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1 LUCIO FONTANA Il primo artista che ha elaborato l'esigenza di una utilizzazione creativa del mezzo televisivo è stato Lucio Fontana. Nel 1946 il Manifiesto Blanco, redatto da un gruppo di giovani dell'Accademia Altamira di Buenos Aires riunito intorno alla personalità di Fontana, costituisce l'inizio di una serie di prese di posizione teoriche, nel segno dell'ipotesi di una radicale evoluzione dell'arte fondata su una nuova sintesi tra la scienza (come dimensione teorica del moderno), la creatività (come dimensione spirituale e subconscia dell'arte), e le applicazioni tecnologiche (come mezzo della trasformazione materiale della vita). Il Manifiesto Blanco si apre infatti con un appello «a tutti gli uomini di scienza del mondo, i quali sanno che l'arte è una necessità vitale della specie», perché contribuiscano con le loro investigazioni all'evoluzione dell'arte, e prosegue analizzando gli sviluppi della rappresentazione, dallo spazio al movimento e al tempo. Nel mondo contemporaneo trasformato dalla scienza e dalla tecnica non vi è più posto, secondo Fontana, per le forme tradizionali dell'arte, che devono perciò modificarsi e manifestarsi in una nuova sintesi: «come una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio, la quale integri una unità fisico-psichica.» (Crispolti 1986) Queste idee traevano forza dalle precedenti esperienze di Fontana e prendono corpo nelle ricerche spaziali che si sviluppano al suo ritorno in Italia, a Milano, esplicandosi sia nelle opere sia nella produzione teorica. Si intensifica nei Manifesti (tra il '47 e il '52) la riflessione sulla materia e sull'arte, sulle forme e sui colori, sul concetto di una spazialità infinita, verso il superamento sia dei limiti delle forme tradizionali del quadro e della scultura, sia, nell'«eternità» del gesto, della deperibilità della materia nel tempo; e viene ribadita con insistenza la necessità storica dell'appropriazione da parte dell'artista dei mezzi offerti dalle scoperte scientifiche intese come stimolo alla creazione. In tale contesto di idee appare per la prima volta anche il riferimento alla televisione, nel Primo Manifesto dello spazialismo (1947, firmato da Beniamino Joppolo, Fontana, Giorgio Kaisserlian, Milena Milani): «Ci rifiutiamo di pensare che scienza ed arte siano due fatti distinti .... Gli artisti anticipano gesti scientifici, i gesti scientifici provocano sempre gesti artistici. Né radio né televisione possono essere scaturiti dallo spirito dell'uomo senza un'urgenza che dalla scienza va all'arte. E' impossibile che l'uomo dalla tela, dal bronzo, dal gesso, dalla plastilina non passi alla pura immagine aerea, universale, sospesa. » (Crispolti 1986). Su questi temi Fontana ritorna ancora nel Secondo Manifesto Spaziale del 18 marzo '48: «con le risorse della tecnica moderna, faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose. Trasmetteremo per radiotelevisione, espressioni artistiche di nuovo modello» e nella Proposta di un regolamento del movimento spaziale (2 aprile 1950), in cui si precisa programmaticamente che «il Movimento spaziale si propone di raggiungere una forma d'arte con mezzi nuovi che la tecnica mette a disposizione degli artisti»; tra questi si indicano «la radio, la televisione, la luce nera, il radar e tutti quei mezzi che l'intelligenza umana potrà ancora scoprire«, specificando che «l'invenzione concepita dall'Artista spaziale viene proiettata nello spazio» e che «nell'umanità è in formazione una nuova coscienza, tanto che non occorre più rappresentare un uomo, una casa, o la natura, ma creare con la propria fantasia le sensazioni spaziali» (Crispolti 1986). E' questo il periodo in cui Fontana realizza opere fondamentali, che vanno nelle direzioni indicate dagli scritti e che tra l'altro sono state lette dalla critica come antesignane dei futuri esiti dell'environment e del concettuale. Nel '49 l' Ambiente spaziale con forme spaziali e illuminazione a luce nera« (luce di Wood) esposto per sei giorni a Milano alla Galleria del Naviglio dal 5 febbraio 1949; grandi forme astratte vagamente biomorfe, di cartapesta, colorate a piccoli punti (quasi buchi di colore) con tinte fosforescenti, galleggiavano appese nello spazio buio, e, illuminate dalla luce nera di Wood a raggi ultravioletti creavano particolari dimensioni spaziali e dinamiche. Fontana ricordò più tardi l' Ambiente spaziale come il suo primo tentativo di liberazione della forma plastica dalla staticità, rievocando le

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LUCIO FONTANA

Il primo artista che ha elaborato l'esigenza di una utilizzazione creativa del mezzo televisivo è stato Lucio Fontana. Nel 1946 il Manifiesto Blanco, redatto da un gruppo di giovani dell'Accademia Altamira di Buenos Aires riunito intorno alla personalità di Fontana, costituisce l'inizio di una serie di prese di posizione teoriche, nel segno dell'ipotesi di una radicale evoluzione dell'arte fondata su una nuova sintesi tra la scienza (come dimensione teorica del moderno), la creatività (come dimensione spirituale e subconscia dell'arte), e le applicazioni tecnologiche (come mezzo della trasformazione materiale della vita). Il Manifiesto Blanco si apre infatti con un appello «a tutti gli uomini di scienza del mondo, i quali sanno che l'arte è una necessità vitale della specie», perché contribuiscano con le loro investigazioni all'evoluzione dell'arte, e prosegue analizzando gli sviluppi della rappresentazione, dallo spazio al movimento e al tempo. Nel mondo contemporaneo trasformato dalla scienza e dalla tecnica non vi è più posto, secondo Fontana, per le forme tradizionali dell'arte, che devono perciò modificarsi e manifestarsi in una nuova sintesi: «come una somma di elementi fisici: colore, suono, movimento, tempo, spazio, la quale integri una unità fisico-psichica.» (Crispolti 1986) Queste idee traevano forza dalle precedenti esperienze di Fontana e prendono corpo nelle ricerche spaziali che si sviluppano al suo ritorno in Italia, a Milano, esplicandosi sia nelle opere sia nella produzione teorica. Si intensifica nei Manifesti (tra il '47 e il '52) la riflessione sulla materia e sull'arte, sulle forme e sui colori, sul concetto di una spazialità infinita, verso il superamento sia dei limiti delle forme tradizionali del quadro e della scultura, sia, nell'«eternità» del gesto, della deperibilità della materia nel tempo; e viene ribadita con insistenza la necessità storica dell'appropriazione da parte dell'artista dei mezzi offerti dalle scoperte scientifiche intese come stimolo alla creazione. In tale contesto di idee appare per la prima volta anche il riferimento alla televisione, nel Primo Manifesto dello spazialismo (1947, firmato da Beniamino Joppolo, Fontana, Giorgio Kaisserlian, Milena Milani): «Ci rifiutiamo di pensare che scienza ed arte siano due fatti distinti.... Gli artisti anticipano gesti scientifici, i gesti scientifici provocano sempre gesti artistici. Né radio né televisione possono essere scaturiti dallo spirito dell'uomo senza un'urgenza che dalla scienza va all'arte. E' impossibile che l'uomo dalla tela, dal bronzo, dal gesso, dalla plastilina non passi alla pura immagine aerea, universale, sospesa. » (Crispolti 1986). Su questi temi Fontana ritorna ancora nel Secondo Manifesto Spaziale del 18 marzo '48: «con le risorse della tecnica moderna, faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose. Trasmetteremo per radiotelevisione, espressioni artistiche di nuovo modello» e nella Proposta di un regolamento del movimento spaziale (2 aprile 1950), in cui si precisa programmaticamente che «il Movimento spaziale si propone di raggiungere una forma d'arte con mezzi nuovi che la tecnica mette a disposizione degli artisti»; tra questi si indicano «la radio, la televisione, la luce nera, il radar e tutti quei mezzi che l'intelligenza umana potrà ancora scoprire«, specificando che «l'invenzione concepita dall'Artista spaziale viene proiettata nello spazio» e che «nell'umanità è in formazione una nuova coscienza, tanto che non occorre più rappresentare un uomo, una casa, o la natura, ma creare con la propria fantasia le sensazioni spaziali» (Crispolti 1986). E' questo il periodo in cui Fontana realizza opere fondamentali, che vanno nelle direzioni indicate dagli scritti e che tra l'altro sono state lette dalla critica come antesignane dei futuri esiti dell'environment e del concettuale. Nel '49 l'Ambiente spaziale con forme spaziali e illuminazione a luce nera« (luce di Wood) esposto per sei giorni a Milano alla Galleria del Naviglio dal 5 febbraio 1949; grandi forme astratte vagamente biomorfe, di cartapesta, colorate a piccoli punti (quasi buchi di colore) con tinte fosforescenti, galleggiavano appese nello spazio buio, e, illuminate dalla luce nera di Wood a raggi ultravioletti creavano particolari dimensioni spaziali e dinamiche. Fontana ricordò più tardi l'Ambiente spaziale come il suo primo tentativo di liberazione della forma plastica dalla staticità, rievocando le

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suggestioni del mutamento dell'oggetto in evento, e dell'immersione fisica e psichica dello spettatore nell'ambiente-opera: «l'ambiente era completamente nero, con luce nera di Wood, entravi trovandoti completamente isolato con te stesso, ogni spettatore reagiva col suo stato d'animo del momento, precisamente, non influenzavi l'uomo con oggetti, o forme impostegli come merce in vendita, l'uomo era con se stesso, colla sua coscienza, colla sua ignoranza, colla sua materia, etc. etc. L'importante era non fare la solita mostra di quadri e sculture, ed entrare nella polemica spaziale - subito dopo feci i 'buchi' la rottura di una dimensione ! il vuoto etc. etc.»(Crispolti 1986) Tre anni ancora, e nel 1951 si avrà il sinuoso groviglio di duecento metri di luci al neon sullo scalone d'ingresso della IX Triennale di Milano, in un ambiente progettato dall'architetto Baldessari; dopo la luce nera (magica e paradossale nella sua stessa definizione) è il tubo fluorescente il mezzo tecnologico che ridisegna magicamente lo spazio; e di nuovo il neon è utilizzato nel 1953 nell'ambientazione spaziale di segmenti rettilinei di luce su un soffitto a buchi, nella sala cinematografica nella XXXI Fiera di Milano. In occasione della Triennale, al Congresso Internazionale delle Proporzioni, Fontana legge il Manifesto tecnico dello Spazialismo, in cui proietta le sue problematiche in una prospettiva storica e ribadisce ancora la relazione tra le scoperte scientifiche, i cambiamenti del modo di vivere e le trasformazioni del modo di pensare dell'uomo, e in particolare di concepire l'arte. La televisione è dunque ripetutamente indicata tra gli strumenti di un'arte nuova; tuttavia, malgrado i numerosi riferimenti, Fontana la utilizzò soltanto in un occasione, il 17 maggio del '52, realizzando una trasmissione sperimentale per la RaiTv di Milano. L'esperienza assume nell'iter di Fontana un particolare significato, malgrado la sua unicità. Infatti Fontana utilizza le prime tele e carte-telate bucate proprio per la realizzazione delle immagini luminose in movimento che costituivano questo suo «video»; e contemporaneamente (maggio '52) le espone in una personale alla Galleria del Naviglio, chiamando le sue opere Concetti Spaziali. Come nota Crispolti «la nascita dei 'buchi' di Fontana va posta esattamente in relazione a questa implicazione di nuove tecnologie» (Crispolti 1986). Inoltre la sua trasmissione televisiva si pone come una sperimentazione innovativa in Italia, dove le emissioni televisive pubbliche regolari iniziano solo nel '54, e dove Fontana trova spazio per impostare con straordinaria naturalezza il problema dell'integrazione tra le caratteristiche formali del mezzo e la tematica artistica dello spazialismo. Si tratta di un'opera progettata per la televisione e basata su forme che interagiscono programmaticamente con la luce e che sono non solo animate ma anche ulteriormente spazializzate dal dispositivo tecnico dell'emittente. Sul monitor il quadro con i buchi, che costituisce la matrice originaria, si trasforma in evento; l'opera si dinamizza e si dà non più come termine finale e compiuto di un processo ma come un processo in atto, si identifica con la durata effimera della trasmissione smaterializzandosi. Per questo si lega indissolubilmente alla determinazione del mezzo, cui si affida l'espansione di aspirazioni e messaggi illimitati virtualmente nello spazio e nel tempo - e tuttavia fruibili solo in condizioni spaziali e temporali determinate dal mezzo stesso. In concomitanza con la trasmissione televisiva e nella logica della ricerca di un ampliamento dell'arte collegato all'uso di mezzi nuovi, viene redatto il Manifesto del movimento Spaziale per la televisione, (17 maggio 1952, firmato da Ambrosini, Burri, Crippa, Deluigi, De Toffoli, Dova, Donati, Fontana, Giancarozzi, Guidi, Joppolo, La Regina, Milena Milani, Morucchio, Peverelli, Tancredi, Vianello), che vale la pena di riportare per intero, non solo per il suo significato storico ma anche perché ripropone significativamente alcuni elementi fondanti della poetica di Fontana: «Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d'arte, basate sui concetti dello spazio, visto sotto un duplice aspetto: Il primo, quello degli spazi, una volta considerati misteriosi ed ormai noti e sondati, e quindi da noi usati come materia plastica;

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il secondo, quello degli spazi ancora ignoti nel cosmo, che vogliamo affrontare come dati di intuizione e di mistero, dati tipici dell'arte come divinazione. La televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti. Siamo lieti che dall'Italia venga trasmessa questa nostra manifestazione spaziale, destinata a rinnovare i campi dell'arte. E' vero che l'arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata e che attraverso lo spazio possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto. Le nostre espressioni artistiche moltiplicano all'infinito, in infinite direzioni, le linee d'orizzonte; esse ricercano una estetica per cui il quadro non è più quadro, la scultura non è più scultura, la pagina scritta esce dalla sua forma tipografica. Noi spaziali ci sentiamo gli artisti di oggi, poiché le conquiste della tecnica sono ormai a servizio dell'arte che noi professiamo» (Celant 1977). Se nei precedenti scritti il riferimento di Fontana alla televisione non individuava uno specifico «video» nel senso che si generalizzerà e si articolerà problematicamente dagli anni '60, ma un più generale orizzonte tecnologico cui l'arte doveva far ricorso, in modo sostanziale, per evolversi con i tempi, superare i limiti del quadro, proiettarsi in una spazialità illimitata, reso coll'abbinamento del gesto e della tecnologia, il Manifesto per la Televisione è più esplicito e diretto nell'individuare le caratteristiche del mezzo, sia come trasmittente sia come parte integrante della ricerca e dell'opera stessa. L'impiego della televisione significa di per sé l'intenzionalità di rielaborare la nozione di opera come oggetto e di proporre interrogativi sulla sua struttura, sulla percezione, sul rapporto con il pubblico. Particolarmente significativi sono l'idea di un'espansione ampia, nel mondo, verso un pubblico virtualmente illimitato, e il riferimento alla dematerializzazione dell'arte e al superamento della dimensione di un tempo confinato alla trasmissione, in virtù della sua dimensione spaziale. Spazio come categoria mentale più e oltre che fisica, non rimando illusionistico ma processo concettuale, come il gesto che lo genera (non può non cogliersi il collegamento con i successivi tagli), e per questo assimilabile al tempo come eternità. Ultimo tra gli scritti programmatici di Fontana il Manifesto per la Televisione costituisce forse il paradigma più preciso di quel legame positivo, creativo tra arte scienza e tecnologia cercato dall'artista, veicolo auspicato del superamento dei linguaggi tradizionali in una sintesi nuova. Sull'uso della televisione inserita in una problematica spaziale Fontana torna in altre occasioni, come nella dichiarazione Perché sono spaziale dello stesso 1952; esplicitando anche il riferimento al dinamismo plastico dei futuristi, alle differenze con il cubismo, alla sperimentazione spaziale nell'architettura e nei suoi materiali moderni (cemento), Fontana riprende i temi portanti dei precedenti Manifesti sul rapporto dell'arte con l'evoluzione dei mezzi nel tempo («non ci può essere un'evoluzione nell'arte con la pietra e il colore, si potrà fare un'arte nuova con la luce, televisione, solo l'artista creatore deve trasformare queste tecniche in arte»), sull'arte spaziale, sull'uscita dal quadro per penetrare nella dimensione del tempo e dello spazio, sullo sviluppo di «una forma d'arte basata sulle tecniche del nostro tempo, neon televisione, radar ecc.» (Ballo 1970 e Celant 1990). Ancora, quasi un decennio più tardi, dialogando con Carla Lonzi e polemizzando con gli artisti che si dedicano al cinema (fare «dell'arte di cinema, è la cosa più cretina che ci possa essere, non ha dimensione, ha movimento solo, e non ha volume»), Fontana dichiara che con la televisione «non è che trasmetterei delle figure, invaderei degli ambienti di colore, farei delle proiezioni, farei quello che vorrei, ma arrivi attraverso uno spazio e arrivi attraverso degli elementi veramente nuovi» (Lonzi 1969). Frasi in cui si ribadisce che l'interesse per il mezzo televisione è concentrato sulle sue capacità innovative di attivazione sensoriale, visiva e spaziale, secondo la stessa pulsione che orienta la produzione delle opere più famose, i Tagli e le Nature .

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Senza voler fare di Fontana uno dei tanti padri della videoarte, è indubbio che egli già indica, almeno potenzialmente, quella sintesi tra le funzioni dell'artista, della struttura mediale e dello spettatore che sarà in seguito una caratteristica portante delle opere video. Non solo inaugura quasi simbolicamente l'uso della televisione per produrre e trasmettere un'opera d'arte, ma anche, in senso più largo e generale, afferma la necessità creativa di impiegare i nuovi mezzi forniti dalle scoperte scientifiche del suo tempo, e così facendo cattura già la disponibilità del video a collegarsi e rielaborare altre forme e linguaggi dell'arte contemporanea. COINVOLGIMENTO E PERCEZIONE Non a caso le ipotesi di Fontana sono un punto di riferimento importante per altre pratiche innovative di tipo ambientale, performativo, percettivo, da quelle di Piero Manzoni o di Yves Klein, a quelle dei gruppi cinetici, che tra l'altro egli stesso sostiene e contribuisce a lanciare. Infatti al Miriorama 10, inaugurata il 14 aprile 1961 alla galleria La Salita di Roma, la presentazione è scritta da Fontana; l'artista torna in questo testo sui temi dei suoi manifesti, ribadendo le idee sulla interrelazione tra la sensibilità dell'uomo moderno e le esigenze create dalle manifestazioni della civiltà che si rinnova. D'altronde alla loro prima mostra Miriorama 1 gli artisti del Gruppo T avevano fatto esplicito riferimento a Fontana, «esponendo» in lettere di gomma appiccicate al muro stralci dal Manifiesto Blanco, accanto a brani de La scultura futurista di Boccioni (1912), della Ricostruzione Futurista dell'universo Di Balla e Depero (1915), e dalla Teoria della forma e della figurazione, di Klee (pubblicato in Italia nel 1959), denunciando così chiaramente le radici, storiche e recentissime, delle loro idee (Mussa 1976). All'epoca Fontana non era il solo a muoversi nella direzione di un sovvertimento della dimensione oggettuale del quadro e della plastica tradizionali, verso l'espansione e l'articolazione in uno spazio fisico e percettivo più ampio e complesso, facendo appello ad un nuovo rapporto con le tecnologie moderne. Vari orientamenti di ricerca, dalla fine degli anni '50, puntavano alla trasformazione del ruolo dell'artista, del rapporto con il pubblico, della nozione di arte, inserendo disparati materiali e modalità di intervento nel contesto dell'esperienza artistica; fino a spingere l'opera al di là dai confini delle tecniche tradizionali integrandola con macchine, strumenti e materie inconsueti, fino a scardinarla, ribaltandola nell'azione, nello spazio e nel tempo vissuto, fuori dai luoghi istituzionali (De Mèredieu 1994). Il 1952, in quest'ottica, può apparire come un anno chiave, tanto è denso di fatti nuovi, destinati a molteplici maturazioni. Si storicizza l'informale con i saggi di Harold Rosenberg su Art News e di Michel Tapié (Un art autre); Cage presenta la sua famoso concerto sul silenzio 4' 33" ; nell'estate dello stesso anno al Black Mountain College si svolge l'Untitled event, con la partecipazione di Cage Cunningham, Rauschenberg; Rauschenberg inventa il combine painting; Yakov Agam presenta i suoi primi quadri trasformabili; Guy Debord in Hurlements en faveur de Sade (proiettato a Musée de l'Homme) introduce nel cinema l'assenza di immagini (Hors Limites 1994). Munari pubblica i manifesti sul Macchinismo, il Dis-int-egr-ismo, l'Arte totale e inizia le proiezioni a luce polarizzata (Polariscop); Veronesi espone alla mostra del M.A.C. alla Galleria dell'Annunziata a Milano un Quadro fatto a macchina (M.A.C. 1984). Negli anni successivi si avranno le esperienze sulla rappresentazione del movimento di Paul Bury (Plans Mobiles,1953), di Tinguely (Reliefs méta-mécaniques e Sculptures automobiles, 1954) di Nicolas Schöffer (Tour spatiodynamique sonore, alta 50 metri, 1954-55), e della mostra Le Mouvement (Galérie Denis René, Parigi 1955). Intanto Rotella inizia i suoi decollages, Arnheim pubblica Art and visual perception (1954); nel 1956 Yves Klein mette a punto il suo blu che brevetta nel 1960 col nome di International Klein Blue, e ad Alba, su iniziativa del movimento per il Bauhaus Imaginiste (Baj, Jorn, Pinot Gallizio) ha luogo il

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primo congresso internazionale che riunisce diverse tendenze di avanguardia e con Constant, Simondo, Wolman prefigura la creazione dell'Internationale Situationniste. Nel '57 a Vienna Hermann Nitsch organizza l'Orgien Mysterien Theatre, un festival che riunisce tutte le arti; a Düsseldorf viene fondato il gruppo Zero ; a Milano Manzoni produce i primi Achromes. (Hors Limites 1994). Queste ed altre esperienze confluiscono e si strutturano nelle tendenze del decennio successivo: sia l'idea «concettuale» di una preminenza del progetto e del processo rispetto al prodotto, sia l'allargamento dei mezzi da utilizzare, sia l'intenzione di un diretto e immediato coinvolgimento, sensorio, fisico e psichico, sono tutti elementi che ritroviamo, con estrema varietà di invenzione e di attuazione, nella dialettica tra la «scientificità« e i meccanismi dell'arte cinetica e la «spontaneità« delle forme comportamentali e performative, tra la diretta ispirazione alla società dei consumi e ai mass media della Pop Art e gli impulsi in chiave antitecnologica e lirica dell'Arte Povera. Proprio questa dialettica, questa disponibilità creativa e critica alla ricerca e alla sperimentazione costituiscono il brodo di coltura della videoarte; la cui fisionomia, se si caratterizza macroscopicamente per l'assunzione del medium televisivo, è altrettanto decisamente segnata da influssi e scambi con tutte le pratiche artistiche contemporanee. Il comune denominatore può essere individuato nell'interazione con lo spettatore, fattore caratterizzante e determinante che si alimenta proprio dal dialogo con le nuove tecnologie. Coinvolgimento e partecipazione sono le parole d'ordine che, almeno ai suoi inizi, la videoarte condivide con l'arte cinetica, con l'happening, con la performance, con Fluxus. Sono parole che possono infatti significare un intervento attivo - a livello intellettuale, psichico o comportamentale - dello spettatore, oppure un diverso tipo d'interattività per cui l'opera è un processo che reagisce allo sguardo attraverso l'impiego di tecnologie che dai macchinari o dai dispositivi percettivi dei cinetici, travasano nella videoarte e arriveranno alle «macchine intelligenti» degli informatici e agli scenari della «realtà virtuale» (Popper 1975). L'arte cinetica cavalca la sfida della tecnologia moderna e cerca di superare l'impasse delle avanguardie tra mito del progresso e ricerca di assoluto indicando all'esperienza video le potenzialità di una contaminazione visiva tra la realtà della machina e quella dell'immagine. Parte dalle premesse scientifiche della psicologia sperimentale (Gestalttheorie) diffuse da Arnheim nel 1954 e lavora sulla percezione; i suoi esponenti che si costituiscono in gruppi - in Spagna l'Equipo 57 (1957), a Düsseldorf il Gruppo Zero (1958), a Milano il Gruppo Mid (1958) e il Gruppo T (1959), a Padova il Gruppo N (1959), negli USA l'Anonima Group (1960), a Parigi il GRAV (1961), a Mosca il Dvizdjenie (1962), a Roma il Gruppo Uno (1963) - scelgono di procedere con metodi operativi derivati dalla tecnologia moderna, dal programma inserito dall'artista nella struttura stessa dell'opera come principio di organizzazione formale in trasformazione dinamica nello spazio e nel tempo (Mussa 1976, Vergine 1984). Ma l'arte cinetica ha come obiettivo generalizzato non solo e non tanto la creazione di opere in movimento, quanto di dispositivi percettivi, cioè l'attivazione della partecipazione di chi esperisce l'opera, all'interno di variabili previste, programmate: il cinetismo reale prodotto da meccanismi che sono parte integrante dell'opera, o dalla consapevole manipolazione dello spettatore stesso, che diventa così anch'esso parte dell'opera, oppure il movimento virtuale indotto dallo spostamento dello sguardo. Si configura una particolare integrazione tra caso e programma, come dirà Eco nel 1962 in occasione della Mostra di Arte Programmata, al negozio Olivetti di Milano, che poi percorrerà l'Europa: «Nelle vicende del caso può essere individuato a posteriori una sorta di programma... e non sarà dunque impossibile programmare, con la lineare purezza di un programma matematico, 'campi di accadimenti' nei quali possano verificarsi dei processi casuali. Avremo così una singolare dialettica tra caso e programma, tra matematica e azzardo, tra concezione pianificata e libera accettazione di quel che avverrà, comunque avvenga, dato che in fondo avverrà purtuttavia secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini o delle

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direzioni possibili. Possiamo così parlare di arte programmata» (Eco 1962). Intorno a queste ipotesi si creano molteplici contatti, dibattiti, mostre, (e anche accese polemiche tra artisti e critici, come quelle emerse nel 1963 alla IV Biennale Internazionale d'Arte di San Marino e al XII Congresso Internazionale di Verrucchio), che culminano nell'esposizione, ampia ma eterogenea e in un certo senso conclusiva, The Responsive Eye, nel 1965 al Museum of Modern art di New York, l'anno dopo l'esplosione della Pop Art alla Biennale di Venezia (Vergine 1984). L'happening, seconda la definizione del suo iniziatore Allan Kaprow, è un «assemblage di eventi», che mescola situazioni spazio-temporali, oggetti svariati, frammenti di arti diverse (danza, teatro, film, pittura, scultura, musica, letteratura), elementi fantastici e assurdi, materiali di scarto o moderna tecnologia, in un lavoro gestito insieme dall'artista e dal pubblico. Vuole essere fondamentalmente un'azione che fonde arte e vita; si svolge su un tracciato predisposto, cui si possono dare infinite e imprevedibili risposte, trasformando la situazione che viene presentata e di cui gli spettatori, insieme all'artista, diventano attori; per cui, all'interno della sua conclamata libertà ed estemporaneità contiene una dialettica significativa tra programma e caso, tra azioni predisposte e imprevedibilità delle risposte, significativamente affine a quella teorizzata da Eco. L'attenzione per il processo percettivo cui di fatto si riduce l'essenza e il processo dell'opera programmata e cinetica, diventa nell'happening l'opera stessa, ma totalizzandosi, allargandosi in modo polisensoriale, collettivo. Dalla percezione ottica si estende alla partecipazione fisica; recuperando così anche il fatto fortuito, le attese, la noia come sensazione esistenziale del tempo, le sollecitazioni emozionali espunte dalle strutture cinetiche. Basilari nell'happening sono le reminiscenze del Futurismo e soprattutto l'influenza Dada, e direttamente determinante è inoltre l'attività di Cage al Black Mountain College e poi alla New School for Social research di New York. Proprio al Black Mountain College si svolgono nel '52 le prime manifestazioni; ma bisogna arrivare al '59 per una affermazione più completa, con il 18 happenings in 6 parts, New York, Reuben Gallery, di Allan Kaprow (Goldberg 1988). Kaprow avverte che «l'azione non avrà alcun senso chiaramente enunciabile per quel che concerne l'artista»: si tratta di un insieme di azioni che si svolgono in tre sale della galleria, attrezzate con specchi, colori, oggetti, rumori, dove alcuni artisti declamano frammenti di testi, dipingono, suonano, lasciano tracce e segnali, mentre gli spettatori si mischiano a loro seguendo le istruzioni di un programma che viene consegnato all'ingresso. Con questa provocatoria sinestesia tra le arti e i linguaggi, e tra artista e spettatori, inizia di una intensa stagione che vede all'opera artisti di formazione diversa, come Cage, Kaprow, Dine, Oldenburg, Rauschenberg, Grooms, il Gruppo Gutai in Giappone, gli esponenti dell'arte povera e minimal. E subito si inventano altri tipi di azioni artistiche, le performances, gli ambienti (environments), le installazioni, sul comune riferimento alla stretta connessione tra arte e vita e alla proposta di una molteplicità di stimoli sensoriali - visivi, auditivi, cinetici, tattili - per creare situazioni in cui proiettare lo spettatore. Tra America ed Europa si confrontano nell'articolazione di un medesimo spirito di ricerca la Grotta dell'Anti-Materia di Pinot Gallizio (1959), Le vide e le Anthropométrie-spectacles di Yves Klein (1960) in ambito Nouveau Réalisme, le Sculture viventi di Piero Manzoni (1960-61), gli Anti-Procès di Lebel (1960), Yard di Kaprow (1961), gli Eventi di Cage, i magazzini di Oldenburg e di Ben, le azioni di Beuys e della Body Art, gli ambienti di arte povera e minimal di G. Uecker, G. Colombo, F. Spindel, L. Samaras e di tanti altri artisti. Le ipotesi del lavoro collettivo, dell'opera non commerciale, della dinamizzazione dello spazio nel tempo, dell'attivazione della percezione e del corpo, dell'interazione col pubblico si integrano a dispostivi, procedimenti e materiali inconsueti all'arte, macchine, luci elettriche, prismi, specchi, terra e aria (Celant 1976). Nelle performances e negli ambienti l'azione degli spettatori si limita di nuovo all'osservazione, ma cresce tuttavia il livello psicofisico del loro coinvolgimento, captato

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dallo spettacolo proposto dall'artista, la cui presenza si fa sempre più determinante ed esclusiva, fino all'assunzione del proprio corpo come materiale dell'opera. Non è più l'oggetto artistico ad essere centrale ma l'effimero e transitorio svolgersi di un evento esistenziale, le cui tracce visibili saranno memorizzate attraverso documentazioni fotografiche, filmiche e infine video, che via via tendono a configurarsi come opere d'arte autonome e a suggerire azioni appositamente pensate per la registrazione della telecamera. Segnando così anche rispetto al cinema una diversione sostanziale, una implicita messa in discussione del suo carattere narrativo. In generale, comune a tutti questi orientamenti è anche la volontà di superamento dell'informale, di eliminare le tracce dell'esecuzione manuale e la personalizzazione della creazione artistica; inoltre l'intenzione di opporsi all'individualismo e alla commercializzazione della figura dell'artista, così come alla mercificazione e chiusura dell'opera nel sistema dell'arte. Da qui si sviluppa l'ideologia del lavoro di gruppo, l'anonimato, la firma collettiva, la produzione di multipli nell'arte cinetica, mentre nell'happening, e nella performance, assume importanza la presenza dell'artista, la vocazione all'effimero e al transitorio, l'eliminazione del prodotto a favore dell'azione limitata a pochi minuti o a qualche giorno. Generalizzato è anche, pur nelle differenze di queste pratiche artistiche, l'intento ideologico di spingere il coinvolgimento polisensoriale ad una attivazione della coscienza e quindi, nelle intenzioni degli artisti, a provocare nei fruitori una sensibilizzazione critica verso la realtà contemporanea. Un atteggiamento che diventa un elemento sostanziale in alcune esperienze che tendono a fondere arte e vita, sullo sfondo della ribellione contro società capitalistica e della rivendicazione della totale libertà degli artisti. Tra queste l'Internationale Situationniste (1957) e in particolare Fluxus, al cui interno si verificano le prime esperienze di videoarte FLUXUS Fluxus incarna l'esigenza di sperimentare mezzi capaci di creare una cultura interamente nuova (Ubi Fluxus 1990). Non a caso si sviluppa negli anni '60, in un clima denso di tensioni internazionali e di aspirazioni ad un diverso modo di vivere e di fare politica, mentre si lanciano i primi satelliti e si mette piede sulla luna. Gli inizi di Fluxus sono in America, dove la ricerca artistica era stata vivacizzata anche dall'arrivo negli anni '40 di numerosi artisti in fuga dal nazismo (per es. Mondrian, Schoenberg, Moholy-Nagy che apre una scuola a Chicago, Albers che fonda il Black Mountain College). Poi dall'ambiente newyorchese approda in Europa, con epicentro in una Germania ansiosa di ricominciare, di proporre di sé una nuova immagine culturale. Personaggio chiave della storia di Fluxus è George Maciunas; non in quanto artista (svolge un'attività come grafico, tra l'altro per la rivista Film Culture del critico cinematografico Jonas Mekas) ma come organizzatore, promotore di incontri e manifestazioni, editore. Nella primavera 1961 George Maciunas apre a New York la A. G. Gallery e organizza con vari artisti una serie di performances in cui appare per la prima volta il termine Fluxus. Nell'autunno '61 Maciunas è in Europa dove prenderà contatto con Vostell, Paik e Ben Patterson a Colonia, con Emmet Williams a Darmstadt, Joseph Beuys a Düsseldorf, Addi Köpcke a Copenhagen, Robert Filliou a Parigi e Ben Vautier a Nizza. Organizza in giro Fluxus/Performances o Festivals Fluxus; tra i più celebri, nel 1962 il Neodada in New York alla galleria Parnass di Wuppertal con Ben Patterson, il Neo-Dada in der Musik a Düsseldorf, e a Wiesbaden, a settembre, il Fluxus Internazionale Festspiele Neuester Musik, con Paik e Vostell partecipano tra gli altri Chiari, Forti, Brecht, Cage, Kosugi, Maxfield, Higgins, Riley, Knoxles, La Monte Young; nello stesso anno Maciunas inizia la pubblicazione degli Year-boxes di Fluxus (Hors Limites 1994).

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Quando torna in America nel settembre 1963, Fluxus è in pieno svolgimento nei maggiori centri artistici del mondo: a Parigi, con il Festival d'expressions libres di Jean-Jacques Lebel; a Düsseldorf con il Fluxus Festival alla Kunstakademie (Vostell, Paik, Yoko Ono, Riley, Spoerri, Maciunas, Filliou, Maderna, Higgins, Cage, Bussotti, Brecht, Watts); a Vienna con le azioni di Nitsch, Mühl, Brus e Rainer; a New York con l'Happenings, events and advanced music organizzato dal New York City Audio-Visual Group for research and experimentation. Le attività continueranno a Copenhagen, ad Amsterdam, a Nizza, in Inghilterra, in Italia, in Svizzera, fino a che, malgrado le premesse antiistituzionali e libertarie anche Fluxus viene musealizzato, nel 1970, con la mostra al Kölnische Kunstverein, Happening and Fluxus, presentata da Harald Szeemann. Tuttavia Fluxus non si struttura mai come un vero e proprio gruppo o come un movimento organizzato. Come scrive Paik, Fluxus «è un modo di vita, non un concetto artistico» (Duguet 1988); è una continua integrazione e disgregazione delle arti in eventi totali e si esplica non tanto nella creazione di oggetti d'arte ma piuttosto di avvenimenti e situazioni. Le sue opere sono happenings, film sperimentali, opere multimediali, musica concreta ed elettronica, azioni per strada, eventi concettuali e manifestazioni pubbliche, effimere e rituali, dissacranti e derisorie del concetto di arte e di artista. Alle radici di Fluxus si collocano il Futurismo, Duchamp, Dada; fondamentale è il concetto di indeterminato di Cage, la sua ricerca sulla configurazione imprevedibile dell'assemblaggio suono-musica, il trasferimento del concetto di ready made nel suono ready-made (Ubi Fluxus 1990). I suoi compagni di strada sono le ricerche sulla percezione e sul coinvolgimento di chi guarda, la nuova relazione con il pubblico, la critica alla nozione di opera e di artista, l'uso di materiali del mondo contemporaneo. La struttura dell'opera cambia totalmente; si dissolve e si ricompone nello spettacolo-manifestazione multimediale, diventa indeterminata come l'esistenza quotidiana; ha una dimensione virtuale che diventa reale solo se partecipata (come diceva Duchamp «è l'osservatore che fa l'opera»), e tende alla liberazione di un flusso di energie contro i vecchi schemi di comportamento, in un clima ludico, libertario. Gli artisti Fluxus usano tutte le tecniche e i materiali possibili, aprendosi ad ogni possibile esperienza nel segno del rapporto arte-vita. L'artista fluxus, scrive Maciunas (Fluxus Manifesto 1965 e 1966), deve essere «non professionale, non parassita, non elitario, (...) deve dimostrare che ogni cosa può sostituire l'arte e che ognuno la può fare». Tra i materiali di Fluxus si trova anche il video, sia come strumento di riproduzione di immagini in movimento, sia come tecnica di produzione di immagini, sia come materiale visivo e di costruzione di ambienti e situazioni, sia come oggetto simbolico della comunicazione e della informazione nella società contemporanea. Vostell, Paik, Beuys sono tra i primi sperimentatori di questo nuovo linguaggio. WOLF VOSTELL Dopo alcune iniziali esperienze come litografo e come allievo alla Werkkunstschule di Wuppertal (1953), Vostell si reca nel 1954 a Parigi. Le sue biografie registrano l'incontro con un termine - ed un evento - che sarà determinante per il suo modo di concepire l'arte; legge su un quotidiano, Le Figaro del 6 settembre 1954, la notizia di un drammatico avvenimento di cronaca: «...peu après son dècollage... un superconstellation tombe et s'engloutit dans la rivière» (Vostell 1992). Da questo secco resoconto Vostell estrae una parola, décollage, per trasformarla nella nozione portante delle sue azioni, il dé-coll/age. «Il termine dé-coll/age - spiega Vostell in un'intervista con Charles Dreyfus - rinvia a un principio della negazione estetica, o a un'estetica della negazione: a forme di distruzione, volontaria o involontaria, per opera dell'uomo o del destino. Duchamp aveva dichiarato che 'l'oggetto intatto' era nuovo in quanto opera d'arte. L'oggetto distrutto incorpora il dramma della sua utilizzazione. Il processo del dé-coll/age, che deforma l'oggetto, è anche un evento, un avvenimento, una azione che ha la stessa importanza del risultato estetico. La vita trovata al posto dell'oggetto

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trovato, la vita trovata 'dé-coll/agée' è la scoperta che determina la mia opera: distorsione di immagini televisive, manifesti bruciati, cancellamento di riviste, azioni dé-coll/age, dimostrazioni in pubblico della produzione dei miei oggetti» (Hors Limites 1994 ). Con queste frasi Vostell condensa il senso di un lungo itinerario artistico, segnato fin dagli inizi, come egli stesso racconta, dalla volontà di ribellione e di introspezione insieme, dal bisogno di essere diverso dagli altri, di affermare la propria libertà. Per questo è determinante per Vostell l'incontro con Fluxus, con la sua istanza vita/arte/vita nel segno dell'opposizione culturale alla società. Vostell conosce Maciunas nel 1962 e lo coinvolge a pubblicare nella sua rivista Dé-coll/age (1962-67), partecipa poi a varie manifestazioni in Europa e in America; tra le più importanti il Festum Fluxorum, all'American Center di Parigi nel dicembre '61, e, tra maggio ed agosto 1963, con la Smolin Gallery di New York il 6 TV Dé-coll/agen-Action-Environment (il primo environment con televisione svolto in America), e lo Yam Fluxus Festival di New Brunswick, che è la contropartita americana dei Festivals Fluxus europei, con happenings, performances, danza e musiche di Brecht, Cage, Childs, Grooms, Hansen, Higgins, Kaprow, Maciunas, Morris, Rainer, Watts (Vostell 1992). L'artista porterà in Fluxus la determinazione sferzante di una creatività critica, di un'ideologia che punta a smascherare la violenza della società, delle guerre, dei comportamenti, dell'informazione massificata. Il dé-coll/age comprende una commistione di elementi differenti, per lo più scarti, lacerazioni della realtà: materiali effimeri e residui, brandelli di pittura o di giornali o di fotografie, macchinari-simbolo del sociale, strumenti dei mass media. Cemento, colate di colore, piombo, filo spinato macchine fotografiche, telecamere e televisori sono integrati in un continuo confronto tra uomo e macchina, tra naturale e artificiale. Carichi ancora di una violenza di tipo espressionista e legata alla storia, alla politica, questi frammenti del mondo contemporaneo si intessono nella dimensione temporale e esistenziale dell'happening, della performance e dell'environment; si pongono come elementi di azioni che si sparpagliano in luoghi urbani sulle indicazioni non sense delle «partiture» di Vostell, come per esempio nel primo Cityrama a Colonia (settembre '61), in cui viene distribuito ai partecipanti un programma con le disposizioni per andare a visitare le rovine della guerra in 26 luoghi della città; oppure si concentrano in luoghi deputati, dentro e fuori le gallerie, come nello Yam Festival e nell'happeningYou a Long Island (1964), in cui il pubblico è coinvolto in una serie di avvenimenti nel segno dell'assurdo, della distruttività, del caos, del disgusto. L'oggetto e l'azione si frantumano e si ricompongono intenzionalmente in un sistema di relazioni tra cose, rimanenze, idee, persone, nel «confronto con i temi che dominano la nostra realtà - auto, televisione, sovversione politica, caos e distruzione» (Wedewer 1992). La televisione partecipa - e non poteva essere diversamente - a questa serrata denuncia; ed è sempre la televisione come oggetto aberrante, pericoloso, ottuso e falso, instancabilmente svelato e continuamente, simbolicamente distrutto, per spingere il pubblico a rovesciare la propria accettazione passiva. Vostell comincia a inserire il televisore nei suoi dé-coll/age fin dal 1958. Nell'allestimento del ciclo delle Schwarzes Zimmer (Berlino, 1958-59) i televisori trasmettono i loro normali programmi ma incastonati tra oggetti e fotografie dei campi di sterminio di Treblinka e di Auschwitz, con l'evocazione drammatica del fantasma irrisolto del passato nazista accostata all'altrettanto drammatica indifferenza delle emissioni commerciali della televisione. Nel TV De-coll/age (1958) Vostell propone una grande tela incolore, lacerata in vari punti da cui si intravedono altrettanti occhieggiamenti di schermi, con le loro emissioni assurdamente decontestualizzate, ridotte a residui e metafore inquietanti. In 6 TV decoll/age sei televisori sono manipolati in quanto oggetti e in quanto alla trasmissione, secondo diverse modalità: sono manomessi, rotti, alterati nella ricezione, gli schermi imbrattati di colore, o segati in due, o smontati (Celant 1977). Nel 1963, durante lo Yam Fluxus Festival l'artista fa sotterrare un televisore acceso e avvolto di filo spinato e tra le istruzioni dell'happening ordina di gettare una grande torta con panna montata sulla televisione mentre sta andando in onda un programma (Vostell 1963). Nello stesso anno

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durante la presentazione della prima versione di Sun in Your head, 9 Nein De-coll/agen distrugge con un colpo di fucile un televisore acceso, una simbolica uccisione di un mezzo di comunicazione per la quale si è parlato di affinità con il gesto di Lucio Fontana, il taglio nella tela di un quadro monocromo (Friedel 1986). Nel 1964 è la volta dell'happening You: «ha avuto luogo - scrive Vostell - in una piscina bianca, vuota, riempita con cento sacchetti di plastica pieni di colori gialli blu e rossi, con ossa e costole di bue, e su un campo da tennis colorato di giallo (...) La mia idea di base: confrontare i partecipanti, il pubblico, con una satira della ragionevolezza della vita nella forma di una prova del caos e rendere consapevole l'assurdità in ciò che è assurdo e ripugnante» (Wedewer 1992). Tra le azioni che svolgono questa «prova del caos» tre apparecchi televisivi sono adagiati su letti d'ospedale e trasmettono (ma deformate) tre partite di baseball, un altro brucia, ulteriore simbolo del sovvertimento assurdo e violento dell'ordine apparente della quotidiana realtà. Nel frattempo, come si vedrà, in Germania e in USA si intrecciano e quasi si accavallano altre sperimentazioni che segnano gli sviluppi della videoarte; ma Vostell continuerà a proporre la propria visione di un'anti-immagine televisiva fondata sulla manipolazione alterazione del suo linguaggio esterno, del suo messaggio come emittente e come oggetto. Continua ad accanirsi sulla televisione, a denunciarla, a metaforizzarla, ad accostarla a memorie impressionanti di guerra, a materiali carichi di simbologie negative. In Endogen Depression (1975, poi in varie repliche), alcuni televisori sono semiseppelliti nel cemento e tra loro circola un branco di tacchini, mentre ogni schermo continua a emettere trasmissioni diverse; la televisione è cementificata, la sua energia bloccata in un confronto tra l'artificiale e il naturale i più ottusi e straniati. In Requiem (1990) viene riproposto ancora lo schema e il messaggio delle Schwarzes Zimmer in un grande pannello in 20 parti su cui altrettanti televisori sono inseriti sullo sfondo di fotografie della seconda guerra mondiale imbrattate da schizzi di cemento. Anche nei videotapes Vostell segue la prassi di intervento basata sull'alterazione-denuncia della programmazione televisiva. Esemplare in proposito è Sun in your head del 1963 (Le soleil dans la tête è il nome della Galleria di Parigi dove l'artista nel 1961 aveva organizzato la sua prima mostra in Francia), in cui vengono riprese in un film a 16 mm (poi travasato su nastro), immagini estrapolate da programmi televisivi di larga diffusione e modificate da diverse manomissioni, esterne e della trasmissione (Herzogenrath 1982). Si tratta di un'esperienza che sarà fondamentale per i successivi sviluppi del videotape utilizzato dagli artisti, e che Vostell riprende in altre occasioni, per esempio in Tv Butterfly del 1980, e in Siberia extremena del 1982. Solo Tv Cubisme (1985) fa eccezione; è l'unico video in cui Vostell non parte dalle correnti trasmissioni televisive ma registra una azione pensata espressamente per il video, riproponendo in una ulteriore e spiazzante interpretazione uno dei temi di fondo della sua poetica, il confronto tra naturale e artificiale, tra materia animata e materia inanimata; figure e visi di modelle pesantemente truccate si strofinano a blocchi di cemento, li toccano e li accarezzano e, attraverso una tecnica di molteplici sovrimpressioni, quasi si fondono - carnali e sensuali - alla ruvida compattezza del materiale industriale, sul sottofondo sonoro di ansiti e sospiri e gemiti (Invideo 1990). NAM JUNE PAIK Diversamente da Vostell Paik non intende la televisione come strumento «nemico«, da denunciare e distruggere, ma è attratto dal suo interno e intrinseco linguaggio. Anziché l'attacco ideologico e diretto egli usa un altro tipo di decostruzione; utilizza e nello stesso tempo violenta la televisione, deformandola in un gioco di spiazzante e ironica messa in discussione della sua capacità di riproduzione della realtà. Ne studia le alterazioni, i disturbi,

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e impara a provocarli, a interpretarli creativamente e a ribaltarli in nuove formalizzazioni; dal televisore sollecita e trae altre immagini e anti-immagini, in una spudorata e fantasmagorica moltiplicazione. Usa un procedimento analitico che include la manualità e la progettazione, integrandole con le metamorfosi aleatorie di forme, luci, colori; si aprono in tal modo i vari percorsi di un linguaggio denso, esplosivo, ridondante, l'equivalente visivo di un flusso di energia, capace anche all'occorrenza di assottigliarsi in trascorrenti metafore. E' l'invenzione dell'effetto speciale elettronico allo stato sorgivo, in una dimensione estetica. L'inizio di un mito, con tutti i limiti del mito . Nam June Paik è un musicista; coreano, studia estetica, arte e musica a Tokio, dove si laurea con una tesi su Arnold Schoenberg. Tra il '56 e il '58 continua gli studi a Monaco, a Darmstadt con Stockhausen e Nono, e a Friburgo. La musica contemporanea è un tracciato fondamentale che lo impegna costantemente e attraversa le sue opere, in una sinestesia continuamente arricchita e rinnovata. Nel 1958 Paik assiste a Music Walk di Cage a Düsseldorf e si entusiasma per l'indeterminato, visita l'esposizione Dada-Dokumente einer Bewegung ; il 13 novembre 1959 alla Galerie 22 presenta la sua musica-azione Hommage à John Cage, di 6 minuti, con musica elettronica, tre magnetofoni, un vetro rotto e piano rovesciato. In questa occasione entra in contatto con Beuys, e nel '60 incontra Maciunas, Cage (che è conquistato dalla famosa performance in cui Paik taglia con un paio di forbici la sua cravatta), e Vostell; inizia una intensa attività di concerti e performances in stretto contatto con Fluxus. Tra i più importanti Etude for Piano Forte il 6 ottobre 1960 nello studio di Mary Bauermeister a Colonia; e nel maggio '62 One for Violin, al Kammerspiele Theater di Düsseldorf durante la manifestazione Neo Dada in der Musik, con George Brecht, Vostell e altri. «Tenni il violino verticalmente come una spada finché il pubblico fu silenzioso -racconta Paik - e poi lo spaccai su una tavola di fronte a me. Mentre alzavo il violino silenziosamente e lentamente, si creò una tensione nel pubblico (...) era parte del dramma nel dramma» (Paik 1993). Nel '63 partecipa insieme a Brecht, Cage, Filliou, Gysin, La Monte Young, Yoko Ono, Vostell, al Festum, Fluxorum, Fluxus organizzato da Beuys alla Staatliche Kunstakademie di Düsseldorf. La sua esperienza rimasta più famosa e scivolata nel mito è una mostra del marzo '63 (Wuppertal, Galleria Parnass), dal titolo Exposition of music-electronic television, che è oggi considerata la prima esposizione di arte video, per l'interazione creativa tra musica elettronica e immagine elettronica. Ma al momento le componenti innovative non furono poste in rilievo dalla critica e dallo stesso gallerista Jean-Pierre Wilhelm; la mostra infatti si configurava come un evento Fluxus, articolato in un assemblage di oggetti, provocazioni, che stimolano la percezione e il coinvolgimento. Vi si mescolavano pianoforti preparati e rovesciati, oggetti sonori disparati, dalle pentole alle chiavi, un manichino femminile disarticolato in una vasca da bagno, una testa di toro che colava sangue. E comprendeva anche, apparentemente meno spettacolari, ma, come nota Fargier, decisivi per le origini della video arte, 13 televisori che riproducevano altrettante differenti immagini distorte e deformate, astratte, statiche ma magicamente vibranti in un pulviscolo di luci; erano ottenute senza il referente della ripresa e dell'emissione di una realtà esterna, semplicemente avvicinando una calamita al tubo catodico e modificando il circuito orizzontale e verticale di modulazione. «Collegati a 13 magnetofoni (o generatori di frequenza) che giocano il ruolo di fonti di informazione costitutive del segnale, i televisori non diffondono nulla di stupefacente; zebrature, interferenze. Tuttavia - scrive Fargier - è la creazione più importante di Paik, la più decisiva, la più radicalmente nuova. Tutto il resto è più o meno già stato visto altrove. Il resto è un residuo. La fine di qualcosa. E' l'inizio di una nuova arte. Vostell ne è stupefatto» (Fargier 1989). Paik dunque programma il disturbo e la distorsione; a differenza dal dé-coll/age agisce direttamente sul dispositivo, sulla macchina, e scavalca completamente il riferimento (e la diretta denuncia così pregnante in Vostell) alla normale programmazione, per creare immagini astratte; assume come dato di partenza il mezzo e le sue peculiarità tecnologiche ma ne altera il funzionamento e l'immagine, ridefinendoli con la costruzione astratta di

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modulazioni luminose collegate alla musica elettronica. Con questa operazione che interviene sul mezzo e non sul prodotto l'artista sottrae l'immagine elettronica al vincolo della riproduzione meccanica del reale, e introduce un nuovo tipo di confronto critico con l'apparato televisivo. Non più - come nota Fargier - la negazione fortemente ideologizzata di Vostell ma una «positivizzazione» dell'apparecchio, una diversa assunzione di responsabilità e di critica della massificazione e dei rituali della televisione. Ne deriva un uso creativo del mezzo, una lavorazione artigianale sull'immagine elettronica, che si aprirà alle più varie potenzialità, intrecciando (secondo una via che Paik persegue incessantemente e indica a tutto l'universo videoartistico), la specificità formale dell'immagine elettronica con la molteplicità dei linguaggi artistici contemporanei. La purezza astratta delle immagini dei 13 monitor delle Tv elettronica verrà riproposta da Paik in varie altre elaborazioni di forme autogenerate dal televisore modificato. Esemplare in proposito è la concettualità meditativa di Zen for Tv (1963): un televisore posto verticalmente, che emette una sola striscia sottile al centro del monitor, un taglio di luce, immobile e arcaica, fluidificata in una sorta di ipnotica energia. Lo zen come armonia totale con il cosmo, la conoscenza di sé per via di una assoluta concentrazione, si traducono nell'essenzialità della riga di luce. Emblema del riferimento alle radici orientali di Paik, che l'artista pone in relazione senza difficoltà con la più sofisticata tecnologia occidentale, spostandone i tradizionali significati di strumento di produzione verso un recupero alto del fare manuale, verso una sorta di meditativo artigianato dell'elettronica, in cui bisogna concentrarsi sulle operazioni giuste e precise e non altre. «Per lavorare con le nuove tecnologie nell'arte - afferma Paik in una conversazione del 1992 - occorre una grande pazienza. Bisogna studiare molto... Il mio background mi ha aiutato a essere paziente. ... E' una specie di 'pazienza' che deriva dallo Zen, il training, e che aiuta a studiare la tecnologia» (Novecento 1992). E in effetti Paik porta con sé un retaggio di cultura zen che si riaffaccia nelle opere e che sempre interagisce con la tecnologia secondo parametri affascinanti quanto paradossali e metaforici; ad esempio è esplicita nei vari Buddha Tv, in cui la statua ieratica di fronte al video che ritrasmette la propria immagine, o è vuoto, o contiene una candela, rimanda al narcisismo interattivo dello sguardo e dello specchio, all'intercambiabilità (o inesistenza) di presente e passato nella diretta. Questa componente di riflessiva concentrazione è sottesa nei videotapes e nelle installazioni multimediali, nelle pareti di monitor su cui si inseguono forme e colori, in cui la meditazione sul tempo e sulla comunicazione sono inglobate nelle implicazioni spettacolari, nella monumentalità e nella ridondanza di immagini turbinose e di spazi caleidoscopici. Studiare la tecnologia, inventare strumenti nuovi e non solo applicare quelli già esistenti, è per Paik un'attività strettamente connessa a questo modo di concepire e fare arte. Non a caso nell'introdurre la mostra di Wuppertal Paik cita accanto a Vostell, che ha inventato le possibilità di combinazione tra televisori e ogni sorta di elementi eterogenei, due scienziati esperti in ricerche elettroniche, K. O. Götz e K. Wiggen. (Fargier 1989). Paik individua così per la sua arte una duplice componente - l'arte e la scienza - intese come un binomio inscindibile costantemente verificato e applicato attraverso un procedimento tecnologico duttile e immaginoso, capace di far interagire campi di sperimentazione diversi; la musica, la scultura, la pittura, i retaggi del cinema astratto, del Dada e della pubblicità, della storia e del quotidiano, dello spazio del tempo si accostano nell'immaterialità dell'immagine elettronica come nella costruzione di spazi, monumenti, oggetti, figure, in cui gli elementi portanti sono gli involucri massicci dei televisori (spesso arcaici, quasi frammenti e reperti di un recente passato) metamorfizzati dal brillare luminoso e dinamico degli schermi televisivi. E' un intreccio inesauribile di tecniche, di suggestioni, di campi di sperimentazione, di memorie, di citazioni e autocitazioni, sul filo conduttore dei concetti di metamorfosi e di metafora. «La mia televisione sperimentale non è sempre interessante né sempre ininteressante come la natura, che è bella non perché cambia in un modo bello ma semplicemente perché cambia» scrive Paik nel giugno '64 (Metamorfosi 1988, Fargier 1989).

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Coerentemente con questi assunti Paik, in collaborazione con Shuya Abe (esperto di elettronica) mette a punto uno dei primi video-sintetizzatori a colori mai realizzato, l'Abe-Paik synthetizer (che Paik non si curerà di brevettare). Questo strumento consente di modificare o di generare istantaneamente dalle componenti elettroniche qualsiasi forma, colore e suono e di mischiarli insieme, costruendo un universo di immagini sature e granulose, immateriali ma dense di una materialità pulviscolare, luminosa, cinetica (Paik 1974). Il sintetizzatore sarà messo a punto nel '70, e costituirà l'elemento di punta della personale di Paik Electronic Art III (Bonino Gallery, 1971). Ma già nel '63-64 a Tokio (poco prima di andare in America nel giugno 1964) l'artista studia insieme a Shuya Abe e a Nideo Uchida le variazioni cromatiche delle immagini televisive cercando, egli dice, di «trasformare un televisore da passivo passatempo in attiva creazione» (Celant 1977). Con Shuya Abe Paik costruisce in Giappone un robot controllato elettronicamente, K 456. Questo robot è una figura - un personaggio - quasi emblematico dell'atteggiamento di Paik nei confronti della tecnologia - come concetto ricco di implicazioni simboliche quanto come dispositivo articolabile secondo direzioni e potenzialità le più disparate. Non solo perché K 456 fa riferimento all'antica inquietudine del moderno che ha inventato il tema dell'uomo-macchina, rivisitato nei termini della tecnologia elettronica, ma anche perché in esso Paik rinnovando l'elemento ludico, grottesco e dissacrante di estrazione dadaista, contesta l'antico modello attraverso un lavoro di sottrazione e di aggiunte, con grottesca o clownesca leggerezza, fino a rivestirlo di connotazioni sessuali; all'apparenza infatti è un ammasso di ferraglie privo di seduzione, ma è la struttura di una macchina sofisticata, che è stata incaricata di dialogare con le performances di Paik, con i suoi video, e paradossalmente caricata di interpretazioni sessuali. K 456 ha una storia, una «vita»; per 19 anni segue Paik e collabora come attore alle sue manifestazioni, a cominciare da Robot Opera (1964); muore nel 1982 travolto da un'automobile di fronte al Whitney Museum a New York, in un incidente-performance spettacolare («il primo incidente del XXI secolo» lo definisce Paik), registrata e poi inserita nel video Living with the Living Theater del 1989. L'artista non si è mai espresso chiaramente, pare, sul sesso di K 456; ma Fargier, nella sua monografia sull'artista, lo considera un robot femmina. K 456 ha un abbozzo di seno, accompagna Paik come una donna docile e fedele (in un video lo vediamo esibirsi per strada, camminare, parlare, forse adescare i passanti); ma soprattutto il robot produce una sorta di ovulazione, espelle dei fagioli, che Fargier interpreta come un tentativo di procreare, una ovulazione abortita; e Paik avrebbe ucciso il suo robot femmina per la sua sterilità, identificandolo oscuramente con la propria madre. Ma forse, perché no, si potrebbe continuare il gioco delle interpretazioni e pensare a K 456 come ad un transessuale, o quantomeno ad un emblema dell'ambiguità dei sessi; alla commistione ironica e paradossale di artificiale e di simulazione umana del robot può corrispondere l'oscillazione altrettanto ironica dell'identità maschile-femminile, nell'intreccio tra gioco, farsa e tragedia finale di un'esistenza elettronica; metafora anche dell'impurità e degli intrecci artistico-linguistici propri della videoarte. Telecomandato come gli uomini e le donne di oggi, in un mondo di informazione dilagante e modificata, autoritaria e controllata, il robot di Paik sembra ammiccare ad una identità perduta. Lo stesso Paik, va ricordato, ha anche definito l'analogia di televisione e sesso in quanto mass media, e ha enunciato il tentativo (o l'antica utopia) di «umanizzare la tecnica», interpretando questo concetto attraverso il tema del doppio corpo-macchina in alcune famose performances di Charlotte Moorman, la violoncellista americana che organizza dal 1963 al 1982 il New York Avantgarde Festival e con la quale Paik intesse una intensa collaborazione; come in Tv Bra for living sculpture, presentata nel 1969 alla mostra Tv as creative medium alla Howard Wise Gallery di New York, in cui la Moorman indossa come reggiseno due mini tv che trasmettono in tempo reale la sua stessa immagine alterata dai segnali elettronici attivati dal suono del violoncello. Fusioni e combinazioni di elettronica e performances, di suono e

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immagine, di corpo e monitor, di sesso e tecnologia informatica, di provocazione e sperimentazione si susseguono in Tv-fuck, Tv bed, Tv penis e poi nelle famiglie di robot, videosculture di giganteschi giocattoli costruiti con vecchi televisori, in cui si accentua l'ironia e la citazione. Umanizzare la tecnologia significa dunque svelare la tecnologizzazione dell'umano. Paik già indaga - nel clima underground della New York anni '60 - certi temi del cyberpunk americano degli anni '80, anticipando gli spunti dell'utilizzazione di dispositivi elettronici che consentono l'interazione fisica della realtà virtuale, nuovo e futuribile input nell'immaginario contemporaneo. Un'altra tappa considerata fondamentale è l'utilizzazione della telecamera portatile, il che avviene solo quando questo strumento (oggi così comune) viene immesso sul mercato ad un prezzo accessibile (la portapack della Sony), e Paik riesce a comprarlo con una sovvenzione dell'Institut of International Education. A New York nel 1965 Paik sperimenta la ripresa in esterni e realizza la prima teletrasmissione gestita da un artista; riprende un momento del caotico traffico newyorkese il giorno della visita di Paolo VI e lo ripropone la sera stessa in un ritrovo del Greenwich Village, il Café A Gogò - praticamente in diretta - in un video intitolato Cafe Gogo, 152 Blecker Street, October 4 and 11, 1965, World Theater, 9. P.M.. (Novecento 1992). «Diventano realtà cinque anni di vecchi sogni: la combinazione della Tv elettronica e della registrazione video - afferma Paik - Nella mia elettro-visione su nastro magnetico vedete non solo la vostra immagine istantaneamente (...) ma vi vedete deformati in 12 modi diversi, cosa che non si può fare che grazie all'elettronica» (Paik 1974). Tra gli artisti solo Cage e Cunningham assistono alla presentazione; tuttavia la manifestazione ha un valore fondativo rispetto ad un nuovo tipo di uso creativo del mezzo, e assume nella storia del video un'aura iniziatica. Per la prima volta un artista si confronta con la diretta del video, riprende un momento qualsiasi di quel quotidiano così intensamente evocato in happenings e performances, e ne decreta lo status di opera. Cafe Gogo, 152 Blecker Street non è la registrazione di evento artistico ma di un evento banale (traffico stradale) in margine a evento storico (visita del papa), riproposto quasi immediatamente (in diretta) la sera stessa come un evento artistico; è un ready-made-video, è - duchampianamente - un evento-trovato, modificato elettronicamente e artisticizzato dalla evidenziazione di Paik in un luogo deputato dell'avanguardia newyorchese. Contemporaneamente Paik continua a sondare il linguaggio televisivo; a novembre presenta alla galleria Bonino di New York Electronic Art (ancora non è emerso il termine videoarte), con televisori modificati che trasmettono immagini astratte, deformazioni sonore e luminose, animate da un ritmo e da un cinetismo che le trasforma in stimoli percettivi particolarissimi. Non a caso Celant fa riferimento, a proposito di queste ricerche paikiane degli anni '60, agli artisti optical, citando l'environment teatrale multimediale Black Gate Cologne (1968) di Otto Piene (del Gruppo Zero) e Aldo Tambellini, in cui l'interazione di telecamere, monitor e luci stroboscopico-fluorescenti è controllata dagli autori e dal pubblico (Celant 1977) «Come la tecnica del collage ha rimpiazzato la pittura a olio, allo stesso modo il tubo a raggi catodici rimpiazzerà la tela. -dichiara Paik in occasione della serata al Café A Gogo - Un giorno gli artisti lavoreranno con i condensatori, le resistenze, i semiconduttori come oggi lavorano con i pennelli, i violini e materiali vari» (Paik 1974). Il che non significa, come nota Gazzano, una sostituzione, e neppure la semplice ripresa di quanto era stato fatto dal cinema astratto delle avanguardie storiche, nelle pellicole di Richter, El Lissitskij, Eggelin, Survage, i Futuristi; «la novità del suo lavoro - che è radicale, e che ci dà nuove emozioni da trent'anni - non è affatto nel 'dipingere' col tubo catodico, non è nel sostituire la tela col monitor. E' appunto nel 'trattare' l'immagine, nel distorcerla, nel modificarla, nell'intrecciarla - cambiandole di segno - con altre immagini di diversa provenienza e significato» (Gazzano 1993). Questa intersecazione di pratiche e linguaggi artistici, questa ricerca di partecipazione dello spettatore, costruiscono l'utopia della reinvenzione di un'arte totale; la televisione assume un ruolo centrale in quanto oggetto e in quanto medium, in quanto rappresentazione e strumento

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della rappresentazione lasciato in vista, in un gioco di duplicazioni e invenzioni che contrassegna l'intera e vasta produzione di Paik; nei videotapes, come Beatles Electronique (1966-69), Global Groove (1973 con Jud Yalkut), A tribute to John Cage (1976), Guadalcanal requiem (1977, con Bill Viola), Allen's Allan's complaint (1982, con Shigeko Kubota); nelle trasmissioni via satellite, come Nine minute live (con Charlotte Moorman Beuys e Douglas Davis alla Documenta 6 di Kassel, 1977), Good Morning Mr Orwelll descrivere 1984, e Wrap around the world per i giochi olimpici di Seoul nel 1988; nelle videoinstallazioni e videosculture, dalla essenziale e lirica Moon is the oldest TV del 1965, alle fantasmagorie del flusso comunicativo di Tadaikson (the more the better) con 1003 monitors a Seoul nel 1988, de La Fée electronique al Musée d'Art Moderne de la Ville de Paris nel 1989, di Electronic Super Highways, nel padiglione tedesco alla Biennale di Venezia del '93. JOSEPH BEUYS Beuys è un artista estremamente complesso. Lo ho citato come partecipe di Fluxus in Germania, ma i suoi connotati, la sua poetica, travalicano i confini - già di per sé sconfinanti - di Fluxus. Nel turbinio di provocazioni e sperimentazioni di Fluxus Beuys trova spazio per l'espansione di un proprio discorso artistico, etico, ideologico, le cui premesse sono già formate. Partito da un interesse per le scienze che non verrà mai meno, Beuys, dopo la guerra, studia scultura alla Kunstakademie di Düsseldorf, dove insegna dal '61; partecipa a Fluxus organizzando tra l'altro il Festum, Fluxorum, Fluxus (1963) in cui presenta la sua prima azione importante, Sibirische Symphonie, I Satz, una lunga performance densa di simboli sulla vita e sulla morte, in cui appaiono alcuni elementi che diventeranno ricorrenti, la lavagna nera, la lepre e il pianoforte. Nel novembre 1963 a Kranenburg Beuys presenta la sua personale manifestazione Josef Beuys Fluxus con circa 150 opere. Intensa è poi la partecipazione a numerose manifestazioni artistiche a livello internazionale (tra le quali Documenta a Kassel e la Biennale di Venezia) mentre prosegue l'attività didattica e l'impegno ideologico e politico; fonda nel '67 con Johannes Stüttgen il Partito studentesco tedesco e nel '74, con Heinrich Böll, l'Università libera; nel '72 è cacciato dall'accademia, nel '79 è candidato dei Verdi al Parlamento Europeo (Beuys 1994). La sua fisionomia ha un momento iniziatico, che l'artista racconta nella propria autobiografia. Arruolato giovanissimo nella Luftwaffe, il suo aereo è abbattuto nel 1943 in Crimea; gravemente ferito è curato da una tribù di tartari, presso i quali si risveglia unto di grasso e avvolto in coperte di feltro. E' un'esperienza di morte e resurrezione, in contatto con la natura, con una popolazione semiprimitiva, lontana dall'occidente civilizzato, e segna i destini dell'artista. Beuys riproporrà pressoché costantemente il senso di questa vicenda nelle sue opere; le quali sono sempre o quasi sempre azioni in cui è determinante la presenza carismatica dell'artista, tesa ad attivare una comunicazione auratica con le persone assumendo come dato di partenza le tensioni e le energie indotte dalla percezione di sostanze, tracce, frammenti di una sorta di viaggio tra la vita e la morte, tra la natura e la civilizzazione, tra l'informe e la forma. Il grasso e il feltro diventano i materiali privilegiati di Beuys; accanto ad essi sostanziano le sue azioni altri elementi e oggetti di natura organica o inorganica - il rame (conduttore), la lavagna, il pianoforte, la lepre, il coyote, il miele - tutti capaci di produrre, conservare o diffondere il calore e l'energia necessari per raggiungere una coscienza più estesa. Il grasso (utilizzato sistematicamente dal 1963) è una sostanza comune ai vegetali e agli animali. Denso e duttile, si modifica per contatto o per il calore, anche a distanza, è una materia in continua evoluzione verso la fermentazione e la putrefazione o verso la rielaborazione in calore, cibo, merce. Il feltro è un manufatto elementare intessuto di peli animali: isola,

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protegge, riscalda, separa, filtra lo sguardo e i rumori, si modifica. Come il grasso è un materiale attivo, capace di reagire anche alla semplice presenza umana. L'uso da parte di Beuys di queste sostanze si configura come un'ulteriore e personalissima declinazione del rapporto arte tecnica; l'artista assume la materia non più per trasformarla in oggetti e immagini attraverso i tradizionali procedimenti formativi, ma per una sorta di ritorno alle origini, per evocare un invisibile potenziale di energia, di associazioni, di comunicazioni, mirando a costruire quella che egli definisce «scultura sociale»: una sostanza invisibile, un organismo immateriale, il sentimento di una presenza che si crea tra gli oggetti e tra gli oggetti e le persone, fatta di pensiero, di coscienza, di espansione del senso dell'essere umano nel mondo. Per Beuys il pensiero è in sé una forza suscettibile di produrre forma, anche a distanza, agendo come il calore che modifica il grasso e il feltro; è un'energia formatrice, che può modificare la realtà, partendo da una percezione-riflessione che oltrepassa la semplice informazione ottica per attingere ad una dimensione più fisica e insieme più immaginativa, verso un processo di riconciliazione tra uomo e natura. «Queste forme invisibili non restano invisibili che in quanto non ho occhi, non ho organi per poter percepire ciò che è adatto a diventare immagine. Per chi sa dunque crearsi un organo di percezione, queste forme sono percepibili» (Beuys 1988). Intervengono in questa concezione (come ha sottolineato più volte la critica), le reminiscenze della filosofia romantica tedesca della natura, l'iconografia di leggende nordiche, l'antroposofia di Rudolf Steiner che postulava «che ogni uomo è un tempio e un riassunto del mondo, che la rivelazione è all'interno di ciascuno«; Beuys crede nella possibilità per l'uomo di modificare la realtà col pensiero, giungendo ad affermare che «ogni uomo è un artista» (Jeder Mensch ist ein Kunstler, è il titolo di una sua celebre azione, filmata nel '79 e diffusa in video nel 1985), riferendosi alle qualità espressive di cui ciascuno può valersi nell'esercizio di una qualsiasi attività (Beuys 1994). «Se l'uomo è realmente creatore, cioè se la forma viene dall'interno, possiamo dire che essa è una plastica o un'opera d'arte. In quale misura è determinata dall'esterno ? Quale relazione vi è tra i dati esterni del mondo e ciò che l'uomo fa partendo da se stesso ?» si chiede Beuys (Beuys 1988). La risposta è nella sensibilizzazione della comunicazione e della coscienza, che si pone in atto attraverso tutti i sensi, associando tutti i modi della percezione, non solo il vedere ma anche il tatto, il caldo e freddo, l'udito, il senso del tempo, l'intuizione. Una sensibilizzazione veicolata dall'accostamento e dall'evocazione dei contrari, la natura e la tecnologia, il materiale informe e la forma geometrica, l'animale e l'uomo. Per questo le sue opere, i suoi materiali, le sue azioni sono strumenti per stimolare la discussione, e sempre fondamentale è la presenza fisica, attiva e dialettica, dell'artista, i suoi gesti, il suo essere, la sua immagine, le parole, i segni. Data questa esigenza primaria di comunicare e di attivare una percezione più intensa, ci si può chiedere come Beuys si sia posto in rapporto ai mass media, in particolare alla televisione quale strumento di comunicazione fondamentale, totalitaria e pervasiva della società contemporanea. Tanto più in quanto moltissime azioni di Beuys sono state filmate, riversate in video o registrate in diretta con la telecamera a partire dal 1964 (Hergott 1994). Tra i primi esempi, la performance Fluxus Kukei, akopee-Nein! o, sempre nel 1964, Das Schweigen von Marcel Duchamp wird überwertet (Il silenzio di Marcel Duchamp è stato sopravvalutato) che ha luogo in diretta davanti alla camera televisiva. Tra i più noti Soziale Plastik, filmato nel 1967 da Lutz Mommartz, in cui Beuys fissa intensamente l'obiettivo per undici minuti, immobile, silenzioso, il viso a tutto campo, catturando magneticamente lo sguardo dello spettatore; Eurasienstab (1968) che registra una performance in cui interagiscono i più tipici ingredienti di Beuys (se stesso, la margarina, il «bastone eurasiano», il feltro); I like Amerika and Amerika Likes Me (1974) una lunga azione che dalla Germania si trasferisce a New York (René Block Gallery) dove per tre giorni l'artista si chiude in una grande gabbia vuota insieme ad un coyote. Con l'animale mitico degli antichi abitanti dell'America del Nord, emblema di un mondo libero e selvaggio ormai scomparso, l'artista

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convive, dialoga, gioca, avvolto nella sua coperta di feltro, col suo lungo bastone da pastore eurasiatico, tra mucchi di giornali, intessendo una metaforica riconciliazione tra natura e cultura (Tisdall 1976, Hergott 1994). Tutta la filmografia e videografia di Beuys costituisce, un dato inseparabile dalle altre opere, appartenendo «alla volontà di comunicazione e di chiarimento che governa il suo pensiero» (Hergott 1994). Film e video contribuiscono, anche per la loro immaterialità e fluidità, alla realizzazione della sensazione di una forma invisibile, quella «plastica sociale» che assume il pensiero come scultura immateriale, infiltrata e circolante tra materie e situazioni catalizzati dalla presenza dell'artista. Tuttavia è chiaro che Beuys è lontano dalle problematiche specifiche sia del film d'artista sia della videoarte; Beuys adopera il film e il video per i propri scopi, semplicemente come ulteriore strumento per comunicare; per prolungare il senso del suo discorso. E' interessato a continuare non a conservare le opere registrandole e memorizzandole, (come invece fa Schum); non intende calarsi totalmente all'interno del mezzo per sviscerare e reinventare le sue molteplici potenzialità linguistiche (come Paik); e anche la denuncia e la contestazione dell'oggetto e del potere televisivo (così centrale in Vostell e, con un uso ancora diverso in una ampia frangia di video espressamente politici come quelli del gruppo Guerrilla Television) rimangono marginali nelle sue intenzioni. Il suo pensiero in merito viene chiarito nel 1977, in occasione della trasmissione internazionale via satellite che inaugura Documenta 6 a Kassel, in cui interagiscono azioni di Paik, Charlotte Moorman, Douglas Davis, e Beuys; il quale si limita ad esporre per dieci minuti, davanti a camera fissa, il suo concetto di plastica sociale e di arte allargata. E nella discussione che segue dichiara: «Credo che questo medium sia capace di informare, di esporre chiaramente le relazioni tra le idee, di inventariare le situazioni; penso che sia adatto a questo scopo ...io do forma al mio pensiero poi mi servo di questo mezzo per veicolare le mie idee .(...)Il medium mi interessa meno per le azioni che per stimolare la discussione. Una utilizzazione semplice ed evidente del medium come stimolo per il prolungamento della discussione (...) Una azione, in tale situazione sarebbe assurda. Riconosco completamente il lavoro di coloro (...) che utilizzano il medium in maniera piuttosto artistica, ma ciò che faccio io non ha alcun rapporto con questo» (Herzogenrath 1982). Video e film dunque sono intesi e usati come sostanza, come un'altra materia intermediaria capace di attivare uno scambio di informazioni. Per questo l'artista si preoccupa di ridurre in termini elementari le caratteristiche linguistiche del mezzo, elimina ogni effetto che possa sovrapporsi al messaggio, interferire con l'azione. Adopera di preferenza il piano fisso, la staticità, il bianco e nero (I like Amerika and Amerika likes Me , per esempio, era stato registrato a colori da Helmuth Wietz, ma Beuys, che partecipa al montaggio finale, sceglie di trasferirlo in bianco e nero), in modo da sollecitare la reattività della percezione e la presa di coscienza di chi guarda; è agli spettatori di creare il movimento, di proiettarsi nell'immagine, di captare e utilizzare il potenziale energetico del mezzo e dell'azione che in esso è «prolungata». Va notato inoltre che Beuys non fa distinzione tra film e video, li adopera in generale nello stesso modo e con gli stessi fini, proprio perché è interessato alla comunicazione e non a sfruttare le proprietà specifiche del mezzo filmico e di quello video. Un confronto critico diretto con l'elemento televisione si realizza esplicitamente in Filz TV (Tv feltro), un'azione del 4 ottobre 1966 a Copenhagen che viene riproposta in studio per essere filmata e edita in video da Gerry Schum nel 1970, all'interno di Identifications. Come tutte le opere di Beuys anche questa azione si basa su un'iconografia personale che cela e rivela una sorta di parabola da interpretare, alla quale ciascuno può di volta in volta aggiungere (o togliere o variare) significati. Un'iconografia che come si è visto annovera materiali informi e plasmabili - simboli primari di una condizione di caos e di indeterminatezza da cui attraverso l'azione e la presenza fisica dell'artista si deve attivare una tensione che conduca ad un impegno individuale e collettivo. In Filz Tv queste materie-simbolo fondamentali sono il feltro e la televisione stessa. Il feltro copre lo schermo, ne

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occulta e ottunde la funzione di emissione di immagini e suoni; senza mai parlare Beuys si siede davanti al televisore da cui provengono i rumori di una discussione, solleva un lembo del pannello di feltro e lascia scorgere immagini confuse e baluginanti; poi indossa guanti da boxe e si percuote; poi divide in due un lungo salsicciotto, e con una estremità ascolta il video-feltro, come con uno stetoscopio; ritaglia l'altra parte del salame in forme geometriche e lo appende a una parete. Infine sposta il televisore di fronte ad un muro sul quale pende un pezzo di feltro a forma di schermo. Il feltro, definito da Beuys quale metafora di un irraggiamento di energia interiore e del «carattere dissociante e analitico del pensiero» (Bianchini 1994), assume qui la funzione di un filtro che indebolisce la trasmissione e sollecita un'attenzione diversa, più critica. Così come, colpendosi, lo spettatore Beuys si oppone alla propria ricezione passiva. In Filz Tv, suggerisce Celant, Beuys rappresenta «la sua lotta contro la televisione». Colpendosi come spettatore indica che la degradazione personale va riscattata: «nella sua trasmissione impersonale, Beuys richiama il personale e l'emotivo, il violento ed il maldestro dell'individuo contrario all'ammorbidimento ovattato della televisione» (Celant 1977). Ma vi è anche la metafora della percezione confusa e mediata imposta dalla televisione, attutita dal feltro, ricercata inutilmente attraverso la materia organica e alimentare; ancora una volta si evidenzia il collegamento spiazzante di opposti - natura e tecnologia, comunicazione e confusione - e il tema dell'azione a distanza, implicito nel medium televisivo. Nel rituale di Filz TV questo medium tecnologico è messo a tacere e nello stesso tempo evidenziato proprio come minaccioso silenzio, lo spettatore è colpito, punito, e una diversa percezione è attivata dal cibo-grasso della salsiccia, poi emblematicamente messa da parte e esposta dopo aver assunto una grottesca razionalità formale. La televisione come oggetto e come emissione sembra interagire inutilmente con l'uomo e diventa essa stessa una sostanza assurda, impropria. E' un filtro e insieme uno strumento che prolunga l'immagine nella realtà, che Beuys utilizza così come uno strumento egli usava la sua vita e la sua immagine: «io sono un emittente, io irraggio» (Beuys 1994). GERRY SCHUM Verso la fine degli anni '60 la registrazione di opere d'arte, intesa come estensione visiva e temporale del fenomeno osservato, riceve un impulso decisivo, collegandosi e partecipando a tutte le tendenze d'arte emergenti, dal pop al poverismo, dal concettuale al minimalismo, dal comportamentale alla land art e alla body art, privilegiandone gli aspetti «dematerializzati». E' anche il momento di un confronto con il cinema, che in realtà non è mai affrontato direttamente, se non in alcune punte dell'underground americano (Aprà 1986). Il film d'artista, che parte dalle avanguardie come film puro, astratto, surreale, antinarrativo, negli anni '60 conosce nuove articolazioni in Warhol, Yoko Ono, Beuys, Mekas, Schifano, Baruchello, Patella, Ontani e vari altri artisti che assumono come oggetto e soggetto dell'opera le proprie azioni, ne inventano apposta per il film e infine per il video, modificando così i termini del loro linguaggio. Progressivamente, a contatto con le nuove tecnologie (presto interverrà anche il computer), il confine tra film d'artista e video tende a perdersi fino al prevalere del video. Il sistema telecamera-video conquista gli artisti non solo per le sue possibilità di intreccio con altre pratiche e modelli visuali ma anche perché è una tecnologia più maneggevole, accessibile, personalizzabile; consente un controllo immediato dell'opera nel suo farsi - in diretta e in tempo e spazio reali - e quindi di assimilare il processo al prodotto. D'altro canto le esperienze astratte della televisione elettronica di Paik segnano una frattura rispetto al carattere riproduttivo che accomunava cinema e video e che comunque era già stato messo in discussione dalle avanguardie e da ricerche recenti, per esempio da Stan Brakhage con la costruzione dell'immagine direttamente attraverso gli strumenti filmici quali obiettivi, messa

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a fuoco e velocità di scorrimento. Nel video inoltre la definizione «bassa» ma fluida e vivida nella continuità di minutissimi punti di luce conduce ad altre suggestioni visive, mentre la possibilità di trasmettere contemporaneamente su tanti schermi diversi, come nelle videoinstallazioni, modifica sostanzialmente il senso del tempo, dello spazio e della fruizione propri del cinema (Provenzano 1992). Un'esperienza importante in queste direzioni è quella condotta da Gerry Schum. Schum è un gallerista che si incarica per la prima volta di promuovere film basati sulla registrazione di azioni artistiche, di produrli e diffonderli per televisione in una apposita galleria (la Videogalerie a Düsseldorf, 1971-73), proponendo una percezione diversa sia per le opere sia, istituzionalizzandoli, per i video che ne derivano. La sua Fernseh-Galerie è infatti concepita come uno spazio per mostre pensate e realizzate per il circuito televisivo: «gli oggetti d'arte non saranno presentati nel contesto statico e isolato in cui l'arte è abitualmente obbligata a manifestarsi (...) La mostra non presenta prodotti finali, ma processi dell'operare artistico, durante i quali i desideri del consumatore d'arte entrano in gioco in una sorta di feedback (...) - scrive Schum - L'eterno triangolo di studio, galleria, collezionista, in cui l'arte si è svolta finora, è stato infranto. Invece della proprietà privata dell'arte che impedisce l'ulteriore circolazione delle opere, c'è ora la comunicazione con un pubblico più vasto attraverso (...) la trasmissione televisiva» (Schum 1979, Herzogenrath 1982, Cominciamenti 1988). Schum gira un film per la televisione, Land art, documentando opere di Marinus Boezem, Walter De Maria, Jean Dibbets, Barry Flanagan, Mike Heizer, Richard Long, Dennis Oppenheim, Robert Smithson, lo trasmette pubblicamente dalla rete Freies Berlin il 15 aprile 1969, e lo inserisce nell'ambito della mostra Prospekt 69 alla Kunsthalle di Düsseldorf. Con questa iniziativa egli introduce il termine Land Art per indicare un particolare tipo di esperienza artistica; inoltre contribuisce a dare nuova consistenza ad una precisa tipologia, se così ci si può esprimere, della neonata videoarte; cioè la registrazione di un evento, e dunque il trasferimento di un'opera per sua natura transitoria ed effimera su un nuovo supporto, in cui la documentazione diventa inevitabilmente un'altra opera. La Land art infatti, col nome ancora di Earth art, aveva già avuto una consacrazione ufficiale nella mostra del 1968 alla Cornell University in cui erano esposte prevalentemente fotografie, per esempio di Mile Long Drawing di De Maria (2 linee parallele tracciate nel deserto del Nevada), ossia le tracce selezionate di un'idea di intervento nella natura, di cui si accentuava così il carattere concettuale. Earth art, Earthworks e infine e definitivamente Land art significa trasformare in opera d'arte il paesaggio stesso. Luoghi naturali remoti e solitari sono assunti come materiale nei cui confronti l'artista si pone come elemento modificatore e modificato esso stesso, in un macroscopico rapporto tra naturale e artificiale. Nel video di Schum vediamo queste trasformazioni nel loro farsi; percorrere luoghi solitari e disabitati (Long); segnare la sabbia col bulldozer secondo linee prospettiche e aspettare che la marea avanzi a ingoiarle (Dibbets); scandire il tempo e il moto del mare con un cilindro di plexiglas progressivamente riempito dalle onde (Flanagan); i vortici di vento e sabbia (Boezem); le due linee parallele tracciate nel deserto e i tre cerchi dello sguardo che ruota lungo l'orizzonte (De Maria); i grandi specchi incastrati nei 4 punti cardinali di una cava (Smithson); la linea di confine tra Canada e USA segnata sul ghiaccio (Oppenheim). L'acqua, la terra, il vento, il cielo, i cicli della natura esaltati e nello stesso tempo dominati più o meno simbolicamente da solitari segnali umani. Proprio la componente artificiale di queste operazioni è quella che in fondo emerge dalle registrazioni di Schum; memorizzazione e fissaggio su un supporto di eventi remoti e monumentalmente cosmici, pensati per esistere più che per essere visti, o per essere visti prevalentemente in riproduzioni fotografiche e filmiche, da uno sguardo concettualmente orientato. Dunque pensabili come totalità ma percepibili come frammento, come parzialità, o come appunto registrazione; che ne perpetua il processo, ne raffredda la simbolicità, li trasforma in altro tipo di opera, restituendo la visibilità espunta dalla loro natura concettuale. Più tardi questo sguardo sulla natura sarà raccolto e trasposto in una magia surreale da Bill Viola, in Chott-el-Djerid. A portrait in light and heat (1979), che

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svolge la suggestione tattile di luci e forme filtrate dalla fata morgana del calore come materia Un modello parzialmente diverso di registrazione viene proposto da Schum in Identifications, diffuso il 30 novembre 1970 dalla trasmittente SuedWestfunk Baden-Baden; è una compilation di azioni comportamentali e concettuali di Giovanni Anselmo, Joseph Beuys, Alighiero Boetti, Stanley Brown, Daniel Buren, Piero Calzolari, Gino De Dominicis, Ger van Elk, Hamish Fulton, Gilbert & George, Gary Kühn, Mario Merz, Klaus Rinke, Ulrich Rückrien, Reiner Ruthenbeck, Franz Erhard Walter, Lawrence Weiner e Gilberto Zorio (l'autore aveva in precedenza girato un documentario della VI Biennale d'arte di San Marino del 1967). Anche in questo caso Schum riprende le opere senza commentarle, nell'ottica di una neutra visualizzazione. «L'opera d'arte è il film stesso - afferma infatti Schum - Il film è il risultato di un'idea, della realizzazione dell'artista e del mio lavoro come regista e operatore. Nella pratica l'artista ha un'idea che già più o meno include il fatto che la riproduzione, mediante il mezzo filmico e televisivo, sia parte della realizzazione» (Cominciamenti 1988). Ma in Land Art era ancora presente un linguaggio filmico, la ripresa dall'alto, gli stacchi e gli avvicinamenti della macchina da presa, il ritmo della composizione, l'interpretazione delle inquadrature: l'operatore si faceva compartecipe dell'autore cercando di prolungare ed enfatizzare l'aura dei grandi spazi naturali modificati dall'uomo. Invece in Identifications è più direttamente implicata l'azione, breve e intensa, che viene registrata da una camera quasi sempre fissa; Land art realizza ancora un confronto tra due opere, due mezzi diversi, il film e l'evento ripreso; Identifications tende invece alla pura visualizzazione delle performances, all'equivalenza rispetto all'azione, all'identificazione tra televisione e opera implicita nel titolo che, secondo le parole di Schum «indica la correlazione nel processo artistico fra l'opera d'arte e l'artista nel tentativo di superare ciò che li separa». Siamo ancora nell'ambito del film girato per esistere solo nel momento della trasmissione televisiva, ma si rafforza l'idea caratterizzante della videoarte di una simultaneità tra immagine e riproduzione; e si approda comunque ad una fusione tra due linguaggi. Il trasferimento sullo schermo, ripristinando l'evento nell'immaterialità dell'immagine riprodotta e riproducibile, fatta di luci e impulsi elettronici, si configura come un'opera nuova; la registrazione stabilizza per una visione diversa opere dalla durata limitata nello spazio e nel tempo e, al di là della presunta oggettività della camera, le modifica. LO SCHERMO COME SPECCHIO. CORPO-SPAZIO-TEMPO Questo procedimento si intensifica in relazione alla Body Art, una forma d'arte che assume direttamente il corpo dell'artista come mezzo d'espressione, come soggetto, come veicolo di rappresentazione e di dialogo con il pubblico, al limite della complicità o della repulsione. Vito Acconci, Bruce Nauman, Marina Abramovich, Gina Pane, Chris Burden, Gino De Dominicis, Gilbert e George, Gunter Brus, Ulrike Rosenbach, Hermann Nitsch, diventano nelle loro performances personaggi e soggetti autobiografici di rituali estenuati; prevalgono temi legati ad angoscia, disinibizione, morte e sessualità, che si esaltano in un processo di misurazione con esperienze estreme (Vergine 1974). Non più teatrali e espanse come nell'happening, ma circoscritte per lo più nelle gallerie le opere della Body Art sono transitorie, uniche e intenzionalmente coinvolgenti; nei loro confronti il video si pone in prima istanza come documentazione, secondo il modello di Schum; ma il legame tra artista, medium e pubblico si fa più stretto, in virtù del vivere di queste opere - in quanto scatenamento freddo di emozioni e pulsioni - proprio delle risposte istintive e immediate sollecitate dalla loro visione. Non per nulla Gina Pane, al termine di Le lait chaud del '72- gargarismi di latte e sangue che esce dalle proprie labbra tagliuzzate con una lametta - afferra la telecamera e la punta sugli spettatori per includere nell'azione e nel video anche le loro reazioni (Bloch 1982). Rivisti oggi, a distanza di quasi trent'anni, i videotapes della Body art

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hanno un sapore straniante, reperti di un modo di concepire l'arte come regressione primaria e infiltrazione nella vita, secondo una prassi rapidamente diffusa, consumata e spenta. Le registrazioni della Body art iniziano alla fine degli anni '60; viene usato il film (per esempio da Oppenheim in Armand Asphalt) e presto direttamente il video. Acconci documenterà le sue azioni in decine di riprese intessendo una reiterata vicenda di conflittuali metafore; si morde accanitamente fin dove può (Trademarks 1970), cerca di trasformare il suo corpo in uno femminile (Conversion e Opening del 1970, ripresi in video); mette in scena una lunga lotta tra maschile e femminile in Pryings (1971) tentando per 21 minuti di far aprire gli occhi ad una donna che resiste disperatamente (Van Assche 1992); centrato sulla visione, sulla lotta tra il non voler vedere e il far vedere, il video assume una particolare pregnanza, quasi emblema delle antinomie dello sguardo televisivo, proponendo una situazione limite che traspone la simbologia del conflitto uomo-donna in quella di un drammatico rapporto - accettare o resistere - con un mondo pervaso di immagini. Gina Pane analizza dolore, tortura, disgusto direttamente su se stessa e sul pubblico. Nitsch, esponente del radicale e violento Wiener Aktionismus si confronta con animali sgozzati e viscere e sangue. Abramovic e Ulay si pongono nudi a delimitare uno stretto passaggio che gli spettatori devono varcare per entrare nella galleria (Imponderabilia, Bologna 1977) o sbattono per ore l'un contro l'altro i loro corpi, o urlano fino allo spasimo. Invece, inappuntabili e surreali, Gilbert e George fanno di se stessi sculture viventi che si muovono come robots per le vie di Londra, danzano come marionette su un tavolo, i volti e le mani dorati, al suono di una vecchia canzonetta (Pluchart 1975, Bloch 1982). Se da un lato le azioni Body Art possono essere concepite espressamente per essere registrate, dall'altro la loro ripresa diventa un processo di modificazione delle relazioni tra osservato e osservatore, scavando nelle possibilità dello sguardo meccanico del video. Lo schermo assume il ruolo di uno specchio; l'analisi del proprio corpo si trasferisce nel corpo dello spettatore-attore. Come ha analizzato Rosalind Krauss, la video arte contiene un nucleo forte di narcisismo, nel senso che al termine hanno dato gli studi psicoanalitici di Lacan sullo sviluppo della percezione e dell'identificazione del bambino attraverso il riconoscimento della propria immagine nello specchio. Utilizzato da artisti coinvolti nella Body art e nelle performances il sistema camera-monitor propone un rispecchiamento del sé come esperienza psichica, un dialogo serrato con l'identità e il corpo, in virtù della peculiare capacità del mezzo di riprendere e ri-mostrare simultaneamente l'immagine; il soggetto si mediatizza in un altro se stesso. Quest'immagine di identità-alterità rivelata e enfatizzata dalle tecnologie elettroniche è anche, secondo Krauss, una chiave di lettura di una critica interna del mezzo stesso esercitata delle sperimentazioni linguistiche della Body art, come in Vertical Roll di Jonas, che dissolve le forme nello spazio e nel tempo intervenendo sul sincronismo camera-monitor (Krauss 1976). Il video tende anche a sostituirsi alla diretta esibizione in pubblico, in un'esperienza individuale memorizzata e socializzata dalla registrazione. Trasferendosi immediatamente sul nastro magnetico e scavalcando la dimensione emotiva della performance le azioni si oggettificano e si trasformano, acquisendo un nuovo tipo di visibilità, e i videotapes tendono a diventare opere autonome, in virtù del loro agire sul piano del linguaggio più ancora che sull'evento riprodotto. Si avvia un processo ulteriore di costruzione dell'immagine e di elaborazione autonoma del mezzo che saranno articolati dagli artisti che assumono il videotapes come mezzo d'espressione, come, tra tanti altri, Joan Logue, Dara Birnbaum, John Samborn, Bill Viola, Robert Cahen, i Vasulka, Gary Hill, Ed Emschwiller, Gianni Toti. Vito Acconci media il rapporto con gli spettatori attraverso la diretta del video come in Seed-bed, 1971 o in Command Performance, 1973, in cui esegue gli ordini che il pubblico gli impartisce da un'altra stanza con la telecamera (Linker 1994). Bruce Nauman va oltre facendo coincidere l'immagine di se stesso e l'opera video (Nauman 1993). L'artista si muove in uno spazio chiuso, cammina, corre, salta, o suona il violino, e si lascia riprendere dalla

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telecamera fissa, in tempo reale, per sessanta minuti volutamente monotoni e ossessivi. Analizza e rispecchia piattamente il proprio corpo in semplici e ripetuti movimenti, senza cercare nessun effetto spettacolare; l'unica alternativa spiazzante è data dalla posizione della telecamera, capovolta o posta di lato, per cui Nauman appare come se camminasse sul soffitto, come in Revolving Upside Down (1968) o come se suonasse il violino su una parete (Violin Tuned D.E.A.D.). L'ambiguità spaziale e il senso di instabilità si coniugano con la riflessione sul tempo, che è un elemento costitutivo di questi videotapes: un tempo ricondotto ad un continuo presente, condizionato e condizionante la visione (Freed 1975) collegato intrinsecamente ad una percezione oggettivata di corpo e gesti. Nelle videoinstallazioni Nauman integra questa dimensione con le componenti spaziali e con uno specifico coinvolgimento della persona-immagine dello spettatore. In Tape Video Corridor (1970) tempo e spazio si fondono e si scambiano nella ripresa e trasmissione simultanea di due telecamere e due monitors che si rimandano reciprocamente, alle estremità di uno stretto corridoio, l'immagine frontale o quella di schiena di chi transita nel corridoio stesso. «Dunque sul monitor -spiega Nauman - voi vi allontanate da voi stessi, e più cercate di avvicinarvi, più vi allontanate dalla telecamera, più vi allontanate da voi stessi» (Nauman 1986). Vedere se stessi sullo schermo in uno spazio e in un tempo alterati da lievi scarti temporali e dalla cattura dell'immagine riflessa, per cui ci si percepisce sempre dialetticamente in una condizione di spiazzamento tra un dopo o un prima, tra vicino e lontano, tra interno e esterno, tra presenza e assenza, è un tema proposto varie volte. In Wipe Cycle di Frank Gillette e Ira Schneider (presentato nel 1969 alla mostra Tv as a creative medium di New York), un sistema di nove monitors restituisce le riprese nella galleria (combinate con altre registrazioni) in diretta e/o con un ritardo scandito su otto o sedici secondi (Rosenbush 1973). in Present Continuous Past (s) di Dan Graham (1974) lo spettatore entra in un ambiente e si vede ripetuto all'infinito tra due pareti di specchi, in tempo reale, e dopo pochi secondi si rivede anche mentre entra, con un ritardo programmato dal rimando di una telecamera (Graham 1979). Questo effetto sottile di disorientamento spazio-temporale che si congiunge a quello di un ambiguo rispecchiamento, e che assume come centrale l'autoidentificazione narcisistica di cui parla Krauss, diventa un motivo conduttore nelle videoinstallazioni. Utilizzando insieme oggetti disparati e diversi monitor e telecamere le installazioni configurano spazi tridimensionali, percorribili, situazioni che l'osservatore percepisce dall'interno, divenendone parte. I televisori come materiali di un'architettura e i loro schermi come fonti di luci e immagini, colori e suoni, e come specchi virtuali, animano l'impianto da minimal art di questi luoghi, attirano l'attenzione in una dimensione multicentrica e in una continua trasformazione di rimandi percettivi, secondo percorsi di volta in volta emergenti e subito sostituiti e riproposti. E' ancora Paik a proporre le prime realizzazioni in questo senso, in Moon is the Oldest TV (1965, e poi '76 e '85), in cui pone in semicerchio una serie di televisori su alti parallelepipedi neri, in un ambiente buio e deforma il segnale elettronico di ogni schermo creando altrettante sfere luminose in sequenza che mimano le fasi di una luna artificiale (Van Assche 1992). La configurazione minimalista, la moltiplicazione di fuochi visivi e la serialità della sequenza di immagini sarà più volte ripresa, tra gli altri da Marie-Jo La Fontaine (Die Sizilianische Eröffnung, 1986-92, o Jeder Engel ist Schrechlich, 1992), che integra le sue installazioni con una particolare componente narrativa (Rétrospective 1993). La molteplicità di sollecitazioni sensoriali si intensificherà inoltre nella dimensione spazio-tempo e interno-esterno indotta dal circuito chiuso; per esempio in Iris di Les Levine (New York 1968) tre telecamere, sei monitors, diversi specchi e tubi fluorescenti determinano uno spazio percettivo frammentato dalle riprese dei visitatori secondo una diversa profondità, in primo piano, a media distanza e a lunga distanza, e moltiplicato dagli specchi (Celant 1977). In Participation TV (Paik, 1969, Howard Wise Gallery) la telecamera riprende il pubblico e ne ritrasmette l'immagine deformata e colorizzata; i visitatori potevano inoltre intervenire

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sulle modificazioni della propria immagine attraverso un microfono (Paik 1974). In Interface di Peter Campus (1972) torna il gioco di telecamere e specchi che ripropongono allo spettatore la sua immagine e quella della sua ombra, a grandezza naturale ma perturbata e manipolata elettronicamente. In Double Vision (1971) Campus fa apparire sullo schermo due visioni concentriche del medesimo oggetto, l'esterna statica, l'interna in movimento (Campus 1974). In The Blue Wall, presentato da Ed Emshwiller all'ARTEC di Nagoya nel 1989 immagini reali e informatizzate, riprese di luoghi reali e degli spettatori si combinano insieme in uno spazio composito e articolato (Popper 1993). Gli esempi potrebbero continuare a lungo. Su queste esperienze che esplorano il rapporto immagine-corpo-sguardo secondo modalità percettive che modificano sostanzialmente le matrici comportamentali, svariate sono infatti le interpretazioni degli artisti; legandosi ritualmente alla geometrizzazione parcellizzata del corpo femminile in Frederike Pezold (Göttin Körpertemple, 1971), o coniugandosi con una complessa simbologia in Franciska Megert (Das Spiel mit dem Feuer, 1989) che separa e fonde il corpo maschile e il femminile, lambiti dal fuoco distruttore e purificatore, per esaltare l'antagonismo di opposti in una metafora visiva; oppure conducendo ad un'ulteriore alterazione della fisicità del percepire nella gigantizzazione inquietante dello schermo in un ambiente claustrofobico, come in Passage di Bill Viola (1987). O, ancora, arrivando a travasare lo sguardo nella corporeità di una dimensione virtuale come in The Legible City di Jeffrey Show (1988-91), un'installazione interattiva che conduce lo spettatore ad un'esplorazione labirintica e personalizzata di città costruite con la tecnica del computer graphic come gigantesche sequenze di frasi (Manhattan, Amsterdam, Karlsruhe); l'interfaccia tra osservatore e immagini è l'osservatore stesso che pedalando su una bicicletta si inoltra e si inserisce nelle fluidità di un'inedita esperienza spaziotemporale (Moving Images, 1992). Ormai lontana dalle analisi della Body art, quest'opera si può tuttavia leggere anche come un ulteriore manipolazione tecnologica e illusionistica di sensazioni corporee: un'emanazione dell'interazione percettiva e della centralità dell'esserci che informano di sé tanta parte della videoarte. *** Si intensifica rapidamente, dalle prime esplorazioni pionieristiche fino ad oggi, nelle videoinstallazioni, nelle videosculture e nei videotapes, sia la suggestione del collage visivo e sonoro di forme infinitamente variabili, sia l'articolazione del rispecchiamento, del doppio, del tempo e dello spazio, sia l'elaborazione delle immagini con un referente esterno oppure autoreferenziali, generate direttamente dal dispositivo. Prosegue la ricerca su un linguaggio intermediale, caratterizzato dai contatti con gli orientamenti artistici emergenti e con l'evolversi delle nuove tecnologie, attraverso la rielaborazione delle categorie di astratto e figurativo, di oggetto e comportamento, di reale e virtuale. Un processo in cui particolarmente stimolante sarà l'intreccio con il computer, mentre si articola quello con il teatro, il cinema, la danza, la musica, la poesia, in nuove sintesi che richiedono nuovi metodi di lettura. Ma la storia del complesso tragitto della videoarte esula da queste brevi considerazioni sulle sue fasi iniziali. Va ricordato comunque che mentre numerosi sono gli artisti che utilizzano in tanti modi diversi il mezzo televisivo, per brevi esperienze o con un'adesione più profonda e costante, provenendo e a volte poi tornando ad altre ricerche, la videoarte acquista spazio progressivamente nelle gallerie e nei musei, nelle reti televisive, nella pubblicazione di riviste e di una saggistica specializzata, partecipa a manifestazioni artistiche diversamente orientate, continuando il proprio meticcio vagabondare. Un viaggio che forse non richiede una destinazione, una ricerca mai finita di relazioni che sottende, ma forse elude, quella di una autonoma identità. Oltre alla Videogalerie di Gerry Schum, altre gallerie si dedicano a esporre e promuovere opere video, come la Scan di Nakaya a Tokyo, o a New York Bonino, Castelli, Sonnabend, e

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la Howard Wise Gallery, che organizza nel '66 l'esposizione mondiale di Computer graphic e nel 1969 la prima mostra di ampio respiro sulla videoarte, Tv as a creative Medium, con videotapes, videoggetti e installazioni a circuito chiuso di Frank Gillette, Ira Schneider, Paik, Charlotte Moorman, Earl Reiback, Eric Siegel, Thomas Tadlock, Aldo Tambellini e Joe Weintraub. In seguito Howard Wise fonda l'Electronic Arts Intermix, e, con Castelli e Sonnabend, la Tapes and film . Nel 1971, sempre a New York, apre l'Electronic Kitchen (tra i fondatori Steina e Woody Vasulka), che presenta l'attività di artisti quali Paik, Dan Graham, Peter Campus, Ira Schneider, Joan Jonas, Terry Blumenthal, Dara Birnbaum, Kit Fitzgerald, John Sanborn, Bill Viola. Contemporaneamente l' Everson Museum of art di Syracuse (New York), apre una sezione di videoarte, con opere di Douglas Davis, Andy Mann, Paik, Peter Campus, Frank Gillette, e nel 1973 organizza una esposizione di videotapes; la mostra si sposta in vari musei americani per confluire poi nel Projekt 74 a Colonia, la prima rassegna video di livello internazionale in Europa. Altre iniziative museali si svolgono al Museum of Modern Art di New York, con il Video Environments Projects di Keith Sonnier (1971), al Museum of Art di Long Beach, al Whitney Museum. Anche in Europa si inaugurano spazi e momenti di discussione; nel 1971 la galleria di Liegi Yellow Now organizza la prima manifestazione di video intitolata Proposition pour un circuit fermé del television. Nel 1974 si inaugura una grande esposizione sul video internazionale al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles (Artistes et Vidéo); nel 1974 l'International Cultureel Centrum (ICC) di Anversa, diretto da Flor Bex crea uno studio con apparecchi di registrazione a disposizione degli artisti; nel '76 si organizzano gli incontri internazionale del gruppo argentino C.A.Y.C. Nel 1983 a Charleroi si svolge la mostra Art Vidéo. Rétrospectives et Perspectives. A Londra la Serpentine e la Hayward Gallery organizzano festivals video dal '71. A Parigi il Musée d'art moderne de la ville de Paris organizza una grande mostra nel '74, l'Art video confrontation e nel 1983 un'ampia rassegna delle ricerche videoartistiche è presentata da Popper e Couchot in occasione della mostra Electra. Nel 1982 si organizza al Pompidou una serata in onore di Paik con 400 televisori. Si interessano al video anche le grandi manifestazioni periodiche di arte contemporanea. Nel 1977 Documenta 6 a Kassell presenta una retrospettiva di video e videoinstallazioni di più di 40 artisti americani, e alcuni video (di Paik e Douglas Davis) sono trasmessi via satellite negli USA. Nel 1986 la Biennale di Venezia dedicata a arte e scienza comprende un settore sulla videoarte e sulla computer art. Iniziano anche i contatti con le reti televisive all'avanguardia. Nel 1968 il Westdeutsche Rundfunk di Colonia incarica per la prima volta degli artisti di produrre nastri per la Tv pubblica; Otto Piene e Aldo Tambellini trasmettono nel '69 Black Gate Cologne sintetizzando in video una azione multimediale. Nel 1969 la WGBH-TV di Boston (sovvenzionata dalla Rockfeller Foundation), organizza e diffonde tramite Fred Barzyk una serie di trasmissioni di Paik (Electronic Opera n° 1, Video-Chair e Tv Cello, con Charlotte Moorman), Piene, James Seawright, Thomas Tadlock , Tambellini, intitolate The medium is the medium; nel 1970 trasmette Beatles: from Beginning to End , un programma della durata di quattro ore realizzato con il sintetizzatore Paik-Abe. Anche la KQED di San Francisco e la WNET di New York trasmettono programmi regolari di videoarte. In Gran Bretagna Channel Four, in Francia Canal Plus, in Belgio Videographie sviluppano l'interesse per la sperimentazione artistica indipendente collegata ai circuiti televisivi. Intanto, nel 1970 Ira Schneider e Beryl Corot editano il primo periodico sul video, Radical Software, che pubblica 11 numeri fino al 1974, occupandosi di problemi teorici, artistici, tecnici e politici relativi alla comunicazione. Nello stesso anno esce Expanded Cinema di Gene Youngblood pubblica, e nel '71 Guerrilla Television di M. Shamberg, sull'uso politico e di controinformazione del video. Si organizzano manifestazioni internazionali e centri di produzione e di diffusione e di raccolta: nel 1975 è il primo festival annuale di video

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documentari del Global Village; seguono il videofestival di Locarno (dal 1979), il Siggraph a Boston, l'Ars Electronica a Linz, Imagina a Montecarlo, l'Arc a Parigi, il Zentrum für Kunst und Medientechnologie a Karlsruhe (ZKM), a Tokio l'Osaka Furitsu Bijutsu Center, a Taormina la Rassegna Internazionale del Video d'autore. Collezioni permanenti di opere video vengono istituite in vari musei, al Moma di New York e a quello di San Francisco, allo Stedelijk di Amsterdam, al Pompidou di Parigi, al Centro de Arte Reina Sofia di Madrid, al Kunstmuseum di Berna, al Ludwig di Colonia (London, 1985, Fagone 1990, Bureaud 1992, Van Assche 1994, in Taormina Arte).