causata da un aumento delle resistenze a livello venulare o delle sezioni cardiache sinistre (come accade in corso di valvulopatie o miocardiopatie); in questa situazione, l'aumento della pressione in arteria polmonare è necessario per mantenere un normale gradiente transpolmonare.

La distinzione tra queste due condizioni è importante dal punto di vista clinico e terapeutico, poiché:

nella maggioranza dei casi l’ipertensione post-capillare è secondaria ad una disfunzione ventricolare sinistra, ed il trattamento deve riguardare la patologia ventricolare sinistra;

nelle forme precapillari la compromissione cardiaca è prevalente a livello del cuore destro e le cure sono rivolte alla riduzione delle resistenze arteriolari polmonari.

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CLASSIFICAZIONE

Si distinguono 5 forme principali di ipertensione polmonare (Tabella I):

Ipertensione arteriosa polmonare (precapillare)

Ipertensione venosa polmonare (postcapillare)

Ipertensione polmonare secondaria a malattie polmonari (precapillare)

Ipertensione polmonare secondaria a malattie tromboemboliche (precapillare)

Miscellanea

Ipertensione arteriosa polmonare (IAP)In questo gruppo vengono riunite le forme di ipertensione polmonare che hanno caratteristiche simili a quelle dell’ipertensione polmonare primitiva, che nella più recente classificazione viene definita come ipertensione arteriosa polmonare idiopatica. Oltre alla forma idiopatica e familiare, la IAP può essere associata al consumo di anoressizzanti, a malattie del connettivo (sclerodermia, lupus), all'infezione da HIV, all’ipertensione porto-polmonare, alle cardiopatie congenite con iperafflusso polmonare (sindrome di Eisenmenger) (vedi Capitolo 51); rientra in questo gruppo anche l’ipertensione polmonare persistente nel neonato. Tutte queste forme sono caratterizzate da un interessamento quasi esclusivo della componente vascolare del polmone, con ostruzione delle arteriole di piccolo calibro secondaria a proliferazione delle cellule endoteliali e della media ed a fenomeni di trombosi in situ.Ipertensione venosa polmonareE’ una forma di ipertensione polmonare post-capillare, il cui principale meccanismo emodinamico è l’aumento della pressione atriale sinistra (valvuopatie mitraliche) o telediastolica ventricolare sinistra (disfunzione ventricolare secondaria a valvulopatie, cardiopatia ischemica, miocardiopatie etc.. ). In questa situazione la pressione in arteria polmonare aumenta per mantenere il gradiente transpolmonare. Ipertensione polmonare secondaria a patologie parenchimali polmonariE' la forma più frequente di ipertensione polmonare precapillare; interessa prevalentemente pazienti con grave patologia polmonare e insufficienza respiratoria ipossica e ipercapnica (vedi Capitolo 48). Ipertensione polmonare secondaria a tromboembolia cronicaQuesta forma rappresenta l’esito di uno o più episodi embolici polmonari che non si sono risolti in modo completo. L’albero vascolare polmonare è ostruito da formazioni costituite da tessuto fibroso tenacemente aderente all'intima del vaso. L’incidenza di ipertensione polmonare cronica in pazienti con embolia polmonare è variabile tra lo 0,1 e il 3%.

PATOGENESI DELL’IPERTENSIONE ARTERIOSA POLMONARE

L’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica è una sindrome complessa, multifattoriale, in cui esiste una predisposizione genetica che conferisce una particolare “reattività” vascolare polmonare a stimoli di varia natura. Una delle ipotesi patogenetiche più accreditate è che diversi fattori (virus, tossine, fenomeni autoimmunitari, ecc.), agendo su un terreno predisposto geneticamente, possano causare una lesione endoteliale rompendo l’equilibrio tra fattori vasodilatanti/antimitogeni e fattori vasocostrittori/mitogeni a favore di questi ultimi. Si innescherebbe quindi un circolo vizioso caratterizzato da vasocostrizione, proliferazione delle cellule muscolari lisce ed endoteliali ed attivazione della cascata coagulativa, il cui esito è la formazione delle lesioni arteriolari che si osservano in questa malattia.

FISIOPATOLOGIA

Nel corso della malattia si assiste ad un progressivo aumento delle resistenze vascolari, e per mantenere la portata cardiaca il ventricolo destro deve generare pressioni sempre più elevate. La progressione verso l’insufficienza cardiaca dipende dalla capacità del ventricolo destro di mantenere una funzione accettabile a fronte di un continuo aumento delle resistenze vascolari polmonari. L’ipertrofia del ventricolo destro è quasi sempre un meccanismo di compenso non adeguato, per cui si assiste a riduzione della funzione sistolica, dilatazione delle sezioni destre e comparsa di insufficienza tricuspidale e polmonare per dilatazione degli anelli valvolari.Nel corso della malattia si passa da una fase asintomatica o paucisintomatica (la portata cardiaca è normale a riposo, e riesce parzialmente ad incrementarsi durante esercizio fisico) ad una fase sintomatica, con ridotta tolleranza allo sforzo (portata cardiaca normale a riposo, incapacità di aumento sotto sforzo), per arrivare alla fase terminale in cui la portata cardiaca è ridotta anche a riposo.Insieme alle modificazioni della portata si assiste ad un aumento delle pressioni di riempimento ventricolare destro, con la comparsa dei segni di congestione sistemica (turgore delle giugulari, epatomegalia e edemi declivi). Oltre a fattori meccanici (aumento della pressione atriale destra), contribuiscono alla comparsa degli edemi anche fattori neuro-ormonali, come avviene nel corso dell'insufficienza ventricolare sinistra. L'attivazione del sistema renina-angiotensina-aldosterone e dell'endotelina contribuiscono alla ritenzione idro-salina ed alla formazione di edemi.

SINTOMI E SEGNI

I sintomi della ipertensione arteriosa polmonare sono aspecifici e sono riconducibili alla incapacità di aumentare la portata cardiaca durante attività fisica e all’aumento del lavoro respiratorio. Comprendono, in ordine di frequenza, la dispnea (inizialmente da sforzo, nelle forme più gravi a riposo), l’astenia, il dolore precordiale, la lipotimia/sincope. Questo quadro sintomatologico si può associare a segni obiettivi di ingrandimento ventricolare destro, con insufficienza della tricuspide (soffio olostolico sulla margino-sternale sinistra al IV spazio

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intercostale) o suggestivi di ipertensione polmonare (aumento di intensità del II tono sul focolaio della polmonare). Nei casi più avanzati si osserva un quadro di insufficienza ventricolare destra (edemi declivi, turgore delle giugulari, epatomegalia, cianosi).

DIAGNOSI

La diagnosi di ipertensione polmonare è difficile perchè i sintomi sono aspecifici e compaiono solo negli stati avanzati della malattia.Nei soggetti con aumentata probabilità di sviluppare ipertensione arteriosa polmonare (pazienti con malattie del connettivo, con cardiopatie congenite operati e non, con infezione da HIV) il peggioramento della dispnea o dell’astenia, la comparsa di episodi lipotimici/sincopali da sforzo, l’ipertrofia ventricolare destra all’ECG (Figura 1) o la dilatazione dell’arteria polmonare destra alla radiografia del torace (Figura 2) possono far nascere il sospetto di un’ipertensione polmonare. Questo deve essere confermato dall’ecocardiogramma bidimensionale e Doppler, che permette di stimare la pressione sistolica in arteria polmonare attraverso il calcolo della velocità di rigurgito tricuspidale (vedi Capitolo 4) (Figura 3) e di valutare il grado di disfunzione ventricolare destra (Figura 4).Per la diagnosi di ipertensione arteriosa polmonare primitiva è necessario escludere la presenza di:- una pneumopatia significativa (le prove di funzionalità respiratoria permettono di riconoscere una patologia parenchimale polmonare, Figura 5). - un’ipertensione polmonare secondaria a tromboembolismo cronico: in questi casi la scintigrafia polmonare evidenzia difetti segmentari della perfusione (Figura 6) o la TC spirale dimostra trombosi nei rami dell’arteria polmonare (Figura 7).- un’ipertensione venosa polmonare, suggerita dalla presenza di disfunzione ventricolare sinistra (ECO 29).Raggiunta la diagnosi, è necessario eseguire ulteriori indagini che permettano di stabilire se l’ipertensione arteriosa polmonare è idiopatica o associata ad altre patologie (Tabella I).

CENNI DI TERAPIA

La terapia medica è in primo luogo imperniata sul trattamento dell’insufficienza cardiaca congestizia e prevede l’uso di diuretici (furosemide, spironolattone) e digitale; gli anticoagulanti orali possono essere utili in quanto un rilievo istopatologico frequente è la trombosi in situ. I calcio-antagonisti si impiegano solo nei casi responsivi ad un test acuto di vasodilatazione; sono indicati nella terapia a lungo termine la nifedipina o il diltiazem. L'ossigenoterapia è necessaria nei pazienti con ipossiemia a riposo.

Farmaci specifici per l'ipertensione arteriosa polmonareProstanoidi Il razionale per l'uso di questo categoria di farmaci consiste nel rilievo di un deficit di produzione di prostaciclina a livello dell'endotelio dei piccoli vasi polmonari, con vasocostrizione, aggregazione piastrinica e proliferazione degli elementi mio-intimali. I prostanoidi attualmente disponibili sono: l’epoprostenolo (somministrato per via infusionale continua), l’iloprost (per via inalatoria) e il treprostinil (per via sottocutanea). Tali farmaci hanno dimostrato efficacia nel migliorare la tolleranza allo sforzo e la la sopravvivenza a lungo termine dei pazienti con ipertensione arteriosa polmonare idiopatica.

Antagonisti recettoriali dell'endotelinaL’endotelina, mediatore autocrino e paracrino della proliferazione endoteliale e delle cellule muscolari lisce, ha certamente un ruolo nella patogenesi dell'ipertensione arteriosa polmonare. Il bosentan (antagonista dei recettori ETA ed ETB dell’endotelina), il sitaxentan e l’ambrisentan (antagonisti selettivi del recettore ETA) possono essere somministrati per via orale e si sono dimostrati efficaci sia nell’ipertensione arteriosa polmonare idiopatica, che nelle forme secondaria a connettiviti. Sildenafil Il farmaco agisce bloccando la fosfodiesterasi 5 (particolarmente rappresentata a livello del circolo polmonare) con conseguente aumento del GMPc intracellulare che, in acuto, causa vasodilatazione e in cronico esercita un effetto antiproliferativo sulle cellule muscolari lisce. Il farmaco è efficace nel migliorare l’emodinamica e la tolleranza allo sforzo nei pazienti con IAP.Terapie chirugicheIn caso di fallimento della terapia medica, l'unica alternativa è quella del trapianto di polmone. Nei casi con insufficienza congestizia refrattaria alla terapia medica che non possono essere messi in lista per il trapianto è possibile un intervento palliativo di settostomia atriale con catetere a palloncino durante cateterismo cardiaco (una procedura simile a quella che si esegue nella trasposizione dei grossi vasi, vedi Capitolo 53). Si crea così un difetto interatriale con shunt destro-sinistro (la pressione in questi pazienti è maggiore nell’atrio destro che nel sinistro) che consente una decompressione delle sezioni destre ed un aumento del riempimento ventricolare sinistro, a scapito della comparsa di cianosi. I risultati clinici della settostomia sono buoni, con riduzione dell’ascite e dell’epatomegalia e miglioramento della portata cardiaca sistemica.

Sezione XV. Cardiopatie CongeniteCapitolo 52CARDIOPATIE CONGENITE PARTE IRaffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio DEFINIZIONE E FISIOPATOLOGIA DELLE CARDIOPATIE CONGENITE

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Le cardiopatie congenite rappresentano le più frequenti malformazioni riscontrate alla nascita, con un’incidenza che varia dal 2.5 al 12% nelle diverse aree geografiche. Sulla base del quadro fisiopatologico, le cardiopatie congenite possono essere classificate in cinque gruppi principali.1) Nelle cardiopatie con iperafflusso polmonare si realizza un passaggio di sangue dal cuore sinistro al cuore destro a causa di una comunicazione anomala tra la circolazione sistemica e quella polmonare (shunt sistemico-polmonare). Tale shunt sinistro-destro comporta un iperafflusso polmonare, cioè un aumento della portata ematica polmonare, che risulta maggiore di quella sistemica. L’aumentato ritorno venoso polmonare che ne consegue determina un sovraccarico di volume delle cavità cardiache destre o sinistre a seconda che la sede dello shunt sia localizzata al di sopra (shunt pre-tricuspidalico) o al di sotto (shunt post-tricuspidalico) della valvola tricuspide. 2) Nelle cardiopatie con ipoafflusso polmonare è presente una riduzione del flusso ematico polmonare, generalmente secondaria ad un ostacolo all’efflusso del sangue dal ventricolo destro. Ne consegue ridotta ossigenazione del sangue arterioso e cianosi.3) Nelle cardiopatie con circolazioni in parallelo il sangue venoso sistemico non ossigenato proveniente dalle vene cave ritorna direttamente nel circolo arterioso sistemico, mentre il sangue venoso polmonare ossigenato viene nuovamente inviato nella circolazione polmonare (Figura 1). Tale condizione si determina nella trasposizione delle grandi arterie (cardiopatia congenita in cui l’aorta origina dal ventricolo destro e l’arteria polmonare dal ventricolo sinistro), ed è incompatibile con la vita, a meno che non esista una comunicazione anatomica tra le due circolazioni (per esempio, difetto interatriale o dotto arterioso). Il neonato con questo tipo di patologia presenta cianosi alla nascita e più tardivamente scompenso.4) Le cardiopatie dotto-dipendenti sono caratterizzate da una severa ostruzione o atresia dell’efflusso ventricolare destro o sinistro, per cui il flusso sistemico o quello polmonare dipende totalmente dalla pervietà del dotto di Botallo. Queste cardiopatie portano a cianosi o scompenso cardiaco precoce.5) Le cardiopatie con ostruzione all’efflusso ventricolare sono caratterizzate da una stenosi lungo l’efflusso ventricolare destro o sinistro, tale da determinare un sovraccarico di pressione del ventricolo. A differenza di quelle “dotto-dipendenti”, in tali cardiopatie la gravità dell’ostruzione non è tale da condizionare una dipendenza del circolo polmonare o sistemico della pervietà del dotto di Botallo, per cui la sintomatologia clinica, caratterizzata da cianosi o scompenso cardiaco, può comparire anche più tardivamente.

SEGNI CLINICI

La cianosi e lo scompenso cardiaco sono i principali segni clinici di una cardiopatia congenita. La cianosi è una colorazione bluastra della cute e delle mucose dovuta alla presenza di almeno 5 grammi di emoglobina ridotta per decilitro di sangue. Tale condizione si può verificare per desaturazione del sangue arterioso (cianosi centrale) o per rallentamento del circolo periferico ed aumentata estrazione di ossigeno dal sangue capillare (cianosi periferica). Per rilevare la cianosi nel neonato è opportuno osservare soprattutto la punta del naso, le labbra, la mucosa orale e la lingua. Lo scompenso cardiaco è una condizione determinata dall’incapacità dell’apparato cardiovascolare a mantenere una portata cardiaca adeguata a soddisfare le esigenze metaboliche dell’organismo. In età pediatrica il sintomo più comune di scompenso cardiaco è la difficoltà ad alimentarsi e di conseguenza il ritardo della crescita. I segni clinici che possono presentarsi in un bambino in condizione di scompenso sono soprattutto pallore, sudorazione eccessiva, polipnea (> 60/minuto), dispnea, rientramenti intercostali, rantoli, tachicardia ed epatomegalia. Spesso si ascoltano il III e il IV tono (vedi Capitolo 2).

CLASSIFICAZIONE

Le principali cardiopatie congenite possono essere suddivise, in base ai diversi modelli fisiopatologici, in cinque gruppi. Per ogni singolo gruppo, sono elencate di seguito in parentesi, le cardiopatie più frequenti, che saranno trattate in questo capitolo ed in quello successivo.

Cardiopatie congenite semplici con shunt sinistro-destro (Difetto interatriale, Difetto interventricolare, Pervietà del dotto di Botallo)

Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare destro (Stenosi polmonare, Tetralogia di Fallot)

Cardiopatie congenite con ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro (Stenosi aortica, Coartazione aortica)

Cardiopatie congenite con circolazione in parallelo (Trasposizione dei grossi vasi)

Cardiopatie congenite complesse (Canale atrioventricolare, Atresia della tricuspide, Cuore univentricolare, Truncus arterioso, Trasposizione corretta dei grossi vasi, Malattia di Ebstein).

DIFETTO INTERATRIALE

Il difetto interatriale isolato rappresenta circa il 10% di tutte le cardiopatie congenite; dal punto di vista anatomopatologico, il setto interatriale presenta una soluzione di continuo che può avere sede e dimensione variabili. Si distinguono quattro tipi di difetto interatriale (Figura 2):- ostium secundum, localizzato nella parte centrale del setto a livello della regione della fossa ovale (Patologia 52).- ostium primum, localizzato nella parte bassa del setto, appena al di sopra delle valvole atrioventricolari (Patologia 53). - seno venoso. - seno coronarico.La presenza di una comunicazione tra le due cavità atriali determina, a causa della maggiore pressione vigente nell’atrio sinistro, uno shunt sinistro-destro la cui entità varia in rapporto alle dimensioni del difetto e alla

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differenza di pressione tra i due atri. Questa cardiopatia è caratterizzata da iperafflusso polmonare (portata polmonare superiore a quella sistemica) e da sovraccarico di volume dell'atrio e del ventricolo destro. Segni clinici. La maggior parte dei pazienti con difetto interatriale di moderata ampiezza è asintomatica fino alla quarta-quinta decade di vita. I reperti ascoltatori dovuti all'iperafflusso polmonare sono rappresentati da un soffio sistolico eiettivo localizzato al II-III spazio intercostale lungo la margino-sternale sinistra e da uno sdoppiamento ampio e “fisso” del II tono (Vedi Capitolo II).L'elettrocardiogramma mostra di solito i segni di un ingrandimento atriale e ventricolare destro, con aspetto tipo blocco di branca destra (ECG 9 , ECG 10).L'esame radiografico mostra un ingrandimento delle sezioni destre del cuore, dilatazione dell'arteria polmonare ed iperafflusso polmonare (Figura 3).L'ecocardiogramma transtoracico permette di diagnosticare con precisione tipo, sede e dimensioni del difetto. (Figura 4). L'ecocardiogramma transesofageo mostra il difetto e lo shunt con grande evidenza (ECO 50).Cenni di terapia. La terapia del difetto interatriale è di tipo chirurgico o interventistico. Nei pazienti adulti e nei bambini con peso maggiore di 20 kg, il DIA tipo ostium secundum può essere chiuso per via percutanea mediante impianto di protesi a doppio ombrello (Figura 5). Prognosi e follow-up. La quasi totalità dei pazienti raggiunge in assenza di sintomi la prima e la seconda decade. Dopo la terza decade vita, si rileva spesso la comparsa di aritmie sopraventricolari (episodi di fibrillazione atriale parossistica, con evoluzione successiva in fibrillazione cronica). Nel DIA ampio può comparire in età avanzata l'ipertensione polmonare, con riduzione dello shunt sinistro-destro e, nelle fasi più avanzate, comparsa di shunt destro-sinistro e quindi cianosi.

DIFETTO INTERVENTRICOLARE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Consiste in una soluzione di continuo del setto interventricolare, la cui sede e dimensione sono estremamente variabili. I difetti interventricolari vengono classificati in (Figura 6):

Difetti perimembranosi, localizzati nella porzione membranosa del setto interventricolare (Patologia 54).

Difetti muscolari, localizzati esclusivamente nel setto muscolare (Patologia 55).

Quadro clinico. Nei difetti di ampiezza moderata, i sintomi sono generalmente assenti nei primi giorni o settimane di vita, ma successivamente la riduzione delle resistenze vascolari polmonari provoca un aumento dell’iperafflusso polmonare con conseguente comparsa di difficoltà nell'alimentazione, scarso accrescimento ponderale o anche segni conclamati di scompenso cardiaco. All'ascoltazione è presente in questi casi un soffio olosistolico con massima intensità al bordo sternale sinistro basso. Nei difetti ampi, invece, la sintomatologia compare precocemente, e si realizza il quadro dello scompenso cardiaco, caratterizzato da tachipnea, sudorazione eccessiva, epatomegalia, scarso incremento ponderale e ritardo di crescita. Diagnostica strumentale. L’elettrocardiogramma è normale nei difetti piccoli, mentre si possono rilevare segni di ipertrofia biventricolare nei difetti moderati e ampi (Figura 7).La radiografia del torace mostra cardiomegalia ed eventuali segni di iperafflusso.L’ecocardiogramma-colorDoppler rappresenta la metodica diagnostica di prima scelta, utile per individuare la sede del difetto e le eventuali anomalie associate (Figura 8, Figura 9). Il cateterismo cardiaco viene impiegato come metodica diagnostica solo nel sospetto di ipertensione polmonare, o anche per stimare l’entità dello shunt in caso di dati clinici incerti o per escludere malformazioni associate se i reperti ecocardiografici sono dubbi.Cenni di terapia. Ai pazienti con sintomi clinici di marcato iperafflusso polmonare si somministrano farmaci ACE-inibitori e diuretici. L'intervento chirurgico va effettuato precocemente (primi mesi di vita) nei casi di difetto interventricolare ampio con scompenso cardiaco refrattario al trattamento farmacologico. Nei DIV piccoli, per i quali non vi è indicazione alla correzione chirurgica, è consigliabile una profilassi antibiotica in caso di manovre invasive, per ridurre il rischio di endocardite infettiva.Prognosi e follow-up. La storia naturale del difetto interventricolare è caratterizzata da un ampio spettro di possibilità, che variano dalla chiusura spontanea allo scompenso cardiaco congestizio. Nei pazienti adulti con ampi difetti interventricolari si sviluppa spesso una grave ipertensione polmonare, per cui lo shunt s’inverte, divenendo destro-sinistro, e compaiono cianosi, policitemia e ippocratismo digitale (sindrome di Eisenmenger).

PERVIETÀ DEL DOTTO ARTERIOSO

Fisiopatologia ed anatomia patologica. Durante la vita fetale il dotto arterioso, che connette l’arteria polmonare sinistra all’aorta, presenta dimensioni uguali a quelle dell'aorta ascendente, e convoglia il flusso ventricolare destro verso l'aorta discendente. Dopo la nascita esso tende rapidamente a chiudersi grazie alla contrazione della componente muscolare, stimolata dall'aumento della tensione di ossigeno arteriosa secondaria all'inizio della respirazione. La chiusura è ritardata o assente nel neonato prematuro, nel quale l'incidenza di pervietà duttale è superiore a quella del nato a termine. La presenza di uno shunt duttale tra il circolo sistemico e quello polmonare condiziona un aumento del ritorno venoso polmonare e provoca un sovraccarico diastolico delle sezioni sinistre responsabile, alla fine, di una disfunzione ventricolare sinistra. In caso di ampio shunt duttale si può sviluppare con gli anni una vasculopatia polmonare irreversibile.Segni clinici. Le manifestazioni cliniche del dotto arterioso pervio dipendono dall'entità dello shunt e dalla capacità del paziente di compensare al sovraccarico di volume delle sezioni sinistre. Un dotto arterioso medio-ampio nel neonato può manifestarsi sotto forma di sindrome da distress respiratorio oppure di scompenso cardiaco con tachicardia, tachipnea, rientramenti intercostali e rantoli polmonari. Nel casi di dotti arteriosi di

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piccole dimensioni, invece, i reperti obiettivi sono limitati alla presenza di un soffio continuo in sede sottoclaveare sinistra (vedi Capitolo 2), con aumento di intensità della componente polmonare del II tono. Diagnostica strumentale. I reperti elettrocardiografici non sono significativi in caso di shunt lieve, mentre in presenza di un ampio dotto arterioso pervio si rilevano i segni dell’ipertrofia ventricolare sinistra o biventricolare. La radiografia del torace mostra cardiomegalia e aumentata vascolarizzazione polmonare quando lo shunt è moderato o severo. L’ecocardiogramma conferma la diagnosi, rilevando la presenza del dotto arterioso e la dilatazione delle sezioni sinistre negli shunt significativi. (Figura 10).Cenni di terapia. Nel neonato prematuro, la chiusura del dotto arterioso può essere favorita dalla somministrazione di farmaci anti-prostaglandinici (anti-infiammatori non steroidei, dei quali il più usato è l'ibuprofene). Nel caso di dotti ampi che determinino scompenso cardiaco o ipertensione polmonare in un neonato, il trattamento chirurgico rimane l'unica opzione terapeutica. Nel caso, invece, di dotti di moderata ampiezza è possibile procedere, dopo il periodo neonatale (a partire dai 5 kg di peso), alla chiusura percutanea mediante spirali metalliche o protesi in nitinol (Figura 11). Questa metodica è divenuta l'opzione terapeutica di scelta data la sua elevata efficacia ed il basso rischio che comporta.Prognosi e follow-up. La diagnosi di dotto arterioso pervio costituisce di per se stessa l'indicazione al trattamento per evitare l'insorgenza dello scompenso cardiaco (in caso di dotti arteriosi di grandi dimensioni) e ridurre il rischio di endocardite batterica (in caso di dotti arteriosi di piccole dimensioni). La chiusura chirurgica o in sala di emodinamica è gravata da una bassa mortalità e morbilità.

STENOSI POLMONARE VALVOLARE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La valvola polmonare stenotica è caratterizzata da un aspetto cupoliforme, con ispessimento e scarsa mobilità delle cuspidi, che si presentano fuse tra loro e/o displasiche (Patologia 57). La conseguenza funzionale della stenosi polmonare valvolare è l'ostruzione all'efflusso ematico dal ventricolo destro, con conseguente sovraccarico pressorio del ventricolo, che va incontro ad ipertrofia e talora si presenta ipocontrattile.Segni clinici. Nel neonato con stenosi polmonare critica dotto-dipendente le manifestazioni cliniche iniziano dopo la nascita, al momento della chiusura del dotto arterioso, e consistono in cianosi ed acidosi metabolica. Viceversa, la maggior parte dei pazienti con stenosi polmonare valvolare lieve-moderata è asintomatica e la diagnosi viene effettuata nel corso di una visita clinica routinaria. Il reperto clinico diagnostico della stenosi polmonare valvolare è costituito dal soffio sistolico eiettivo a livello del focolaio polmonare (II spazio intercostale sinistro, sull’emiclaveare). Diagnostica strumentale. La radiografia del torace mostra un aumento del II arco di sinistra, espressione dell'ectasia post-stenotica del tronco dell'arteria polmonare e, nel caso di stenosi severa, un’iperdiafania dei campi polmonari, dovuta all’ipoafflusso.L'elettrocardiogramma mostra un’ipertrofia ventricolare destra proporzionale all'entità della stenosi.L'ecocardiografia è estremamente utile per valutare le caratteristiche morfologiche della valvola polmonare, il grado di stenosi e le conseguenze fisiopatologiche dell'ostruzione (ipertrofia ventricolare destra) (Figura 12). Cenni di terapia. Il trattamento chirurgico è stato ormai sostituito quasi completamente dalla valvuloplastica polmonare percutanea eseguita con catetere a palloncino in corso di cateterismo cardiaco. Questa tecnica è altamente sicura ed efficace, potendo essere impiegata in tutte le fasce di età ed in pazienti con qualsiasi tipo di stenosi valvolare (Figura 13). Prognosi e follow-up. Senza trattamento, la stenosi valvolare polmonare severa può determinare disfunzione ventricolare destra con scompenso cardiaco. Dopo trattamento interventistico, raramente l'ostruzione valvolare polmonare si ripresenta, e soltanto il 5% dei pazienti necessita di una nuova procedura di dilatazione nel corso della vita.

TETRALOGIA DI FALLOT

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La tetralogia di Fallot è caratterizzata dalla deviazione anteriore del setto infundibolare. Da ciò deriva il complesso malformativo costituito da: 1) difetto interventricolare, 2) cavalcamento aortico sul setto interventricolare, 3) ostruzione all' efflusso ventricolare destro a livello sottovalvolare, e 4) ipertrofia ventricolare destra. (Figura 14, Patologia 58). Il quadro fisiopatologico è principalmente determinato dall’entità dell'ostruzione all'efflusso polmonare, che condiziona la quantità del flusso polmonare e quindi il grado di desaturazione arteriosa di ossigeno. Il difetto interventricolare è sempre ampio, cosicché la pressione nei due ventricoli è uguale. Segni clinici. La caratteristica clinica principale della tetralogia di Fallot moderata o severa è costituita dalla cianosi, la cui comparsa è legata all'ipoafflusso polmonare, tanto che nelle forme con grave ostruzione polmonare essa si evidenzia alla nascita ed il flusso polmonare risulta dipendente dalla pervietà del dotto arterioso. Talvolta l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro è anche di tipo dinamico, legata ad uno spasmo dell’infundibolo che provoca la comparsa di crisi di cianosi. Il reperto ascoltatorio tipico della tetralogia di Fallot è costituito dal soffio eiettivo localizzato sul focolaio polmonare ed accompagnato da una riduzione di intensità o dalla scomparsa della componente polmonare del II tono. Diagnostica strumentale. L'elettrocardiogramma rivela un quadro di ipertrofia ventricolare destra. Nelle forme severe, la radiografia del torace mostra un sollevamento della punta del cuore (“cuore a zoccolo”) con riduzione del flusso vascolare polmonare ed assenza del II arco di sinistra, corrispondente all’arteria polmonare.L'ecocardiogramma chiarisce con precisione il quadro anatomico (Figura 15), rivelando il grado di deviazione antero-superiore del setto infundibulare, della stenosi valvolare polmonare e/o sopravalvolare, e permettendo di valutare l’eventuale ipoplasia dell’anulus e dei rami polmonari.Il cateterismo cardiaco e l’angiografia consentono di accertare la sede dell’ostruzione all'efflusso ventricolare

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destro e le dimensioni delle arterie polmonari (Figura 16). Cenni di terapia. Nelle forme con dotto-dipendenza del circolo polmonare e severa cianosi perinatale si rende necessario l'uso delle prostaglandine per mantenere pervio il dotto arterioso. La terapia medica delle crisi asfittiche è finalizzata all'aumento dell'ossigenazione periferica (ossigeno-terapia in maschera), alla risoluzione dello spasmo infundibolare mediante la sedazione del paziente e la somministrazione di beta-bloccanti ed infine all'aumento della pressione arteriosa media (compressione degli arti inferiori in posizione genu-pettorale o somministrazione di farmaci ipertensivanti) in modo da aumentare il flusso ematico attraverso l'infundibolo polmonare spastico.Il trattamento palliativo, atto a creare una fonte aggiuntiva di flusso polmonare, può essere chirurgico o, in casi selezionati, percutaneo (effettuato in sala di emodinamica). Lo shunt sistemico-polmonare chirurgico (interposizione di un tubicino di gore-tex tra l’arteria succlavia ed il ramo polmonare omolaterale), si esegue nelle prime settimane di vita nei pazienti con cianosi severa ed elevato rischio per una correzione radicale. Il trattamento percutaneo consiste nell’impianto di uno stent all’interno del dotto arterioso, per mantenere pervia l’unica fonte di flusso polmonare “naturale” (Figura 17).L'intervento chirurgico correttivo si esegue tra i 3 e i 12 mesi ed è costituito dalla chiusura del difetto interventricolare e la risoluzione dell'ostruzione all'efflusso ventricolare destro (vedi Capitolo 65). Prognosi e follow-up. La tetralogia di Fallot non trattata presenta una prognosi infausta in quanto l'ostruzione all'efflusso ventricolare destro tende progressivamente ad aumentare nel tempo. Il trattamento chirurgico migliora sensibilmente la prognosi sebbene comporti, in una certa percentuale di pazienti, la comparsa nel lungo termine di alcune sequele post-chirurgiche quali la disfunzione ventricolare destra da rigurgito polmonare residuo e le aritmie ventricolari.

STENOSI AORTICA

L’ostruzione all’efflusso ventricolare sinistro si può localizzare a tre livelli: a) valvolare (Patologia 59), b) sottovalvolare (dovuta alla presenza di una membrana o cercine fibromuscolare che ostacola l'efflusso del sangue dal ventricolo sinistro), c) sopravalvolare, caratterizzata da un restringimento del lume dell'aorta poco dopo la sua origine. La forma valvolare è la più frequente, con prevalenza nel sesso maschile (4:1). Fisiopatologia ed anatomia patologica. Nella forma critica del neonato, caratterizzata dalla dotto-dipendenza della circolazione sistemica, il ventricolo sinistro è di solito molto ipertrofico, con una cavità ridotta rispetto al normale o, talora, dilatato ed ipocontrattile. Nelle forme meno gravi la malattia ha comunque un andamento progressivo, caratterizzato da ipertrofia ventricolare sinistra, aumentata richiesta di ossigeno da parte del miocardio ed ischemia subendocardica.Segni clinici. I segni tipici della malattia sono il soffio sistolico eiettivo aortico ed i polsi di ampiezza ridotta. Nei pazienti con funzione di pompa depressa il soffio sistolico può essere assente o poco evidente ed i polsi periferici possono non essere palpabili. Nei casi più gravi, la malattia esordisce con scompenso cardiaco dopo la chiusura del dotto di Botallo (dotto dipendenza della circolazione sistemica). Diagnostica strumentale. Nelle forme meno gravi la diagnosi è legata al riscontro occasionale di un soffio cardiaco o alla comparsa di sintomi quali palpitazioni, vertigini, sincope o angina. I reperti radiografici tipici sono la dilatazione dell’ombra cardiaca (Figura 18) e la dilatazione post-stenotica dell’aorta ascendente. All’ECG si osserva prevalentemente ipertrofia ventricolare sinistra. La diagnosi definitiva è possibile mediante l’ecocardiografia color Doppler che permette di stabilire la morfologia ed il numero delle cuspidi aortiche (Figura 19, Figura 20, ECO 20, ECO 21), e di differenziare la stenosi valvolare da quella sopra o sottovalvolare. La stenosi aortica sopravalvolare è determinata da un restringimento dell'aorta al di sopra dell'anello valvolare e del piano coronarico. Fra i tre livelli di ostacolo all'efflusso ventricolare sinistro, la sede sopravalvolare della stenosi è la meno comune; spesso questa forma si associa alla Sindrome di Williams, caratterizzata da ritardo mentale, facies elfica, stenosi dei rami polmonari, stenosi delle arterie renali, ipercalcemia. Si può trattare di un'ostruzione a membrana (Figura 21), ad imbuto/clessidra o diffusa per un lungo tratto di aorta ascendente. La stenosi sottoaortica consiste in una ostruzione fissa del tratto di efflusso del ventricolo sinistro, al di sotto della valvola aortica. In oltre il 20% dei pazienti, la valvola è anomala (stenosi valvolare, piccolo anello aortico, valvola bicuspide); la membrana sottovalvolare è occasionalmente adesa a una delle cuspidi valvolari della valvola aortica e mitrale: questo può interferire con la funzione della valvola, producendo un'insufficienza di medio grado (Figura 22). Cenni di terapia. La terapia del neonato con stenosi aortica critica prevede la somministrazione di inotropi, prostaglandine e bicarbonati per stabilizzare il paziente. Per risolvere la stenosi valvolare, la valvuloplastica con palloncino rappresenta oggi un’alternativa alla valvulotomia chirurgica. Le forme sottovalvolari e quelle sopravalvolari, invece, richiedono sempre un intervento chirurgico per rimuovere l'ostruzione sottovalvolare o per allargare l'aorta a livello sopravalvolare.

COARTAZIONE AORTICA

La coartazione aortica consiste in un restringimento dell’istmo, la porzione dell’aorta localizzata tra l’origine della succlavia sinistra e il dotto di Botallo (Patologia 60). Tale condizione determina un sovraccarico di pressione del ventricolo sinistro, cui consegue ipertrofia del miocardio. La coartazione dell’aorta è più frequente nei maschi; il 15-25% dei pazienti con Sindrome di Turner ne è affetto.Fisiopatologia ed anatomia patologica. Spesso alla coartazione si associano bicuspidia aortica, pervietà del dotto arterioso, difetto interventricolare, stenosi mitralica. L’elevata pressione nel circolo arterioso prossimale alla coartazione e la bassa pressione arteriosa vigente nel territorio al di sotto dell’istmo favoriscono lo sviluppo di circoli collaterali atti ad aumentare il flusso ematico alla metà inferiore del corpo. Tali circoli si stabiliscono anteriormente fra le arterie mammarie interne (rami delle succlavie) e le arterie epigastriche della parete addominale, e posteriormente fra le arterie parascapolari e le intercostali. Proprio la dilatazione delle arterie intercostali è responsabile delle alterazioni a carico delle coste che si osservano all’esame radiologico in alcuni

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casi.Segni clinici. Nei casi più gravi, l’esordio è caratterizzato da scompenso cardiaco dopo la chiusura del dotto arterioso (dotto dipendenza della circolazione sistemica). Le forme meno gravi possono decorrere a lungo asintomatiche: i bambini più grandi e gli adulti con patologia meno importante si rivolgono in genere al medico per la comparsa di ipertensione arteriosa o per il riscontro di soffi cardiaci o per l’assenza dei polsi arteriosi agli arti inferiori. Il reperto obiettivo più frequente è un soffio sistolico eiettivo sulla parete toracica anteriore e posteriore. Diagnostica strumentale. La radiografia del torace può documentare la dilatazione dell’aorta ascendente. Le incisure costali dovute all’erosione ossea da parte delle arterie intercostali dilatate diventano evidenti tra i 4 e i 12 anni di età (Figura 23A). Inoltre l’indentatura aortica pre-stenotica e la dilatazione post-stenotica (Segno del 3, Figura 23B) sono reperti patognomonici. L’ECG è spesso aspecifico, ma non di rado mostra ipertrofia ventricolare sinistra.L’ecocardiogramma permette di valutare con esattezza la morfologia dell’arco aortico, la sede della coartazione e la sua gravità attraverso la stima del gradiente pressorio. Nelle forma dell’adulto possono essere di ausilio altre tecniche di imaging quali la TC e la RM cardiaca (Figura 24A).Cenni di terapia. La terapia della coartazione aortica del neonato è chirurgica (vedi Capitolo 65). Per i bambini con peso superiore ai 20 kg, e per i pazienti adulti affetti da coartazione dell’aorta o recoartazione post-chirugica è proponibile la dilatazione della coartazione con catetere a palloncino (angioplastica) o con l’applicazione di stent endovascolari (supporti metallici di sostegno posizionati all’interno dell’arteria per mantenerla dilatata) (Figura 24B, Figura 24C).

Capitolo 53CARDIOPATIE CONGENITE PARTE IIRaffaele Calabrò, Giuseppe Pacileo, Maria Giovanna Russo, Marianna Carrozza, Carmela Morelli, Alessandra Rea, Giampiero Gaio TRASPOSIZIONE DELLE GRANDI ARTERIE

Fisiopatologia ed anatomia patologica. La trasposizione delle grandi arterie è una cardiopatia congenita caratterizzata da un’anomala connessione tra le camere ventricolari ed i grandi vasi che da esse traggono origine, per cui l'aorta origina dal ventricolo destro e l'arteria polmonare dal ventricolo sinistro (Patologia 61). In circa il 50% dei casi sono presenti anche altre malformazioni cardiache. In questa malattia il sangue desaturato proveniente dalle vene sistemiche viene inviato nuovamente in periferia, mentre il sangue ossigenato proveniente dalle vene polmonari giunge nuovamente nel circolo polmonare (Figura 1). Le circolazioni sistemica e polmonare vengono, quindi, a trovarsi in parallelo e non in serie come in un soggetto normale, e l'unica possibilità di sopravvivenza dipende dalla presenza di comunicazioni tra le due circolazioni. L'entità di tale scambio intercircolatorio (“mixing”) dipende dal numero, dalle dimensioni e dalla posizione delle comunicazioni anatomiche presenti. Nei primi giorni di vita, la chiusura del forame ovale e del dotto arterioso tendono a separare completamente la circolazione sistemica da quella polmonare, determinando così cianosi ed ipossiemia: la sopravvivenza di questi neonati è legata alla persistenza di una comunicazione interatriale ed alla riapertura del dotto arterioso. Se non è presente un vero difetto interatriale, esso può essere creato artificialmente mediante l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind, procedura che consiste nel far passare dall’atrio destro al sinistro un catetere a palloncino introdotto per via venosa percutanea (vena ombelicale o femorale); dopo il gonfiaggio del palloncino in atrio sinistro, il catetere viene bruscamente ritirato in atrio destro, lacerando così il setto interatriale e creando un difetto settale iatrogeno. La pervietà del dotto arterioso, invece, viene mantenuta mediante l'infusione di prostaglandine. Segni clinici. La principale manifestazione clinica che indirizza verso la diagnosi di trasposizione delle grandi arterie è la cianosi che si evidenzia alla nascita e si aggrava successivamente a seguito della progressiva chiusura del dotto arterioso. In assenza di malformazioni associate, i reperti clinici sono poco caratteristici, non rilevandosi né soffi né segni di scompenso cardiaco mentre in presenza di ampie sedi di "mixing" ematico la cianosi è lieve ed il quadro clinico può essere dominato dallo scompenso cardiaco secondario all'iperafflusso polmonare.Diagnostica strumentale. Alla radiografia del torace l'ombra cardiaca è di normale volumetria, con aspetto ovalare ed assottigliamento del profilo mediastinico alto a seguito dell'anomala disposizione dei grandi vasi. Il quadro elettrocardiografico non mostra alcun reperto anomalo alla nascita, mentre dopo il periodo perinatale si osserva una mancata regressione della fisiologica ipertrofia ventricolare destra neonatale. L'ecocardiogramma (Figura 2, Figura 3) consente di porre la diagnosi, evidenziando l'anomala connessione tra le camere ventricolari ed i grandi vasi, e di identificare le eventuali malformazioni cardiache associate (difetto interventricolare, stenosi polmonare).Il cateterismo cardiaco non è ormai più necessario per la diagnosi, ma viene talvolta utilizzato per eseguire l'atrioseptectomia con catetere a palloncino secondo Rashkind in caso di scarso "mixing" intercircolatorio.Cenni di terapia. La terapia medica consiste nel riequilibrio metabolico del neonato mediante la correzione di eventuali squilibri idro-elettrolitici e il miglioramento del "mixing" ematico mediante la somministrazione di prostaglandina E e l'atrioseptectomia secondo Rashkind. Il trattamento chirurgico della trasposizione delle grandi arterie (vedi Capitolo 65) ha lo scopo di riportare in serie la circolazione sistemica e polmonare, ristabilendo una normale connessione ventricolo-arteriosa (aorta dal ventricolo sinistro e arteria polmonare dal ventricolo destro). Prognosi e follow-up. La storia naturale della trasposizione delle grandi arterie non sottoposta a trattamento chirurgico è infausta, con una mortalità che si avvicina al 100% alla fine del I anno di vita. L'intervento chirurgico, invece, ha modificato sensibilmente la prognosi di questi pazienti, garantendo loro il raggiungimento dell'età adulta con una pressoché normale qualità della vita.

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CANALE ATRIO-VENTRICOLARE

Il canale atrio-ventricolare rappresenta un difetto della giunzione atrio-ventricolare, e comprende un ampio spettro di lesioni che vanno da un difetto interatriale tipo ostium primum associato ad una fissurazione (“cleft”, ECO 12) della valvola mitrale (canale atrio-ventricolare parziale) fino ad una condizione in cui il difetto interatriale è molto ampio, la valvola atrio-ventricolare è unica, e coesiste un difetto interventricolare (canale atrio-ventricolare completo, Patologia 62). Frequente è l’associazione con la sindrome di Down (25-36%).Canale atrio-ventricolare parzialeFisiopatologia. Se non vi è insufficienza mitralica, la fisiopatologia è simile a quella di un difetto interatriale ampio, con importante shunt sinistro-destro ed iperafflusso polmonare; se, viceversa, è presente una insufficienza mitralica, il sovraccarico del circolo polmonare sarà più imponente e precoce, in quanto, oltre allo shunt interatriale vi sarà anche un passaggio di sangue dal ventricolo sinistro direttamente in atrio destro (per la presenza del difetto interatriale ostium primum). Segni clinici. Il quadro clinico è variabile in base alla gravità dell’insufficienza mitralica, per cui si va da bambini che possono scompensarsi fin dal primo anno di vita, a pazienti che rimangono asintomatici fino all’età adulta. All’ascoltazione si rileva un soffio sistolico eiettivo sul focolaio polmonare e un soffio sistolico da rigurgito puntale.Diagnostica strumentale. All’ECG vi sono segni di ipertrofia ventricolare destra o biventricolare. La radiografia del torace mostra cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare. L’Ecocardiogramma evidenzia lo shunt interatriale nella porzione più bassa del setto interatriale ed il cleft mitralico con insufficienza valvolare al color-Doppler (Figura 4). Il cateterismo cardiaco è utile non tanto per la diagnosi ma per rilevare le pressioni e le resistenze polmonari.Cenni di terapia. Il trattamento di questa malattia è esclusivamente chirurgico.

Canale atrio-ventricolare completoIl quadro clinico è in relazione all’ampiezza dello shunt sinistro-destro interatriale ed interventricolare, alla gravità dell’insufficienza della valvola atrio-ventricolare comune ed alla eventuale ipoplasia di uno dei due ventricoli.I pazienti sono sintomatici fin dai primi mesi di vita, e presentano scompenso cardiaco, deficit di accrescimento ponderale ed infezioni respiratorie recidivanti. All’ ascoltazione si rilevano un soffio olosistolico al mesocardio e un soffio sistolico puntale.Diagnostica strumentale. L’ECG mostra ipertrofia ventricolare destra o biventricolare e deviazione assiale sinistra.La radiografia del torace evidenzia cardiomegalia e segni di iperafflusso polmonare.All’Ecocardiogramma si osserva che le valvole atrio-ventricolari destra e sinistra stanno sullo stesso piano, a differenza che nel cuore normale, nel quale la valvola atrio-ventricolare destra è dislocata verso l’apice, e si trova più in basso rispetto alla sinistra. L’ecocardiogramma permette di valutare e quantizzare gli shunt interatriale ed interventricolare, l’insufficienza della valvola atrio-ventricolare, la pressione polmonare e l’eventuale associazione con stenosi sottoaortica. Il cateterismo cardiaco risulta utile per rilevare l’entità dello shunt, le pressioni e le resistenze polmonari.Cenni di terapia. Il trattamento di questa patologia è farmacologico in caso di scompenso, ma la correzione è esclusivamente chirurgica. L’intervento è indicato tra i sei e i dodici mesi (più precocemente nei casi in cui il canale atrio-ventricolare si associ a sindrome di Down).

ANOMALIA DI EBSTEIN

E’ una malattia caratterizzata da dislocazione apicale della valvola tricuspide, con origine della cuspide settale, e spesso anche di quella posteriore, dalla parete del ventricolo destro invece che dall’anulus fibroso (Patologia 63). Fisiopatologia ed anatomia patologica. L’anomala inserzione della valvola divide il ventricolo destro in due parti: la porzione di entrata, funzionalmente integrata con l’atrio (sezione atrializzata), e la vera parte funzionante del ventricolo destro. L’atrializzazione, la dilatazione del ventricolo destro e la sottigliezza delle pareti compromettono notevolmente lo svuotamento ventricolare, provocando diminuzione del flusso ematico polmonare. Segni clinici. Nei casi più gravi la sintomatologia può comparire precocemente, anche in epoca neonatale, caratterizzata da cianosi, dispnea e difficoltà di alimentazione. Nei casi lievi i sintomi sono scarsi e i pazienti possono condurre una vita abbastanza normale, con una sopravvivenza piuttosto lunga. Frequenti sono le crisi di tachicardia parossistica sopraventricolare, di flutter e fibrillazione atriale.All’ascoltazione si rileva uno sdoppiamento del I tono per ritardo di chiusura della valvola tricuspide e un soffio sistolico se è presente insufficienza tricuspidale.Diagnostica strumentale. L’ECG mostra una deviazione assiale destra, basso voltaggio dei complessi ventricolari, onda P gigante nelle derivazioni precordiali destre, blocco di branca destra, allungamento dell’intervallo PR.La radiografia del torace evidenzia una cardiomegalia. I campi polmonari sono poco irrorati, il peduncolo vascolare è ristretto e l’ombra cardiaca assume una conformazione a fiasca simile a quella dei versamenti pericardici.L’Ecocardiogramma rivela la dislocazione apicale del lembo settale della tricuspide, talora con aspetto ridondante, “a vela”, del lembo anteriore (Figura 5, ECO 25). E’ possibile quantificare il grado e la gravità della malattia analizzando la morfologia dei lembi tricuspidalici, le dimensioni degli atri e della porzione atrializzata del ventricolo destro, gli indici di funzione ventricolare destra,

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le modificazioni del setto interventricolare, lo stato funzionale del ventricolo sinistro e della valvola mitrale ed ancora la presenza ed il grado di eventuali difetti associati. Tali dati sono utili sia ai fini prognostici che per indirizzare una corretta strategia terapeutica. In particolare, l’entità della deformazione e della displasia dei lembi, unitamente al grado di atrializzazione ventricolare destro rappresentano importanti caratteristiche che condizionano le opzioni chirurgiche. Cenni di terapia. Il trattamento è farmacologico in caso di scompenso (digitale, diuretici e vasodilatatori); la correzione dell’anomalia è di tipo chirurgico, con plastica della valvola o con sostituzione della stessa. E’ consigliabile posticipare quanto più possibile l’intervento, in quanto esso è gravato da una elevata mortalità operatoria nei primi anni di vita.

CUORE UNIVENTRICOLARE

In questa cardiopatia congenita è presente un’unica camera ventricolare, in genere di morfologia sinistra, che riceve entrambe le valvole atrio-ventricolari e rifornisce il circolo sistemico e polmonare; l’altro ventricolo è ipoplasico (camera rudimentale collegata al ventricolo principale tramite un difetto interventricolare che generalmente prende il nome di forame bulbo-ventricolare) e non può essere utilizzato per la correzione chirurgica. I grandi vasi escono, comunque, da entrambe le camere ventricolari: tale connessione influenza il quadro fisiopatologico. Fisiopatologia ed anatomia patologica. In caso di normale connessione ventricolo-arteriosa (ventricolo sinistro principale che dà origine all’aorta e ventricolo destro rudimentale che dà origine all’arteria polmonare), il quadro fisiopatologico e clinico dipende dall’entità del flusso polmonare. Se vi è stenosi polmonare severa e ipoafflusso polmonare (Figura 6) è presente cianosi, ed i reperti clinico-strumentali sono quelli tipici delle cardiopatie cianogene. In assenza di stenosi polmonare, invece, il quadro fisiopatologico è dominato dall’iperafflusso, ed i segni clinico-strumentali sono quelli dello scompenso cardiaco congestizio. Segni clinici. Il reperto tipico è la cianosi, la cui gravità dipende non dal mescolamento del sangue sistemico e polmonare, ma dal flusso polmonare, cioè dalla presenza e dal grado della stenosi polmonare. Diagnostica strumentale. Il quadro radiografico evidenzia un’ombra cardiaca di volume normale o aumentato ed un flusso polmonare di grado variabile a seconda dell’entità della stenosi polmonare. L’ecocardiografia è fondamentale per la diagnosi della malattia e l’individuazione di eventuali lesioni associate (Figura 7). Il cateterismo cardiaco è indicato, in casi selezionati, per la esatta valutazione delle malformazioni associate e delle resistenze polmonari. Cenni di terapia. Dopo una iniziale palliazione volta alla regolazione del flusso polmonare, il trattamento chirurgico definitivo viene attuato secondo il principio di Fontan, che consiste nel "saltare" il ventricolo di destra, abboccando direttamente le vene cave all'albero polmonare (vedi Capitolo 65).

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