magzine 02
-
Upload
scuola-di-giornalismo-universita-cattolica -
Category
Documents
-
view
260 -
download
3
description
Transcript of magzine 02
0223novembre
6dicembre2009
Quindicinale di approfondimento della Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
www.magzine.it
»» Pacchetto sicurezza,la legge è ambigua
»» Migranti e salute,a rischiare sono loro
»» Andrea Purgatori ,Ustica 30 anni dopo
»» Una casa ri f u g i oper i giornalisti braccati
»» Digitaljourn a l i s m ,la crisi dell’immagine
»» Pacchetto sicurezza,la legge è ambigua
»» Migranti e salute,a rischiare sono loro
»» Andrea Purgatori ,Ustica 30 anni dopo
»» Una casa ri f u g i oper i giornalisti braccati
»» Digitaljourn a l i s m ,la crisi dell’immagine
magzine
I soldati cinesi indossano sempre più spesso il casco blu dell’Onu. Ma dietro l’impegno
di peacekeeping ci sono interessi economicinel continente africano. Non sempre legali
I soldati cinesi indossano sempre più spesso il casco blu dell’Onu. Ma dietro l’impegno
di peacekeeping ci sono interessi economicinel continente africano. Non sempre legali
Cina m a n g i aAf r i c a
Cina m a n g i aAf r i c a
MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20092
inchiesta
di Giulia Dedionigi
Negli ultimi anni l’impegno della Cina nelle missioni di cooperazione in A f rica è stato cre s c e n t e.Ma dietroquesta presenza ci sono interessi economici e stra t e g i c i ,come il tra f fico d’armi e il business della ri c o s t ru z i o n e
I-H A O». PE R L E S T R A D E D IM O L T E C I T T Àa f r i c a-
ne i bambini hanno ormai imparato a salu-
tare gli stranieri in cinese. Il nuovo “Grande
balzo” della Cina, infatti, si chiama Africa.
La Repubblica Popolare è attualmente
quattordicesima nella classifica dei Paesi
che contribuiscono alle missioni di pace
Onu nel mondo. Allo stesso tempo, però, dietro una corti-
na di segretezza, sta emergendo come uno dei più gran-
di esportatori di armi. È quanto risulta dal rapporto
annuale dello Stockholm International Peace Rese-
arch Institute( S i p r i ) .
Rispetto ai 64 anni di storia delle operazioni di peacekeeping
dell’Onu, la Cina vi partecipa da meno di 20. Oggi, però, in un
momento in cui i caschi blu devono assumere compiti onerosi in
situazioni di grande complessità, Pechino fornisce più militari, più
poliziotti e più osservatori. E lo fa mettendo in campo più risorse di
Russia, Gran Bretagna e Stati Uniti, tre dei cinque membri perma-
nenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, che oltre a decidere in que-
sta sede, operano anche sotto l’egida della Nato.
Quello che emerge dal rapporto Sipri China’s Expanding Role
in Peacekeeping, pubblicato a novembre, è che nei luoghi devastati
dai conflitti il personale del peacekeeping cinese, coi suoi berretti
azzurri e l’emblema dell’Onu, ha dato il benvenuto ai primi segnali di
pace tra le popolazioni locali, accompagnandole nel difficile periodo
di ricostruzione dei loro Paesi. La Cina favorisce una serie di interven-
ti nei settori delle infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, dighe), del-
l’edilizia pubblica (scuole, stadi, teatri, edifici governativi) e abitativa,
in estesi programmi di assistenza sanitaria, con costruzioni di ospe-
dali e ambulatori, e nell’invio di personale sanitario e medicinali.
Ma alla base di questo impegno ci sarebbe una serie di motiva-
zioni politiche ed economiche. Si parla, infatti, di “fattori intreccia-
ti” che spingono il Dragone in questa direzione. Innanzitutto la Cina
vuole impegnarsi di più sul sentiero della sicurezza globale per dare
di sé l’immagine di potenza politicamente corretta, bilanciando così
l’influenza dei Paesi occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, e facen-
dosi accettare come grande Paese responsabile, pacifico e coopera-
tivo. I più scettici parlano di soft power: la
Cina si farebbe carico dei problemi del
mondo per mostrarsi come una potenza
non aggressiva e per accrescere la propria
influenza nel quadro internazionale.
In secondo luogo, l’impegno corri-
sponde a un diktat del presidente Hu Jin-
tao all’Esercito popolare di libera-
zione. In sostanza, l’unica forza
militare della Cina dovrebbe
contribuire, con le sue mis-
sioni di pace, a fare di Pechino un’autorità rispettata. Da
una prospettiva militare, infatti, i soldati cinesi che coo-
perano con le forze armate straniere hanno l’opportu-
nità di migliorare la propria preparazione, nonché di
familiarizzare con equipaggiamenti tecnologicamente
avanzati ed essere a contatto con una gestione esperta dei conflitti.
Iinfine, i Paesi africani rappresentano da soli più di un terzo dei
destinatari degli aiuti Onu, e la Cina ha puntato gli occhi sugli
interessi economici nel continente. Questo è il punto più scot-
tante. Pechino offre ai suoi partner un pacchetto diplomatico
irresistibile: rispettare il principio di sovranità nazionale e di non
interferenza negli affari interni. La Cina, infatti, non partecipa alle
missioni che non siano state esplicitamente richieste o accettate. È
una strategia “win-win”, si legge nel rapporto annuale del Sipri, e si
pone in alternativa alla linea degli Stati Uniti.
Infatti, se da una parte Washington impone ai paesi con cui
stringe accordi un rigido rispetto dei diritti umani e trasparenza nel-
la gestione dei mercati commerciali, dall’altra la Repubblica Popo-
lare non ha problemi a stringere alleanze prive di condizioni ideolo-
giche ed è indifferente ai processi di democratizzazione. Secondo
China Safari: On the Trail of Beijing’s Expansion in Africa, repor-
tage realizzato dal fotoreporter italiano Paolo Woods, accompa-
gnato da Serge Michel (corrispondente di Le Monde d a l l ’ A f r i c a
occidentale) e Michel Beuret (caporedattore della rivista l ’ H e b -
d o), l’80% delle banche commerciali del mondo applica l’E q u a t o r
N
Pe a c eke ep i n ga l l aci n e s e
p r i n c i p l e, codice di condotta per i finanziamenti approvato nel 2003
dalla Banca Mondiale; nell’Impero di mezzo, invece, è la C h i n a
Export Import Bank (Exim bank) a gestire quasi tutti i prestiti sen-
za alcun rispetto per gli standard occidentali.
Queste considerazioni sono avvalorate da un altro elemento
che emerge nel rapporto annuale sul mercato bellico: è risaputo che
la Cina è tra i maggiori importatori di armamenti del quinquennio
2004-08, e che copre l’11% del mercato internazionale. In questo
primato è seguita da India, Emirati Arabi Uniti, Corea
del Sud e Grecia. Nulla si sa, invece, sul suo export. Il gover-
no di Pechino non divulga dati sui trasferimenti di armi
all’estero ed è l’unico Paese a non aver sottoscritto neanche
uno degli accordi multilaterali che vietano il trasferimento di
armi. Norinco, Xinxing Corporation, Poly Group: nomi che circola-
no ovunque nel continente nero. In Sudafrica, per esempio, la mag-
gior parte delle rapine a mano armata viene realizzata con la pistola
9mm della Norinco e, tuttavia, nessuna statistica doganale menzio-
na il suo ingresso nel paese.
Agli inizi di novembre, si è tenuta in
Egitto la quarta conferenza mini-
steriale sulla cooperazione sino-
africana con la partecipazione del
primo ministro cinese Wen Jiatao, dei lea-
der e ministri degli esteri di quasi tutti i pae-
si africani. In questa sede la Cina ha stabilito
che cancellerà unilateralmente entro la fine
del 2009 i debiti accumulati da molte nazio-
ni dell’Africa. «I cinesi ci fanno offerte con-
crete, l’Occidente valori intangibili. Ma a che
cosa servono la trasparenza e la g o v e r n a n -
c e, se la gente non ha elettricità né lavoro? La
democrazia non si mangia». Così S e r g e
M o m b o u l i, consigliere dell’attuale presidente del Congo, ha rias-
sunto il successo di Pechino.
Chi ha provato a a dare una spiegazione a queste posizioni è
Cecilia Brighi, coautrice insieme a Irene Panozzo e I l a r i a
Maria Sala, di Safari Africa, la prima vera indagine giornalistica
sul legame sino-africano, stampata in Italia. Dal libro emerge che la
Cina seduce i governi dittatoriali evtando di parlare di democrazia
e trasparenza e alletta gli abitanti costruendo, producendo e inve-
stendo in una terra che l’Occidente giudica buona solo
a ricevere aiuti umanitari. Quale futuro sta offrendo il Dra-
gone all’Africa? «Entro il 2010 - spiega Cecilia Brighi - gli inve-
stimenti della Cina in Africa potrebbero raggiungere i 100
miliardi di euro - nel 2005 erano di soli 39,7 miliardi -. In
assenza, però, di una forte strategia europea, le prospettive di
sviluppo sostenibile sono scarse: sta vincendo il modello economi-
co politico cinese, un modello che crea solo zone franche».
“Lavorate all’estero, realizzate i vostri sogni”. Grazie a manife-
sti del genere, sparsi sui territori delle province cinesi, sarebbero
oltre 500mila le “formiche silenziose” già emigrate in Africa. Il con-
tinente nero rappresenta la promessa di un far west del ventunesi-
mo secolo. Chi tutela i lavoratori? «Non c’è alcun rispetto per i fon-
damentali diritti, nessuno ha sottoscritto alcun patto che tuteli la
libertà di organizzazione sindacale», conclude l’autrice. Non si può
definire neocolonialismo, piuttosto si può parlare di un capitalismo
selvaggio, motore di un boom carico di iniquità, dove i diritti dei lavo-
ratori sono calpestati.
MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 3
Nel 2010 gli investimenti cinesi in Africa supereranno i centomiliardi di euro. Solo una piccolaparte andrà ai progetti di sviluppo
Per sap e rne di piùCecilia Brighi, Irene Panozzo, Ilaria
Maria Sala, S a f a ri Cinese. P e t r o l i o, ri s o rs e ,
m e r c at i . La Cina alla conquista dell’Afri c a
( O b a rra O ) ; Michel Serge, Michel Beuret,
C i n a f ri c a . Pechino alla conquista del conti -
nente nero (Il Saggiatore ) , in collabora z i o-
ne con il fotografo Paolo Woods.
’ AS S O C I A Z I O N E S T U D I G I U R I D I C I
sull'emigrazione (Asgi) ha pub-
blicato la notizia che anche in
Sicilia è stata emessa una circo-
lare di chiarimento riguardo la
segnalazione di clandestini da parte del perso-
nale sanitario. Con l’ultima aggiunta, sono 14
gli enti che hanno già emesso la circolare.
Senza distinzioni fra Nord e Sud.
Per capire lo spirito della norma, bisogna
tornare indietro fino al luglio 2008, quando è
entrato in vigore il Pacchetto sicurezza. In un
primo tempo, in una delle sue leggi, era pre-
sente un articolo che abrogava il comma 5 del
decreto legislativo 286\95, in cui si afferma
che «l’accesso alle strutture sanitarie da parte
dello straniero non in regola con le norme sul
soggiorno non può comportare alcun tipo di
segnalazione all’autorità, salvo i casi in cui sia
obbligatorio il referto, a parità di condizioni
con il cittadino italiano».
Secondo Salvatore Geraci, responsabi-
le dell’Area sanitaria della Caritas di Roma,
questa disposizione avrebbe indotto molti stra-
nieri a disertare gli ospedali per timore di esse-
re denunciati. Facendo aumentare così il peri-
colo di epidemie o di parti non assistiti.
«Fortunatamente - spiega Geraci - la grande
mobilitazione della comunità scientifica, della
Chiesa, delle associazioni di volontariato e della
società civile ha bloccato l’articolo. Tuttavia, con
l’introduzione del reato di clandestinità, sorge
una nuova complicazione. Ora sull’immigrato
irregolare pesano due norme in contrasto tra
loro: da una parte il divieto di segnalazione, dal-
l’altra l’obbligo di denuncia. Tutti gli studi stati-
stici dicono che finora prevale il primo».
La situazione ha suscitato nuove polemi-
che. Pierfranco Olivani, presidente del
Naga - Commissione ministeriale Sanità e
Immigrazione, è uno dei firmatari del docu-
mento che chiede il chiarimento delle norme
sulla segnalazione dei clandestini. «Abbiamo
chiamato dei costituzionalisti che ci hanno
confermato che il comma 5 è tuttora valido. La
norma generale è infatti preminente rispetto a
quella particolare. Forti del parere di speciali-
sti, siamo andati dal sottosegretario alla Sanità
Ferruccio Fazio per chiedere una circolare
ministeriale che chiarisse il punto una volta
per tutte. Come prevedibile, però, si è rifiutato.
Abbiamo allora chiesto alle singole Regioni,
perché ad esse è delegato l’amministrazione
della sanità». E sono arrivati a quota 14. Fra
queste, però, pesa l’assenza della Lombardia».
La Lombardia è da sempre la situazione
più delicata - continua Pierfranco Oli-
vani -. Il problema sta nella suddivisio-
ne delle competenze tra Stato e Regio-
ni: la competenza dell’immigrazione è dello Sta-
to, quella della Sanità è delle Regioni. Però i livel-
li essenziali di assistenza sono di nuovo compe-
tenza dello Stato, e la regione Lombardia non fa
le circolari che dovrebbe. Non applica le diretti-
ve che vengono da Roma». Lo stesso Olivani ha
chiesto alla Direzione generale della sanità lom-
barda di unirsi alle Regioni che hanno diffuso la
circolare. «Ma non c’è stata risposta - precisa -.
Comunque in Lombardia non è stato denuncia-
to nessuno».
Carlo Zocchetti, responsabile della
Direzione generale sanità regionale, conferma
che il Naga ha più volte chiesto alla
Lombardia di chiarire. «Stiamo discutendo il
problema. Per noi, però, la legge è chiara: i
medici e il personale sanitario non devono
denunciare. La Lombardia non ha ritenuto di
dover riproporre in un documento i contenuti
della legge, solo perché non si tratta di un pro-
blema di interpretazione della legge. Anche
perché in quel caso sarebbe compito dello
Stato formulare un documento adeguato».
Ma allora perché tanta insistenza da parte
del Naga? «Sono stati segnalati dei comporta-
menti difformi all’interno del personale sanita-
rio - prosegue Zocchetti -. Mi spiego: se i medi-
ci non denunciano, è capitato che lo facessero
gli infermieri, anche se non è il caso della
Lombardia. C’è il rischio che il migrante,
temendo di poter essere denunciato, non usu-
fruisca dei servizi sanitari di cui ha bisogno». Si
ripropone così una situazione analoga a quan-
do nel pacchetto sicurezza era presente l’arti-
colo per abrogare il comma 5. «Un argomento
di questo tipo - conclude Zocchetti - è a caval-
lo fra la tecnica e la politica. La tecnica può fare
delle proposte e la politica prendere le decisio-
ni. Perciò non so alla fine come deciderà la
Regione». Nell’incertezza, la Caritas rinnova
l’appello: «Il diritto all’accesso alle cure medi-
che è inalienabile. Anche per gli immigrati
i r r e g o l a r i » .
Cure ai clandestini, la normativa è ambigua
Il Pacchetto sicurezza va rato dal Gove rno obb l i g agli ospedali a denu n c i a re gli immigrati irre g o l a ri .Ma non è stata abrogata la norma che impone alp e rsonale sanitario di non segnalare i clandestini
L
MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20094
pacchetto sicurezza
di Lorenzo Bagnoli
Associazione studi giuridici sull’immigrazione
Nata nel 1990,riunisce av vo c a t i ,docenti unive-
s i t a ri e opera t o ri del diritto con uno specifi c o
i n t e resse per le questioni giuridiche connesse
a l l ’ i m m i gra z i o n e. O p e ra anche nel campo
della lotta alle discri m i n a z i o n i . w w w. a s g i . i t
uomo di colore,
scarno, con gli
occhi rossi e
malato di qual-
che patologia
esotica e che arriva in Italia via
mare, in un barcone sovraffollato.
Questo è lo stereotipo mediatico
del migrante. Ma dal punto di
vista sanitario, questa è un'imma-
gine parziale e scorretta.
Roberto Cauda, direttore del-
l’istituto di clinica delle malattie
infettive del Policlinico Gemelli di
Roma, ha il compito di chiarire la
situazione delle patologie infettive
legate all’immigrazione. «Il mes-
saggio fondamentale che voglio
dare - dice il professore - è che
l’emigrato di per sé non è un indi-
viduo a rischio di trasmissione.
Forse è più a rischio di contagio».
C’è un reale rischio che si
diffondano in modo massic -
cio malattie portate in Italia
da immigrati?
Quando parliamo di patolo-
gia del migrante ci rivolgiamo in
genere ai “viaggi della speranza”
via mare. In realtà il flusso di per-
sone è molto più ampio: non si
emigra solo per necessità, a bordo
dei barconi. Il primo concetto da
tenere presente è perciò la globa-
lizzazione, intesa come mobilità
di persone sul piano planetario.
Se non ci fossero questi sposta-
menti le malattie sarebbero desti-
nate a rimanere in un’area. Il
rischio vero però non è legato solo
all’immigrazione. Esistono effetti
climatici che permettono ad alcu-
ni vettori di prosperare in aree
dove prima non c’erano.
Dal punto di vista immuno -
logico, in che condizioni si
trova l’immigrato medio?
Contando che nelle migra-
zioni Sud- Nord si coinvolge spes-
so il soggetto giovane, in grado di
entrare nel mondo del lavoro, la
possibilità che sia affetto da
malattie virali, le più pericolose, è
abbastanza remoto.
Una volta in Italia, quali
sono le malattie che colpi -
scono maggiormente gli
i m m i g r a t i ?
L’85-90% delle patologie
riscontrate sono simili a quelle dei
pazienti italiani. Influenza, raf-
freddore, traumatismi, malattie
cardiovascolari: quadri analoghi a
quelli dei lavoratori italiani. La
differenza tra il magùt lombardo
e il muratore senegalese, da que-
sto punto di vista, non esiste. La
reazione del sistema immunitario
non varia a seconda della prove-
nienza. È molto più rilevante l’età
a n a g r a f i c a
E il restante 10 per cento?
Sono soggetti che provengo-
no da aree del mondo dove ci
sono situazioni di endemia; pos-
sono essere affetti da Hiv, da
tubercolosi, da malaria, da paras-
sitosi intestinale. È chiaro che
sono forme che meritano il mas-
simo dell’attenzione. Gli immigra-
ti non sono tutti sani, ma non c’è
il rischio che trasmettano malattie
alla popolazione residente, pro-
prio perché l’impatto di queste
forme è trascurabile rispetto a
quanto già presente in Italia.
Di cosa si ammalano invece
in Italia?
Soffrono soprattutto di affe-
zioni respiratorie acute. Ciò è
dovuto alle condizioni e all’am-
biente in cui si trovano a vivere.
Anche la condotta personale ha
una certa rilevanza, per esempio
nelle malattie sessualmente tra-
smissibili. Ma non esistono
minacce epidemiche. Il rischio ci
sarebbe se si sottovalutasse il pro-
blema della cura sanitaria degli
immigrati. Anche perché le rela-
zioni tra il Sistema sanitario
nazionale e gli immigrati non
sono così pacifici.
Il reato di clandestinità ha
suscitato una forte reazione
della comunità scientifica.
Si temeva che i clandestini,
intimoriti dalla legge, potes -
sero smettere di usufruire
del Sistema sanitario nazio -
nale, innalzando così il peri -
colo di contagi.
Non voglio entrare nel meri-
to di una dialettica politica. Mi
limito a dire che, per esempio,
una malattia come la tubercolosi
di per sé non è grave. Deve essere
solo ben curata. Nel caso degli
immigrati a volte non accade, ma
non si può limitare il problema al
reato di clandestinità. Proven-
gono da Paesi con culture e tradi-
zioni diverse. Non si può esaurire
tutto nel dibattito politico, vanno
superate le barriere linguistico-
culturali che impediscono una
comunicazione diretta.
Crede che i media abbiano
un atteggiamento corretto
quando si parla di salute?
Nella primavera del 2003 fu
dichiarata l’emergenza di una
malattia molto grave, la Sars, con
una mortalità del 10%. Poteva
essere l’inizio di una pandemia,
soprattutto a marzo. Poi ad aprile
la notizia è stata pressoché sep-
pellita perché era entrata nel vivo
la guerra in Iraq. È riapparsa solo
a maggio-giugno quando fu
dichiarato che l’epidemia era stata
sventata. I media fanno il loro
lavoro: seguono interessi e umori
dell’opinione pubblica, ma non
sempre le informazioni sono del
tutto corrette.
Nelle migrazionidal sud al nord del mondo sonocoinvolti di solitosoggetti giovani,ma la possibilitàche siano affetti da malattie virali è davvero remota
«Il rischio di contag i o ?Èpiù alto per i migra n t i »
MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 5
di Lore n zo Bag n o l i
R E N T’A N N I P E R T R O V A R E la prima
prova di una delle (almeno) 30
cosiddette “navi a perdere” a largo
delle coste calabresi. Ovvero le navi
piene di rifiuti tossici affondate su
commissione dalla ‘ndrangheta per far sparire
l’ingombrante carico. Trent’anni. Per trovare
una prova. O meglio: per inciamparci. Perché le
rivelazioni in merito del pentito Francesco Fon-
ti risalgono ai primi anni Novanta; ma solo il
ritrovamento ai primi di settembre del relit-
to del Cunsky al largo di Cetraro, Cosenza,
ha smosso l’inchiesta di una Commissio-
ne parlamentare, chiamata ad appura-
re il livello di coinvolgimento dei servi-
zi segreti deviati, chiamati in causa da Fonti.
A Roma si sono riuniti gli Stati generali del-
l’antimafia, promossi dall’associazione L i b e r a
di don Luigi Ciotti. Però cosa occorre fare per-
ché anche questo non diventi uno scandalo di
Stato presto dimenticato? Anzi una strage di
Stato visto che negli ultimi quindici anni è
aumentato esponenzialmente il numero dei
malati di tumore e leucemia. Non nelle grandi
città ma nei paesini dell‘entroterra. «Degli sver-
samenti sui monti - dice Pino De Masi, refe-
rente di L i b e r a nella spianata di Gioia Tauro -
ne abbiamo sempre sentito parlare, anche le
navi affondate ormai erano diventate una leg-
genda».
Ma come ha fatto la ’ndrangheta ad
affondare 30 navi in trent’anni senza
dare nell’occhio?
Si può quando nessuno se ne deve accor-
gere. È chiaro il coinvolgimento di enti privati
ma anche di governi, attraverso il lavoro dei ser-
vizi segreti deviati.
C’è un’istituzione su sui pesa una parti -
colare responsabilità?
La Regione adesso si è svegliata. Non so se
lo fa perché a marzo ci saranno le amministrati-
ve, o perché le è comodo, visto che ora il control-
lo è passato a Roma.
Cosa occorre fare perché questa vicen -
da non finisca nel dimenticatoio?
Una mossa sarebbe decisiva: inserire i rea-
ti ambientali nel Codice Penale.
E in che modo?
Presentando una proposta di legge attra-
verso la raccolta di firme. Come abbiamo fatto
nel ’95, per far approvare il provvedimento del-
la confisca dei beni ai boss mafiosi.
Dal punto di vista investigativo,
invece, cosa m a n c a ?
Il procuratore della Repubblica di
Catanzaro ha chiesto ufficialmente i
dati su uno dei fusti ritrovati nel
relitto di Cetraro. Tocca esaminar-
li all’Astrea (nave di analisi inviata sul posto dal-
l’Icram, un ente pubblico vigilato dal Ministero
dell’Ambiente, ndr). Ma questi dati ancora non
ci sono. Sospetto che stiano perdendo tempo,
aspettando che l’attenzione sui nostri media si
a b b a s s i .
I calabresi alla fine torneranno a “farsi
i fatti loro”? Anche perché si sa, quando
qualcuno muore per mafia, la gente
pensa: “è andato a cercarsela”.
Ora la comunità calabrese capisce che la
’ndrangheta è responsabile del suo male. Ades-
so le ricollega tutti i morti di tumore degli ultimi
15 anni.
Ma davvero la società calabrese può
cambiare rispetto al passato?
Il problema qui è sempre stato l’ individua-
lismo. Ma la gente è davvero stufa. Anche per-
ché sta perdendo quel poco di beneficio che le
proveniva dal turismo o dalla pesca. Qualcosa
adesso potrebbe veramente cambiare.
Lei parla da sacerdote. Ma sa come fun-
ziona: si pensa “quello è un prete, non ha
niente da perdere”.
È vero. Ma alla gente serve coraggio, ser-
vono esempi. “Annunciare, denunciare, rinun-
ciare”, come diceva il vescovo del Sud fatto san-
to, don Tonino Bello. Lo so bene che è difficile,
ma quella terza parola è necessaria: “rinuncia-
re”. Se la comunità capirà di dover rinunciare a
qualcosa, allora sarà vero cambiamento.
Per sap e rne di piùw w w . l i b e r a . i t : “ A s s o c i a z i o n i , nomi e
n u m e ri contro le mafie”; Carlo Lucarelli,N avi a
p e rd e re (Edizioni A m b i e n t e ) .
Navi a perdere, l’ inchiesta è a rischio
Il ri t rovamento di una nave carica di ri fiuti tossiciin Calabria ha segnato una svolta nelle indaginisulle rotte delle ecomafi e, ma l’omertà diffusa e ilvuoto norm a t ivo rallentano la lotta alla ’ndra n g h e t a
T
MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20096
ecomafie
Di Tancredi Palmeri
il pizzo continua a spor-
care le mani degli
imprenditori che, per
quiete personale e della
propria attività, non si
ribellano a soprusi e
ricatti. Poi ci sono i ragazzi che
amano la loro isola e vogliono
che anche gli altri apprezzino le
bellezze nascoste della Sicilia.
Sono i ragazzi di Addio Pizzo
Travel, il progetto di turismo
sociale che parte da Capaci.
Attraverso le strade, le case, le
voci di chi ha detto no alle brut-
ture della mafia, prosegue il cam-
mino coraggioso partito nel
2004 con il comitato antiracket
di Addiopizzo.
Un percorso sociale che,
come spiega Dario Riccobono
di Addio Pizzo Travel, all’associa-
zionismo di quegli isolani che
hanno detto no al ricatto unisce
l’imprenditorialità coraggiosa di
tre giovani siciliani, che propon-
gono itinerari turistici di legalità.
E che lottano perché la Sicilia
non sia più sinonimo di mafia
ma piuttosto di quella “terra bel-
lissima” che Paolo Borsellino
aveva sognato.
Come è nato il progetto
Addio Pizzo Travel?
Dalla voglia di valorizzare le
bellezze della nostra terra e di
inventarci un lavoro per non
essere costretti a emigrare.
Abbiamo trasformato una pas-
sione in mestiere, per essere
d’aiuto a tanti imprenditori
coraggiosi. I viag-
giatori che sce-
glieranno la
“vacanza pizzo-
free” utilizzeranno
i servizi delle ditte iscritte alla
lista di Addiopizzo, soggiorne-
ranno e consumeranno i pasti
presso i ristoranti che si sono
ribellati alla mafia, visiteranno le
aziende sorte su terreni confiscati
ai boss mafiosi di Cosa nostra.
Vivranno da protagonisti un per-
corso di riconquista del territorio
e di sviluppo economico nella
legalità, contribuendo alla lotta
per lo sradicamento della mafia.
Cosa vi ha fatto credere in
un progetto di turismo
sociale ?
L’incontro con don Ciotti
che, quando scrivevo la mia tesi
in marketing turistico, mi inco-
raggiò ad andare avanti. E le
richieste di molti simpatizzanti
sparsi per l’Europa che ci chiede-
vano consigli su locali pizzo-free.
Chi sono gli ideatori?
Facevo un master in econo-
mia e gestione del turismo a
Venezia. Fu lì che mi venne in
mente di coinvolgere altri due
ragazzi: Francesca Vannini
Parenti aveva già seguito pro-
getti di educazione alla
legalità e oggi per
Addiopizzo Travel si
occupa di marketing
turistico e di ammini-
strazione; Edoardo Zaffuto
invece era accompagnatore ciclo-
turistico. Oggi si occupa di pro-
grammazione turistica e della
comunicazione sul web. Io invece
seguo le relazioni pubbliche e la
programmazione turistica.
Cosa devono aspettarsi i
turisti che sceglieranno le
vacanze pizzo-free?
Visite al mercato storico di
Ballarò, alla Partinico di Tele
Jato, al quartiere arabo della
Kalsa, a Corleone, ma anche un
incontro con il fratello di
Peppino Impastato. C’è la possi-
bilità di seguire un tour più
“impegnato” in cui si diventa
protagonisti di questa lotta, si
conosce la storia della mafia e
dell’antimafia dal racconto di chi
giorno per giorno la combatte sul
c a m p o .
C’è qualche analogia con i
Mafia Tour?
No, perché non si dà una
conoscenza stereotipata di Cosa
nostra, non si prendono a
modello mafiosi resi mitici e cari-
smatici da fiction e film, nessuna
foto con coppola e lupara.
Quale risposta ha dato la
c i t t a d i n a n z a ?
Siamo riusciti a creare una
rete che va ben oltre la realtà
regionale, ci sono molti simpatiz-
zanti in giro per il mondo:
Addiopizzo travel nasce anche
per loro.
Che rapporto avete con la
politica?
Noi a modo nostro facciamo
politica, chiedendoci cosa possia-
mo fare per gli altri e per la
nostra terra. Per il resto, con i
partiti non abbiamo alcun rap-
porto, siamo gelosi della nostra
apartiticità. Anche perché non
abbiamo ricevuto appoggio da
n e s s u n o .
Avete paura di eventuali
i n t i m i d a z i o n i ?
Mai ricevuto intimidazioni.
Forse l’attenzione dei media nei
nostri confronti è così alta che
una minaccia sarebbe contropro-
ducente per Cosa nostra. E poi
abbiamo talmente tanto da fare
che non abbiamo il tempo di
avere paura, semmai il timore
più grande è che la nostra terra
non cambi mai. Ma siamo degli
inguaribili ottimisti.
Per saperne di più
I co-ideatori e fondatori di
A d d i o p i z zo Travel sono tre : D a r i o
Riccobono, che si occupa di pro-
grammazione turi s t i c a ;
Francesca Vannini, che segue e
c o o rdina il progetto scuola;
Edoardo Zaffuto, che gestisce la
c o municazione sul we b.
Si possono contattare attrave rso il
sito internet del pro g e t t o :
w w w. a dd i o p i z zo t rav e l . i t
A dd i o p i z zo Trave l ,in viaggio contro la mafia
turismo sociale
MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 7
di Giuditta Ave l l i n a
MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 20098
giornalismo
di Salvo Catalano
L 27 G I U G N O 1 9 8 0
Andrea Purgatori
aveva 27 anni. Era un
semplice redattore
nel più grande gior-
nale italiano, il C o r -
riere della Sera. Quel giorno la
strage di Ustica con l'abbattimen-
to del Douglas Dc-9 della compa-
gnia Itavia, ha dato una svolta alla
sua vita. L'inchiesta su quei fatti,
portata avanti per trent’anni con
meticolosa costanza e attento stu-
dio, resistendo alle pressioni dei
poteri forti, è diventata il paradig-
ma di un genere giornalistico sem-
pre meno battuto.
Il complesso rapporto con le
fonti e con gli editori, il rispetto
ricambiato nei confronti della
magistratura, le tecniche impre-
scindibili per costruire una buona
inchiesta, il confine tra il mestiere
di giornalista e quello di autore e
scrittore, i limiti delle scuole di
giornalismo e uno sguardo sul pre-
sente: sono i temi di cui abbiamo
discusso con Purgatori. «Non c’è
bisogno di fare delle grandi inchie-
ste - spiega -, basta essere giornali-
sti sul campo. Nel Sud ci sono pre-
cari che per poche centinaia di
euro rischiano la pelle cercando di
fare il proprio lavoro».
Come è nato il tuo interesse
giornalistico per la strage di
U s t i c a ?
In parte casualmente, in par-
te perché mi stavo occupando del-
la smilitarizzazione dei controllori
del traffico aereo. Era un tema
delicato, perché i militari dell’aero-
nautica che volevano diventare
civili rischiavano conseguenze
molto pesanti nel caso in cui fosse-
ro stati trovati. Ero riuscito a crea-
re un rapporto stretto con alcune
fonti di informazione che si fidava-
no di me. Per questo si devono col-
tivare con grande rispetto e atten-
zione le fonti, dando loro il massi-
mo della fiducia. In questo senso
sono contrario al giornalismo
mordi e fuggi per cui la fonte viene
cannibalizzata, diventando merce
da utilizzare senza alcun rispetto.
Il giorno della strage, qual
era il tuo ruolo nella
redazione del Corriere
della Sera?
Il 27 giugno del 1980
ero ancora un redat-
tore, ma almeno
da quattro anni
facevo l’inviato
dall’Italia e dall’estero. Mi ero
occupato dei boat people n e l
sudest asiatico, ero stato in
Tunisia per la rivolta contro Habib
Bourguiba e mi occupavo anche di
problemi di sicurezza del volo. Fu
questo uno dei motivi per cui il
fascicolo di Ustica finì tra le mie
m a n i .
In un articolo del 1999 scrivi
che, a differenza di altre stra -
gi, l’attenzione su Ustica è
stata sempre alta a causa
d e l l ’ i m p o r t a n z a
degli interlocutori
coinvolti. In quel
contesto di pressio -
ni, ma di grande
p a r t e c i p a z i o n e ,
quali sono state le
tue fonti?
La strage di Ustica
è molto diversa dalle
altre stragi italiane. I
miei interlocutori era-
no i militari, e penetra-
re quel mondo era diffi-
cile, a maggior ragione
in un periodo in cui le
forze armate erano
ancora considerate un
universo protetto e
chiuso, che non si apri-
va ai giornali se
non attraverso delle
veline. Ancora più
problematiche le
indagini e i rapporti
con gli apparati dei servizi
segreti italiani e internazio-
nali. Aggiungi le fonti poli-
tiche nazionali e non. Da
questo punto di vista, c’è una gran-
de differenza tra Ustica e, ad esem-
pio, la strategia della tensione. Nel
secondo caso era chiaro che gli
interlocutori potevano essere
gruppi terroristici di estrema
d e s t r a .
Hai seguito un metodo di
lavoro preciso? Come era
organizzata la tua giornata
in quel periodo?
La mia fortuna è stata che, a
cavallo del ’79 e l’80, dopo essermi
occupato moltissimo di terrori-
smo, ho preso un’aspettativa e ho
fatto un master in giornalismo alla
Columbia University. Qui ho
imparato a mettere in forma cose
che prima intuivo e componevo in
modo artigianale, come mi aveva
insegnato qualche giornalista più
anziano e più capace. L’America
mi ha fatto capire come organizza-
re un’inchiesta, programmarla,
fare passo per passo un percorso,
senza che decidessero gli eventi
per me. Sono le basi dell’investiga-
z i o n e .
I
I segre t id iUs t i c a
Per trent’anni A n d rea Purg a t o ri ha portato ava n t il’indagine sulla strage del Dc10 Itav i a .A n c o ra oggiil suo lavo ro è un modello da seguire per i re p o rt e rche vogliono dedicarsi al giornalismo inve s t i g a t ivo
Si riesce a insegnare inchie -
sta, oggi, nelle scuole di gior -
nalismo italiane?
Non credo. Sì, se ne parla, ma
l’inchiesta è un genere ormai in
disuso. Spesso si spaccia per
inchiesta un collage di notizie vec-
chie, condite da qualche telefona-
ta, da un parere, da un’opinione.
L’inchiesta è una cosa più com-
plessa, che richiede tempo e stu-
dio. Ad esempio, il collega ameri-
cano che è stato capace di scovare
nei bilanci del Pentagono i fondi
neri che servivano per programmi
di cui il Congresso non era a cono-
scenza, ha impiegato da sei a otto
mesi per imparare a leggere i
bilanci. Esattamente come per la
strage di Ustica io ho dovuto
imparare il linguaggio dei piloti
militari, per essere in grado, non
solo di leggere le carte, ma anche
di fare delle domande che avesse-
ro un senso e mettessero in diffi-
coltà i miei interlocu-
t o r i .
Quali sono gli ele -
menti imprescin -
dibili per affron -
tare un lavoro
d’inchiesta lungo
e difficile?
Anche se può sembrare
banale, la prima regola da tener
sempre presente è cercare non
tanto conferme ai propri dubbi o
sospetti, ma qualche elemento che
li smentisca. Se non c’è nulla che
smentisce l’impianto dell’inchie-
sta, significa che si è sulla strada
giusta. In secondo luogo, bisogna
programmare il lavoro, accettare
in anticipo che aprire una porta
può significare chiuderne altre.
Servono scelte precise di pro-
gramma e di percorso. La diffe-
renza sostanziale tra il giornali-
smo di routine e quello d’inchiesta
è che il primo segue i fatti man
mano che si verificano, mentre il
secondo programma l’indagine
sui fatti secondo un percorso stu-
diato a tavolino, che parta dalle
fonti e dai materiali secondari per
poi arrivare a quelli primari, al
cuore dell’inchiesta.
Come è stato il tuo rapporto
in quegli anni con gli editori
del Corriere della Sera? Sei
stato ostacolato, censurato?
Durante l’inchiesta su Ustica
le pressioni di chi non voleva che
andassi a rovistare in queste
vicende sono state molto forti. Ci
sono stati direttori che mi hanno
sostenuto e altri che hanno avuto
più timori ad andare a fondo. Il
risultato finale è stato positivo, ma
questo ha a che fare non con la
censura, ma con l’autocensura dei
giornalisti. Ci sono momenti, cioè,
in cui il giornalista deve fare una
scelta tra i possibili danni collate-
rali alla carriera e il principio per
cui, se si trova una
notizia, questa va
difesa e pubblicata
dopo essere stata
naturalmente verifi-
c a t a .
Pensi che il tuo
lavoro abbia esercitato una
pressione positiva o negati -
va sulla magistratura? Qua -
li sono stati i rapporti con i
magistrati che si sono occu -
pati dell’inchiesta?
Nel corso dell’inchiesta ho
avuto a che fare con molti magi-
strati, con i quali continuo a darmi
del lei. Oggi c’è una tendenza alla
vicinanza con le fonti di informa-
zione, non solo con la magistratu-
ra ma anche con la politica, che è
estremamente dannosa. Sono
stato interrogato almeno una ven-
tina di volte, mi hanno perquisito
casa e redazione. Sono stato impu-
tato per violazione del segreto
istruttorio, ho pagato anche
un’ammenda. Tuttavia, fino all’ul-
timo abbiamo cercato di mante-
nere quella che dovrebbe essere la
giusta distanza tra chi fa informa-
zione e chi fa indagine. Le due cose
non vanno mescolate mai.
L’inchiesta sulla strage di
Ustica ti ha cambiato la vita?
Ha cambiato la mia carriera
giornalistica, perché capita soltan-
to una volta di avere a che fare con
un evento così importante. Biso-
gna però anche avere la capacità e
la fortuna di capire l’importanza di
un fatto e sentire la necessità di
scavare in profondità.
Andrea Purgatori,I segre-
ti di A bu Omar (Bur).
MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 9
In una buona inchiesta bisognatrovare non tanto le conferme aipropri dubbi, ma acquisire nuovielementi che li smentiscano
L L’ E S T R E M O N O R D
del Pakistan c’è una
regione controllata
dai guerriglieri ta-
lebani, abitata da
più di 1 milione di abitanti. Bahar
fino a quattro mesi fa viveva in
questa regione a pochi chilometri
dal confine afgano e faceva il gior-
nalista. A causa dei suoi articoli è
stato perseguitato, sequestrato,
picchiato e seviziato dai talebani.
Per sfuggire alla morte è scappato
in Francia e da tre mesi vive alla
Maison des journalistes.
«La regione di Swat dalla
quale provengo - racconta B a h a r
(nella foto) - è amministrata dai
talebani che dal 2004 controllano
interamente la zona, tanto che il
governo pakistano non riesce a
intervenire militarmente. La
situazione è peggiorata negli ulti-
mi anni perché i talebani sono
diventati più forti e hanno tolto
sempre più libertà alla popolazio-
ne, soprattutto alle donne». Guar-
dare la tv, ascoltare la radio, balla-
re, tagliarsi la barba sono alcune
delle cose vietate perché conside-
rate anti islamiche, pena la morte
per chi non rispetta i divieti.
Bahar ha scritto degli articoli
contro i talebani prendendo
soprattutto le difese delle donne e
dei bambini. Le conseguenze del
suo lavoro non si sono fatte atten-
dere come lui stesso racconta:
«Per prima cosa sono arrivate le
minacce verbali. I guerriglieri mi
hanno intimato di non scrivere
più contro di loro, di non difende-
re le donne e i bambini altrimenti
mi avrebbero ucciso. Io sono
andato avanti e una sera, mentre
tornavo a casa dal lavoro, alcuni
uomini mi hanno picchiato a san-
gue rompendomi il naso». Le
minacce e i pestaggi non hanno
fermato Bahar che con grande
coraggio ha continuato a denun-
ciare gli abusi dei talebani fino a
quando non è stato rapito. Una
notte è stato prelevato da casa sua
insieme a due cugini. I talebani
l’hanno portato sulle impervie
montagne al confine con l’Afgha-
nistan, dove è rimasto per tre mesi
con la paura di essere ucciso. I suoi
rapitori, invece, lo hanno liberato,
mentre i suoi cugini sono stati
u c c i s i .
«Dopo il rapimento ho capi-
to che il solo modo per salvarmi e
continuare a lottare per il mio Pae-
se era quello di scappare in occi-
dente, dove i giornalisti possono
scrivere senza rischiare la vita -
conclude Bahar. Così sono partito
per la Spagna e, dopo qualche
mese, sono arrivato a Parigi, dove
ho saputo l’esistenza della Maison
des journalistes. Qui mi hanno
accolto e aiutato e da qui voglio
ricominciare a lottare per le donne
del Pakistan».
A
Il rifugio che ospitai giornalisti bra c c at i
« B a h a r ,s c a m p a t oalla furiat a l e b a n a »
libertà di stampa
el mondo sono
numerosi i giornali-
sti costretti a fuggi-
re a causa del loro
lavoro. Spesso
hanno una condanna a morte
pendente o hanno subito violen-
ze e sevizie. Per accogliere alcuni
di loro è stata creata otto anni fa
in Francia la Maison des journa-
listes. I fondatori di questa casa-
rifugio nel centro di Parigi sono
due giornalisti, D a n i e l l e
O h a y o n di Radio France e
Philippe Spinau, ex documen-
tarista e oggi direttore della casa.
In otto anni di vita la Masion des
journalistes ha accolto più di 180
reporter in difficoltà provenienti
da 41 paesi differenti. In questo
momento trovano rifugio al suo
interno uomini e donne fuggiti
da Cuba, Pakistan, Congo,
Gabon, Afghanistan. La maggior
parte di loro è scappato da ditta-
ture di destra e di sinistra che li
hanno condannati a morte e per-
seguitati per gli articoli di denun-
cia contro il regime.
Philippe Spinau è il diretto-
re di questa particolare struttura
dove gli ospiti possono fermarsi
sei mesi al massimo. «Nella
Maison abbiamo a disposizione
15 camere da letto singole per i
nostri ospiti. Accogliamo uomini
e donne di tutte le nazionalità, le
culture e i colori: gialli, neri, rossi,
bianchi a pois - racconta Phlippe
sorridendo. Un punto che ci
tengo a sottolineare è quello del-
l'appartenenza politica, infatti
accogliamo giornalisti di qualsia-
si parte politica, il requisito fon-
damentale è che siano discrimi-
nati nel loro Paese».
Lo stato francese concede lo
status di rifugiati politici ai gior-
nalisti della Maison. Alcuni di
loro sono in attesa di ricevere il
riconoscimento ufficiale ma
durante l’attesa hanno la possibi-
lità di lavorare nella radio e nella
rivista interna, che sia chiama
L’occhio dell’esiliato. Così posso-
no mantenere l’abitudine alla
scrittura e imparare le regole del
giornalismo francese.
Oltre alle attività culturali, i
giornalisti possono frequentare
un corso di francese, per impara-
re la lingua. Per chi ha subito
esperienze di violenza, invece, c’è
l’assistenza di uno psicologo.
«I nostri ospiti hanno avuto
esperienze tragiche - racconta
Philippe -, sono stati sottoposti a
sevizie o, nel caso delle donne, a
violenze sessuali. Chi di loro non
ha subito violenze è comunque
stato costretto a lasciare il pro-
prio Paese, la famiglia, il lavoro a
causa delle minacce di morte
ricevute». Il budget annuale
della Casa del giornalista è di
380 mila euro, una grossa cifra
che ha tre fonti di finanziamento:
la Comunità europea, i media
francesi e il comune di Parigi.
Maison des Jo u rn a l i s t e s35, rue Cauchy - Parigi
m a i s o n . j o u r n a l i s t e s @ w a n a d o o . f r
tel. +33 01 40600402
In otto anni di vitala Maison des journalistes hadato accoglienza a 180 reporterprovenienti da 41paesi diversi. La struttura dàospitalità a tutti,senza distinzionedi razza, religioneo colore politico
di Michela Nana
MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 200910
di Michela Nana
n
I C H I A M O B r a d
Palmer, sono il
papà di Nicklas
Palmer, solda-
to morto in
Iraq il 16 di-
cembre 2006». Poi la voce fra-
na, si interrompe, proseguire
diventa complicato. Nicklas
aveva 19 anni ed è stato ucciso
da un cecchino mentre pattu-
gliava la zona rossa di Falluja.
Il padre racconta la storia di
suo figlio, l’idea di entrare nel-
l’esercito, l’orgoglio della fami-
glia, la parabola di esistenze
normalissime sconvolte dalla
scelta di combattere. Brad è
stato intervistato da un repor-
ter del Denver Post, il quoti-
diano americano più diffuso in
Colorado, nell’ambito di un
progetto multimediale che
traccia “5 anni di guerra”, dal-
la dichiarazione firmata nel
2003 da George W. Bush, f
ino all’incremento delle vio-
lenze nel 2007.
Il media center di d e n -
v e r p o s t . c o m è fra i più curati
del web. Lo spazio dedicato
alle notizie in multimedia è
molto ampio. Video, parole e
foto dialogano sfruttando le
potenzialità della comunica-
zione telematica. Five years
of war”centra il fuoco sul ter-
zo conflitto del golfo, narrando
la guerra attraverso otto punti
di vista differenti, dalle imma-
gini dei civili travolti in batta-
glia, fino agli scatti fra le bare
avvolte nella bandiera duran-
te l’ultimo viaggio dei militari
caduti. Alcune pagine sono
dedicate ai soldati, nati e parti-
ti dal Colorado, uccisi in azio-
ne. Le loro storie, raccontate
dai familiari, ripercorrono la
scelta dell’arruolamento e il
conflitto di chi rimane in
P a t r i a .
Il reportage del D e n v e r
Post è innovativo nella strut-
tura e coraggioso nel contenu-
to. Il percorso multimediale
offre una lettura trasparente
della guerra, lontana dal ten-
tativo di rendere il
conflitto astratto,
edulcorato, parzia-
le. La sezione c i t i -
zens in the crossfi -
r esi apre con l’istan-
tanea di Samar
Hassan, 5 anni, rannicchiata,
piangente e insanguinata al
centro di una stanza buia,
mentre sulla destra un soldato
regge una torcia e il mitraglia-
tore: i genitori della piccola,
spiega la didascalia, sono stati
appena uccisi dai militari
americani. La Timeline della
guerra in Iraq riporta le imma-
gini salienti della tragedia,
inclusa la foto-icona delle tor-
ture nel carcere di Abu Ghraib,
a Bagdad. Mark Echer, Jona-
than Lujan, Mattew Keil,
Nicolas Orchowski e Ray
Robinson sono i protagonisti
della sezione Wounds of war,
dove cinque veterani narrano
il dramma di chi torna dal
fronte come eroe ferito a vita.
«Cosa potrebbe esserci di
meglio? Voglio combattere.
Per questo mi sono arruola-
to». Ian Fischer, 19 anni, ter-
minato il liceo ha deciso di ini-
ziare il percorso che lo con-
durrà in Iraq. Viene da Lake-
wood, Colorado, ed ha braccia
e petto tatuati, esattamente
come il padre che dice: «In
qualità di genitore forse dovrei
impedirgli di fare la guerra». E’
un altro reportage sul Den-
ver post.com a raccontare la
quotidianità e le scelte di un
giovanissimo volontario del-
l’esercito statunitense. Il pro-
getto presenta foto,
video e testi raccolti
per 27 mesi dai croni-
sti del giornale: oltre
due anni nei quali
l’esistenza del dician-
novenne è stata
seguita, dal diploma alla trin-
cea irachena, fino al ritorno a
casa. Un modo per capire
“come si fabbrica un soldato
americano”.
Alla fine del reportage il
protagonista, ancora giova-
nissimo, decide di sposare
Devin la fidanzata del liceo:
«So che andiamo contro i
grandi numeri - dice irritato e
pieno di speranza - ma io
odio le statistiche! Chi ha il
diritto di dire che non possia-
mo sposarci a questa età?».
Intanto i fidanzatini hanno
già comprato un cane: Kyra,
un cucciolo di Pit-bull .
Vivranno tutti insieme in
Colorado. Almeno, fino alla
prossima missione di Ian.
Un fazzoletto di pianure e iso-
lotti affacciati sull’Atlantico
compone la Guinea Bissau,
fra i più poveri e piccoli Stati d’Africa. Da
alcuni anni l’ex colonia portoghese è
diventata crocevia dello spaccio interna-
zionale di droga. Un mercato che vede in
prima linea funzionari di governo corrot-
ti. Il reportage vincitore del premio L e n s
Culture International Exposurep a r t e
dal 2 marzo 2009, giorno dell’assassinio
del presidente della repubblica Joao Ber-
nardo Vieira, protagonista delle grandi
spedizioni di droga, ucciso a colpi di
mitra e machete da un manipolo di sol-
dati ansiosi di sbarcare nel circolo esclu-
sivo dei trafficanti. Il fotografo M a r c o
V e r n a s c h i, nato a Torino ma di stanza a
Buenos Aires, ha scelto di coprire la storia
dimenticata della Guinea Bisseau attra-
verso un racconto in bianco e nero.
L’obiettivo segue le bande di criminali
attraverso i bassifondi della capitale.
Il lavoro di Marco Vernaschi rientra
in un progetto più ampio focalizzato sul-
l’illegalità delle organizzazioni terroristi-
che in Africa, fra multinazionali del terro-
re come Al Qaeda e gruppi di narcotraffi-
canti. «Quando si vuole raccontare la tra-
gedia che circonda il mondo della droga
non si può evitare di essere coinvolti -
spiega l’autore -. Per questo ho dovuto
creare un forte legame con i personaggi
che ho fotografato.»
Per sap e rne di piùw w w . l e n s c u l t u r e . c o m
La lunga guerradel Denver Post
In un perc o rso mu l t i m e d i a l e, il D e nver Po s tha ri c o s t ruito “5 anni di guerra ” in Iraq a part i redalla dichiarazione fi rmata nel 2003 dagli Usa
M
multimedia
Guinea Bissau,t e rra di spaccio
MAGZINE 2 | 23 novembre - 6 dicembre 2009 11
di Gregorio Romeo
di Gregorio Ro m e o
Per sap e rne di piùw w w . d e n v e r p o s t . c o m
E N T O D I C R I S I s u l
fotogiornalismo o
allarme preventi-
vo? Forse tutt’e
due. Certo è che le
richieste d’aiuto lanciate da alcu-
ni siti di riferimento evidenziano
un problema nuovo: anche per il
web mancano i soldi.
A dicembre si spegneranno,
forse per sempre, i server dello
storico sito di fotogiornalismo
d i g i t a l j o u r n a l i s t . o r g f o n d a t o
dodici anni fa, e curato da
Dirck Halstead. Sulla home-
page, sotto l’indicazione
November 2009, Issue 145,
campeggia in rosso accesso il
link per una donazione, con la
quale salvare un caposaldo del
racconto giornalistico per imma-
gini. La crisi è dovuta allo spon-
sor (Canon) che ha tagliato i
fondi, a causa del crollo quadri-
mestrale dei profitti.
D i g i t a l j o u r n a l i s t è una
piattaforma di discussione con-
centrata sulle nuove tecnologie,
sui media digitali, ma anche sul-
l’etica del giornalismo e sul
c o p y l e f t dei contenuti web. Sul
numero di novembre trova
posto un reportage fotografico
sulla caduta del muro di Berlino,
integrato da un’intervista al gior-
nalista Peter Turnley, autore
di molti fotoreportage sulla
guerra del Golfo, sulla Bosnia,
sulla Somalia, trasmesso
anche dalla Cbs; una rubrica di
domande e risposte sulle tec-
niche di inquadratura, ripresa,
ed uso pratico della macchina
fotografica; reviews aggiornate
su marche e modelli di digitali
e tanti dibattiti sul giornalismo
multimediale.
F o t o i n f o . n e t non ha più
un’homepage, o meglio ce
l’ha, ma per arrivarci occorre
passare prima per una scher-
mata arancione sulla quale
caratteri bianchi lanciano un
appello: «Se pensi che il foto -
giornalismo abbia un ruolo
fondamentale nella società
dell’informazione e se pensi
che il lavoro di Fotografia &
Informazione sia importante,
allora aiutaci a tenerla viva.
Un versamento, per quanto
piccolo, ci può aiutare».
Crisi anche per il sito che
da oltre dieci anni tiene aggior-
nati i fotogiornalisti italiani,
rastrella le novità del sulla rete e
lancia nuovi progetti di photo e
video reporting. Su F o t o i n f o . n e t
si trovano fondamentali notizie
per gli addetti ai lavori: come la
nuova regolamentazione del-
l’esercito americano per i foto-
video giornalisti embedded o
l’apertura di nuovi archivi, ulti-
mo quello del World Press
P h o t o, con diecimila immagini a
disposizione, dal 1955 ad oggi. Ci
sono anche rubriche per chi
volesse diventare un fotogiorna-
lista, con indirizzi di corsi e
m a s t e r .
Digital Jo u rn a l i s t sLa crisi del fotogiornalismo passa anche dal we b.D i g i t a l j o u rn a l i s t . o rg, il maggior sito americano perf o t o re p o rt e r, chiuderà i battenti a dicembre. M e n t reFo t o i n f o.net apre una raccolta fondi per soprav v ive re
Rivista quindicinale re a l i z z a t a
dal Master in Giorn a l i s m o
dell’Università Cattolica - Almed
© 2009 - Università Cattolica
del Sacro Cuore
D I R E T T O R EMatteo Scanni
C O O R D I N A T O R ILaura Silvia Battaglia,
O rnella Sinigaglia
R E D A Z I O N EFabrizio Aurilia, Giuditta
Avellina, Chiara Av e s a n i ,
L o renzo Bagnoli, Va l e r i o
Bassan, Marco Billeci, Raff a e l e
Buscemi, Salvo Catalano,
Francesco Cremonesi, Giulia
Dedionigi, Tiziana De Giorgio,
Viviana D’Introno, Fabio Di
To d a ro, Tatiana Donno, Robert o
Dupplicato, Fabio Forlano,
Carlotta Garancini, Ivica
Graziani, Andrea Legni,
Floriana Liuni, Cristina Lonigro ,
P i e rfrancesco Loreto, Alessia
Lucchese, Daniela Maggi,
Paolo Massa, Daniele Monaco,
Michela Nana, Ambra Notari,
Ta n c redi Palmeri, Cinzia Petito,
Simona Peverelli, Gre g o r i o
Romeo, Alessia Scurati, Luigi
S e renelli, Alessandro Socini,
A n d rea To r rente, Enrico Tu rc a t o ,
R o b e rto Usai, Cesare Zanotto,
Vesna Zujovic
A M M I N I S T R A Z I O N EUniversità Cattolica
del Sacro Cuore
largo Gemelli, 1
20123 - Milano
tel. 0272342802
fax 0272342881
m a g z i n e m a g a z i n e @ g m a i l . c o m
PR O G E T T O G R A F I C O
Matteo Scanni
SE R V I C E P R O V I D E R
w w w. u n i c a t t . i t
Autorizzazione del Tribunale
di Milano n. 81 del 20 febbraio 2009
in rete
di Fabrizio Aurilia
MAGZINE 1 | 23 novembre - 6 dicembre 200912
V☎