L’ospedale per intensita’ di cura” humanitas

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RELAZIONE FINALE OTTOBRE 2009 RETI OSPEDALIERE STRUMENTI E MODELLI PER LA PROGRAMMAZIONE “L’OSPEDALE PER INTENSITA’ DI CURA” UNITA’ DI RICERCA HUMANITAS Responsabile della Ricerca: Patrizia Meroni (Direttore Generale ICH) Collaboratori: Boncinelli Stefania (Direzione Sanitaria ICH) Marco Albini (Monitoraggio Qualità ICH)

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RELAZIONE FINALE OTTOBRE 2009

RETI OSPEDALIERE

STRUMENTI E MODELLI PER LA PROGRAMMAZIONE

“L’OSPEDALE PER INTENSITA’ DI CURA”

UNITA’ DI RICERCA HUMANITAS

Responsabile della Ricerca: Patrizia Meroni (Direttore Generale ICH)

Collaboratori: Boncinelli Stefania (Direzione S anitaria ICH)

Marco Albini (Monitoraggio Qualità ICH)

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1. Introduzione e metodologia della ricerca ........ ............................................................3 2. Istituto Clinico Humanitas...................... .......................................................................4

2.1 Descrizione del contesto iniziale e del progetto .........................................................6 2.2 Modello Humanitas...................................................................................................10

2.2.1 Descrizione del modello gestionale ...................................................................10 2.2.1.1 Modello gestionale, professioni e percorsi di cura.......................................12 2.2.1.2 Prospettive di sviluppo ................................................................................14

2.2.2 Degenze multidisciplinari ...................................................................................15 2.2.2.1 Percorsi formativi ........................................................................................18 2.2.2.2 Percorsi clinico-assistenziali - Area cardiovascolare e neuroscienze..........19

2.2.3 Day surgery .......................................................................................................22 2.2.3.1 Protocolli e procedure .................................................................................25 2.2.3.2 Prospettive di sviluppo ................................................................................27

2.2.4 Dipartimenti medici ............................................................................................28 2.2.4.1 La Riabilitazione in Humanitas ....................................................................30 2.2.4.2 Pronto Soccorso e Medicina d’urgenza.......................................................33

2.2.5 Aree infermieristiche ..........................................................................................36 2.2.6 Tutorship medica e infermieristica .....................................................................38 2.2.7 Flussi informativi, documentazione clinica e strumenti informatici .....................41 2.2.8 Struttura di supporto alla degenza (Servizi Generali e segreterie di reparto) ....43 2.2.9 Ricerca e Università...........................................................................................47 2.2.10 Personale e comunicazione.............................................................................49 2.2.11 Struttura fisica e building management............................................................50

2.3 Risultati di Esito - Sistema di Indicatori ....................................................................52 2.3.1 L’efficacia: Qualità in ICH e JCI .......................................................................52 2.3.2 L’efficienza e la produttività: Gestione operativa...............................................54

3. Azienda Ospedaliero – Universitaria Careggi ..... ......................................................57 4. Conclusioni ..................................... .............................................................................59

4.1 Le definizioni e i modelli di organizzazione ospedaliera ...........................................59 4.2 Descrizione delle caratteristiche peculiari dei due modelli in studio .........................60

4.2.1 Premessa...........................................................................................................60 4.2.2 Ospedali in cifre (2008)......................................................................................60 4.2.3 Day hospital e week hospital .............................................................................61 4.2.4 Separazione percorsi emergenza– urgenza e ricoveri programmati..................61 4.2.5 Livelli di intensità di cura e dipartimenti .............................................................61 4.2.6 La degenza multidisciplinare..............................................................................62 4.2.7 intensità di cura e complessità assistenziale .....................................................63

4.3 Punti di forza ............................................................................................................63 4.3.1 Economicità del modello – ottimizzazione delle risorse .....................................63 4.3.2 L’importanza della gestione e della logistica, la struttura che fa il modello ........63

4.4 Criticità .....................................................................................................................64 4.4.1 Il sistema di indicatori a supporto dell’efficacia dei modelli. I limiti attuali ..........64 4.4.2 L’incoerenza tra il modello e l’organizzazione delle professioni (profili professionali, atti, posizioni contrattuali, responsabilità, percorsi di sviluppo di carriera)....................................................................................................................................64 Fonti e riferimenti .....................................................................................................65

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1. Introduzione e metodologia della ricerca Il lavoro che segue è il risultato dell’attività dell’Unità di Ricerca Lombardia, finalizzato alla descrizione del modello di organizzazione per intensità di cura in due realtà ospedaliere a confronto (Istituto Clinico Humanitas di Rozzano - Milano e l’Azienda Ospedaliero Universitaria di Careggi - Firenze), analizzando come, nei due contesti, un modello ospedaliero per intensità di cura si è tradotto, dal punto di vista strutturale, tecnologico, organizzativo e professionale. La ricerca è stata svolta tramite interviste strutturate su una traccia comune, adattata poi ai singoli contesti, e somministrata a figure ritenute chiave delle due strutture. Le interviste sono state effettuate presso Humanitas dall’Unità di Ricerca 2 Lombardia, mentre presso l’ospedale Careggi sono state organizzate ed effettuate a carico della UO Toscana, nei mesi di giugno e luglio 2009. Per i due contesti è stata concordata la traccia dell’intervista e sono stati concordati i soggetti da intervistare, in modo da mantenere un adeguato livello di rappresentatività e di confrontabilità. L’unità di ricerca ha poi raccolto la trascrizione completa delle interviste delle due strutture e le ha analizzate, identificando le tematiche principali per ciascuna struttura e le tematiche di confronto tra le due strutture. Il testo delle interviste è stato quindi rielaborato, raccogliendo in capitoli specifici per tematica gli interventi più significativi dei diversi intervistati. La ARS Toscana ha curato il rapporto sulle interviste in merito all’indagine sulla riorganizzazione per intensità di cura nell’azienda ospedaliera-universitaria di Careggi. Quello che segue è la descrizione dell’Istituto Clinico Humanitas, frutto dell’elaborazione delle interviste. Di seguito viene riportato l’elenco degli intervistati presso Humanitas.

Ivan Colombo - Amministratore Delegato Piero Melodia - Direttore Personale Norberto Silvestri - Direttore Sanitario Domenico Lenoci - Responsabile Gestione Operativa Maristella Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali Manduzio Rosa Clara - Responsabile Servizi Generali Isabella Quarto - Responsabile Servizio Clienti Marco Massaron - Responsabile Servizi Tecnici Stefano Respizzi - Direttore Dipartimento di Riabilitazione Roberta Monzani - Responsabile U.O. Anestesia Day Hospital Chirurgico Giuseppe Micieli - Responsabile Stroke Unit Salvatore Badalamenti - Responsabile Medicina d’Urgenza (EAS) Barbara Miclini - Responsabile Area Assistenziale (RAA) Neuroscienze Simona Semplici - Responsabile Area Assistenziale (RAA) Cardiovascolare Patrizia Tomasin - Responsabile Area Assistenziale (RAA) Medicina d’Urgenza

Il capitolo 2 è dedicato all’Istituto Clinico Humanitas, vi è descritto il progetto che ha portato all’apertura dell’ospedale nel 1996 (paragrafo 2.1) e le caratteristiche sostanziali del modello di Humanitas (paragrafo 2.2), dal punto di vista gestionale (2.2.1) e con una descrizione più approfondita dedicata a ciascuno dei due modelli di degenza caratterizzanti la struttura, la degenza multidisciplinare per i ricoveri ordinari (2.2.2) e la day surgery (2.2.3), di cui è poi delineata anche la struttura di supporto amministrativo, gestionale e alberghiera (2.2.8). Sono poi illustrati i modelli organizzativi dei professionisti: i dipartimenti per la parte medica (2.2.4), con un focus dedicato alle peculiarità del dipartimento riabilitativo (2.2.4.1) e della gestione dell’area medica, in rapporto con il pronto soccorso (2.2.4.2); le aree infermieristiche e l’evoluzione del modello assistenziale degli ultimi anni (2.2.5); la modalità di presa in carico dei pazienti da parte del medico tutor e dell’infermiere di riferimento, all’interno delle degenze multidisciplinari (2.2.6). Segue la parte che raccoglie quegli elementi di processo, di carattere generale, che sono stati specificatamente oggetto di analisi nel confronto con Careggi: flussi informativi, documentazione

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clinica e strumenti informatici; ricerca, formazione e università; personale e comunicazione; struttura fisica e building management. L’ultima area analizzata è quella che riguarda i risultati, i sistemi di indicatori, che vede, per Humanitas, una traduzione in termini di qualità, arricchita dall’esperienza dell’accreditamento con Joint Commission International e in termini di efficienza e produttività, presidiata da una funzione aziendale dedicata alla gestione, la gestione operativa. Il capitolo 3 raccoglie le riflessioni maturate all’interno dell’unità di ricerca in merito a quanto emerge dal confronto dei due casi studiati, e alle considerazioni di carattere generale che, partendo dai due casi in studio, è stato possibile trarre sui modelli ospedalieri in generale.

2. Istituto Clinico Humanitas L'Istituto Clinico Humanitas nasce come ospedale policlinico ad alta specializzazione accreditato con il Servizio Sanitario Nazionale per le attività ambulatoriali e di ricovero, sito a Rozzano, nell'area metropolitana a sud di Milano.

E’ sede di insegnamento dei corsi di laurea in Medicina e Chirurgia, Biotecnologie e del corso di Laurea in Infermieristica dell’Università Statale di Milano.

Nel mese di dicembre 2002 Humanitas ha ottenuto l'accreditamento di eccellenza rilasciato da Joint Commission International, riconfermato nel 2006 e nel 2009.

Dal 2005 è stato riconosciuto quale Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) dal Ministero della Salute e dalla Regione Lombardia.

Humanitas si configura come Società per Azioni, denominata “Humanitas Mirasole S.p.A.”, e fa parte del gruppo più ampio, che gestisce altre strutture ospedaliere in Italia: Humanitas Gavazzeni (Bergamo), l’Istituto Clinico Mater Domini (Castellanza-VA), le Cliniche Fornaca e Cellini (Torino), il Centro Catanese di Oncologia (Catania), l’Istituto Clinico Valle d’Aosta (Aosta).

Struttura

La struttura, estesa su 180.000 mq di superficie totale (di cui 79.000 mq coperti) conta circa 750 posti letto, 52 Unità Operative Cliniche (UOC), 28 sale operatorie, 140 ambulatori, 26 postazioni di Emodialisi, 2 farmacie collegate in rete per prenotazione visite, esami e ritiro referti ed un EAS (Pronto soccorso di alta specialità) di III livello.

Il complesso ospedaliero è formato da un edificio principale che ospita la piastra dei servizi e le degenze, il Pronto Soccorso ed il Centro di Ricerca, Didattica e Riabilitazione.

L’edificio ospedaliero principale, con i suoi 57 mila metri quadrati di superficie, mostra una netta divisione tra la “piastra” che ospita le attività di diagnosi, le Terapie Intensive e la maggior parte dei blocchi operatori, e il blocco degenze. L’edificio presenta soluzioni innovative con elementi caratterizzanti come modularità e flessibilità, oltre ad un sistema di building automation per il controllo centralizzato degli impianti.

Humanitas si ispira al concetto di contiguità dei servizi: così, ad esempio, le sale di terapia intensiva generale e cardiochirurgica sono poste a fianco delle sale operatorie in modo che il

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paziente debba essere trasportato solo per pochi metri per arrivare in rianimazione. Il processo chirurgico è stato progettato per assicurare perfette condizioni di operatività ed in particolare garantisce l’assoluta sterilità dell'ambiente. Adiacenti al blocco cardiochirurgico sono collocate le sale dedicate all'Emodinamica e Cardiologia interventistica, all'Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione, alla Radiologia interventistica, e l'Unità di Cura Coronarica. Per quanto riguarda le alte tecnologie, Humanitas dispone di cinque TAC, quattro RMN, una TAC-PET, una PET e di un ciclotrone mentre il Servizio di Radioterapia e Radiochirurgia occupa un’area di circa 800 metri quadrati, con tre bunker dedicati – un quarto in costruzione. Riguardo alle degenze, di cui si parlerà in modo più approfondito, tutte le camere hanno 1 o 2 letti regolabili automaticamente e sono dotate di bagno privato, televisione, cassaforte, interfono e telefono, offrono elevate caratteristiche di comfort e sicurezza. Day Hospital chirurgico Il Day Hospital chirurgico, primo realizzato in Italia come reparto autonomo, è costituito da un’area di accoglienza e preparazione dei pazienti (recovery room), sale operatorie ed una degenza post-operatoria dove i pazienti sono monitorati ed assistiti sino al momento della dimissione. In esso vengono effettuati tutti gli interventi a bassa invasività, in anestesia locale o loco-regionale. Ambulatori e Punto Prelievi Il building 4 con una superficie complessiva di 2.600 metri quadrati ospita i 37 ambulatori riservati alle visite erogate ai pazienti esterni in regime accreditato con il Servizio Sanitario Nazionale. Il piano terra è riservato al centro prelievi per gli esami di laboratorio e all'attività di prenotazione e accettazione di tutto il sistema ambulatoriale. L’adiacente building 5 ospita gli ambulatori del percorso donna (ginecologia e senologia) e l’oculistica. Centro di Ricerca e Didattica Totalmente integrato con l'ospedale, il Centro accoglie in 20.000 metri quadrati 30 laboratori per 300 ricercatori italiani e stranieri, 14 aule didattiche per 400 studenti dei Corsi di Laurea di Medicina e Chirurgia, Biotecnologie e Infermieristica dell’Università degli Studi di Milano. Obiettivo comune: mettere a disposizione dei pazienti quanto di più innovativo ed efficace è oggi disponibile sul fronte della diagnosi e della cura. Per sostenere questo impegno è nata la Fondazione Humanitas per la Ricerca che, con l’aiuto di enti come AIRC, Telethon, Fondazione Cariplo e Fondazione De André, ha l’obiettivo di orientare la ricerca di base e clinica di alto profilo scientifico e tecnologico, e promuovere la formazione di giovani ricercatori. Il Centro ospita inoltre una biblioteca multimediale e un centro congressi da 500 posti. Presso lo stesso building ha sede anche Fondazione Humanitas che, fin dal 1999, rappresenta una realtà di volontariato che ad oggi conta più di 100 volontari impiegati in diversi progetti di supporto all’ospedale. Finalità della Fondazione è la qualità della vita del malato e dei suoi familiari. La sua attività si svolge in campo socio-sanitario, pratico, psicologico e formativo. Grazie ai suoi volontari la Fondazione Humanitas dà risposte concrete alle necessità dei pazienti e delle loro famiglie. La Riabilitazione in Humanitas Struttura autonoma di 6.000 metri quadrati e situato di fronte all’ospedale, il Centro di Riabilitazione ospita 120 posti letto divisi in 3 degenze dedicate alla riabilitazione ortopedica, neurologica e cardiorespiratoria. Sono a disposizione dei 270 pazienti che ogni giorno si rivolgono al Centro, 6 palestre, 12 sale per terapie manuali, 4 ambulatori e un percorso vita per la riabilitazione outdoor con un putting green per i disabili. Dati di attività Come si vede nella tabella il numero di ricoveri annui è intorno a 27.000 mentre gli accessi in Day Hospital, in particolare chirurgico e oncologico, sfiora i 26.000.

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La suddivisione in aree sottolinea che Humanitas è un ospedale prevalentemente chirurgico (Chirurgie Specialistiche e Generali) e oncologico. Esistono notevoli differenze tra chi opera anche in regime di Day Hospital e chi opera solo in regime ordinario e infatti osservando solo il regime ordinario un peso non indifferente è ricoperto dall’area Cardiovascolare e dalle Medicine. Significativo pur essendo non elevato il peso della riabilitazione. PERCENTUALI

Ricoveri Ordinari

N° accessi in DH TOTALE Ricoveri

Ordinari N° accessi in DH

AREA CARDIO 4253 482 9% 16% 2% AREA CHIRURGIA GENERALE

3573 886 8% 13% 3%

CHIRURGIE SPECIALISTICHE 9552 9762 37% 35% 38%

MEDICINE 4741 1446 12% 18% 6% ONCOLOGIA 2356 13038 29% 9% 51% TERAPIA INTENSIVA 90 0 0% 0% 0%

RIABILITAZIONE 2442 2 5% 9% 0%

TOTALE 27007 25616 100% 100% 100%

2.1 Descrizione del contesto iniziale e del progett o

Le origini del progetto di Humanitas risalgono alla seconda metà degli anni ‘80 quando, dall’incontro del prof. Nicola Dioguardi e Pier Carlo Romagnoli, allora Presidente di Reale Mutua, con Gianfelice Rocca e un gruppo di imprenditori, nacque l’idea di realizzare “un ospedale moderno, ben organizzato, efficiente, con il binomio paziente medico al centro di tutto”.

Tra i diversi progetti presentati viene scelto, per la realizzazione della struttura, quello dell'architetto James Gowan ed alla Techint è assegnata la progettazione e realizzazione del complesso ospedaliero.

Nel 1992 viene aperto il cantiere e la costruzione dell'ospedale è ultimata nel1996

“[…] Il progetto è nato sostanzialmente nel contesto di una imprenditoria milanese che è stata sollecitata dalla componente medica della città, e in particolare dalla figura del professor Dioguardi. Il professore si trovava a vivere in un contesto bloccato dal punto di vista fisico e strutturale, presso il Policlinico di Milano, che è lo storico ospedale universitario della città - di cui peraltro per decenni si è discusso di una nuova sede, di cui era stata addirittura individuata l’area, qui vicino, al Ronchetto delle Rane – e non trovando per una serie di veti incrociati sbocco questa idea, ottenne da un pool di assicurazioni, tramite l’iniziativa del dott. Romagnoli che era il presidente di Reale Mutua, la possibilità di finanziare la costruzione di questo nuovo ospedale. E in questo contesto di imprenditoria milanese venne individuata Techint come possibile esecutore di questo progetto, in quanto Techint aveva una propria divisione che operava nel campo della progettazione degli ospedali. A quel punto intervenne il metodo di lavoro di Techint che portò, evidentemente, a considerare non solo la progettazione dal punto di vista architettonico ingegneristico, ma la progettazione di un sistema di gestione e portò, quindi, la necessità di individuare un soggetto aziendale che si facesse carico della gestione dell’ospedale. Nacque così la decisione di Techint di entrare in questo contesto che fu inizialmente condiviso con altri imprenditori milanesi, ma che, mano a mano che andò sviluppandosi e affermandosi, rimase, naturalmente, di competenza e pertinenza esclusiva di Techint.” (P. Melodia)

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“[…] All’origine ci fu quindi l’incontro di un’idea medica da un lato, e di una idea imprenditoriale dall’altro che ha poi consentito di progettare un sistema che venne pensato nelle sue componenti strutturali, che rimangono fondamentali perché il lavoro che si fece di progettazione fisica, strutturale degli spazi si porta già dietro un’idea di percorso clinico e di capacità di mettere assieme l’efficacia e la qualità del percorso clinico con l’efficienza. Quindi, nella progettazione fisica si misero in atto subito quei principi ispiratori della mission aziendale. Ma via, via a questo progetto fisico si è accoppiato anche il progetto gestionale, che ha visto poi la definizione e l’articolazione di una struttura con la creazione di funzioni che non esistevano probabilmente nel panorama di un organizzazione ospedaliera in ambito italiano e credo anche fuori dall’ambito italiano. (P. Melodia)

Rozzano Il luogo scelto per la realizzazione è il comune di Rozzano, primo comune della periferia sud di Milano.

“[…] Il sito è stato individuato in funzione dell’esigenza del territorio, perché il territorio di Milano Sud era un’area di crescita di Milano, ovvia, perché non c’era nessuna altra zona di crescita e quindi si sapeva che questo tipo di servizio mancava. (I. Colombo)

“[…] Anche la dislocazione a Rozzano è stata una decisione presa nel corso del progetto, perché inizialmente, io è una parte che non ho vissuto quindi relata refero, il ragionamento era proprio indirizzato verso l’area del Ronchetto delle Rane, a Milano. Poi ci fu attraverso una serie di contatti la scelta di Rozzano, anche perché nel comune di Rozzano si trovava un interlocutore molto più rapido, meno impastato nelle burocrazie, per poter arrivare a realizzare la cosa nei tempi che ci si era dati come obiettivo. Quindi, ricordavo già prima il contesto regionale, che è fondamentale per l’accreditamento che avvenne da parte della Regione, però anche il contesto del territorio comunale fu un altro degli elementi decisivi, perché in generale in Italia per riuscire a realizzare qualcosa sul territorio occorre avere una serie di condivisioni non da un unico ente ma da più enti. Basta pensare che abbiamo parlato del Comune, abbiamo parlato della Regione e sul tema dell’ampliamento dell’attività rispetto al tema del Parco, c’è di mezzo la Provincia. C’è insomma questa complessità di interlocutori. (P. Melodia)

Contesto regionale Il progetto nasce in un periodo storico in cui si assiste a molti e profondi cambiamenti del contesto nazionale e regionale. In particolare, con la legge regionale n.31/97 di riforma il sistema sanitario lombardo prende avvio, anche attraverso l’accreditamento di tutti i soggetti erogatori pubblici e privati, una stagione il riordino della rete ospedaliera lombarda fondata sull’affermazione del principio di parità tra soggetti pubblici e privati e il superamento della concezione del privato quale offerta integrativa del servizio pubblico.

“[…] Questo progetto è riuscito a collocarsi in un contesto storico nel quale veniva introdotto il sistema dei DRG e quindi una gestione dell’attività ospedaliera che tenesse conto dell’output che si era in grado di fornire in termini clinici, mentre la precedente modalità di gestione che era quella del pagamento per giornate di degenza, dato il numero fisso dei letti. Questo certamente ha consentito di dare uno spazio di crescita alla struttura. La legislazione regionale ha favorito uno sviluppo anche di un componente privata che si ponesse non semplicemente in un ottica sussidiaria rispetto al sistema pubblico ma di integrazione. (P. Melodia)

“[…] La fase progettuale è iniziata prima dell’emanazione delle leggi che hanno definito il sistema sanitario regionale (L.R. 31/97) e nel periodo di introduzione delle logiche di finanziamento determinate dall’utilizzo dei DRG.

Il contesto politico regionale era un contesto di cambiamento, e man mano che ragionavamo su come realizzare questa struttura si sono evolute anche le logiche di controllo della produzione e efficienza economica che hanno portato poi alla nascita della gestione operativa.

In fase progettuale il ragionamento era prevalentemente concentrato sugli aspetti strutturali e su una logica di approccio multidisciplinare nelle degenze. Questa logica aveva anche una componente di ottimizzazione e di efficienza, ma la parte inerente il governo economico e finanziario della struttura è nata non appena sono state più chiare le regole di contesto regionale e di finanziamento con i DRG, ed ha portato al potenziamento delle funzioni di gestione operativa e controllo di gestione. (M. Mussi)

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La storia Il progetto iniziale

“[…] Da quanto io so, credo che il progetto nei suoi abbozzi iniziali sia nato intorno alla metà degli anni ’80, quindi c’è stato un lungo periodo di incubazione, poi l’inizio della costruzione fine ‘92 e l’apertura è stata 3 anni dopo ‘95/’96. Quindi se ci mettiamo dall’85 al ‘92, è stato più lungo il periodo della progettazione rispetto a quello della realizzazione. Ci sono state anche fasi diverse, nella progettazione, ad esempio, è stato un periodo molto intenso quello a partire dalla metà del ‘93 in avanti, in cui avendo cominciato a costruire il sito, bisognava decidere, per usare i termini che usiamo adesso, le funzionalizzazioni e le diverse specializzazioni delle aree, e quindi quali specialità, il tipo di approccio da dare, anche tenendo conto degli operatori che venivano scelti, e quindi una serie di articolazioni concrete che si sono determinate dal ‘94 in avanti. (P. Melodia)

“[…] Il progetto è stato studiato nei minimi dettagli, per quanto riguarda l’organizzazione, con simulazioni di quella che sarebbe stata la modalità operativa dell’ospedale stesso. Quindi il progetto fisico è stato “baciato” dal progetto gestionale. C’è stato un gruppo di una trentina di persone che ha lavorato full time per due anni per definire il progetto, le specifiche sono state poi condivise con Techint che l’avrebbe realizzato e successivamente è stato poi realizzato, adattando le cose anche alle normative che in quel momento stavano cambiando. Quindi nel ’96 a marzo è stata aperta, e quindi autorizzata la parte ambulatoriale, a maggio la parte dei ricoveri. (I. Colombo)

“[…] Si è pensato di fare Humanitas con l’idea di mettere in piedi una struttura ospedaliera complessa, quindi subito con l’obiettivo di fare un nuovo ospedale, non una casa di cura, per intenderci. E un ospedale che avesse le caratteristiche di un Policlinico. Secondo obiettivo, di sperimentare e consolidare un modello gestionale che mettesse insieme la logica della gestione ospedaliera con una logica di gestione aziendale e in particolare di un’azienda privata. Collocando, quindi, questo progetto in un contesto che puntasse assieme, anche dal punto di vista degli obiettivi manageriali, alla qualità delle cure, dal punto di vista medico, dal punto di infermieristico, in termini di umanizzazione del percorso di cura, e ad un obiettivo di economicità che portasse ad avere un risultato economico for-profit, attraverso la leva gestionale e organizzativa. Nella convinzione che la capacità di generare risorse economiche fosse e sia uno degli elementi che consentono, nel tempo, di mantenere l’eccellenza. La capacità di generare risorse vuol dire anche la capacità di attrarre risorse, finanziamenti e quindi di costruire un circolo virtuoso, in cui la qualità e l’efficienza economica, si alimentano vicendevolmente, nella considerazione che laddove manca uno di questi due elementi fatalmente anche quello che si pensa possa esistere in realtà, tende a entrare in un percorso involutivo. Da questo evidentemente sono discesi una serie di corollari, che sono, prima di tutto, quello dell’inserimento di ICH nel sistema sanitario nazionale. Il fatto cioè che una struttura così pensata, non potesse che far parte del sistema pubblico della sanità e che fosse necessario abbandonare le categorie del pubblico e del privato rispetto alla erogazione del servizio, senza confondere appunto questa categoria rispetto alla proprietà della struttura. Un conto è la proprietà della struttura, un conto il servizio che la struttura offre ai pazienti e ai cittadini. (P. Melodia)

“[…] Nasceva un ospedale con l’ambizione di coniugare all’esperienza clinica il know how industriale, quindi ha precorso i tempi di quella che poi è stata la creazione delle aziende sanitarie. Nasceva già con l’idea di costituire una struttura sanitaria organizzata con logiche aziendali, con una mission molto orientata alla centralità del paziente e l’umanizzazione. Rispetto al progetto iniziale l’aspetto che riguarda più da vicino l’assistenza infermieristica è stato quello aver attinto anche a realtà all’estero, vedere i modelli evoluti anche all’estero, un gruppo di progetto ha potuto riflettere prima di iniziare l’attività su quello che poteva essere un ospedale ideale, verso che cosa orientare un’innovazione nell’ambito dell’organizzazione sanitaria ai diversi livelli, confrontandosi anche con le realtà già più evolute, francesi, anglosassoni, svizzere, tedesche.

Il gruppo progetto è stato costituito ancor prima che si definisse l’area in cui sarebbe nato l’ospedale e si è occupato di raccogliere notizie e informazioni attraverso questi confronti. Quando io mi sono unita al gruppo progetto ho partecipato alla raccolta di indicazioni e messaggi sul funzionamento di diversi modelli ospedalieri, delle diverse reti ospedaliere e sull’organizzazione dei diversi sistemi sanitari. Questa è stata la prima volta in Italia che ad un gruppo di Progetto ha partecipato fin dalla fase di realizzazione una figura infermieristica, di solito le figure infermieristiche vengono coinvolte nella fase di selezione delle risorse ed organizzazione dei reparti, mentre in questo caso il coinvolgimento c’è stato già nella fase delle scelte strutturali, di flusso dei pazienti, percorsi e procedure. (M. Mussi)

Rispetto al consenso al progetto che si è dovuto cercare per ottenere un coinvolgimento in particolare di medici e infermieri la dott.sa Mussi si esprime così:

“[…] Sono state fatte azioni sui medici, per farli entrare in una logica di condivisione di spazi e risorse, che era completamente diversa rispetto alle logiche tradizionali. Quasi tutti i medici provenivano da realtà

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ospedaliere pubbliche in cui il primario aveva il suo regno, le sue cose, la sua sala operatoria. C’era proprio da spiegare un modello di condivisione di posti letto, sale operatorie e risorse e di flessibilità completamente diverso.

Per il personale infermieristico, all’inizio facevo i colloqui di selezione con un album di fotografie del cantiere di Humanitas nel cassetto, che tiravo fuori per spiegare che l’ospedale ci sarebbe stato e com’era fatto. Loro cercavano un cambiamento in una realtà che presentava del potenziale: il fatto di proporre delle degenze multi specialistiche per gli infermieri è stata da subito un’innovazione interessante, perché voleva dire non annoiarsi nella routine. C’era tanta carica in quella fase di progetto, per cui si diventa convincenti nel portare un messaggio di cambiamento. L’idea di autonomia dell’infermiere già 13 anni fa era una cosa richiesta, non avevamo ancora l’università ma era un concetto che si stava affermando. Le capo sala più autonome e riconosciute nella gestione e non dipendenti dai primari è stata una proposta di forte richiamo per i capo sala, la non dipendenza clinica, la valorizzazione dell’esperienza professionale. Gli infermieri erano attratti dalla novità, dal fatto di uscire da strutture vecchie, da tutti i punti di vista, organizzativi e strutturali. (M. Mussi)

Valutazione e sostenibilità del progetto

Io credo che la sostenibilità nel tempo di questo progetto si sia già dimostrata e la storia stessa lo dimostra, certamente occorre che ci siano e che si mantengano alcune condizioni esterne che sono quelle del riconoscimento della complessità dell’attività e del livello di qualità dell’attività in relazione alle risorse economiche che sono destinate. Perché, se certamente in questi ultimi anni si vede una progressiva forbice che si sta stringendo da questo punto di vista, è necessario che cresca all’interno della struttura la consapevolezza che è finita la fase della grande crescita e che la fase di mantenimento è una fase nella quale, paradossalmente, ci sono altre capacità da mettere in campo. In particolare ci deve essere il mantenimento di una tensione al miglioramento continuo, senza la quale si rischia poi di “sedersi”. Quindi questo passaggio è necessario, ma lo è per qualunque impresa di questo mondo, quindi non è tanto una questione di sostenibilità del modello, quanto la capacità degli uomini che lo portano sulle loro spalle di farlo vivere. (P. Melodia)

La visione di chi, nell’equipe iniziale, ha avuto una logica di progettazione fatta per processi, è stata una visione corretta e vincente, anche se non era innovativa per il mondo in generale, ma per l’Italia lo era. C’erano già dei modelli di questo genere, pochi in Europa molti negli Stati Uniti, ma si pensava che quei modelli non fossero realizzabili in Europa, per via della cultura e di altre cose, invece non è assolutamente vero ed un processo di razionalizzazione della sanità è possibile. (I. Colombo)

Il sistema così gestito, permette anche di governare la qualità perché noi abbiamo sempre visto che, monitorando quello che avviene all’interno attraverso gli indicatori di qualità, partendo dalla customer satisfaction che è la prima informazione pur macroscopica che proviene dal paziente, i cambiamenti possono essere fatti repentinamente in funzione dell’osservazione degli indicatori e dell’informazione che il paziente fornisce. (I. Colombo)

Il vantaggio dell’efficienza è sia sulla cura del paziente, sia nel fatto di poter dare delle risposte dal punto di vista di logistica e tempi, corrette. Dal punto di vista logistico organizzativo, abbiamo dei ritorni che noi consideriamo positivi dalla customer satisfaction. Da un punto di vista degli outcome clinici mi astengo da qualsiasi tipo di giudizio, nel senso che ci sono delle valutazioni regionali che hanno visto ben la bontà del modello, ma la bontà del modello è nella bontà dei medici. Alla fine dei conti, non dimentichiamoci che il primo elemento vincente è la squadra dei medici che è capace di essere all’altezza della situazione per quanto riguarda il governo clinico. Il modello è un modello, ma la qualità clinica la fa il medico, l’organizzazione aiuta il medico è però evidente che la nostra esperienza è uguale a quella di tutti gli ospedali. (I. Colombo)

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2.2 Modello Humanitas

2.2.1 Descrizione del modello gestionale

Il modello gestionale utilizzato in Humanitas è frutto dell’idea iniziale con cui il progetto di realizzazione del nuovo ospedale è nato, cioè l’idea di poter coniugare la logica della gestione ospedaliera con una logica di gestione aziendale, avendo a riferimento le finalità espresse dalla mission:

• efficacia della cura

• umanizzazione dell’assistenza

• efficienza della gestione

• innovazione della ricerca scientifica

• sviluppo professionale degli operatori

• formazione e didattica per le professioni sanitarie.

Il modello manageriale di ICH è una transazione del modello industriale: l’ospedale è governato per processi (il processo ricovero ordinario, il processo ricovero day hospital, etc.) con un’attenta programmazione dei fattori produttivi: le risorse umane (operatori sanitari), quelle strutturali (letti, sale operatorie e ambulatori) e tecnologiche (RMN, TAC, RX etc.).

Il grafico sottostante sintetizza e rappresenta il modello gestionale di Humanitas.

• Risorse umane (medici, infermieri)• Strutture (letti, sale operatorie,ambulatori

• Nuove conoscenze scientifiche• Terapie personalizzate• Attrezzature (laboratorio analisi,

radiologia, ricerca, ...)

• Tempi più brevi• Costi certi• Sinergia ricerca/clinica

• Applicazione dei risultati dellaricerca

• Sistema informativo integrato• Controllo di gestione di tipo aziendale• Centralizzazione dei servizi diagnostico-terapeutici

Qualità e

disponibilitàdelle risorse

Produttività ed efficienza

CENTRALITA’DEL PAZIENTE

Modello organizzativo gestionale

• Gestione per progetti e processi• Contiguità di clinici e ricercatori• Condivisione dei servizi avanzati

Modello di gestione

L’amministratore delegato così si esprime descrivendo le caratteristiche del modello:

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La particolarità del modello è fatta da due principi sostanziali. Il primo principio è quello che le risorse che devono essere impegnate in un processo, sia mediche, di personale, sia tecnologiche devono essere coerenti al processo stesso. Per cui, ad esempio, in un momento di carenza di personale infermieristico, non ha nessun senso prendere il personale infermieristico e fargli svolgere una mansione amministrativa, quando un personale amministrativo ben addestrato, può fare quel tipo di compito. Quindi si tratta di fare in modo che tutti quelli che lavorano all’interno di Humanitas, lavorino per le loro competenze professionali. È questo il grande assioma generale che permette anche una maggiore flessibilità al sistema stesso. (I. Colombo)

Il nostro compito è stato quello di dare le funzioni di natura più manageriale a chi, all’interno dei processi, aveva delle responsabilità di comando e di controllo. Quindi, per la parte amministrativa accogliere 4000 pazienti al giorno e rispondere a 4000 telefonate al giorno è un onere gravoso e ci deve essere qualcuno che lo sappia fare professionalmente, altrimenti il servizio non può funzionare. Per quanto riguarda la parte assistenziale, essere dentro un policlinico plurispecialistico è un compito gravoso e si è scelto di destinare delle risorse per il controllo della parte assistenziale, dando responsabilità alle caposala o aggregazioni di caposala. Questo ha voluto dire dare delle competenze non soltanto cliniche, che sono le prime da dare nella formazione e nell’addestramento del personale, ma anche manageriali, perché in questa maniera tutti cominciano a parlare lo stesso tipo di linguaggio dal punto di vista gestionale. Il compito è stato quello di non caricare la parte infermieristica o la parte medica di informazione amministrativa, facendogli il master in economia, ma di dare le informazioni essenziali con cui si potessero orientare in un sistema, che si stava impostando in Humanitas. (I. Colombo)

Quello che si è privilegiato come modello, è stato quello di usare sempre in maniera intensiva le risorse, intese come risorse tecnologiche. Per cui la tecnologia è stata sempre installata in funzione dell’uso reale, non in funzione di quello che era un’idea astratta. Sia la tecnologia radiologica, sia la tecnologia della radioterapia, sia la tecnologia nelle sale operatorie, sia tutte le altre tecnologie possibili, sono sempre state valutate e vengono valutate in funzione di quella che è l’esigenza per la cura del paziente, considerando le nuove metodiche che volta per volta emergono perché, essendo un ospedale policlinico, si cerca di affrontare le patologie con le terapie o le cure più all’avanguardia. Quindi il modello è quello di “far fare ad ognuno quello che sa fare” garantendo una flessibilità che deve essere governata dall’interno del sistema e che si ottiene con una buona funzionalità nelle singole aree. (I. Colombo)

Il progetto fisico è sempre stato basato sul progetto gestionale, andando sempre a organizzare i flussi in modo tale che potessero essere adeguati all’uso dell’ospedale in funzione dell’intensità di cura e del percorso. In tutte le fasi della strutturazione di Humanitas si è pensato alla gestione dei flussi in modo tale che si separasse sempre il flusso dei pazienti, dal flusso dell’operatore. (I. Colombo)

La particolarità più interessante è l’esistenza di una funzione specifica, la Gestiona Operativa, il cui compito è quello di programmare gli asset ospedalieri: sale operatorie, posti letto e ambulatori. Una tale funzione, non presente in altre realtà ospedaliere, porta a numerosi vantaggi anche se si scontra con una cultura da parte dei medici non abituata a considerarne l’esistenza, il responsabile della funzione così commenta il momento della sua introduzione:

“[…] C’erano molte resistenze culturali. Contemporaneamente, ho visto che, una volta che il medico apprezza il beneficio di questo modello, che porta a non avere limiti sulle reali esigenze che vengono poste dalla sua Unità Operativa, e che pur non avendo i “suoi” letti, la “sua” sala operatoria, ecc., che non è vero, perché un certo numero di letti viene sempre occupato da loro e un certo numero di sale operatorie viene sempre occupato da loro, ha una flessibilità che in altre strutture non c’è, non ha nulla da obiettare. Quando il medico capisce che non viene tolto nulla di quello che gli sembrava di avere prima, se non una percezione psicologica di potere, e che riceve anche più di quello che altri gli davano, non ha ragioni per obiettare. (D. Lenoci)

Il Direttore Sanitario spiega ancora più approfonditamente il modello e le differenze rispetto agli altri ospedali “[…] Si è rivisto radicalmente il modello reparto-centrico in uso normalmente negli ospedali, che in alcuni casi arriva ad avere anche sale operatorie legate o dedicate a ciascun reparto. Questo comporta come vantaggio (forse) una certa specializzazione del personale infermieristico, ma come svantaggio sicuramente un utilizzo di un numero spropositato di persone. Nel nostro modello tutto è centralizzato,vi è la centralizzazione dei servizi e condivisione delle attrezzature di alta specialità e quindi ad alto costo. Ogni reparto è visto come un reparto a se stante, con più specialità, governato da una capo sala, da cui dipende un numero di infermieri proporzionato alle esigenze delle unità operative assegnate a questo reparto.

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La stessa cosa vale per le sale operatorie, ogni blocco operatorio è governato da una capo sala e, per quanto riguarda la parte medica, dal responsabile degli anestesisti e porta ad un miglior utilizzo delle sale nel corso della giornata e a un miglior utilizzo del personale infermieristico. Non abbiamo più l’infermiera strumentista dedicata ad una singola specialità, ma abbiamo che ogni strumentista sa strumentare dalle due alle tre specialità, quindi c’è anche una migliore qualificazione del personale. Questo comporta vantaggi nella gestione della reperibilità e nella gestione delle sale operatorie, quindi maggior flessibilità ed elasticità nell’uso delle risorse sia umane sia tecnologiche. Per far funzionare questo meccanismo, come ho detto prima, c’è una struttura particolare di tipo gestionale che è la Gestione Operativa, che gestisce nel modo più efficiente, le risorse letto, sala operatoria e ambulatorio. (N. Silvestri) Nel box sottostante sono riportati i principi chiave del modello gestionale di Humanitas come descritti da Richard M. J. Bohmer, professore della Harvard Business School, che ha scritto tre casi di studio su Humanitas.

Principi chiave del Modello di gestione di Humanitas Flusso dei pazienti Puntuale gestione del flusso di ammissione/dimissione dei pazienti, attraverso la pianificazione degli ingressi e la programmazione delle attività dei blocchi operatori. Le degenze multidisciplinari permettono l’ottimizzazione dell’utilizzo dei posti letto. Allineamento degli incentivi Incentivazione del personale medico tramite la quota variabile dello stipendio agli obiettivi aziendali di efficienza e qualità (50% e 50%), misurati attraverso un sistema di indicatori gestionali, economici e qualitativi. Layout fisico Edificio fisico specificatamente disegnato per supportare le attività, in modo versatile e ridurre al minimo i tempi di collegamento e gli spostamenti per pazienti e personale Sistema informativo e report di monitoraggio gestionale Sistema informativo in grado di supportare la gestione quotidiana del flusso dei pazienti, ottimizzando la disponibilità dei posti letto nelle degenze multidisciplinari. Report dettagliati sull’occupazione dei posti letto e sull’utilizzo delle sedute operatorie (quotidiani, settimanali, mensili, condivisi con il personale sanitario). (tratto da “Istituto Clinico Humanitas” Richard M. J. Bohmer Harvard Business School)

2.2.1.1 Modello gestionale, professioni e percorsi di cura Con un modello gestionale differente dagli altri ospedali anche il modo di approcciare il proprio ruolo all’interno dell’ospedale risulta differente da parte dei vari professionisti, il Direttore del personale descrive in questo modo la novità di Humanitas:

“[…] Credo che, nel lavoro del medico, Humanitas abbia promosso una cultura e per alcuni aspetti sgombrato il campo da alcuni equivoci. Humanitas ha promosso nel mondo medico l’idea di un fare finalizzato al mestiere e all’obiettivo proprio del medico, che è quello di curare le persone, fornendo, da una parte, una serie di servizi nella gestione organizzata, ma dall’altro chiedendo al medico di assumersi le responsabilità dal punto di vista del percorso clinico senza vincoli posti dall’esterno, ponendo quindi i termini dell’efficienza clinica e, ancora una volta, della qualità clinica, come parametri di riferimento rispetto ai quali la professione dovesse esercitarsi a dare il meglio di se. Si è sgombrato quindi il campo, secondo me, dal fatto che il medico deve essere anche manager, il medico non deve essere manager. Il medico deve essere un medico ospedaliero che è consapevole del fatto che la sua attività si colloca, sempre di più, in processi complessi, nei quali, oltre alla competenza professionale e specifica, occorre un’integrazione di competenze e con più funzioni, nella quale si gioca la partita del mettere insieme qualità ed efficienza.

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Per quanto riguarda gli infermieri, avendo noi teorizzato il modello polispecialistico nelle degenze, abbiamo fin da subito esercitato una sollecitazione verso le competenze professionali più articolate e più complesse e soprattutto una sollecitazione verso interazioni organizzative e relazionali più complesse. Questo secondo me è un ambito nel quale c’è ancora molto da lavorare, sia in relazione al modo di gestire e organizzare le attività, sia in relazione alla formazione universitaria. Secondo me, la formazione universitaria è ancora un’opportunità che va maggiormente colta. Soprattutto il nostro modello, nella crescita infermieristica, deve fare ancora una serie di passi avanti nella consapevolezza e nella motivazione degli infermieri. (P. Melodia)

e sul livello di integrazione che si è raggiunto a distanza di quasi 13 anni da quando ha aperto l’ospedale, prosegue:

“[…] Il livello di integrazione è più che buono, paradossalmente, nel momento in cui ci si accorge che l’integrazione va migliorata è perché si sono fatti dei passi molto importanti di integrazione fra mondi, culture, professioni che viceversa si “ignoravano”. Io credo veramente che il successo fondamentale di Humanitas sia stato, pur fra difficoltà e miglioramenti sempre necessari, la capacità di integrare molto. Inoltre, l’integrazione è partita dall’aspetto fisico perché che i reparti fossero multidisciplinari e che gli uffici dei medici fossero tutti da una parte, oppure che il management vivesse nell’ospedale, molto coinvolto in attività gestionali e organizzative, o ancora che ci fossero delle funzioni che sono nate proprio con l’idea di integrare sui processi le diverse componenti professionali, secondo me, è stato uno degli elementi e forse l’elemento di maggiore forza di Humanitas. (P. Melodia)

e infine sulle difficoltà che si sono dovute affrontare:

“[…] Io credo che le difficoltà maggiori siano legate allo sforzo di tenere assieme i due elementi che dicevo, quindi la difficoltà di realizzare in concreto la qualità e l’efficienza come risultato di una tensione positiva, convergente da parte di tutti. Allora poiché i punti di vista sono tanti e legittimi, la realizzazione di questo obiettivo comporta una consapevolezza crescente dei reciproci condizionamenti e delle reciproche esigenze. E’ chiaro che dove il contesto economico diventa più pesante, questa integrazione sconta una serie di difficoltà in più. Quindi io credo che in una prima fase, che potremmo collocare, sia pure con andamenti un po’ altalenanti, fino alla costruzione del Centro Cascina Perseghetto c’è stato un continuo porre in avanti obiettivi di crescita. E sicuramente la fase ancora più significativa, da questo punto di vista, è stata la crescita all’ospedale fino all’apertura del pronto soccorso, quindi il periodo che va dal ‘96 al 2003, che è stato il periodo della grande crescita fisica, quindi anche strutturale e organizzativa delle persone. In questo contesto, paradossalmente, ci sono difficoltà molto evidenti, che sono quelle di far partire una struttura, che si superano anche con forte slancio, mentre, una volta finita questa fase ”eroica”, rimane la gestione quotidiana che si porta dietro, evidentemente, più difficoltà. (P. Melodia)

Il Direttore Sanitario specifica meglio quali sono stati i passaggi fatti per introdurre il nuovo modello ai medici e poter garantire la continuità assistenziale e la comunicazione tra i differenti professionisti: “[…] Il primo passaggio è stato far capire al personale che tutto quello che fai è descrivibile in un processo. Noi lavoriamo per processi, come se fosse, detto brutalmente, una catena di montaggio: sono piccole tappe, che i vari responsabili. hanno disegnato, descrivendo cosa viene fatto in ciascuna giornata di ricovero. Essere consci di questo sistema e del concetto di processo, ha permesso di ottenere due risultati: il primo è la comprensione che le varie fasi del processo possono essere modificate, senza cambiare tutto e il secondo è la consapevolezza della necessità e dell’uso che viene fatto delle risorse (risorse tempo, personale, farmaci, ecc). (N. Silvestri) “[…] l’idea è stata di costruire un ospedale con la massima efficienza. Il raggiungimento dell’efficienza avrebbe portato anche al raggiungimento dell’efficacia, cioè che facendo un ospedale efficiente avremmo garantito anche la qualità. Esiste una corrispondenza biunivoca, per cui efficienza ed efficacia vengono a coincidere. Ad esempio, il fattore tempo è fondamentale: se servono tre giorni per un ricovero non val la pena tener i pazienti per quattro: faremmo del male al paziente stesso, all’ospedale e al sistema, che vedrebbe allungarsi le liste di attesa. La modalità di lavoro deve essere nota, esplicitata e standardizzata tra le diverse unità operative, così che anche la Gestione operativa riesce a lavorare e distribuire i letti. Per quanto riguarda la comunicazione, a livello di progettazione si era detto: dobbiamo trovare un sistema per cui i medici si parlino tra di loro, un sistema per cui si vedano tutti i giorni e si confrontino. Abbiamo tolto lo studio (tra le altre cose insite nella tradizione c’era anche lo studio in reparto) e abbiamo creato gli open space perché in open space ciascuno è avvantaggiato nel parlare con il vicino, confrontandosi e chiarendo i problemi. (N. Silvestri)

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2.2.1.2 Prospettive di sviluppo Questo ultimo paragrafo contiene le riflessioni dell’Amministratore Delegato, del Direttore del Personale e del Responsabile della Gestione Operativa riguardo alle prospettive di sviluppo del modello. Emerge chiaramente una direzione che porti a sviluppare una migliore integrazione tra i vari interlocutori e professionisti che operano in ospedale, procedendo anche nell’opera di dipartimentalizzazione cominciata.

“[…] Perché nato questo modello? Perché la sanità aveva un problema di erogazione di servizi e di costo dei servizi, negli anni ‘80 e un certo tipo di modello rendeva più efficiente la sanità. Perché da un certo punto in poi quello che governa è il piano clinico, quindi l’efficienza era di natura gestionale e non poteva essere un’efficienza clinica di per sé, l’efficienza clinica era quasi indotta ma non era quello il problema. Ora la sanità, per me, sta vivendo una seconda fase di crisi, che non è legata, tanto, alla crisi economica, mentre, per esempio, all’allungamento della vita media che introduce degli elementi che soltanto 15 anni fa non erano pensabili. Quindi il modello, a questo punto, deve evolvere perché è necessario interpretare quelli che sono i bisogni dell’esterno. Abbiamo delle idee per quanto riguarda l’evoluzione del modello, ma c’è anche la necessità che dall’esterno ci siano delle risposte più adeguate, parlo dei sistemi regionali, a quelli che sono i limiti che si vogliono dare al servizio e questo aspetto è assolutamente necessario e comunque le due cose vanno assieme. Nel modello che si vede oggi applicato ad un ospedale come Humanitas che ha 600 posti letto operativi, il governo e la logica di gestione è qualcosa che diventa sempre più difficoltoso, a causa delle specializzazioni che ci sono nell’organizzazione, del numero di pazienti, dei flussi, dell’attività di day hospital che è un’attività molto intensa, della day surgery che è diventata una realtà in tutti gli ospedali, che portano alla conseguenza di complicare i sistemi. Un sistema che si complica deve avere la capacità di semplificarsi e perché si semplifichi è necessario che si identifichino, all’interno del sistema, delle sottoaree con delle responsabilità autonome di governo, sia “logistico”, sia clinico. Questa è l’evoluzione che noi abbiamo visto, per la prima volta, all’interno del mondo del pronto soccorso, dove è stato creato il modello “ospedale nell’ospedale”, che è ancora in fase testing e nell’ambito riabilitativo in cui si è fatto un modello di gestione che è differente rispetto a quello della parte acuta. Per la parte acuta può essere utilizzata la logica, che è già stata introdotta nell’ambito del pubblico, della dipartimentalizzazione ed è una delle logiche che si sta studiando e che si porteranno avanti. L’obiettivo è quello di ottenere che ci sia quella capacità di flessibilità che oggi deve essere governata all’interno del cambiamento della cura, perché il cambiamento della cura, tante volte, è assolutamente repentino. Ad esempio in oncologia abbiamo visto dei cambiamenti talmente veloci, per cui è necessario un’attività coordinata della fase gestionale e di quella clinica. Il modello non può più prescindere da questa relazione, mentre all’inizio o un po’ di anni fa, i due fronti erano molto separati, la parte clinica andava per conto suo e la parte gestionale – amministrativa andava per conto suo, perché l’unica interferenza era la gestione dei servizi di base. Invece adesso le cose diventano più complesse e quindi il modello è quello di riuscire a governare una complessità, semplificandola. (I. Colombo)

“[…] E’ necessaria una capacità di crescere in modo sempre più profondo in termini di integrazione, passando da una logica di una gestione efficiente degli asset, a una logica di processi clinici, che si porta dietro un coinvolgimento certamente dei clinici e della direzione sanitaria, ma anche delle funzioni di management. Io sono sempre convinto, che a mano, a mano che si scende nell’approfondimento dei processi clinici, l’assunto iniziale della possibilità di convergenza delle due tematiche, qualità ed efficienza, risulta confermato. E’ chiaro che bisogna avere la consapevolezza che è necessario abbattere degli schemi. Faccio un esempio sulla direzione del personale; se la direzione del personale avesse ragionato unicamente sul contenimento dei costi del personale in valore assoluto, senza tenere conto di come questi dovessero evolvere nel relazionarsi con lo sviluppo della struttura, avremmo fatto molta fatica ad arrivare fin qui. E’ chiaro che gli schemi, anche nelle reciproche relazioni, devono essere visti in modo aperto. Ad esempio, fra direzione sanitaria e gestione operativa sono necessarie delle forme di integrazione maggiori, volendo andare a lavorare sui processi clinici, rispetto al periodo in cui uno pensava soltanto al più efficiente utilizzo dei diversi asset. Secondo me, sono questi gli strumenti che dobbiamo mettere in campo per affrontare i problemi che si pongo adesso. (P. Melodia)

“[…] Si tratta, fondamentalmente, di percorrere una strada, che è già segnata, che è quella dell’integrazione. L’evoluzione di questo modello è sempre più nel modello di integrazione tra le diverse funzioni aziendali e con la parte medica e assistenziale. Mi sembra che percorrendo questa strada ci si possa arricchire ulteriormente dei benefici di questo modello. (D. Lenoci)

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2.2.2 Degenze multidisciplinari Tutte le degenze di Humanitas sono configurate come unità multispecialistiche: ogni degenza ha un numero di posti letto assegnati a più UOC ed un numero di letti non assegnati definiti pool. Le degenze sono infatti denominate per numero di piano e di collocazione logistica, non per specialità clinica. Le attribuzioni di posti letto alle UOC variano ogni anno, attraverso uno strumento definito lay out.

Questo modello, che si caratterizza per la rottura del binomio unità operativa/reparto, permette una grande variabilità nella programmazione dei ricoveri consentendo sia di mantenere basse le liste di attesa, sia di garantire la flessibilità nell’utilizzo dei letti, così da assorbire eventuali picchi di accessi da pronto soccorso, con le variazioni epidemiologiche stagionali (epidemia influenzale in inverno; poli-traumatismi estivi).

Il sistema, da questo punto di vista, è stato mutuato da quello sviluppato dalla logica ospedaliera americana. Il concetto di fondo è sempre quello di poter seguire il paziente nel modo più adeguato, limitando l’ospedalizzazione laddove non è necessaria e creando dei sistemi flessibili. Ciò vuol dire che per primi, nel ‘97/’98, si è avviato il pre – ricovero, in un’epoca in cui il pre – ricovero non era necessario e non era richiesto come requisito. In questo modo si recuperano almeno due o tre giorni di degenza in cui il paziente non faceva nulla all’interno dell’ospedale se non esami diagnostici o pre – operatori, in funzione della condizione del paziente. Assegnare 20 letti, 30 letti, 40 letti a priori, non aveva nessun senso, in funzione dell’attività che un’unità faceva c’era l’uso flessibile dei letti. Si è quindi stabilito che i nostri reparti potessero essere equivalenti tra di loro e con un numero standard di letti tra 40 e 50, ritenendo che questo numero sia l’ottimale per la gestione infermieristica che è stato il primo aspetto che è stato analizzato. E’ chiaro che 40 letti devono essere occupati da 2/3 discipline e la presenza di più discipline implica un cambiamento del modello di organizzazione del medico. Si è così pensato, nel modello, di separare la location in cui il medico svolge la sua attività di ricerca o di formazione, dal reparto clinico. Nel reparto rimane la guardia, il presidio medico e quello che è necessario per il paziente, mentre ad una distanza di 30/40 metri i medici hanno il loro spazio in cui poter usare l’informazione clinica online e anche relazionarsi tra equipe ed equipe, quindi con la possibilità di scambiarsi informazioni. (I.Colombo – Amministratore Delegato) Nell’ospedale pubblico al primario è, almeno sulla carta, affidato il reparto, con i suoi medici, i suoi infermieri, la sua segretaria, la sua capo sala, la sua sala operatoria, la sua scrivania, ecc. Stupisce il fatto che qui non esista l’aggettivo possessivo, ed è il punto che si ritiene più difficile da applicare quando si pensa di adattare il modello alla realtà pubblica. Le aree multidisciplinari sono governate dalla capo sala e non dal primario, la modalità di gestione del reparto è svincolata dal primario, che invece dedica tutte le sue forze e le sue capacità alla cura dei pazienti, alla didattica ed alla ricerca. (N. Silvestri – Direttore Sanitario)

Questo modello si caratterizza quindi, dal punto di vista gestionale, per la flessibilità nella gestione delle risorse, l’integrazione fisica ed organizzativa e la versatilità strutturale, mentre, dal punto di vista clinico e assistenziale, punta all’integrazione dei percorsi di cura e alla personalizzazione dell’assistenza, allo sviluppo di eccellenti competenze da parte del personale infermieristico e allo sviluppo di strumenti e meccanismi di integrazione tra i diversi professionisti sanitari.

Dal punto di vista della gestione medica, infatti, la condivisione della stessa area di degenza tra più UOC determina la creazione di sinergie tra clinici, favorendo l’approccio multi-disciplinare al paziente. Al contempo questo modello implica che lo staff infermieristico, che gestisce la degenza, debba assolvere a compiti organizzativi e gestionali, oltre che assistenziali, e debba quindi possedere competenze multi-specialistiche ed essere continuamente formato nella gestione di pazienti con differenti livelli di intensità assistenziale. Costituendo il pilastro organizzativo del processo ricovero, lo staff infermieristico deve essere valorizzato e fidelizzato poiché un alto livello di turnover degli operatori può avere un impatto significativo sull’attività.

Penso che il fatto di avere la multidisciplinarietà all’interno della stessa degenza sia un fattore di forza. E’ un fattore di forza perché comunque tiene in tensione: è faticoso ma contemporaneamente permette di avere anche altissime motivazioni, perché comunque non c’è la routine. E poi alla fine le conoscenze che si vengono ad acquisire per poi poterle spendere sul campo sono molteplici. Certo che il ruolo del coordinatore

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diventa fondamentale, per tenere ordinati i processi, le persone, i comportamenti e controllare i risultati. (P.Tomasin – RAA area EAS) Il tema delle degenze poli-specialistiche è nato con il progetto originario di Humanitas. Ci siamo posti il problema di come garantire l’assistenza a più specialità e abbiamo elaborato un modello di assistenza infermieristica, un modello di riferimento teorico, perché avevamo considerato che non potevamo lavorare per compiti in una degenza multispecialistica e quindi abbiamo iniziato a ragionare su come si organizza il lavoro degli infermieri in questo contesto. Sicuramente non per compiti, cioè non che tutte le mattine si fa il giro letti, si fa il giro prelievi, ecc, ma cominciando ad identificare gruppi di pazienti per infermiere ai quali si fa un’assistenza più personalizzata, in modo che quell’infermieri per quel giorno conoscesse tutto di quel paziente. Abbiamo fatto un lavoro di descrizione delle attività nelle degenze, sui tre turni, in cui descrivevamo l’organizzazione degli infermieri e degli ausiliari, rispetto anche alle altre caratteristiche di humanitas, che erano avere un sistema informatizzato, avere i servizi in outsourcing, avere il supporto amministrativo del servizio clienti; cose che in altri ospedali non c’erano ancora e che hanno orientato la descrizione delle attività specifiche nell’ambito dell’organizzazione e dei piani di attività nelle degenze. La scelta che ci ha permesso di garantire un’assistenza su più fronti è stata di aver abolito un’organizzazione per compiti e di aver privilegiato un’organizzazione in cui gruppi di pazienti erano assegnati a uno o due infermieri, a seconda del numero di specialità presenti. E in questo abbiamo utilizzato già da allora strumenti di integrazione con i medici, che sono stati la documentazione infermieristica (che non è quella di oggi, perché l’abbiamo modificata nel corso del percorso di accreditamento con Joint Commission), ma fin dal primo paziente ricoverato nel ‘96, abbiamo posto un tema di cartella infermieristica integrata alla documentazione clinica, c’era una valutazione infermieristica, un diario infermieristico, la raccolta dei parametri e il foglio terapia. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali)

La programmazione e la gestione del flusso dei pazienti attraverso le degenze ospedaliere e i servizi medici è compito della gestione operativa (GO), una funzione aziendale in staff alla Direzione Generale, che programma settimanalmente i ricoveri, in funzione dell’occupazione delle degenze, cui è dedicato il paragrafo 2.3.2

L’obiettivo del costante governo ed analisi dell’andamento dell’occupazione è mantenere un tasso di occupazione compreso tra l’85 ed il 95%, garantendo un adeguato pool di letti all’EAS.

Lay out attuale delle degenze

Dal momento della sua apertura ad oggi ICH ha cambiato numerosi lay out (più di 15) per adattarsi all’apertura di nuove linee produttive e alla modificazione dell’epidemiologia dei pazienti.

Humanitas è nato con un’impostazione di degenze multispecialistiche, per cui uno spazio fisico composto tendenzialmente da 40 posti letto. Nella loro suddivisione è sempre stato utilizzato come criterio, l’identificazione di specialità simili, e compatibili/complementari. Cioè, ad una specialità chirurgica veniva associata l’unità internistica “parallela”. Esemplifico, alla chirurgia addominale a caratterizzazione oncologica è sempre stata associata la gastroenterologia o alla neurochirurgia, la neurologia. Per cui si è cercato di rendere simile la tipologia di utenza all’interno della degenza come espressione del bisogno infermieristico. Simile perché, a prescindere dalla ragione della manifestazione di un deficit, un atto chirurgico o un atto neurologico, per quanto riguarda l’aspetto assistenziale, la manifestazione di quel bisogno è sempre assolutamente similare. (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

I criteri di aggregazione delle specialità nelle degenze sono variati nel tempo, al crescere della complessità clinica ed assistenziale ha corrisposto un crescente bisogno di far convivere specialità affini per processi clinici o per complessità assistenziale.

Nella progettazione, intendendo per progettazione sia quella fisica che quella organizzativa, perché le due cose non possono essere disgiunte, si è messo al centro del sistema il paziente. Nella realizzazione delle degenze si è tenuto conto delle esigenze del paziente, cercando di fare in modo, ad esempio, che i trasferimenti fossero ridotti al minimo. Si è rotta l’equazione degenza = reparto= unità operativa, ma tutte le degenze sono diventate identiche e destinate a più unità operative in contemporanea. Nelle degenze plurispecialistiche la distribuzione dei letti risponde ad una logica di comunanza tra le varie specialità, che è andata affinandosi nel corso degli anni. La gestione del reparto era unica, con un’unica caposala. I pazienti afferivano ai blocchi operatori direttamente sui loro letti, senza trasferimenti. I percorsi sono brevi, il più lungo è sui 100 metri, e questo per motivi di sicurezza del paziente e del personale. (N. Silvestri – Direttore Sanitario)

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L’ultima rivisitazione sostanziale del lay out risale all’agosto 2008, con la configurazione di aree di degenza coerenti con il nuovo modello di organizzazione dei servizi infermieristici (aree infermieristiche, (paragrafo 2.2.5) e con i dipartimenti medici, così da realizzare la migliore coincidenza tra dipartimenti medici (discipline mediche afferenti), governo infermieristico (responsabili di area assistenziale) e lay out fisico.

Il nuovo modello è stato elaborato nel 2007, a maggio 2007 sono partite le prime 5 aree, e il modello è stato pienamente realizzato nel 2008. L’aver fatto ordine nell’aggregazione di aree con logiche di omogeneità e aggregazione anche di vicinanza fisica, ha permesso di stabilizzare le specialità nelle aree con un recupero in termini di formazione, esperienza e stabilità dei gruppi infermieristici. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali)

Al terzo piano sono collocate 3 degenze per l’attività libero professionale con 60 posti letto e la degenza D3, di 50 posti letto, quale area di medicina generale e d’urgenza. Al secondo piano le degenze di area cardiovascolare (A2 – B2), limitrofe al blocco operatorio B, all’UCC e alla terapia intensiva cardio, e le degenze di neuroscienze (C2 e D2). In queste due aree è integrata anche la prima parte del percorso di cura riabilitativo: riabilitazione cardiologica, neuromotoria e pediatrica (posti letto e palestre). Al primo piano è presente la degenza ortopedica (A1), le U.O. afferenti al dipartimento oncologico, che, accolgono anche i pazienti oncologici provenienti dall’EAS (C1 e D1) e una delle due degenze di area gastroenterologica (B1), ben collegata al blocco operatorio e all’endoscopia digestiva. Al piano terra è sita l’altra degenza di area gastroenterologica (C0), e le degenze chirurgiche (A0 e D0), di cui una destinata alla chirurgia breve (week surgery). Sono raffigurate nel lay out anche le degenze riabilitative E, corrispondenti a Cascina Perseghetto Building 8 – CCP)

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Le degenze monospecialistiche hanno un vantaggio in termini di semplicità nell’organizzazione dell’attività (un’équipe sola, quindi molti meno interlocutori a cui fare riferimento) e di specificità di competenza da parte degli infermieri, dovuta all’esperienza che l’infermiere si fa avendo tutti i pazienti della stessa specialità, quindi con la stessa patologia, più o meno. Nella degenza multi specialistica l’esperienza non è più monospecialistica, si allarga, quindi ovviamente le competenze senz’altro non sono così approfondite però sono più allargate, perché se pensate ad infermieri che lavoravano vent’anni in cardiologia, quando uscivano da quel reparto erano spaesati. Non riesci più ad avere quei meccanismi, quell’elasticità mentale che ti permette di avere l’occhio su altre cose che non sono solo il cardiogramma e altre cose specifiche per quel reparto. Il vantaggio è senz’altro questo, senz’altro è un arricchimento, però è un peso in termini organizzativi, di risorse, non indifferente. In A2, esempio, ci sono quattro specialità diverse, e di un certo tipo: due vascolari, un’elettrofisiologia e un’emodinamica, due mediche e due chirurgiche. Se lavorano per specialità, se gli infermieri sono in numero sufficiente, riusciamo ad abbinare ogni infermiere a una specialità, c’è quell’infermiere che ha un carico assistenziale maggiore, perché se ha in quella giornata interventi di un certo peso, o comunque complicanze post operatorie, eccetera, eccetera, può avere un certo peso assistenziale, che magari non ha nello stesso momento l’infermiera che segue pazienti di emodinamica: alcune volte si può creare questo divario, all’interno della stessa degenza, di carichi assistenziali diversi. Invece se lavorano per numero di pazienti, ovvero si dividono le camere, in queste camere possono trovare tutte e quattro le specialità. Quindi il vantaggio è che viene più spalmato il carico assistenziale, il disagio è che aumentano gli interlocutori medici. Il fatto che sono degenze multi specialistiche, e quindi che i letti non appartengono ad unità operativa, senz’altro permette una flessibilità nell’utilizzo di questi letti. E quindi mantiene una percentuale di occupazione costante nel tempo, in cui non ci sono picchi di letti liberi, oppure l’overbooking: Il vantaggio può essere, anche in termini di risorse, che ci possono essere alcune apparecchiature condivise tra più unità operative (S. Semplici – RAA area cardio vascolare)

2.2.2.1 Percorsi formativi

La degenza multidisciplinare comporta che il personale infermieristico debba possedere competenze multi-specialistiche ed essere continuamente formato nella gestione di pazienti con differenti livelli di intensità assistenziale. Il percorso di formazione del personale infermieristico è stato chiave nel percorso di crescita e sviluppo di Humanitas nel corso degli anni, sia a livello di ospedale, sia all’interno di ciascuna area di degenza. All’inizio il percorso di formazione è stato assolutamente presidiato e garantito. Noi avevamo una popolazione infermieristica molto giovane, tranne i capo sala, con poca esperienza professionale, ma con voglia di mettersi in gioco e motivata. La formazione, in termini di arricchimento clinico, è stata molto intensa. Nel primo anno assumevamo gruppi di persone con notevole anticipo rispetto all’avvio delle attività, fino a 15 giorni, e le mettevamo in un percorso di formazione strutturata, supportato anche da una società esterna e gestita dai medici per la parte più clinica. Nel tempo, ovviamente, man mano abbiamo utilizzato il personale più bravo ed esperto per aprire nuove realtà, così da trasferire soprattutto le conoscenze organizzative, connesse al modello. Questo sistema ci ha permesso di avere uno sviluppo molto rapido. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali) La formazione è il tasto dolente perché deve essere molto più ampia, deve abbracciare più specialità, e perché lavorando in una logica di mobilità interdipartimentale delle risorse umane, devi poi arricchirti di ulteriori informazioni e competenze che riguardano più magari le specialità dell’altra degenza. La situazione è peggiorata dal turnover di personale. (S. Semplici – RAA area cardio vascolare) Per il lato assistenziale infermieristico abbiamo delle procedure e per gli OSS ho un piano di lavoro. Il piano di lavoro è tarato però sulla complessità, come si può dire, a livello orizzontale di tutte le discipline, poi nello specifico a livello di formazione individuale, ogni infermiere conosce la complessità della tipologia del paziente. Allora l’optimum per lavorare meglio, con la multidisciplinarietà, sarebbe avere dei settori in cui i pazienti sono tutti della medicina, tutti della pneumologia, tutti dell’oncologia. E invece noi abbiamo un mix, però, con la fortuna che gli infermieri sono formati sia sull’area specialistica che sul campo e quindi soddisfano la complessità dei bisogni e il presidio del singolo bisogno, che sia di una specialità che sia dell’altra. All’interno di Humanitas sono attivati numerosi corsi per il personale: il corso delle telemetrie, il corso BLSD, ecc. C’è poi la formazione specifica dell’area: quando abbiamo un neoassunto istituiamo un mini-corso

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personalizzato fatto da due infermieri esperti che per almeno 4 ore addestrano il neoassunto all’utilizzo per esempio, di tutte le apparecchiature elettromedicali specifiche (la CPAP per i problemi respiratori, la cardiolina, le pompe volumetriche ecc.); abbiamo fatto anche discussione di casi clinici, ad esempio con la pneumologia (P.Tomasin – RAA area EAS)

2.2.2.2 Percorsi clinico-assistenziali - Area cardi ovascolare e neuroscienze I percorsi clinico assistenziali più completi e complessi nel contesto delle degenze sono quelli attivati nelle degenze di area cardiovascolare (A2 – B2) e di neuroscienze (C2 e D2). Il percorso del paziente con IMA o cardiochirurgico, dall’alta intensità (unità di cura coronarica e terapia intensiva cardiochirurgica) fino alla riabilitazione sono ben strutturati e consolidati. Noi abbiamo dei protocolli infermieristici specifici per le singole unità operative. Faccio un esempio: noi abbiamo protocollo pazienti di elettrofisiologia, che abbraccia un po’ tutte le tipologie di pazienti dell’elettrofisiologia, quindi dall’impianto del defibrillatore, piuttosto che quello del pace maker, piuttosto che l’ablazione, e traccia, dettaglia, proprio il percorso che fa il paziente una volta ricoverato, e quello che l’infermiere deve attuare sul paziente, dall’ingresso, dalla raccolta dati, alla tipologia di prelievi che deve essere fatta, ogni quanto devono essere rilevati i parametri dopo la procedura, come deve essere posizionata l’agocannula rispetto all’impianto, a destra piuttosto che a sinistra. Abbiamo questi protocolli, queste procedure, molto dettagliati, sono un documento che guida le infermiere e le orienta verso questo tipo di assistenza. La valutazione del peso assistenziale e del tipo di attività che richiede un singolo paziente viene fatta sulla base di quello che dice il medico, cioè la diagnosi fatta dal medico indirizza l’infermiere: se, ad esempio, entra un paziente con un grave scompenso cardiaco, questo innesca tutta una serie di attività,dalla rilevazione parametri più ravvicinata, al monitoraggio. La gestione nasce da quello che dice il medico e da quello che definisce l’infermiere, guidata dai protocolli, che aiutano a far sì che tutti gli infermieri lavorino in un certo modo: penso che in un paziente che torna da un’unità coronarica si sa che ogni giorno deve fare l’elettrocardiogramma, deve avere il bilancio idrico e ogni quattro ore devono essere rilevati i parametri. (S. Semplici – RAA area cardio vascolare)

Più recentemente dall’apertura dei letti di stroke unit in degenza D2, si è definito il percorso di cura del paziente con ictus, dal pronto soccorso fino alla neuro riabilitazione. In area neuroscienze, in degenza C2, sono attivi il percorso neuro-ortopedico e riabilitativo pediatrico, per i pazienti ricoverati nell’ambito delle unità operative di ortopedia pediatrica e neurorabilitazione e il recente progetto che prevede l’attivazione di un’Unità di Ortogeriatria, nel contesto della Traumatologia, per la gestione dell’anziano con frattura di femore. L’area neuroscienze è spazialmente costituita da 2 degenze, una di 50 posti letto (D2) e una di 40 posti letto (C2), poste su un unico piano, per cui si mantiene il criterio della vicinanza sul percorso orizzontale. In quest’area ci sono le seguenti Unità Operative: l’Otorinolaringoiatria, la Neurochirurgia, la Neurologia, la Stroke Unit, con un’area dedicata e alcuni letti dedicati alla Neurologia non di emergenza, la Traumatologia e alcuni letti di Neuroriabilitazione. Questi ultimi sono dedicati a quegli ammalati che passano ad una fase di stabilizzazione, prima di passare al secondo e al terzo step riabilitativo. Da questo fatto si capisce che c’è un’aggregazione di malati non solo per specialità, ma che c’è anche una scelta di locazione degli ammalati rispetto alla complessità assistenziale, all’intensità di prestazione, al monitoraggio e alle cure da erogare. […] Dal pronto soccorso il paziente entra in Stroke Unit dove rimane 5/6 giorni, viene fortemente “aggredito”, dal punto di vista diagnostico-terapeutico e dal punto di vista assistenziale, con monitoraggio elevato del tracciato elettrocardiografico, della pressione arteriosa, della saturazione, con presenza di videosorveglianza, e fin dalla prima giornata del ricovero con il trattamento congiunto fisioterapico - infermieristico. Finito questo percorso molto intenso c’è subito il passaggio, se l’ammalato è in condizioni di stabilità, in fisiatria presso la C2. Altrimenti c’è un passaggio intermedio nei letti che si trovano all’esterno della Stroke Unit, in degenza D2, e successivamente in C2. Molto raramente, avviene un passaggio diretto dalla D2 a CCP. Sempre in D2 c’è un altro percorso, sugli ammalati neurochirurgici, che hanno un tempo di degenza molto più prolungato a causa delle problematiche meno compatibili con un’accoglienza immediata in un reparto di riabilitazione. Il percorso diagnostico-terapeutico è diverso e i pazienti vengono affidati alla Neuroriabilitazione, rimanendo però in degenza D2, e a stabilizzazione avvenuta, che di solito coincide con la rimozione dei presidi di tutorizzazione delle vie vitali, vengono mandati o in strutture esterne o al centro riabilitativo. La neuro riabilitazione può prevedere fino a tre passaggi di degenza, due dei quali all’interno delle degenze (D2 e C2) di cui sono responsabile e il terzo, che è il passaggio di stabilizzazione e di

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preparazione al rientro al domicilio, avviene presso la riabilitazione del Centro Cascina Perseghetto (CCP). (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

Dove manca un’area geograficamente delimitata si deve far fronte con l’impostazione programmatica di processi di operatività rivolti a quel particolare tipo di paziente: se io non ho regole precise di approccio al paziente con patologia neurologica, non lo posso mettere vicino ad un paziente con patologia otorinolaringoiatrica per ovvie ragioni, perché non avrò mai un’adeguata specializzazione, non dico medica ovviamente, ma sostanzialmente infermieristica, che poi è il grosso dell’assistenza ospedaliera. Nell’area di neuroscienze il paziente neurochirurgico può essere accanto al paziente otorino, piuttosto che non al paziente neurologico. In questo caso ci devono essere, e ci sono effettivamente, protocolli distinti per ciascun paziente, per tutti quegli aspetti che possono essere anche sostanzialmente diversi per i pazienti neurologici rispetto a quelli della neurochirurgia. Ovviamente cerchiamo di adattare l’organizzazione anche in funzione del personale infermieristico, in modo che ci sia diciamo, chi segue specificatamente i pazienti di neurochirurgia e chi segue specificatamente quelli di neurologia. (G. Micieli - Responsabile Stroke Unit) Stroke unit e sub intensiva neurochirurgica In D2, dei 50 posti letto, solo quelli della Stroke Unit hanno un’identificazione di spazio, con un’area di monitoraggio dedicata e con una porta dedicata che la separa dal resto della degenza. In quell’area vi è un’identificazione di subintensività dichiarata e riconosciuta, clinicamente e assistenzialmente, esiste una necessità di subintensività anche all’esterno poiché riceviamo tutti gli ammalati neurochirurgici provenienti da terapia intensiva e anche i pazienti di otorinolaringoiatria come casistica cranica, sempre provenienti dalla terapia intensiva. Gli infermieri si dividono rispetto alla presa in carico degli ammalati. Per cui c’è un infermiere che segue la Stroke Unit, uno/due infermieri la neurochirurgia e l’otorinolaringoiatria, un infermiere che segue le altre specialità, malati che entrano per fare diagnostica e trattamenti farmacologici e i malati di riabilitazione. Abbiamo due centrali di monitorizzazione, una all’interno della stroke unit, dove ci sono 8 postazioni di monitoraggio fisso, con la possibilità di usare però tutte e 12 le postazioni, perché i monitor sono flessibili e tutta l’area è cablata. Esternamente abbiamo una seconda centrale, posizionata al centro della degenza, dove tutte le altre stanze hanno la possibilità di avere un monitor multiparametrico portatile, posizionabile al letto del malato, con pressione, tracciato cardiaco e saturazione d’ossigeno. L’osservazione e il livello di monitoraggio del paziente che arriva dalla terapia intensiva in reparto, avviene sempre con un passaggio di informazioni sia verbale, che scritto, sia per l’equipe infermieristica che, in parallelo, per l’equipe medica. Quando viene programmata la dimissione dalla terapia intensiva, viene data comunicazione al reparto, l’infermiere si reca in terapia intensiva con il letto di degenza, accoglie e prende in carico il malato con tutta la documentazione, ma, in particolare con una scheda sintetica per l’equipe assistenziale del reparto. Il livello di monitoraggio è condiviso, avendo creato un protocollo con il materiale necessario per creare un’unità di base per l’ammalato uscente dalla terapia intensiva, e i livelli di monitoraggio vengono prescritti dal neurochirurgo che prende in carico il paziente in base anche al trend di monitoraggio della terapia intensiva. (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

La Stroke Unit è una struttura intensiva in un contesto in cui si vuole salvaguardare i due concetti, cioè quello della multidisciplinarietà di un’area, in un modello dipartimentale come siamo noi, con l’intensità di cura. Il livello assistenziale è sicuramente da contesto intensivo/semi intensivo e quindi siamo al di sopra della degenza ordinaria come intensità di cura. In quell’ambito ovviamente i processi sono molto meglio definiti: il principio è in sostanza che se identifico precocemente una complicanza e la tratto con personale infermieristico e medico adeguato, la complicanza mi dura di meno, e la degenza mi dura di meno, e il paziente campa di più, con meno handicap, con meno reliquati. La connotazione fisica significa intensità di cura, significa anche maggior numero di personale e quindi maggiore intensità di cura: non è solo il monitor, ma anche il fatto che questo monitor sia sorvegliato e il paziente sia sorvegliato in modo pressoché continuativo. Questa è una fase che può durare molto poco, può durare molto a lungo, a seconda delle necessità, poi avviene il passaggio nella degenza ordinaria, che appunto ha un carattere della multidisciplinarietà, e questa persona viene seguita ancora in modalità un po’ più lasca, avendo bisogno di meno intensità di cure. (G. Micieli - Responsabile Stroke Unit)

La costruzione del percorso Quando abbiamo iniziato a pensare che era necessario costruire un percorso per il paziente con ictus, appena iniziata in Humanitas la Neurologia d’urgenza, per una disciplina internistica che noi avevamo già avuto ma che doveva però cambiare i tempi e le modalità di erogazione delle prestazioni, ci siamo resi conto che questo tipo di prestazioni coinvolgevano diversi settori dell’ospedale. È stato quindi fatto un lavoro congiunto tra l’equipe medica, la Direzione Sanitaria, e l’equipe assistenziale, con un coinvolgimento in

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seconda battuta dell’equipe di riabilitazione, fisiatri e fisioterapisti. Il lavoro svolto è stato quello di disegnare, passo dopo passo, il percorso dell’ammalato tipo: all’arrivo in Pronto Soccorso il paziente deve trovare un certo pacchetto di prestazioni diagnostiche, terapeutiche e assistenziali; all’arrivo in reparto un altro pacchetto, descritto, di prestazioni che deve ricevere, con una tempistica definita, da parte dell’infermiere, del fisioterapista e del medico; sempre in reparto si procede decidendo quali altri passaggi deve fare l’ammalato. (B. Miclini – RAA area neuroscienze) Il nostro livello di integrazione è con le specialità che afferiscono al problema specifico del malato cerebrovascolare, che spesso è anche cardiovascolare. Allora avremo le nostre interazioni con specialisti soprattutto della parte urgente e di urgenza, che ovviamente sono i neurochirurghi per la parte delle emorragie piuttosto che degli aneurismi, con i chirurghi vascolari per la parte che riguarda la chirurgia di carotide piuttosto che non con gli interventisti endovascolari, quando questo è necessario e con la cardiologia, perché spesso ovviamente l’ictus è o il prodotto di una patologia cardiaca oppure determina una patologia cardiaca. Riteniamo inoltre fondamentale l’integrazione della parte assistenziale, non può esistere una gestione medica senza gestione infermieristica e di fisioterapia, insomma, forse possiamo fare a meno dello psicologo, ma sicuramente dell’infermiere non possiamo fare a meno. Il concetto dell’infermieristica è così rilevante che i protocolli vengono stabiliti insieme, poi è l’infermiere che se li gestisce, l’infermiere stesso deve integrarsi con il fisioterapista perché nella mobilizzazione del malato con disabilità funzionale, paresi e plegie degli arti, la mobilizzazione fatta dall’infermiere va bene, ma deve essere fatta anche sulla base di criteri che in qualche modo sono suggeriti anche dal fisioterapista, l’approccio infermieristico non può prescindere da questi collegamenti anche con gli altri. Dall’altra parte l’infermiere deve conoscere benissimo quelle che sono le figure mediche, quindi deve sapere di cosa parlo io, e deve sapere anche cosa farà il fisioterapista, quindi il tutto è molto integrato. (G. Micieli - Responsabile Stroke Unit)

Riabilitazione e continuità delle cure La conclusione del ricovero acuto conclude un percorso anche assistenziale del malato, per cui l’ammalato viene dimesso dall’infermiere e viene compilata una scheda di valutazione conclusiva, che contiene le attività e i miglioramenti raggiunti durante i 5, 6, 7 giorni di assistenza infermieristica. A questo punto, concluso il percorso assistenziale del malato, si chiude anche la documentazione infermieristica e viene data informativa, con una lettera di trasferimento interno, ai colleghi che prenderanno in carico il paziente, di quali sono i livelli dei bisogni raggiunti, o non raggiunti, da parte del malato. (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

La continuità assistenziale significa il passaggio in una gestione con un livello diverso di intensità di cura, come può essere la riabilitazione, ma con un approccio programmatico di intervento medico che è continuativo rispetto a quello che è stato fatto in precedenza. Ora, nell’insieme questo è molto facile ovviamente nell’ambito della stessa struttura, dove c’è un contatto diretto, e quindi c’è un protocollo stabilito con i riabilitatori e i fisioterapisti, lo è un pochettino meno, quando la struttura non ha riabilitazione, allora anche in questo caso bisognerebbe trovare delle modalità di comunicazione. Il riabilitatore è nostro interlocutore più cronico, come possiamo dire più persistente, nel senso che è quello che potrebbe essere più stabile nel tempo. Perché noi saldiamo questo concetto di percorso diagnostico terapeutico con la riabilitazione iniziando veramente già in fase acuta il momento di recupero funzionale insieme al riabilitatore: fino a quando il paziente non è stabile, si ferma in stroke unit, quando comincia ad essere stabile rimane nell’ambito multidisciplinare per passare poi alla riabilitazione di fatto, che poi corrisponde come intensità di cura a quello della degenza ordinaria multidisciplinare o ancora inferiore a questo, perché di fatto l’intensità di cura è ancora più bassa. (G. Micieli - Responsabile Stroke Unit) E’ emerso un bisogno riguardante la dimissione protetta al domicilio o in altre strutture diverse dall’ospedale per acuti, dei nostri malati. Il Servizio Continuità delle Cure, in seno alla Direzione Sanitaria, diventa un’interfaccia che opera come facilitatore del processo di accompagnamento del malato e del suo entourage familiare al domicilio, con l’attivazione di una serie di prestazioni sanitarie e sociali, oppure verso una struttura riabilitativa o di lungo degenza. Questo è il primo ramo del percorso finale del paziente, il secondo vede come facilitatore del processo la segreteria del CCP, che raccoglie i flussi dei pazienti che sono stati segnalati e identificati in quanto stabili e che possono passare da un reparto all’altro. La segnalazione viene fatta dopo un briefing tra il medico della riabilitazione, che prende in carico il paziente, e il referente assistenziale, che essendo fisicamente in reparto propone una lista di candidati che, per caratteristiche cliniche – assistenziali, possono trovare un’adeguata collocazione in CCP. La scelta dei pazienti da mandare è fatta anche dialogando con il personale del CCP guardando sia le caratteristiche dei

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pazienti che le capacità che, in quel momento, hanno i due reparti, cioè disponibilità di posti letto e mix delle due realtà. (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

2.2.3 Day surgery Humanitas ha sviluppato, fin dall’inizio, un modello molto innovativo, anche e soprattutto sotto il profilo strutturale, che prevede l’inserimento dell’area di degenza all’interno del blocco operatorio di Day Surgery, unificando i due momenti del blocco operatorio e della degenza e cambiando radicalmente le modalità di accesso, con un sensibile guadagno anche gestionale in termini di tempo, di flussi, di spostamento. Questo aspetto sicuramente costituisce un elemento molto innovativo rispetto ad un impianto più tradizionale che vede i letti, o, addirittura, indistinti rispetto alle esigenze di ricovero ordinario o separati da questo ma comunque lontani dal blocco operatorio. Humanitas, nel momento in cui la grossa parte della chirurgia minore rientra via, via in una definizione organizzativa e anche tariffaria di Day Surgery, cioè un momento in cui si sta spostando l’attività tradizionalmente svolta in ricovero ordinario verso un’offerta giornaliera, attiva da subito un primo blocco operatorio e poi a distanza di un anno un secondo blocco operatorio caratterizzati dall’avere, in un’area antistante le sale operatorie una zona di degenza, divisa in un’area pre-operatoria e un’area post-operatoria, dove il paziente accede direttamente senza passare dalla degenza ordinaria. Quindi, il paziente che arriva per un ricovero di Day Surgery si cambia indossando tutti i presidi previsti per l’accesso in blocco operatorio e accede direttamente all’area di degenza antistante il blocco. Successivamente accede alle sale operatorie per l’intervento chirurgico ed esce ritornando nell’area di degenza antistante il blocco, nell’area destinata all’osservazione post operatoria.

“[…] Si è avuta intuizione che la day surgery sarebbe stata il futuro della chirurgia, e che buona parte degli interventi si sarebbero sviluppati con una modalità di ricovero corto, tipo day surgery, per cui è stata sviluppata un’attività con letti di degenza uniti al blocco operatorio in modo che il ciclo dell’intervento e del ricovero si chiudesse nella stessa area. (N. Silvestri)

Così la dott.sa Monzani (Responsabile dell’Unita operativa di Anestesia Day Hospital Chirurgico) descrive l’organizzazione del reparto:

“[…] Chi segue questi pazienti, li segue dall’inizio alla fine, quindi dal momento in cui vengono operati al momento della dimissione. Allora per un discorso di ottimizzazione e di efficienza e di miglior utilizzo anche delle risorse, quindi degli anestesisti, degli infermieri e dei chirurghi, tu devi avere un unico punto di raccolta, e poi perché il personale è dedicato: gli infermieri soprattutto, nella fase di post operatorio sono fondamentali. Sono fondamentali perché in poche ore fanno quello che gli infermieri di una degenza possono ovviamente pensare di gestirsi non in tante ore, ma addirittura in giorni, al di là di quella che è l’assistenza primaria, ma proprio quello che è il monitoraggio dell’outcome del paziente e quindi le problematiche o necessità imminenti. (R. Monzani)

“[…] Nella day surgery avere una degenza non degenza, cioè semplicemente con dei separé che sono delle tende che consentono comunque la privacy del paziente, consente di ottimizzare le risorse, altrimenti se tu hai delle stanze, l’infermiere ora che fa tutto il corridoio, entra in ogni stanza verifica, nel frattempo nella stanza di fianco o due può emergere un problema. Qui invece hai la possibilità di avere non solo gli infermieri, ma anche gli anestesisti, che costantemente passano nel, chiamiamolo, corridoio e hanno la possibilità di intercettare immediatamente un’esigenza del paziente. Questo è il vantaggio perché il turnover è elevato, anche perché ogni letto ruota mediamente 1,3 volte nell’arco della giornata. Se poi sono interventi più brevi come le cataratte sulle poltrone ce ne metti anche 4 o 5 su una poltrona. (R. Monzani)

e prosegue commentando il momento in cui questo modello è stato introdotto:

“[…] Inizialmente malissimo. Non è stato semplice, nella fase iniziale, far capire che inizialmente dovevamo passare attraverso un’organizzazione di un certo tipo per poter poi raccogliere i frutti di questo percorso, perché altrimenti sarebbe stato assolutamente fallimentare.

Così come i chirurghi devono cambiare un po’ la loro mentalità. Non c’è più la mentalità “sì il mio paziente”, il paziente fa parte di un percorso che viene condiviso con altri specialisti che comunque ti aiutano ad arrivare alla buona qualità per la dimissione del paziente.

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L’altro problema è il criterio di degenza, il paziente è qui, non è in una degenza classica e quindi il chirurgo, inevitabilmente, deve venire a controllare il proprio paziente qui, quindi ci deve essere un riferimento, deve dare un recapito telefonico, deve essere disponibile, reperibile, anche e soprattutto dopo la dimissione del paziente, perché è vero, noi abbiamo un pronto soccorso, ma è impensabile che per qualunque cosa un paziente sia riammesso… (R. Monzani)

Questo modello strutturale ha anche delle implicazioni di gestione del flusso di pazienti e organizzative delle attività di Day Surgery innovative e molto importanti. In particolare è tipico il ruolo dell’anestesista che, di fatto, assume un ruolo centrale anche nella gestione del periodo pre e post operatorio, arrivando a svolgere una funzione di dimissione, che, non completamente delegata dal chirurgo però, completa e si integra fortemente rispetto alla funzione del chirurgo, che più tipicamente gestisce la fase operatoria in senso stretto. Quindi gli anestesisti, in fase post-operatoria, svolgono la tradizionale attività di monitoraggio, ma costituiscono anche il punto di vista medico unificante rispetto all’intero percorso di Day Surgery. L’avere riconcepito la struttura ha portato anche, indirettamente, a una revisione del modello organizzativo di gestione dei flussi dei pazienti e del ruolo dei medici e soprattutto degli anestesisti. Dal punto di vista infermieristico si riproduce un po’ la stessa riflessione. Gli infermieri si suddividono in due grossi gruppi: infermiere più tipicamente di sala operatoria, strumentista e infermiere di sala e infermieri dedicati al pre e post operatorio.

Di seguito le risposte della dott.sa Monzani alle domande sull’integrazione tra le diverse figure: anestesista, infermiere e chirurgo e sul monitoraggio prost operatorio degli anestesisti

“[…] Allora il lavoro più grosso è stato agli inizi, quando ci siamo veramente seduti intorno ad un tavolo con i vari chirurghi, devo dire che ai tempi era anche più semplice perché eravamo pochi, eravamo decisamente meno, meno teste ed era anche più facile riuscire a passare l’informazione e quindi formare i collaboratori più giovani, poi le unità operative sono cresciute l’attività è cresciuta.

Effettivamente adesso devo dire che ci sono degli operatori che vengono a lavorare nella Day Surgery, che non conoscono, assolutamente, come è nato, quel è il percorso che è stato fatto, e il perché e quindi la necessità di continuare a portare avanti un discorso del genere. Un po’ anche per i motivi che ti ho detto prima, perché manca una… così, un tutoraggio, chiamiamolo così, da parte dei senior. Adesso siamo noi anestesisti che proponiamo ai chirurghi le revisioni dei protocolli, e se non ci sono particolari esigenze chirurgiche dal punto di vista loro, accettano e avvallano i nostri protocolli. Quindi il metodo è stato acquisito, ma in realtà per chi non l’ha acquisito siamo noi che lo portiamo avanti.

E con gli infermieri idem, siamo noi che abbiamo più facilmente il trait d’union oppure l’infermiere ci evidenzia una criticità, una necessità, una non aderenza ai protocolli da parte di un’unità operativa. Noi abbiamo cercato di definire un organigramma interno nostro, per cui ci sono dei anestesisti referenti per specialità chirurgica e quindi il referente si fa carico di colloquiare con il responsabile dell’unità operativa o chi per esso, identificato e che voglia colloquiare con noi, che sia il referente, in modo da cercare di colmare il problema che si è creato, ma soprattutto trovare una soluzione. (R. Monzani)

“[…] Quando il paziente va a casa, allora a distanza di 24 ore un anestesista fa una telefonata, quindi il giorno dopo fondamentalmente, solo su pazienti dove l’anestesista ci mette mano, quindi questo discorso di qualità non c’è sicuramente sui pazienti che fanno l’intervento in anestesia locale, a meno che ci sia organizzazione dell’unità operativa chirurgica che dà la stessa continuità di cura, e quindi fa la telefonata il giorno dopo.

In alcuni casi particolari, come ad esempio la colecistectomia in videolaparo, perché è già un intervento di un peso medio, come dicevamo prima, diverso e poi perché richiede un ritorno a una settimana in ambulatorio come controllo e facciamo un follow-up in prima giornata anestesiologico, in terza giornata chirurgico e in settima giornata il paziente ci ritorna, quindi si riesce a dare una continuità di cura.

L’altro punto che potrebbe sicuramente dare una migliore continuità assistenziale sul territorio sarebbe una collaborazione con i medici di medicina generale, dove però anche nelle altre realtà in giro per l’Italia è molto, molto difficile, è più facile trovare una collaborazione in un piccolo centro, dove magari si conoscono tutti, anche i medici di medicina generale, ma in grandi città come la nostra, come Firenze, Venezia, e così via, diventa veramente difficile. Il medico di medicina generale dovrebbe essere presente a seguito della dimissione per l’ottimizzazione della gestione di piccole ferite, quindi non parliamo di cose eclatanti e sicuramente nell’aiutarci a gestire meglio il dolore. (R. Monzani)

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Via, via all’interno di questo modello si è giunti anche ad una caratterizzazione più innovativa del pre-ricovero, con un ruolo sempre più forte dell’anestesista nella gestione unificata del percorso e con lo sviluppo di un’offerta peculiare di natura infermieristica volta ad un intervento di formazione del paziente nella gestione del dolore. Quest’ultimo aspetto, in questo momento, trova espressione in un progetto specifico riguardante la gestione del dolore in fase di pre ricovero. Il progetto di articola in un ambulatorio infermieristico, al quale accede il paziente prima di terminare il suo percorso di pre ricovero, dove gli infermieri illustrano, sotto il profilo del dolore, la caratteristica dell’intervento chirurgico a cui si sottoporrà il paziente. Vengono quindi spiegate le possibili manifestazioni di dolore, la necessità di segnalazione immediata, la possibilità di controllo in fase ancora ospedaliera e post-ospedaliera, si tratta cioè di un intervento di formazione che viene molto gradito dai pazienti.

“[…] Tutto questo però ha avuto decisamente un’impennata in positivo nel momento in cui, poco più di un anno fa, abbiamo inserito la figura infermieristica in pre-ricovero e quindi tutta questa parte di educazione sanitaria la fa l’infermiere e il paziente lo ascolta molto di più rispetto a se fosse un medico a dare le stesse informazioni. Perché dal medico il paziente vuole sentirsi dire i rischi dell’intervento chirurgico, la tecnica chirurgica, il risultato dell’intervento, dall’anestesista la tecnica anestesiologica e i rischi, quindi tutto quello che riguarda la sua condizione clinica e di indicazione all’intervento, dall’infermiere invece, che è colui che lo accompagna nel percorso e lo assiste è giusto, si sente più vicino ad avere delle informazioni di come prepararsi all’intervento, come depilarsi, il digiuno, come gestire la sua terapia domiciliare prima, perché magari è già in cura con dei farmaci, come gestire la sua terapia domiciliare dopo, per la gestione del dolore e perché noi facciamo certe scelte nella gestione intraoperatoria. (R. Monzani)

“[…] Gli infermieri hanno una loro scheda che è parte integrante del dossier clinico del paziente, che è una sorta di loro checklist che abbiamo definito insieme, dove fanno e vistano tutti i passaggi dell’educazione sanitaria. E loro sono il primo filtro. Quando il paziente arriva dall’anestesista, ove prevista la visita anestesiologica, l’anestesista rappresenta il secondo filtro, per cui il paziente ha una seconda opportunità per dire “ma, però, non ho ancora ben capito, ma mi spieghi”, però in questo caso è il paziente che chiede l’approfondimento sull’invito dell’anestesista: tutto chiaro? Tutto perfetto? Se il paziente dice ci sono ancora dei punti allora in questo caso interviene l’anestesista.

Il terzo filtro sarebbe il chirurgo, e ove non c’è l’anestesista, dovrebbe essere il secondo filtro di formazione su questa educazione sanitaria. Il nostro indicatore di qualità, cioè, il rinvio degli interventi la mattina della procedura prevista per paziente non adeguatamente pronto, terapia non assunta, così, è decisamente migliorato, perché l’inserimento di questa figura aveva anche l’obiettivo e lo scopo di migliorare la preparazione del paziente all’intervento, rendendolo più responsabile e consapevole dell’importanza di farlo in un certo modo. Perché altrimenti salta l’intervento programmato.

Non si mette sul tavolo operatorio nessun paziente che non sia adeguatamente preparato e in compenso. Questo è detto da tutte le linee guida di tutte le società anche internazionali, quindi anche un diabete misconosciuto che si riscontra in fase di pre-ricovero, prima viene indagato, studiato, e poi il paziente viene operato. (R. Monzani)

All’interno di questo progetto e di questo ambulatorio infermieristico di formazione sul controllo del dolore si affianca un’attività, sempre infermieristica da parte dei due professionisti dedicati. Per i casi che necessitano della permanenza di notte a qualunque titolo o di controllo del dolore dovuto alla tipologia di intervento o alle caratteristiche cliniche di base del paziente, o, piuttosto, per i pazienti che sono stati operati nel pomeriggio e che quindi non possono andare a casa perché non intercorre un tempo di osservazione minima di garanzia, i due infermieri dedicati intervengono, il mattino successivo o la sera stessa, in maniera diretta. Il loro intervento è attuato per verificare se la rilevazione del dolore è stata fatta e per procedere autonomamente in caso contrario e per ricalibrare l’intervento medico in caso non fosse stato prescritto il farmaco o comunque si dovesse in qualche modo ritarare la dose o la modalità di somministrazione. Questo ha consentito un’ulteriore qualificazione del processo di pre-ricovero che rimane comunque un momento abbastanza critico per questa attività poiché si svolge in periodi antecedenti l’accesso al blocco operatorio e talvolta presenta delle criticità di coordinamento tra i vari professionisti. Nonostante ciò, sotto il profilo organizzativo, costituisce comunque un elemento di valore.

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Documentazione

Su come viene gestita la documentazione e presidiati i processi comunicativi tra professionisti e con il paziente per supportare il percorso fin qui descritto così risponde la dott.sa Monzani:

“[…] Anche qui abbiamo identificato una documentazione iniziale che era quella suggerita dai centri internazionali che facevano Day Surgery, per cui abbiamo dei moduli che abbiamo ereditato, che sono il modulo con i criteri di dimissibilità del paziente, che si chiama hundred score, che poi noi abbiamo modificato, perché abbiamo sia gli adulti che i bimbi, lo strumento della VAS (scala di valutazione del dolore), la brochure informativa, che è stata recentemente rivista, come ben sai, per cui è diventata non più una brochure, ma un libretto di informazione su tutto il percorso e con un linguaggio molto semplice, anche alcune definizioni delle varie tecniche anestesiologiche e del perché misuriamo il dolore, del perché facciamo certe anestesie per certi tipi di intervento. (R. Monzani)

“[…] Con il paziente, abbiamo appunto studiato la brochure e l’abbiamo fatta leggere a chi non era del settore proprio per stressare il fatto che dovesse essere semplice, cioè che dovesse servire al paziente, quindi il linguaggio tecnico scientifico, non è stato assolutamente utilizzato. Ne è venuto fuori uno strumento, in realtà, ben apprezzato, ma soprattutto utilizzato dai pazienti che era il nostro scopo e obiettivo.

La comunicazione tra infermieri e pazienti direi che in linea di massima va bene, può esserci una difficoltà di comunicazione più organizzativa tra i vari professionisti. Ad esempio la necessità di sdoppiare una seduta operatoria, perché si rischia di andare in extra time quindi la ricerca di uno spazio che si è reso invece disponibile, allora magari i chirurghi parlano più facilmente con chi è in sala che può essere inevitabilmente o l’infermiere o l’anestesista, ma magari poi l’infermiere o l’anestesista non si ricordano di parlare insieme e di scambiarsi l’informazione. Quindi su quella è la comunicazione organizzativa sicuramente abbiamo ancora necessità di migliorare e ampi margini di miglioramento. Però questo è proprio un po’ dato dal fatto che ognuno si crede detentore dell’informazione e che sia sufficiente così. Perché a volte ci si dimentica di lavorare invece in équipe e insieme, quindi questo è il lavoro che si continuare a fare, stressando la necessità che chiunque abbia un’informazione la passi a chi di dovere: esistono dei referenti, almeno i referenti devono essere informati, poi loro decideranno cosa farne dell’informazione. (R. Monzani)

Formazione operatori

“[…] Sulla formazione degli operatori, anche considerando la grande attenzione che pone la dott.sa Monzani su questo argomento, esiste un piano di formazione continua molto articolata e molto pesante che porta ad un costante aggiornamento sulle tecniche anestesiologiche, puntando chiaramente al sempre minor impatto sul paziente e quindi all’uso di forme di anestesia sempre più mirate e molto leggere, con una caratterizzazione del gruppo, attraverso la metodica delle anestesie eco-guidate. Inoltre, la dott.sa Monzani ha un ruolo nella scuola delle tecniche anestesiologiche eco-guidate che si stanno sviluppando in modo molto avanzato. Gli infermieri, naturalmente, sono coinvolti in un processo di formazione anche loro molto intenso, su tutti gli aspetti che vanno dalla psicologia in anestesia, al dolore, all’alimentazione - essendo il momento della sala operatoria unificato rispetto all’area di degenza quando il paziente esce dalla sala operatoria viene approcciato dagli infermieri anche sotto il profilo dell’inizio dell’alimentazione -, all’idratazione e quindi a tutti gli aspetti più tipici dell’osservazione e della gestione post operatoria. (P. Meroni)

2.2.3.1 Protocolli e procedure Per quanto riguarda i protocolli e le procedure che regolano il funzionamento dei processi la dott.sa Monzani descrive la loro nascita, lo sviluppo e la situazione attuale:

“[…] Allora tutto è nato dall’analisi del processo, processo diagnostico-terapeutico perché comunque di fatto la Day Surgery si presta ad essere un processo completo, che parte dalla selezione del paziente, che viene fatta dal chirurgo nel momento in cui vede il paziente e dà l’indicazione chirurgica.

Allora, nel 2000 - 2001 abbiamo condiviso i criteri di selezione dei pazienti che, al di là dell’indicazione chirurgica, possono essere trattati con un tipo di ricovero di Day Surgery, avendo come riferimento le linee guida della società scientifica SICADS che è la Società Italiana di Chirurgia Ambulatoriale e Day Surgery, e della SIAARTI, che è la Società Italiana di Anestesia e Rianimazione e Terapia Intensiva.

Questi primi criteri di selezione erano, il fatto che il paziente fosse compliante, in grado di comprendere ciò che gli veniva detto, perché avevamo bisogno di una sua collaborazione, che non distasse più di un’ora, con il suo domicilio, dall’ospedale dove veniva trattato, che avesse un recapito telefonico e quindi la possibilità di telefonare e contattare l’ospedale in qualunque momento dopo la dimissione, dopo l’esecuzione

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dell’intervento, e che fosse accompagnato da una persona maggiorenne, capace di poterlo accudire la prima notte successiva all’intervento.

Al di là di questi criteri, che sono criteri socioculturali, c’erano poi dei criteri clinici, c’è una classificazione anestesiologica in 4 classi: la classe 1 è il paziente sano; la classe 2 è il paziente che ha già qualche patologia ma ben in compenso e che comunque conduce una vita normale; in classe 3 c’è il paziente in cui le morbidità aumentano e il 4 diventa quasi un rischio metterlo sul tavolo operatorio. Anche se, ti dirò, che nel tempo, con l’esperienza (ormai è dal giugno ’97 che sono state aperte le prime sale della day surgery), è un po’ superato questo criterio di selezione, nel senso che ci siamo resi conto ed ormai è condiviso che ci vorrebbe chiamiamolo uno score interdisciplinare, dove si mette insieme il rischio clinico, anestesiologico, chirurgico, l’indicazione chirurgica perché in base ad ogni tipologia di intervento esiste un grade in algico, cioè una invasività non solo chirurgica ma, chiamiamola, un’invasività dolorosa e quindi il paziente giovane può tollerare eventualmente un intervento con un elevato livello di dolore, cosa che invece magari per un paziente cardiopatico può essere un pochino più difficile da gestire e quindi la necessità di una notte di ricovero in ambiente protetto trova un’indicazione anche per questo. E poi il tipo di assistenza che necessitano, per cui, automaticamente, se non hanno nessuno che li può accudire o loro stessi non vogliono fare un intervento di Day Surgery, noi non possiamo obbligarli alla dimissione in giornata. Anche se su quest’ultima modalità devo dire che, probabilmente, fortunatamente, i nostri metodi di informazione e di educazione del paziente non ci hanno mai portato ad avere dei pazienti che rifiutassero l’intervento e il tipo di ricovero in Day Surgery, anzi, spesso e volentieri sono loro che adesso lo spingono.

Poi gli altri criteri sono stati quelli fondamentalmente organizzativi, è tutto determinato dall’organizzazione, quindi i criteri di selezione hanno portato inevitabilmente a stendere dei protocolli clinici, non tanto di tecnica chirurgica, perché devo dire che su questo i chirurghi forse non hanno ancora lavorato molto, o non hanno la stessa esigenza, noi invece che siamo il personale dedicato, quindi anestesiologico e infermieristico, abbiamo avuto l’esigenza di ridurre quello che è il gap anche dell’esperienza fra e me e l’ultimo dei miei assistenti, oltre all’infermiere cosiddetto senior e l’infermiere giovane. Questo per evitare che ognuno valutasse il recupero, ad esempio motorio, da un’anestesia loco regionale chi pizzicando, chi mettendo in piedi il paziente con il rischio di caduta, chi chiedesse semplicemente al paziente “ma provi a muovere la gamba” insomma una serie di valutazioni e soprattutto la non omogeneità di linguaggio.

Nel senso che se parliamo tutti lo stesso linguaggio, utilizziamo gli stessi score, nel momento in cui tu infermiere chiami me medico e mi chiami con una certa valutazione di score 1, 2, 3 o 4, io riesco anche ad individuare la necessità di urgenza del mio intervento e se questa urgenza necessita anche di conversione di ricovero da Day Surgery ad ordinario.

La complessità della valutazione e anche la crescita dell’esperienza, la complessità e la crescita del peso medio per chirurgia e per tipo di intervento - siamo arrivati a fare le colecistectomie in videolaparo in Day Surgery - inevitabilmente ci porta a dover rivedere queste indicazioni iniziali che adesso sono ampiamente, direi, superate.

Per cui le due società scientifiche stanno lavorando per vedere di rielaborare delle raccomandazioni o delle linee guida in base a dei valori che sono completamente diversi.

Questo sommariamente sono un po’ il percorso e i criteri: al momento della dimissione, applichiamo dei criteri oggettivi di valutazione sulla dimissibilità del paziente e poi facciamo un follow-up telefonico a 24 ore, per una sorta di continuità di cura assistenziale dopo la dimissione. (R. Monzani)

E facendo un focus sulla tutorship medica e infermieristica, in particolare durante la giornata dell’intervento, prosegue descrivendo le regole che vengono utilizzate:

“[…] Le regole che ci siamo dati, beh intanto … dato che può intercorrere un certo periodo più o meno lungo tra il pre-ricovero e la giornata dell’intervento e le condizioni cliniche possono essere cambiate, facciamo la rivalutazione del paziente la mattina dell’intervento, cosa che ci ha richiesto poi anche la joint commission.

In più, con l’avvento di joint commission e la procedura del time out abbiamo sicuramente rinforzato, soprattutto nel blocco operatorio dedicato prevalentemente all’ortopedia mini-invasiva, quello che è il discorso dell’identificazione del paziente, che venga operato della giusta procedura chirurgica, dal lato giusto e che ci sia tutto per fare l’intervento.

E’ stata protocollata, anche in base al tipo di intervento e al tipo di tecnica anestesiologica, la preparazione il giorno dell’intervento, quindi il tipo di assistenza e di monitoraggio a cui il paziente deve essere sottoposto. Per cui abbiamo definito che le anestesie loco regionali venissero effettuate al di fuori della sala operatoria, con un monitoraggio dei parametri vitali - elettrocardiogramma, frequenza cardiaca, pressione - e abbiamo standardizzato, per tipo di intervento, che tipo di anestesia loco regionale e quindi che cosa preparare e come eseguire l’anestesia loco regionale. Con l’assistenza infermieristica che sa perfettamente che non

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deve entrare nessun paziente, anche quello che deve essere sottoposto banalmente ad un intervento in anestesia locale, senza un accesso venoso. Magari non si collega un’infusione all’accesso venoso, ma l’accesso venoso ci deve essere, che in caso di necessità o urgenza, su chiamata, l’anestesista arriva, anche il tempo per incannulare una vena, quando magari uno è ipoteso potrebbe essere impegnativo e farci perdere del tempo prezioso inutilmente.

Poi abbiamo protocollato il post-operatorio, quindi dal momento dell’uscita della sala operatoria, come dovevano essere monitorati i pazienti, per quanto tempo e che cosa valutare per i tempi di recupero a seconda dell’anestesia eseguita in sala operatoria.

Un esempio pratico è quello che ti dicevo prima dello score di recupero del blocco motorio e l’altro esempio è l’anestesia generale per le colecistectomie in videolaparo, dove abbiamo definito un’anestesia generale totalmente endovenosa. Anche se non ci sono ancora delle evidenze cliniche, scientifiche, che dicono, in assoluto, che sia meglio di quella totalmente inalatoria, chi si occupa di day surgery e proprio anche per la caratteristica dei farmaci che vengono utilizzati per questo tipo di anestesia ha visto che è meglio per la prevenzione di nausea e vomito, che sono una causa di non dimissibilità, così come le anestesie loco regionali sono meglio per la miglior gestione del dolore post operatorio altra causa di non dimissibilità. Quindi tutto quello che ci può aiutare per arrivare a ottenere il più rapidamente possibile, ma nel miglior modo, la dimissibilità del paziente l’abbiamo messo in atto, per tutto quello che abbiamo a disposizione adesso.

I protocolli vengono rivisti con la cadenza di joint commission, quindi ogni 3 anni, oppure nel caso venga fuori un farmaco nuovo, o un’esigenza di revisione in base ad un audit interno.

L'altra cosa fondamentale da sottolineare è l’organizzazione, il lavorare con la gestione operativa per ottimizzare i programmi operatori, quindi rendere più efficiente la gestione di grossi volumi e di grossi numeri e ottimizzare ogni seduta operatoria in un’ottica multidisciplinare, per tutte le specialità chirurgiche, e quindi abbiamo definito dei criteri, come dire, di buon uso degli spazi operatori e quindi come stilare al meglio un programma operatorio.

Quindi i bambini hanno la precedenza su tutto, i day hospital pure hanno la precedenza su tutto, gli overnight dovrebbero andare nella seconda parte della giornata, gli interventi sull’arto inferiore, in loco-ragionale, per primi, perché devi metterli in piedi e devono avere un recupero completo dall’anestesia, le loco regionali sull’arto superiore non ci interessa il recupero completo, anzi, questo può andarci bene, perché ci aiuta a gestire meglio il dolore post operatorio anche a domicilio, quindi usiamo anzi un anestetico a lunga durata d’azione. Quindi, insomma, abbiamo cercato definire un’organizzazione che andasse di pari passo anche con quella che era l’esigenza clinica, in modo di arrivare a definire un percorso binario che magari non si incontra, ma che comunque lavora parallelamente. (R. Monzani)

Infine alla domanda su come tutto questo percorso possa incontrare le specificità di ciascun intervento, avendo molteplici specialità che lavorano in day hospital e di conseguenza moltissime tipologie di interventi, la dott.sa Monzani risponde:

“[…] Non siamo riusciti ovviamente dall’inizio ma con un po’ di esperienza siamo riusciti a definire un tempo standard per tipo di intervento chirurgico, su questo c’è la variabile dell’operatore, così come c’è la variabile dell’esperienza dell’anestesista, c’è la variabile dell’operatore chirurgico. Quello che succede e dovrebbe sempre succedere è che i senior in anestesia, in chirurgia, devono fare da tutor ai più giovani e soprattutto non abbandonarli mai in sala da soli. L’esempio palese è quando questo capita, inevitabilmente, noi andiamo in extra time e non è la colpa di quell’operatore, che va messo in condizione comunque di poter imparare il meglio e nel minor tempo possibile, per metterlo in condizione di poter espletare quella che è anche l’efficienza degli spazi operatori, necessaria non tanto per la richiesta di ottimizzazione nella gestione operatoria, ma per la consapevolezza che se tu metti in nota 5 pazienti, 5 pazienti li devi fare, 5 pazienti li devi mandare a casa e non perché tu hai delle difficoltà o hai ritardato, l’ultimo paziente può rischiare di non avere un trattamento congruo e adeguato. In questo caso l’organizzazione non avrebbe soddisfatto i criteri di qualità. (R. Monzani)

2.2.3.2 Prospettive di sviluppo Sulle prospettive di sviluppo interviene la dott.sa Meroni (Direttore Generale):

“[…] Quello che adesso si pone come riflessione in Humanitas, è lo spostamento verso una chirurgia ambulatoriale intermedia tra l’ambulatorio in chirurgia specialistica e la Day Surgery. Questo aspetto trova una lacuna regolamentare normativa che ancora non ha trovato uno sviluppo e che ci porta al problema di avere nei blocchi operatori, che ormai fanno una chirurgia di Day Surgery su patologie di peso, un’altra chirurgia su patologie che addirittura oggi la normativa avrebbe collocato in ambito ambulatoriale, ad esempio cataratta o tunnel carpale. A causa di questo vuoto di regolamentazione, questi interventi devono

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trovare ancora posto, per motivi di garanzia del paziente, all’interno della Day Surgery, con uno spreco evidente di risorse tecnologiche e umane, perché, in questa situazione, si deve fare riferimento agli standard di personale della chirurgia, mentre l’oculista è il primo a dirti che il secondo operatore in sala, per la cataratta, è del tutto inutile; la copertura dell’anestesista è obbligatoria mentre ormai l’oculista è autonomo, perché siamo arrivati a forme di sedazione così blanda che, se l’attività fosse svolta in un contesto più ampio e indipendente, chiaramente presidiato con la presenza costante dell’anestesista, indubbiamente sarebbe tutto più facile, più snello. Quindi, da questo punto di vista, forse l’aspetto normativo e regolamentare che manca, è proprio quello che definisca l’evoluzione di parte della chirurgia in una chirurgia ambulatoriale. Effettivamente ancora oggi non ci sono riferimenti e stiamo comunque pensando ad un modello strutturale alternativo, con il problema che se comunque devi riprodurre una sala operatoria il vantaggio è sui flussi, meno sulle caratteristiche strutturali, per cui forse non vale la pena replicare altri ambienti, però è una discussione in atto. In ogni caso, con il costante spostamento su livelli organizzativi più soft di molta chirurgia, indubbiamente la direzione da intraprendere è quella delle cose sempre più piccole, più mirate, meno invasive. (P.Meroni)

“[…] Sempre all’interno del processo di costante spostamento verso forme sempre più leggere di anestesia, si è sviluppato anche un processo di riflessione dei chirurghi sui protocolli, non tanto di intervento tecnico-chirurgico essendo questo legato ad altre variabili, ma di una gestione chirurgica di alcune patologie molto leggera per il paziente. Citerei, tra tutte, il protocollo in atto sul fast track chirurgico per il carcinoma del colon. C’è un progetto che sta coordinando il dott. Bona, che vede uno specifico trattamento e una preparazione dei pazienti che devono essere sottoposti ad intervento per questa patologia e che ha rivisto completamente tutti i criteri di preparazione del paziente, alleggerendoli moltissimo. Il paziente viene portato in perfetta idratazione all’intervento e in buona alimentazione contrariamente a quanto si pensava fino ad oggi, lo si porta cioè nelle condizioni ottimali non avendolo affamato per giorni, disidratato o iperidratato, ma portandolo nelle migliori condizioni di equilibrio possibile. L’obiettivo è quello di mandare a casa il paziente in seconda giornata, oggi sono in terza per prudenza, ma bisogna considerare che, in condizione tradizionale, siamo ancora a 8, 10 giorni di degenza. Quindi c’è un approccio che è sempre più volto al rispetto dell’equilibrio iniziale del paziente e quindi alla minor invasività sotto tutti i punti di vista, naturalmente son tutte tecniche che si coniugano anche con tecniche mini invasive dal punto di vista chirurgico. (P.Meroni)

Infine considerando una valutazione di successo o insuccesso del modello la dott.sa Meroni conclude:

“[…] in termini di qualificazione di quella tipologia di attività io confermerei pienamente il modello adottato in Humanitas. Sicuramente pone dei problemi di integrazione dei chirurghi rispetto alla loro appartenenza alla disciplina e quindi anche all’attività che svolgono non in Day Surgery, svantaggio che viene in qualche modo superato o comunque mitigato dal vantaggio di avere una maggiore / migliore integrazione sul profilo specifico di Day Surgery, quindi ci sono dei pro e dei contro ma francamente mi sembrano più i vantaggi. (P.Meroni)

2.2.4 Dipartimenti medici

Il progetto di creazione dei dipartimenti medici si è avviato nel 2005, ha avuto la fase di maggior sviluppo nel 2007 ed è tuttora in corso (cfr. tabella)

Il processo di dipartimentalizzazione in Humanitas è stato solo in minima parte legato a necessità gestionali (i meccanismi di governo degli aspetti programmatori e gestionali dell’assistenza erano già molto sviluppati, e oggetto di attenzione da parte del personale sanitario), maggiormente finalizzato invece al miglioramento dell’integrazione dei percorsi di cura e dei comportamenti clinico assistenziali (governo clinico) e all’integrazione delle attività di ricerca e didattica. La mission del dipartimento, descritta nel regolamento1, prevede infatti:

• approccio integrato delle tre funzioni di assistenza, didattica e ricerca; • approccio multiprofessionale nell’erogazione del servizio al cliente;

1 Ciascun dipartimento è definito con disposizione organizzativa aziendale, che contiene il regolamento del dipartimento, articolato in: Definizione e Mission; Finalità dell’organizzazione dipartimentale; Obiettivi; Organigramma del Dipartimento; Ruolo e Funzioni del Coordinatore di Dipartimento; Ruolo e Funzioni del Responsabile di Unità Operativa Clinica; Gli Strumenti di integrazione e coordinamento; Nomina del Coordinatore di Dipartimento; Valutazione del Coordinatore di Dipartimento

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• orientamento delle attività all’efficacia clinica, all’appropriatezza e alla qualità dell’assistenza;

• coordinamento della ricerca clinica e sviluppo dell’innovazione. Gli obiettivi dell’organizzazione dipartimentale sono, principalmente, la promozione dello sviluppo delle discipline dipartimentali, alla luce della best practices e dell’eccellenza clinica, anche attraverso la proposta di tecnologie e metodiche innovative; il coordinamento delle attività di assistenza, didattica e ricerca in ottica multidisciplinare e multi professionale; la promozione della qualità dell’assistenza, attraverso l’adozione di strumenti di governo clinico e di una metrica di valutazione condivisa. Tabella: Dipartimenti attivati, anno di attivazione e u.o. afferenti

Dipartimento (responsabile) anno U.O. afferenti

Dipartimento Anestesia e Terapia Intensiva Generale (dr. Giovanni Bordone)

2005 Anestesia 1, Anestesia 2, Anestesia 3

Dipartimento Cardiovascolare (dr. Ettore Vitali)

2007 Cardiochirurgia; Cardiologia Clinica I; Cardiologia Clinica II; Chirurgia Vascolare I; Chirurgia Vascolare II; Ecocardiografia; Elettrofisiologia ed Elettrostimolazione; Emodinamica, Cardiologia Invasiva e Unità di Cura Coronarica; Anestesia e Terapia Intensiva Cardiochirurgica

Dipartimento Diagnostica per Immagini (dr. Giorgio Brambilla)

2006 Ecografia; Radiologia Diagnostica; Radiologia Vascolare e Interventistica;

Dipartimento Gastroenterologia (prof. Alberto Malesci)

2007 Chirurgia Generale III; Chirurgia Generale e Mini-Invasiva; Gastroenterologia ed Endoscopia Digestiva; Servizio di Endoscopia Digestiva; Medicina Generale ed Epatologia

Dipartimento Medicina Riabilitativa (dr. Stefano Respizzi);

2006 Neuroriabilitazione; Riabilitazione Ortopedica; Riabilitazione Cardiologica e Respiratoria

Dipartimento Oncologia (dr. Armando Santoro)

2007 Oncologia ed Ematologia; Chirurgia Generale Oncologica; Chirurgia Toracica; Medicina Nucleare; Radioterapia e Radiochirurgia; Senologia

Dipartimento Medicina Interna (prof. Mauro Podda)

2008 Clinica Medica; Medicina d’Urgenza; Medicina Generale e Pneumologia; Medicina Generale e Nefrologia; Endocrinologia e Diabetologia; Dermatologia; Reumatologia; Dialisi; Centro Trombosi

Dipartimento Ginecologia e Medicina della Riproduzione (dr. Paolo Emanuele Levi Setti)

Ginecologia e Medicina della Riproduzione; Ginecologia;

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2.2.4.1 La Riabilitazione in Humanitas

Struttura autonoma di 6.000 metri quadrati e situato di fronte all’ospedale, il Centro di Riabilitazione ospita 120 posti letto divisi in 3 degenze dedicate alla riabilitazione ortopedica, neurologica e cardiorespiratoria. Sono a disposizione dei 270 pazienti che ogni giorno si rivolgono al Centro, 6 palestre, 12 sale per terapie manuali, 4 ambulatori e un percorso vita per la riabilitazione outdoor con un putting green per i disabili.

L’ultima fase è stata quella della riabilitazione perché in Regione Lombardia c’era un’esigenza di riabilitazione e anche nell’ambito di Humanitas si poneva in maniera intensa il problema, in quanto i pazienti venivano trasferiti in altri centri per la continuità della cura di riabilitazione, soprattutto a livello neurologico. Di conseguenza si è entrati a far parte della programmazione regionale di destinazione di posti letto per la riabilitazione e quindi questo sito di riabilitazione è stato costruito nel nuovo palazzo dove ha sede anche la Ricerca, e così il progetto di Humanitas è stato completato. (I. Colombo)

Allora com’è partito, nel ’96 abbiamo aperto Humanitas e fin dall’inizio c’è stato il servizio di riabilitazione. Era un servizio, non avevamo neanche letti, i primi giorni, poi immediatamente si è passati anche a un’unità operativa. Eravamo due medici e quattro fisioterapisti, adesso siamo 16 medici e 47 fisioterapisti. (S. Respizzi)

All’inizio sostanzialmente era un’attività che svolgevamo in gran parte in consulenza, il mondo ortopedico era l’80%, non c’era niente altro, c’era un po’ di neurochirurgia ma non c’era neurologia e quindi più che altro lavoravamo sui pazienti ortopedici. andata avanti fino al 2006, quindi per circa una decina d’anni, quando Humanitas nella persona dell’Amministratore Delegato mi ha chiamato e mi ha fatto vedere il progetto del Centro Cascina Perseghetto (Ricerca e Riabilitazione) facendomi vedere i disegni e tutte le cose e proponendomi di tornare per presidiare questo progetto. Io naturalmente ho accettato la sfida e l’idea è stata quella di partire fin da subito con un’impostazione di tipo dipartimentale che mi sembra di poter dire che in effetti funziona. Quando sono arrivato ho immediatamente cominciato a immaginare una squadra, che fosse coerente con questo tipo di andamento. (S. Respizzi)

Con l’apertura di Cascina Perseghetto (CCP), la riabilitazione in Humanitas diventa l’esempio di Dipartimento che unisce alle funzioni di integrazione e governo clinico una forte caratterizzazione strutturale. L’attività del dipartimento dal punto di vista clinico si esplica principalmente nella definizione di percorsi di cura, criteri clinici per il trasferimento in riabilitazione, criteri per la gestione dei pazienti per livelli di intensità di cura crescente: vedremo di seguito, raccontato dal Responsabile di Dipartimento, l’esempio dei percorsi di cura di area cardiologica, e, riportato nel paragrafo 2.2.2.2 , l’esempio dei percorsi di cura di area neurologica.

Noi abbiamo una procedura che descrive tutto quello che accade al paziente dal reparto per acuti al reparto di riabilitazione, depositata in Direzione Sanitaria. E’ in questo momento molto orientata sull’aspetto neurologico che è quello su cui abbiamo lavorato di più, ma è facilmente riproducibile anche per altri tipi di malati. In particolare, noi stiamo lavorando molto su due altre tematiche, che sono il malato cardiologico, cardio-operato e il malato fratturato di femore. (S. Respizzi)

La caratterizzazione strutturale – gestionale è resa maggiormente evidente dall’esistenza di un un edificio dedicato alla riabilitazione.

Abbiamo iniziato il dipartimento nell’ottobre 2006, abbiamo aperto le degenze nel giugno 2007, e all’inizio è stata una cosa molto caotica perché siamo passati immediatamente da 90 a 140 letti in un mese e l’impatto è stato terribile sul personale. Poi pian piano abbiamo aumentato i fisioterapisti fino ad arrivare al numero che abbiamo adesso è stata molto difficile anche la selezione, facciamo l’esempio dei fisioterapisti, sono stati fatti circa 150 colloqui per assumerne 25. E poi la formazione ai nuovi assunti, la loro integrazione nel sistema e questo ci ha portato anche allo sviluppo di un modello simile a quello delle REFA e delle RAA per i fisioterapisti. La responsabile dei fisioterapisti ha fatto un progetto di sviluppo di questo modello con la scelta di 4 fisioterapisti referente sostanzialmente che fanno riferimento a lei e che sono stati formati con un progetto formativo vero e proprio che è durato 6 mesi, e che adesso sta funzionando bene. Infine ho un

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controllo di tutto quello che accade con dei report specifici che mi manda la Pianificazione e controllo, ed è una reportistica che hanno sviluppato molto bene, su mie indicazioni, che mi arriva tre volte alla settimana, in cui mi dicono il numero di pazienti presenti e come sta andando l’attività di tutto. (S. Respizzi)

Riabilitazione in degenze strutturate per intensità di cure

Con l’apertura dei 120 posti letto di CCP e la necessità di rispondere ai bisogni di riabilitazione specialistica dei pazienti ricoverati in Humanitas (dove, nel frattempo sono stati aperti 12 posti letto di Stroke Unit), anche l’offerta del Dipartimento di riabilitazione si è rimodellata.

E’ un fatto che noi abbiamo profondamente modificato il case mix, riducendo i pazienti ortopedici elettivi della protesi, e facendo salire quelli della Riabilitazione cardio e della Neuroriabilitazione. Questo ha, da un punto di vista numerico, ridotto dal 60% al 50% i pazienti ortopedici più facili e aumentato dal 40% al 50% gli altri due messi insieme. Un meno 10% e un più 10% non è una differenza piccola, è enorme perché questi pazienti sono molto più complessi. Quindi questi pazienti così gravi, così complessi, così impegnativi rischiano di vedere la presenza dei vari aspetti che abbiamo visto nella scheda comparire molto più frequentemente. (S. Respizzi)

I pazienti riabilitativi complessi richiedono un approccio multi professionale, che integri il trattamento riabilitativo, medico e infermieristico. L’integrazione tra figure professionali differenti è particolarmente sentita in riabilitazione, per cui all’interno del dipartimento si sono dati strumenti e modalità di lavoro costruite ad hoc (documentazione, passaggi di consegne, sistemi di indicatori di processo ed esito, come l’iper2)

Per prima cosa c’è il diario clinico fatto dai medici, c’è il diario infermieristico fatto dagli infermieri, e c’è la nostra carta di monitoraggio che serve a monitorare quello che fanno i fisioterapisti. Questi 3 strumenti noi abbiamo provato a metterli in unico foglio, ma viene troppo grande ed è impraticabile perché è scomodo. Quindi siamo costretti a fare uno sforzo per andare a vedere cosa hanno scritto gli altri, peraltro se io facessi un unico foglio, quando lo sta usando il fisioterapista non lo può usare l’infermiere, e così via. La soluzione sarebbe evidentemente l’informatizzazione. Inoltre ci sono, quotidianamente, momenti in cui avvengono le consegne, che sono il momento decisivo in cui c’è un confronto diretto tra il medico, l’infermiere e il fisioterapista su quello che accade. La complessità della riabilitazione, rispetto alle altre discipline, è che c’è una terza figura professionale, il fisioterapista, che si introduce nella discussione tra medico e infermiere. (S. Respizzi)

Percorsi di cura, area cardiologica

L’interfaccia con la parte acuta inizia, prima che il paziente passi in riabilitazione, perché tutti i pazienti che noi trattiamo vengono gestiti dai nostri fisioterapisti fin dall’inizio, fin da quando sono in fase acuta. Quindi abbiamo un passaggio di informazioni da fisioterapista in acuto, al fisioterapista che è in riabilitazione, con un foglio, ancora una volta una specie di carta di monitoraggio, che fa arrivare di qua la notizia al fisioterapista. Abbiamo realizzato questo foglio che è un documento di una pagina in cui si descrive in quali condizioni è il paziente e le attività che gli sono state fatte.

Facendo l’esempio del mondo cardio, i pazienti che noi seguiamo hanno un percorso di questo tipo: vengono operati, o hanno avuto un infarto per cui vanno a finire in terapia intensiva cardochirurgica, oppure vanno a finire in unità coronarica. Quindi il paziente fa un passaggio in degenza A2 o in degenza B2 che sono le degenze cardiovascolari e poi lo prende in carico il dott. Aglieri (riabilitazione cardiorespiratoria). Complessivamente sono pochi pazienti, 7/8 al massimo e collocati in un mondo omogeneo dal punto di vista delle patologie e quindi c’è un’ottima interfaccia con i colleghi cardiochirurghi o cardiologi per cui il paziente viene gestito da un’equipe davvero multidisciplinare. Anche gli infermieri sono molto capaci in ambito cardiologico e il mondo cardio è sempre stato il nostro punto di forza, per cui la nostra presenza lì è transitoria nel senso che il paziente sta nelle degenze per acuti qualche giorno e poi il dott. Aglieri lo sposta di qua in riabilitazione. Quindi il paziente fa tre passaggi, unità coronarica, torna in A2 B2, e poi viene di qua, appena è un po’ più stabile. Il paziente non percepisce neanche il fatto che è in carico alla riabilitazione pur essendo in cardiologia perché è una realtà molto controllata. (S. Respizzi)

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Il sistema IPER2 (Indicatori di Processo, Esito in Riabilitazione)

Il sistema iper2, messo a punto dal Dott. Bernardini, responsabile della neuro riabilitazione di Humanitas è un set di indicatori finalizzato a descrivere in modo oggettivo l’insieme delle caratteristiche cliniche e funzionali del paziente, monitorare i processi di cura e valutare i risultati, così da pesare e classificare la complessità del paziente e misurare l’appropriatezza e i risultati del percorso riabilitativo.

Questo aspetto, con uno strumento come questo viene fuori. Ti misura il peso del paziente, il peso assistenziale, se un paziente ha il sondino, ha le ulcere da pressione, ha il catetere, è incontinente e ha la tracheo, la possibilità di lavoro si riduce di molto. Ma io sono convinto che dal punto di vista di medico- fisiatrico, sia un ricovero appropriato lo stesso, perché se no chi è che da una risposta a questi pazienti? (S. Respizzi)

Si basa su scale di misura validate e su indicatori binari (presenza/assenza di una determinata condizione), viene valutata e descritta l’anamnesi pre- morbosa (condizioni cliniche del paziente preesistenti all’evento indice), le caratteristiche cliniche e funzionali al momento della valutazione (suddivise per marcatori di complessità e di dipendenza funzionale), viene registrato quanto accade nel processo di cura (indicatori di transizione) e l’esito del ricovero.

Partiamo dalla prima parte, che è la scheda anagrafica essenziale: chi è il paziente, da dove arriva perché è stato ricoverato; con però dei dati interessanti che sono: che cosa gli è successo, in che data è accaduto l’evento, quando è stato dimesso ad esempio dalla stroke unit, quando è stato preso in riabilitazione e la data di dimissione definitiva. Quindi abbiamo un percorso cronologico longitudinale. Quando il paziente arriva da noi abbiamo la necessità di individuare le condizioni pre-morbose, ci si riferisce con questo modello ai pazienti complessi. Quindi il paziente cardio-operato, il paziente che ha avuto un infarto, il paziente con stroke. Il paziente prima com’era? Questa prima parte della scheda, che può compilare un infermiere, ad esempio, ti consente già di capire che se le condizioni rilevate sono tutte presenti, hai di fronte un paziente molto difficile da gestire, molto complesso. Poi, quando viene visitato questo paziente, possono essere somministrate delle scale di disabilità che sono internazionali e che ci permettono di dargli un peso anche dal punto di vista funzionale. Ad esempio il Mini Mental Test, è il test che dice il grado di demenza. Poi c’è la parte della scheda che riguarda l’attività medica senza dimenticare il fatto che c’è la sovrapposizione della figure, una parte è infermieristica e una parte è fisioterapica. Il medico si deve occupare del fatto che ci sia “Riduzione di vigilanza/coma”, se ha un delirium, se è instabile dal punto di vista clinico, se ha delle infezioni, se non riesce a parlare. […] Una seconda parte: malnutrizione, sondino, ulcere, incontinenza ecc. è l’attività tipicamente infermieristica, che viene compilata secondo la stessa logica (presenza/assenza). […] Poi c’è passaggio prono supino, controllo del tronco questa è una parte dei fisioterapisti, cammina o non cammina? […] Poi c’è una parte ancora di indicatori cosiddetti di transizione, cioè se il paziente ha avuto degli eventi durante il ricovero, ad esempio delle infezioni, che si sono risolte sì/no, e tutta quest’altra parte che va a pesare il ricovero come esito: dal decesso alla dimissione a domicilio del paziente. Quindi questo modello serve a marcare il percorso del paziente in riabilitazione. A partire dal momento in cui entra in acuto. Adesso a questa pagina si aggiunge un'altra pagina, che è quello per lo stroke, specifica per lo stroke, e il dott. Aglieri sta facendo quella specifica del paziente cardio respiratorio. Allora, questi quattro filoni: stroke, fratture di femore, cardio-respiratorio, e quello dei pazienti pediatrici oramai sono ben marcati.. Questo modello, secondo me, ci permetterà, nel tempo, di misurare bene quello che noi facciamo. (S. Respizzi)

Referente

Data dimissione RGG

Data ammissione RGG

Data dimissione acuti

Data evento indice

Data di nascita

TIMELINEStruttura

DIPENDENZA FUNZIONALEAlimentazione

Passaggio supino/seduto

Controllo del tronco

Trasferimenti letto / sedia

Sit to Stand

Stazione eretta

Cammino

MARCATORI DI COMPLESSITA’

Delirium

Instabilità clinica

Infezioni acute in atto

Disabilità comunicativa >2

Depressione

Dolore

Disfagia

Malnutrizione

Sondino NG / PEG

Ulcera da pressione

Tracheostomia

Catetere vescicale

Incontinenza Urinaria

Catetere Venoso Centrale

Riduzione vigilanza/coma

No SiNo Si

PRESENZA DI Amm. Dim.

SAHFE Score

Rankin modificata

Prem. Amm. Dim.ASSESSMENT SCORE

AC

Es Infezione non urinaria

ACE non infettivo

Caduta

INDICATORI DI TRANSIZIONE No Si

Infezione urinaria

Contenzione fisica / farmacologica

Trattamento con antidepressivi

Trattamento del dolore

Trattamento nutrizionale orale

Nutrizione artificiale

Prescrizione ausili personalizzati

SiESITO DEL RICOVERO

M FId. Paziente

Barthel Index (BI) Score totale

BI subsc. deambulazione

Mini Mental Test

Scala Disabilità Comunicativa

Proviene RIC Motivo

Dimissione al domicilio senza necessità di ulteriore riabilitazione

Dimissione al domicilio con necessità di proseguire la riabilitazione in ADI

Decesso

Trasferimento UO acuti per instabilità clinica

Trasferimento in UO acuti

Trasferimento RSA

Trasferimento altra riabilitazione

Trasferimento in Day Hospital riabilitativo

ANAMNESI PREMORBOSA No Si

Fragilità sociale

Complessità clinica

Insu

ffici

enza

S

ever

a

Malattie oncologiche attive

Demenza

Renale

Epatica

Respiratoria

Cardiaca

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2.2.4.2 Pronto Soccorso e Medicina d’urgenza Cinquemila metri quadrati dedicati all'emergenza con 7 sale visita e 18 postazioni di osservazione, shock-room per la gestione contemporanea dei codici rossi, sala gessi e sala operatoria per piccoli interventi, locale di isolamento a pressione negativa, TAC, radiologia digitalizzata, 60 posti letto dedicati all'urgenza, 6 postazioni di Unità di Cura Coronarica e 12 di Stroke Unit, che si aggiungono ai 18 posti letto di terapia intensiva generale e cardio, presenti in ospedale.

Il Pronto Soccorso di Humanitas è stato realizzato tenendo conto dei più avanzati modelli di costruzione e organizzazione per garantire la gestione ottimale del paziente. Le funzioni di alta specialità legate all'emergenza garantite da un'équipe multidisciplinare (medici internisti e chirurghi, infermieri e tecnici specializzati) sono Medicina e Chirurgia d'urgenza, Rianimazione, Cardiochirurgia, Cardiologia Interventistica, Unità di Cura Coronarica, Chirurgia Toracica, Chirurgia Vascolare, Neurochirurgia e Traumatologia. A queste si aggiungono tutte le specialità già presenti nell'ospedale. Il Pronto Soccorso di Humanitas è stato concepito come un vero ospedale nell'ospedale , un centro autonomo capace di soddisfare tutte le esigenze di urgenza ed emergenza grazie ad un'équipe di medici ed infermieri specializzati, spazi per diagnosi e terapia dedicati, un'area di degenza riservata ai pazienti che, una volta arrivati al Pronto Soccorso, hanno necessità di essere ricoverati. A rendere evidente la separazione tra l'attività d'urgenza e quella dell'ospedale è l'ingresso del Pronto Soccorso collocato sul retro di Humanitas, in via Perseghetto. Una struttura quindi separata, autonoma rispetto all'edificio esistente, anche se ad esso funzionalmente collegata, in particolare con il Blocco Operatorio, Terapia Intensiva e Unità di Cura Coronarica. Grazie a questa organizzazione, i casi urgenti possono essere trattati immediatamente, senza creare un impatto sulle prestazioni programmate dell'ospedale.

“[…] Il progetto poi, è evoluto, sempre in funzione delle esigenze del territorio che erano evidenti. Per cui l’idea iniziale del Pronto Soccorso è stata rivista totalmente e la fase di costruzione, anche in questo caso è stata preceduta da un paio d’anni di analisi dei flussi, delle esigenze, andando a vedere aree equivalenti e omogenee alle nostre, già presenti sul territorio milanese e lombardo, in modo da simulare quelli che sarebbero stati i flussi e quello che poteva essere il modello organizzativo che volevamo portare avanti. Si pensò cioè, di creare una discontinuità tra il mondo elettivo e il mondo del pronto soccorso, in modo da poterlo controllare e questo progetto organizzativo fu battezzato “Ospedale nell’ospedale”. Il progetto fisico evidentemente teneva conto di quelle che erano le esigenze di un pronto soccorso e del servizio da erogare ai cittadini. Il dimensionamento pensato all’inizio del 2001 era per 60 mila accessi all’anno di massimo per non entrare in una logica di disfunzione, considerando che Humanitas non ha la parte pediatrica, e di fatto nel 2009 si stanno raggiungendo i 55 mila accessi. Quindi il progetto fu studiato adeguatamente e risponde dopo 10 anni a questi requisiti. (I. Colombo)

Penso che l’ “ospedale nell’ospedale”, che è l’ospedale di Pronto Soccorso, è stato costruito nella logica di costruire un modello che consentisse di mantenere i meccanismi di gestione dell’elettivo come erano stati costituiti e, accanto, pianificare un altro ospedale che avesse la logica dell’emergenza. Infatti, sono stati dedicati, da progetto, 160 letti proprio perché i meccanismi di gestione fossero integrati. Questa integrazione in parte ha funzionato, perché non abbiamo visto un annullamento dei meccanismi elettivi e la Gestione Operativa ha continuato a fare il lavoro che faceva prima dell’apertura del Pronto Soccorso, in parte ha chiesto alla Gestione Operativa di sviluppare degli skill di previsione diversi. Prima, infatti, si aveva una visione abbastanza certa sulle previsioni di ingressi e dimissioni, perché le informazioni erano chiare grazie al fatto che il paziente era elettivo. Oggi, con il PS, la Gestione Operativa non sa quanti sono gli ingressi in più che vengono da PS per gestire l’intero ospedale. Questo ha richiesto alla Gestione Operativa di acuire maggiormente le capacità di previsione e ci sono delle serie storiche, che descrivono il funzionamento del fenomeno PS, che possono essere utilizzate, non in maniera rigida, per fare delle previsioni. (D. Lenoci)

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L’apertura del pronto soccorso di Humanitas (2003) – punti chiave Studio e pianificazione Analisi della popolazione e stima del numero di accessi, del tasso di ricovero e della durata media della degenza, definizione del fabbisogno di posti letto Layout fisico Costruzione di un nuovo edificio per il pronto soccorso, con una degenza direttamente collegata tre reparti di degenza ai piani superiori. Studio dei percorsi per codice colore di triage. Spazi attesa distinti per pazienti e familiari Diagnostica per immagini dedicata al pronto soccorso (Rx e TC) Sala operatoria dedicata all’urgenza e Unità di Cura Coronarica (UCC) Organizzazione e personale Personale della medicina d’urgenza che gestisce in degenza i malati che ha ricoverato in pronto soccorso (organizzazione che minimizza il rischio di burn out del personale dedicato al solo pronto soccorso facilita la continuità della cura). Equipe di chirurgia d’urgenza che svolge il 70 – 80% della propria attività per il pronto soccorso, ma mantiene un legame forte con l’attività chirurgica elettiva. Per la chirurgia specialistica (es. neurochirurgia o cardiochirurgia) il paziente passa direttamente in carico alle U.O di competenza. Personale infermieristico esperto dedicato al ps. Gestione dei ricoveri da pronto soccorso Accessi medici centralizzati in un’unica area di degenza (inizialmente la D0, adiacente al pronto soccorso), per facilitare la gestione di pazienti che hanno problematiche molteplici, complesse ed emergenti, a differenza del paziente elettivo, che ha tipicamente un singolo problema diagnosticato prima del ricovero ospedaliero. Per facilitare l’integrazione con i diversi specialisti consulenti, sviluppo di protocolli clinici per la gestione delle principali patologie e dei quadri sintomatologici più frequenti in pronto soccorso, con indicazione anche degli specialisti di riferimento da coinvolgere nella gestione (150 protocolli disponibili in intranet aziendale). Discussione settimanale dei casi da parte dei medici di pronto soccorso, confronto con gli specialisti. Confronto regionale su specifici indicatori di performance in ambito dell’emergenza urgenza (tempo dall’accesso in pronto soccorso all’intervento di angioplastica per i pazienti con IMA, tempo di inizio della trombolisi per i pazienti con ictus). (tratto da “Istituto Clinico Humanitas (C): Pronto Soccorso” Richard M. J. Bohmer Harvard Business School)

“[…] L’apertura del pronto soccorso per noi ha significato aggiungere posti letto, aggiungere complessità organizzativa, con regole da definire ed esplicitare. Siamo partiti con l’idea dell’ospedale nell’ospedale: le degenze D, ad eccezione dell’oncologia, erano le degenze del pronto soccorso, in particolare la D0. Nel tempo questa logica si è persa, perché il contenitore non era sufficiente e siamo andati in una logica più dipartimentale e di aree. Ecco, in coincidenza con l’apertura del pronto soccorso, di cui non avevamo esperienza, la nostra difficoltà come servizi assistenziali è stata doppia, perché ha coinciso anche con una difficoltà di reclutamento di risorse infermieristiche. (M. Mussi)

“[…] Il pronto soccorso ha uno staff infermieristico autonomo, che fa solo pronto soccorso, un piccolo staff medico che fa pronto soccorso, e un altro staff sempre medico che fa insieme pronto soccorso e degenze, che ruota fra pronto soccorso e degenze. E’ il modello che ci siamo dati all’inizio, di medici che non facessero solo pronto soccorso, per evitare sindromi da burnout o che se ne andassero dopo pochi anni. Adesso sì abbiamo un piccolo staff che fa solo PS, tuttavia di gente che vocazionalmente ce l’ha proprio richiesto. Per quanto riguarda l’attività in pronto soccorso i medici hanno tre tipi di funzioni, possono seguire i codici gialli e rossi, i codici verdi e dall’anno scorso abbiamo un medico nei giorni feriali per 8 ore sui codici bianchi. Direi che, per quanto riguarda la maggior parte delle professionalità, sono abbastanza scambiabili, cioè chi fa i codici bianchi può anche fare i gialli e viceversa, e questo aiuta anche ad allentare tensioni o a dare una certa varietà nel lavoro che vien fatto. C’è un responsabile organizzativo di PS che, oltre a fare la turistica, fa i turni di pronto soccorso e coordina le necessità immediate, le richieste di materiale, i contatti con il 118. (S. Badalamenti)

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L’EAS è abbastanza dipartimentalizzato, nel senso che nell’EAS io posso in qualsiasi momento prendere uno della pneumologia e mandarlo in pronto soccorso, quindi si riesce a fare di necessità virtù con un numero di medici che quando è stabilizzato è attorno ai 30, a far girare bene il sistema in pronto soccorso, negli ambulatori e in reparto. Direi che i dipartimenti dovrebbero essere visti in quest’ottica. (S. Badalamenti)

I nostri medici, parlo dei medici dell’EAS, ricevono qua la formazione ALS, BLS, ATLS gratuita, che ne fa dei medici molto preparati., cioè chiunque dei miei medici dell’EAS è molto più bravo di me, lo posso spostare da un ambulatorio in reparto o alla sala codici rossi in pronto soccorso, ed è autosufficiente. (S. Badalamenti)

Degenza e pronto soccorso: la medicina d’urgenza L’area medica mantiene con il pronto soccorso un rapporto privilegiato Il dott. Badalamenti, responsabile della Medicina d’Urgenza (EAS) e vice direttore del Dipartimento di Medicina, ha il punto di vista migliore per descrivere il rapporto tra degenze e pronto soccorso nel modello adottato in Humanitas. Di seguito sono riportati i passaggi più significativi sull’argomento, emersi durante l’intervista con il dott. Badalamenti e con Patrizia Tomasin, RAA della medicina d’urgenza

“[…] La degenza multidisciplinare internistica per eccellenza è la D3, dove si trovano attualmente pazienti di medicina interna, pazienti di medicina d’urgenza, di nefrologia e di pneumologia. Il modello Humanitas fa sì che le unità operative abbiano sinergie e, nelle fasce orarie del mattino dalle 8 alle 9 e del pomeriggio dalle 18 alle 20, ci sia sempre un medico in comune per tutte queste unità operative, che fa una guardia, anche se non è una guardia istituzionale è in realtà una guardia convenzionale fra queste unità operative. Mentre durante i giorni feriali dalle 9 alle 18 ogni unità operativa ha i propri medici sui letti. I rapporti medici/letti variano rispetto al periodo, alle ferie, alle dimissioni, medici presenti o non presenti: cerchiamo sempre di mantenere il rapporto di un medico ogni 6/8 letti, massimo 10 nei periodi di ferie, e quindi stiamo dentro a quelli che sono i criteri di qualità di accreditamento regionali, di un medico ogni 10 letti per le specialità mediche. Tuttavia, quando riusciamo a mantenere un rapporto migliore, questo consente una migliore gestione del paziente e una riduzione dei tempi di degenza. Dal punto di vista qualitativo, credo che il medico che lavora nella degenza multidisciplinare, soprattutto il medico che fa anche pronto soccorso, sia in assoluto il medico più qualificato e più formato, perché interagisce con altre specialità e interagisce anche con le attività di pronto soccorso. Per cui il lavorare in una degenza multidisciplinare è un arricchimento per il medico. (S. Badalamenti)

La medicina è molto più sul paziente, quindi anche chi presta assistenza ha un rapporto un po’ più diretto con il paziente dal punto di vista della comunicazione, con anche tutte le difficoltà legate a questo, perché comunque hai più anziani, hai più pazienti con problemi sociali, ecc. E poi c’è una complessità clinica che tu devi saper cogliere quasi dagli occhi, guardando il paziente e un bravo infermiere questo lo sa. L’attività della degenza è meno standardizzabile: per esempio noi potremmo avere che per 3 giorni non usiamo il carrello delle emergenze e poi magari abbiamo 3 arresti cardiaci contemporaneamente, mentre in una degenza chirurgica la complessità è legata al post operatorio, che può essere più o meno complesso in base alla tipologia di intervento, ed esistono dei protocolli che guidano la gestione del paziente nel post operatorio (ad esempio, prelievo a 3 ore per 3 giorni, infusione di antidolorifico, se è una complicazione quelli sono i sintomi ecc ecc). Ecco lì forse sono più standardizzabili. Diciamo che la medicina d’urgenza all’interno di Humanitas è un ospedale nell’ospedale che ha dei confini tracciati. (P. Tomasin)

Fin dall’inizio come tutti i pronto soccorso ci sono state, e ci sono ancora attriti, fra i medici di pronto soccorso e i medici di reparto, soprattutto di reparti non afferenti all’EAS, quando c’è da ricoverare qualche paziente, soprattutto pazienti di un certo impegno. Sono meno gli attriti in Humanitas che altrove, proprio perché la maggior parte dei pazienti ricoverati da pronto soccorso va in degenze afferenti all’EAS e quindi sono gli stessi medici che se li ricoverano nei propri letti. Questo limita il contenzioso. Tuttavia non lo elimina, per cui sicuramente più all’inizio, ma ancora adesso, ci sono momenti di attrito: i più anziani di pronto soccorso hanno sviluppato capacità diplomatiche e relazionali tali che riescono a moderare questi attriti, mentre è normale che i più giovani, i medici che arrivano in pronto soccorso da poco, abbiano momenti di contenzioso anche pesanti con i reparti. Lo stesso vale per quanto riguarda gli infermieri, gli infermieri di pronto soccorso, un po’ per la tipologia del lavoro e un po’ per la carenza di organico, vivono una situazione di tensione cronica, che tentiamo di allentare con la turnazione, chi fa triage passa a fare OBI, chi fa OBI passa a fare il triage, codici verdi, periodi di formazione, si cerca insomma di evitare che siano dei portatori di stress. Tuttavia anche in questi casi con i reparti non sempre c’è un’interazione, una concordia, soprattutto quando gli infermieri di pronto soccorso hanno bisogno di svuotare il pronto soccorso carico, e trovano nei reparti resistenze, cambio turno, aspettate altre 2 ore, e questo fa sì che gli animi si riscaldino, e anche qua vale il discorso che i più anziani

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di pronto soccorso, proprio perché conoscono i caposala e gli infermieri dei reparti, riescono a mediare meglio queste tensioni, che fra i più giovani scoppiano e finiscono sempre per coinvolgere la caposala, che chiama me e poi si cerca sempre di mediare. Sì il mio lavoro è un lavoro di mediazione. Se il pronto soccorso trovasse dietro delle degenze rigide che so, la degenza di ortopedia, che prende solo pazienti ortopedici, la degenza di gastroenterologia che prende solo pazienti gastroenterologi, sicuramente avrebbe bisogno a quel punto di un’astanteria di pronto soccorso più grande. Perché i pazienti andrebbero sicuramente nella degenza più appropriata, ma non entro 24 ore. (S. Badalamenti)

2.2.5 Aree infermieristiche Il modello organizzativo originale, caratterizzato da degenze polispecialistiche e multifunzionali per permettere una più ampia flessibilità di risorse e di integrazione dei processi di cura, ha mantenuto i suoi punti di forza fino a quando la struttura ha potuto gestire l’attività di ricovero in regime ordinario, attraverso una capace pianificazione dei ricoveri elettivi. Nel tempo si è potuto osservare che al crescere della complessità clinica ed assistenziale ha corrisposto un crescente bisogno di aggregare le specialità secondo criteri di omogeneità e di buona pratica clinica. Le aree di degenza così concepite necessitano di un forte coordinamento organizzativo e gestionale, ma anche di un forte presidio della qualità dell’assistenza. Il progetto di organizzazione delle aree infermieristiche ha visto una ridefinizione dei livelli di responsabilità del coordinamento infermieristico, orientandoli verso queste due direttive: il controllo gestionale e il miglioramento dell’integrazione clinico/assistenziale. Si sono così identificati i profili di RAA (Responsabile di Area Assistenziale), che svolge funzioni di maggiore contenuto gestionale, tra cui la gestione del personale, delle risorse strumentali, il monitoraggio dei costi, e di REFA (Referente di Area Assistenziale), che segue il processo di ricovero dei pazienti presidiando il livello di integrazione clinico/assistenziale. I ruoli di coordinamento per le aree assistenziali sono due: la responsabile di area (RAA) e la Referente Assistenziale (REFA). La riflessione si è resa necessaria per la complessità della gestione di aree infermieristiche composte da una o più degenze e dalla necessità di decentrare a livello di area alcune attività gestionali, che venivano gestite a livello centrale. Noi partivamo dal capo sala di degenza, che presidiava gli aspetti organizzativi, funzionava da interfaccia per l’azienda si occupava di formazione, dei rapporti con parenti, con la gestione operativa, degli ordini, la farmacia, la turnistica. Questa concentrazione di attività non era più sostenibile con una sola figura, e ne impediva la partecipazione a progetti, riunioni o altre attività di innovazione organizzativa. Abbiamo iniziato una riflessione sul ruolo del coordinatore, cioè del capo sala, confrontandoci anche con il modello sviluppato nel pubblico che vede dipartimenti con un responsabile infermieristico di dipartimento e la figura del capo sala come responsabile di reparto. Nell’esperienza del pubblico è spesso emerso un problema di interferenza tra figure con competenze sovrapponibili, a livello di dipartimento e reparto, in particolare rispetto alla gestione delle risorse. Quindi noi abbiamo fatto una prima sperimentazione, differenziando i ruoli, creando un percorso di crescita per i capo sala verso il ruolo di responsabile d’area, con una funzione più gestionale e manageriale, per rispondere anche all’esigenza aziendale di qualcuno che entrasse in una logica più economica e presidiasse non solo la turnistica, ma anche i costi, i presidi e la qualità e le attività progettuali. Rimane fuori il controllo e il governo dell’assistenza, cioè il governo assistenziale e clinico e la gestione dei rapporti con i medici, i pazienti, i parenti. Abbiamo studiato in letteratura il modello del nurse coordinator, e abbiamo sviluppato un ulteriore profilo di coordinamento basato più sui processi assistenziali. Il percorso di definizione e formazione dei responsabili di area è stato completato, e comporta:

• la responsabilizzazione nella gestione delle risorse all’interno di tutta l’area, compresa la gestione della mobilità tra degenze intra area. Rimane un supporto centrale per la gestione di situazioni di crisi di personale che richiedono la mobilità di risorse tra diverse aree;

• la formazione specifica e tecnica del personale nell’area, per le competenze che caratterizzano lo specifico di ciascuna area (ad esempio, l’utilizzo delle telemetrie in area cardiovascolare), con obiettivi di inserimento specifici sulla clinica, la farmacologia e la gestione delle strumentazioni dell’area.

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• La partecipazione a progetti e la proposizione autonoma di progetti, che è un obiettivo a cui vogliamo arrivare.

Quest’anno è dedicato al consolidamento del ruolo del referente assistenziale, che è il ruolo più originale, quello che rischia, se non è ben definito, di replicare quello che nel pubblico è il ruolo della vice capo sala o dell’infermiera fuori turno, che noi invece vorremmo sviluppare con capacità di definire i protocolli assistenziali, entrare nelle logiche della qualità, dell’utilizzo degli indicatori, di qualità della documentazione sanitaria, l’insieme di quelle attività più inerenti al governo assistenziale e clinico e gli interlocutori più diretti anche dei medici. Su questo abbiamo sviluppato un percorso di formazione specifico e strutturato, in via di approvazione, pronto per essere implementato, con l’intervento di risorse interne e esterne all’azienda. Il programma prevede anche momenti di formazione specifici per i coordinatori dei servizi e momenti di formazione comuni anche con le RAA. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali) Il nostro modello organizzativo, quello appunto a cui sono arrivati i Servizi Assistenziali stabilisce una figura infermieristica di coordinamento sull’aspetto gestionale, che è la Responsabile di Area Assistenziale (RAA), che si occupa quindi di processi più trasversali e identifica poi una nuova figura che è un po’ il fiore all’occhiello del modello, che la referente assistenziale (REFA), che invece ha più una funzione di esperto clinico, quindi presidia in modo più particolare e più vicino, tutto quello che è il processo di cura del paziente e quindi è senz’altro più vicina all’attività dell’infermiere: ha una funzione di integrazione tra infermiere e medico, una funzione di passaggio delle informazioni che ruotano intorno a questo processo. I benefici senz’altro ci sono stati, nel senso che effettivamente questa figura più vicina e più staccata da altri aspetti più gestionali, ha più tempo e modo di dedicarsi all’assistenza. Mentre la responsabile d’area invece è staccata dalla quotidianità (anche se poi non si rispecchia in tutte le realtà, perché non tutti hanno i referenti) però può occuparsi, appunto, più di progetti trasversali, quindi gestionali, di ricerca, di progetto, questo è un po’ l’obiettivo, che ci stiamo impegnando a raggiungere. […] E’ stato un cambio molto faticoso, abbiamo dovuto a costruire i profili, forse la novità era quello, perché inizialmente io ero una caposala su due degenze, e non avevo ancora dei REFA. Il lavoro più grosso è stato quello di definire questi due profili e trasmetterlo poi ai gruppi infermieristici e medici. Ancora adesso alcune volte facciamo un po’ fatica a definire bene gli ambiti in cui lavora la REFA e cui lavora la RAA, perché la RAA in questo modello non dovrebbe presidiare costantemente le degenze, ma dovrebbe essere molto più staccato dalle degenze. Il rischio tante volte è quello di delegittimare il REFA, che invece sul coordinamento degli infermieri, sul loro inserimento e su alcuni aspetti deve avere una propria leadership, deve trasmettere indicazioni ben precise. Secondo me i REFA devono avere ancora più autonomia rispetto quella che hanno adesso, praticamente loro devono guidare il gruppo infermieristico le esigenze, integrarsi con i medici. Il RAA non è avulso dalla degenza, assolutamente, però deve lavorare con un'altra modalità, solo in situazioni di progettualità o di criticità. La nuova organizzazione ha determinato dei vantaggi sulla gestione del personale, perché è maggiore il pool di infermieri su cui poter contare in momenti di criticità e questo mi ha garantito praticamente di non dover mai chiedere aiuto né a un'altra responsabile di area o ai servizi assistenziali. Poi senz’altro per gli infermieri permette di dare l’opportunità di cambiare degenza, pur rimanendo nell’ambito cardiovascolare, e di cambiare ogni tanto gruppo, sia infermieristico che medico, che a volte fa bene e permette di fare altre esperienze. Certo hai a che fare con più equipe mediche, e questo è un grosso lavoro, che senz’altro ti allarga molto le vedute, ti permette anche di imparare cose diverse, o vedere problemi sotto un'altra luce, perché dividere le loro esperienze e quindi senz’altro un arricchimento. Anche trasmettere l’esperienze di un equipe ad un'altra equipe, e noi questo l’abbiamo fatto parecchie volte, senza imporlo però facendo capire che se predavamo quella strada probabilmente sarebbe stata utile anche per questa equipe, quindi senz’altro è stato un momento di crescita per tutti. (S. Semplici – RAA area cardio vascolare) Nonostante ci sia un unico coordinamento infermieristico, esistono due equipe infermieristiche “separate” e lo dico virgolettato perché in realtà stiamo introducendo una mobilità interna che abbiamo verificato essere estremamente efficace. Fa bene agli operatori, e fa bene all’organizzazione dei due reparti perché la rende, dal punto di vista dei macro processi, più simile. Per quanto riguarda gli infermieri, visto che le competenze da sviluppare sono quelle della C2, alcuni senior della D2 vanno in degenza C2 e coprono delle posizioni peculiari, ad esempio diventano tutor per il corso di laurea, oppure diventano tutor per l’ingresso dei neoassunti, in modo tale che, nel tempo, poche persone senior, possono creare le competenze ed il clima organizzativo adeguato. (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

Un vantaggio per Humanitas è di avere persone molto motivate e fidelizzate, che hanno partecipato allo sviluppo della struttura e sono ancora motivate a fare le cose, per senso di appartenenza.

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L’altro grosso vantaggio è di avere infermieri disponibili a spostarsi di area o funzione. Un infermiere magari non si sposta volentieri, ma si sposta. La cultura della flessibilità è passata e permette di far fronte a molte criticità. L’età media della nostra popolazione è anche una ricchezza, la giovane età aiuta ad entrare in dinamiche più di cambiamento e sfida. Una cosa che credo sia importante sottolineare è che non è vero che non c’è integrazione medico infermieristica in Humanitas. A livello periferico, magari può essere problematica per i medici, soprattutto primari, l’interfaccia con la RAA. Ma la capacità degli infermieri di entrare in una logica di modello flessibile, dinamica, aperta è alta, anche per chi arriva da fuori. Da questo punto di vista, la cultura medica appare più arretrata nell’interpretare il ruolo dell’infermiere. Chi ci visita rimane colpito per la flessibilità che ancora oggi anche a livello dipartimentale nelle altre strutture non è passata. E poi l’autonomia degli infermieri: esistono ancor oggi strutture in cui è il primario a valutare il personale infermieristico. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali)

2.2.6 Tutorship medica e infermieristica In ICH, al momento dell’accettazione medica il paziente riceve informazione scritta su chi sarà il suo tutor medico per tutta la durata del ricovero. E’ tuttavia significativo il fatto che i medici, nelle interviste, offrano diverse accezioni di tutorship medica, molto sfaccettate e interessanti, ma in alcun modo influenzate da questa scelta organizzativa che caratterizza ICH fin dalla sua nascita. La riflessione sulla tutorship medica è ancora quasi esclusivamente focalizzata sulle modalità e i tempi di interazione con gli altri colleghi medici della propria disciplina e, soprattutto, con gli infermieri con i quali permane ancora una dichiarata difficoltà nell’identificare momenti congiunti di confronto sui casi. Sembra, pertanto, che il permanere di criticità di processo nelle degenze multisciplinari contribuisca a mantenere un’ottica molto interna alla professione senza una piena valorizzazione del ruolo di tutor nei confronti del paziente la cui ottica, purtroppo, è poco presa in considerazione nelle riflessioni svolte. La comunicazione tra medici ovviamente è quotidiana, c’è sempre bisogno di un momento di fermo delle bocce, per validare un protocollo, ci sono valori problematici ad un certo punto e quindi devono essere rivisti, aspetti che vanno un verificati, limati, sistemati in funzione delle esigenze che uno ha, di numerosità del paziente, piuttosto che di complessità ecc. Quindi questo richiede degli incontri periodici con operatori che definiscono in modo più dettagliato certi percorsi. La parte che riguarda il personale infermieristico, diciamo che dipende molto anche dalla numerosità del personale infermieristico, perché questo è un limite che abbiamo vissuto in questi ultimi mesi, quello di non avere, per esempio, la disponibilità dell’infermiere, non dico durante il giro visita, ma almeno diciamo il pre giro, che è la discussione di tutti i casi che noi facciamo quotidianamente in una riunione che può durare mezzora, tre quarti d’ora, un’ora, che potrebbe arricchire molto il personale infermieristico ed essere momento di condivisione. Viene comunque condiviso il progetto terapeutico, però la necessità di acquisizione di informazione del personale infermieristico potrebbe essere soddisfatta molto meglio. Lo stesso si può dire che vale per il fisioterapista, che potrebbe essere una delle persone coinvolte in questo tipo di incontro, che non vedo come settimanale, ma proprio quotidiano. Noi in realtà sui singoli pazienti abbiamo un contatto praticamente quotidiano con entrambi gli operatori e quello che dico io è che è un po’ troppo breve, cioè se uno deve fare un salto di qualità nella preparazione verso il malato, deve farlo anche con qualche delucidazione in più rispetto alla brevità di comunicazione, questa persona ha questo, facciamo quest’altro e così via, cioè bisognerebbe perderci un po’ più di tempo per inquadrare bene, per dire in che direzione va la diagnostica, la terapia, in che direzione va l’opinione del medico, magari se non c’è una diagnosi ben definita. (G. Micieli - Responsabile Stroke Unit)

Per quanto riguarda la tutorship infermieristica emerge in modo chiaro il grande lavoro svolto nella ridefinizione e diversificazione del ruolo professionale anche attraverso l’identificazione di profili diversi all’interno delle degenze: l’infermiere specialista di disciplina, l’esperto di patologia, il responsabile di processi trasversali alle discipline, etc. Ancora parziale appare, invece, la definizione dei diversi ruoli e contributi nel processo di gestione del malato: il chi fa, che cosa e quando non rispecchia compiutamente un approccio che si fondi sulle diverse autonomie professionali ormai riconosciute.

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Nell’ambito dell’area sono da potenziare le competenze professionali specifiche e trasversali del personale infermieristico. L’anno scorso, ad esempio, abbiamo formato un gruppo infermieri su alcune metodologie di insegnamento attive, in particolare il PBL (Problem Based Learning), così che facessero da tutor clinici agli studenti del corso di laurea in infermieristica. Il tutor clinico è un infermiere che segue gli studenti durante il tirocinio ed è riferimento per il corso di laurea (consegna gli obiettivi di tirocinio, è di riferimento nelle attività formative, partecipa alla valutazione del tirocinante ed è direttamente coinvolto nelle attività didattiche). Abbiamo formato 15 infermieri in diverse aree. E’ in evoluzione la riflessione anche su altre competenze trasversali, ad esempio, le infezioni ospedaliere: noi abbiamo un’attività centralizzata, ma può essere utile identificare infermieri esperti che si facciano interlocutori del livello centrale. Questo è un modo per dare un riconoscimento e una valorizzazione agli infermieri, in termini di specificità e specializzazione (ad esempio, l’infermiere esperto nella gestione delle piaghe da decubito, nelle medicazioni avanzate). Riconoscere le competenze avanzate degli infermieri arricchisce il livello qualitativo delle aree e valorizza l’infermiere, che ha una competenza che lo differenzia nel gruppo, motivandolo a rimanere ad esercitare la sua professionalità in area di degenza, altrimenti spesso l’infermiere preferisce altre aree, come quelle critiche. Stiamo pensando a profili anche inter-area e ci stiamo confrontando con altre esperienze di percorsi post laurea di specializzazione dell’infermiere, alternativi al coordinamento. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali)

La medicina d’urgenza, per esempio, chiede molto la consulenza del chirurgo ortopedico per il piede diabetico, con la necessità di avere anche un punto di riferimento infermieristico sulla gestione delle medicazioni. Abbiamo identificato un’infermiera che fa un orario giornaliero che sa fare le medicazioni come punto di incontro tra lo specialista, il medico e il paziente, in modo che tutti e quattro (tutor, specialista consulente, infermiera e paziente) sappiano effettivamente come va, per esempio, la medicazione del piede del paziente, oppure si raccordino nella programmazione dell’intervento e nella richiesta degli esami ecc. Chirurghi e infermieri lavorano insieme, riconoscono le reciproche competenze: magari quando il chirurgo arriva in reparto trova già il piede medicato e il beneficio del paziente è visibile. (P.Tomasin – RAA area EAS) Mi piacerebbe che l’infermiere lavorasse, che potesse riflettere, che potesse pianificare meglio e quindi avesse più tempo per comunicare con il paziente e con il medico: pianificare insieme il piano di cura, prevedere le potenziali necessità alla dimissione. Ad esempio ci troviamo spesso in difficoltà sulla continuità cure, perché capiamo tardi che il paziente vive solo o che a problemi e ritardiamo l’attivazione del Servizio continuità delle cure. (S. Semplici – RAA area cardio vascolare)

Relazioni personale infermieristico e medico

Il medico per la sua specialità sa chi è il suo infermiere quel giorno di mattina e di pomeriggio, perché poi la notte anche per noi è un’attività prevalentemente di sorveglianza su tutti i pazienti. C’è un infermiere identificato quindi che è in grado di interfacciarsi con il medico rispetto ai bisogni del singolo paziente, e dare delle risposte e ricevere delle indicazioni. Ci sono differenze rispetto alle singole aree e rispetto al tipo di unità operativa, in particolare tra u.o. mediche e chirurgiche. Ci sono poi dei momenti di debreefing organizzati o la mattina presto o nel cambio di turno, in funzione della presenza medica, continuativa o per fasce preferenziali. Il giro visita, in cui sono trasferite informazioni significative per il percorso clinico, salvo eccezioni, non vede la capo sala, se non come conoscenza di dinamiche di relazione e verifica dell’attività degli infermieri. L’infermiere è detentore delle informazioni del paziente e responsabile della trasmissione ai medici e ai colleghi infermieri durante la consegna. A livello di integrazione l’orientamento è stato sempre quello di utilizzare molto la cartella, avere momenti di breefing e debreefing a seconda dell’organizzazione dell’unità operativa clinica e di responsabilizzazione dell’infermiere rispetto al passaggio delle informazioni. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali) Nella degenza di medicina rimane un’organizzazione per equipe: ci sono 52 posti letto, divisi in 4 settori che vengono mantenuti il più possibile in modo che indicativamente un infermiere segue 13/14 pazienti, dall’inizio alla fine del turno, di cui ha la responsabilità. Li prende in carico al momento in cui arriva e li lascia in carico a qualcun altro quando se ne va. In questa presa in carico fa parte anche la responsabilità di interagire con i vari medici che si susseguono all’interno dell’unità operativa. Attraverso le scale di valutazione noi riusciamo ad avere il quadro della situazione del paziente che può andarsi a modificare in miglioramento o in peggioramento durante il periodo di degenza, all’interno della

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struttura. Quindi anche, come si può dire, l’intensità di cure, che poi si va a dare all’uno o all’altro è diversa, diventa differenziata. La difficoltà che delle volte si va ad incontrare è che gli infermieri avrebbero un bisogno costante di interfacciarsi con il medico e delle volte il medico è preso e non rinforza quello scrive in cartella, magari con due parole in più all’infermiere. E sarebbe valore aggiunto. Poi può capitare che nella quotidianità del lavoro dell’unità operativa non riusciamo a fare un briefing e debriefing in modo formalizzato, con tutti i medici della stessa equipe presenti alla stessa ora per dire, sentiamo gli infermieri e poi partiamo. (P.Tomasin – RAA area EAS) C’è una documentazione che è garante della continuità delle cure, che permette la trasmissione di informazioni da un professionista all’altro, piuttosto che addirittura nell’ambito di trasferimento. Però la trasmissione delle informazioni che avviene anche oralmente, con dei momenti di briefing che in alcune unità operative sono stati definiti e sono ormai ben consolidati, alla tal ora, dopo il giro, piuttosto che in altre situazioni, c’è questo momento di scambio di informazioni tra infermiere e medico. L’infermiere referente per quella unità operativa, si incontra con il medico a fine giro, perché ovviamente per la tipologia di organizzazione che abbiamo non riusciamo a seguire il giro visite, quindi sono stati strutturati questi briefing, che per alcune unità operative sono ben strutturati, per alcune, facciamo un po’ fatica ancora a farli, anche perché in alcune situazioni non è possibile stabilire orari coerenti con l’attività quotidiana del medico o dell’infermiera e, per alcune unità operative, abbiamo trovato la soluzione che il referente assistenziale faccia un po’ da intermediario, cioè quando l’infermiere non può è il referente che fa il briefing con il medico e poi durante la consegna orale trasmette le informazioni. Diciamo che sull’équipe chirurgica si fa molta più fatica. A parte la cardiochirurgia, che è a sé, perché in questo caso, ma è una cosa storica, è la referente che segue il giro con il medico e con l’infermiera che segue quel numero di pazienti: è un giro che ai tempi era impostato come giro primariale, si dava un po’ un’occhiata generale, veloce, durava 20 minuti, però in quei 20 minuti uno vedeva il proprio paziente, la dimissione, la riabilitazione, con già tutto pianificato. (S. Semplici – RAA area cardio vascolare)

Faccio l’esempio della Stroke Unit, ma è’ uguale anche per le altre Unità Operative. Premetto ancora una cosa: per la tipologia degli ammalati che ho descritto prima, è molto più semplice pensare in un’ottica di percorso, perché sono malati che, fino al momento prima di avere un evento cerebro vascolare, sono persone inserite in un contesto di totale autonomia, di normalità. Hanno un evento che dà un esito tendenzialmente permanente, per cui è molto facile come forma mentis pensare a un percorso continuo. Quindi, nell’approccio al malato, sia il medico che l’infermiere, si scambiano quotidianamente informazioni su quanto ha recuperato o perso rispetto al giorno precedente, se ha cominciato a fare qualcosa di diverso, ecc. In questo dialogo c’è poi un punto di sintesi in cui il medico decide il passaggio successivo, e la decisione avviene a conclusione del percorso diagnostico terapeutico e dell’inquadramento del motivo per il quale è avvenuto l’evento emorragico. La presa in carico degli ammalati avviene utilizzando criteri che sono molto semplici e sono gli stessi criteri con cui vengono costituite le degenze: la complessità e l’Unità Operativa. Tutti i giorni c’è un momento di incontro, in mattinata, tra il medico e l’infermiere che segue un certo malato e c’è un’organizzazione del personale, per cui un infermiere segue un gruppo di pazienti. Questo avviene per tutta la sequenza dei turni, vuol dire che un infermiere che svolge il turno pomeridiano, il giorno dopo svolge il mattino/notte, e dal pomeriggio al mattino/notte segue sempre gli stessi malati. Questo permette il fatto che al pomeriggio ha preso in carico i pazienti, li ha visti tutti e, il mattino dopo, può riferire al medico le novità rispetto alle consegne che gli vengono date dagli altri colleghi. E’ più semplice vederlo che spiegarlo. In questo dialogo tra medico e infermiere si stabilisce che l’ammalato ha concluso il percorso acuto ed è pronto per essere affidato all’equipe riabilitativa. La notizia mi viene comunicata con un giorno di anticipo sul passaggio effettivo, i “riabilitatori” visitano il paziente, di solito l’hanno fatto qualche giorno prima, facendo una consulenza e confermano la presa in carico. A quel punto io stabilisco il passaggio del paziente alla C2 o meno in funzione delle condizioni del paziente. Il fatto che ci sia una unica persona, che sarei io, che gestisce i due step, acuto e semi acuto, semplifica molto l’interfaccia con il medico. (B. Miclini – RAA area neuroscienze)

Comunicazione con i familiari

E poi c’è l’aspetto che riguarda i parenti, il personale e i familiari: abbiamo cercato di lavorare in questi anni, anche sul versante diciamo dei caregiver con la Fondazione Humanitas, in particolare a vari livelli cioè dall’informazione, ai colloqui, al numero verde, ai gruppi di auto mutuo aiuto.

Abbiamo un colloquio, diciamo, istituzionale due volte alla settimana con i familiari, ma il rapporto è praticamente quotidiano, anche più di una volta al giorno. Se uno ha una disponibilità, è presente in reparto, viene interpellato dal parente prossimo, come è interpellato dal successivo, è così perché ognuno di loro

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vuole avere questa informazione, oppure viene interpellato più volte dalla stessa persona, perché cambiano le situazioni cliniche. Insomma in pratica si può dire che il famigliare, che vive, che è assiduo nell’assistenza del proprio caro, del proprio parente, di fatto è uno dell’equipe ospedaliera... paradossalmente ecco, ma l’informazione direi che è un’informazione praticamente che inizia alla corsia dell’ospedale e continua, poi, per quanto ci riguarda, fino all’ambito riabilitativo, ma non ho dubbi che continui anche dopo. (G. Micieli - Responsabile Stroke Unit)

2.2.7 Flussi informativi, documentazione clinica e strumenti informatici

Humanitas dispone di strumenti informatici per la gestione dei pazienti fin dalle sue origini, in particolare il sistema di richiesta di consulenze e prestazioni diagnostiche e i conseguenti referti e risultati sono consultabili direttamente accedendo al sistema informatico. La cartella clinica vera e propria è cartacea ed è nata fin da subito in Humanitas come documentazione multidisciplinare, strutturata all’inizio in modo più semplice e con meno possibilità di tracciare tutti i passaggi mentre oggi con un livello di completezza molto elevato. Non c’è mai stata la cartella del medico, la cartella dell’infermiere, la cartella del fisioterapista, ma c’è sempre stata la cartella con il nome e il cognome del paziente su cui tutti hanno sempre scritto. Esistono alcune esperienze specifiche, citate anche nelle interviste, di sviluppo di cartelle cliniche mediche informatizzate con l’integrazione delle linee guida, tali strumenti sono definiti di workflow management. Le interviste che seguono affrontano i punti di forza e di debolezza del sistema presentato.

Sulla gestione della documentazione clinica, nel modello integrato di Humanitas, che vede un ruolo particolare del medico e dell’infermiere e sulla sua informatizzazione il Direttore Sanitario così si esprime: Sin dall’inizio era stata organizzata una cartella clinica del medico e una cartella infermieristica, poi il modello è evoluto, anche con la partecipazione al progetto Joint Commission, per cui la cartella infermieristica e medica sono diventati, anziché due aspetti paralleli, un unico documento. Da sempre in Humanitas si è avuta una cura particolare alla qualità delle cartelle. Man mano che vengono chiuse e consegnate in archivio, prima di venir archiviate, le cartelle vengono controllate mediante una ckeck list, che verifica la presenza e completezza di tutte le parti della cartella ritenute indispensabili. Poi le cartelle vengono scannerizzate e rimangono consultabili in rete da qualsiasi computer. In ogni reparto ci sono dei computer in rete, tutti i medici in open space dove hanno le loro postazioni di studio hanno i computer per cui possono dialogare via e-mail e consultare gli archivi. (N. Silvestri) Il sistema organizzativo per poter funzionare con una gestione puntuale dei posti letto e degli ambulatori ecc., ha la necessità di un sistema informatico altrettanto puntuale, che rilevi i dati giorno per giorno, non che elabori report a distanzai. I sistemi permettono di sapere in tempo reale, momento per momento, quello che succede in ospedale (accettazioni, occupazione di posti letto, visite ambulatoriali, ecc) e di confrontarlo con lo storico di riferimento. (N. Silvestri)

Di seguito si riportano le risposte date dalle tre responsabili di area infermieristica Medica, Cardiovascolare e Neurologica e dal responsabile della Stroke Unit alle domande sulla gestione della documentazione in particolare rispetto all’integrazione tra le differenti figure professionali e alla informatizzazione.

Io penso che sarebbe fondamentale usare uno strumento di documentazione unico, perché la cosa che temo di più, e che accade, è che l’uno non legge quello che scrive l’altro. (P. Tomasin)

Nella struttura da cui provengo, utilizzavamo una scheda unica integrata per tutte le varie figure, che avevamo preso da un modello della Norvegia, in cui effettivamente tutti scrivevano: dal bisogno, che poteva essere rilevato dall’infermiere o dal medico, fino al risultato del processo (cosa è stato fatto e qual è l’esito). C’era la data ed era identificato chi aveva scritto e il tipo di bisogno o intervento: per esempio se era un problema respiratorio compariva la R, se era un problema di dolore compariva la D, se era di eliminazione compariva la E, in modo che se per esempio arrivava il pneumologo e voleva andare vedere il respiro del paziente, lui guardava la riga con la R e trovava com’era andato il problema del paziente dal punto di vista respiratorio negli ultimi 3, 4 giorni... (P. Tomasin)

Riguardo al presidio dei processi comunicativi tra professionisti e con il paziente penso che con il paziente, funzioni bene. Se dovessi dare un giudizio su quello che è il punto debole della nostra degenza direi la

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comunicazione della dimissione. La pianificazione della dimissione funziona perfettamente diciamo nel 30% dei casi. Questo è in parte legato alla necessità della disponibilità del posto letto: quindi se alle 3 del pomeriggio il medico controlla gli esami, vede che vanno bene, può decidere di dimettere il paziente, sapendo che in pronto soccorso ci sono pazienti in attesa del letto. In questi casi non ci è sempre possibile mettere in atto tutta una serie di cose, che sarebbero complementari al momento della dimissione, come la dimissione infermieristica, l’educazione con il paziente, l’addestramento dei famigliari. (P. Tomasin)

Dove si può programmare una dimissione, le cose vengono fatte e vengono fatte bene, tipo se domani il paziente viene dimesso, sappiamo allora cartella infermieristica, facciamo la dimissione infermieristica, sotto compiliamo la scheda delle medicazioni, riusciamo a prenotare la Croce per tempo ecc. (P. Tomasin)

L’integrazione fra le due figure deriva dalla reciproca consultazione della documentazione, nel senso che l’infermiere, quando arriva un paziente dopo una procedura, piuttosto che all’ingresso, va a consultare la documentazione medica, per vedere se vengono segnalate particolari criticità; il medico, a sua volta, va a consultare la documentazione infermieristica, ad esempio al mattino per vedere se la notte è accaduto qualcosa di particolare, oppure se ha qualche dubbio su qualche dato che è stato segnalato nei parametri, e pensa che magari sia ulteriormente avvalorato nella documentazione infermieristica. Sono due documentazioni distinte, messe nella stessa cartella, solo i fogli di terapia sono fogli di condivisione (S. Semplici)

Riguardo al presidio dei processi comunicativi tra professionisti c’è purtroppo ancora una grossa tradizione orale, specialmente tra gli infermieri, ma anche medico-infermiere. In generale è più facile per il medico dare una prescrizione verbalmente e poi dopo trascriverla in cartella. L’infermiere sa che se una cosa deve essere prescritta o segnalata dal medico, è di particolare importanza, deve essere scritta, se no l’infermiere non è tutelato. Tra infermiere e infermiere c’è il momento di consegna, ogni cambio turno: viene utilizzato un foglio riassuntivo di tutti i pazienti, perché ovviamente ogni infermiere segue un gruppo di pazienti. Questo fogli è informatizzato le viene aggiornato a video, perché ovviamente in qualsiasi situazione, in urgenza, uno deve avere a disposizione tutte le informazioni, soprattutto durante la notte in cui ci sono due infermieri, che si ritrovano tutti i pazienti. Questo foglio spesso sostituisce la documentazione infermieristica, perché è uno strumento di lavoro, su cui segnano il livello di dipendenza del paziente, che esami dovrà fare, se è a digiuno, eccetera. Per cui questo secondo me toglie attenzione a quella che invece è la nostra documentazione infermieristica dove invece è lì che dobbiamo documentare quello che è il paziente e quello che facciamo sul paziente, però, per come siamo adesso, per le dinamiche che ci sono, per i ritmi che ci sono, è uno strumento che agevola tantissimo. (S. Semplici)

Rispetto alla comunicazione con i pazienti vedo differenze fra le equipe. Ci sono equipe che dedicano molto tempo alla comunicazione: già nella fase di pre-ricovero viene informato il paziente, viene educato su alcuni aspetti, poi durante il ricovero, durante il giro di visite del mattino, nel contro giro il pomeriggio riparlano con il paziente ed eventualmente con i parenti dove è richiesto. Questo impatta positivamente sul processo di cura del paziente, più il paziente sa e meno domande poi pone a persone non competenti. Perché il paziente è affamato di informazioni. Quindi ci sono equipe che sotto questo aspetto sono veramente un fiore all’occhiello, ci sono altre equipe che fanno molta fatica a comunicare, senz’altro sono quelle chirurgiche

Anche l’infermiere è tenuto dare una serie di informazioni sia al momento dell’accoglimento del paziente che durante il percorso di cura. Nella realtà sappiamo benissimo che si lavora molto di fretta, e quindi senz’altro quello che devo dire al paziente passa in secondo ordine perché devo rispettare l’ora dell’antibiotico, piuttosto che cambiargli quel farmaco, prepararlo per l’intervento. Per ovviare in parte a questa cosa utilizziamo una nota informativa che viene data al paziente al momento dell’ingresso, in cui si da tutta una serie di informazioni, ad esempio di tipo alberghiero ecc. ecc., che sono utili al paziente. (S. Semplici) Il sistema informativo in senso generale ci supporta nel senso che se ho bisogno di andare a avere una procedura ce l’ho a video, il prontuario ospedaliero e nazionale ce l’ho a disposizione. Ci sono le politiche e una serie di strumenti che mi danno delle informazioni. (S. Semplici)

La documentazione in Humanitas nasce, da subito, come documentazione multidisciplinare, cioè c’è sempre stata l’idea da parte di tutte le figure professionali di documentare sulla cartella del paziente. Non c’è mai stata la cartella del medico, la cartella dell’infermiere, la cartella del fisioterapista, ma c’è sempre stata la cartella con il nome e il cognome del paziente su cui ognuno scriveva. Nel 1997, in modo più semplice, meno strutturato e con meno possibilità di tracciare tutti i passaggi, oggi con un livello, mi sembra, di completezza molto, molto elevato. Il passaggio migliorativo che potrebbe essere fatto è l’informatizzazione, ma non informatizzando, appena, il modello cartaceo ma utilizzando ad esempio strumenti di workflow

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management. Ad esempio in Stroke Unit c’è solo sulla parte medica e non ancora sulla parte assistenziale anche se ci stiamo lavorando. Attualmente abbiamo un piano di assistenza documentato, rivisto almeno 3 volte al giorno, diviso in tre fasce orarie, mattino, pomeriggio e notte, con la possibilità di raccogliere, in ogni momento, un nuovo dato assistenziale, questa è la base per tracciare gli atti assistenziali quotidiani. Vi è poi, quello che ho detto prima, che è la comunicazione tra le diverse equipe per mezzo delle schede di trasferimento, sia interne che esterne. Anche all’esterno diamo riscontro di quello che l’ammalato ha raggiunto dal punto di vista assistenziale sino a quel momento e, ad esempio, diamo in aggiunta le prescrizioni infermieristiche riguardanti la tipologia di medicazioni eseguite durante il ricovero, con un’indicazione di materiali e di modalità di trattamento. (B. Miclini)

Per la gestione della documentazione l’informatica in questo caso ci dà un grande aiuto per le possibilità di interazione rapida con le immagini, con un tutto il resto, e il modello informatizzato di assistenza è sicuramente il modello vincente anche nella collaborazione con le altre unità operative: posso avere anche il meglio della consulenza cardiologica, ma se non ho la possibilità di comunicare in modo sicuro la necessità di consulenza e il livello di urgenza, e invio un fax che magari si perde o non viene messo subito all’attenzione del collega, quello che ci rimette è il malato che aveva bisogno di una richiesta urgente che invece non viene fatta.

L’altro aspetto per cui l’informatizzazione è essenziale è la ricerca della definizione di percorsi comuni, come abbiamo cercato di fare, per esempio, con il riabilitatore. Cioè, se io conosco e definisco le regole per cui un paziente è instabile e quindi non è accessibile alla riabilitazione, anche il riabilitatore sa che quel malato non si può trattare, viceversa io devo sapere che non è stabile e quando diventerà stabile che tipo di requisiti deve avere per fare quel tipo di riabilitazione, e queste regole siamo riusciti a configurarle nel nostro registro informatizzato della popolazione intraospedaliera e riusciamo a definire senza troppe diversificazioni di opinioni degli indirizzi abbastanza precisi per i pazienti. (G. Micieli)

2.2.8 Struttura di supporto alla degenza (Servizi G enerali e segreterie di reparto) In un modello di organizzazione come quello delle degenze multidisciplinari i servizi di supporto, sia alberghieri sia amministrativo – gestionali, rivestono una grande importanza per il funzionamento di un sistema particolarmente complesso. Tutto quello che fa parte dei servizi di supporto, secondo me, fa il punto di forza di questo ospedale. Parlo anche come coordinatore del reparto, non dover correre dietro ad un buono, o a 10 giorni di tempo di attesa, perché venga cambiata una lampadina ed essere sicuri che comunque fatto una mail, questa sicuramente va a buon fine entro breve tempo, cioè io sono talmente tranquilla che cambiano quella lampadina in giornata, che non vado neanche a controllare domani se è vero che l’hanno cambiata, perché so che l’hanno cambiata. Quindi è un grandissimo punto di forza di questa struttura, anche per esempio il fatto che ci siano controlli incrociati e che tutto è preso in carico da qualcuno. Appena arrivata qua mi hanno detto di partecipare al my hospital2, vai a vedere i giardini di Humanitas, cioè al momento ci ridevo anche su, a controllare l’erba alta, bassa, gli ascensori ecc. però poi se ci pensi bene, è quello che fa la qualità aggiunta di questa struttura e la qualità percepita quando vai in un altro ospedale, ti accorgi che l’ascensore fa schifo, è pieno di scritte, che c’è l’erba, la cartina per terra ecc. (P.Tomasin – RAA area EAS) I Servizi Generali sono al servizio di chi gestisce la degenza, ed è la richiesta dei servizi che imposta le nostre attività in modo da soddisfare le esigenze. I principali servizi cosiddetti “alberghieri” sono la ristorazione, il guardaroba, le pulizie. E’ ovvio che quando facciamo i protocolli di pulizia si deve tener conto se una degenza è di varie specialità, piuttosto che una singola, perché questo può modificare il protocollo, però è un adattamento dei protocolli generali a livello di quella degenza specifica. Cioè noi diciamo che facciamo dei protocolli generali, che sono le pulizie delle degenze, piuttosto che le pulizie dei servizi sanitari di altro genere, piuttosto che dei blocchi. Quando poi le caliamo all’interno della degenza il fatto che sia

2 MY HOSPITAL progetto che prevede controlli ambientali periodici di aree dell’ospedale e di spazi comuni da parte del personale, finalizzato a far proprio l' ambiente ospedale aiutando le funzioni operative interessate (Direzione Sanitaria, Ufficio Tecnico, Servizi Generali) a "vedere" gli ambienti per poterli adeguatamente mantenere.

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multidisciplinare può richiedere adattamento non so, agli orari, piuttosto che di precedenza di certe attività rispetto ad altre perché se c’è la prevalenza di chirurgia, chiaramente c’è una certa organizzazione del reparto a cui si devono adattare le attività di pulizia, rispetto, non so all’ingresso in sala. E’un’analisi, uno studio che si fa insieme a chi gestisce i reparti per trovare degli adattamenti, che però fanno parte di un protocollo generale. Così anche per la ristorazione: chiaramente noi abbiamo tutta una serie di diete ed è chi richiede la dieta che lo fa sulla base delle esigenze. Il guardaroba è la stessa cosa, nel senso che chiaramente, abbiamo visto l’anno scorso, quando abbiamo cambiato il lay out delle degenze, che abbiamo dovuto riadattare le dotazioni di guardaroba in funzione delle discipline che andavano nella singola degenza, perché ci sono discipline che richiedono più biancheria, discipline che richiedono tipologie diverse di biancheria. (R. Manduzio - Responsabile Servizi Generali) Nella nascita del modello di Humanitas, fra le varie scelte che sono state fatte, c’è stata quella di non gestirsi in casa, ma di dare in outsourcing tutte le attività che non fossero specificatamente sanitarie, abbiamo chiesto alla responsabile dei servizi generali i vantaggi e le difficoltà connessi con questo tipo di scelta.

E’ una scelta che già 15 anni fa nell’ambito sanitario stavano intraprendendo quasi tutte le strutture. Lo studio del modello Humanitas è iniziato 20 anni fa, quindi diciamo che è stata una scelta dettata ormai dalla tendenza che si era studiata e analizzata da tempo nell’ambito sanitario. Questa scelta fa il paio con la specializzazione che si è avuta nell’ambito anche delle specialità mediche. Prima nell’ospedale era tutto molto generale, il medico e le varie funzioni svolgevano compiti generali Poi ci si è resi conto che tutti questi compiti erano molto diversificati e andavano gestiti e svolti da professionalità ben specifiche e diverse. Quando si è andati ad analizzare i servizi di tipo alberghiero, chiamati così proprio perché si è visto che sono servizi molto simili rispetto all’ospitalità alberghiera, si è definito che forse valeva la pena di affidare questi servizi a delle competenze professionali ben specifiche e magari anche strutturate. L’ospedale non aveva una competenza professionale nell’ambito di queste tipologie di servizi, perché il personale sanitario è centrato sulla parte tipicamente di terapia e di cura, sulla prestazione sanitaria più che alberghiera, e queste una volta erano prestazioni molto scadenti come qualità in ospedale. Sono nate delle società, strutturate nell’ambito delle aziende di produzione, o alberghiero, che hanno cominciato ad adattare la loro professionalità e le loro capacità al contesto sanitario. E’ incominciata a nascere questa forma di offerta da parte del mercato, stimolata dalla richiesta da parte dell’ospedale, che ha deciso che era meglio affidare questi servizi a queste società che stavano sempre più strutturandosi come professionalità adatta per svolgere queste funzioni. E quindi le varie società che facevano ristorazione, si sono strutturate con un settore che si occupa proprio solo della ristorazione ospedaliera e così per le pulizie ci sono società o settori nell’ambito delle società più grosse che hanno strutturato le loro competenze sulla sanità. E così anche il guardaroba e la lavanderia: sono sorte lavanderie che lavoravano solo per gli ospedali. Diciamo che Humanitas ha anche contribuito a far crescere queste società, perchè noi siamo partiti con alcune che avevano poche capacità, le abbiamo aiutate a strutturarsi, a crescere. […] La lavanderia è sempre la stessa società con cui abbiamo iniziato, vengono fatte periodicamente delle gare o delle indagini per vedere se nel frattempo ci sono altre società che possono competere però ogni volta è stato deciso di mantenere quella; la pulizia anche, anche se ha cambiato nome, per la ristorazione abbiamo avuto tre società diverse, perché la ristorazione è il settore che per primo ha sviluppato competenze sanitarie quindi ce ne sono sul mercato di più, ed maggiore il confronto ed è anche più facile cambiare. (R. Manduzio - Responsabile Servizi Generali) Abbiamo indagato il funzionamento rispetto alla degenza dell’interazione fra le società in outsourcing con appaltati i servizi alberghieri e le figure assistenziali, come gli ausiliari, che possono avere in alcuni casi dei compiti analoghi: Noi abbiamo strutturato l’organizzazione abbastanza ben divisa, organizzando bene i compiti dell’uno e dell’altro, è stato più facile: io che nella mia esperienza ho vissuto il passaggio, invece, negli altri nostri ospedali, dove si è passati da una gestione completamente interna all’ospedale all’outsourcing, è più difficile e c’è da lavorare un po’ di più per distinguere questi compiti, che però chiaramente sono sempre molto collegati, perché l’ordine di partenza è sempre da parte del personale sanitario, che dà l’input sulla dieta, sul tipo di fornitura, sul lavoro da fare. L’ordine viene poi eseguito da qualcuno che è un fornitore esterno, mentre poi chi controlla se l’ordine è stato eseguito è ancora una funzione ospedaliera. Quindi è molto intersecato e, per complicare le cose, ci sono degli aspetti che non svolge sempre lo stesso tipo di personale, cioè faccio un esempio, nella ristorazione, la procedura normale dice: io ti ordino questo tipo di dieta, che è composto da queste cose, che sceglie il paziente e tu lo segui e lo riporti. Però la procedura può

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avere anche delle modificazioni, se cinque minuti prima quell’ordine non va più bene, deve essere possibile modificarlo. A questo punto è il nostro personale che subentra, perché all’ultimo è impensabile che la struttura esterna possa adeguarsi. In questo caso è il nostro personale che semplicemente si attiva per dire, fatemi questa cosa, ma la prendo io, me la gestisco io, eccetera. Così come le pulizie, le pulizie normali, di base, le fa il personale esterno, però il personale esterno non è presente 24 ore su 24. Allora ci sono dei momenti in cui può essere il personale sanitario di reparto che interviene e fa delle operazioni di pulizia, perché c’è la necessità in quel momento. Quindi diciamo che la struttura di base, tutta l’esecuzione è in capo delle attività in outsourcing, che però è comandata e controllata da personale di reparto. L’outsourcing ha comportato due cose: da un lato secondo me ha un pochino deresponsabilizzato il personale di reparto, la caposala può essere un po’ meno presente e sentirsi meno responsabile di tutte queste cose. Tra l’altro il ruolo della caposala è cambiato notevolmente, da un lato hai un cambio di ruolo che ti costringe, ti permette di fare altre cose, cambiando il ruolo però avevi bisogno di competenze professionali diverse che si sono strutturate in modo diverso e quindi questa è la risposta da parte dei servizi alberghieri generali. Cerchiamo di stimolare sempre nella caposala il coinvolgimento, dirle che l’aiutiamo ad organizzare il servizio e lo controlliamo insieme, perché oltre ai controlli della caposala noi abbiamo i nostri controlli. Quindi è questo lavoro che si cerca di fare. Di dare loro tutte le informazioni e gli strumenti per fare meglio questo lavoro di organizzazione e di controllo, in modo che però rimanga in capo a loro. Credo che l’outsourcing ormai sia una cosa da cui non si torna indietro, quindi di fatto il mercato ha risposto organizzandosi in questo modo e tanti altri servizi si stanno strutturando, si sono strutturati per fare attività che prima erano di competenza dell’ospedale (R. Manduzio - Responsabile Servizi Generali) L’ outsourcing dei servizi non core è un modello che si è rapidamente esteso in sanità, che in alcuni ospedali, soprattutto all’estero, ha visto passare in outsourcing di tutta l’attività ausiliaria, anche all’interno dei reparti.

Nell’ambito dei servizi alberghieri una volta era impensabile fare la portineria in outsourcing, mentre adesso l’abbiamo in outsourcing, oppure tutta la parte di trasporti interni, di cose e di persone, e di pazienti, anche questa è tutta un’altra attività in outsourcing, per non parlare di mille altre cose che abbiamo, dal giardinaggio, la posta, il magazzino, e poi da ultimo abbiamo cominciato, non solo noi, anche altri ospedali, a dare in outsourcing anche attività di livello un po’ più elevato, pensiamo a tutto l’archivio clinico, alla refertazione della radiologia. (R. Manduzio - Responsabile Servizi Generali)

La risposta da parte delle società è stata strutturare un’offerta di vari servizi in un’unica società di global service, così che vi sia un unico interlocutore per tutti i servizi, dalle pulizie, alla ristorazione, al trasporto di cose persone, alla portineria, ecc.

E’ un modello a cui non credo molto, perché le competenze sono molto specifiche e molto diverse, e ognuna di queste società nasce con la propria storicità, non so, una è la ditta di pulizie che si mette anche a fare anche altro, oppure la ditta di ristorazione, e la loro nascita gli rimane, per cui sanno sempre fare meglio quello che il resto. Noi abbiamo un global service che è quello dei servizi sanità, che gestisce una serie di servizi - pulizie, trasporti cose e persone, magazzino, refertazione, ausiliari nell’ambito dei blocchi operatori e dei servizi - però di fatto non è che si possa prendere una persona che fa trasporto malati e fargli fare le pulizie, no? Sono competenze, capacità, inquadramenti anche contrattuali diversi, per cui di fatto non lo puoi fare, e quindi non c’è una reale sinergia, per cui non vale la pena rischiare di abbassare il livello di servizio. (R. Manduzio - Responsabile Servizi Generali)

Abbiamo infine chiesto alla responsabile dei Servizi Generali come si mantiene una funzione di coordinamento rispetto alle attività in outsourcing:

I servizi generali hanno una funzione di scelta del fornitore sulla base di conoscenza del mercato e delle proposte che arrivano; di studio e applicazione delle procedure, dei protocolli, degli appalti. L’appalto nuovo devono vederlo con la Direzione Sanitaria, le capo sala, i Servizi Assistenziali, con i medici, eccetera. Poi ha il compito di controllare l’appalto, coinvolgendo le caposala, che sono quelle che hanno il contatto più diretto, oppure, come per esempio nella ristorazione, attraverso questionari che danno il feedback sul parere del malato, o un controllo diretto, fatto da una tecnologa alimentare che va a ispezionare in cucina come vengono fatte le produzioni, com’è l’ambiente, eccetera.. E i Servizi Generali hanno questo compito, diciamo che hanno il compito di controllare e di fornire, perché noi siamo un servizio, quindi di fornire, a chi ce lo chiede, supporto o risposte alle loro richieste. (R. Manduzio - Responsabile Servizi Generali)

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Segreterie di reparto L’altra funzione di supporto alle degenze, che funziona da raccordo tra la parte sanitaria (medici ed infermieri) e le funzioni di staff che governano il buon funzionamento delle attività (gestione operativa) è rappresentata dalle segreterie di reparto. Coerentemente con il modello di Humanitas, queste figure amministrative sono autonome e non dipendenti dalle singole Unità Operative e dai singoli medici, ma parte integrante di un gruppo amministrativo

La segreteria effettua una sorta di programmazione degli interventi, sulla base di una serie di regole condivise tra le Unità Operative e la Gestione Operativa. Il ruolo della segretaria di reparto è un ruolo che sta fra una funzione amministrativa, di programmazione, qual è la Gestione Operativa, e quella sanitaria di interfaccia con i medici. Il funzionamento della segreteria è descritto in una procedura aziendale. Nella procedura c’è la classificazione di come i pazienti vengono messi in lista di attesa, aspetti operativi, specifici dell’attività stessa, che prevede di catalogare le proposte di ricovero che arrivano dai medici, con diagnosi, tempi, priorità o quant’altro e, avendo delle agende, perché alla fine di agende si tratta, quali sale operatorie con i tempi degli interventi, fare una sorta di programmazione. Il tutto viene poi convalidato dal medico referente o primario, che verifica che i pazienti siano quelli effettivamente corretti sia come sequenza che come priorità e poi il programma convalidato viene messo in rete. Il fatto di essere all’interno del reparto, secondo me ha sicuramente dei vantaggi, e, come in tutte delle cose, degli svantaggi. Il vantaggio è sicuramente quello di essere nel vivo, di riuscire a percepire le varie criticità e di essere presente e al corrente in continuo delle situazioni che potrebbero sfuggire nel momento in cui fai un lavoro a distanza. Questo è un lavoro che è fattibile, a distanza dalle degenze, però ti perdi poi quella parte più sottile: un paziente che non va in sala perché ha la febbre, non cambia nulla all’attività segretariale, però il fatto di saperlo comunque è un’informazione in più che tu acquisisci. Il meccanismo di funzionamento è analogo a quello di un CUP, la programmazione di un intervento che funziona con la stessa logica di una prenotazione, ma è più raffinata, perché la programmazione di un intervento richiede un’organizzazione più complessa rispetto ad una visita: è necessaria la disponibilità di sacche di sangue, strumenti, e cose che richiedono il coordinamento di più funzioni. Quindi non la chiamo prenotazione, la chiamo programmazione, perché ha un minimo di contestualità in più rispetto a quella che può essere la vera e propria prenotazione di una visita. (I.Quarto - Responsabile Servizio Clienti) Il ruolo della segretaria di reparto è stato concepito insieme al modello di Humanitas e non si è modificato concettualmente, ma ha richiesto nel tempo maggiori capacità e competenze, di autonomia e di programmazione. La responsabile del Servizio Clienti ci racconta il percorso, le caratteristiche e le peculiarità di questa figura

Il ruolo della segretaria è un ruolo che Humanitas ha fatto nascere insieme all’ospedale ed è diventato un “di cui”. Non so se in un altro ospedale la segreteria di reparto avrebbe lo stesso risultato che c’è qui da noi, senza l’attivazione di una serie di regole e di procedure che da noi sono costitutive. In altre parti sarebbe un qualcosa di aggiuntivo, percepito con fastidio fattore di controllo. La segretaria di reparto oggi ha anche un ruolo di controllo: controllo di come vanno le sale operatorie, di rispetto delle regole, delle liste di priorità, di numero di interventi, ma l’impatto di questo controllo è minimizzato internamente. C’è un percorso ideale per una segretaria di reparto, mentre la formazione è quella propria del Servizio Clienti, in generale. Il percorso ideale prevede di entrare a conoscenza dei vari step di ingresso del paziente, compresa la parte ambulatoriale, perché chiaramente per la miglior gestione del paziente in fase di programmazione è necessario anche capire quello che è accaduto prima. Per poter svolgere al meglio la parte di programmazione è necessaria la conoscenza di tutte le aree, quindi quella ambulatoriale, l’area dei ricoveri, l’area dei prericoveri, e poi la parte di segreteria. Poi è necessaria la conoscenza specifica di come le singole unità operative si organizzano e acquisire le caratteristiche di quelle Unità Operative. Gli interlocutori principali sono quelli clinici, e quindi i medici di riferimento per la programmazione, la Gestione Operativa per via dell’ottimizzazione delle sale e il rispetto di quello che in qualche modo è la previsione di programmazione. E’ ovvio che se c’è un’Unità Operativa che ha un tasso altissimo di cambi sala o dei malumori interni che fanno sì che le informazioni di programmazione arrivino all’ultimo minuto, tante cose che in qualche modo possono, come dire, influire sull’attività di programmazione, più una persona è nuova a questo tipo di attività e meno è avvantaggiata. Ma sono informazioni che si possono apprendere, non peculiarità della persona per essere idonea a fare quel tipo di lavoro. Non tutte le persone del Servizio Clienti possono fare quel tipo di lavoro, che richiede molta stabilità emotiva, perché chiaramente i momenti critici e relazionali sono costanti e a volte anche

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pesanti, quindi l’essere emotivamente stabili è uno dei fattori principali, insieme alla capacità di gestire le priorità, cioè non andare in panico a dover fare 40 cose in contemporanea. (I.Quarto - Responsabile Servizio Clienti)

2.2.9 Ricerca e Università Humanitas è un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) in ambito delle patologie immunodegenerative, riconosciuto dal Ministero della Salute e dalla Regione Lombardia tra i centri che si distinguono per la qualità delle cure e la capacità di trasferire i risultati della ricerca e dell'innovazione nell'attività clinica quotidiana. La ricerca è il motore della dinamica scientifica ed è indispensabile per approfondire ed ampliare la conoscenza: in Humanitas è stata pianificata come elemento della formazione dei medici, considerata la sua naturale interazione con le competenze cliniche. Il direttore scientifico dell'Istituto Clinico Humanitas è il prof. Alberto Mantovani, la sovraintendenza scientifica è affidata al prof. Nicola Dioguardi, il direttore Ricerca Clinica è il dr. Armando Santoro. Per quanto riguarda la ricerca di base, di particolare rilievo è l'attività svolta nei laboratori di immunologia, focalizzata sui meccanismi infiammatori alla base della formazione e dello sviluppo di patologie diverse che vanno dai tumori alle malattie infiammatorie del tratto gastro-intestinale a quelle cardiovascolari, oltre agli studi di biologia molecolare applicata soprattutto alla gastroenterologia e all'oncologia. Con l’accreditamento ad IRCCS a livello nazionale è diventato necessario ampliare i servizi di ricerca e si è quindi pensato alla terza fase del progetto, che non era più compatibile, da un punto di vista logistico, con la struttura iniziale che comprendeva anche il pronto soccorso. È stato pensato un altro edificio, adiacente a quello esistente, che avesse le caratteristiche di poter supportare tutta l’attività scientifica e didattica sviluppata nel rapporto con l’Università di Milano, che evidentemente stava crescendo, con un progetto specifico. (I. Colombo)

Un altro elemento importante è stato quello, che discende anche dalla storia legata alle persone che hanno pensato e messo in piedi il progetto, di concepire fin da subito, almeno come strategia, di mettere assieme al tema della clinica anche quello della ricerca e della didattica. È sta fatta la considerazione che pur essendo il core business dell’ospedale quello il curare le persone, per poter curare bene le persone nel tempo, gli elementi, oltre agli elementi che dicevo prima, possono essere quelli di uno sviluppo della ricerca, con una vocazione alla traslazione clinica, e di uno sviluppo della didattica. Le attività di ricerca inizialmente sono nate dal basso, in contesti come quello della gastroenterologia, come quello dell’oncologia medica, nei quali c’erano già delle esperienze fatte in questo senso. Evidentemente il passo fondamentale è stato il riconoscimento dell’IRCCS e la costruzione della Fondazione per la ricerca, perché inizialmente noi avevamo avuto anche delle difficoltà di reperimento di finanziamenti a fronte della natura profit dell’ospedale. Mentre nel momento in cui si è arrivati a un riconoscimento dell’IRCCS e alla costituzione della Fondazione si è fatto un ulteriore passo, che è stato reso possibile anche dalle persone che sono arrivate in Humanitas: il prof. Mantovani e il suo gruppo, e via, via, gente con un'altra storia, un'altra esperienza e con una capacità di inserimento nel mondo della ricerca finanziata, la cui credibilità ha consentito a noi di fare dei passi avanti significativi. E’ chiaro che la nostra scommessa vera è quella di mettere assieme questi due mondi che quasi si ignorano e di cui uno ha persone che non hanno mai vissuto in ospedale come Mantovani e il suo gruppo, e l’altro è composto dai clinici che non hanno mai avuto a che fare direttamente con scienziati di base. Il fatto di lavorare quanto meno in un contesto comune, può costituire un elemento di stimolo reciproco ed è chiaro che è un processo lento e che non sarà mai totalmente assimilato, ma nello stesso tempo mi pare che stia già dando frutti. Mi sembra un lavoro proficuo. L'idea di coniugare l'attività clinica con quella scientifica e di ricerca vede Humanitas impegnata in progetti didattici sia "pre" sia "post-laurea". La struttura è riconosciuta come centro di formazione e di didattica dal sistema univeristario: grazie a convenzioni con le Scuole di Specialistà delle più importanti Università italiane, gli studenti di Medicina ed i medici iscritti ad alcune Scuole di Specialità effettuano parte del loro percorso formativo partecipando all'attività clinica delle Unità Operative guidate dai docenti dell'Università. Particolarmente stretta è la collaborazione con l'Università degli Studi di Milano: Humanitas è infatti sede di corsi residenziali della Facoltà di Medicina e Chirurgia che vedono applicato, per la prima volta in Italia, un percorso didattico innovativo basato sull'insegnamento tutoriale e l'approccio "Problem Based Learning". L'Istituto è inoltre sede del Corso di Laurea in Infermieristica dell'Università di Milano.

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La didattica e insieme la collaborazione con l’Università, secondo me sono un altro elemento importante perché se, da una parte, la presenza del mondo universitario aggiunge complessità e anche problematiche gestionali, però nello stesso tempo consente di entrare in un contesto nel quale parliamo di tematiche interconnesse. Se pensiamo a figure come quelle di Dioguardi e Mantovani vediamo che la taratura scientifica e la valenza universitaria sono assieme. Oltre ad essere un dovere sociale di far crescere la nuova generazione fornendo competenze, è anche un elemento di stimolo continuativo per il mantenimento dell’aggiornamento e della voglia di fare e questo fa parte della nostra esperienza una volta avviata l’attività. I medici dell’ospedale sono molto stimolati dall’idea di insegnare perché, da una parte ci sono molte persone a cui piace proprio insegnare, dall’altra viene percepito come un elemento utile per il mantenimento del proprio aggiornamento e quindi anche della propria motivazione. (P. Melodia) La parte universitaria infermieristica è ancora una grande opportunità, che si è poco sviluppata, nel senso che noi sostanzialmente abbiamo preso l’esistente, visto che c’è un esistente che l’università stessa ha fatto proprio e che veniva dalle vecchie scuole infermieristiche che erano collocate negli ospedali. Noi abbiamo cominciato negli ultimi due anni a ripensare anche a un modello di formazione infermieristica, così come abbiamo fatto inizialmente per medicina, però mentre per medicina siamo partiti già con un modello nuovo che abbiamo sperimentato e via, via consolidato, per infermieristica siamo partiti con un modello tradizionale e adesso dobbiamo, in corso d’opera inserire degli elementi di innovazione. Quindi c’è la scuola infermieristica ed è importante perché comunque si formano degli infermieri che cominciano a respirare la realtà ospedaliera come quella di Humanitas, però c’è ancora molto lavoro da fare. (P. Melodia)

A me piace avere gli studenti del corso di laurea infermieristica nelle degenze, ecco vedere un po’ man mano crescono negli anni, è comunque un investimento di tempo e di energie per chi poi è tutor di questi studenti. Lo studente è affidato all’infermiere della degenza e supervisionato occasionalmente da un tutor del corso di laurea. Questo è fondamentale, perché se uno inizia con un buon affiancamento, con l’infermiere di uno certo spessore, è un impronta che gli resta tutta la vita. E’ un contributo anche per noi, perché comunque questi studenti ci aggiornano su alcune novità, sulle ultime evidenze scientifiche ecc. ecc. Quindi è uno scambio. (S. Semplici – RAA area cardio vascolare) Io ho solo una piccola docenza al secondo anno, ho avuto un’esperienza come tutor didattico per 3 anni e ho la fortuna di avere gli studenti in reparto e poi di seguirli per le tesi. Io identificherei il nostro reparto proprio come un reparto scuola, cioè un reparto dove si fa scuola, dove abbiamo tutti gli anni, primo, secondo e terzo e dove ci sono infermieri che hanno un percorso di formazione specifico per essere professionisti formatori. Alcuni di questi hanno fatto il master, altri hanno fatto, grazie alla dott.sa Ripa, dei corsi all’interno dell’Università. Io so che abbiamo sempre più bisogno, e non so se è un bisogno della comunità professionale o è un bisogno indotto dal modello socio-culturale sanitario di questo momento, di dimostrare all’utenza, che diventa sempre più un interlocutore molto informato, che le azioni che fai poggiano su un dichiarato forte. Dicendo, ad esempio, che su un certo tema su cui si sta lavorando, ci sono 8 articoli che dicono che, nel mondo, fare in un certo modo è più efficace ed è più sicuro. Si tratta di riconquistare quello che in sanità è fondamentale avere per lavorare con l’utente, cioè il legame fiduciario. Venti anni fa non era così, esisteva quasi un legame affettivo che ti permetteva il legame fiduciario, legame affettivo che oggi deve essere sostituito da una presunta scientificità di dimostrazione, che tra l’altro deve essere una dimostrazione molto evidente. Inoltre, per quanto riguarda l’infermieristica, bisogna intendersi su quale sia il metodo più adatto, perché mentre nel mondo medico è da una teoria che si va a ricercare il particolare, cioè dato un determinato quadro clinico si cercano sul soggetto i segni che confermano quel quadro clinico, nell’infermieristica si parte dal particolare e si costruisce la teoria, dall’oggetto in studio si cerca di generalizzare. Quindi l’Università in risposta ad un condizionamento culturale ambientale sta cercando di rispondere creando infermieri ricercatori. Personalmente, ho avuto studenti, laureati con ottimi voti da poco, che usando un’osservazione fatta durante un periodo di stage nel mio reparto, sulle derivazioni ventricolari esterne, hanno costruito un protocollo o meglio hanno prodotto un lavoro, con una ricerca bibliografica interessantissima, costruendo un metodo di gestione di questo presidio. (B. Miclini – RAA area neuroscienze) Gli studenti che frequentano i reparti di Humanitas hanno un livello migliore rispetto a quelli di altri poli in esami e verifiche in Università. Quindi per quanto riguarda gli studenti, ottima impressione, e mi sembra anche buona sui medici di Humanitas la presenza dello studente che fa sì che debba non rinverdire alcune conoscenze, perché l’insegnare, lo spiegare fa sì che ti devi confrontare con quello che credi di sapere o che sai, o che devi sapere e c’è qualcuno che ti sta ascoltare, ti contraddice, ti chiede, quindi va bene così. E

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non è solo questione di conoscenza ma anche di come comporti, perché sto facendo questo antibiotico, forse … non è male mi sembra poi che anche i medici che hanno preso in carico gli studenti siano quelli più bravi. (S. Badalamenti Responsabile Medicina d’Urgenza - EAS)

2.2.10 Personale e comunicazione Seppure con una breve storia alle spalle, in ICH già si parla del recente passato come di un momento magico irripetibile quanto a comunicazione interna, benessere organizzativo e coesione di tutte le funzioni aziendali. Al di là della nostalgia per le origini, tutti gli operatori indicano la “crescita” di ICH come il cambiamento che ha determinato un parziale peggioramento della comunicazione interna: l’aumento degli interlocutori, la frammentazione delle responsabilità, la complessità organizzativa sono considerati elementi di ostacolo nell’attività quotidiana e fonte di distacco nella conoscenza e condivisione delle scelte strategiche aziendali. Quindi ICH si trova oggi a vivere una condizione di clima organizzativo analoga a quelle riscontrabili in molte realtà ospedaliere con in aggiunta una memoria recente di una dimensione ritenuta più soddisfacente.

In antitesi, tuttavia, emerge anche dalle interviste il riconoscimento in ICH sono minori le barriere tra professionisti di diversa estrazione. Da questo punto di vista, hanno aiutato alcune scelte logistiche quali il superamento del reparto tradizionale, la condivisione di molti spazi di supporto nelle aree di degenza nonché gli studi in aree open space.

Benessere organizzativo è una cosa sempre difficile da definire, nel senso che so benissimo che questa è una struttura nella quale ci sono diverse tensioni e queste tensioni fanno parte dell’essere costitutivo dell’ospedale. Io credo che, per definizione, un ospedale sia una macchina talmente complessa e una realtà talmente impegnativa, anche sul piano emotivo, sul piano nervoso, sul piano emozionale, che vengono a convergere potenziali tensioni molto ampie. Perché se pensiamo che stiamo parlando di una struttura che è sempre chiusa su se stessa, nella quale, a differenza di quello che succede normalmente nelle aziende, tutti i clienti convergono in un determinato posto, e sono migliaia di persone che ogni giorno vanno servite bene e con una variabilità infinita di situazioni, è chiaro che stiamo parlando di un oggetto strutturalmente fragile. E se a questo oggetto noi chiediamo permanentemente un mantenimento di tensione, in senso positivo, sia a riguardo alla qualità, che riguardo all’efficienza, non si può pensare che tutto questo accada senza tensioni; credo che sia inevitabile, e in un certo senso sarebbe illusorio e quasi dannoso pensare che possa accadere il contrario. Il problema è dare uno sbocco positivo a queste tensioni e far si che da queste tensioni non si diffonda un malessere, che emerge laddove si determinano circoli viziosi, di carattere organizzativo o di carattere relazionale, tra persone. In questo senso, la responsabilità di tutti deve essere nel cercare di mantenere molta lucidità nell’individuare queste cose, e non si può pensare che non si determinino mai, e nell’attività e nella capacità di intervento quando si determinano. (P. Melodia) C’è molta collaborazione tra le diverse figure professionali, medici e infermieri e tecnici. Non c’è la spaccatura classica negli ospedali tra personale sanitario e amministrativo. I non sanitari amministrativi qui vengono visti come supporto, soprattutto per merito della gestione operativa. (N. Silvestri – Direttore Sanitario) Complessivamente, la qualità delle relazioni tra le diverse categorie di professionisti in Humanitas è buona. Poi c’è un livello di integrazione multiculturale. Noi abbiamo una buona rappresentanza di infermieri che viene da altre parti del mondo è c’è una disponibilità alta da parte degli infermieri ad accettare questi colleghi. Nei gruppi si sviluppa molta capacità di condivisione e amicalità. (M. Mussi - Responsabile Servizi Assistenziali) Il benessere organizzativo è migliorabile, soprattutto in termini di comunicazioni personali: si comunica molto per settori, per funzioni e poco ai singoli. Le capo sala hanno in mano il loro gruppo di infermieri, e la catena di comunicazione prosegue anche ai preposti, e funziona. Su un piano ideale, potrebbe essere migliorata la comunicazioni ai singoli, come persone, indipendentemente dal gruppo professionale di appartenenza, anche se non è facile avendo 2000 persone. (N. Silvestri – Direttore Sanitario)

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2.2.11 Struttura fisica e building management

Il progetto di Humanitas ha tenuto fin dall’inizio in considerazione tre aspetti di sviluppo:

• Pensare una struttura che permettesse la gestione migliore possibile dei flussi di pazienti, operatori e visitatori per questo la piastra dei blocchi operatori al secondo piano meno accessibili, le terapie intensive attigue ai blocchi i blocchi, il blocco di Day surgery raggiungibile più facilmente dai pazienti, sono esempi di questo.

• Costruire con materiali e tecniche che permettono le modifiche senza costi e tempi di realizzazione elevati. In Humanitas sono state trasformate sale operatorie in ambulatori, degenze in uffici, ambulatori in altri luoghi grazie al fatto che le pareti sono fatte in cartongesso con i rivestimenti lavabili.

• Prevedere una manutenzione meno “invasiva” possibile partendo dal principio che è meglio spendere un euro prima che non fare interventi o entrare nei locali dopo. Ad esempio i bagni sono tutti prefabbricati in vetroresina e non hanno manutenzione interna, hanno un pannello esterno da cui l’operaio interviene.

Nelle interviste si ripercorre più approfonditamente come è avvenuto e avviene tutt’oggi lo sviluppo della struttura.

Il processo che facciamo adesso per costruire i nuovi edifici ha seguito esattamente quello iniziale, e cioè ha seguito due grosse categorie di idee. La prima, che per noi tecnici è importantissima, è che è meglio spendere un euro prima che non fare interventi o entrare nei locali dopo: ad esempio i bagni sono tutti prefabbricati in vetroresina e non hanno manutenzione interna, hanno un pannello esterno da cui l’operaio interviene, senza fare un granello di polvere. Voi immaginate un bagno normale, tipo quello di casa nostra, quando si rompe un tubo, bisogna chiamare il muratore, spaccare tutto, polvere, casino, rumori, vibrazioni. Mai è successo una cosa del genere in Humanitas.

La seconda idea-guida è sapere molto bene quello che si vuole e sapere quello che si sta facendo. Perché a volte si fa una sala operatoria generica, e poi dopo bisogna mettergli mano. Se si sentono prima i protagonisti, cioè quelli che la usano, e soprattutto gli esperti ospedalieri, cioè chi l’arreda, chi la gestisce, chi l’informatizza, chi compra le apparecchiature, già dall’inizio si mettono in atto degli accorgimenti che evitano di andare a fare una variante dopo, quando è funzionante. (M. Massaron)

Posizione confermata anche dal dott. Lenoci Responsabile della Gestione Operativa:

Ottimo punto, direi che la Gestione Operativa e la parte ingegneristica strutturale dell’ospedale, sono un tutt’uno. La possibilità di condividere le risorse, che è il lavoro che svolge la Gestione Operativa, è data, non solo dalla capacità delle persone che ci lavorano, dal modello organizzativo eccetera, ma anche dalla struttura fisica. Le due cose sono assolutamente complementari e la parte fisica non funzionerebbe senza quella gestionale e la parte gestionale non funzionerebbe senza quella fisica o avrebbe una capacità di incidere, di essere efficace molto più ridotta, o con dei costi, eventualmente, molto superiori. (D. Lenoci)

Sulle degenze:

Le degenze sono costruite tutte speculari una all’altra, sono tutte uguali. In qualche degenza, per qualche specialità, abbiamo fatto qualche modifica, però in qualsiasi posto si vada si trova tutte le stesse utilities, quindi tutte possono essere utilizzate per qualsiasi scopo. Addirittura la libera professione e l’SSN sono totalmente uguali, con la differenza che nelle stanze SSN si mettono due letti, in libera professione se ne mette uno. Humanitas è dotato tutte le utilities alberghiere e mediche, dalla regolazione del condizionamento in camera, alla chiamata infermieri, alla tapparella elettrica, alle prese elettriche, televisione, luce notturna, vari tipi di illuminazione, letti elettrici, cassaforte, bagni in camera ecc. e tutte le degenze sono tutte esattamente uguali, quindi questo permette questa multidisciplinarità, altrimenti ogni volta che si sposta un reparto bisognerebbe fare dei lavori aggiuntivi. L’altra cosa importante è che tutti i servizi sono fatti in vetroresina e quindi assolutamente pulibili, igienici e non ci sono rialzi, la carrozzina ci entra, si può fare la doccia. Per cui sono utilizzabili per tutte le tipologie di pazienti. (M. Massaron)

Il fatto di avere in centro tutti i servizi, con al centro il posto della capo sala per noi era la necessità di avere

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un governo, una collocazione anche fisica nella degenza che permettesse di raggiungere ogni punto con più facilità. Al centro c’è il posto di lavoro pulito, con separazione del lavoro pulito e del lavoro sporco. Gli spazi di lavoro, centrali, hanno la doppia porta, che permette di accedere da qualsiasi parte del corridoio, alleggerendo i percorsi. (M. Mussi)

Sulla Day Surgery:

Lungo il corso dell’evoluzione di Humanitas abbiamo già convertito un blocco che era di day surgery a blocco generale e, con una modifica sugli ingressi, si riesce a fare. Anche gli altri due blocchi di day surgery che avevamo costruito in effetti si possono convertire anche come blocco operatorio generale: il day surgery dovrebbe teoricamente avere solo un ingresso a piedi del paziente, che entra si cambia con le sue gambe, va nel lettino viene anestetizzato, fa quello che deve fare ed esce, invece noi abbiamo sia questo sia l’ingresso per i letti dei pazienti barellati. E questo fa sì che poi il blocco lo usi come vuoi. L’unica differenza, rispetto al blocco generale per la chirurgia pesante, il blocco A, e che le sale operatorie sono un po’ più piccole, comunque superiori a limite di legge, che è 30 mq., e alcune arrivano ai 36/37/38 mq. Nel blocco generale alcune sale superano i 40 mq., per le operazioni che hanno bisogno di più spazio. (M. Massaron)

Rispetto a quali vantaggi dia l’ospedale concepito in maniera moderna, con la piastra centrale con tutti i blocchi operatori e poi le degenze e, in Day Surgery, con il reparto contiguo e unico rispetto alle sale operatorie l’Ing. Massaron risponde:

E’ importante, perchè gli ospedali funzionano se girano i flussi. Non ci devono essere incroci. Allora tutti i nostri blocchi generali sono messi al secondo piano, una zona dove il pubblico non può arrivare, ci arrivano gli ammalati. I blocchi di Day Surgery sono in luoghi dove può arrivare il malato a piedi, quindi sono uno al primo piano, uno al piano terra, all’ingresso. Ovviamente sia il blocco al primo piano, sia il blocco al piano terra hanno l’ingresso letti che però è un accesso separato, nella parte posteriore rispetto ai percorsi per il pubblico. E’ importante anche che, questi blocchi siano tutti vicini alle terapie intensive, e non a caso le terapie intensive, sono tutte al secondo piano vicino ai blocchi generali.

Humanitas originariamente era l’ospedale più razionale che esisteva, ma anche adesso, con tutti gli ampliamenti ha ancora dei percorsi e flussi molto buoni. Cioè la gente arriva subito dove deve arrivare, quindi le prenotazioni, il ritiro referti, la radiologia, il day hospital, gli ambulatori, ecc e non arriva dove non deve arrivare (blocchi operatori, studi medici, laboratori ecc.). (M. Massaron)

Noi siamo tutti fatti in cartongesso, le pareti sono fatte in cartongesso con i rivestimenti lavabili: negli uffici c’è un acrovinile, che è una fibra di vetro ricoperta di pittura lavabile; nelle sale operatorie e nelle terapie intensive c’è il PVC; i pavimenti sono tutti in linoleum PVC, quindi super lavabile. Gli impianti corrono tutti nei controsoffitti, che si possono aprire o no, a seconda delle zone: in sala operatoria non si può aprire il controsoffitto quindi pulibilità totale e soprattutto si evita che scenda del particolato; corridoi, zone comuni, uffici ecc. i controsoffitti sono apribili e molto comodi per gli impianti.

Per cui gli impianti non corrono nelle pareti, e il cartongesso, in caso di modifiche, si presta benissimo perché è molto più leggero da lavorare, molto meno rumoroso delle pareti in muratura, per cui la scelta è ottima. Il cartongesso è cominciato ad entrare nel mondo ospedaliero una quindicina di anni fa, e da quel momento devo dire che tutti gli ospedali stan facendo le pareti in cartongesso (il nuovo ospedale di Como, il nuovo ospedale di Bergamo). Tra l’altro, una particolarità del cartongesso è che costa la metà dei muri tradizionali e tiene gli stessi pesi, con la differenza che il muro rimane inalterato, mentre il cartongesso, se metti una struttura pesante, può deformarsi un poco, ma basta fissarla sugli elementi strutturali interni.

Ovviamente nel caso della medicina nucleare, radiologia, radioterapia, dove ci sono le macchine pesanti, una volta messe lì non si spostano più, al più le puoi modificare o ampliare, ma se le dovessi spostare costa tantissimo. Noi abbiamo trasformato sale operatorie in ambulatori, degenze in uffici, ambulatori in altri luoghi, si fa tutto, ma spostare reparti dove hanno dei bunker in cemento armato, delle macchine particolari come il ciclotrone, o macchine pesanti come in radiologia costerebbe tantissimo. (M. Massaron)

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2.3 Risultati di Esito - Sistema di Indicatori

2.3.1 L’efficacia: Qualità in ICH e JCI

Un fine strategico, direttamente connesso alla Mission di Humanitas, è il miglioramento continuo della qualità dei servizi erogati, in particolare rispetto alla centralità e sicurezza del paziente, efficacia delle cure, efficienza dei processi e uso responsabile delle risorse. Per rispondere a questo obiettivo esiste una Rete qualità che è un sistema strutturato di collegamenti che interessa tutte le categorie professionali (medici, infermieri, ricercatori, staff) i cui nodi chiave sono il Nucleo Qualità e i Referenti per la qualità.

Il Nucleo qualità avvalendosi degli imput che riceve da tutti i referenti, che compongono insieme al nucleo la Rete qualità, stila un programma per la qualità che viene approvato annualmente.

ICH si è inoltre dotata di uno specifico Comitato del rischio, composto dal Nucleo Qualità con l’aggiunta del Direttore Sanitario e della Referente per il rischio, che mediante un Gruppo operativo (formato da 3 persone che materialmente monitorano gli indicatori, stilano le proposte di programmi e progetti per trovare soluzioni al manifestarsi di eventi avversi) si occupa di tutti gli aspetti inerenti l’identificazione, la valutazione e la risposta ai rischi, procedendo con analisi dei rischi sia reattive (Audit, Route Cause Analysis), che pro-attive (FMEA/FMECA, HFMEA),

Rispetto alla valutazione complessiva della qualità ecco le risposte date da alcuni degli intervistati:

Credo che in termini di prestazioni al paziente sia garantita la qualità ed equità di servizio, poi, all’interno di una degenza multidisciplinare, ci saranno infermieri che sono più portati o interessati ad una specialità, ad assistere certi pazienti rispetto ad altri, e credo che i responsabili di area ne tengano conto nell’organizzazione del lavoro. (M. Mussi) La qualità dei servizi è buona. Se si dovesse dire qual è in una parola il vantaggio di questo modello è la flessibilità. Flessibilità nell’organizzazione e nella tipologia del servizio offerto e anche flessibilità della struttura. Se tieni conto che il palazzo in cui ci troviamo adesso, il building 2 ha già subito per più di un quarto una completa ristrutturazione in 10 anni e senza interrompere le attività: è stato costruito un blocco operatorio dove prima c’era un punto prelievi, è stata rifatta l’endoscopia, che occupa più di un quarto dell’area ambulatoriale, è stato rifatto almeno 3 volte il blocco operatorio D. Questa massima flessibilità strutturale permette una flessibilità anche organizzativa e anche di tipologia di strumenti. E’ possibile pensare senza spaventarsi di acquisire una macchina nuova, perché la struttura ti permette di modificare quanto vuoi (ad esempio, in medicina nucleare avevamo una gamma camera, adesso abbiamo 2 pet e una gamma camera). (N. Silvestri)

Accreditamento JCI

Humanitas è una struttura accreditata Joint Commission International (JCI). Tale riconoscimento è il risultato di un programma di verifica incentrato su oltre 350 standard che, per la maggior parte, impattano direttamente la cura del paziente. L'opzione di adottare la metodologia JCI è maturata in seguito alla partecipazione a un progetto sperimentale promosso da Regione Lombardia. L'accreditamento è stato ottenuto nel dicembre 2002 e ri-confermato nel febbraio 2006. e nel febbraio 2009. Escludendo Stati Uniti e Canada, dove il sistema Joint Commission è nato e ha una diffusione vastissima, sono circa 150 gli ospedali nel mondo che vantano questo attestato di eccellenza. Humanitas si distingue come il primo policlinico accreditato in Italia.

All’interno del percorso di accreditamento JCI un rilievo particolare è ricoperto dai Patient Safety Goals (Obiettivi per la sicurezza del paziente) che prevedono specifici progetti e indicatori sui seguenti aspetti:

Obiettivo 1: Identificare correttamente il paziente

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Obiettivo 2: Migliorare l’efficacia della comunicazione

Obiettivo 3: Migliorare la sicurezza dei farmaci ad alto rischio

Obiettivo 4: Garantire l’intervento chirugico in paziente corretto, con procedura corretta, nella parte del corpo corretta

Obiettivo 5: Ridurre il rischio di infezioni associate all’assistenza sanitaria

Obiettivo 6: Ridurre il rischio di danno al paziente in seguito a caduta

Joint Commission ci ha permesso di mantenere un’uniformità, una rotta e un’ordine, in particolare rispetto alle linee generali sulla documentazione, evitando che ciascuno nel proprio ambito cercasse soluzioni diverse. Soprattutto con quest’ultimo accreditamento, in cui si è creata la rete dei referenti qualità ed il processo è stato partecipato e diffuso, medici e infermieri sono stati resi più consapevoli a vari livelli di che cosa comportava questo ha permesso di costruire strumenti, condividere, lavorare su progetti, avere un metodo, confrontarsi nei gruppi di lavoro. Joint Commission ha determinato un processo di miglioramento della qualità della documentazione clinica (la cartella infermieristica, ad esempio, è stata modificata in funzione degli standard JCI), ha permesso di costituire una struttura delle procedure, e ha avviato un percorso di definizione di indicatori, in particolare sui patient safety goals, gli obiettivi per la sicurezza del paziente. Per JCI è stato anche sviluppato il decalogo per i controlli ambientali e di sicurezza, ad esempio il controllo del carrello di emergenza, dei frigoriferi, delle scadenze dei farmaci e dei disinfettanti (in ICH è dal 2002 che è consuetudine che i disinfettanti riportino la data di apertura). (M. Mussi)

I processi di miglioramento dell’attività che sono nati con il contributo di joint commision sono quelli relativi alla sicurezza del paziente e alla gestione farmaci.. E il fatto che ogni cosa che viene fatta da qualsiasi professionista deve essere documentata, deve essere presente in cartella. (S. Semplici)

Indicatori

In Humanitas esistono molteplici indicatori di controllo delle attività sia gestionali che qualitativi, il principale strumento con cui vengono diffusi è il così detto Tableau de Bord in cui sono raccolti oltre 40 indicatori suddivisi in due macro aree e 7 sotto aree:

AREA CLINICA

1.1 QUALITA' CLINICO-ASSISTENZIALE

1.2 QUALITA' ED EFFICIENZA DEL SERVIZIO

1.3 DOCUMENTAZIONE

1.4 RICERCA CLINICA

AREA OPERATIVA

2.1 CASISTICA

2.2 SICUREZZA

2.3 INDICATORI DI STAFF

Un altro e non secondario aspetto su cui Humanitas si impegna da sempre è il monitoraggio della soddisfazione del paziente attraverso la raccolta di questionari e la gestione dei reclami. Queste attività sono finalizzate a comunicare con il paziente e i suoi familiari, conoscere il punto di vista degli utenti, responsabilizzare gli operatori verso la mission dell'ospedale, evidenziare le aree di eccellenza e le criticità del servizio, verificare l'effetto dei cambiamenti introdotti. L’indagine inpatient avviene in modo continuativo in collaborazione con il personale di reparto che invita il paziente a compilare un questionario in prossimità della dimissione. Il sondaggio outpatient si svolge in due periodi dell'anno con il supporto dei volontari della Fondazione Humanitas. Per la gestione delle segnalazioni l’Ufficio Relazioni con il Pubblico si avvale della collaborazione della

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Direzione Sanitaria e del Servizio Clienti. Le iniziative in questo settore sono fortemente promosse dalla Regione Lombardia che attraverso la ASL richiede una rendicontazione annuale dei dati raccolti.

Di seguito le risposte raccolte sul tema indicatori C’è una scheda di valutazione che noi facciamo mensilmente in cui diamo indicazioni su eventuali problemi riguardo alla ristorazione alle pulizie alla biancheria ecc. ecc. Se parliamo di qualità assistenziale ci stiamo lavorando adesso, perché, lo ammetto, noi infermieri non abbiamo mai misurato veramente, è solo negli ultimi anni che si parla di trovare questi indicatori (S. Semplici)

Come responsabile di Area ho degli indicatori gestionali, sul controllo costi, presidi, consumabili; abbiamo dei dati sul personale, sulla fruizione di ferie, riposi, e poi la prevalenza delle infezioni, su cui noi dovremmo agire. Nel senso che se mi si dice devi presidiare le infezioni nella tua area, dico tutto e dico niente, allora se mi dici devi monitorare affinché vengono applicate tutta questa serie di indicazioni date dal piano sulle infezioni, quindi trimestralmente compilare l’osservazione di almeno 5 operatori che eseguono il lavaggio corretto delle mani, così allora va bene. Ma su alcune tematiche sulla qualità dell’assistenza, cioè in che modo e in che tempi l’infermiere eroga assistenza, non abbiamo ancora niente: ad esempio, il bisogno di igiene lo soddisfiamo, ma lo soddisfiamo in che misura? Facendo l’igiene una volta al giorno? O avendo possibilità di ripetere se il paziente lo necessità più volte l’igiene di un certo tipo…Adesso stiamo lavorando sull’identificazione corretta del paziente, allora andiamo a vedere 3 o 4 item, che ad esempio il paziente abbia il braccialetto di identificazione che quando viene somministrata la terapia, che sia detto nome cognome e data nascita. Ci stiamo avvalendo adesso di questi indicatori. (S. Semplici)

Il tema indicatori è nuovo, ed è quello su cui vorremmo lavorare, che adesso vede prevalentemente il coinvolgimento della RAA ma che vorremmo orientare molto anche sui REFA. L’intento è elaborare un cruscotto di indicatori orientato più in senso gestionale per le RAA e più in senso di processo clinico per la REFA. Al momento le RAA sono quelle più formate per ragionare rispetto ad un sistema di indicatori. Noi dobbiamo anche costruire le basi culturali. I cambiamenti richiedono la costruzione di una consapevolezza che è prima culturale, di mentalità, e poi diventa azione. (M. Mussi)

2.3.2 L’efficienza e la produttività: Gestione ope rativa Come si è già avuto modo di anticipare nel paragrafo in cui si è parlato del modello gestionale di Humanitas in Humanitas esiste una funzione particolare che si occupa di gestire i processi per poter ottenere maggiore efficienza. Ripercorriamo le principali caratteristiche di funzionamento della Gestione Operative assieme al suo responsabile dott. Lenoci:

Prevalentemente si tratta di un’attività di pianificazione delle attività dell’ospedale, su tre assi: l’asse dei letti, l’asse delle sale operatorie e l’asse ambulatoriale e dei servizi. Si tratta di una pianificazione, di uno scheduling settimanale, mensile, con anche un’idea di pianificazione annuale, che va ad incrociare le esigenze delle diverse Unità Operative, con la disponibilità degli assets. Quindi il lavoro che facciamo è quello di schedulare l’attività dell’Unità Operativa X, Y o Z sui diversi assets, in maniera tale da rendere il più efficiente possibile l’asset. La funzione ha senso di esistere, chiamandola gestione o pianificazione, perché inevitabilmente una condivisione degli assets, i letti, gli ambulatori o le sale operatorie, sarebbe ardua, non impossibile, ma sicuramente ardua come dimostra l’esperienza degli altri ospedali in giro per l’Italia e per il mondo. Difficilmente i medici fra di loro si mettono d’accordo sulla condivisione di una stessa risorsa, il nostro lavoro è quello di facilitare la condivisione delle risorse.

Le attività sono svolte dentro dei vincoli, regole, che vengono a noi dettate dalla Direzione Sanitaria. Dentro a questi vincoli noi facciamo pianificazione, non facciamo noi le regole, perché le regole sono regionali, nazionali, ecc. e interpretate, adottate e regolamentate all’interno attraverso la Direzione Sanitaria. Noi le prendiamo così come sono e dentro questi vincoli cerchiamo di fare questo lavoro di condivisione delle risorse in maniera tale che l’asset non sia sotto utilizzato, e per evitare che ad un’esigenza di un’Unità Operativa non corrisponda un’offerta solo perché non c’è un accordo tra le diverse realtà ospedaliere. Quindi noi non abbiamo regole particolari, strane, la regola di fondo è quella di mettere insieme le esigenze in

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un’asse verticale in maniera tale che tutti possano trovare soddisfatte le esigenze di cura dei pazienti. (D. Lenoci)

Alla domanda su quali strumenti vengono utilizzati per permettere questo tipo di attività e se ci sono delle caratteristiche del nostro sistema informativo che aiutano il lavoro della GO risponde: Sì, ci sono, sono il software Elise, il software per le sale operatorie, che è stato adottato tre o quattro anni fa, per la parte ambulatoriale si lavora, invece, offline con dei fogli Excel, poi c’è la parte online ma non è così ben organizzata come la parte delle sale operatorie e la parte dei letti. Noi usiamo questi strumenti per mettere a sistema tutta questa pianificazione ed esistono anche degli strumenti offline per una pianificazione di medio lungo termine. Il tutto viene implementato attraverso le segreterie di reparto e quindi da parte del Servizio Clienti, che attuano la pianificazione che viene svolta a livello di Gestione Operativa. Presso la segreteria di reparto esiste l’ultimo match tra il paziente, l’ospedale e il medico. È un incontro a tre: il paziente, l’ospedale che offre la struttura, e il personale sanitario, medici e infermieri, che offrono i loro skills. La Gestione Operativa fa questo lavoro di integrazione di queste tre fasi del processo a diversi livelli. Il primo livello è tra ospedale e medico, nella condivisione di piani di medio lungo periodo, ad esempio le sedute operatorie vengono decise più o meno stabilmente per un periodo di sei mesi, a volte anche di un anno o più. A livello operativo, vengono trasferiti questi input, condivisi con le Unità Operative, alle segreterie di reparto, che prendono le “scatole” di una Unità Operativa e, dentro quelle “scatole”, pianificano l’attività dei pazienti. Questa pianificazione avviene in accordo diretto tra medico e segreteria di reparto, perché è il medico che dice chi deve entrare nella lista di attesa secondo le priorità legate alla gravità del paziente, a criteri di tipo clinico. Quindi le regole esistono, ma non sono da noi in nessun modo governate o modificate. (D. Lenoci)

Rispetto ai processi comunicativi tra Gestione Operativa, segreteria di reparto e medici prosegue:

Quando abbiamo impostato il sistema avevamo una riunione settimanale, il martedì, molto generale, in cui andavamo a verificare se esistevano problematiche comuni alle diverse segreterie di reparto, da poter affrontare all’inizio della settimana per il prosieguo della settimana. Nei momenti di criticità c’erano ulteriori approfondimenti, ad esempio quando ci sono le influenze in gennaio e febbraio, ecc. Ogni venerdì le segreterie di reparto incontrano la Gestione Operativa per la parte dei ricoveri, per verificare la congruità dei programmi operatori della settimana successiva rispetto alla reale possibilità di offerta che ha Humanitas. In maniera tale che ci sia una coerenza tra il numero di pazienti che entrano, almeno dal punto di vista elettivo, e la disponibilità di offerta di Humanitas in termini di letti, sale operatorie ecc. Quando questa congruenza non è positiva, la Gestione Operativa facilita ulteriormente un lavoro di congruenza, intervenendo con il medico e con la segreteria di reparto. Dove ci sono problemi di tipo non strettamente di scheduling ma di altra natura, medico sanitaria, la Gestione Operativa chiama la Direzione Sanitaria, chiedendo il suo giudizio sull’opportunità del programma operatorio, sull’opportunità di quel tipo di programma operatorio, con quel tipo di ordine, con quel tipo di numerosità di interventi. In tutto quello che è materia sanitaria, il rapporto con la Direzione Sanitaria è strategico, perché consente alla Gestione Operativa di svolgere il suo vero lavoro, che non è quello di decidere nel merito sanitario, ma quello di facilitare e integrare rispetto alle risorse.

La funzione, aziendalmente parlando, è una funzione di integrazione perché non ha skill di tipo sanitario. Il nostro modello, con la Gestione Operativa, cerca di sfruttare appieno la vera offerta di Humanitas, con le risorse disponibili che ha, incontrando appieno la domanda che durante l’anno viene rivolta ad Humanitas. Quindi, il valore strategico, anche dal punto di vista di sistema, non solo di singolo ospedale, è quello di avere un’efficienza che è, ovviamente di ospedale, ma è anche un’efficienza di sistema, non è esclusivamente un’efficienza di ospedale. Mi spiego meglio, la conseguenza immediata di questa soluzione è che noi, se abbiamo una disponibilità di 100 letti tendiamo a sfruttarli tutti. In un modello senza la Gestione Operativa, la stessa struttura con 100 letti, tendenzialmente non li sfrutta tutti, non perché non abbia una domanda, le due strutture hanno domande equivalenti, hanno medici bravi, hanno apparecchiature equivalenti, faccio un’ipotesi a parità di qualità, a parità di altre condizioni, il fatto che esista un facilitatore nella condivisione delle risorse, permette che 100 letti siano sfruttati, non al 100%, ma tendenzialmente verso il 100%. In alternativa non è così, ci sono realtà con uno sfruttamento dell’80%, 70%, 60% a seconda di altre condizioni a contorno. Questo significa che se noi prendessimo 100 ospedali con il 60% - 70% di tasso di utilizzazione, e lo portassimo verso il 100%, vorrebbe dire avere, forse, 20 ospedali in meno.

Quindi alla fine è un risparmio di sistema. Perché i costi strutturali, che non sono solo i costi degli stipendi dei medici, dello staff e quant’altro, ma anche di avere una struttura funzionante, sono sprecati. Bisognerebbe vedere qual è la percentuale di questo recupero, ma è un recupero che sicuramente c’è. La positività di questa funzione è a livello dell’efficienza e di integrazione delle diverse funzioni. (D. Lenoci)

Alla domanda se l’apertura del Pronto Soccorso abbia avuto un riflesso sulla Gestione Operativa:

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No, sulla Gestione Operativa non ha avuto riflessi. Penso che l’ “ospedale nell’ospedale”, che è l’ospedale di Pronto Soccorso, è stato costruito nella logica di costruire un modello che consentisse di mantenere i meccanismi di gestione dell’elettivo come erano stati costituiti e, accanto, pianificare un altro ospedale che avesse la logica dell’emergenza. Infatti, sono stati dedicati, da progetto, 160 letti proprio perché i meccanismi di gestione fossero integrati. Questa integrazione in parte ha funzionato, perché non abbiamo visto un annullamento dei meccanismi elettivi e la Gestione Operativa ha continuato a fare il lavoro che faceva prima dell’apertura del Pronto Soccorso, in parte ha chiesto alla Gestione Operativa di sviluppare degli skill di previsione diversi. Prima, infatti, si aveva una visione abbastanza certa sulle previsioni di ingressi e dimissioni, perché le informazioni erano chiare grazie al fatto che il paziente era elettivo. Oggi, con il PS, la Gestione Operativa non sa quanti sono gli ingressi in più che vengono da PS per gestire l’intero ospedale. Questo ha richiesto alla Gestione Operativa di acuire maggiormente le capacità di previsione e ci sono delle serie storiche, che descrivono il funzionamento del fenomeno PS, che possono essere utilizzate, non in maniera rigida, per fare delle previsioni. (D. Lenoci)

E infine una domanda sul rapporto tra Day Surgery e GO:

E’ vero che il Pronto Soccorso è diverso come tipo di interazione per la Gestione Operativa, non è vero per la day surgery, perché di fatto insiste sulle stesse risorse che la Gestione Operativa si trova a gestire e cioè la sala operatoria. Quindi, l’anestesista è un interlocutore, come lo è nell’ambito dei blocchi operatori maggiori, con delle specificità diverse, ma in maniera assolutamente equivalente. Quindi la day surgery è gestita con le segreterie di reparto. Sul pronto soccorso la differenza è che non c’è la segreteria di reparto come interlocutore intermedio verso il paziente, ma l’interlocutore intermedio verso il paziente rimane il medico. Quindi, nel modello elettivo il medico ha in più la segreteria di reparto, nel modello di Pronto Soccorso, nella fase di ingresso, il medico non ha la segreteria di reparto, mentre ce l’ha dal momento in cui il paziente è ricoverato. Da quel momento la segreteria di reparto svolge le identiche attività che svolge per il paziente elettivo, per contribuire al percorso del paziente fino alla dimissione, al follow-up, ecc. La dinamica differisce nel fatto che il paziente in Pronto Soccorso non è conosciuto dal medico e quindi non si sa se è un malato che ha bisogno di essere ricoverato o no e questa incertezza viene gestita dal medico. (D. Lenoci)

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3. Azienda Ospedaliero – Universitaria Careggi La ARS Toscana ha curato il rapporto sulle interviste in merito all’indagine sulla riorganizzazione per intensità di cura nell’azienda ospedaliera-universitaria di Careggi. Il report è reperibile come materiale del progetto.

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4. Conclusioni

4.1 Le definizioni e i modelli di organizzazione os pedaliera Nella recente normativa lombarda non vi sono riferimenti espliciti all’organizzazione degli ospedali per intensità di cure (tutti i riferimenti all’intensità di cure nel piano socio sanitario regionale 2007 – 2009 sono relativi alla rete di strutture a garanzia della continuità assistenziale, post-acute, hospice assistenza domiciliare, socio sanitarie, ecc). La riorganizzazione delle strutture ospedaliere in lombardia dell’ultimo decennio è principalmente ricondotta all’applicazione del modello dipartimentale come modello ordinario di gestione operativa delle attività: con la D.g.r 9014 del febbraio 2009 “Determinazioni in ordine al controllo delle prestazioni sanitarie ed ai requisiti di accreditamento” si prende atto della riorganizzazione degli ospedali secondo la logica del dipartimento e si prevede che alcuni dei requisiti relativi all’area di degenza possano essere assolti a livello di area/dipartimento. Viene introdotto inoltre un nuovo requisito sulla possibilità di utilizzo di un’unica èquipe infermieristica per più unità operative, purchè all’interno di raggruppamenti di specialità omogenei per intensità delle cure erogate, ovvero garantendo l’adeguatezza delle competenze nell’assistenza infermieristica. Nella legge regionale toscana n. 40 del febbraio 2005 (Disciplina del servizio sanitario regionale) si parla di superare gradualmente l'articolazione per reparti differenziati secondo la disciplina specialistica in favore di una strutturazione delle attività ospedaliere in aree differenziate secondo le modalità assistenziali, l'intensità delle cure, la durata della degenza ed il regime di ricovero. Nel piano sanitario regionale 2008 – 2010 della regione toscana l’intensità di cure è presentata come modello innovativo e alternativo, che prevede l’abbandono del vecchio modello che attribuiva alle unità operative spazi e posti letto prefissati, con il passaggio ai cosiddetti “letti funzionali”, oppure il superamento del concetto di reparto. Cosa caratterizzi, in termini specifici, questo nuovo modello di organizzazione per intensità di cura non è descritto in modo univoco, ma articolato, a seconda dei contesti: in area chirurgica è la proposta di modelli assistenziali differenti, in funzione della previsione di durata della degenza post-operatoria (week surgery, day surgery, ricovero ordinario chirurgico), in area medica si parla di aggregazioni strutturali nel pool di posti letto sulla base di specificità di processo specialistiche; per le aziende ospedaliero universitarie è raccomandata la coerenza con l’organizzazione dipartimentale, basata su percorsi affini e sulla inscindibilità delle attività assistenziali, di didattica e ricerca; sempre in riferimento al nuovo modello di ospedale per acuti il piano raccomanda la creazione di percorsi differenziati all’interno dell’ospedale, tra emergenza–urgenza e attività programmata, creando percorsi specifici per i pazienti provenienti da pronto soccorso e per le attività dell’area chirurgica. In un altro punto del piano, in merito al progetto “ospedali per intensità di cura”, si fa riferimento al superamento del reparto monodisciplinare, in favore dello sviluppo di un approccio multidisciplinare, centrato sul malato, e per superare una visione “d’organo”. Questa molteplicità di prospettive, rappresentata a livello normativo, ritrova riscontro sia nelle definizioni che gli intervistati nelle due realtà esaminate danno dei modelli organizzativi che caratterizzano il proprio contesto, sia nella molteplicità delle soluzioni effettivamente adottate nei due contesti per graduare l’intensità dell’assistenza. Le dimensioni e le prospettive che abbiamo individuato per caratterizzare i diversi modelli con cui si vuole realizzare la coerenza tra bisogni clinico assistenziali e offerta di servizi ospedalieri sono:

• Intensità come variabile organizzativa, declinata in funzione della durata della degenza e del regime di ricovero (ordinaria, week, day);

• Intensità come variabile organizzativa, declinata in funzione della modalità di accesso del paziente (emergenza– urgenza verso ricovero programmato);

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• Intensità come variabile clinico-organizzativa, declinata in funzione del livello di acuzie/stabilità del paziente nel percorso di cura (ricovero in area intensiva e sub-intensiva, ricovero ordinario, ricovero riabilitativo, low care e continuità di cura con il territorio)

• Intensità come variabile clinica, declinata in funzione della definizione di percorsi di cura, legata quindi all’organizzazione dei dipartimenti;

• Intensità come livello omogeneo di cura, indipendentemente dall’afferenza specialistica e disciplinare, declinata quindi come multidisciplinarietà;

• Intensità come variabile assistenziale, declinata in funzione dei concetti di carico di lavoro/peso infermieristico e complessità assistenziale;

Si tratta di chiavi di lettura e prospettive in parte sovrapponibili, con cui leggere quanto finora realizzato, confrontare gli esempi offerti dalle due realtà ed individuarne punti di forza e margini di miglioramento.

4.2 Descrizione delle caratteristiche peculiari dei due modelli in studio

4.2.1 Premessa Humanitas è nato 10 anni fa, sulla base di un progetto ospedaliero chiaro e coerente per aspetti che organizzativi, strutturali e gestionali, il percorso di evoluzione e crescita che si è avuto nel corso degli anni si è inserito sulle logiche del progetto iniziale, senza alterare il disegno complessivo della struttura e soprattutto trovando un terreno agile e flessibile, in grado di rispondere in tempi rapidi alle necessità di cambiamento, questo sia per quel che riguarda la crescita fisica e di offerta dell’ospedale – apertura del pronto soccorso, ampliamento dei letti di riabilitazione e crescita della ricerca – sia per quanto riguarda l’evoluzione organizzativa – modello di ospedale nell’ospedale per quanto riguarda il pronto soccorso, dipartimentalizzazione medica e progetto di sviluppo delle aree infermieristiche. Careggi ha più di un secolo di storia e di attività a Firenze, come ospedale sede di università ed è stato oggetto, negli ultimi anni, di una profonda revisione dell’assetto organizzativo, con un processo di dipartimentalizzazione ed integrazione tra strutture universitarie e ospedaliere, su cui si è inserita la spinta alla riorganizzazione per intensità di cure; contemporaneamente, l’ospedale è anche oggetto di un imponente piano di ristrutturazione edilizia (in alcune interviste è descritto come un grande cantiere), in parte ri-orientato proprio per trovare maggiore coerenza con il progetto organizzativo. I tempi necessari ad una struttura con queste dimensioni e caratteristiche per portare a compimento il processo di riorganizzazione sono necessariamente lunghi e molto di quanto previsto è ad oggi un “work in progress”.

4.2.2 Ospedali in cifre (2008) Careggi Humanitas

dipendenti 5.800 1.703

posti letto 1.650 747 (577 SSN acuti)

Sale operatorie 34 28

Ricoveri ordinari 54.115 25.054 (di cui 7.251 da ps)

Ricoveri in day hospital 22.360 14.681

Ricoveri riabilitazione 2.452

accessi al Pronto Soccorso 131.533 51.051

prestazioni ambulatoriali (pazienti interni ed esterni) 9.778.857 4.022.188

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4.2.3 Day hospital e week hospital In entrambe le realtà la day surgery è decritta come un modello consolidato: presso Careggi il reparto di day surgery è citato come il primo esempio di superamento sia della suddivisione tra reparti universitari e ospedalieri, sia dell’afferenza di un’area ad un singolo dipartimento. Nell’ambito della descrizione di Humanitas è dato molto spazio all’organizzazione della day surgery e alle peculiarità strutturali, organizzative e gestionali che presenta. Il week hospital, area ospedaliera dedicata a ricoveri programmati brevi (4- 5 giorni), è un modello presente in Humanitas (la degenza A0, dedicata ai ricoveri chirurgici brevi, è aperta dal lunedì al venerdì), nonostante non sia stato descritto nelle interviste; per Careggi è descritto il reparto di week surgery, nell’ambito della chirurgia generale ed è considerata la possibilità di estendere ulteriormente questo modello organizzativo sia in area chirurgica (breast unit), sia in area medica (week hospital nell'ambito del dipartimento di biomedicina, ricoveri di 5 giorni, con finalità diagnostica e percorsi di richiesta di esami e diagnostiche dedicate).

4.2.4 Separazione percorsi emergenza– urgenza e ric overi programmati Con l’apertura del pronto soccorso nel 2003 humanitas ha costruito un edificio con tre degenze, adiacente al pronto soccorso, in cui strutturare il modello ospedale nell’ospedale, che prevedeva appunto degenze dedicate agli ingressi urgenti, con letti di medicina d’urgenza in cui stabilizzare ed inquadrare il paziente, per poi trasferirlo nell’ospedale “elettivo” una volta inquadrato il caso, e resa quindi la sua gestione analoga a quella dell’ingresso elettivo, di cui è programmato l’accesso, il percorso di cura e prevista la durata della degenza. Presso Careggi la logica di separazione dei percorsi dell’urgenza e programmati ha trovato applicazione nella revisione dell’assetto dei dipartimenti, con l’aggregazione nel DEA delle u.o di medicina e chirurgia e la costituzione del Dipartimento DEA e Medicina e Chirurgia Generale e di Urgenza, finalizzato alla gestione dei pazienti con quadri clinici acuti in regime di urgenza-emergenza, dalla presa in carico del paziente all’accesso in ospedale fino alla sua dimissione. Fanno infatti parte del dipartimento: pronto soccorso, osservazione breve intensiva, inquadramento clinico integrato e percorsi intraospedalieri delle urgenze; anestesia e rianimazione, chirurgie generali e di urgenza, medicine d’urgenza e medicine interne ad orientamento all'alta complessita' assistenziale; ma anche le agenzie geriatrica, della riabilitazione e l’agenzia per la continuita' assistenziale extraospedaliera. Dal punto di vista strutturale è in via di completamento il padiglione dedicato all’emergenza e all’alta specialità (EAS) ed è attivo un primo nucleo di attività di degenza organizzate per intensità di cure, rappresentato dai letti open space di chirurgia d’urgenza e dalle medicine.

4.2.5 Livelli di intensità di cura e dipartimenti Quello inerente il Dipartimento del cuore e dei vasi è il modello più compiuto di organizzazione per intensità di cura di Careggi, il modello organizzativo si coniuga con gli aspetti logistico strutturali, con un padiglione organizzato per livelli di intensità decrescenti dal primo al terzo piano: al primo piano l’alta intensità, con 12 letti di unità coronarica e di terapia intensiva cardio-chirurgica, poi 16 letti di sub intensiva, sia medica sia cardio-chirurgica, sia per la gestione dei pazienti cerebro vascolari, e al terzo piano la degenza a bassa intensità assistenziale, per i pazienti cardiologici, i pazienti in attesa di intervento chirurgico o in decorso post operatorio e i pazienti ricoverati per approfondimenti diagnostici. L’esempio fornito dal dipartimento del cuore e dei vasi è quello che maggiormente si presta ad essere confrontato con la realtà di Humanitas, per come è concepita l’area cardiologica e la gestione dei percorsi di cura per i pazienti cardiologici e vascolari. Il livello intensivo in Humanitas mantiene distinta la terapia intensiva cardiologica (TIC), con 9 posti letto, dall’unità coronarica (UCC), con 6 posti letto. Il livello sub intensivo è direttamente collocato nella degenza multidisciplinare: le due degenze di area cardio (A2 e B2) vedono rappresentate le unità operative di cardiologia, emodinamica, elettrofisiologia cardiochirurgia e chirurgia vascolare (che invece a Careggi è collocata in altra sede), la definizione del livello di

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assistenza sub intensivo rispetto all’ordinario è paziente-specifica, perché su ciascun letto della degenza è possibile garantire il supporto strumentale (monitor e telemetrie centralizzati) e di assistenza che identifica un livello sub-intensivo, in funzione delle necessità del paziente e del percorso di cura. Sono definiti i criteri clinici di ingresso e dimissione dalle aree intensive, le modalità operative, la documentazione che accompagna il paziente (foglio di trasferimento ad hoc) e i protocolli di assistenza infermieristica. All’interno delle degenze di area cardio è inoltre collocata la prima fase del ricovero riabilitativo, con letti di riabilitazione cardiologica per quei pazienti che sono in condizioni cliniche che, pur coerenti con il regime di ricovero riabilitativo, vedono ancora positivamente la collocazione in un’area di degenza in cui sono facilmente accessibili consulenze specialistiche ed è possibile garantire un rapido accesso ai servizi diagnostici. I pazienti cerebrovascolari sono collocati in area neuroscienze, che è composta da due degenze (C2 e D2). In D2 sono presenti le u.o. di neurologia, neurochirurgia, otorinolaringoiatria e riabilitazione neurologica ed è collocata la stroke unit, con 8 posti letto strutturalmente distinti dal resto della degenza, personale dedicato e postazione di monitoraggio centralizzata distinta da quella centrale della degenza. Il monitoraggio sub intensivo dei pazienti della neurochirurgia, che non avviene all’interno della stroke unit, può essere effettuato, come accade in area cardiologica, in qualsiasi posto letto della degenza. Il percorso del paziente che è passa dal regime di ricovero ordinario (neurologia o neurochirurgia) a quello riabilitativo (neuro riabilitazione) può iniziare in degenza D2 e proseguire, in funzione del livello di stabilizzazione clinica, in degenza C2 e successivamente nelle degenze del Dipartimento riabilitativo, che è in un padiglione dedicato (Cascina Perseghetto, 120 posti letto di riabilitazione specialistica). Le differenze sostanziali tra quanto definito presso Humanitas e il modello di Careggi sono l’integrazione in degenza presso Humanitas sia del livello sub intensivo sia della prima fase del livello riabilitativo post-acuto, scelta che, da una parte, rende l’organizzazione delle degenze di Humanitas particolarmente complessa ed articolata, soprattutto per quanto riguarda l’organizzazione dell’assistenza infermieristica, dall’altra ha due vantaggi, il primo organizzativo e gestionale, in termini di flessibilità nell’utilizzo dei posti letto, il secondo in prospettiva del paziente, legato al fatto di garantire il livello di intensità di cura necessario al singolo paziente minimizzandone i trasferimenti fisici e mantenendo stabili le figure sanitarie di riferimento. L’impatto sul paziente dei trasferimenti in funzione dell’intensità di cura fa parte degli aspetti che il personale di Careggi ha segnalato come critici nelle interviste.

4.2.6 La degenza multidisciplinare L’interpretazione dell’intensità di cura come percorso verticale del paziente, da un livello di acuzie a livelli progressivamente decrescenti di intensità di assistenza fino alla guarigione, non comporta necessariamente che ad un livello di cure omogeneo per intensità afferiscano pazienti da più discipline specialistiche. Tuttavia, anche per strutture di grandi dimensioni, come Careggi, la prospettiva della multidisciplinarietà in molte aree è l’unico modo per rendere effettivamente sostenibile e vantaggioso un modello per livelli di intensità. La multidisciplinarietà, tuttavia, emerge dalle interviste a Careggi come un rischio. Multidisciplinarietà non intesa come attività di equipe multidisciplinari su patologie complesse, che possono richiedere l’interazione di più specialisti (l’esempio in tal senso, citato dal Direttore Sanitario di Careggi, ma presente anche in Humanitas, è quello dei GOMM, gruppi oncologici multiprofessionali multidisciplinari), ma come aree di degenza comuni in cui il personale infermieristico si trova a gestire problematiche di pazienti di specialità differenti e necessita quindi di uno spettro molto ampio di competenze. Il modello adottato nelle degenze di Humanitas è innanzi tutto un’organizzazione delle degenze multidisciplinare e polispecialistica, tanto che, nell’insieme delle interviste di Humanitas, sono molto più numerosi i riferimenti alla degenza multidisciplinare che non all’organizzazione per intensità di cure. Il ritorno dato dai referenti infermieristici di Humanitas rispetto alla co-presenza nella stessa degenza di più discipline, spesso anche di specialità chirurgiche e mediche insieme, è molto confortante perché, pur non nascondendo le complessità che questa scelta comporta, è valorizzata anche la possibilità offerta al personale di variare, ed arricchire, la propria competenza professionale. La costituzione delle aree infermieristiche in Humanitas, che ha creato, sulla base del modello multidisciplinare, contenitori di discipline affini per ambito o percorsi di cura ha permesso di

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raggiungere un buon equilibrio tra trasversalità di competenze e specializzazione. L’interfaccia che viene riportata come dai coordinatori delle degenze come complessa è quella organizzativa, che vede il personale infermieristico della degenza confrontarsi con una molteplicità di equipe mediche.

4.2.7 intensità di cura e complessità assistenziale L’organizzazione dell’ospedale per intensità di cura, che è definita in relazione a variabili prevalentemente cliniche, non risolve le problematiche inerenti la valutazione del carico di lavoro e della complessità di assistenza infermieristica. Essendo la complessità assistenziale prevalentemente connessa al bisogno di assistenza del paziente, in funzione della sua stabilità clinica, ma anche del suo livello di autonomia funzionale e capacità di interazione con l’ambiente ed il personale sanitario, la definizione del fabbisogno di risorse in relazione a livelli omogenei di intensità di cure rischia di non essere sempre coerente con il carico di lavoro determinato dai singoli pazienti, soprattutto per quei contesti in cui più frequentemente sono presenti pazienti anziani, fragili, con disabilità o problemi cognitivi. I coordinatori infermieristici intervistati in Humanitas riferiscono come la distribuzione dei pazienti in aree di degenza multidisciplinari e multi specialistiche, che vede anche degenze con pazienti chirurgici e medici insieme, permetta di assorbire meglio il diverso carico assistenziale che alcuni pazienti comportano.

4.3 Punti di forza

4.3.1 Economicità del modello – ottimizzazione dell e risorse Attraverso la realizzazione di moduli/aree di ricovero “aperte e variabili”, graduati per intensità di bisogno assistenziale, sarà possibile superare le criticità, frequentemente riscontrabili in ospedale, legate alla gestione del posto letto. (PSR 2008 -2010 toscana) Analizzando le risposte date alle domande che esplorano obiettivi ed esigenze della riorganizzazione per intensità di cura presso Careggi si individuano due ambiti prevalenti: il primo fa riferimento alla volontà/necessità di migliorare l’assistenza ai pazienti strutturando percorsi di cura più appropriati, supportati con la dotazione tecnologica e la competenza specialistica multidisciplinare necessaria, in continuità con il territorio; il secondo fa riferimento ad aspetti prevalentemente organizzativo/gestionali: miglior utilizzo e allocazione delle risorse, intese come risorse sia strutturali (posti letto e tecnologie) sia di personale. Che la flessibilità nell’utilizzo dei posti letto e l’efficienza gestionale siano una delle chiavi con cui, a livello di sistema, si garantisce anche la qualità dell’assistenza è uno dei presupposti costitutivi di Humanitas. Il modello di gestione dei ricoveri di Humanitas è sicuramente molto efficiente e permette di mantenere percentuali di occupazione dei posti letto superiori a quanto accade in altri contesti, così come nelle interviste di Careggi è riferito che i primi dati di produzione degli ambiti riorganizzati per intensità delle cure confermano un’ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse. Non è possibile per Humanitas separare quanto nel livello di efficienza dell’ospedale derivi dal modello organizzativo in sé, o quanto dal supporto strutturale ed organizzativo dato dalle caratteristiche logistiche della struttura, dalle funzioni gestionali che la gestiscono e dall’attenzione agli aspetti gestionali che caratterizza la struttura.

4.3.2 L’importanza della gestione e della logistica , la struttura che fa il modello Dal confronto tra i due ospedali emerge chiaramente che strutturare un ospedale per intensità di cura comporta dei cambiamenti organizzativi che spostano la responsabilità della gestione dei flussi dalla singola unità operativa ad una Funzione aziendale che si occupi di gestire più complessivamente il percorso trasversale del paziente. Dalle interviste emerge che Humanitas ha trovato una soluzione a questo problema creando una funzione, la Gestione Operativa, che si occupa di facilitare la gestione delle risorse condivise dalle diverse unità operative (letti, sale operatorie, servizi diagnostici e spazi ambulatoriali) mentre a

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Careggi si comincia adesso a porsi il problema e si lega la soluzione anche alla costruzione dei nuovi edifici che possono rendere praticabile la condivisione delle risorse e la gestione dei percorsi del paziente.

4.4 Criticità

4.4.1 Il sistema di indicatori a supporto dell’effi cacia dei modelli. I limiti attuali Nel confronto tra i due ospedali emerge un ultimo passaggio necessario al compimento del percorso, l’utilizzo di indicatori di esito e processo che permettano di controllare e apportare modifiche migliorative nel tempo. A Careggi se ne sente la necessità ma è un aspetto su cui si deve ancora lavorare, cominciano da poco ad esserci indicatori gestionali di ausilio; in Humanitas è molto sviluppato l’utilizzo di indicatori utili al controllo dei processi gestionali, mentre è da proseguire lo studio di indicatori di esito e di processo clinico, legati agli indicatori esistenti, per poter verificare globalmente i processi esistenti.

4.4.2 L’incoerenza tra il modello e l’organizzazion e delle professioni (profili professionali, atti, posizioni contrattuali, respon sabilità, percorsi di sviluppo di carriera) L’ospedale per intensità di cura, anche attraverso il superamento della segmentazione per discipline mediche, punta maggiormente l’attenzione sul percorso di cura del paziente che diviene con più chiarezza il reale “prodotto” dell’attività ospedaliera. Se da un lato è pertanto necessario identificare e implementare strumenti gestionali utili all’efficiente messa a disposizione delle risorse umane e strumentali necessarie, dall’altro si pone il problema di chi è il responsabile della gestione clinico assistenziale del paziente. Altrimenti, maggiore è il rischio di un ulteriore indebolimento del processo di presa in carico del paziente. Una possibile risposta è fornita dall’identificazione del “medico tutor” che, quale medico di riferimento per il paziente, si fa garante di acquisire e integrare tutte le competenze specialistiche necessarie in un’ottica di continuità delle cure. In questo caso la responsabilità del percorso di cura è chiaramente in capo ad un medico specialista che, tuttavia, non si fa garante solo dell’espressione della propria competenza ma dell’espressione di tutte le competenze di cui il paziente ha bisogno. Risulta evidente che l’oggetto della responsabilità del medico tutor non è più la propria prestazione specialistica ma il percorso di cura del paziente. Un modello ospedaliero che si fondi sul medico tutor rappresenta sicuramente un momento di forte qualificazione dell’offerta ospedaliera. Con questa convinzione Humanitas fin dall’inizio fa la scelta del medico tutor che, tuttavia, ancor oggi trova delle difficoltà di espressione legate alla non chiarezza dei limiti di responsabilità tra il tutor e il responsabile della disciplina specialistica: in qualche unità operativa il medico tutor è per tutti i pazienti il responsabile di unità operativa. Quest’esempio introduce qualche riflessione sul permanere di una certa incoerenza tra la tendenza ad affermare un modello ospedaliero per processi e il permanere di un’organizzazione fondata su profili professionali e responsabilità ricondotte unicamente alle discipline di appartenenza dei singoli professionisti. Da questo punto di vista, sia i vincoli espressi dalla contrattualistica pubblica sia alterni pronunciamenti giurisprudenziali inerenti le responsabilità mediche non sono certo d’aiuto nella ricerca di forme organizzative più evolute verso la centralità del processo di cura. Leggermente più favorevole appare la situazione se considerata dal punto di vista dell’assistenza infermieristica che, tradizionalmente improntata sull’identificazione e conseguente gestione dei bisogni del paziente, trova naturale espressione in un modello ospedaliero che vede il superamento del reparto monospecialistico. Tuttavia, anche per la professione infermieristica tale evoluzione comporta non poche criticità, prima fra tutte la necessità di una competenza molto più vasta e forse in controtendenza con l’impronta universitaria che, anche per questa professione, tende a valorizzare maggiormente le competenze specialistiche.

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Fonti e riferimenti

Sito internet Istituto Clinico Humanitas: http://www.humanitas.it

Casi Harvard • “Istituto Clinico Humanitas” Richard M. J. Bohmer Harvard Business School 2002

• “Istituto Clinico Humanitas (B)” Richard M. J. Bohmer Harvard Business School 2004

• “Istituto Clinico Humanitas (C): Pronto Soccorso” Richard M. J. Bohmer Harvard Business School 2004