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1 Ludovico Ariosto: Proemio dell’Orlando Furioso Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto, che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto, seguendo l’ire e i giovenil furori d’Agramante lor re, che si diè vanto di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano. Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai, né in rima: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso. Piacciavi, generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono. Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio, ricordar quel Ruggier, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensier cedino un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco. Delle donne, dei cavalieri, delle battaglie, degli amori, degli atti di cortesia, delle audaci imprese io canto, che ci furono nel tempo in cui gli Arabi attraversarono il mare d'Africa, e arrecarono tanto danno in Francia, seguendo le ire e i furori giovanili del loro re Agramante, il quale si vantò di poter vendicare la morte di Traiano contro il re Carlo, imperatore romano. Nello stesso tempo, racconterò di Orlando cose che non sono state mai dette né in prosa né in rima: che per amore, divenne completamente folle, lui che prima era considerato uomo così saggio; dirò queste cose se da parte di colei che mi ha quasi reso tale e che a poco a poco consuma il mio piccolo ingegno, me ne sarà concesso a sufficienza (di ingegno) che mi basti a finire l'opera che ho promesso. Vi piaccia, generosa e nobile prole del [duca] Ercole I, che siete ornamento e splendore del nostro tempo, Ippolito, di gradire questo poema che vuole e darvi solo può il vostro umile servitore. Il mio debito nei vostri confronti, lo posso solo pagare in parte con le mie parole ed opere scritte; non mi si potrà accusare di darvi poco, perché io vi dono tutto quanto posso donarvi, non ho altro. Voi mi sentirete ricordare fra i più valorosi eroi, che mi appresto a citare lodandoli, di quel Ruggiero che fu il vostro e dei vostri nobili avi il capostipite. Il suo grande valore e le sue imprese vi farò udire se mi presterete ascolto; e ile vostre profonde preoccupazioni cedano un poco, in modo che tra loro i miei versi possano trovare spazio.

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Ludovico Ariosto: Proemio dell’Orlando Furioso Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,

seguendo l’ire e i giovenil furori d’Agramante lor re, che si diè vanto

di vendicar la morte di Troiano sopra re Carlo imperator romano.

Dirò d’Orlando in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai, né in rima: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sì saggio era stimato prima; se da colei che tal quasi m’ha fatto, che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima, me ne sarà però tanto concesso, che mi basti a finir quanto ho promesso. Piacciavi, generosa Erculea prole, ornamento e splendor del secol nostro, Ippolito, aggradir questo che vuole

e darvi sol può l’umil servo vostro. Quel ch’io vi debbo, posso di parole

pagare in parte e d’opera d’inchiostro; né che poco io vi dia da imputar sono, che quanto io posso dar, tutto vi dono. Voi sentirete fra i più degni eroi, che nominar con laude m’apparecchio, ricordar quel Ruggier, che fu di voi e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio. L’alto valore e’ chiari gesti suoi vi farò udir, se voi mi date orecchio, e vostri alti pensier cedino un poco, sì che tra lor miei versi abbiano loco.

Delle donne, dei cavalieri, delle battaglie, degli amori, degli atti di cortesia, delle audaci imprese io canto, che ci furono nel tempo in cui gli Arabi attraversarono il mare d'Africa, e arrecarono tanto danno in Francia, seguendo le ire e i furori giovanili del loro re Agramante, il quale si vantò di poter vendicare la morte di Traiano contro il re Carlo, imperatore romano. Nello stesso tempo, racconterò di Orlando cose che non sono state mai dette né in prosa né in rima: che per amore, divenne completamente folle, lui che prima era considerato uomo così saggio; dirò queste cose se da parte di colei che mi ha quasi reso tale e che a poco a poco consuma il mio piccolo ingegno, me ne sarà concesso a sufficienza (di ingegno) che mi basti a finire l'opera che ho promesso. Vi piaccia, generosa e nobile prole del [duca] Ercole I, che siete ornamento e splendore del nostro tempo, Ippolito, di gradire questo poema che vuole e darvi solo può il vostro umile servitore. Il mio debito nei vostri confronti, lo posso solo pagare in parte con le mie parole ed opere scritte; non mi si potrà accusare di darvi poco, perché io vi dono tutto quanto posso donarvi, non ho altro. Voi mi sentirete ricordare fra i più valorosi eroi, che mi appresto a citare lodandoli, di quel Ruggiero che fu il vostro e dei vostri nobili avi il capostipite. Il suo grande valore e le sue imprese vi farò udire se mi presterete ascolto; e ile vostre profonde preoccupazioni cedano un poco, in modo che tra loro i miei versi possano trovare spazio.

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Torquato Tasso: Dalla “Gerusalemme Liberata” Proemio

Canto l'arme pietose e 'l capitano

che 'l gran sepolcro liberò di Cristo. Molto egli oprò co 'l senno e con la mano, molto soffrí nel glorioso acquisto; e in van l'Inferno vi s'oppose, e in vano s'armò d'Asia e di Libia il popol misto.

Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi segni ridusse i suoi compagni erranti.

O Musa, tu che di caduchi allori

non circondi la fronte in Elicona, ma su nel cielo infra i beati cori

hai di stelle immortali aurea corona, tu spira al petto mio celesti ardori,

tu rischiara il mio canto, e tu perdona s'intesso fregi al ver, s'adorno in parte

d'altri diletti, che de' tuoi, le carte.

Sai che là corre il mondo ove piú versi

di sue dolcezze il lusinghier Parnaso, e che 'l vero, condito in molli versi,

i piú schivi allettando ha persuaso.

Cosí a l'egro fanciul porgiamo aspersi di soavi licor gli orli del vaso:

succhi amari ingannato intanto ei beve, e da l'inganno suo vita riceve.

Tu, magnanimo Alfonso, il quale ritogli al furor di fortuna e guidi in porto

me peregrino errante, e fra gli scogli e fra l'onde agitato e quasi absorto,

queste mie carte in lieta fronte accogli, che quasi in voto a te sacrate i' porto.

Forse un dí fia che la presaga penna osi scriver di te quel ch'or n'accenna.

È ben ragion, s'egli averrà ch'in pace il buon popol di Cristo unqua si veda, e con navi e cavalli al fero Trace cerchi ritòr la grande ingiusta preda, ch'a te lo scettro in terra o, se ti piace, l'alto imperio de' mari a te conceda. Emulo di Goffredo, i nostri carmi

intanto ascolta, e t'apparecchia a l'armi.

Canto le armi pietose e il comandante che liberò il grande (misura d’importanza) sepolcro di Cristo. Egli molto si adoperò con la ragione e con la mano, soffrì molto per la conquista di Gerusalemme e invano il demonio si oppose a tale conquista come anche vana fu l’opposizione delle popolazioni della Libia e dell’Asia. Il cielo gli diede il suo appoggio e ricondusse i suoi compagni che avevano perduto la retta via sotto la croce cristiana. O Musa, tu che non circondi la fronte di Elicona con allori destinati a morire, ma su nel cielo tra i cori dei beati hai una corona splendente di stelle immortali, tu ispira al mio cuore un ardore celeste, rischiara la mia poesia e perdonami se aggiungo qualcosa che nella realtà non c’era, se guarnisco con altre vicende i fatti storici e religiosi. Tu sai che là nel mondo pagano le persone sono attratte dai versi e dalle dolcezze della poesia, e che la verità resa in versi languidi, ha convinto, ha catturato, persino i più schivi alle dolcezze della lirica. In questo modo al bambino malato porgiamo i bordi della tazza coperti con liquidi dolci: intanto ingannato egli beve succhi amari, e da questo suo inganno riceve la guarigione. Tu, generoso Alfonso, che mi hai sottratto alle tempeste del destino e guidi me, peregrino errante, sbattuto e sommerso dalle onde fra gli scogli, in porto e accogli con benevolenza questa mia opera la quale porto e te come fosse consacrata in voto. Forse verrà un giorno in cui la mia penna che presagisce la tua grandezza, la tua gloria, oserà scrivere di te quello che ora (nel poema) accenna. A ragione, se avverrà mai che il buon popolo di Cristo viva in pace e con navi e cavalli sottragga ai Turchi il Santo Sepolcro ingiustamente occupato, allora che a te venga concesso il potere sugli eserciti, o se preferisci, l’alto comando delle flotte navali. In attesa che questo avvenga, tu Alfonso, emulo di Goffredo, ascolta i nostri componimenti poetici, e preparati a combattere.

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Erminia tra i pastori (VII, 1-14)

Intanto Erminia infra l'ombrose piante d'antica selva dal cavallo è scòrta,

né piú governa il fren la man tremante, e mezza quasi par tra viva e morta. Per tante strade si raggira e tante il corridor ch'in sua balia la porta, ch'al fin da gli occhi altrui pur si dilegua, ed è soverchio omai ch'altri la segua. 2 Qual dopo lunga e faticosa caccia paragone tornansi mesti ed anelanti i cani che la fèra perduta abbian di traccia, nascosa in selva da gli aperti piani, tal pieni d'ira e di vergogna in faccia riedono stanchi i cavalier cristiani. Ella pur fugge, e timida e smarrita non si volge a mirar s'anco è seguita.

3 Fuggí tutta la notte, e tutto il giorno chiasmo

errò senza consiglio e senza guida, non udendo o vedendo altro d'intorno,

che le lagrime sue, che le sue strida. chiasmo Ma ne l'ora che 'l sol dal carro adorno

scioglie i corsieri e in grembo al mar s'annida, paragone giunse del bel Giordano a le chiare acque

e scese in riva al fiume, e qui si giacque. 4 Cibo non prende già, ché de' suoi mali solo si pasce e sol di pianto ha sete; chiasmo ma 'l sonno, che de' miseri mortali è co 'l suo dolce oblio posa e quiete, sopí co' sensi i suoi dolori, e l'ali chiasmo

dispiegò sovra lei placide e chete; né però cessa Amor con varie forme personificazione

la sua pace turbar mentre ella dorme.

5 Non si destò fin che garrir gli augelli non sentí lieti e salutar gli albori,

e mormorar il fiume e gli arboscelli, e con l'onda scherzar l'aura e co i fiori.

Apre i languidi lumi e guarda quelli metonimia alberghi solitari de' pastori,

e parle voce udir tra l'acqua e i rami ch'a i sospiri ed al pianto la richiami.

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6 Ma son, mentr'ella piange, i suoi lamenti rotti da un chiaro suon ch'a lei ne viene,

che sembra ed è di pastorali accenti misto e di boscareccie inculte avene. enjambement

Risorge, e là s'indrizza a passi lenti, e vede un uom canuto a l'ombre amene tesser fiscelle a la sua greggia a canto ed ascoltar di tre fanciulli il canto. 7 Vedendo quivi comparir repente l'insolite arme, sbigottír costoro; ma li saluta Erminia e dolcemente enjambement gli affida, e gli occhi scopre e i bei crin d'oro: "Seguite," dice "aventurosa gente al Ciel diletta, il bel vostro lavoro, enjambement ché non portano già guerra quest'armi a l'opre vostre, a i vostri dolci carmi." chiasmo 8 Soggiunse poscia: "O padre, or che d'intorno

d'alto incendio di guerra arde il paese, come qui state in placido soggiorno

senza temer le militari offese?" "Figlio," ei rispose "d'ogni oltraggio e scorno

la mia famiglia e la mia greggia illese sempre qui fur, né strepito di Marte enjambement

ancor turbò questa remota parte.

9 O sia grazia del Ciel che l'umiltade d'innocente pastor salvi e sublime, enjambement o che, sí come il folgore non cade in basso pian ma su l'eccelse cime, cosí il furor di peregrine spade paragone sol de' gran re l'altere teste opprime, metonimia né gli avidi soldati a preda alletta

la nostra povertà vile e negletta.

10 Altrui vile e negletta, a me sí cara che non bramo tesor né regal verga, perifrasi

né cura o voglia ambiziosa o avara mai nel tranquillo del mio petto alberga.

Spengo la sete mia ne l'acqua chiara, che non tem'io che di venen s'asperga,

e questa greggia e l'orticel dispensa cibi non compri a la mia parca mensa.

11 Ché poco è il desiderio, e poco è il nostro

bisogno onde la vita si conservi. Son figli miei questi ch'addito e mostro,

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custodi de la mandra, e non ho servi. Cosí me 'n vivo in solitario chiostro,

saltar veggendo i capri snelli e i cervi, ed i pesci guizzar di questo fiume

e spiegar gli augelletti al ciel le piume. metonimia 12 Tempo già fu, quando piú l'uom vaneggia ne l'età prima, ch'ebbi altro desio e disdegnai di pasturar la greggia; e fuggii dal paese a me natio, e vissi in Menfi un tempo, e ne la reggia fra i ministri del re fui posto anch'io, e benché fossi guardian de gli orti vidi e conobbi pur l'inique corti. metonimia 13 Pur lusingato da speranza ardita soffrii lunga stagion ciò che piú spiace; ma poi ch'insieme con l'età fiorita mancò la speme e la baldanza audace,

piansi i riposi di quest'umil vita e sospirai la mia perduta pace,

e dissi; ̀ O corte, a Dio.' Cosí, a gli amici boschi tornando, ho tratto i dí felici."

14 Mentre ei cosí ragiona, Erminia pende

da la soave bocca intenta e cheta; enjambement e quel saggio parlar, ch'al cor le scende,

de' sensi in parte le procelle acqueta. Dopo molto pensar, consiglio prende in quella solitudine secreta insino a tanto almen farne soggiorno ch'agevoli fortuna il suo ritorno.

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La morte di Clorinda (XII, 50-71)

50 Ma poi che intepidí la mente irata nel sangue del nemico e in sé rivenne,

vide chiuse le porte e intorniata sé da' nemici, e morta allor si tenne. Pur veggendo ch'alcuno in lei non guata, latinismo nov'arte di salvarsi le sovenne. Di lor gente s'infinge, e fra gli ignoti cheta s'avolge; e non è chi la noti. 51 Poi, come lupo tacito s'imbosca paragone dopo occulto misfatto, e si desvia, da la confusion, da l'aura fosca favorita e nascosa, ella se 'n gía. enjambement Solo Tancredi avien che lei conosca; egli quivi è sorgiunto alquanto pria; vi giunse allor ch'essa Arimon uccise: vide e segnolla, e dietro a lei si mise.

52 Vuol ne l'armi provarla: un uom la stima

degno a cui sua virtú si paragone. Va girando colei l'alpestre cima

verso altra porta, ove d'entrar dispone. enjambement Segue egli impetuoso, onde assai prima

che giunga, in guisa avien che d'armi suone, ch'ella si volge e grida: "O tu, che porte,

che corri sí?" Risponde: "E guerra e morte." 53 "Guerra e morte avrai;" disse "io non rifiuto darlati, se la cerchi", e ferma attende. enjambement Non vuol Tancredi, che pedon veduto ha il suo nemico, usar cavallo, e scende. enjambement E impugna l'uno e l'altro il ferro acuto, metonimia

ed aguzza l'orgoglio e l'ire accende; chiasmo e vansi a ritrovar non altrimenti

che duo tori gelosi e d'ira ardenti. paragone

54 Degne d'un chiaro sol, degne d'un pieno teatro, opre sarian sí memorande. enjambement

Notte, che nel profondo oscuro seno personificazione chiudesti e ne l'oblio fatto sí grande, enjambement

piacciati ch'io ne 'l tragga e 'n bel sereno a le future età lo spieghi e mande.

Viva la fama loro; e tra lor gloria splenda del fosco tuo l'alta memoria.

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55 Non schivar, non parar, non ritirarsi anafora voglion costor, né qui destrezza ha parte.

Non danno i colpi or finti, or pieni, or scarsi: anafora toglie l'ombra e 'l furor l'uso de l'arte.

Odi le spade orribilmente urtarsi assonanza a mezzo il ferro, il piè d'orma non parte; sempre è il piè fermo e la man sempre 'n moto, chiasmo né scende taglio in van, né punta a vòto. 56 L'onta irrita lo sdegno a la vendetta, e la vendetta poi l'onta rinova; chiasmo (doppio) onde sempre al ferir, sempre a la fretta stimol novo s'aggiunge e cagion nova. D'or in or piú si mesce e piú ristretta si fa la pugna, e spada oprar non giova: enjambement dansi co' pomi, e infelloniti e crudi cozzan con gli elmi insieme e con gli scudi. 57 Tre volte il cavalier la donna stringe

con le robuste braccia, ed altrettante da que' nodi tenaci ella si scinge,

nodi di fer nemico e non d'amante. Tornano al ferro, e l'uno e l'altro il tinge metonimia

con molte piaghe; e stanco ed anelante enjambement e questi e quegli al fin pur si ritira,

e dopo lungo faticar respira.

58 L'un l'altro guarda, e del suo corpo essangue su 'l pomo de la spada appoggia il peso. Già de l'ultima stella il raggio langue al primo albor ch'è in oriente acceso. Vede Tancredi in maggior copia il sangue del suo nemico, e sé non tanto offeso. Ne gode e superbisce. Oh nostra folle

mente ch'ogn'aura di fortuna estolle!

59 Misero, di che godi? oh quanto mesti fiano i trionfi ed infelice il vanto!

Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto. iperbole

Cosí tacendo e rimirando, questi sanguinosi guerrier cessaro alquanto. enjambement

Ruppe il silenzio al fin Tancredi e disse, perché il suo nome a lui l'altro scoprisse:

60 "Nostra sventura è ben che qui s'impieghi

tanto valor, dove silenzio il copra. Ma poi che sorte rea vien che ci neghi

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e lode e testimon degno de l'opra, pregoti (se fra l'arme han loco i preghi)

che 'l tuo nome e 'l tuo stato a me tu scopra, acciò ch'io sappia, o vinto o vincitore,

chi la mia morte o la vittoria onore." 61 Risponde la feroce: "Indarno chiedi quel c'ho per uso di non far palese. Ma chiunque io mi sia, tu inanzi vedi un di quei due che la gran torre accese." Arse di sdegno a quel parlar Tancredi, e: "In mal punto il dicesti"; indi riprese "il tuo dir e 'l tacer di par m'alletta, barbaro discortese, a la vendetta." 62 Torna l'ira ne' cori, e li trasporta, benché debili in guerra. Oh fera pugna, u' l'arte in bando, u' già la forza è morta, latinismo ove, in vece, d'entrambi il furor pugna! rima equivoca

Oh che sanguigna e spaziosa porta metafora fa l'una e l'altra spada, ovunque giugna,

ne l'arme e ne le carni! e se la vita non esce, sdegno tienla al petto unita.

63 Qual l'alto Egeo, perché Aquilone o Noto paragone

cessi, che tutto prima il volse e scosse, non s'accheta ei però, ma 'l suono e 'l moto

ritien de l'onde anco agitate e grosse, tal, se ben manca in lor co 'l sangue vòto enjambement quel vigor che le braccia a i colpi mosse, serbano ancor l'impeto primo, e vanno da quel sospinti a giunger danno a danno. 64 Ma ecco omai l'ora fatale è giunta

che 'l viver di Clorinda al suo fin deve. Spinge egli il ferro nel bel sen di punta metonimia

che vi s'immerge e 'l sangue avido beve; e la veste, che d'or vago trapunta

le mammelle stringea tenera e leve, l'empie d'un caldo fiume. Ella già sente iperbole

morirsi, e 'l piè le manca egro e languente.

65 Segue egli la vittoria, e la trafitta vergine minacciando incalza e preme. enjambement

Ella, mentre cadea, la voce afflitta movendo, disse le parole estreme; enjambement

parole ch'a lei novo un spirto ditta, spirto di fé, di carità, di speme:

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virtú ch'or Dio le infonde, e se rubella in vita fu, la vuole in morte ancella. chiasmo

66 "Amico, hai vinto: io ti perdon... perdona

tu ancora, al corpo no, che nulla pave, chiasmo (e enjambement) a l'alma sí; deh! per lei prega, e dona battesmo a me ch'ogni mia colpa lave." In queste voci languide risuona un non so che di flebile e soave ch'al cor gli scende ed ogni sdegno ammorza, e gli occhi a lagrimar gli invoglia e sforza. 67 Poco quindi lontan nel sen del monte scaturia mormorando un picciol rio. Egli v'accorse e l'elmo empié nel fonte, e tornò mesto al grande ufficio e pio. Tremar sentí la man, mentre la fronte non conosciuta ancor sciolse e scoprio. enjambement La vide, la conobbe, e restò senza

e voce e moto. Ahi vista! ahi conoscenza! anafora

68 Non morí già, ché sue virtuti accolse tutte in quel punto e in guardia al cor le mise,

e premendo il suo affanno a dar si volse vita con l'acqua a chi co 'l ferro uccise. chiasmo; metonimia; enjambement

Mentre egli il suon de' sacri detti sciolse, colei di gioia trasmutossi, e rise;

e in atto di morir lieto e vivace, dir parea: "S'apre il cielo; io vado in pace." 69 D'un bel pallore ha il bianco volto asperso, come a' gigli sarian miste viole, paragone e gli occhi al cielo affisa, e in lei converso sembra per la pietate il cielo e 'l sole; enjambement

e la man nuda e fredda alzando verso il cavaliero in vece di parole

gli dà pegno di pace. In questa forma passa la bella donna, e par che dorma.

70 Come l'alma gentile uscita ei vede,

rallenta quel vigor ch'avea raccolto; e l'imperio di sé libero cede

al duol già fatto impetuoso e stolto, ch'al cor si stringe e, chiusa in breve sede

la vita, empie di morte i sensi e 'l volto. enjambement Già simile a l'estinto il vivo langue

al colore, al silenzio, a gli atti, al sangue. anafora

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71 E ben la vita sua sdegnosa e schiva, spezzando a forza il suo ritegno frale,

la bella anima sciolta al fin seguiva, che poco inanzi a lei spiegava l'ale;

ma quivi stuol de' Franchi a caso arriva, cui trae bisogno d'acqua o d'altro tale, e con la donna il cavalier ne porta, in sé mal vivo e morto in lei ch'è morta. Il giardino di Armida (XVI, 17-19) 17 Fra melodia sí tenera, fra tante vaghezze allettatrici e lusinghiere, va quella coppia, e rigida e costante se stessa indura a i vezzi del piacere. Ecco tra fronde e fronde il guardo inante penetra e vede, o pargli di vedere, vede pur certo il vago e la diletta,

ch'egli è in grembo a la donna, essa a l'erbetta.

18 Ella dinanzi al petto ha il vel diviso, e 'l crin sparge incomposto al vento estivo;

langue per vezzo, e 'l suo infiammato viso fan biancheggiando i bei sudor piú vivo:

qual raggio in onda, le scintilla un riso ne gli umidi occhi tremulo e lascivo.

Sovra lui pende; ed ei nel grembo molle le posa il capo, e 'l volto al volto attolle, 19 e i famelici sguardi avidamente in lei pascendo si consuma e strugge. S'inchina, e i dolci baci ella sovente liba or da gli occhi e da le labra or sugge,

ed in quel punto ei sospirar si sente profondo sí che pensi: "Or l'alma fugge

e 'n lei trapassa peregrina." Ascosi mirano i due guerrier gli atti amorosi.

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GIUSEPPE PARINI

Va per negletta via Ognor l'util cercando

La calda fantasïa, Che sol felice è quando L'utile unir può al vanto Di lusinghevol canto.» (Giuseppe Parini, La salubrità dell'aria) La caduta (dalle “Odi”)

Quando Orïon dal cielo Declinando imperversa; E pioggia e nevi e gelo Sopra la terra ottenebrata versa,

Me spinto ne la iniqua Stagione, infermo il piede,

Tra il fango e tra l’obliqua Furia de’ carri la città gir vede;

E per avverso sasso

Mal fra gli altri sorgente, O per lubrico passo

Lungo il cammino stramazzar sovente. Ride il fanciullo; e gli occhi Tosto gonfia commosso, Che il cubito o i ginocchi Me scorge o il mento dal cader percosso.

Altri accorre; e: oh infelice E di men crudo fato

Degno vate! mi dice; E seguendo il parlar, cinge il mio lato

Con la pietosa mano;

E di terra mi toglie; E il cappel lordo e il vano

Baston dispersi ne la via raccoglie:

Te ricca di comune Censo la patria loda;

Te sublime, te immune Cigno da tempo che il tuo nome roda

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Chiama gridando intorno;

E te molesta incìta Di poner fine al Giorno,

Per cui cercato a lo stranier ti addita. Ed ecco il debil fianco Per anni e per natura Vai nel suolo pur anco Fra il danno strascinando e la paura: Nè il sì lodato verso Vile cocchio ti appresta, Che te salvi a traverso De’ trivii dal furor de la tempesta. Sdegnosa anima! prendi Prendi novo consiglio, Se il già canuto intendi

Capo sottrarre a più fatal periglio.

Congiunti tu non hai, Non amiche, non ville,

Che te far possan mai Nell’urna del favor preporre a mille.

Dunque per l’erte scale

Arrampica qual puoi; E fa gli atrj e le sale Ogni giorno ulular de’ pianti tuoi. O non cessar di porte Fra lo stuol de’ clienti, Abbracciando le porte

De gl’imi, che comandano ai potenti;

E lor mercè penètra Ne’ recessi de’ grandi;

E sopra la lor tetra Noja le facezie e le novelle spandi.

O, se tu sai, più astuto

I cupi sentier trova Colà dove nel muto

Aere il destin de’ popoli si cova;

E fingendo nova esca Al pubblico guadagno,

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L’onda sommovi, e pesca Insidioso nel turbato stagno.

Ma chi giammai potrìa

Guarir tua mente illusa, O trar per altra via Te ostinato amator de la tua Musa? Lasciala: o, pari a vile Mima, il pudore insulti, Dilettando scurrile I bassi genj dietro al fasto occulti. Mia bile, al fin costretta, Già troppo, dal profondo Petto rompendo, getta Impetuosa gli argini; e rispondo: Chi sei tu, che sostenti

A me questo vetusto Pondo, e l’animo tenti

Prostrarmi a terra? Umano sei, non giusto.

Buon cittadino, al segno Dove natura e i primi

Casi ordinàr, lo ingegno Guida così, che lui la patria estimi.

Quando poi d’età carco Il bisogno lo stringe, Chiede opportuno e parco Con fronte liberal, che l’alma pinge. E se i duri mortali

A lui voltano il tergo, Ei si fa, contro ai mali,

Della costanza sua scudo ed usbergo.

Nè si abbassa per duolo, Nè s’alza per orgoglio.

E ciò dicendo, solo Lascio il mio appoggio; e bieco indi mi toglio.

Così, grato ai soccorsi,

Ho il consiglio a dispetto; E privo di rimorsi,

Col dubitante piè torno al mio tetto.

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Da “Il giorno” dal “Mattino”

Il giovin Signore inizia la sua giornata

Sorge il mattino in compagnia dell'alba Dinanzi al sol che di poi grande appare Su l'estremo orizzonte a render lieti Gli animali e le piante e i campi e l'onde. Allora il buon villan sorge dal caro Letto cui la fedel moglie e i minori Suoi figlioletti intiepidìr la notte: Poi sul dorso portando i sacri arnesi Che prima ritrovò Cerere o Pale Move seguendo i lenti bovi, e scote Lungo il picciol sentier da i curvi rami Fresca rugiada che di gemme al paro La nascente del sol luce rifrange. Allora sorge il fabbro, e la sonante Officina riapre, e all'opre torna

L'altro dì non perfette; o se di chiave Ardua e ferrati ingegni all'inquieto

Ricco l'arche assecura; o se d'argento E d'oro incider vuol gioielli e vasi

Per ornamento a nova sposa o a mense.

Ma che? Tu inorridisci e mostri in capo Qual istrice pungente irti i capelli

Al suon di mie parole? Ah il tuo mattino Signor questo non è. Tu col cadente Sol non sedesti a parca cena, e al lume Dell'incerto crepuscolo non gisti Ieri a posar qual nei tugurj suoi Entro a rigide coltri il vulgo vile. A voi celeste prole a voi concilio

Almo di semidei altro concesse Giove benigno: e con altr'arti e leggi

Per novo calle a me guidarvi è d'uopo. Tu tra le veglie e le canore scene

E il patetico gioco oltre più assai Producesti la notte: e stanco alfine

In aureo cocchio col fragor di calde Precipitose rote e il calpestio

Di volanti corsier lunge agitasti Il queto aere notturno; e le tenèbre

Con fiaccole superbe intorno apristi Siccome allor che il Siculo terreno

Da l'uno a l'altro mar rimbombar fèo Pluto col carro a cui splendeano innanzi

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Le tede de le Furie anguicrinite. Tal ritornasti a i gran palagi: e quivi

Cari conforti a te porgea la mensa Cui ricoprien prurigginosi cibi

E licor lieti di Francesi colli E d'Ispani e di Toschi o l'Ungarese Bottiglia a cui di verdi ellere Bromio Concedette corona, e disse: or siedi De le mense reina. Alfine il Sonno Ti sprimacciò di propria man le còltrici Molle cedenti, ove te accolto il fido Servo calò le ombrifere cortine: E a te soavemente i lumi chiuse Il gallo che li suole aprire altrui. Dritto è però che a te gli stanchi sensi Da i tenaci papaveri Morfèo Prima non solva che già grande il giorno Fra gli spiragli penetrar contenda De le dorate imposte; e la parete

Pingano a stento in alcun lato i rai Del sol ch'eccelso a te pende sul capo.

Or qui principio le leggiadre cure

Denno aver del tuo giorno: e quindi io deggio Sciorre il mio legno, e co' precetti miei

Te ad alte imprese ammaestrar cantando. Già i valetti gentili udìr lo squillo

De' penduli metalli a cui da lunge Moto improvviso la tua destra impresse; E corser pronti a spalancar gli opposti Schermi a la luce; e rigidi osservàro Che con tua pena non osasse Febo Entrar diretto a saettarte i lumi. Ergi dunque il bel fianco, e sì ti appoggia

Alli origlier che lenti degradando All'omero ti fan molle sostegno;

E coll'indice destro lieve lieve Sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua

Quel che riman de la Cimmeria nebbia; Poi de' labbri formando un picciol arco

Dolce a vedersi tacito sbadiglia. Ahi se te in sì vezzoso atto mirasse

Il duro capitan quando tra l'arme Sgangherando la bocca un grido innalza

Lacerator di ben costrutti orecchi, S'ei te mirasse allor, certo vergogna

Avria di sè più che Minerva il giorno Che di flauto sonando al fonte scorse

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Il turpe aspetto de le guance enfiate.

Ma il damigel ben pettinato i crini Ecco s'innoltra; e con sommessi accenti

Chiede qual più de le bevande usate Sorbir tu goda in preziosa tazza. Indiche merci son tazza e bevande: Scegli qual più desii. S'oggi a te giova Porger dolci a lo stomaco fomenti Onde con legge il natural calore V'arda temprato, e al digerir ti vaglia, Tu il cioccolatte eleggi, onde tributo Ti diè il Guatimalese e il Caribeo Che di barbare penne avvolto ha il crine: Ma se noiosa ipocondria ti opprime, O troppo intorno a le divine membra Adipe cresce, de' tuoi labbri onora La nettarea bevanda ove abbronzato Arde e fumica il grano a te d'Aleppo

Giunto e da Moca che di mille navi Popolata mai sempre insuperbisce.

Certo fu d'uopo che da i prischi seggi Uscisse un regno, e con audaci vele

Fra straniere procelle e novi mostri E teme e rischi ed inumane fami

Superasse i confin per tanta etade Inviolati ancora: e ben fu dritto

Se Pizzarro e Cortese umano sangue Più non stimàr quel ch'oltre l'Oceàno Scorrea le umane membra; e se tonando E fulminando alfin spietatamente Balzaron giù da i grandi aviti troni Re Messicani e generosi Incassi, Poi che nuove così venner delizie

O gemma de gli eroi al tuo palato.

Dal “Mezzogiorno” La “vergine cuccia”

[…] Or le sovviene il giorno,

ahi fero giorno! allor che la sua bella vergine cuccia de le Grazie alunna,

giovenilmente vezzeggiando, il piede villan del servo con l'eburneo dente

segnò di lieve nota: ed egli audace con sacrilego piè lanciolla: e quella

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tre volte rotolò; tre volte scosse gli scompigliati peli, e da le molli

nari soffiò la polvere rodente. Indi i gemiti alzando: aita aita

parea dicesse; e da le aurate volte a lei l'impietosita Eco rispose: e dagl'infimi chiostri i mesti servi asceser tutti; e da le somme stanze le damigelle pallide tremanti precipitâro. Accorse ognuno; il volto fu spruzzato d'essenze a la tua Dama; ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore l'agitavano ancor; fulminei sguardi gettò sul servo, e con languida voce chiamò tre volte la sua cuccia: e questa al sen le corse; in suo tenor vendetta chieder sembrolle: e tu vendetta avesti vergine cuccia de le grazie alunna. L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo

udì la sua condanna. A lui non valse merito quadrilustre; a lui non valse

zelo d'arcani uficj: in van per lui fu pregato e promesso; ei nudo andonne

dell'assisa spogliato ond'era un giorno venerabile al vulgo. In van novello

signor sperò; ché le pietose dame inorridìro, e del misfatto atroce

odiâr l'autore. Il misero si giacque con la squallida prole, e con la nuda consorte a lato su la via spargendo al passeggiere inutile lamento: e tu vergine cuccia, idol placato da le vittime umane, isti superba.

Dalla “Notte” La sfilata degli imbecilli

Questi è l'almo garzon, che con maestri

Da la scutica sua moti di braccio Desta sibili egregi; e l'ore illustra

L'aere agitando de le sale immense, Onde i prischi trofei pendono e gli avi.

L'altro è l'eroe, che da la guancia enfiata E dal torto oricalco a i trivj annuncia

Suo talento immortal, qualor dall'alto De' famosi palagi emula il suono

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Di messagger, che frettoloso arrive. Quanto è vago a mirarlo allor che in veste

Cinto spedita, e con le gambe assorte In amplo cuoio, cavalcando a i campi

Rapisce il cocchio, ove la dama è assisa E il marito e l'ancella e il figlio e il cane! […] Vedi giugner colui, che di cavalli Invitto domator divide il giorno Fra i cavalli e la dama. Or de la dama La man tiepida preme; or de' cavalli Liscia i dorsi pilosi, ovver col dito Tenta a terra prostrato i ferri e l'ugna. Aimè misera lei quando s'indìce Fiera altrove frequente! Ei l'abbandona; E per monti inaccessi e valli orrende Trova i lochi remoti, e cambia o merca. Ma lei beata poi quand'ei sen torna Sparso di limo; e novo fasto adduce

Di frementi corsieri; e gli avi loro E i costumi e le patrie a lei soletta

Molte lune ripete! Or vedi l'altro, Di cui più diligente o più costante

Non fu mai damigella o a tesser nodi O d'aurei drappi a separar lo stame.

A lui turgide ancora ambe le tasche Son d'ascose materie. Eran già queste

Prezioso tapeto, in cui distinti D'oro e lucide lane i casi apparvero D'Ilio infelice: e il cavalier, sedendo Nel gabinetto de la dama, ormai Con ostinata man tutte divise In fili minutissimi le genti D'Argo e di Frigia. Un fianco solo avanza

De la bella rapita; e poi l'eroe, Pur giunto al fin di sua decenne impresa,

Andrà superbo al par d'ambo gli Atridi. Ma chi l'opre diverse o i varj ingegni

Tutti esprimer poria, poi che le stanze Folte già son di cavalieri e dame?

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Predàro i Filistei l'arca di Dio

Predàro i Filistei l'arca di Dio; tacquero i canti e l'arpe de' leviti,

e il sacerdote innanzi a Dagon rio fu costretto a celar gli antiqui riti.

Al fin di terebinto in sul pendio Davidde vinse; e stimolò gli arditi e il popol sorse; e gli empi al suol natio fe' dell'orgoglio loro andar pentiti.

Or Dio lodiamo. Il tabernacol santo e l'arca è salva; e si dispone il tempio che di Gerusalem fia gloria e vanto.

Ma splendan la giustizia e il retto esempio; tal che Israel non torni a novo pianto, a novella rapina, a novo scempio.

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UGO FOSCOLO

Da “Le Ultime lettere di Jacopo Ortis”

13 Maggio […] Jer sera appunto dopo più di due ore d’estatica contemplazione d’una bella sera di Maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla Notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, e il presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne’ loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa: - Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce - umana sorte! men felice degli altri chi men la teme. - Spossato mi sdrajai boccone sotto il boschetto de’ pini, e in quella muta oscurità, mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dove io m’andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e piangeva perché avea bisogno di consolazione - e

ne’ miei singhiozzi io invocava Teresa.

15 Maggio

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi; il lamentar degli

augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la Natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza e armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io sdegnando og ni modello terreno la troverei nella mia immaginazione. O Amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animali generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola virtù utile a’ mortali, la Pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il Sole, foco malefico; e il Mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. - O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti: mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando sommovono l’erba, e allegrano i fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l’Amore ; e fuor

dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti le Najadi, amabili custodi delle fontane. Illusioni! grida il

filosofo. - Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il BELLO ed il VERO accarezzando g li idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele.

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Dai Sonetti

Alla sera

Forse perché della fatal quiete tu sei l'immago a me sì cara vieni o Sera! E quando ti corteggian liete le nubi estive e i zeffiri sereni, e quando dal nevoso aere inquiete tenebre e lunghe all'universo meni sempre scendi invocata, e le secrete vie del mio cor soavemente tieni. Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme che vanno al nulla eterno; e intanto fugge questo reo tempo, e van con lui le torme

delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme

quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.

In morte del fratello Giovanni Un dì, s'io non andrò sempre fuggendo di gente in gente, me vedrai seduto su la tua pietra, o fratel mio, gemendo il fior de' tuoi gentili anni caduto.

La Madre or sol suo dì tardo traendo parla di me col tuo cenere muto,

ma io deluse a voi le palme tendo e sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi, e le secrete

cure che al viver tuo furon tempesta, e prego anch'io nel tuo porto quiete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!

Straniere genti, almen le ossa rendete allora al petto della madre mesta.

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Dei Sepolcri Deorum Manium jura sancta sunto Duodecim tabulae

All'ombra de' cipressi e dentro l'urne confortate di pianto è forse il sonno della morte men duro? Ove piú il Sole per me alla terra non fecondi questa bella d'erbe famiglia e d'animali, e quando vaghe di lusinghe innanzi

a me non danzeran l'ore future, né da te, dolce amico, udrò piú il verso

e la mesta armonia che lo governa, né piú nel cor mi parlerà lo spirto

delle vergini Muse e dell'amore, unico spirto a mia vita raminga,

qual fia ristoro a' dí perduti un sasso che distingua le mie dalle infinite ossa che in terra e in mar semina morte? Vero è ben, Pindemonte! Anche la Speme, ultima Dea, fugge i sepolcri: e involve tutte cose l'obblío nella sua notte; e una forza operosa le affatica di moto in moto; e l'uomo e le sue tombe e l'estreme sembianze e le reliquie della terra e del ciel traveste il tempo. Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l'illusïon che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure

nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli.

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Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna; e se pur mira

dopo l'esequie, errar vede il suo spirto fra 'l compianto de' templi acherontei,

o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d'lddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura. Pur nuova legge impone oggi i sepolcri fuor de' guardi pietosi, e il nome a' morti contende. E senza tomba giace il tuo sacerdote, o Talia, che a te cantando nel suo povero tetto educò un lauro con lungo amore, e t'appendea corone; e tu gli ornavi del tuo riso i canti che il lombardo pungean Sardanapalo,

cui solo è dolce il muggito de' buoi che dagli antri abdüani e dal Ticino

lo fan d'ozi beato e di vivande. O bella Musa, ove sei tu? Non sento

spirar l'ambrosia, indizio del tuo nume, fra queste piante ov'io siedo e sospiro

il mio tetto materno. E tu venivi e sorridevi a lui sotto quel tiglio

ch'or con dimesse frondi va fremendo perché non copre, o Dea, l'urna del vecchio cui già di calma era cortese e d'ombre. Forse tu fra plebei tumuli guardi vagolando, ove dorma il sacro capo del tuo Parini? A lui non ombre pose tra le sue mura la città, lasciva

d'evirati cantori allettatrice, non pietra, non parola; e forse l'ossa

col mozzo capo gl'insanguina il ladro che lasciò sul patibolo i delitti.

Senti raspar fra le macerie e i bronchi la derelitta cagna ramingando

su le fosse e famelica ululando; e uscir del teschio, ove fuggia la luna,

l'úpupa, e svolazzar su per le croci sparse per la funerëa campagna

e l'immonda accusar col luttüoso singulto i rai di che son pie le stelle

alle obblïate sepolture. Indarno sul tuo poeta, o Dea, preghi rugiade

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dalla squallida notte. Ahi! su gli estinti non sorge fiore, ove non sia d'umane

lodi onorato e d'amoroso pianto.

Dal dí che nozze e tribunali ed are diero alle umane belve esser pietose di se stesse e d'altrui, toglieano i vivi all'etere maligno ed alle fere i miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina. Testimonianza a' fasti eran le tombe, ed are a' figli; e uscían quindi i responsi de' domestici Lari, e fu temuto su la polve degli avi il giuramento: religïon che con diversi riti le virtú patrie e la pietà congiunta tradussero per lungo ordine d'anni. Non sempre i sassi sepolcrali a' templi fean pavimento; né agl'incensi avvolto

de' cadaveri il lezzo i supplicanti contaminò; né le città fur meste

d'effigïati scheletri: le madri balzan ne' sonni esterrefatte, e tendono

nude le braccia su l'amato capo del lor caro lattante onde nol desti

il gemer lungo di persona morta chiedente la venal prece agli eredi

dal santuario. Ma cipressi e cedri di puri effluvi i zefiri impregnando perenne verde protendean su l'urne per memoria perenne, e prezïosi vasi accogliean le lagrime votive. Rapían gli amici una favilla al Sole a illuminar la sotterranea notte,

perché gli occhi dell'uom cercan morendo il Sole; e tutti l'ultimo sospiro

mandano i petti alla fuggente luce. Le fontane versando acque lustrali

amaranti educavano e vïole su la funebre zolla; e chi sedea

a libar latte o a raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno

sentía qual d'aura de' beati Elisi. Pietosa insania che fa cari gli orti

de' suburbani avelli alle britanne vergini, dove le conduce amore

della perduta madre, ove clementi pregaro i Geni del ritorno al prode

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cne tronca fe' la trïonfata nave del maggior pino, e si scavò la bara.

Ma ove dorme il furor d'inclite gesta e sien ministri al vivere civile

l'opulenza e il tremore, inutil pompa e inaugurate immagini dell'Orco sorgon cippi e marmorei monumenti. Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, decoro e mente al bello italo regno, nelle adulate reggie ha sepoltura già vivo, e i stemmi unica laude. A noi morte apparecchi riposato albergo, ove una volta la fortuna cessi dalle vendette, e l'amistà raccolga non di tesori eredità, ma caldi sensi e di liberal carme l'esempio. A egregie cose il forte animo accendono l'urne de' forti, o Pindemonte; e bella

e santa fanno al peregrin la terra che le ricetta. Io quando il monumento

vidi ove posa il corpo di quel grande che temprando lo scettro a' regnatori

gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue;

e l'arca di colui che nuovo Olimpo alzò in Roma a' Celesti; e di chi vide

sotto l'etereo padiglion rotarsi piú mondi, e il Sole irradïarli immoto, onde all'Anglo che tanta ala vi stese sgombrò primo le vie del firmamento: - Te beata, gridai, per le felici aure pregne di vita, e pe' lavacri che da' suoi gioghi a te versa Apennino!

Lieta dell'aer tuo veste la Luna di luce limpidissima i tuoi colli

per vendemmia festanti, e le convalli popolate di case e d'oliveti

mille di fiori al ciel mandano incensi: e tu prima, Firenze, udivi il carme

che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco, e tu i cari parenti e l'idïoma

désti a quel dolce di Calliope labbro che Amore in Grecia nudo e nudo in Roma

d'un velo candidissimo adornando, rendea nel grembo a Venere Celeste;

ma piú beata che in un tempio accolte serbi l'itale glorie, uniche forse

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da che le mal vietate Alpi e l'alterna onnipotenza delle umane sorti

armi e sostanze t' invadeano ed are e patria e, tranne la memoria, tutto.

Che ove speme di gloria agli animosi intelletti rifulga ed all'Italia, quindi trarrem gli auspici. E a questi marmi venne spesso Vittorio ad ispirarsi. Irato a' patrii Numi, errava muto ove Arno è piú deserto, i campi e il cielo desïoso mirando; e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura, qui posava l'austero; e avea sul volto il pallor della morte e la speranza. Con questi grandi abita eterno: e l'ossa fremono amor di patria. Ah sí! da quella religïosa pace un Nume parla: e nutria contro a' Persi in Maratona ove Atene sacrò tombe a' suoi prodi,

la virtú greca e l'ira. Il navigante che veleggiò quel mar sotto l'Eubea,

vedea per l'ampia oscurità scintille balenar d'elmi e di cozzanti brandi,

fumar le pire igneo vapor, corrusche d'armi ferree vedea larve guerriere

cercar la pugna; e all'orror de' notturni silenzi si spandea lungo ne' campi

di falangi un tumulto e un suon di tube e un incalzar di cavalli accorrenti scalpitanti su gli elmi a' moribondi, e pianto, ed inni, e delle Parche il canto. Felice te che il regno ampio de' venti, Ippolito, a' tuoi verdi anni correvi!

E se il piloto ti drizzò l'antenna oltre l'isole egèe, d'antichi fatti

certo udisti suonar dell'Ellesponto i liti, e la marea mugghiar portando

alle prode retèe l'armi d'Achille sovra l'ossa d'Ajace: a' generosi

giusta di glorie dispensiera è morte; né senno astuto né favor di regi

all'Itaco le spoglie ardue serbava, ché alla poppa raminga le ritolse

l'onda incitata dagl'inferni Dei.

E me che i tempi ed il desio d'onore fan per diversa gente ir fuggitivo,

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me ad evocar gli eroi chiamin le Muse del mortale pensiero animatrici.

Siedon custodi de' sepolcri, e quando il tempo con sue fredde ale vi spazza

fin le rovine, le Pimplèe fan lieti di lor canto i deserti, e l'armonia vince di mille secoli il silenzio. Ed oggi nella Troade inseminata eterno splende a' peregrini un loco, eterno per la Ninfa a cui fu sposo Giove, ed a Giove diè Dàrdano figlio, onde fur Troia e Assàraco e i cinquanta talami e il regno della giulia gente. Però che quando Elettra udí la Parca che lei dalle vitali aure del giorno chiamava a' cori dell'Eliso, a Giove mandò il voto supremo: - E se, diceva, a te fur care le mie chiome e il viso e le dolci vigilie, e non mi assente

premio miglior la volontà de' fati, la morta amica almen guarda dal cielo

onde d'Elettra tua resti la fama. - Cosí orando moriva. E ne gemea

l'Olimpio: e l'immortal capo accennando piovea dai crini ambrosia su la Ninfa,

e fe' sacro quel corpo e la sua tomba. Ivi posò Erittonio, e dorme il giusto

cenere d'Ilo; ivi l'iliache donne sciogliean le chiome, indarno ahi! deprecando da' lor mariti l'imminente fato; ivi Cassandra, allor che il Nume in petto le fea parlar di Troia il dí mortale, venne; e all'ombre cantò carme amoroso, e guidava i nepoti, e l'amoroso

apprendeva lamento a' giovinetti. E dicea sospirando: - Oh se mai d'Argo,

ove al Tidíde e di Läerte al figlio pascerete i cavalli, a voi permetta

ritorno il cielo, invan la patria vostra cercherete! Le mura, opra di Febo,

sotto le lor reliquie fumeranno. Ma i Penati di Troia avranno stanza

in queste tombe; ché de' Numi è dono servar nelle miserie altero nome.

E voi, palme e cipressi che le nuore piantan di Priamo, e crescerete ahi presto

di vedovili lagrime innaffiati, proteggete i miei padri: e chi la scure

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asterrà pio dalle devote frondi men si dorrà di consanguinei lutti,

e santamente toccherà l'altare. Proteggete i miei padri. Un dí vedrete

mendico un cieco errar sotto le vostre antichissime ombre, e brancolando penetrar negli avelli, e abbracciar l'urne, e interrogarle. Gemeranno gli antri secreti, e tutta narrerà la tomba Ilio raso due volte e due risorto splendidamente su le mute vie per far piú bello l'ultimo trofeo ai fatati Pelídi. Il sacro vate, placando quelle afflitte alme col canto, i prenci argivi eternerà per quante abbraccia terre il gran padre Oceàno. E tu onore di pianti, Ettore, avrai, ove fia santo e lagrimato il sangue per la patria versato, e finché il Sole

risplenderà su le sciagure umane.

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ALESSANDRO MANZONI

In morte di Carlo Imbonati (vv. 165-173)

“Sentir”, riprese, “e meditar: di poco Esser contento: da la meta mai Non torcer gli occhi: conservar la mano Pura e la mente: de le umane cose Tanto sperimentar, quanto ti basti Per non curarle: non ti far mai servo: Non far tregua coi vili: il santo Vero Mai non tradir: né proferir mai verbo, Che plauda al vizio, o la virtù derida”. Dagli “Inni Sacri” Il Natale

Qual masso che dal vertice

Di lunga erta montana, Abbandonato all’impeto

Di rumorosa frana, Per lo scheggiato calle

Precipitando a valle, Batte sul fondo e sta;

Là dove cadde, immobile Giace in sua lenta mole; Né, per mutar di secoli, Fia che riveda il sole Della sua cima antica, Se una virtude amica

In alto nol trarrà:

Tal si giaceva il misero Figliol del fallo primo,

Dal dì che un’ineffabile Ira promessa all’imo

D’ogni malor gravollo, Donde il superbo collo

Più non potea levar.

Qual mai tra i nati all’odio, Quale era mai persona,

Che al Santo inaccessibile Potesse dir: perdona?

Far novo patto eterno?

Al vincitore inferno La preda sua strappar?

Ecco ci è nato un Pargolo,

Ci fu largito un Figlio: Le avverse forze tremano

Al mover del suo ciglio: All’uom la mano Ei porge, Che si ravviva, e sorge Oltre l’antico onor. Dalle magioni eteree Sgorga una fonte, e scende,

E nel borron de’ triboli Vivida si distende:

Stillano mèle i tronchi Dove copriano i bronchi,

Ivi germoglia il fior.

O Figlio, o Tu cui genera L’Eterno, eterno seco;

Qual ti può dir de’ secoli: Tu cominciasti meco?

Tu sei: del vasto empireo Non ti comprende il giro:

La tua parola il fe’.

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E Tu degnasti assumere

Questa creata argilla? Qual merto suo, qual grazia

A tanto onor sortilla? Se in suo consiglio ascoso Vince il perdon, pietoso Immensamente Egli è. Oggi Egli è nato: ad Efrata, Vaticinato ostello, Ascese un’alma Vergine, La gloria d’Israello, Grave di tal portato: Da cui promise è nato, Donde era atteso uscì. La mira Madre in poveri Panni il Figliol compose,

E nell’umil presepio Soavemente il pose;

E l’adorò: beata! Innanzi al Dio prostrata,

Che il puro sen le aprì.

L’Angel del cielo, agli uomini Nunzio di tanta sorte,

Non de’ potenti volgesi Alle vegliate porte; Ma tra i pastor devoti, Al duro mondo ignoti, Subito in luce appar. E intorno a Lui, per l’ampia

Notte calati a stuolo, Mille celesti strinsero

Il fiammeggiante volo; E accesi in dolce zelo,

Come si canta in cielo, A Dio gloria cantar.

L’allegro inno seguirono, Tornando al firmamento: Tra le varcate nuvole Allontanossi, e lento Il suon sacrato ascese, Fin che più nulla intese La compagnia fedel. Senza indugiar, cercarono L’albergo poveretto Que’ fortunati, e videro, Siccome a lor fu detto, Videro in panni avvolto, In un presepe accolto,

Vagire il Re del Ciel.

Dormi, o Fanciul; non piangere; Dormi, o Fanciul celeste:

Sovra il tuo capo stridere Non osin le tempeste,

Use sull’empia terra, Come cavalli in guerra,

Correr davanti a Te. Dormi, o Celeste: i popoli Chi nato sia non sanno; Ma il dì verrà che nobile Retaggio tuo saranno; Che in quell’umil riposo,

Che nella polve ascoso, Conosceranno il Re.

La Risurrezione

È risorto: or come a morte La sua preda fu ritolta?

Come ha vinto l’atre porte, Come è salvo un’altra volta

Quei che giacque in forza altrui? Io lo giuro per Colui

Che da’ morti il suscitò.

È risorto: il capo santo Più non posa nel sudario;

È risorto: dall’un canto Dell’avello solitario

Sta il coperchio rovesciato: Come un forte inebbriato

Il Signor si risvegliò.

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Come a mezzo del cammino,

Riposato alla foresta, Si risente il pellegrino,

E si scote dalla testa Una foglia inaridita, Che, dal ramo dipartita, Lenta lenta vi risté: Tale il marmo inoperoso, Che premea l’arca scavata Gittò via quel Vigoroso, Quando l’anima tornata Dalla squallida vallea, Al Divino che tacea: Sorgi, disse, io son con Te. Che parola si diffuse Tra i sopiti d’Israele!

Il Signor le porte ha schiuse! Il Signor, l’Emmanuele!

O sopiti in aspettando, È finito il vostro bando:

Egli è desso, il Redentor.

Pria di Lui nel regno eterno Che mortal sarebbe asceso?

A rapirvi al muto inferno, Vecchi padri, Egli è disceso: Il sospir del tempo antico, Il terror dell’inimico, Il promesso Vincitor. Ai mirabili Veggenti,

Che narrarono il futuro, Come il padre ai figli intenti

Narra i casi che già furo, Si mostrò quel sommo Sole,

Che, parlando in lor parole, Alla terra Iddio giurò;

Quando Aggeo, quando Isaia

Mallevaro al mondo intero Che il Bramato un dì verria;

Quando assorto in suo pensiero Lesse i giorni numerati,

E degli anni ancor non nati Daniel si ricordò.

Era l’alba; e, molli il viso,

Maddalena e l’altre donne Fean lamento sull’Ucciso;

Ecco tutta di Sionne Si commosse la pendice, E la scolta insultatrice Di spavento tramortì. Un estranio giovinetto Si posò sul monumento: Era folgore l’aspetto, Era neve il vestimento: Alla mesta che ’l richiese Diè risposta quel cortese: È risorto; non è qui. Via co’ palii disadorni Lo squallor della viola:

L’oro usato a splender torni: Sacerdote, in bianca stola,

Esci ai grandi ministeri, Tra la luce de’ doppieri,

Il Risorto ad annunziar.

Dall’altar si mosse un grido: Godi, o Donna alma del cielo;

Godi; il Dio, cui fosti nido A vestirsi il nostro velo, È risorto, come il disse: Per noi prega: Egli prescrisse Che sia legge il tuo pregar. O fratelli, il santo rito

Sol di gaudio oggi ragiona; Oggi è giorno di convito;

Oggi esulta ogni persona: Non è madre che sia schiva

Della spoglia più festiva I suoi bamboli vestir.

Sia frugal del ricco il pasto;

Ogni mensa abbia i suoi doni; E il tesor, negato al fasto

Di superbe imbandigioni, Scorra amico all’umil tetto,

Faccia il desco poveretto Più ridente oggi apparir.

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Lunge il grido e la tempesta

De’ tripudi inverecondi: L’allegrezza non è questa

Di che i giusti son giocondi; Ma pacata in suo contegno, Ma celeste, come segno Della gioia che verrà.

Oh beati! a lor più bello

Spunta il sol de’ giorni santi; Ma che fia di chi rubello

Torse, ahi stolto! i passi erranti Nel sentier che a morte guida? Nel Signor chi si confida Col Signor risorgerà.

La Pentecoste Madre de’ Santi, immagine Della città superna, Del sangue incorruttibile Conservatrice eterna; Tu che, da tanti secoli, Soffri, combatti e preghi, Che le tue tende spieghi

Dall’uno all’altro mar;

Campo di quei che sperano; Chiesa del Dio vivente,

Dov’eri mai? qual angolo Ti raccogliea nascente,

Quando il tuo Re, dai perfidi Tratto a morir sul colle,

Imporporò le zolle Del suo sublime altar? E allor che dalle tenebre La diva spoglia uscita, Mise il potente anelito Della seconda vita;

E quando, in man recandosi Il prezzo del perdono,

Da questa polve al trono Del Genitor salì;

Compagna del suo gemito,

Conscia de’ suoi misteri, Tu, della sua vittoria

Figlia immortal, dov’eri? In tuo terror sol vigile,

Sol nell’obblio secura, Stavi in riposte mura,

Fino a quel sacro dì,

Quando su te lo Spirito Rinnovator discese E l’inconsunta fiaccola Nella tua destra accese; Quando, segnal de’ popoli, Ti collocò sul monte, E ne’ tuoi labbri il fonte

Della parola aprì.

Come la luce rapida Piove di cosa in cosa,

E i color vari suscita Dovunque si riposa;

Tal risonò moltiplice La voce dello Spiro:

L’Arabo, il Parto, il Siro In suo sermon l’udì. Adorator degl’idoli, Sparso per ogni lido, Volgi lo sguardo a Solima, Odi quel santo grido:

Stanca del vile ossequio, La terra a Lui ritorni:

E voi che aprite i giorni Di più felice età,

Spose, che desta il subito

Balzar del pondo ascoso; Voi già vicine a sciogliere

Il grembo doloroso; Alla bugiarda pronuba

Non sollevate il canto Cresce serbato al Santo

Quel che nel sen vi sta.

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Perché, baciando i pargoli, La schiava ancor sospira?

E il sen che nutre i liberi Invidiando mira?

Non sa che al regno i miseri Seco il Signor solleva? Che a tutti i figli d’Eva Nel suo dolor pensò? Nova franchigia annunziano I cieli, e genti nove; Nove conquiste, e gloria Vinta in più belle prove; Nova, ai terrori immobile E alle lusinghe infide, Pace, che il mondo irride, Ma che rapir non può. O Spirto! supplichevoli

A’ tuoi solenni altari, Soli per selve inospite,

Vaghi in deserti mari, Dall’Ande algenti al Libano,

D’Erina all’irta Haiti, Sparsi per tutti i liti,

Uni per Te di cor,

Noi T’imploriam! Placabile Spirto, discendi ancora, A’ tuoi cultor propizio, Propizio a chi T’ignora; Scendi e ricrea; rianima I cor nel dubbio estinti; E sia divina ai vinti

Mercede il vincitor.

Discendi Amor; negli animi L’ire superbe attuta:

Dona i pensier che il memore Ultimo dì non muta;

I doni tuoi benefica Nutra la tua virtude;

Siccome il sol che schiude Dal pigro germe il fior;

Che lento poi sull’umili Erbe morrà non còlto,

Né sorgerà coi fulgidi Color del lembo sciolto,

Se fuso a lui nell’etere Non tornerà quel mite Lume, dator di vite, E infaticato altor. Noi T’imploriam! Ne’ languidi Pensier dell’infelice Scendi piacevol alito, Aura consolatrice: Scendi bufera ai tumidi Pensier del violento; Vi spira uno sgomento Che insegni la pietà. Per Te sollevi il povero

Al ciel, ch’è suo, le ciglia; Volga i lamenti in giubilo,

Pensando a Cui somiglia; Cui fu donato in copia,

Doni con volto amico, Con quel tacer pudico,

Che accetto il don ti fa.

Spira de’ nostri bamboli Nell’ineffabil riso; Spargi la casta porpora Alle donzelle in viso; Manda alle ascose vergini Le pure gioie ascose; Consacra delle spose

Il verecondo amor.

Tempra de’ baldi giovani Il confidente ingegno;

Reggi il viril proposito Ad infallibil segno;

Adorna le canizie Di liete voglie sante;

Brilla nel guardo errante Di chi sperando muor.

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Odi civili Il cinque maggio

Ei fu. Siccome immobile,

Dato il mortal sospiro, Stette la spoglia immemore Orba di tanto spiro, Così percossa, attonita La terra al nunzio sta, Muta pensando all’ultima Ora dell’uom fatale; Nè sa quando una simile Orma di piè mortale La sua cruenta polvere A calpestar verrà. Lui folgorante in solio Vide il mio genio e tacque;

Quando, con vece assidua, Cadde, risorse e giacque,

Di mille voci al sonito Mista la sua non ha:

Vergin di servo encomio

E di codardo oltraggio, Sorge or commosso al subito

Sparir di tanto raggio: E scioglie all’urna un cantico Che forse non morrà. Dall’Alpi alle Piramidi, Dal Manzanarre al Reno, Di quel securo il fulmine

Tenea dietro al baleno; Scoppiò da Scilla al Tanai,

Dall’uno all’altro mar.

Fu vera gloria? Ai posteri L’ardua sentenza: nui

Chiniam la fronte al Massimo Fattor, che volle in lui

Del creator suo spirito Più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida

Gioia d’un gran disegno, L’ansia d’un cor che indocile

Serve, pensando al regno;

E il giunge, e tiene un premio Ch’era follia sperar; tutto ei provò: la gloria Maggior dopo il periglio, La fuga e la vittoria, La reggia e il tristo esiglio: Due volte nella polvere, Due volte sull’altar. Ei si nomò: due secoli, L’un contro l’altro armato, Sommessi a lui si volsero, Come aspettando il fato; Ei fe’ silenzio, ed arbitro

S’assise in mezzo a lor.

E sparve, e i dì nell’ozio Chiuse in sì breve sponda,

Segno d’immensa invidia E di pietà profonda,

D’inestinguibil odio E d’indomato amor.

Come sul capo al naufrago L’onda s’avvolve e pesa, L’onda su cui del misero, Alta pur dianzi e tesa, Scorrea la vista a scernere Prode remote invan;

Tal su quell’alma il cumulo

Delle memorie scese! Oh quante volte ai posteri

Narrar se stesso imprese, E sull’eterne pagine

Cadde la stanca man!

Oh quante volte, al tacito Morir d’un giorno inerte,

Chinati i rai fulminei, Le braccia al sen conserte,

Stette, e dei dì che furono L’assalse il sovvenir!

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E ripensò le mobili

Tende, e i percossi valli, E il lampo de’ manipoli,

E l’onda dei cavalli, E il concitato imperio, E il celere ubbidir. Ahi! forse a tanto strazio Cadde lo spirto anelo, E disperò: ma valida Venne una man dal cielo, E in più spirabil aere Pietosa il trasportò; E l’avviò, pei floridi Sentier della speranza, Ai campi eterni, al premio

Che i desidéri avanza, Dov’è silenzio e tenebre

La gloria che passò.

Bella Immortal! benefica Fede ai trionfi avvezza! Scrivi ancor questo, allegrati; Chè più superba altezza Al disonor del Golgota Giammai non si chinò. Tu dalle stanche ceneri Sperdi ogni ria parola: il Dio che atterra e suscita, Che affanna e che consola, Sulla deserta coltrice Accanto a lui posò.

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Dalle tragedie Adelchi

La morte di Ermengarda (coro atto IV)

Sparsa le trecce morbide Sull'affannoso petto, Lenta le palme, e rorida Di morte il bianco aspetto, Giace la pia, col tremolo Sguardo cercando il ciel. Cessa il compianto: unanime S'innalza una preghiera: Calata in su la gelida Fronte, una man leggiera Sulla pupilla cerula Stende l'estremo vel. Sgombra, o gentil, dall'ansia

Mente i terrestri ardori; Leva all'Eterno un candido

Pensier d'offerta, e muori: Fuor della vita è il termine

Del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile Era quaggiuso il fato:

Sempre un obblio di chiedere Che le saria negato; E al Dio de' santi ascendere Santa del suo patir. Ahi! nelle insonni tenebre, Pei claustri solitari,

Tra il canto delle vergini, Ai supplicati altari,

Sempre al pensier tornavano Gl'irrevocati dì;

Quando ancor cara, improvida

D'un avvenir mal fido, Ebbra spirò le vivide

Aure del Franco lido, E tra le nuore Saliche

Invidiata uscì:

Quando da un poggio aereo, Il biondo crin gemmata,

Vedea nel pian discorrere La caccia affaccendata, E sulle sciolte redini Chino il chiomato sir; E dietro a lui la furia De' corridor fumanti; E lo sbandarsi, e il rapido Redir de' veltri ansanti; E dai tentati triboli L'irto cinghiale uscir; E la battuta polvere Riga di sangue, colto Dal regio stral: la tenera

Alle donzelle il volto Volgea repente, pallida

D'amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi Lavacri d'Aquisgrano!

Ove, deposta l'orrida Maglia, il guerrier sovrano

Scendea del campo a tergere Il nobile sudor! Come rugiada al cespite Dell'erba inaridita, Fresca negli arsi calami Fa rifluir la vita,

Che verdi ancor risorgono Nel temperato albor;

Tale al pensier, cui l'empia

Virtù d'amor fatica, Discende il refrigerio

D'una parola amica, E il cor diverte ai placidi

Gaudii d'un altro amor.

Ma come il sol che, reduce, L'erta infocata ascende,

E con la vampa assidua L'immobil aura incende,

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Risorti appena i gracili Steli riarde al suol;

Ratto così dal tenue

Obblio torna immortale L'amor sopito, e l'anima Impaurita assale, E le sviate immagini Richiama al noto duol. Sgombra, o gentil, dall'ansia Mente i terrestri ardori; Leva all'Eterno un candido Pensier d'offerta, e muori: Nel suol che dee la tenera Tua spoglia ricoprir, Altre infelici dormono, Che il duol consunse; orbate

Spose dal brando, e vergini Indarno fidanzate;

Madri che i nati videro Trafitti impallidir.

Te, dalla rea progenie

Degli oppressor discesa,

Cui fu prodezza il numero, Cui fu ragion l'offesa,

E dritto il sangue, e gloria Il non aver pietà,

Te collocò la provida Sventura in fra gli oppressi: Muori compianta e placida; Scendi a dormir con essi: Alle incolpate ceneri Nessuno insulterà. Muori; e la faccia esanime Si ricomponga in pace; Com'era allor che improvida D'un avvenir fallace, Lievi pensier virginei Solo pingea. Così

Dalle squarciate nuvole Si svolge il sol cadente,

E, dietro il monte, imporpora Il trepido occidente;

Al pio colono augurio Di più sereno dì.

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Da “I promessi sposi” Cap. XVII

[…] Cammina, cammina; arrivò dove la campagna coltivata moriva in una sodaglia sparsa di felci e

di scope. Gli parve, se non indizio, almeno un certo qual argomento di fiume vicino, e s'inoltrò per quella, seguendo un sentiero che l'attraversava. Fatti pochi passi , si fermò ad ascoltare; ma ancora invano. La noia del viaggio veniva accresciuta dalla salvatichezza del luogo, da quel non veder più né un gelso, né una vite, né altri segni di coltura umana, che prima pareva quasi che gli facessero una mezza compagnia. Ciò non ostante andò avanti; e siccome nella sua mente cominciavano a suscitarsi certe immagini, certe apparizioni, lasciatevi in serbo dalle novelle sentite raccontar da bambino, così, per discacciarle, o per acquietarle, recitava, camminando, dell'orazioni per i morti. A poco a poco, si trovò tra macchie più alte, di pruni, di quercioli, di marruche. Seguitando a andare avanti, e allungando il passo, con più impazienza che voglia, cominciò a veder tra le macchie qualche albero sparso; e andando ancora, sempre per lo stesso sentiero, s'accorse d'entrare in un bosco. Provava un certo ribrezzo a inoltrarvisi; ma lo vinse, e contro voglia andò avanti; ma più che s'inoltrava, più il ribrezzo cresceva, più ogni cosa gli dava fastidio. Gli alberi che vedeva in lontananza, gli rappresentavan figure strane, deformi, mostruose; l'annoiava l'ombra delle cime leggermente agitate, che tremolava sul sentiero illuminato qua e là dalla luna; lo stesso scrosciar delle foglie secche che calpestava o moveva camminando, aveva per il suo orecchio un

non so che d'odioso. Le gambe provavano come una smania, un impulso di corsa, e nello stesso tempo pareva che durassero fatica a regger la persona. Sentiva la brezza notturna batter più rigida

e maligna sulla fronte e sulle gote; se la sentiva scorrer tra i panni e le carni, e raggrinzarle, e penetrar più acuta nelle ossa rotte dalla stanchezza, e spegnervi quell'ultimo rimasuglio di vigore.

A un certo punto, quell'uggia, quell'orrore indefinito con cui l'animo combatteva da qualche tempo, parve che a un tratto lo soverchiasse. Era per perdersi affatto; ma atterrito, più che d'ogni

altra cosa, del suo terrore, richiamò al cuore gli antichi spiriti, e gli comandò che reggesse. Così rinfrancato un momento, si fermò su due piedi a deliberare; risolveva d'uscir subito di lì per la

strada già fatta, d'andar diritto all'ultimo paese per cui era passato, di tornar tra gli uomini, e di cercare un ricovero, anche all'osteria. E stando così fermo, sospeso il fruscìo de' piedi nel fogliame, tutto tacendo d'intorno a lui, cominciò a sentire un rumore, un mormorìo, un mormorìo d'acqua corrente. Sta in orecchi; n'è certo; esclama: - è l'Adda! - Fu il ritrovamento d'un amico, d'un fratello, d'un salvatore. La stanchezza quasi scomparve, gli tornò il polso, sentì il sangue scorrer libero e tepido per tutte le vene, sentì crescer la fiducia de' pensieri, e svanire in gran parte quell'incertezza e gravità delle cose; e non esitò a internarsi sempre più nel bosco, dietro all'amico

rumore. Arrivò in pochi momenti all'estremità del piano, sull'orlo d'una riva profonda; e guardando in giù

tra le macchie che tutta la rivestivano, vide l'acqua luccicare e correre. Alzando poi lo sguardo, vide il vasto piano dell'altra riva, sparso di paesi, e al di là i colli, e sur uno di quelli una gran

macchia biancastra, che gli parve dover essere una città, Bergamo sicuramente. Scese un po' sul pendìo, e, separando e diramando, con le mani e con le braccia, il prunaio, guardò giù, se qualche

barchetta si movesse nel fiume, ascoltò se sentisse batter de' remi; ma non vide né sentì nulla. Se fosse stato qualcosa di meno dell'Adda, Renzo scendeva subito, per tentarne il guado; ma sapeva

bene che l'Adda non era fiume da trattarsi così in confidenza. Perciò si mise a consultar tra sé, molto a sangue freddo, sul partito da prendere. Arrampicarsi sur

una pianta, e star lì a aspettar l'aurora, per forse sei ore che poteva ancora indugiare, con quella brezza, con quella brina, vestito così, c'era più che non bisognasse per intirizzir davvero.

Passeggiare innanzi e indietro, tutto quel tempo, oltre che sarebbe stato poco efficace aiuto contro il rigore del sereno, era un richieder troppo da quelle povere gambe, che già avevano fatto

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più del loro dovere. Gli venne in mente d'aver veduto, in uno de' campi più vicini alla sodaglia, una di quelle capanne coperte di paglia, costrutte di tronchi e di rami, intonacati poi con la mota, dove

i contadini del milanese usan, l'estate, depositar la raccolta, e ripararsi la notte a guardarla: nell'altre stagioni, rimangono abbandonate. La disegnò subito per suo albergo; si rimise sul

sentiero, ripassò il bosco, le macchie, la sodaglia; e andò verso la capanna. Un usciaccio intarlato e sconnesso, era rabbattuto, senza chiave né catenaccio; Renzo l'aprì, entrò; vide sospeso per aria, e sostenuto da ritorte di rami, un graticcio, a foggia d'hamac; ma non sl curò di salirvi. Vide in terra un po' di paglia; e pensò che, anche lì, una dormitina sarebbe ben saporita. Prima però di sdraiarsi su quel letto che la Provvidenza gli aveva preparato, vi s'inginocchiò, a ringraziarla di quel benefizio, e di tutta l'assistenza che aveva avuta da essa, in quella terribile giornata. Disse poi le sue solite divozioni; e per di più, chiese perdono a Domeneddio di non averle dette la sera avanti; anzi, per dir le sue parole, d'essere andato a dormire come un cane, e peggio. « E per questo, - soggiunse poi tra sé; appoggiando le mani sulla paglia, e d'inginocchioni mettendosi a giacere: - per questo, m'è toccata, la mattina, quella bella svegliata ». Raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all'intorno, e se l'accomodò addosso, facendosene, alla meglio, una specie di coperta, per temperare il freddo, che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si rannicchiò sotto, con l'intenzione di dormire un bel sonno, parendogli d'averlo comprato anche più caro del dovere. Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso

non ve lo saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente, così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mercante, il notaio, i birri, lo spadaio, l'oste, Ferrer, il vicario, la brigata

dell'osteria, tutta quella turba delle strade, poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui Renzo aveva che dire.

Tre sole immagini gli si presentavano non accompagnate da alcuna memoria amara, nette d'ogni sospetto, amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti al certo, ma strettamente legate

nel cuore del giovine: una treccia nera e una barba bianca. Ma anche la consolazione che provava nel fermare sopra di esse il pensiero, era tutt'altro che pretta e tranquilla. Pensando al buon frate,

sentiva più vivamente la vergogna delle proprie scappate, della turpe intemperanza, del bel caso che aveva fatto de' paterni consigli di lui; e contemplando l'immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E quella povera Agnese, come l'avrebbe potuta dimenticare? Quell'Agnese, che l'aveva scelto, che l'aveva già considerato come una cosa sola con la sua unica figlia, e prima di ricever da lui il titolo di madre, n'aveva preso il linguaggio e il cuore, e dimostrata co' fatti la premura. Ma era un dolore di più, e non il meno pungente, quel pensiero, che, in grazia appunto di così amorevoli intenzioni, di tanto bene che

voleva a lui, la povera donna si trovava ora snidata, quasi raminga, incerta dell'avvenire, e raccoglieva guai e travagli da quelle cose appunto da cui aveva sperato il riposo e la giocondità

degli ultimi suoi anni. Che notte, povero Renzo! Quella che doveva esser la quinta delle sue nozze! Che stanza! Che letto matrimoniale! E dopo qual giornata! E per arrivare a qual domani, a qual

serie di giorni! « Quel che Dio vuole, - rispondeva ai pensieri che gli davan più noia: - quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa: c'è anche per noi. Vada tutto in isconto de' miei peccati. Lucia è tanto

buona! non vorrà poi farla patire un pezzo, un pezzo, un pezzo! » […]

Cap. XXXVIII […] Venne la dispensa, venne l'assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due promessi andarono,

con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per bocca di don Abbondio, furono sposi. Un altro trionfo, e ben più singolare, fu l'andare a quel palazzotto; e vi lascio pensare che

cose dovessero passar loro per la mente, in far quella salita, all'entrare in quella porta; e che discorsi dovessero fare, ognuno secondo il suo naturale. Accennerò soltanto che, in mezzo

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all'allegria, ora l'uno, ora l'altro motivò più d'una volta, che, per compir la festa, ci mancava il povero padre Cristoforo. - Ma per lui, - dicevan poi, - sta meglio di noi sicuramente.

Il marchese fece loro una gran festa, li condusse in un bel tinello, mise a tavola gli sposi, con Agnese e con la mercantessa; e prima di ritirarsi a pranzare altrove con don Abbondio, volle star lì

un poco a far compagnia agl'invitati, e aiutò anzi a servirli. A nessuno verrà, spero, in testa di dire che sarebbe stata cosa più semplice fare addirittura una tavola sola. Ve l'ho dato per un brav'uomo, ma non per un originale, come si direbbe ora; v'ho detto ch'era umile, non già che fosse un portento d'umiltà. N'aveva quanta ne bisognava per mettersi al di sotto di quella buona gente, ma non per istar loro in pari. Dopo i due pranzi, fu steso il contratto per mano d'un dottore, il quale non fu l'Azzecca-garbugli. Questo, voglio dire la sua spoglia, era ed è tuttavia a Canterelli. E per chi non è di quelle parti, capisco anch'io che qui ci vuole una spiegazione. […] Gli affari andavan d'incanto: sul principio ci fu un po' d'incaglio per la scarsezza de' lavoranti e per lo sviamento e le pretensioni de' pochi ch'eran rimasti. Furon pubblicati editti che limitavano le paghe degli operai; malgrado quest'aiuto, le cose si rincamminarono, perché alla fine bisogna che si rincamminino. Arrivò da Venezia un altro editto, un po' più ragionevole: esenzione, per dieci anni, da ogni carico reale e personale ai forestieri che venissero a abitare in quello stato. Per i nostri fu una nuova cuccagna.

Prima che finisse l'anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d'adempire quella sua magnanima promessa, fu una

bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e dell'altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l'uno dopo

l'altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de' bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere,

dicendo che, giacché la c'era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro. Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva

imparate, per governarsi meglio in avvenire. - Ho imparato, - diceva, - a non mettermi ne' tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c'è lì d'intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d'aver pensato quel che possa nascere -. E cent'altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n'era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa. A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra

ogni volta, - e io, - disse un giorno al suo moralista, - cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che sono venuti a cercar me. Quando non voleste dire, - aggiunse,

soavemente sorridendo, - che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi.

Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più

innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da

povera gente, c'è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia.

La quale, se non v'è dispiaciuta affatto, vogliatene bene a chi l'ha scritta, e anche un pochino a chi l'ha raccomodata. Ma se in vece fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta.

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GIACOMO LEOPARDI

Dagli Idilli

Il passero solitario D'in su la vetta della torre antica, Passero solitario, alla campagna Cantando vai finchè non more il giorno; Ed erra l'armonia per questa valle. Primavera dintorno Brilla nell'aria, e per li campi esulta, Sì ch'a mirarla intenerisce il core. Odi greggi belar, muggire armenti; Gli altri augelli contenti, a gara insieme Per lo libero ciel fan mille giri, Pur festeggiando il lor tempo migliore: Tu pensoso in disparte il tutto miri; Non compagni, non voli

Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi; Canti, e così trapassi

Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,

Della novella età dolce famiglia, E te german di giovinezza, amore,

Sospiro acerbo de' provetti giorni, Non curo, io non so come; anzi da loro Quasi fuggo lontano; Quasi romito, e strano Al mio loco natio, Passo del viver mio la primavera. Questo giorno ch'omai cede alla sera,

Festeggiar si costuma al nostro borgo. Odi per lo sereno un suon di squilla,

Odi spesso un tonar di ferree canne,

Che rimbomba lontan di villa in villa. Tutta vestita a festa La gioventù del loco Lascia le case, e per le vie si spande; E mira ed è mirata, e in cor s'allegra. Io solitario in questa Rimota parte alla campagna uscendo, Ogni diletto e gioco Indugio in altro tempo: e intanto il guardo Steso nell'aria aprica Mi fere il Sol che tra lontani monti, Dopo il giorno sereno, Cadendo si dilegua, e par che dica

Che la beata gioventù vien meno.

Tu, solingo augellin, venuto a sera Del viver che daranno a te le stelle,

Certo del tuo costume Non ti dorrai; che di natura è frutto

Ogni vostra vaghezza. A me, se di vecchiezza

La detestata soglia Evitar non impetro, Quando muti questi occhi all'altrui core, E lor fia vóto il mondo, e il dì futuro Del dì presente più noioso e tetro, Che parrà di tal voglia? Che di quest'anni miei? che di me stesso?

Ahi pentirornmi, e spesso, Ma sconsolato, volgerommi indietro.

La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:

Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via,

Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna;

Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare.

Ogni cor si rallegra, in ogni lato

Risorge il romorio Torna il lavoro usato

L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando,

Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua

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Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova

Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero.

Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passegger che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core Sì dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo a' suoi studi intende? O torna all'opre? o cosa nova imprende? Quando de' mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno;

Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse

E paventò la morte Chi la vita abborria;

Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte,

Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! assai felice Se respirar ti lice

D'alcun dolor: beata Se te d'ogni dolor morte risana.

Il Sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole,

Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella,

Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo,

Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella

Solea danzar la sera intra di quei Ch'ebbe compagni dell'età più bella

Già tutta l'aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre

Giù da' colli e da' tetti, Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta.

I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta,

E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, Fischiando, il zappatore, E seco pensa al dì del suo riposo Poi quando intorno è spenta ogni altra face,

E tutto l'altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega

Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna,

E s'affretta, e s'adopra Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,

Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia

Recheran l'ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita

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È come un giorno d'allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno,

Che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave,

Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vo'; ma la tua festa

Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

A Silvia Silvia, rimembri ancora Quel tempo della tua vita mortale, Quando beltà splendea Negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, E tu, lieta e pensosa, il limitare Di gioventù salivi? Sonavan le quiete Stanze, e le vie dintorno, Al tuo perpetuo canto, Allor che all'opre femminili intenta

Sedevi, assai contenta Di quel vago avvenir che in mente avevi.

Era il maggio odoroso: e tu solevi Così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri

Talor lasciando e le sudate carte, Ove il tempo mio primo

E di me si spendea la miglior parte, D'in su i veroni del paterno ostello Porgea gli orecchi al suon della tua voce, Ed alla man veloce Che percorrea la faticosa tela. Mirava il ciel sereno, Le vie dorate e gli orti,

E quinci il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortal non dice

Quel ch'io sentiva in seno.

Che pensieri soavi, Che speranze, che cori, o Silvia mia!

Quale allor ci apparia La vita umana e il fato!

Quando sovviemmi di cotanta speme, Un affetto mi preme Acerbo e sconsolato, E tornami a doler di mia sventura. O natura, o natura, Perchè non rendi poi Quel che prometti allor? perchè di tanto Inganni i figli tuoi? Tu pria che l'erbe inaridisse il verno, Da chiuso morbo combattuta e vinta,

Perivi, o tenerella. E non vedevi Il fior degli anni tuoi;

Non ti molceva il core La dolce lode or delle negre chiome,

Or degli sguardi innamorati e schivi; Nè teco le compagne ai dì festivi

Ragionavan d'amore.

Anche peria fra poco La speranza mia dolce: agli anni miei Anche negaro i fati La giovanezza. Ahi come, Come passata sei, Cara compagna dell'età mia nova, Mia lacrimata speme!

Questo è quel mondo? questi I diletti, l'amor, l'opre, gli eventi

Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell'umane genti?

All'apparir del vero Tu, misera, cadesti: e con la mano

La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.

Canto notturno di un pastore errante dell’Asia

Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai, Contemplando i deserti; indi ti posi.

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Ancor non sei tu paga Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita La vita del pastore. Sorge in sul primo albore Move la greggia oltre pel campo, e vede Greggi, fontane ed erbe; Poi stanco si riposa in su la sera: Altro mai non ispera. Dimmi, o luna: a che vale Al pastor la sua vita, La vostra vita a voi? dimmi: ove tende Questo vagar mio breve, Il tuo corso immortale? Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni, Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva Colà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto Abisso orrido, immenso, Ov'ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale

È la vita mortale.

Nasce l'uomo a fatica, Ed è rischio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene, L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato: Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole. Ma perchè dare al sole,

Perchè reggere in vita Chi poi di quella consolar convenga'

Se la vita è sventura, Perchè da noi si dura? Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale. Pur tu, solinga, eterna peregrina, Che sì pensosa sei, tu forse intendi, Questo viver terreno, Il patir nostro, il sospirar, che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del sembiante, E perir dalla terra, e venir meno Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi Il perchè delle cose, e vedi il frutto

Del mattin, della sera, Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci Il verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri, Che son celate al semplice pastore. Spesso quand'io ti miro Star così muta in sul deserto piano, Che, in suo giro lontano, al ciel confina: Ovver con la mia greggia Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle; Dico fra me pensando:

A che tante facelle? Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa, Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto

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Indovinar non so. Ma tu per certo, Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento, Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale, Qualche bene o contento Avrà fors'altri; a me la vita è male O greggia mia che posi, oh te beata, Che la miseria tua, credo, non sai Quanta invidia ti porto! Non sol perchè d'affanno Quasi libera vai; Ch'ogni stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perchè giammai tedio non provi. Quando tu siedi all'ombra. sovra l'erbe. Tu se' queta e contenta; E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco. E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto. Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei Ed io godo ancor poco, O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno. Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perchè giacendo A bell'agio, ozioso, S'appaga ogni animale; Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? Forse s'avess'io l'ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad una, O come il tuono errar di giogo in giogo, Più felice sarei, dolce mia greggia, Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero, Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero

Forse in qual forma, in quale Stato che sia, dentro covile o cuna,

È funesto a chi nasce il dì natale.

Alla luna

O graziosa luna, io mi rammento Che, or volge l'anno, sovra questo colle Io venia pien d'angoscia a rimirarti: E tu pendevi allor su quella selva Siccome or fai, che tutta la rischiari. Ma nebuloso e tremulo dal pianto

Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci Il tuo volto apparia, che travagliosa

Era mia vita: ed è, nè cangia stile O mia diletta luna. E pur mi giova

La ricordanza, e il noverar l'etate Del mio dolore. Oh come grato occorre

Nel tempo giovanil, quando ancor lungo La speme e breve ha la memoria il corso

Il rimembrar delle passate cose, Ancor che triste, e che l'affanno duri!

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L'infinito

Sempre caro mi fu quest'ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte

Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l'eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s'annega il pensier mio: E il naufragar m'è dolce in questo mare.