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Luglio-Settembre 2019 n. 3 Anno 29 Tiflologia per l'integrazione Trimestrale edito dalla Biblioteca Italiana per i Ciechi «Regina Margherita» Onlus con il contributo dell'Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti e della Federazione Nazionale delle Istituzioni pro Ciechi Stampato in Braille a cura della Biblioteca Italiana per i Ciechi «Regina Margherita» Onlus via G. Ferrari, 5/A 20900 Monza Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT. Gli articoli firmati esprimono l'opinione dell'autore, che non coincide necessariamente con la linea della redazione. Direttore Responsabile: Pietro Piscitelli Comitato di Redazione: Giancarlo Abba, Vincenzo Bizzi, Pietro Piscitelli, Antonio Quatraro Segreteria di Redazione: Daniela Apicerni,

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Luglio-Settembre 2019 n. 3Anno 29Tiflologia per l'integrazione

Trimestrale edito dallaBiblioteca Italiana per i Ciechi«Regina Margherita» Onluscon il contributodell'Unione Italiana dei Ciechie degli Ipovedentie della Federazione Nazionaledelle Istituzioni pro Ciechi

Stampato in Braillea cura dellaBiblioteca Italiana per i Ciechi«Regina Margherita» Onlusvia G. Ferrari, 5/A20900 Monza

Rivista realizzata anche grazie al contributo annuale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del MiBACT.

Gli articoli firmati esprimono l'opinione dell'autore, che non coincide necessariamente con la linea della redazione.

Direttore Responsabile:Pietro Piscitelli

Comitato di Redazione:Giancarlo Abba, Vincenzo Bizzi,Pietro Piscitelli,Antonio Quatraro

Segreteria di Redazione:Daniela Apicerni,Francesco Giacanelli

Direzione e Redazione:Biblioteca Italiana per i Ciechi«Regina Margherita» OnlusCentro diDocumentazione TiflologicaVia della Fontanella

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IndiceEditorialeLe proposte dell'Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, di Pietro Piscitelli, (pagg. 130-131)PedagogiaModerne scritture «tachigrafiche» in rotta di collisione con una lingua off-line, di Francesco Augello (pagg. 132-138)Sviluppo cognitivoIo sono... io: la formazione dell’io corporeo. Una ricerca-azione per la qualità dell’inclusione dei bambini disabili visivi nella scuola materna, di Paola Bonanomi (pagg. 139-150)Ipovisione

Ipovedenti e sintesi vocali: una relazione complessa, di Antonino Cotroneo (pagg. 151-162)Classici della tiflologiaGli insegnamenti più importanti nella scuola elementare per i ciechi, di Augusto Romagnoli (pagg. 163-180)Categorie di letteratura infantile e il problema della letteratura ai ragazzi ciechi, di Luigi Grossi (pagg. 181-191)

EDITORIALE

Le proposte dell'Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, di Pietro Piscitelli, (pagg. 130-131) L'Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità (OND) è stato istituito con la legge n. 18 del 2009, di ratifica della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, con lo scopo di promuovere l'integrazione all'interno della cornice delle politiche nazionali. Nel luglio scorso è stato approvato il programma di attività per i prossimi tre anni, che si articola in diverse aree e prevede la formazione di alcuni gruppi di lavoro. La metodologia di lavoro dell'OND si basa in particolare su un «doppio binario»: da una parte prevede interventi mirati alle persone con disabilità, dall'altra intende inserire il discorso sulla disabilità nell'azione politica generale, in maniera tale da applicare la Convenzione ONU in tutti gli ambiti di competenza governativi. Più in particolare le aree di intervento definite nel documento sono 9: non discriminazione, diritto alla vita adulta, contrasto alla segregazione, rete dei servizi per l'inclusione, donne con disabilità, accessibilità, libertà, diritti civili e partecipazione, monitoraggio, cooperazione internazionale. Si tratta pertanto di una azione che parte dalla definizione del concetto di disabilità e di discriminazione (Area 1), per affrontare il diritto alla vita autonoma ed indipendente (Area 2) e quindi all'inclusione (Area 3 e 4). In questo ambito, (Area 4 in particolare) è ricompresa anche l'inclusione scolastica, con azioni mirate al miglioramento della formazione del

personale e l'uniformità del servizio di assistenza scolastica. L'Area 5 è dedicata in particolare alle donne con disabilità, con la necessità di misure per il contrasto alla discriminazione e di sostegno alla genitorialità, interventi per l'occupazione in condizione di pari opportunità. L'Area 6 affronta il tema dell'accessibilità, non solo per quanto riguarda strutture ed edifici (sia pubblici che privati), ma anche i sistemi di trasporto e mobilità, informazione e cultura, con i riferimenti alla convenzione di Marrakesh e alla regolazione della proprietà intellettuale. L'Area 7 è dedicata ai diritti civili: in quest'ambito trovano posto, tra l'altro, il diritto di voto, la libertà di espressione e la partecipazione alla vita pubblica. Viene suggerita la costituzione di organo consultivo permanente, che possa catalizzare gli interessi delle organizzazioni dei disabili per la realizzazione delle leggi, delle politiche e dei programmi. Particolarmente significativa è inoltre l'Area 8, dedicata al monitoraggio. In essa confluiscono le statistiche sulla disabilità, ed anche la ricognizione delle fonti per l'analisi dell'applicazione della Convenzione ONU. A questo fine è previsto il coordinamento con le agenzie sui diritti umani e con l'ISTAT per una migliore gestione dei dati e dell'informazione sulla disabilità. L'Area 9 infine è dedicata alla Cooperazione Internazionale. Si tratta di una azione multiforme e completa che offre un quadro di indagine e di azione sulle problematiche della popolazione disabile che può essere ricca di sviluppi non solo normativi ma anche progettuali e realizzativi.Il direttore responsabile prof. Pietro Piscitelli

PEDAGOGIA

Moderne scritture «tachigrafiche» in rotta di collisione con una lingua off-line, di Francesco Augello (pagg. 132-138) - Non bisogna allontanare i giovani dai nuovi stili di comunicazione, ma semmai guidarli nei vari piani

comunicativi, aiutandoli a scegliere il linguaggio più adatto. - Ho sempre sostenuto, imperterrito, da pedagogista e da tecnologo della didattica, anche in controtendenza rispetto ad uno studio e ad una didattica visibilmente sempre più al ribasso, ma a ragione dei risultati ottenuti con allievi DSA, (I DSA sono disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere, scrivere e calcolare in modo corretto e fluente e che si manifestano con l'inizio della scolarizzazione) che ai giovani di oggi abbisognano, quando non clinicamente indispensabili, più che l’impiego di strumenti dispensativi o compensativi nello studio e mole di facili certificazioni per contenere programmi curriculari, il recupero di una letto-scrittura puntellata dall’incoraggiamento del docente e della famiglia e fatta comprendere con la logica «tensione» di una pedagogia dello sforzo che tanto cara, quanto faticosa, fu per la generazione X (La generazione dei cartoni animati, delle sale giochi e dei primi videogames, dei primi computer, delle televisioni commerciali e dei primi oggetti portatili (walkman, telefonini)) e, ancor prima, per i baby boomers. (La generazione che ha ridisegnato il mondo come lo conosciamo: la generazione «on the road», quella delle rivoluzioni culturali, del pacifismo e del femminismo, dei grandi raduni e del rock. La generazione nata tra il 1946 e il 1964). Perché mai tale «aspra» osservazione? Procediamo per gradi. Negli anni '90, la comunicazione mediata da computer, con la sua iniziale carenza di banda e assistita da una tecnologia di rete basata su Point of Presence, (Un punto di accesso alla rete (generalmente un router) lungo la rete di accesso, fornito da un Provider di Servizi Internet (ISP), in grado di instradare il traffico agli utenti finali connessi ad esso (privati e piccole organizzazioni)) nelle aree geografiche già in grado di beneficiare di tale nodo di rete per l’accesso ad Internet, era parecchio costosa per gli internauti. Per tale ragione per economizzare nei costi di fatturazione spesso si impiegavano applicazioni client in grado di effettuare il download di messaggi per poi poter essere letti off-line. Ma se ciò era possibile con la messaggistica asincrona, come la posta elettronica, non era possibile per i servizi in sincronia, come le prime chat, ICQ, C6, mIRC, ecc., adottando lo stesso

stratagemma di temporanea disconnessione. Ecco allora che fino all’introduzione dei sistemi non più a consumo, bensì flat, dunque prima dell’avvento della banda larga, ovvero nel periodo in cui i costosi abbonamenti Internet la facevano da padroni e dove la «navigazione grafica» (SLIP/PPP) ((SLIP) un vecchio protocollo, debole per quanto riguarda il controllo; (PPP) il protocollo più usato per gli accessi ad Internet via modem, autorizza un indirizzamento dei terminali) occorreva pagarla come optional se non si voleva navigare in modalità testuale, la strategia del basso consumo di banda era concentrata sul riuscire a scrivere dei messaggi ottimizzando significati e significanti, racchiudendoli rispettivamente in pochi caratteri o in una singola immagine costruita inizialmente con un set di caratteri ASCII. (Il codice ASCII (si pronuncia »askii»), che sta per American Standard Computer Information Exchange è la tabella più usata universalmente per la codifica dei dati alfanumerici). Nel tempo gli internauti assimilarono ciò che in seguito sarebbe divenuto il vezzo di una scrittura di «sunto», intere parole sintetizzate con singoli caratteri (lettere, numeri e simboli). Un rispolverare, inconsapevolmente, le scritture tachigrafiche, di tironiana memoria,(A Tirone, liberto di Cicerone e suo collaboratore letterario prezioso, va la lode dei secoli per avere ideato quel sistema tachigrafico complesso, ma non arbitrario, che da lui hanno preso il nome di «tironiane») benché la diffusione della stampa abbia fatto ben presto diminuire l’uso delle abbreviazioni nella scrittura comune, pur salvaguardando in talune forme abituali della grafia moderna alcune espressioni (ecc.=eccetera; p. es.=per esempio; Egr.=Egregio; PQM=Per Questi Motivi). Oggigiorno quel vezzo di una grafia digitale «compressa» è stato veicolato alle nuove generazioni che ne hanno tuttavia esasperato più che la «compressione», la comprensione del testo, nonostante i digital native di ieri ed i mobile born di oggi, non soffrano più l’esigenza di scrivere messaggi rapidamente, se si escludono quelle comunicazioni che, come nella chat-line richiedono una velocità di digitazione prossima ad un dialogo in presenza; infatti il tutto può essere digitato anche off-line per poi inviare le stringhe di testo senza che l’informazione venga perduta o alterata, così come

avviene con le applicazioni WhatsApp, Telegram, Signal, Dust, e Wire. Oltretutto, le connessioni telematiche sempre più performanti ed illimitate nei consumi, agevolano le stesse chat-line che posseggono strumenti di composizione dei significati e dei significanti indubbiamente più rapidi per la comunicazione in tempo reale. L’avvento delle applicazioni di messaggistica istantanea per la telefonia mobile, a partire dalla rete 3G (Affermata tecnologia di «terza generazione» («3G») meglio nota con l'acronimo UMTS (Universal Mobile Telecommunications System). Le prime reti UMTS, lanciate con grande enfasi nel 2002, sono inizialmente pensate per videochiamate e per la trasmissione di programmi televisivi su dispositivi mobili. La larghezza di banda garantita dalla tecnologia, però, è oggi utilizzata dagli utenti in maniera differente: Internet mobile anziché TV mobile) del 2005, ha rimpiazzato, almeno nelle abitudini, l’uso degli SMS telefonici («servizio di messaggi brevi»), ambito all’interno del quale le precedenti generazioni, gli odierni millennials (Ragazzi e ragazze che sono diventati maggiorenni nel nuovo millennio (dal 2000 in poi) che secondo l'Istat hanno superato numericamente la generazione X (quella dei nati tra il 1965 e il 1980)) della rete 2G (Detta anche GSM, è la rete più lenta, la più adatta per chi fa scarso uso di rete Internet e usa il proprio smartphone solo per chiamate e sms in seguito evolutasi in 2,5G chiamata anche GPRS ed è una rete ormai lenta come la sua predecessora, rimane una rete valida sempre per chi non utilizza Internet, una volta veniva usata per le navigazioni wap e invio mms. Velocità max 70 kpbs) del lontano 1993 hanno dovuto riscoprire il «peso» e l’utilità delle composizioni tachigrafiche, giacché non era possibile comporre messaggi più lunghi di 160 caratteri, (In seguito sarà possibile inviare più SMS concatenati, ma composti da 140 caratteri ciascuno per una lunghezza massima iniziale di 3 SMS) cercando di racchiudere più informazioni possibili in un solo SMS e contenendo così la spesa, causa il persistere di una tariffazione a consumo anche per gli short message. Sebbene le reti telematiche ed i software si siano evoluti, parrebbe invece che tale felice sorte non abbiano avuto i nostri giovani studenti che di una necessità oggi non più avvertita, l’abbreviare

incessantemente anche oltre il virtuale, ne hanno fatto una moda anche nella scrittura quotidiana e tra i banchi di scuola. Non di rado si leggono dei digrammi nel corso della correzione di compiti, l’uso della «k» in luogo del «ch», o l’uso del «x» in luogo di «per», o «xò» per il significato «però» e così possiamo copiosamente proseguire con altre scritture tachigrafiche come nel rispondere «+o-» alla domanda «stai bene?». Il tutto al netto degli spazi, sì perché sono una perdita di tempo. Ci si chiede allora come tutto ciò possa «hdere» tra i banchi di scuola, ove certamente gli alunni non devono misurarsi con i limiti di banda o di tempo, poiché generalmente le verifiche si svolgono su un foglio o più protocollo ed il tempo per lo svolgimento di una verifica o di una esercitazione, è calibrato, oggi più di ieri, attentamente in funzione delle singole prove e prestazioni richieste al discente. Viene da chiedersi se oggi l’alunno faccia fatica a disconnettersi da quel vezzo tramandato da una chat ad un’altra o se piuttosto manca nell’off-line quella rigorosa incisività da parte del corpo docenti nel pretendere una scrittura che non sia in rotta di collisione con la lingua italiana sempre più impoverita nel lessico giovanile. È indubbio che al giovane studente, fin dalle preziose scuole elementari occorre far distinguere dapprima i contesti ed i mezzi della comunicazione, definendo indiscutibilmente le regole per riconoscere gli errori tanto in un tema in classe quanto in una comunicazione mediata da computer o da smartphone. Non bisogna allontanare i giovani dai nuovi stili di comunicazione, semmai è il corpo docente che vi si deve avvicinare, per evitare di identificare, come errore sintattico o di registro linguistico, alcuni usi che nulla hanno di scorretto se non abusati e se impiegati correttamente nella situazione comunicativa contestualizzata, ovvero rispettando un livello espressivo proprio di una data situazione comunicativa. I docenti devono oggi avvantaggiarsi di quella capacità linguistica atta a consentire loro di saper comprendere in quale sentiero comunicativo l’allievo si stia muovendo (Nel 2016, in qualità di membro di una commissione di esame di maturità, dovetti faticare non poco per convincere una collega di lettere che intenta nel correggere la prima prova di maturità si imbatté in un

saggio breve svolto in ambito tecnico-scientifico e nel quale il maturando allievo impiegava un lessico tecnologico in linea con la traccia su «uomo e avventura dello spazio». Così molti termini e abbreviazioni proprie di ambito tecnologico vennero inizialmente dalla collega segnate in rosso dietro copiose risate che esaltavano la propria ignoranza nei riguardi di abbreviazioni d’uso corrente nel lessico tecnologico e giovanile, convinta di trovarsi di fronte ad un saggio scritto da un alunno dotato di «eccesso di fantasia») e con pari sicurezza, tra i vari piani comunicativi, riuscire a correggerlo nella scelta, per ogni occasione, di un linguaggio più adatto e per eludere il rischio di confondere una «k» di epoca antica e per influenza del greco, da una «k» figlia di una moderna e vezzeggiata scrittura. È probabile che oggi molti giovani non sappiano che la «k», a differenza di quel valore connotativo oggi rintracciabile ad esempio in una targa automobilistica, come Kr (Crotone) o nelle sigle come Kg (chilogrammo) e Km (chilometro), in epoca antica poteva anche essere motivo di offuscamento o indeterminatezza tra una pronuncia sorda ed una sonora (In italiano, la lettera H dà alla lettera G il suono fonetico gutturale o duro quando si trova davanti a vocali come E e I, in quanto se la H non fosse presente, questa avrebbe un suono dolce o palatale. Quando la G si trova di fronte a A, O e U non c’è bisogno di utilizzare la H poiché il suono non potrà mai essere dolce davanti a queste vocali): per l’esempio in questione, rispettivamente identificate dalle iniziali «ch» e «gh», come per le parole chiavistello, chierico, chiaro e ghermiva, gherlini o seghetto nelle quali la «k» non era permessa e che lentamente è stata cassata dalla lingua italiana. Non si tratta di offuscare la creatività dei giovani o di esacerbare quella dei docenti, ma di non far passare degli orrori di scrittura per più o meno banali errori e viceversa in un'epoca in cui sempre meno si legge e si scrive, (Dal punto di vista geografico, la maggiore percentuale di non lettori è collocata al Sud (il 69,2%), mentre al centro la percentuale è del 55,8% e al Nord è del 49,7%. Fonte ISTAT 2016) basti pensare che secondo fonti ISTAT del 2016, tra coloro che usano Internet tutti i giorni, il 45,6% non legge e, ancora, numeri alla mano, sempre secondo lo stesso riscontro ISTAT, più si va avanti con l’età: nella fascia tra gli 11 e i 14 anni i

non lettori sono il 46,8%, mentre nella fascia tra i 65 e i 74 anni la percentuale cresce e si attesta sul 61%, con picchi del 73,5% tra coloro che hanno dai 75 anni in su.

Conclusioni Il rispetto della scrittura e delle sue regole, va acquisito tra i banchi di scuola, a partire dalla fondamentale esperienza della scuola primaria e dalle scuole secondarie di primo grado, unitamente al consiglio dato da molti docenti, vale la pena ribadirlo: non c’è maniera migliore di imparare a scrivere bene che quella di leggere molti libri: come sempre ripeto ai miei studenti, l’importante non è ciò che si legge, ma è semplicemente leggere, purché ciò che si sta leggendo sia scritto in un italiano corretto. Ciò che spesso viene ritenuto una seccatura per molti discenti è la rilettura, alla pari di una ripetizione, la quale tuttavia proprio per non entrare in rotta di collisione con ciò che si vuole esprimere e con la lingua italiana stessa, risulta fondamentale perché non solo facilita a rendersi conto se abbiamo fatto errori grammaticali, di espressione, ma anche se ciò che abbiamo redatto risulta chiaro o se necessita di qualche controllo grammaticale e di rifinitura. Risulta evidente, come punto d'arrivo, che le moderne scritture come le antiche celano una reciproca ricorsività storico–grammaticale e questo dovrebbe essere un modo per appassionarsi ed appassionare intere generazioni di studenti che, nel tempo della modernità letteraria e di messaggistica virtuale, più che essere sorretti dalla regola del leggere in classe, sembrano oggi sempre più sorretti dalla regola di un «conquistato» certificato di dispensa alla lettura e che si traduce ancor più come un lascia passare verso un tempo curriculare alternativo: l’hotium, eludendo così quella pedagogia che rigetta lo «sforzo zero» e lo stesso accordo siglato con un patto educativo oramai palesemente fallimentare per famiglie, alunni e scuola.

Bibliografia Antonelli, G. (2007). L’italiano nella società della comunicazione. Bologna: Il Mulino. Antonelli, G. (2014). L’e-taliano: una nuova realtà tra le varietà linguistiche italiane?. In: Dal manoscritto al web: canali e modalità di trasmissione dell’italiano.

Tecniche, materiali e usi nella storia della lingua. Atti del XII Congresso SILFI Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana (Helsinki, 18-20 giugno 2012), a cura di Enrico Garavelli, Elina Suomela-Härmä. Firenze: Franco Cesati, vol. II, pp. 537-556. Biffi, M. (2011). La Crusca in rete. In: Coletti 2011, pp. 275-292. Coletti, V. (a cura di) (2011). L’italiano dalla nazione allo Stato. Firenze: Le Lettere. Coveri, L., Benucci, A., Diadori, P., (1998). Le varietà dell'Italiano: manuale di sociolinguistica italiana. Roma: Bonacci Editore. D’Achille, P. (2010). L’italiano contemporaneo. Bologna: Il Mulino. Ferrari, A. (2014). Linguistica del testo. Principi, fenomeni, strutture. Roma: Carocci. Lubello, S. (a cura di) (2016). L’e-taliano. Scriventi e scritture nell’età digitale. Firenze: Franco Cesati. Palermo, M. (2016). Testi cartacei e digitali: una sfida per il docente di italiano. In: Grammatica e testualità. Metodologie ed esperienze linguistiche a confronto. Atti del I Convegno-Seminario dell’ASLI Scuola (Roma, 26-27 febbraio 2015), a cura di Paolo D’Achille. Firenze: Franco Cesati, pp. 25-37. Pistolesi, E. (2004). Il parlar spedito. L’italiano di chat, e-mail e sms. Padova: Esedra. Pistolesi, E. (1997). Il visibile parlare di IRC (Internet Relay Chat). In: Quaderni del Dipartimento di Linguistica. Firenze: Università di Firenze, n. 8, pp. 213-246. Sabatini, F. (1982). La comunicazione orale, scritta e trasmessa: la diversità del mezzo, della lingua e delle funzioni. In: Educazione linguistica nella scuola superiore: sei argomenti per un curricolo, a cura di Anna Maria Boccafurni, Simonetta Serromani. Roma: Provincia di Roma-CNR, 1982, pp. 105-127. Ristampato in: Sabatini (2011), tomo II, pp. 55-77. Sabatini, F. (2011). L’italiano nel mondo moderno. Saggi scelti dal 1968 al 2009, a cura di Vittorio Coletti [e altri]. Napoli: Liguori. Serianni, L., Trifone, P. (a cura di) (1994). Storia della lingua italiana. Torino: Einaudi, vol. II, Scritto e parlato.Francesco Augello

(pedagogista e docente in tecnologie della didattica e didattica multimediale)

SVILUPPO COGNITIVO

Io sono... io: la formazione dell’io corporeo. Una ricerca-azione per la qualità dell’inclusione dei bambini disabili visivi nella scuola materna, di Paola Bonanomi (pagg. 139-150) - Il bambino con disabilità visiva porta con sé problemi di natura individuale e sociale che non possono essere affrontati solo in campo riabilitativo. - Ogni bambino deve potersi integrare nell'esperienza educativa che essa offre, essere coinvolti nell'attività anche quelli che presentano difficoltà di adattamento e di apprendimento per i quali costituisce un'opportunità educativa rilevante (da: «Orientamenti dell'attività educativa nelle scuole materne statali», 1991). La scuola dell'infanzia, primo segmento formativo del lungo percorso scolastico, affronta i temi della diversità e dell'inclusione così come sono definiti negli Orientamenti, focalizzando nel Progetto Educativo e nella stesura dei Piani Individuali, con tempi e modi differenziati, la chiave di volta attraverso la quale il bambino in difficoltà viene «riconosciuto e si riconosce come persona attiva nella comunità scolastica e quindi capace di assumere il ruolo di protagonista del proprio personale processo di crescita». La concezione interazionista degli Orientamenti, interpreta lo sviluppo infantile come risultato di una continua interazione fra l'adulto di riferimento e il bambino, coinvolti entrambi in un processo di co-costruzione dove, anche il bambino disabile visivo, deve avere la possibilità di diventare capace di interagire significativamente con adulti e compagni, di esserne positivamente influenzato e di influenzarli in modo rilevante. Il bambino con gravi deficit visivi porta con sé problemi di natura individuale e sociale che non possono essere affrontati solo in campo riabilitativo. Lo stesso termine prevenzione, in tiflologia, perde la sua accezione sanitaria e si ancora alla pedagogia, all’educazione per una crescita positiva e per ridurre i possibili effetti secondari della minorazione.

La domanda, che da sempre la scuola dell’infanzia pone al Centro di Consulenza Tiflopedagogica dell'Istituto dei Ciechi di Milano, è di natura strettamente metodologica e didattica e può essere sintetizzata in: «Come collegare la Programmazione Individualizzata agli obiettivi della sezione?» In alcune scuole materne, dove sono presenti bambini con gravi minorazioni visive seguiti dal nostro servizio, una prima offerta metodologica è stata un’analisi degli Orientamenti, come prima e iniziale risorsa formativa. Sono state approfondite, con i docenti delle sezioni, le indicazioni curriculari, i campi di esperienza relativi ai «Campi della Corporeità e della Motricità individuale» e le aree di apprendimento fondamentali per i bambini con disabilità visiva, presenti nelle diverse sezioni. Contemporaneamente vengono definite le metodologie educative, analizzati i materiali didattici strutturati-non strutturati da acquistare o spesso da ricreare nelle diverse sezioni. All'interno dei diversi ambiti del fare e dell'agire, si è individuato come tema centrale, la conoscenza e costruzione dello Schema Corporeo e la sua rappresentazione: tappa fondamentale per la strutturazione e lo sviluppo dell’IO. Il lavoro ha visto coinvolti: insegnanti titolari, insegnanti di sostegno in un progetto di ricerca, dove ogni proposta didattica, doveva essere recepita e agita sia dai bambini con gravi deficit visivi sia dai loro compagni. La «risorsa» compagni è infatti una variabile insostituibile ed essenziale nel processo di crescita e un miglioramento della qualità della relazione per i nostri bambini. È stato utilizzato come metodologia l'apprendimento cooperativo a coppie e a piccoli gruppi, scelti materiali accessibili e attività espressive iconiche/drammatico teatrali che, stimolando la partecipazione e la condivisione, hanno permesso la valorizzazione, le capacità di ognuno e facilitato gli apprendimenti. L'esperienza formativa sulla corporeità, infatti, ha contribuito alla maturazione complessiva dei bambini, promuovendo una presa di coscienza del corpo e del suo valore inteso come una «delle espressioni della personalità e come condizione funzionale, relazionale,

cognitiva, comunicativa da sviluppare in ordine a tutti i piani di attenzione formativa.»

Costruzione dello schema corporeo La formazione dello schema corporeo si sviluppa attraverso un’adeguata e sistematica crescita della motricità di base, della lateralizzazione e dell'equilibrio, unita al raffinarsi delle coordinazioni motorie e dei rapporti topologici. È attraverso il corpo, che il bambino riceve informazioni utili per le sue costruzioni mentali e per la formazione del suo pensiero. F. Bordogna sostituisce il termine acquisizione con costruzione proprio per sottolineare il ruolo attivo della conoscenza infantile. Per il suo corretto sviluppo è importante promuovere e sviluppare anche nel bambino con problematiche visive: - L’Io come soggetto e il suo corpo come strumento di relazione. - La scoperta e la manipolazione del mondo degli oggetti, nel quale il bambino sviluppa ed esercita il suo Io. - La consapevolezza della presenza degli altri, da cui l’Io è strettamente dipendente per realizzare la sua affettività. Quando queste variabili non sono acquisite, la crescita del bambino può presentare difficoltà nella strutturazione e nell’elaborazione della realtà e del mondo oggettuale. Il bambino si riconosce quando ha preso coscienza di essere lui stesso parte dell’ambiente circostante e può differenziarsi come soggetto di relazione, solo quando ha conosciuto le sue possibilità e i suoi limiti. Il primo passo per un’esperienza corporea vissuta è quella del corpo come entità che occupa una posizione spaziale ben definita. Anche lo stadio dello specchio ha un importante ruolo nella strutturazione unitaria del Sé corporeo e la sua assenza determina per il bambino, in difficoltà visiva, un’evoluzione più lenta e più complessa. Gli altri sono spesso voci e contatti frammentari, non vede i movimenti che compie, non sperimenta l'eco dello specchio che gli rimanda la sua immagine e lo conferma nella sua fisicità, rendendo così più difficile la costruzione dell'identità corporea.

Il bambino rischia così di costruirsi un’immagine corporea parziale, frammentata, fatta di singole parti e di possedere una conoscenza del corpo esclusivamente verbale. Avrà difficoltà a percepire il proprio corpo fisico come unità, a costruire dello stesso una rappresentazione mentale globale e corretta. Questo limita la sua capacità di relazione, la sua motricità, la conoscenza dello spazio e degli oggetti che lo circondano. Nel bambino che non vede va verificata la comprensione concreta di un concetto, ed è sempre necessaria una risposta comportamentale, che dimostri il reale possesso di quella determinata nozione. I bambini con deficit visivo costruiscono i loro concetti, i loro simboli, il loro linguaggio attraverso l’operatività. Agire attivamente nell’apprendimento della formazione dello schema corporeo è per loro un requisito fondamentale, una ricca possibilità per la lettura del mondo esterno e per la costruzione di un movimento funzionale e consapevole.

Piste di lavoro Dall'approfondimento teorico, dalla prassi quotidiana, dalla condivisione dei saperi, il percorso di sviluppo per l'acquisizione dello schema corporeo e dello schema corporeo rappresentato è diventata per le sezioni coinvolte l'Unità didattica: IO sono... IO ovvero un percorso ludico possibile per i bambini con minorazione visiva e per i loro compagni, una griglia di valutazione (P. Bonanomi, Griglia di valutazione della costruzione dello schema corporeo in bambini non vedenti e ipovedenti (in corso di pubblicazione)) e uno scrigno di materiali specifici. La costruzione dell’identità corporea è un processo dinamico che vede coinvolta l’area delle esperienze agite. L’adulto deve avere come obbiettivo, per il bambino, la strutturazione dell’Io corporeo come caposaldo per lo sviluppo dell’organizzazione delle percezioni residue, della conoscenza e della relazione tra gli oggetti. La consapevolezza corporea per il bambino disabile visivo è essenziale per il suo sviluppo globale, senza di

essa non può sentirsi un’entità indipendente e separata dal mondo. L’Educatore deve essere ponte tra lui e il mondo esterno: da lui dipende il raggiungimento e la conquista della formazione di un Io capace e protagonista e la consapevolezza della presenza dell’altro per poter condividere e crescere. È nel contatto «corpo a corpo» con l’adulto che il bambino non vedente matura, giorno dopo giorno, la possibilità di scoprire l’interezza del proprio corpo; di costruirsi lo schema corporeo negatogli dall’impossibilità di procedere ad una verifica del Sé speculare o all’assunzione dell’immagine similare mediante l’imitazione dell’adulto o del compagno. Il contatto fisico è il primo fondamentale momento per la costruzione dell’Io e la scoperta dell’unità fisica, che successivi percorsi ludici tenderanno a rinforzare, avviando in tal modo il nascere della coscienza e della consapevolezza del Sé fisico, trampolino per la formazione del Sé sociale. L’Educatore, attraverso esperienze educative mirate, deve aiutare il bambino in difficoltà visiva a raggiungere gli obbiettivi specifici per la corretta conoscenza: - del suo corpo e delle sue parti; - delle parti del suo corpo in relazione tra di loro; - di quello che può fare con il suo corpo; - del suo corpo come entità separata dagli altri; - di come il suo corpo sia in relazione alle altre cose; - di come le altre cose siano in relazione tra di loro; - delle altre persone presenti nel suo contesto quotidiano; - di come può influenzare il mondo degli oggetti e delle persone; - dei suoi movimenti corporei nello spazio. Il raggiungimento di questi obbiettivi, garantisce un buono e positivo concetto di Sé e da questo la formazione di un Io forte. La stessa consapevolezza del proprio corpo, gli permette di strutturare lo spazio, che a sua volta contribuisce all’organizzazione del corpo. Il corpo realizza la sua azione nello spazio, azione che non è un’attività motoria semplice ma orientata nel contesto, verso uno scopo da un’intenzionalità.

Il corpo è il punto di riferimento dello spazio motorio e determina nel bambino la padronanza dei suoi movimenti, condizione essenziale per la futura autonomia. L’esperienza corporea nella sua iniziale dimensione ludico–motoria, permette la costruzione dell’immagine soggettiva del bambino e favorisce la coscienza di Sé attraverso un dinamismo interdipendente tra lui e l’ambiente in cui vive. Il Piano Educativo individualizzato, deve contenere proposte didattiche specifiche e porsi i seguenti risultati: 1. Riconoscere e denominare le varie parti del corpo su di sé. 2. Riconoscere e denominare le varie parti del corpo su altri. 3. Riconoscere e denominare le varie parti del corpo su una bambola. 4. Riconoscere e denominare le varie parti del corpo su un’immagine in rilievo del corpo. 5. Identificare e denominare le funzioni delle parti del corpo. 6. Saper ricostruire la figura umana con materiale plastico (das, plastilina...). Osservare, scoprire, esplorare il proprio corpo, conoscere le varie parti che lo caratterizzano e poi rappresentarlo, presuppone un processo graduale e la programmazione di proposte educative specifiche. L’Educatore deve progettare un percorso e sviluppare Unità Didattiche, dove il primo gradino è la formazione e lo sviluppo del: Corpo vissuto: - L’Io che agisce, che si costruisce come unità fisica e scopre gli altri: «Tocca la tua bocca... tocca la bocca del tuo compagno». - L’Io che conosce e scopre la funzionalità delle varie parti del corpo: «A cosa servono le tue mani?... Quali parti del corpo usi se devi metterti in ginocchio?» - L’Io che sperimenta gli altri e l’ambiente: «Dove ti trovi?... Dov’è il tuo compagno?». - L’Io che opera con gli oggetti: «Metti la bambola dentro la scatola... Dov’è il bicchiere?» È necessario, far vivere e assumere direttamente al bambino, le diverse azioni e posizioni sia statiche che dinamiche, perché possa fissarle e interiorizzarle, per

avere l’esatta percezione del proprio corpo in ogni istante. Il movimento, deve essere sentito dal bambino e controllato come modificazione del suo sistema neuro-muscolare, deve sentire che sta alzando il braccio senza poterlo controllare con la vista. E solo quando il bambino ha una conoscenza dell’unità del suo corpo è possibile iniziare la presa di coscienza segmentaria. Il secondo gradino è il: Corpo percepito: - L’Io che associa le sensazioni motorie e cinestesiche agli altri dati sensoriali e sviluppa il controllo posturale. La loro fusione permette progressivamente di passare alla rappresentazione del Sé corporeo e delle proprie azioni. - L’Io che afferma la lateralità e l’indipendenza degli arti in rapporto al tronco: «Dammi la tua mano destra... Dai un calcio al pallone con il piede sinistro...» Il terzo gradino è il: Corpo rappresentato: - L’Io che immagina il suo corpo, legge e riproduce schemi motori su sé, sul compagno, sull’omino, sulla bambola. Che distingue azioni in situazioni di quiete da quelle in movimento: «Mettiti nella stessa posizione dell’immagine... Alza le braccia del tuo compagno... Fai camminare la bambola...». Il bambino in questa fase acquisisce la capacità di immaginare il suo corpo che si muove e di anticipare il pensiero e le azioni. Il bambino, quando avrà raggiunto la completa padronanza corporea, saprà anche riconoscere e riprodurre i movimenti che ha sperimentato, perché, avendo imparato ad associare i movimenti al corpo, si è costruito gli schemi motori, cioè la consapevolezza delle sequenze motorie che deve fare per compiere determinate azioni. È importante ricordare, che solo attraverso la sperimentazione diretta, il bambino disabile visivo conosce il corpo del compagno e dà corporeità alla voce che sente. Contemporaneamente deve scoprire che l’omino rappresentato nelle immagini e coperto parzialmente, quindi in parte nascosto da un altro oggetto, non è un omino mancante di un pezzo ma intero, completo.

Spesso, infatti, le risposte dei bambini ipovedenti e non vedenti sono state nel primo anno della scuola materna non sempre adeguate sul piano percettivo-cognitivo: le parti nascoste o coperte erano lette come parti mancanti o rotte. L’esperienza del «corpo vissuto» era stata sostituita dal «corpo raccontato» e nella lettura, alcuni bambini, hanno individuato come assenti le parti non direttamente visibili o sentite tattilmente. L’adulto, all’inizio, deve stimolare il bambino gravemente ipovedente e non vedente a verificare, in situazione reale, che il compagno, la bambola che spuntano da dietro lo scatolone risultano avere sì una parte non visibile o non tattilmente percepibile, ma solo perché lo scatolone fa da barriera ai loro occhi, alle loro mani. E ancora: - È l’Io che copia e imita gli atteggiamenti del corpo e la mimica del viso del compagno e dell’adulto. - È l’Io che rappresenta con modalità e materiali diversi lo schema corporeo, l’omino intero o le singole parti da ricomporre. Attività quasi mai spontanea e autonoma, nel bambino in difficoltà visiva, ma fondamentale per una corretta interiorizzazione.

Materiali didattici Nel Progetto Educativo i materiali didattici strutturati e specifici ma inclusivi, hanno assunto un ruolo importante. La loro introduzione, oltre ad aver favorito il raggiungimento degli obbiettivi individuati, ha permesso una condivisione dell’attività attraverso il loro utilizzo anche da parte dei compagni vedenti. Nelle proposte didattiche la scelta del gioco di composizione del «Puzzle dell’Omino» ha sviluppato nei bambini, operazioni logiche di confronto, di analisi e di completamento attraverso la ricomposizione dell’immagine, confrontandola contemporaneamente in ogni fase con il modello rappresentato. «Il corpo e le sue posizioni» hanno rinforzato l’esperienza diretta e promosso il riconoscimento delle posizioni illustrate che il proprio corpo può assumere. «Il corpo nello spazio» ha permesso di apprendere le differenti posizioni che, pur essendo frequenti nella

pratica quotidiana, possono comportare difficoltà di interpretazione nella lettura. Inoltre il bambino può rappresentare con materiale plastico e texture diversificate l’io corporeo interiorizzato, partecipare con i compagni all’esperienza del contornare la sagoma di uno di loro steso a terra su un grande foglio, utilizzando un rotolo di spugna adesiva o in presenza di un residuo visivo un pennarello a punta grossa e a colore a contrasto con lo sfondo. Il bambino ipovedente, aiutato dall’adulto, può accedere alla lettura del suo viso in fotografia quando questa rispetta le leggi del contrasto, delle dimensioni e della pulizia dello sfondo, intesa come assenza di elementi, che possono rendere difficoltosa una corretta discriminazione e individuazione dei dettagli. L’Educatore nella fase di verifica valuterà se il bambino non vedente è in grado di riprodurre un omino con materiali plastici (das, plastilina...) e il bambino ipovedente anche disegnare un omino con materiali grafici. Il positivo risultato è frutto di una metodologia specifica che, partendo dal corpo agito, attraverso percorsi educativi, permette ai bambini dapprima guidati, poi autonomamente, di essere in grado di costruire concretamente un’adeguata immagine corporea. La colonna sonora, di questa lunga salita verso il dominio dell’apprendimento, è sempre stata la contemporaneità della verbalizzazione dell’attività, dove la parola e l’azione vissuta sono sempre associate per essere correttamente interiorizzate, avendo chiaro che ogni aspetto della maturazione e crescita del bambino debba partire sempre da contesti proposti a livello di vissuto. Al termine della ricerca, per gli Insegnanti ed Educatori coinvolti, la presenza nella loro scuola dei bambini con grave difficoltà visiva è stata una fonte preziosa di formazione e insieme una costruttiva integrazione fra gli adulti, che hanno condiviso un impegno di lavoro originale e che ha permesso di trasformare un iniziale processo d’inserimento in una inclusione di qualità.Paola Bonanomi(Centro di Consulenza e Ricerca Tiflopedagogica per la disabilità visiva nell’età evolutiva, Fondazione Istituto dei Ciechi di Milano)

IPOVISIONE

Ipovedenti e sintesi vocali: una relazione complessa, di Antonino Cotroneo (pagg. 151-162) - Una analisi rigorosa e particolareggiata di diversi scenari in cui l'ipovisione si confronta con gli strumenti tifloinformatici. -

Parte 1 Genitori, insegnanti, educatori, tiflologi, riabilitatori, chiunque ha a che fare con ragazzi e adulti ipovedenti, ha molto probabilmente avuto modo di toccare con mano quanto sia delicata e complessa la loro relazione con gli strumenti che permettono di trasformare in voce i testi e gli elementi grafici visualizzati su uno schermo. Mani e occhi – Siamo nell’era dei dispositivi cosiddetti «smart»: dispositivi piccoli, grandi, tascabili, ma anche elettrodomestici, con cui interagiamo di continuo per impartire loro comandi, o per ottenere da essi delle informazioni. La tipologia di interazione con questi strumenti è ormai molto varia. Inviamo ad essi dei comandi attraverso delle tastiere fisiche o delle tastiere virtuali (sugli schermi touch); diamo loro ordini mediante sistemi di puntamento, come il mouse, i pennini o delle tavolette grafiche; usiamo come strumento di input direttamente le nostre dita. Audio e TTS – Non solo. L’informatica, sebbene sin dai principi della sua diffusione di massa abbia privilegiato un’interazione uomo-macchina basata principalmente sui canali visivo e cinestesico (occhi e mani), a fianco alle interfacce grafiche abbiamo visto un interessante, e negli ultimi anni crescente, sviluppo di una interazione basata anche sul canale auditivo. Pensiamo agli annunci vocali in stazione o in treno che traducono quanto scritto sui tabelloni, alla guida vocale presente sulle macchinette automatiche per le fototessere, alle casse automatiche di alcuni supermercati... Ma potete divertirvi ad allungare la lista. Negli ultimi dieci anni circa, i software che trasformano i testi in voce, chiamati TTS (Text To Speech), hanno iniziato ad essere impiegati per risolvere problemi anche in altri contesti. La dislessia, ad esempio, oppure per permettere la lettura di un articolo durante la guida in auto o in

moto, abilitare la lettura di e-mail, notizie, libri, a mani libere mentre si sta facendo qualcos’altro. Tecnicamente i TTS permettono di selezionare un testo, o una parte di esso, e ottenerne la lettura ad alta voce per mezzo di una sintesi vocale. Li possiamo trovare almeno sotto due vesti diverse. Per computer o dispositivi mobili sotto forma di software e app stand-alone, oppure come funzionalità inglobate in software più complessi o nel sistema operativo stesso. Quest’ultimo è il caso del lettore integrato in ZoomText, il diffusissimo software dedicato all’ipovisione, o delle opzioni «Leggi selezione» e «Leggi schermo» su iOS, il sistema operativo di iPod, iPhone e iPad. Relativamente ai TTS ricordo ancora con molto stupore quando alcuni anni fa mi trovavo nello studio con la persona che stava accordando il mio pianoforte. Io ero alla scrivania a leggere alcuni messaggi di posta elettronica in cuffia grazie alla sintesi vocale, e lui al pianoforte a fare una revisione tecnica. Accorgendosi di quello che facevo, ad un certo punto interrompe il suo lavoro ed esclama stupito: «Caspita! Ma tu hai un software che ti vocalizza i messaggi?». «Sì», rispondo, e glielo mostro. Lo volle comprare anche lui! Mi disse che aveva trovato la soluzione per leggere i blog che gli interessavano, mentre svolgeva lavori manuali in laboratorio, o si spostava in macchina tra un servizio di accordatura e l’altro. Mani e orecchie – Del resto, ormai da circa quarant’anni le persone non vedenti possono contare su strumenti hardware e software che permettono loro di interagire con il dispositivo mediante tastiera o gesti su schermo touch, e traducono in voce e suoni ciò che è presente a video. Sono i cosiddetti screen reader (in italiano lettori di schermo) e le sintesi vocali. Questi strumenti, adesso principalmente solo software, ma che all’inizio della loro storia erano dotati anche di pezzi hardware, consentono a chiunque di usare un computer o un device mobile a schermo spento, e quindi in special modo alle persone non vedenti o con difficoltà di vista. In sostanza, spostano l’interazione uomo-macchina sui canali auditivo e cinestesico (orecchie e mani), permettendo all’utente di esplorare l’interfaccia grafica attraverso la tastiera o dei gesti su touch screen, ricevendo in output il feedback sonoro di ciò che si sta esplorando. Ad esempio, il pulsante con l’icona del floppy disk, che

tutti visivamente associamo ormai inconsciamente all’azione di salvataggio di un lavoro, nell’interazione tramite lettore di schermo potrà essere raggiunto da tastiera, manifestarsi all’utente sotto forma di un messaggio vocale del tipo «pulsante Salva», e quindi sempre da tastiera essere attivato. Risultato simile anche sugli ormai evoluti tablet o smartphone, dove l’elemento dell’interfaccia può essere toccato o raggiunto mediante gesti tattili appositamente programmati (le cosiddette gestures). Assistenti vocali e Smart Speaker – In tempi ancora più recenti il mercato del grande pubblico sta mostrando di sentirsi positivamente partecipe della relazione tra voce e sistemi informatici, apprezzando anche la possibilità di comunicare tramite interazione vocale con PC e dispositivi mobili. Siri per il mondo Apple, Google Assistant per Android, Cortana per Microsoft, per citare solo gli ecosistemi più diffusi tra il grande pubblico, sono funzionalità che ci consentono, mediante il solo uso della voce, di compiere operazioni sia semplici che complesse, come effettuare una telefonata ad un numero specifico salvato in rubrica, leggere ad alta voce gli ultimi messaggi ricevuti, avviare un programma, cercare sul web un ristorante e chiamarlo, sapere che temperatura ci sarà domani in un’altra città ad un’ora specifica, avviare il navigatore per guidarci verso una destinazione, e molto altro. E ancora, proprio l’anno scorso hanno visto la luce, anche in Italia, due scatoline, Google Home e Amazon Echo che, installate in casa, ci permettono mediante delle richieste espresse a voce e in linguaggio naturale come se parlassimo con un altro essere umano, di ricevere informazioni, effettuare acquisti online, far partire la nostra playlist preferita, o comandare le luci e gli elettrodomestici di casa. Vocalizzazione sì o no? – Insomma, la voce, umana o sintetizzata, sia per l’input che per l’output fa ormai parte a pieno titolo dei canali di comunicazione tra noi e le tecnologie informatiche. Eppure, quando si parla di questi strumenti, nonostante la loro flessibilità e grande varietà di impiego, con i ragazzi e gli adulti con ipovisione, a scuola e nella vita di tutti i giorni, viene spesso fuori il tema della «non accettazione». Nel momento in cui un genitore, o un insegnante/educatore, o un tiflologo si accinge a proporre uno screen reader o un

TTS come strumento utile al percorso educativo o riabilitativo della persona con ipovisione, è piuttosto frequente la rilevazione di un certo rifiuto dello strumento. Perché? Perché delle tecnologie così utili a chiunque e ricercate dai più, indipendentemente da eventuali difficoltà di vista, vengono rifuggite proprio da coloro che in teoria potrebbero trarne un beneficio ampio? Da tifloinformatico che lavora con i ragazzi e gli insegnanti, ma anche da persona con ipovisione molto grave che usa armonicamente qualsiasi tecnologia possa migliorare la qualità della mia vita e del mio lavoro, e tra queste c’è anche il display Braille, mi sono posto a lungo questa domanda. Solo recentemente ho iniziato ad avere le idee un po’ più chiare, avendo accumulato adesso più di otto anni di esperienza professionale e avendo seguito qualche centinaio tra ragazzi e adulti con ipovisione e alcune decine di insegnanti ed educatori in tutta Italia. Il problema non è banale è forse scientificamente ancora poco indagato. Nel tentare di analizzare questo quesito e trovare delle risposte plausibili, mi sono venuti in aiuto quattro Profili di interazione con i device, che ho formulato in questi anni basandomi sulla costante osservazione e sul costante monitoraggio dei processi didattici a fianco alle persone con ipovisione e agli operatori che ho seguito sin ora. Sono dei modelli empirici, non hanno – almeno per il momento – una dimensione strettamente scientifica, ma si sono rivelati sempre piuttosto validi per il fine che mi sono proposto. Questi quattro profili ritraggono, quindi, semplicemente quattro persone ideali e distinte, con specifiche situazioni visive e specifico approccio alle tecnologie digitali.

I Profili in sintesi: Profilo 1: «Mi oriento bene negli spazi digitali; riconosco icone grazie a colori e dettagli; uso poco l'ingrandimento, mi è utile solo per vedere meglio qualche dettaglio; leggo a media-breve distanza, meglio se ottimizzo un po' il layout; mi trovo più a mio agio leggendo a vista; la vocalizzazione non mi è utile, o lo è solo in alcuni casi, a comando». Profilo 2: «Mi oriento abbastanza bene negli spazi digitali; riconosco icone grazie alla loro posizione e a

dettagli visibili; l'ingrandimento mi è utile di tanto in tanto per vedere i dettagli; leggo con zoom o personalizzazione del layout; preferisco vocalizzare solo se ne ho bisogno; trovo utile puntare o toccare un paragrafo per ascoltarlo, ma gestisco il resto a vista». Profilo 3: «Mi oriento con disinvoltura negli spazi digitali conosciuti; credo di orientarmi anche in quelli nuovi, ma capita spesso di perdermi delle cose/sono consapevole di avere forti difficoltà negli spazi che non ho ancora esplorato; riconosco icone grazie alla loro posizione e dettagli molto visibili; senza zoom al massimo posso distinguere le diverse aree di un’interfaccia grafica o avere una panoramica di dove si trovano i pulsanti e le icone, oppure il testo; posso vedere i dettagli solo zoomando; leggo con fatica con zoom o grazie alla personalizzazione del layout; mi stanco presto o perdo il filo del discorso. Mi aiuta un impiego adeguato dello screen reader, quando valorizza la mia visione e non la esclude; puntare o toccare un'icona o un paragrafo per ascoltarlo mi permette di leggere molto di più; se uso solo lo screen reader escludendo il canale visivo, mi sento smarrito». Profilo 4: «Mi oriento negli spazi digitali distinguendo solo tra chiari e scuri, pieni e vuoti, oggetti ben contrastati, solo vagamente le forme; riconosco icone solo grazie alla loro posizione, oppure con ingrandimenti notevoli (es. un'icona occupa quasi l'intero schermo); senza zoom ho solo sensazioni di visione, di pieni e di vuoti; con livelli notevoli di zoom posso vedere qualche dettaglio, con ingrandimenti notevoli (es. su un monitor da 20» ci faccio stare una o due lettere) posso leggere caratteri o parole; non riesco a leggere testi; uso lo screen reader in tutte le sue funzioni, anche se voglio comunque conservare la mia visione per sentirmi più a mio agio«. Nella seconda parte di questo articolo, che uscirà sul prossimo numero di questa rivista, li analizzeremo assieme, ne mescoleremo le caratteristiche peculiari e cercheremo di usarli come cartina di tornasole per gettare un po’ di luce su questi interrogativi.

Parte 2 Abbiamo visto quanto sia ricco e vario al giorno d’oggi il mondo dell’interazione vocale tra uomo e tecnologie informatiche, parlando di screen reader, di Text-To-

Speech (TTS) e di smart speaker. Abbiamo osservato poi come, considerando le persone con ipovisione non di rado venga fuori il tema della «non accettazione» di queste tecnologie, e ci siamo chiesti il perché di questo fenomeno. Ci siamo, infine, impegnati nel tentativo di gettare un po’ di luce a riguardo, delineando su base empirica quattro profili di interazione tra persona ipovedente e tecnologie informatiche, che ci aiuteranno a entrare meglio nel problema. Li riprendiamo di seguito. Profilo 1 – Ipovisione lieve: «Mi oriento bene negli spazi digitali; riconosco icone grazie a colori e dettagli; uso poco l'ingrandimento, mi è utile solo per vedere meglio qualche dettaglio; leggo a media-breve distanza, meglio se ottimizzo un po' il layout; mi trovo più a mio agio leggendo a vista; la vocalizzazione non mi è utile, o lo è solo in alcuni casi, a comando». Profilo 2 – Ipovisione media: «Mi oriento abbastanza bene negli spazi digitali; riconosco icone grazie alla loro posizione e a dettagli visibili; l'ingrandimento mi è utile di tanto in tanto per vedere i dettagli; leggo con zoom o personalizzazione del layout; preferisco vocalizzare solo se ne ho bisogno; trovo utile puntare o toccare un paragrafo per ascoltarlo, ma gestisco il resto a vista». Profilo 3 – Ipovisione medio-grave: «Mi oriento con disinvoltura negli spazi digitali conosciuti; credo di orientarmi anche in quelli nuovi, ma capita spesso di perdermi delle cose/sono consapevole di avere forti difficoltà negli spazi che non ho ancora esplorato; riconosco icone grazie alla loro posizione e dettagli molto visibili; senza zoom al massimo posso distinguere le diverse aree di un’interfaccia grafica o avere una panoramica di dove si trovano i pulsanti e le icone, oppure il testo; posso vedere i dettagli solo zoomando; leggo con fatica con zoom o grazie alla personalizzazione del layout; mi stanco presto o perdo il filo del discorso. Mi aiuta un impiego adeguato dello screen reader, quando valorizza la mia visione e non la esclude; puntare o toccare un'icona o un paragrafo per ascoltarlo mi permette di leggere molto di più; se uso solo lo screen reader escludendo il canale visivo, mi sento smarrito». Profilo 4 – Cecità parziale: «Mi oriento negli spazi digitali distinguendo solo tra chiari e scuri, pieni e vuoti, oggetti ben contrastati, solo vagamente le forme;

riconosco icone solo grazie alla loro posizione, oppure con ingrandimenti notevoli (es. un'icona occupa quasi l'intero schermo); senza zoom ho solo sensazioni di visione, di pieni e di vuoti; con livelli notevoli di zoom posso vedere qualche dettaglio, con ingrandimenti notevoli (es. su un monitor da 20» ci faccio stare una o due lettere) posso leggere caratteri o parole; non riesco a leggere testi; uso lo screen reader in tutte le sue funzioni, anche se voglio comunque conservare la mia visione per sentirmi più a mio agio«. Orientarsi tra i quattro profili – Quando parliamo di ipovisione, nella pratica, le regole e gli standard non esistono. Ogni persona ha delle caratteristiche visive pressocché uniche, a cui si affiancano le variabili del profilo psicologico, la formazione, l’educazione e il contesto socio-culturale, che per natura sono altrettanto uniche. Approcciarci all’ipovisione con dei modelli preconfezionati, quindi, sembrerebbe un evidente errore in partenza che quasi certamente ci indurrà in strade sbagliate. La prima cosa che dobbiamo far nostra, dunque, è una: questi modelli non sono reali. Dobbiamo considerarli come degli estremi ideali di cui possiamo mescolare le singole caratteristiche. Una persona con ipovisione può sicuramente avere esattamente tutte e sole le caratteristiche di un singolo modello, ma la maggioranza degli ipovedenti riuscirà a descrivere più verosimilmente la sua condizione, provando a combinare tra loro le caratteristiche di due o più di essi, ottenendo ulteriori possibilità di lettura degli scenari di ipovisione verosimili. Avendo adesso questi quattro modelli ideali come riferimento, forse risulterà più facile provare a capire le cause del rifiuto di cui ho accennato sopra. E soprattutto, provare a gestirlo, possibilmente risolverlo, e successivamente essere nelle condizioni di impostare delle strategie educative e didattiche adeguate e utili alla crescita della persona con ipovisione che abbiamo in carico. Seguiamo questo percorso attraverso degli esempi di scenario. Sono inventati, ma li ho ricalcati pensando a situazioni reali in cui mi sono imbattuto durante il mio lavoro. Giulia, primo scenario – È possibile che Giulia legga bene a media-breve distanza senza bisogno di ingrandimento (modello dell’ipovisione lieve), ma che allo stesso tempo abbia un campo visivo solo centrale e

molto ristretto, quindi trovi utile impiegare la vocalizzazione al puntamento del mouse (modello ipovisione media o modello ipovisione grave), in modo da evitare di doversi sobbarcare la totale scansione di tutto il paragrafo. Oppure, altra variante, sempre Giulia, onde evitare la faticosa scansione oculare di tutta una pagina web, potrebbe giovarsi nell’usare i comandi rapidi di uno screen reader per farsi un’idea della struttura della pagina, per poi proseguire la lettura delle parti che le interessano appoggiandosi solo alla sua vista. Mario, secondo scenario – Mario (con ipovisione molto grave) sta scrivendo una lunga relazione su Word e deve ad un certo punto formattare una riga come titolo di secondo livello. Se Mario conosce molto bene l’interfaccia del software e sa esattamente in che zona dello schermo sta posizionato ciascuno dei pulsanti utili, pur sapendo usare pienamente lo screen reader al pari di uno studente con cecità parziale, è possibile che preferirà raggiungere il pulsante a lui utile puntandolo col mouse e ascoltandone l’etichetta vocalizzata, come avrebbe fatto una persona con un’ipovisione media, piuttosto che raggiungere il pulsante cercandolo passo-passo con lo screen reader o attivandolo con una combinazione di tasti di scelta rapida. Attivato il pulsante, poi, Mario proseguirà l’editing del suo documento quasi completamente mediante il lettore di schermo (come una persona con cecità parziale o totale), risparmiando le sue energie visive e potendo lavorare più efficacemente e più a lungo. Emma, terzo scenario – Emma ha un’ipovisione tra il lieve e il medio livello, e per la compagnia assicurativa per cui lavora sta facendo l’analisi di una serie di dati su una griglia in Excel che è composta da 500 righe e 18 colonne. Ad una distanza dal monitor sufficientemente vicina, Emma riesce senza grossi problemi, sia a leggere i dati nelle celle, sia ad attivare tramite mouse i pulsanti dell’interfaccia a lei utili, sia a spostarsi all’interno della griglia per individuare le celle su cui intervenire. Il lavoro non sarà breve, la griglia dovrà essere esplorata in lungo e in largo un numero molto elevato di volte per diverse ore. Seppur Emma possa compiere con le proprie energie visive tutte queste operazioni singolarmente, farlo ripetutamente e per un tempo prolungato come quello lavorativo, la farà stancare

molto, la sua efficienza diminuirà, così come il suo benessere, il suo senso di frustrazione aumenterà, e tutto ciò alla lunga può inficiare negativamente sulla sua rendita lavorativa generale. Per prevenire tutto ciò, la nostra Emma potrà imparare ad usare bene lo screen reader come le persone con una ipovisione molto più grave della sua o con cecità, e sfruttarne le caratteristiche per ottimizzare e canalizzare al meglio le sue energie visive. Ad esempio, potrà esplorare la griglia attraverso i tasti di scelta rapida sulla tastiera, saltare di punto in punto sfruttando i valori semantici dei dati intercettati dallo screen reader, leggere il dato della singola cella grazie al feedback vocale, ed intervenire quindi adeguatamente sul dato. In tutto questo processo la vista le sarà di grande aiuto nel monitorare gli spostamenti all’interno del foglio, ma verrà risparmiata dal ricercare i singoli punti da raggiungere in una griglia così vasta. Un importante accorgimento che le restituirà tanta energia e la renderà più efficiente nel suo lavoro e, in generale, molto più rilassata, soprattutto a lungo termine. Tommaso, quarto scenario – Ancora un’altra situazione. Tommaso vede pochissimo. Cinque anni fa riusciva a leggere con i suoi occhi, anche se a distanza molto ravvicinata, poi man mano la sua vista è andata via via calando. Adesso si trova in una situazione abbastanza assimilabile al modello di cecità parziale descritto sopra. Deve quindi riaddestrarsi all’utilizzo del computer e trovare nuove strategie. Tommaso potrebbe tranquillamente usare il PC a schermo spento e con il solo screen reader, poiché il suo residuo visivo non carpisce informazioni particolarmente significative dall’interfaccia grafica. Tuttavia, quando egli viene introdotto all’adozione totale del lettore di schermo, chiede di voler continuare ad avvalersi delle funzionalità di ingrandimento. Ciò può sembrare paradossale, ma non lo è. Parlandoci con calma, l’operatore che si occupa della sua riabilitazione capisce che Tommaso ha bisogno di sentire ancora la «presenza» della sua vista, non vuole escluderla. Egli, infatti, con un percorso adeguato, potrà raggiungere il suo equilibrio psicologico e operativo, da una parte apprendendo ad un livello avanzato ad impiegare lo screen reader (esso sarà il suo strumento principale), dall’altra non spegnendo il suo canale visivo e

consentendogli di «sbirciare» all’occorrenza sullo schermo quando lo vorrà; ciò gli permetterà di poter associare a ciò che sente, anche delle immagini, e questo gli sarà di conforto e forse in qualche caso fungerà anche da debole, ma per lui confortante, stampella di orientamento nello spazio digitale ormai per lui quasi totalmente sonoro. Andrea, quinto scenario – Andrea riesce a leggere discretamente bene con gli occhi, poi scopre che su testi lunghi si stanca e l’insegnante spesso gli fa notare di non aver colto il senso del tutto. Adottando la sintesi vocale Andrea scopre che potrà leggere testi molto lunghi e trattenerne la maggior parte del contenuto, pur continuando a impiegare lo sguardo per seguire la struttura del testo, controllando l’ortografia e seguendo il flusso del contenuto per ottimizzare i carichi di lettura in funzione della quantità di testo totale da leggere. La lettura tramite sintesi vocale gli permetterà di risparmiare energie per la decifrazione delle singole sillabe e consentirà all’occhio di vigilare anche per tempi più lunghi sul layout e sulle quantità di testo. Per capire meglio il sentimento di rifiuto, di cui abbiamo parlato, ed effettuare dei tentativi di risoluzione, ci è utile approfondire gli esempi illustrati sopra e capire quali strategie sono state messe in atto e, soprattutto, perché. Ci sono sicuramente delle ragioni molto profonde a livello psicologico, come in certi casi la non completa accettazione della situazione visiva. Oppure una incompleta presa di coscienza di tutti gli aspetti ad essa legati, che sono di solito frutto di un’educazione familiare e di percorsi scolastici non completamente adeguati. L’analisi di tutti questi aspetti nella loro globalità va fatta in maniera oculata dal gruppo di professionisti che seguono la persona nel suo percorso (insegnanti, tiflologo, educatore, mentore, riabilitatore, ecc.). Dobbiamo tenere ben in conto che nelle strategie tifloinformatiche, però, spesso si nasconde il buon successo di un percorso educativo o didattico, o il suo fallimento. Delle buone strategie possono far superare alla persona anche dei blocchi notevoli, e quindi esse meritano la nostra attenzione. Psiche e strategie – Vediamo quindi come leggere e trarre informazioni utili dagli scenari esposti sopra.

Le persone come Giulia tendenzialmente tendono a non cercare spontaneamente il supporto di una funzionalità vocale, perché il loro visus gli permette di fatto di leggere il testo con gli occhi. Se l’operatore propone loro un TTS o uno screen reader come alternativa assoluta per la lettura di testi, sottintendendo l’esclusione del canale visivo, esse possono non sentire rispettata la natura ancora funzionante della loro parziale visione. Da qui il naturale rifiuto. Un po’ come se ad ognuno di noi, dotato di gambe funzionanti, ci obbligassero a camminare con due stampelle. Proponendo a Giulia, invece, l’ausilio del TTS o dello screen reader come completamento di ciò che già riesce a vedere, il rifiuto potrà essere ridimensionato di molto. Giulia continuerà a vedere dove stanno i paragrafi di un testo, ma una volta individuato il contenuto da leggere, potrà delegare questo oneroso compito in termini energetici ad una sintesi vocale. Anche per Emma, ad una prima analisi le sue caratteristiche visive non richiederebbero l’integrazione di un lettore di schermo e, poiché le capacità della sua vista sembrano bastare a ogni attività, anche nel suo caso, proporle uno screen reader potrebbe essere da lei percepito come un’invasione ingiustificata della sua sfera funzionale. Ma nel caso di Emma, solitamente la situazione tende a essere opposta a quella di Giulia. Sono, cioè, gli operatori che potrebbero ritenere completamente inutile lo screen reader per via dell’efficienza visiva di lei. Errore che, però, non aiuta Emma a spiegarsi la stanchezza, i rallentamenti e il calo di efficienza nello svolgere quel tipo di compito, a lungo termine. Ciò può generare un senso di inadeguatezza a cui Emma non riesce ad associare una causa specifica, che quindi, probabilmente lascerà irrisolto o crescerà. Allargando invece lo sguardo, abbracciando la situazione personale di Emma e i suoi obiettivi lavorativi nello specifico, per le dinamiche viste sopra, un’adozione molto mirata di screen reader e tastiera fungerebbe da antidoto preventivo ai problemi individuati. Probabilmente di solito a Emma non serve un feedback vocale, ma nella gestione di una tabella di dati così imponente potrebbe fare la differenza. Anche per il caso di Andrea possono valere le osservazioni appena fatte per Giulia ed Emma. Una funzionalità di Text To Speech o un lettore di schermo potrebbero non aver senso in quanto tali, ma avranno

molto probabilmente un importante ruolo nel liberare le energie nascoste di Andrea. Ed egli non potrà che accorgersi di questo, dopo averne fatto adeguata esperienza, in un sufficiente tempo di sperimentazione. Per il caso di Tommaso, probabilmente, la parola chiave è «confort», nel senso di «agio», ma anche di «conforto». Alcuni psicologi sostengono che affrontare la perdita della vista sia come affrontare un lutto. E in casi come questi è proprio la parola conforto che, in base alla mia esperienza, deve essere assecondata. Anche in questo caso la persona potrebbe vivere un senso di violazione della propria sfera personale, se non gli viene riconosciuto dall’operatore il diritto di poter sfruttare quei bagliori residuali, quelle sensazioni di visione, seppur bassissima, appoggiandosi di tanto in tanto ad un ingrandimento, ad un qualche tipo di visualizzazione. Se per Giulia, Emma e Andrea è il vocale a fungere da conferma potenziante di quanto vedono, per Tommaso è, invece, il visivo a fungere da conferma potenziante di quanto egli ascolta. Sicuramente il tema del «confort» è estendibile anche alla situazione di Mario, ma nel suo caso, conservando egli una funzionalità visiva non scarsissima, l’esigenza di compiere delle operazioni usando il canale visivo e il coordinamento oculo-manuale funge da spazio indispensabile in cui sperimentare e tenere in esercizio delle abilità, che probabilmente sono parte importante della sua identità personale. L’attivazione del pulsante per segnare come titolo quella specifica riga di testo potrebbe essere tranquillamente fatta tramite tastiera e screen reader, però, in questo caso, il fatto di attuarla tramite mouse contribuisce a tenere viva quella parte importante, visiva, di Mario. Quest’ultimo, secondo me, è proprio uno di quei casi in cui immolare l’appagamento personale sull’altare dell’efficienza, non ripaga. Le strategie devono porre al centro la persona – Come abbiamo potuto vedere dalla disamina di questi scenari, che, ripeto, sono inventati, ma fortemente calibrati e ispirati da situazioni concrete che incontro settimanalmente nella mia attività di tifloinformatico, l’approccio all’ipovisione non contempla ricette universali. Ogni persona è un caso a sé, che porta caratteristiche visive, psicologiche e di contesto specifiche. Uniche, direi. La relazione con i sistemi di vocalizzazione sollecita queste corde e per questo è

molto delicata. L’operatore deve, quindi, innanzitutto prendere piena coscienza di ciò, e successivamente disegnare e proporre assieme al tifloinformatico, strategie e soluzioni adeguate e personalizzate, che l’utente possa sperimentare, toccare con mano, e di cui egli possa anche misurare l’efficacia nel tempo. La partecipazione attiva dell’utente è fondamentale ed è un requisito imprescindibile, perché questi percorsi vanno ad impattare su due variabili cruciali, quali l’autoefficacia e l’autocoscienza. La seconda non risulta sempre ben calibrata tra le persone con ipovisione, e un suo disequilibrio porta all’assenza della prima, che è fondamentale per la sedimentazione nel tempo di strategie sempre più autonome e autoprodotte, e per il miglioramento della percezione di sé. Quando la persona non riconosce, se pure a piccolissimi passi, la bontà dell’intervento, il processo virtuoso di sperimentazione, autopercezione, autoconsapevolezza, e quindi autoefficacia, non parte e ogni proposta rischia di essere vana. Vale la pena, se la persona non è ancora pronta ad abbracciare la strategia proposta, di fermarsi e aspettare che i tempi maturino, evitando forzature tanto inutili, quanto ahimè di frequente adozione. Nella maggior parte di questi casi, la sana virtù della pazienza verrà premiata.Antonino Cotroneo(tifloinformatico e docente di musica)

Brevi indicazioni per i collaboratori (pag. 192) Si offrono di seguito alcune indicazioni di massima a cui gli autori dei contributi dovrebbero possibilmente attenersi, per venire incontro al lavoro redazionale della segreteria ed alle esigenze tipografiche della rivista. La collaborazione a «Tiflologia per l'Integrazione» è libera. I contributi dovranno pervenire possibilmente via posta elettronica (all'indirizzo: [email protected]) in formato doc. Il testo dovrà essere in carattere Times New Roman 12 con una interlinea di 1,5. I rientri dei paragrafi dovranno essere di 0,5 a sinistra e a destra. Si raccomanda particolare cura nella citazione bibliografica, che dovrà seguire il sistema «Autore-Data»

secondo le regole dell'American Psychological Association (APA). I riferimenti interni al testo dovranno trovare una esatta corrispondenza nella citazione estesa che si troverà alla fine dell'articolo. (Diversi sono i siti Internet che offrono una panoramica sullo stile citazionale dell'American Psychological Association. Si può, tra gli altri, vedere: http://campusgw.library.cornell.edu/newhelp/res£strategy/citing/apa.html). Gli autori che riportano una bibliografia a corredo del loro articolo (senza rinvii all'interno del testo) dovranno utilizzare lo stesso metodo citazionale «Autore-Data». Si raccomanda inoltre particolare cura nei dati citazionali, dal momento che alla redazione non sempre è possibile verificarne la correttezza. La redazione si riserva comunque il diritto di intervenire sul testo per uniformarlo alle norme tipografiche. Si ringrazia per l'attenzione.

CLASSICI DELLA TIFLOLOGIA

Gli insegnamenti più importanti nella scuola elementare per i ciechi (Tratto da: Atti del Congresso internazionale pel miglioramento della condizione dei ciechi, Napoli, 30 marzo-3 aprile 1909, Napoli, Tip. Priore, 1909, pp. 86-101. Il titolo dell'intervento è della redazione ed è stato ripreso da un paragrafo dell'intervento di Romagnoli, il quale apre la trattazione del secondo tema del Congresso dal titolo: «Nei confini dell'istruzione elementare, che precede quella speciale, artigiana, artistica e professionale, quali sono gli insegnamenti che contribuiscono con maggiore efficacia allo sviluppo della intelligenza dei giovanetti ciechi? In questo periodo scolastico, quali sono le migliori occupazioni fuori della scuola e in che misura esse debbono far parte della vita degli alunni?»), di Augusto Romagnoli (pagg. 163-180) - Il Romagnoli analizza con precisione quali sono i principi e le metodologie didattiche per gli alunni non vedenti della scuola elementare. - Due postulati è indispensabile porre innanzi: 1° L'istruzione elementare non è da confondere con la scuola

preparatoria, il giardino d’infanzia o la educazione materna, come oggi si fa in quasi tutti gli istituti d’Italia e di fuori. Ordinariamente si inizia la istruzione elementare tra i sei e gli otto anni; ma se per i bambini veggenti è riconosciuta ogni giorno più la necessità dei giardini d’infanzia, questa necessità per i piccoli ciechi si impone a tal segno, che in parecchi educatori specialmente d’Inghilterra e di America, si viene formando la convinzione che sia più utile aprire asili e giardini d’infanzia, piuttosto che istituti di istruzione elementare. Un bambino cieco, bene educato nel giardino, può senza difficoltà fruire in seguito delle scuole elementari comuni; mentre si veggono oggi perdere sei, otto e anche dieci anni nel corso elementare dentro gli istituti, ed annoiarsi a dodici, quindici e anche venti anni per lunghe ore nei laboratori ad apprendere con difficoltà lavori semplicissimi da fanciulli, perché le basi dell’educazione dei sensi, dello sviluppo fisico, di quel substrato d’innumerevoli semplicissime fondamentali nozioni ed esperienze che debbono inconsciamente e profondamente fissarsi nei primi più teneri anni coi giuochi e le carezze, furono sempre presupposte e mai fatte. I bambini veggenti, anche trascurati e abbandonati totalmente a se stessi, hanno negli occhi un mezzo efficacissimo di autoeducazione; sono eccitati alla curiosità, all’imitazione, alla corsa, al giuoco; i ciechi invece sono per di più costretti spesso alla immobilità e all’inerzia da una pietà malintesa o da una eccessiva paura che si facciano male; così che poi non è raro vederne accolti a sette od otto anni in un istituto, che ancora non sanno camminare né mangiare né vestirsi da soli. E questi automi si collocano tra i banchi a insudiciare il sillabario. (Al Giardino d’infanzia comunale di Bologna, sono stati ammessi alcuni ciechi insieme coi veggenti; i risultati sono ottimi. In attesa di una relazione completa a stampa, raccomando intanto il bell'articolo «Come si devono educare i bambini ciechi» di Guglielmina Ronconi (Riv. di Tiflologia, IV, N. 5-6)). 2° postulato: Non si può parlare degli insegnamenti preferibili da dare ai ciechi, fino che non si abbiano insegnanti capaci di impartirli: prima di tutto oggi s’impone la necessità di formare i maestri. In quasi tutti gli istituti sono chiamati all’insegnamento e perfino alla direzione uomini non di rado ricchi di cuore

e di buona volontà, ma privi di preparazione tecnica speciale; ora, l’educazione dei ciechi non è solo opera di pietà e di cuore, ma oserei dire principalmente di arte e di testa. Non è raro il caso di insegnanti, passati da un giorno all’altro dalla condizione di alunni a quella di maestri nel medesimo istituto, nella medesima scuola e di direttori od insegnanti veggenti, che visitano un istituto di ciechi per la prima volta il giorno stesso in cui vi entrano in funzione. Nella migliore delle ipotesi deriva che, se sono veggenti, l’opera loro rimarrà superficiale e sterile, perché troppo generica e non appropriata alle particolari esigenze degli educandi (conosco dei maestri e direttori di ciechi che ignorano e usano a mala pena il sistema Braille), se sono ciechi, col fondamento di una coltura appena elementare, non avranno nemmeno idea di ciò che sia metodo e didattica, e insegneranno come possono quello che alla meglio hanno imparato; onde si verifica purtroppo quello che scriveva egregiamente il Guilbeau nel primo numero della Revue Typhlopédagogique: «L’istruzione dei ciechi, in più di un secolo, da Valentino Haüy e da Luigi Braille sino a noi, non ha fatto sostanzialmente alcun progresso, camminando sempre sul binario, sulla routine da essi tracciata». Anzi siamo costretti di fare una seria constatazione: ogni istituto tiene, direi quasi, gelosamente ad adibire i propri ex allievi, chiudendosi in se medesimo e in una tradizione di usi e sistemi esclusivi, che contribuiscono a rendere i ciechi, già sequestrati per natura dalla comunanza degli altri uomini, anche più isolati e lontani, quello che io soglio chiamare, con frase amaramente scherzosa, Regnum Caecorum, e dove viene seriamente la voglia di dimandare: Se un cieco guida un’altro cieco, dove anderanno tutti e due a finire?... Una cosa solo io dico, e vorrei fosse udita dai pubblici poteri: Per educare un fanciullo normale, occorre un diploma di maestro; ora è più facile educare un fanciullo normale o un fanciullo cieco? E come mai per fare ciò non si richiederà se non un po’ di cuore, e non si è ancora pensato nemmeno a una scuola speciale per la preparazione di questi speciali insegnanti? Due conseguenze importantissime, che discenderanno subito dalla attuazione di questi due postulati, sono queste: Risulterà evidente come i ciechi siano senza miracoli educabili, e che i pochi egregiamente riusciti

finora, sono primizie, non eccezioni; cesseranno gli educatori, essi per i primi, di disperare che possa mai l’arte e l’amore trionfare della sventura; cesseranno di parlare sospirando di rassegnazione, per sostenere entusiasti e coraggiosi un’opera di riparazione e adattamento, e i ciechi, presi e curati sapientemente in tenerissima età, daranno dopo breve tempo migliori risultati che quelli di oggi alla fine del corso di educazione.

Gli insegnamenti più importanti nella scuola elementare per i ciechi L’educazione dei normali deve aiutare la natura; quella degli anormali deve inoltre correggerla, riparare cioè alle sue deficienze, moderare i suoi eccessi: Ora quali sono le deficienze, quali gli eventuali eccessi che porta seco la cecità nelle sue vittime? La vista è il mezzo più rapido e più sintetico delle rappresentazioni delle immagini e delle conseguenti percezioni o idee obiettive, concrete, dirette delle cose. Per acquistare la conoscenza particolareggiata di tutti gli oggetti contenuti in questa camera, io sono costretto a toccarli uno per uno con le mie mani, poi a comporne pezzo per pezzo la sintesi, come in un’opera di mosaico; l'occhio abbraccia il tutto e le singole parti in un rapido sguardo e ne fissa l’immagine nel cervello come una fotografia entro la camera oscura. Si può dunque asserire, senza tema di esagerare, che può afferrare più elementi rappresentativi, più immagini, un veggente in una occhiata, che un cieco in una settimana. D’altra parte per altro ciò che si acquista in velocità si perde in forza, ciò che si guadagna in estensione, si perde in profondità e viceversa, data una medesima od eguale potenzialità; per ciò deriva, che quanto più numerose e rapide sono le percezioni visive, tanto più facile la distrazione e il dissipamento. Al contrario, i ciechi, sia per il mezzo eminentemente analitico della loro percezione, cioè il tatto, sia per la scarsità e lentezza dei suoi dati, esercitano assai più e sviluppano conseguentemente assai prima le facoltà della riflessione e dell’attenzione, così che non è raro incontrarle in essi in modo ipertrofico e dannoso a tutto l'equilibrio fisico e mentale. Possiamo dunque stabilire questa massima, la quale risulta concordemente da tutti gli studi intorno alla

condizione particolare dei ciechi: La cecità ostacola gravemente la quantità, la rapidità, e la precisione delle percezioni sensitive e delle corrispondenti idee concrete; favorisce lo sviluppo, non di rado troppo precoce e preponderante, dell'attenzione, della meditazione e delle altre facoltà interiori. Prima cura dunque dell'educatore dovrà essere fornire al cieco la maggior copia di materiale concreto di rappresentazioni e immagini sensibili, mediante la massima utilizzazione degli altri sensi, la frequenza delle descrizioni minuziose e fedeli, l’insegnamento precoce degli elementi delle scienze positive sperimentali. Con questo soltanto, verrà a moderare e utilizzare l’eccesso dell’attività interiore psichica, apprestandole solidi elementi. Gli esercizii fisici e sopra tutto gli incitamenti dell’aria aperta, del sole, dei giuochi e della convivenza con veggenti, contribuiranno nel modo più efficace a formare e mantenere quell’equilibrio armonico di mente sana e forte in sane e forti membra, che al cieco è doppiamente necessario. Doppiamente ho detto, e insisto su questa parola: In fatti, poiché per avere l’equilibrio occorre tanto maggiore vigoria e salute fisica quanto più vigorosa e attiva è la mente, dovendo il cieco trovare nello sviluppo psichico il compenso alla vista, occorrerà che l’anima possa alla sua volta disporre di un organismo proporzionalmente più fortificato, senza il quale, in vece di riparare a un disordine, cadremo in un altro e forse maggiore. Molti direttori di ciechi si sono così preoccupati della serietà e concentrazione precoce dei loro alunni, che hanno semplificati i programmi al di sotto di quelli per i fanciulli normali; questo è un errore, come di quei medici che per guarire i malati di una intossicazione li consumano con la dieta: Bisogna tenere fermo che solo con lo sviluppo e la superiorità psichica un cieco deve riparare la sua deficienza sensoriale e che, se l’educazione appunto non riesce riparatrice, essa diviene forse più male che bene; non dunque esinanire la mente per non sopraffare il corpo, ma fortificare questo con la ginnastica e sopra tutto con la sapiente organizzazione delle ricreazioni. Di questo parlerò nella seconda parte; ora mi basta avere accennato alla loro capitale importanza, perché da esse solo può ottenersi quello che per un cieco è imposto dalla necessità e favorito dalla natura, cioè che i programmi

di studio della scuola elementare siano più vasti, non più ristretti che per gli altri fanciulli. Tenendo per base i programmi comuni, le materie alle quali occorre dare maggiore sviluppo sono, secondo i criteri suesposti la geometria in primo luogo, poi la geografia e gli elementi delle scienze fisiche e naturali. Intendiamoci bene subito: Io non dimando di mettere in disparte la lingua, la storia, l’aritmetica, gli elementi della morale e specialmente della religione: Insegnamenti ottimi, anzi indispensabili forse forse più di quelli stessi che io caldeggio, specialmente per un cieco, condannato a portare nella vita una croce tanto pesante, se non sia premunito di singolare energia e conforti spirituali. Ma queste materie la naturale tendenza degli alunni, nella massima parte dei casi, provvederà a non lasciarle indietro, appunto perché sono quelle che più facilita e rende attraenti la condizione medesima della cecità. Raccomandare lo zucchero o lo sciroppo a un fanciullo è superfluo a chi prescrive le medicine. Resta dunque inteso per ora e per sempre, che io prego di accettare tutte le mie affermazioni col dovuto grano di sale, poiché io sono uno che abborro tanto dagli eccessi, che la paura di dire sempre troppo o troppo poco mi mette i sudori ogni volta che debbo scrivere o parlare. Seguiamo la natura, non vincoliamoci mai ad alcuna teoria; ma badiamo che la natura vuole essere interpretata con la ragione, non col sentimento: Ecco tutto. La Geometria elementare sarà la migliore base dell’insegnamento oggettivo: Già nel giardino d’infanzia la composizione e scomposizione di figure, secondo il sistema Froebeliano, dovrà essersi praticata coi ciechi più accuratamente e frequentemente che con i fanciulli comuni; l’insegnamento elementare vergerà sulle misure di superficie e di volume, sull’analisi e riduzione a forme geometriche di superfici e oggetti meno semplici e regolari, avvezzandoli a riprodurre in piccolo per esempio la superficie di un giardino, di una sala, di un tragitto che hanno percorso, il volume di un mobile che hanno toccato, i contorni di una statua, di una pianta, di un animale. La geometria mette in possesso delle forme elementari, di cui gli oggetti sono variamente composti: Parallelogrammi, poligoni, circoli, prismi, piramidi, cubi, sfere, sferoidi e via dicendo, quando il cieco ne abbia acquistata la famigliarità, non gli sarà difficile

riportare ad esse i contorni meno regolari degli oggetti che analizza col suo tatto, concretando così, in certo modo anche questi in elementi precisi e ottenendo note chiare e distinte per la sintesi dei concetti, che in lui, assai più che nei veggenti, deve essere riflessa e cosciente. Inoltre è facile per questa via insegnargli il modo di toccare e di rappresentarsi, e rappresentare all’occorrenza, negli schemi più semplici e razionali, quali appunto sono quelli del disegno grafico, le cose. Si osservi infatti il modo di toccare di un cieco imperito: Egli palpa senza ordine l'oggetto messogli sotto le mani, torna e ritorna sul medesimo punto, non sapendo quale criterio di orientazione gli convenga seguire. Quando invece gli si siano dati gli elementi fondamentali delle forme, egli incomincerà subito a riportare ad essi la sua percezione: Non di rado inoltre vedrete il cieco imperito fermarsi oziando sopra accessori o ornamenti, dietro i quali perde il più delle volte il filo della percezione degli elementi essenziali; le mani del cieco istruito andranno invece subito a determinare i contorni (figura quadrata o rettangolare, cilindrica o poliedrica) poi i diversi piani e loro rapporti (base, altezza, inclinazione, proiezione ecc.) e in questo modo comincerà subito col collocare l’oggetto nella sua posizione statica e rappresentarselo, per dir così, in un punto di vista determinato e fisso. Se poi sarà stato avvezzato a tracciare graficamente le figure elementari, acquisterà l'abito mentale di rappresentarsele internamente in schemi precisi; e siccome il passaggio dalle forme più semplici alle più complesse non è se non di grado, a poco a poco giungerà alla rappresentazione schematica interiore e alla possibilità del corrispondente disegno grafico degli oggetti, non diversamente da quelli che hanno la vista. Io potevo seguire dal mio posto alla scuola pubblica i disegni che i professori facevano alla lavagna. Accompagnando la descrizione orale ai tracciati, i miei compagni veggenti attendevano a questi, io seguendo la parola, me li formavo via via nella mente, e non mi era difficile non solo la geometria piana e solida, ma nemmeno la fisica e le scienze naturali. Mi si permetta di citare un aneddoto, non per altra ragione, che di documentare il mio concetto. Una volta il professore di fisica (il caro e riverito professore cav. Giuseppe Casati del Regio Liceo di Bologna) spiegava e

disegnava alla lavagna i vari tipi di macchine pneumatiche. Venne il provveditore a gli studi in classe e mostrò desiderio di interrogare qualche alunno. Il professore chiama il Romagnoli e gli chiede: – Hai capita la lezione che stavo spiegando? – Sissignore. – Allora provati di ripeterla. – Io non saprei ripeterla; ora ahimè, quante e quante cognizioni si perdono con gli anni, invece di acquistare! Ma allora mi riuscì senza difficoltà di spiegarmi chiaro, mettendo a posto campane e tubi, valvole e rubinetti, ciascuno denominato con la lettera italiana o greca e coordinata geometricamente in alto o in basso a destra o a sinistra, perpendicolare o parallela, obliqua o retta, ad angolo acuto od ottuso. Per levare ogni dubbio che il caso mio sia un caso particolare, basterà richiamare alla memoria i nomi di vari scultori ciechi, come il Gonnelli e il Gambassi toscani del secolo XVI, il Vidali, scultore premiato in varie esposizioni del secolo XIX, e non meno eloquente il fatto di vari ingegneri, che, divenuti ciechi, hanno continuato ad esercitare la loro professione, disegnando in rilievo. Nelle scuole tedesche, dove fu per qualche tempo insegnato ai ciechi il disegno, mi si dice che fu abbandonato questo insegnamento perché parve sterile e molesto. La causa, secondo me, è che esso non fu coordinato alla geometria e alla formazione pratica degli schemi fantastici corrispondenti alle idee concrete. Io credo anzi che il disegno sia assai più utile nell’ insegnamento dei ciechi che dei veggenti, perché, se esso è l’arte di educare la vista, deve essere pure l’arte di educare il tatto, e questo ha molto più bisogno di essere educato alla funzione sintetica, essendo per natura sua eminentemente analitico. Non è qui il luogo di esporre particolarmente come debba il disegno essere insegnato e in quali limiti ai ciechi. Mi permetto rimandare a quello che io ne scrissi nella mia Introduzione all'educazione dei ciechi (Bologna, Zanichelli, 1906) II, 4, riguardo alle basi e le ragioni teoriche, in attesa di una trattazione più completa e diffusa. Per ora mi preme assodare che è necessario avvezzare i ciechi a rappresentare graficamente le figure geometriche elementari e a considerare le superfici e i volumi dei diversi oggetti come composti di figure geometriche più semplici, per dare loro una base schematica precisa di analisi e di sintesi nelle percezioni delle cose. Io non

ho studiato regolarmente il disegno, ma è tanto vera la sua necessità, che sono venuto spontaneamente ad acquistarne le nozioni e gli abiti fondamentali, e posso assicurare per esperienza, che avrei faticato assai meno acquistando in iscuola questi abiti e queste nozioni che ho dovuto formarmi empiricamente a poco a poco. Geografia - Sulla base dell'insegnamento geometrico pratico e, per così dire, concreto, l’insegnamento che ne procede quasi come corollario e sviluppo è quello della geografia. Il Kunz, che magistralmente pratica questo insegnamento nel suo istituto per i ciechi di Ilzach, incomincia col presentare ai suoi alunni le carte topografiche delle stanze e dei cortili dell’istituto stesso. Poi passa alla carta di tutto il fabbricato, poi alla carta della contrada in cui questo è posto, poi alla città in cui è situata questa contrada, e via di seguito alla regione, allo stato, al continente. Anche qui non si sarà mai abbastanza insistito, perché gli alunni riproducano i contorni percepiti, avvezzandosi anzi a poco a poco a rappresentare anche liberamente un itinerario percorso, un locale, una contrada, una città di cui si siano direttamente impratichiti. Come si vede, la geografia è il primo naturale campo di applicazione delle conoscenze geometriche elementari acquistate: le forme triangolari, poligonali, frastagliate dei continenti, il prospetto in piano della terza dimensione nei rilievi delle montagne, i vari complessi di curve e di angoli nei corsi dei fiumi, i rapporti dei punti nei gruppi delle città sono insieme facili e dilettevoli. Mentre sarebbe impossibile ritenere i contorni senza approssimarli a forme schematiche elementari, diviene poi in seguito facile procedere ad approssimazioni con oggetti concreti, come per esempio dell'Italia con uno stivale, della Sardegna (icnusa) con l'orma di un piede, del porto di Messina (zancle) con una falce o spada ricurva, di fiumi con nastri, di monti con vertebre, cordigliere, scaglioni e simili. A proposito delle quali approssimazioni fantastiche, è anche ovvio rilevare l'utilità della geografia per le innumerevoli e dilettevoli notizie intorno ai varii usi, costumi, caratteri topografici, etnici, metereologici, fisici ecc.. In questo modo si passa insensibilmente dalle rappresentazioni delle forme generiche e schematiche della terra a quelle più determinate e precise degli

oggetti della zoologia, della botanica, e della vita comune. Lezioni di cose e scienze naturali - Se è utile far vedere ai veggenti, più utile è far toccare ai ciechi. Toccare, toccare, toccare; ma avendo cura di far notare i punti, le linee, i piani e i rilievi essenziali costitutivi così all’occhio come al tatto. Gli accessori, gli ornamenti dovranno pure osservarsi, ma in seguito, senza confusione; secondo l'ordine della geometria e della prospettiva. Ciò che è il chiaro-scuro per la vista, deve corrispondere esattamente alla diversa attenzione e pressione tattile-muscolare. Si dice che l'occhio abbraccia in uno sguardo; o non potrà dirsi anche più propriamente del tatto, della mano che abbracci in un rapido giro attorno all’oggetto di cui vuole afferrare la percezione? Io m’imprimo le forme nelle mie mani e nei movimenti corrispondenti dei miei muscoli per seguirne i contorni, identicamente all’occhio che se le imprime nelle sensazioni tenui o forti della luce e nei movimenti corrispondenti dei muscoli oculari per accomodarsi all’ampiezza, distanza, complessità dei contorni della visione. Sostituite alle gradazioni e sfumature di chiari e di scuri della percezione visiva quelle di pressione dallo sfioramento alla compressione del senso muscolare e tattile; mancano le parole, perché la lingua comune non è fatta dai ciechi; ma il processo è identico; anzi è la vista che si educa per opera del tatto, non viceversa. Elena Keller scrive: La mano può dire all’occhio, io posso fare senza di te, per quanto meschinamente; ma l'occhio non può dire altrettanto. Il punto è qui: Bisogna abituare a toccare non con un dito solo, ma con tutte le dita, non coi soli polpastrelli, ma con tutte le falangi, col palmo, col carpo della mano. Così i vari punti della mano daranno percezioni sincrone, come i vari elementi retinici. Vedere è il meno, se non si sa guardare; e guardare è precisamente il coordinamento dei diversi accomodamenti oculari, per mezzo dei muscoli, all'occhiata, all’abbracciare visualmente, secondo le leggi della prospettiva, gli oggetti. Parimente toccare è nulla, senza il tastare, senza questa coordinazione dei movimenti all’abbracciare, al percepire, all’afferrare, prender possesso della forma, secondo le medesime o molto analoghe leggi di prospettiva e di comprensione. Abituando il cieco a toccare, secondo questo metodo razionale, e a

rappresentarsi le immagini secondo le leggi della comune prospettiva, s’arriverà al vantaggio sommo di poter surrogare a dirittura col disegno gli oggetti che non potrà direttamente toccare. Essi sono tanti, non sarà dunque tanto più necessario educare lui alla percezione del disegno? L'estensione delle lezioni di cose e degli elementi delle scienze, non credo potere né io né altri fissare, almeno fino che non sia determinato il numero degli anni da dare all’istruzione elementare. Inoltre questa estensione varierà secondo la preparazione prescolastica, l'abilità degli insegnanti, il programma generale dell’istituto. A me importa indicare la linea, la direzione; ciascuno poi andrà più avanti che può. L’importante è di partire da elementi concreti, precisi, semplici; il punto, la linea, l'angolo, la superficie, il volume elementare, il solido regolare, avvezzandosi ad estrinsecare le immagini percepite, per facilitare il controllo degl’insegnanti, la comunicazione con gli altri, e massimamente per formarsi l’abito della rappresentazione schematica interiore semplice, chiara e precisa; e su queste basi formarsi delle cose le idee più numerose e i concetti più positivi, più adeguati, – come debbo dire? – più scientifici possibili, per l'ulteriore sviluppo dell'intelligenza e per l'attività pratica della vita. Ascoltando un mio discorso intorno alle idee di luce e di colore nei ciechi nel recente congresso di filosofia tenuto in Roma, il prof. Benzoni, con il rapido intuito che gli è proprio, sintetizzò la caratteristica necessaria, indispensabile anzi, alla conoscenza nostra: «la vostra conoscenza deve approssimarsi alla scientifica assai più della volgare, essendovi quasi estraneo il mondo delle parvenze»; e già il Dufau osserva che le nozioni dei ciechi, in conseguenza della natura analitica positiva del tatto, il quale rimane il senso unico della percezione diretta, sono molto adeguate e profonde o se no, nulle. Per l'esercizio dell’attività mentale e lo sviluppo dell'iniziativa individuale l’istruzione ai veggenti è molto, ai ciechi è tutto. Presso gli uni l'arte del maestro deve aiutare la natura, presso gli altri deve anche correggerla, supplirla: Fiori di serra, ad essi non scende dal cielo la rugiada né il vento porta liberamente i pulviscoli fecondatori. L’abilità, il gusto, le bizzarie del coltivatore si manifesteranno fedelmente in essi; ecco, perché non si sarà mai

abbastanza insistito nella formazione e selezione dei maestri di ciechi. Letture e illustrazioni – Quando l’insegnamento oggettivo diretto sia stato bene iniziato, valido complemento divengono le descrizioni e le letture. Oggi si legge ordinariamente troppo poco nelle scuole di ciechi; e ciò costituisce una lacuna tanto maggiore, perché i giovinetti veggenti, mediante le bibliotechine scolastiche, i giornali e i libri sempre più alla portata di tutti, leggono molto e volentieri anche fuori di scuola. Inoltre hanno i cinematografi, le fotografie, le illustrazioni; tanti mezzi di coltura, coi quali si lasceranno troppo addietro i compagni ciechi, se appunto le letture e le descrizioni acconce non suppliscono. Bisogna inoltre aver presente che l'ascoltare stanca assai meno che il leggere con gli occhi, e che per i cicchi questo è più spontaneo e dilettevole, tenendo le veci di tutte le distrazioni della percezione visiva; per ciò si potrà dare alle letture assai più tempo che non converrebbe nelle scuole comuni, senza pericolo di stancare gli alunni. È anzi ottimo consiglio leggere anche durante il lavoro manuale e in tutte le ore fuori di scuola non dedicate al giuoco e alla ricreazione fisica, come dirò più oltre. Oggi pure si preferiscono leggere poesie o romanzi, libri di facile diletto. Anche qui si tenga conto delle speciali condizioni psichiche, le quali elevano assai la sfera del diletto nei ciechi: abbiamo già notato come in essi si sviluppi assai prima, per forza di necessità, la riflessione e l'abito dell’analisi e dell’attenzione. Con molta verità scrive il Ciampoli nell’introduzione alla traduzione del «musicista cieco» del Korolenco: «per il cieco è distrazione e diletto il pensare, come per gli altri il fantasticare». Mi permetto rimandare ancora alla mia «Introduzione all’educazione dei ciechi» cap. III, per una dimostrazione estesa di questo asserto; in conformità di esso, ora mi basterà raccomandare la preferenza delle letture istruttive su quelle di puro diletto e di quelle pratiche su quelle retoriche e speculative. La morale, la formazione dei sentimenti e del carattere, che è ancora più importante di tutta insieme l’istruzione, dovrà piuttosto istillarsi con esempi e racconti, con il sapiente insegnamento della storia e commento della vita, anzi che con precetti e teorie. Già

troppo inclina per sé alle speculazioni astratte la mente del cieco. Ho detto che l'educazione morale è ancora più importante di tutta insieme l’istruzione; e a dimostrarlo sarebbe più difficile cominciare che finire, tanto abbondante è la materia. Mi limito dunque a rimandare ancora al succitato mio opuscolo, cap. IV, se qualcuno desideri argomenti; sebbene son persuaso che nessuno ne sente il bisogno, tanto la cosa è evidente per sé. La conclusione, la massima nucleare di tutto quel capitolo è questa: «essere buoni è per gli altri un dovere, per i ciechi una necessità». L’insegnamento morale poi non ho incluso a parte in questi appunti, perché penso che esso debba, nell’istruzione elementare figurare, piuttosto che a parte, come «parte» di tutti gli altri. Un valente insegnante diceva: Io insegno morale anche facendo aritmetica e calligrafia. La morale è ordine, armonia, coerenza. Siano dunque le letture il più possibile frequenti e istruttive, coordinate allo sviluppo dell'intelligenza e della volontà. Il disegno e la plastica – Il disegno e la plastica di cui gli elementi pratici saranno già stati messi in possesso del fanciullo nella preparazione prescolastica, potranno essere anch'essi facilmente integrati dalle semplici descrizioni e letture, quando questi elementi siano stati profondamente infusi negli abiti mentali e nell'uso famigliare degli alunni. Come più sopra ho detto, l'insegnamento del disegno e della plastica richiede una trattazione a parte; in attesa della quale, siccome poi i principii e procedimenti generali sono in sostanza quelli medesimi che per i veggenti, potrà bastare un cenno su ciò che deve essere surrogato della lavagna, per chi non vi avesse ancora pensato. Vi è chi pratica il disegno, punteggiando i tracciati della matita. Questo è ottimo per le figure da inserirsi nei libri o da doversi comunque conservare; ma è procedimento lento, difficile, impossibile, ai ciechi da riprodurre. Ho veduto in qualche scuola un quadro con vari chiodi disposti in giro ai quali si tende una funicella per formare le diverse figure geometriche. Questo mezzo è assai primitivo e limitato; meglio ricorrevamo noi, per gioco, poi se ne servirono anche utilmente i maestri, alla tavoletta traforata in uso per le operazioni aritmetiche con tipi mobili di cifre o col cubaritmo. Disponendo i tipi entro i fori si praticavano non solo le figure geometriche elementari, ma schemi

geografici, disegni di casine, alberi, animali e via dicendo. Il mezzo migliore per altro è disegnare liberamente con cordoncini fissati mediante spilli sopra cuscini, o feltri o tavole imbottite. In questo modo l'operazione è spedita e rispondente a qualunque tracciato. Si può far uso di cordoni e spilli di diversa grossezza per rappresentare punti e linee più o meno rilevate. Le lettere pure facilmente si inseriscono, specialmente quelle del sistema Braille, componendole con gli spilli. Si può inoltre far uso, volendo, di certi feltri o stoffe operate in modo da avere righe o scacchi sensibili al tatto, quali se ne trovano anche in commercio, e su questa tramatura i tracciati si compiono più regolarmente e proporzionatamente, senza nemmeno ricorrere alla squadra e ai compassi. Per la plastica poi si ricordi che l'incisione è assai meno percepibile del rilievo, o almeno richiede per il tatto dimensioni assai maggiori. Per ciò il disegno in cera o creta è poco pratico, mentre è utilissima la modellatura. Occupazioni fuori della scuola – È triste il modo, oggi ordinariamente praticato, delle ricreazioni nei nostri istituti di ciechi. Dove pure è possibile farle all’aperto in un ampio giardino, si vedono i più passeggiare a braccetto discorrendo, e non di rado soli meditando, a capo chino, a passo grave e lento, quando non siedano in una panchina al rezzo o al sole. Accade così che tali ricreazioni siano tanto poco ricreative, che più d’uno cerca di sottrarvisi, dimandando di ritirarsi o per istudiare al piano o per leggere, se a caso sia venuto qualche libro nuovo, o per scrivere lettere a parenti od amici. Questi alunni anzi sono poi presentati come diligenti e volenterosi. La ricreazione invece deve avere due funzioni non meno importanti della scuola, e vorrei dire più importanti di essa: addestrare al moto e sviluppare l'iniziativa individuale mediante il gioco. Saltare, correre, giocare, cose che i ragazzi veggenti non hanno davvero bisogno di imparare dai grandi; i ciechi invece richiedono in questo maestri più abili e solerti che nel resto. Gli esercizi ginnastici non possono essere omessi; abituano all’ordine e alla prontezza dei movimenti, cose necessarie ad insegnarsi ai ciechi più che a qualunque altro. Figureranno dunque nel programma scolastico al modo

stesso che per i ragazzi comuni. Non ho creduto per altro metterli in particolare rilievo, perché ritengo non essere tanto la ginnastica metodica, quanto il moto libero, quello che possa dare ai ciechi la spigliatezza e lo sviluppo di cui hanno bisogno. Eccitarli, eccitarli, con promuovere gare, premi, stimoli d’ogni genere, all'attività spontanea, a superare ostacoli impensati, senza ordine, almeno apparente; a levarsi d’impaccio con franchezza, ad orientarsi in luoghi nuovi, ad appassionarsi anzi alle difficoltà, con un po', direi quasi, di spirito temerario, frenato dalla debita vigilanza, e che diverrà coraggio prudente, e non mai troppo, a suo tempo; questi debbono essere gli intendimenti degli educatori. Anche riguardo al personale di vigilanza degli istituti bisogna applicare il postulato soprascritto. Oggi si chiamano a questo ufficio persone inabili. Ragioni economiche ne sono la principale causa; ma chi meno spende, più spende: avaro agricoltor non fu mai ricco. Gli assistenti debbono essere maestri, o persone direttamente dipendenti e scelte, e sotto la totale responsabilità del corpo insegnante. Se no, è inutile parlare di coordinamento tra la scuola e le occupazioni extra scolastiche; mentre invece da esse dipende tutto il buon esito della scuola, e più ancora, oserei dire: La scuola prepari le ricreazioni, le ricreazioni la vita. Ciò è in gran parte dimandato per tutti, ma per i ciechi, a cui si tratta precipuamente di sviluppare l'attività pratica, l'iniziativa, la giusta conoscenza e provata e prudente fiducia in sé stessi, è la condizione fondamentale. Moltissimo tempo dunque alle ricreazioni, o meglio, libero da occupazioni regolari. La libertà per altro dev’essere più apparente che reale; perché tutto dev’essere coordinato al fine. Ozio mai: non è vero che l'ozio riposi, l'ozio infiacchisce e corrompe; la miglior ricreazione è la varietà: un diavolo caccia l'altro; una fatica mentale si riparerà con una buona cena e un buon sonno. Le distrazioni di cui difetta la spontaneità, dovranno essere saggiamente e incessantemente alternate. Nel moto è la vita, e dove manca natura, l'industria può supplire, ma a condizione di doppia, di tripla attività. I ciechi dunque debbono essere allenati a lavorare molto, a non perdere mai attimo di tempo, ricreandosi unicamente nell’abile avvicendamento delle occupazioni.

Il luogo di ricreazione mi piacerebbe meno uniforme e più accidentato che fosse possibile. Giardini con alberi e aiuole, piuttosto che cortili; magari viali tortuosi e qualche vaschetta con pesci. Nella vita i più saranno obbligati da necessità di famiglia ad abitare in campagne e camminare soli. Si abituino dunque fin dal principio ad arte a impratichirsi facilmente dei luoghi accidentati; senza dire che ciò rende le ricreazioni meno monotone e sviluppa spontaneamente il senso degli ostacoli. Il maggior tempo poi dovrebbe dedicarsi alle passeggiate, variandole il più possibile e approfittandone per dare agli alunni nozioni ed esperienze. Utile avvezzarli a camminare il più possibile senza tenersi per mano, a rendersi conto del cammino percorso, ad orientarsi da sé e a ritrovare la via del ritorno; a far uso, al possibile, delle scorciatoie, a segnalare le case, gli alberi, gli sbocchi delle vie laterali, i dislivelli, i pericoli circostanti. All’istituto di Bologna, noi si aveva il coraggio di andare in quindici, venti e anche trenta, per strade alpestri e sentieri, accompagnati da un solo assistente. Ci voleva occhio e diligenza non poca; ma riusciva sino a lanciarci alla corsa, sbandandoci su per dirupi in gara a chi primo guadagnasse la meta. Così egli era sicuro di noi, e noi di lui, così s’era giunti a intenderci a vicenda. È notissima l'educazione sportiva degli istituti per i ciechi inglesi e americani e il fatto di molti ciechi, che camminano sicuri da soli per i paesi e per i monti nativi senza essere stati mai educati in alcun istituto. Perché dunque l'educazione artificiale resterà al disotto della spontanea? Nei giorni di vacanza, il più spesso possibile, dovrebbero portarsi fuori gli alunni, da mane a sera. I maestri potrebbero accompagnarli e mescere copiosamente l'istruzione allo svago. Sarebbe opportuno formarsi una cerchia di relazioni nelle ville e paesi attorno alla città, per avere mete ospitali e più attraenti a queste gite. Noi passammo così molte giornate deliziosissime, traendone pure partito per eccellenti lezioni di vita pratica, nel contatto diretto con persone nuove. Senza dire che questo è un ottimo mezzo di creare ai ciechi simpatie e amicizie cordiali, che possono divenire elementi preziosi di patronato. Quando non si può accompagnare gli alunni a casa d'altri, non sarà mai abbastanza inculcato d’invitare gli

altri a frequentare intimamente l’istituto. Anche qui la mia esperienza personale può attestare grandi vantaggi. Naturalmente i direttori debbono sapere chi introducono; ma il contatto frequente col mondo esterno preserva il collegio da gli inconvenienti delle comunità; inconvenienti tanto più numerosi e gravi, trattandosi di ciechi; perché la lor condizione tende già ad isolarli troppo dalla vita comune. Io non ho sentito mai pena della mia cecità, come quando mi sono trovato in mezzo ad altri ciechi. Una noce in un sacco non fa chiasso. I ciechi invece d’ordinario si agglomerano volentieri, tendendo anzi ad isolarsi, per ragioni troppo facili a comprendere; quelle ragioni che hanno indotto la pietà di Carmen Sylva a farsi iniziatrice d’una «Città della Luce», non so se per antifrasi o per antonomasia. Bisogna reagire instancabilmente contro questa tendenza; reagire non con la forza, ma col dare a ciascuno, fino dai primi anni, la facilità di stabilire il proprio centro di simpatie fuori dell’istituto, in mezzo a quell’ambiente che dovrà essere l'ambiente della vita. Anche qui non dubitate dell’eccesso opposto: ogni simile ama il suo simile. La solidarietà, la propensione, l’intimità di compagni, anzi di classe, ne sarà temperata, non guasta. Giuochi e lavoro manuale didattico: Musica e studio individuale – Queste quattro cose raccolgo sotto una unica rubrica, per l'unità del fine a cui debbono esclusivamente servire nel periodo della scuola elementare. Questo periodo, quando sarà convenientemente preparato e affidato a maestri valenti, non avrà bisogno di più di tre o quattro o, al massimo cinque anni, e a dodici o tredici anni di età, in media, i giovinetti saranno appunto in grado di essere indirizzati convenientemente secondo le attitudini, alle scuole speciali per l'apprendimento della professione o del mestiere. Nell’ambito della scuola elementare il lavoro manuale dovrà essere unicamente a scopo educativo generale, come pure gli elementi della lettura musicale, del solfeggio, del canto e magari del suono di qualche istrumento. Tanto più robusti potranno essere i rami, quanto più nutrita si sia la radice e invigorito il fusto. La scuola elementare comune deve sviluppare armonicamente le facoltà dei fanciulli; quella dei ciechi deve inoltre creare dei veri e propri vicariati e compensi. Nessuna preoccupazione speciale deve dunque distrarla; senza dire che occorre

dar modo e tempo perché tutte le forme d’attività siano tentate, prima di giudicare saggiamente quale potrà coltivarsi con migliore successo. L’insegnamento del lavoro manuale e della musica dovrà avere molta parte; ma seguendo i criteri del giardino d’infanzia, per continuare l’educazione dei sensi e lo sviluppo dell’iniziativa e della destrezza nei movimenti, figurerà più come giuoco, che come studio, come variante della ricreazione, più che materia d’insegnamento. La modellatura in creta o in cera, l’intaglio, i lavori in carta, paglia, filo di ferro, molti lavori domestici e di giardino, tutte cose utilissime e importanti, alle quali l'arte e la vivacità degli insegnanti e assistenti dovrà dare attrattive di spontaneità e divertimento. Qui è tutto il segreto di un valente maestro, interessare, animare gli alunni: L'attenzione spontanea non si stanca come la volontaria; per quello che piace vi è memoria, vi è diligenza, vi è prontezza, vi è tutto. Perché ci venite a dire queste cose? Chi non le sa? Nei ciechi bisogna sviluppare delle energie straordinarie, promuovere dei compensi sensoriali, che saranno diversi d’individuo in individuo; bisogna quindi tradire astutamente la natura, operare all’insaputa della coscienza e della volontà, piuttosto che invocandone il concorso, sulle attitudini più interne, e direi quasi congenite degli alunni, su quelle attitudini primitive, che la ragione, la coscienza, già fino dai primi anni, tende per timidezza, o per pigrizia, o per imitazione, o per precoci sentimenti morali a soffocare. Giuoco dunque si faccia parere ed essere il lavoro manuale, e sia possibile così prolungarlo ancora assai più che non sarebbe lecito per un insegnamento metodico; e si animi con l’emulazione, con piccoli premi, con farlo sopra tutto apparire cosa naturale e desiderabile. Intanto l’educazione dei sensi, l’avversione all’ozio, mille piccole esperienze e artifizi si creeranno a maraviglia, lasciando fare alla natura; che gl’insegnanti forse non avrebbero nemmeno sospettati. La musica poi, oltre all’ingentilimento dell’animo e della voce, all’abitudine del ritmo e della compostezza dei movimenti, contribuirà forse pure allo sviluppo del senso uditivo, avvezzando a distinguere i suoni complessi, le risonanze secondarie, le direzioni diverse delle fonti sonore e via via; finché, usciti dalla scuola elementare, quelli che pure non ne faranno una professione, vi

troveranno sempre uno dei maggiori diletti e uno dei mezzi più idonei per numerose analogie ed elementi di conoscenze. Quando il Dufau disse che la musica è la lingua dei ciechi, in un certo senso disse bene e profondamente. Gran sapienti i frati, che utilizzano leggendo anche il tempo del refettorio! La lettura dovrà, come l'aria colmare tutti i vani: Le serate d’inverno, i giorni di cattivo tempo, quando per una ragione o l'altra non si può muovere o giocare, quando l'interesse delle cose presenti venga a illanguidire, quando pure debbano eseguire qualche parte di lavoro manuale di pazienza, più che d’attenzione, la lettura verrà sempre opportuna, mescendo veramente l'utile al diletto. Saranno letture scelte secondo i diversi momenti e le diverse necessità, ora per destare l’immaginazione, ora per fortificare il carattere, ora per far venire il sonno; perché no? Quante volte i veggenti non leggono per questo? Ma gli ultimi a stancarsi siano sempre i lettori. Finalmente ai compiti fuori di scuola, allo studio delle lezioni, alle letture individuali e simili, vorrei che non si assegnasse un orario molto preciso e fisso, lasciandone la facoltà caso per caso al giudizio degli assistenti e soprattutto alla responsabilità dei singoli alunni. Quando altre occupazioni interessanti li attendono, pensano essi a sbrigarsi il più presto, e quando le lezioni debbono essere fatte, hanno essi la premura di dimandarne ai superiori il tempo necessario. Evitare la poltroneria e sviluppare anche qui il senso di responsabilità e l'attività individuale è il mio pensiero. Qualcuno dirà che un istituto a base di libertà e iniziativa individuale sarebbe una babilonia. Può essere, se non sia grande la prudenza e compartecipazione del direttore e degli insegnanti. Ho detto avanti, e mi preme ripetere, che amo sopra tutto la discrezione e credo egualmente viziosi tutti gli eccessi. Prego dunque e scongiuro, che alcuno non interpreti, se non con moderazione le mie parole. Naturalmente io dovevo tracciare sommariamente la massima, sostenere la tesi col dare rilievo ai concetti, con l'accentuare alquanto i colori del disegno: e la massima mi sembra buona, infallantemente buona e urgente, per una riforma immediata e radicale dei nostri istituti in questo senso, per dir così, liberistico-positivo, promovendo cioè il massimo sviluppo dell’attività

spontanea individuale, fondata su l’educazione fisica, sull’affidamento costante nell’esercizio dei sensi e sopra una base solida di rappresentazioni ideali e nozioni concrete.Augusto Romagnoli

Categorie di letteratura infantile e il problema della letteratura ai ragazzi ciechi (Tratto da: Luce con luce. Rivista trimestrale della scuola di metodo «Augusto Romagnoli» per gli educatori dei ciechi, a. 3 (1959), n. 3, pp. 42-50. A questo articolo risponde E. Ceppi nel suo «La letteratura per l'infanzia e l'educazione dei bambini ciechi», pubblicato nel fascicolo n. 2, 2019 di Tiflologia per l'Integrazione), di Luigi Grossi (pagg. 181-191) - L'autore illustra le caratteristiche della letteratura per l'infanzia e svolge alcune considerazioni nel caso dei bambini ciechi. - È stato autorevolmente scritto che «la lettura dei ragazzi implica la lettura ai ragazzi». (L. Volpicelli, Dall'infanzia all'adolescenza. La Scuola, pag. 60). E per noi ciò comporta non soltanto una conoscenza della struttura psichica e della spiritualità del fanciullo nel punto esatto dei suoi bisogni di vita in sviluppo, quanto pure una conoscenza dei valori formali e contenutistici della pagina della cosiddetta letteratura infantile. Con questa ultima avvertenza vogliamo precisare che è necessario porsi criticamente all’interno di ciascun testo per ascoltare le sue vibrazioni, centrare in sostanza la qualità e la natura del suo contenuto vitale e quindi, poter collocare il testo stesso o in una categoria di studiata letteratura educativa per l’infanzia o in una più libera categoria di letteratura venuta alla luce non per altra urgenza se non per quella che è propria dell’artista, nella sua qualità di uomo ripiegato su se stesso e che se stesso dà a sé per sé e non per altri. Sicuri che non tutto ciò che i ragazzi amano è stato scritto appositamente per loro, non possiamo non arrivare a dividere la cosiddetta letteratura infantile in tre distinte categorie. E non vediamo come i concetti che regolano questa tripartizione possano essere criticati, se non di certo come punti fermi da approfondire. Tripartizione questa che ci è necessaria come premessa generale al problema di come leggere al ragazzo un

racconto o una pagina in versi (naturalmente con particolare riguardo per il soggetto non vedente). Il problema di fondo è per noi anzitutto questo: nella lettura ai ragazzi è sempre bene cercare di fare aderire la lettura stessa al senso ed ai significati che sono propri della pagina? Sarà nostro compito impostare il discorso a vantaggio di questa conclusione e che valga come franco preannuncio: poesie e racconti che solitamente entrano nella zona apertissima della cosiddetta letteratura infantile non sempre possono essere letti ai ragazzi con modi atti a suggerire e liberare i valori della pagina e quindi per questi la umanità del suo autore. Ma passiamo ora a fermare i perché di fondo che caratterizzano ciascuna categoria e che ad un tempo giustificano la divisione in tre parti tra loro chiuse della cosiddetta letteratura infantile. Con la prima categoria di letteratura infantile intendiamo parlare di tutte quelle pagine di narrativa o in versi opportunamente studiate in rapporto a quella che è la personalità infantile. L’autore non ricava quindi le parole dal suo animo adulto, ma lavora la pagina e quindi il filo del racconto e l’uso della parola all’interno di un preciso compito di letteratura educativa per l’infanzia. Letteratura che per essere tale domanda al suo autore non solo la spinta fondamentale di una passione etico-educativa, ma un sicuro concetto storico dei valori umani (ciò che meglio definisce l’uomo moderno) ed un senso concreto della personalità infantile, nelle sue esigenze di crescenza spirituale e pure nelle sue caratteristiche psichiche che per naturali tappe evolutive si affermano. Pertanto l’elemento letterario fantastico-fiabesco o avventuroso di questi autori (Nuccio e Fanciulli, per citarne alcuni) non sarà liberamente scelto come forma espressiva di una loro umanità, ma sarà solo una tecnica strumentale e di lavoro per mettersi in piano con la mentalità del soggetto infantile: aprirlo così alle verità di vita raccolte opportunamente entro questo necessario genere di letteratura per l’infanzia. Un fantastico quindi orientato a scopi di letteratura per l’infanzia, naturalmente con senso realistico di ciò che la logica fantastica infantile è, e che anche non studiosi di psicologia infantile hanno dimostrato di conoscere: «Naturalmente a quel tempo (quando eravamo bambini) la fantasia ci giunse come realtà, come conoscenza oggettiva

e non come invenzione (giacché che l’infanzia sia poetica è soltanto una fantasia dell’età matura)». (C. Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, pag. 250). È chiaro pertanto che non si può trattare di letteratura artistica in senso puro. Letteratura specializzata che è fuori dalla qualità della vera arte per le ragioni che il Croce ha categoricamente date e che per conto nostro restano punti fermi nonostante che più volte si sia tentato di fare valere il contrario, e pure con tesi diverse nella loro impostazione. (Per le affermazioni di B. Croce v. La letteratura della nuova Italia, Laterza, vol. III, pagg. 119-20, e Pagine sparse, Ricciardi, pagg. 301-02, mentre per le tesi contrarie v. G. Calò, Problemi vivi e orizzonti nuovi, Barbera, pagg. 61-85, Problemi attuali della pedagogia e della scuola, Malipiero, pagg. 129-35, Educazione e scuola, Marzocco, pagg. 85-111; P. Mignosi, Il pregiudizio della letteratura per l'infanzia, in L'educazione nazionale, n. 2, 1924; E. Petrini, Avviamento critico alla letteratura giovanile, La Scuola, pagg. 78-82; G. Cristini, Letteratura infantile: temi e problemi, in L'educatore italiano, n. 9, 1955; M.A. Sbuelz, Considerazioni su alcuni aspetti della letteratura infantile, in Scuola e città, n. 1, 1956). Nella seconda categoria facciamo invece entrare tutti i componimenti che, pure trovando il loro primo e naturale spazio nella letteratura artisticamente riuscita e pertanto nutrita di una tematica adulta (nata quindi fuori e al di sopra di preoccupazioni extraestetiche e di itinerari di letteratura per l’infanzia: dove c’è arte non possono non esserci motivi di vita adulta) hanno però una continuità di modi e di forme che tira a sé e naturalmente per lettura empirica la spiritualità del fanciullo e non meno la sua logica fantastica animistica e artificialistica. Pertanto si tratta di una narrativa che «entra sì a far parte (pure) della letteratura infantile, ma del tutto indirettamente: non per ragioni proprie, non per quello che il testo è in sé, ma sì invece per quello che il lettore fanciullo vi vede» secondo una sua interpretazione e meglio diciamo immedesimazione soggettivistica. «E quanto vi trova del resto gli basta, in quanto fa sempre tutt’uno con quello che il fanciullo è, e con le sue più o meno coscienti esigenze di crescita: dato che il fanciullo è pure e soprattutto crescenza ed autosuperamento». (L. Grossi, Il

problema della letteratura infantile - Pedagogia e scuola, Macrì, pagg. 238-39). E va da sé che la lettura del fanciullo non coincidendo con la logica e gli echi umani che sono interni alla pagina, resta fuori dalla qualità artistica di questa dato il concetto elementare quanto fondamentale di critica estetica che ripone l’arte di una espressione soltanto nel tono psicologico che a questa è proprio. È chiaro che o il fantastico-fiabesco o l’avventuroso del testo che entra nella seconda categoria di letteratura infantile non risentono di un calcolo finalistico aprioristico e cioè non sono nella sfera degli accorgimenti psicologici dello scrittore per l’infanzia ma sì invece sono il mezzo congeniale alla stessa ispirazione (adulta) dell’artista che a quella forma espressiva liberamente intuita rimanda e non ad altra. Così il fantastico-fiabesco di Andersen, di Collodi, di Gozzano, di Barrie, di Hauff, di Lagerlöf, eccetera, non è modo di letteratura per il fanciullo ma personaggio che è specchio fedele dello stesso animo dell’autore. La letteratura di questi artisti dice molto di più di quanto può parlare a una lettura infantile: occorre però essere capaci qui di scendere all’interno del fantastico e cioè saperlo ascoltare nella sua validità artistico-espressiva, calare nella sua ragione psicologica che mentre ad un tempo lo giustifica come indovinato e di volta in volta personale modo ci dà la dimensione adulta della verità umana di cui è rigonfio. Se ciò vale per testi artistici dove è presente l’elemento fantastico-fiabesco altrettanto è vero per quei testi dove l’avventuroso giuoca ugualmente un ruolo di valore artistico. Giustamente (anche se giustamente solo in parte) Emilio Cecchi scrive: «Curioso è dovere accorgersi, in Inghilterra, e in America specialmente, che il Melville, da molti è soprattutto considerato un novellatore da ragazzi... È difficile che i ragazzi si divertano con Moby Dick: capolavoro, ma opera caotica, che faticosamente dirama per una quantità di piani eterogenei ed è lumeggiato d’un misticismo convulsionario. Libro furioso, tetro, faustiano, tanto è vero che ai suoi riguardi gli uomini sembrano non aver trovato miglior rimedio di quello che applicarono ad un’opera d’altra natura: I viaggi di Gulliver, ma fatta per turbarli anche più profondamente, figurando di credere non si trattasse che d’un racconto per bambini».

(E. Cecchi, Scrittori inglesi e americani, Mondadori, pag. 24). Che i ragazzi non si divertano con Moby Dick ci pare più che altro un modo polemico per anticipare una verità critica e cioè che si tratta di testo scritto non per i ragazzi, dotato com’è appunto di accenti e di nuclei di umanità adulta. Il ragazzo ama invece questa lettura e ne abbiamo le prove, soltanto è da dire che l’ama non per quello che i passaggi e i movimenti narrativo-avventurosi hanno di melvilliano ma per una loro interpretazione arbitraria che se è tale in rapporto all’arte del testo non è tale però in ordine a ciò che il ragazzo è in questo o quel momento della sua età evolutiva, proprio perché sarà in accordo con i bisogni di questa che si commisurerà la interpretazione. Nella terza categoria faremo entrare tutti quei lavori che interessando naturalmente il soggetto infantile, non presentano però la caratteristica artistica dei testi della seconda categoria e d’altra parte nemmeno nascono sotto la spinta educativa che è invece la nota distintiva dei testi della prima categoria. E allora? Si tratterà di volta in volta o di componimenti risolti in chiave di contenuti adulti ma non artistica (Perrault, Grimm, per citare i più noti) o in chiave di letteratura per l’infanzia ma senza però l’apporto della intenzionalità educativa, al di fuori quindi del «sigillo di una tensività educativa» (Capuana: i suoi lavori fantastici o fiabeschi quando appunto non sono una contraffazione per gusto psicologico della mentalità primitiva e che, è concetto critico del Croce e dello Scarfoglio e in parte pure del Cocchiara, sono da ritenersi bloccati entro i limiti di una pura ambizione romantico-leopardiana di spassare e divertire il fanciullo e dare così all’umanità una età da ricordare come felice: il tempo delle belle fiabe e dei racconti fantastici). Dopo avere stabilito con la nostra tripartizione che la cosiddetta letteratura infantile non sempre nasce come letteratura per l’infanzia, eccoci al tema della lettura ai ragazzi e che per noi non può essere legato alla domanda che ci siamo già posta e cioè se o quando è bene che una lettura aderisca alla verità della pagina con tutti i suoi riferimenti segreti. Con i testi che fanno parte della prima categoria diciamo di sì, mentre per quelli che sono della seconda diciamo di no, e non categorici possiamo invece essere per i lavori che

appartengono alla terza categoria e per i quali potranno essere opportuni modi di lettura volta a volta diversi. Prima categoria. È chiaro che un testo di letteratura infantile (nato come tale) è fatto per una integrale presa infantile: la parola è qui tutta per il ragazzo in quanto a lui destinata e tra i due termini sarà facile realizzare un incastro attivo e formativo. Con testi così organizzati la lettura al ragazzo deve ricalcare la pagina e quindi ridarla in tutta la sua misura naturale. Una lettura dunque il più possibile cadenzata sui valori del testo il quale non sarà fatto di puri schemi narrativi (è logico che qui parliamo di testi di letteratura per l’infanzia riusciti: e per la verità non sono molti): vogliamo dire che una lettura per essere intelligente ed educativa non può limitarsi a correre sul filo esteriore della cronaca e della pura azione, senza cioè dare alle analisi psicologiche e pure paesistiche il tempo di inserirsi nel fatto e quindi di realizzarlo nella sua piena verità. Una pagina narrativa riuscita non è infatti solo puro fatto di cronaca e proprio in quanto questo stesso ha valore e calore di vita se raccolto entro una più o meno fitta rete di momenti umani atti a drammatizzare la vita di un personaggio e dargli così forza e movimento dialettici. Ma non meno parliamo di descrizioni di paesaggio e che nel corpo di un testo valido non vivono mai come astratti ed estemporanei scenari ma sono ricalcati sullo stesso clima umano che è proprio del momento narrativo: si ricordi la funzionalità e la coerenza dei paesaggi manzoniani, ma ciò valga pure in rapporto al valore del paesaggio nella letteratura non riuscita per sintesi artistica e che è il caso appunto di una letteratura per l’infanzia. È vero che il ragazzo «lasciato a se stesso, alla sua sola lettura, corre al fatto, all’azione» (in questo aspetto negativo della spiritualità infantile è fondata la tecnica espressiva e la politica commerciale del fumetto) ma è altrettanto vero che lo sfondo dialettico può vibrare nell’animo del ragazzo purché si riesca a farglielo notare e quindi farglielo sentire come tessuto e realtà in cui un fatto e quel fatto si arricchisce di valori verticali diventando insegnamento e quindi testo di vita (è proprio del ragazzo volere diventare uomo e in questa sua ricerca spirituale le occasioni di valore sono dal ragazzo realtà amate: compito nostro è quindi quello di sapergliele offrire).

Ma come farglielo notare? Ed altra risposta non c’è se non quella di saperglielo leggere. Ed a questo proposito ci pare di fondamentale importanza una pagina del Volpicelli: «Analisi e descrizioni perché vivano, perché risultino comprensibili hanno bisogno di un lavoro di partecipazione, di integrazione, sulla scorta intellettuale della parola; per il quale lavoro il fanciullo non è ancora strutturalmente attrezzato. Il libro indugia nel descrivere un castello o un campo di grano o per constatare la drammaticità dei sentimenti, c’è bisogno di un lavoro interno, di un fondamento attivo, direi, su cui poggiare le parole. La voce dell’adulto, che legge o che narra, col suo stesso tono, con la sua coloritura, compie essa codesto lavoro e, pertanto, consente al fanciullo di capire e di gustare anche la descrizione e l’analisi». (L. Volpicelli, op. cit., pag. 60). Il discorso ora si orienta a quella che è per noi la tecnica della lettura e che in rapporto alla capacità intellettuale del ragazzo in ascolto non può non chiamare in causa il tema della pausa: fare respirare il racconto mediante il ritmo della pausa, ragionata nella sua lunghezza e nella inflessione di voce che la anticipa. Quindi non una pausa a casaccio, ma quella che ponendosi volta a volta tra una parola e l’altra e tra una serie e un’altra di parole riesca a smaterializzare la parola come elemento di pura cronaca per ridarla alla luce della sua propria spiritualità e necessarietà. Il silenzio di una pausa è riempito di un riascolto intellettuale che meglio precisando il valore contestuale di una parola aiuta a entrare bene nel dopo narrativo, con un processo di assorbimento continuo di ciascuna parola e di ciascuna sequenza e che mentre è l’unico modo valido perché il testo venga integralmente offerto al ragazzo è ad un tempo sicuro sistema per la sua educazione alla parola e quindi alla lingua. A questo punto è bene precisare che mentre la durata di una pausa in rapporto ad un auditorio di soggetti dotati di vista ha un suo tempo, non è lo stesso quando ci troviamo di fronte a un auditorio di soggetti non vedenti: con il soggetto non dotato di vista la pausa va appunto accorciata per quel tanto che una concentrazione intellettuale ed emotiva – sulla scorta della parola – entra in gioco con migliore libertà e quindi entro un tempo minore, per la ragione che non si affaccia come oggetto di disturbo e di possibile disattenzione

l’elemento fisico-ambientale (e ciò resta valido pur quando si vuole affermare che con soggetti normali la immedesimazione in un ascolto vale come annullamento di ciò che al racconto ascoltato non appartiene: cioè l’ambiente esterno). Non è infatti psicologicamente falso affermare che una musica o una lettura arrivano nella loro pura essenzialità e totalità tanto più quanto più ci si trova isolati e liberati entro uno spazio che non appartiene alla vista: lo stesso complesso orchestrale visto può facilmente diventare possibile corpo di distrazione ai fini di una sintonizzazione piena con la sintassi musicale, e ciò valga pure per la stessa figura del lettore sia per quello che è comunque come presenza fisico-estetica e sia nei suoi movimenti di gesto-recitativo e al quale per niente crediamo come tecnica comunicativa e proprio perché sono l’inflessione della voce e le sospensioni che soltanto possono raccogliere e ridare il tutto della parola e con essa il tutto della pagina. Passando ora al testo della seconda categoria, è da dire che chi legge al ragazzo non può intonare la lettura al senso vero e proprio che le parole condensano nella loro rincorsa. Non quindi essere fedeli al testo che qui è nutrito di temi e di accenti di vita adulta, ma sì invece sapere modulare la lettura in ordine a ciò che la spiritualità del ragazzo può ricavare dalla pagina e quindi in rapporto a come può capirla. Così, ad es., per certe pagine di Le avventure di Pinocchio la nostra lettura non si impronterà a cadenze di umorismo amaro o di scetticismo nostalgico che sono il sottofondo umano del testo collodiano. Come pure nelle fiabe gozzaniane la nostra lettura al ragazzo non si terrà in quel clima di desiderato vuoto di pensiero e di assoluta innocenza albare che sono la caratteristica tonale del testo e che hanno la loro giustificazione psicologica nell’animo del Gozzano, nel momento del suo antidannunzianesimo totale (fuori qui appunto da ogni dualismo e incidenza ironica che invece contrappuntano l’umanità dei suoi versi). Ma naturalmente questo nostro modo di leggere perde naturalmente di ragione allorquando ci troviamo davanti a ragazzi capaci di avvertire la qualità propria del testo che mentre è arte è ad un tempo umanità (normalmente si vuole stabilire dopo il tredicesimo anno di età il tempo della capacità di godimento estetico in senso puro, che non sia appunto godimento psicologico e pratico). Ma qui

ci si affaccia una domanda di fondo. È sempre possibile che una lettura a terzi possa far rivivere un contenuto nella sua trasfigurazione artistica? E così per parte nostra rispondiamo: crediamo che una lettura di novelle o racconti o romanzi possa non perdere il valore artistico del testo e quindi fare affacciare il testo stesso con tutta la sua anima e originalità. Crediamo invece che questo valore venga per lo più impallidito e sfocato quando si tratta di pagina in versi (facciamo dunque qui valere il principio a cui è giunta certa critica estetica per quanto riguarda il problema della traducibilità di una pagina d’arte: un’opera è tanto più traducibile quanto più la sua arte è affidata ad un movimento intellettuale di personaggi in azione, al senso di un discorso logico – se pur sempre a suo modo musicale nella trasfigurazione artistica – e meno invece a quella che è la musicalità propria di un verso, nel suo segreto di metri, di rime, di versi liberi, di spazi bianchi, eccetera. Non tanto quindi accettiamo il concetto che un’opera è tanto più traducibile quanto più grande, ma sì invece quello che tiene presente i diversi modi espressivi del verso e della prosa). Per quanto riguarda questo caso della lettura del verso, è stata ed è sostenuta la sua possibilità quando non addirittura la sua necessarietà, tesi quest’ultima che si richiama più che altro al Pastonchi, il quale affermava appunto che il verso è poesia soltanto in potenza. Il verso cioè non sarebbe altro che «qualcosa come la grafia della musica»: come occorre trasformare in suoni il rigo musicale perché da realtà artistica possibile diventi realtà artistica in atto (anche se è poi accertato che non pochi sanno sentire i valori musicali di un rigo per operazione mentale), così sarebbe necessario leggere a voce alta perché la parola poetica che è sempre sì musicale – ma soltanto a suo modo – possa essere tale e cioè poetica. Altro principio è quello che ha avuto il suo massimo rappresentante in Gustavo Modena il quale sosteneva nientemeno la necessità non tanto di leggere il verso, quanto di recitarlo e drammatizzarlo sulla scena e quindi di teatralizzarlo. Non c’è chi non vede come questa ultima tesi sia più legata a un piacere o invadenza professionali di teatralizzare anche ciò che non è teatro, che non a un esatto concetto di ciò che un verso è. Per quanto poi riguarda il più diffuso ed attuale

principio del Pastonchi è da dire che qui si equivoca e non poco sulla natura della musicalità del verso. Se è giusto quanto afferma Ungaretti e che cioè la musica poetica «dipende anzitutto dal tono psicologico», non ci resta che definire il tono il quale non altro è se non contenuto umano che musicale diventa per quel senso di armoniosa e aerea corrente spirituale in cui ogni verità di vita si configura nella trasfigurazione che è propria dell’arte. «La poesia, ancorché si giovi di elementi sostanzialmente musicali, non è musica. Ha sì un’interiore armonia tutta sua, che però non è quella musica vera e propria, bensì qualcosa di infinitamente meno materiale e di più riposto e segreto: rivolgentesi molto più allo spirito che allo orecchio, bastevole a produrre l’incanto voluto col solo destare nell’animo l’eco e il ricordo del suono, senza produrre materialmente il suono stesso». (S. D'Amico, I dicitori di versi, in L'attore, pag. 109). E giustamente lo stesso critico poteva concludere che «perché il poeta parli libero, nella sua pienezza, è necessario accostarsi a lui senza intermediari». E ciò è tanto più vero quando si pensi che nessuna dizione potrà mai darci il valore espressivo di certi accorgimenti tipografici e che pescano la loro realtà non in un terreno di trovate insapori, di simbolismo anonimo e puramente calligrafico, ma sì invece all’interno della stessa anima moderna, dai decadenti ai crepuscolari (se pur meno ricchi di queste trovate), dai futuristi ai moderni: parole sottolineate quando non addirittura spazieggiate o date in corsivo o in maiuscolo, per non dire poi di quelle tagliate in due da parentesi e che è stato un modo per niente virtuosistico del Péguy e non solo di lui. Ma a parte la impossibilità di suggerire nella dizione il senso di questa tecnica tutto rimandato ad una lettura personale, quale dicitore potrà mai darci la disposizione del verso libero? Disposizione che ha una funzionalità di suggerimento psicologico e artistico: intraducibile in modi di lettura a terzi perché tutto dato e da riscoprire nel silenzio bianco della pagina; e così pertanto poteva scrivere il Flora: «la musica della poesia vuol essere segreta, oggi, quasi pensata ma non pronunziata». (Taverna del Parnaso, Tumminelli, pag. 175).

I

In sostanza è da concludere, per dirlo ancora con il D’Amico, che, tanto più oggi, «la vista ha acquistato la sua parte, e non piccola, nella percezione della poesia». Non dando valore (se non negativo) al dicitore di versi, come risolvere il problema nel caso dei non vedenti? Naturalmente affidando il testo stesso al sistema di lettura personale che è proprio del soggetto in causa, ma questa ci sembra una soluzione da limitare al non dotato di vista per nascita e nel qual caso è chiaro che la scelta sarà orientata verso testi poetici che per la loro comprensione non rimandano a una esperienza visiva, e quindi letteratura poetica ricalcata su motivi di vita ridati in arte per concetti puri. Certo però che testi di questa natura non sarà facile scoprirli e tanto più è vero con la nostra poesia moderna e contemporanea soprattutto, così legata nel gioco delle allusioni analogiche e delle allegorie a immagini del mondo fisico, animale e naturale, e basti pensare, per averne subito un’idea, al Pascoli soprattutto di Myricae. È allora opportuno giungere a brevi scelte, a frammenti capaci tuttavia di compiuto senso poetico. Nel caso invece del non vedente per cecità acquisita dopo l’esperienza della lettura visiva ci sembra opportuno questo suggerimento: educare il soggetto a disegnare mentalmente in un bianco foglio ideale i versi nella loro naturale composizione e che va dalla parola alla punteggiatura e allo spazio che isola ciascun verso, e sì ancora che il non vedente possa seguire e vedere i versi in tutte le loro eventuali e artisticamente responsabili intuizioni grafiche. Si tratta quindi non tanto di fare imparare a memoria una poesia, quanto di fare in modo che il non vedente possa leggerla. Avremo così rispettato non tanto la tesi che nega l’intervento del dicitore di versi, quanto rispettato la stessa poesia. Ma ciò che più importa è che così avremo risolto il problema di dare anche ai non vedenti la possibilità di quell’altissimo

ed impareggiabile senso di vita che è in noi quando in noi scende la musicalità silenziosa e misteriosa di un verso che è parola di poeta: musica che le orecchie umane non percepiscono ma s’ode per echi lunghi nell’anima.Luigi Grossi

Nota della Redazione [della rivista Luce con luce]. - Le opinioni del nostro collaboratore Luigi Grossi circa le categorie di letteratura infantile non ci trovano del

tutto consenzienti, anche se espresse con vivacità di motivi. L’esperienza della sensibilità dei bambini ciechi e la conoscenza dei loro bisogni culturali ci confermano che, lungi dal limitare la scelta delle letture a quei testi che non presentino esperienze visive, dobbiamo affidare i maggiori elementi al potere ricettivo dei sensi dei non vedenti: perché, mediante l’interiorizzarsi delle sensazioni, essi riescano a mettersi in sintonia coi vedenti. Comunque, torneremo più diffusamente su questo fondamentale argomento in uno dei prossimi fascicoli.