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6 L’ORDINE DOMENICA 24 MAGGIO 2015
ALLE RADICI DELL’OLMOLETTERA DI UN CADUTO
Una donna in preghiera sulla sepoltura di un suo caro nel Cimitero degli Eroi al Montello FOTO O. BATTISTELLA
Un cantautore che molto studio ha dedicato alla Grande guerra e ai suoi protagonisti dà voce a uno dei 651mila soldati italiani strappati alle loro case e mai più tornatisenza poterne capire fino in fondo la ragione
MASSIMO BUBOLA
Sentivo le radici dell’olmo che cominciavano a solleticarmi il collo,le spalle e gli avambracci. Le gambe erano lontane da me chilometri e non le pensavo più. Ero steso,col volto verso l’alto con l’elmettoa coprirmi il viso come una maschera. Così sono stato sepolto, dasolo, sotto una piccola croce fattacon due baionette legate con il filodi ferro, la cui punta infilata perterra mi si appoggiava dritta sulcuore.
Avevo le ossa fredde, ma nonsentivo più freddo. Mi abbracciava il tepore di una lunga copertadi quiete, la pace di chi non ha piùsete, né insonnia, né paura. Mi venivano incontro i volti della miainfanzia, sporchi di terra smossa,come una processione di formiche portando piccole briciole gialle. L’ombra di mio padre avanzavain bicicletta e cadenzava ogni pedalata cantando la filastrocca dei“tre tamburini che tornavàn da laguera”, ripetendo ogni frase e chiudendo la strofa con la seconda parte del verso.
Sembrava fine aprile e l’odoredell’erba spagna e della menta appena falciata ci seguiva dal bordodei fossi. Sul sellino sentivo il suofiato ritmato e la sua voce da baritono mi accarezzava sulla nuca,sbuffando. Erano parole e musica,musica di parole. Tornavamo daltraghetto sull’Adige vicino a VillaBartolomea. Non c’era che bellezza a perdita d’occhio e quel ritornoda quelle distanze consuete ancora m’inzuppa il cuore, qui dove c’èsolo una fioca luce di terra. Balu
gini lanose d’insetti ronzavano suigelsi a capovigna e ci riportavanoa casa nelle luci meridiane intermittenti, nell’andirivieni delle ombre nette della controra estiva.E dalle case le tende si alzavanoal ritmo di tonde ali sulle lente valli: pescare e ripescare, tuffandoil becco nel ventre stagno dei sogni, nel concavo specchio. E questo metro di terra che mi sta soprami fa sentire ogni passo ed ogni foglia che cade e la pioggia infinitache penetra giù delicatamente come il sangue dal naso.
Paure notturneQuando dormivo tra i nonni (miononno aveva il fisico di Don Chisciotte, mia nonna invece era unaDulcinea tonda e minuta, dalla pelle trasparente), li sentivo sempre convergere impercettibilmente al centro dove ero io e avevo paura che mi schiacciassero. Quando mi svegliavo con la camicia da notte piena di sangue sul petto, mio nonno mi diceva che dovevo cercare di sognare più piano, per evitare il sangue dal naso.
Qui invece sento sul torace tutte le piccole zampe del via vai notturno. Ora non c’è più necessitàdi tornare, questo lo so, e non mida pena il non rivedere più nessuno se non attraverso questa coltredi parole come una coperta di terra ed erba e radici ondeggianti come piume nelle brezze biancheal crepuscolo. Sono in un nido dipietra tra le nuvole, il mio letto perfetto d’amido è questa terra piena di sassi come d’uva passa sullimitare del fiume e la quiete dellamia dolce pianura eternamenteaddormentata al limitar della grava di ghiaia, di canne e di fossi delPiave.
Guardavo l’estremità dellabaionetta, che era spuntata e misi conficcava come un lungo canino sordo sotto il costato, mentreero riverso e incollato al fango all’indietro come su una cartamoschicida e non potevo far altroche guardare quel pugnale, che mipenetrava il torace in cima al fucile e lo sconforto del piccolo soldato tarchiato con due baffi alla tartara che, stringendo i denti, me loconficcava. Guardavo la mia mano contro il cielo cupo dal crateredella bomba da mortaio: non avevo mai concepito un dolore cosìcupo, quadrato e lacerante. Pensaial corno del nostro toro Napoleone, di quando lo conficcò nel fianco di mio nonno e lo lasciò moribondo e fasciato nel letto per mesi. Sentivo intorno piangere, be
stemmiare e pregare e voci bassedi lamento cotanti e sopite.
L’odore della morte era familiare nella nostra casa colonica, come la puzza del letamaio che fumava nelle nebbie notturne. Qualcuno si lamentava e qualcuno vomitava, ma senza intralciarequella coltre ovattata di morte edi pietà.
Queste immagini si aggrovigliavano sul mio volto come l’edera sui cipressi davanti a casa. Pensavo alacremente che fosse solouna fitta e che sarebbe passata dilì a poco e sarebbe rimasta solo l’ombra del ricordo di un dolore,sepolta sotto l’unghia di un piede.Stavo morendo da solo e questonon mi disperava, perché ero stanchissimo e svuotato e sporcoe volevo solo addormentarmi persempre. Così finalmente potevosalutare il mondo con la mano destra bruna di sangue mentre lamancina al mio fianco raspava debolmente la terra per scavarsiuna tana silenziosa. Salutavo la stanchezza della mia infanzia, quando a cinque anni andavo a spigolare con le donne e mi coricavo sul materasso, fatto con le foglie del granturco, senza neanche vederlo. La stanchezza di miamadre che rammendava di seramentre studiavo e nessuno dei due voleva abbandonare l’altro alla stanchezza. La stanchezza dimio nonno che camminava trentachilometri in un solo giorno perandare a vender le bestie. La stanchezza di mia nonna che a undicianni andava a fare la mondina conuna tradotta e dormiva sui sacchidi riso e tornava con un solo saccodi riso come paga. La stanchezzadi tutta la mia gente, la stanchezzadi sempre. Stanchezza che ti faceva invecchiare a trent’anni e nonvedere i figli crescere e a vederneinvece tanti morire. Da grandicelli e da piccoli, presi da malattie conosciute e sconosciute. Quantepiccole bare abbiamo costruito con assi di pioppo e quante ne abbiamo allineate in cimitero.Tanti di noi sono nati coi nomi dichi era appena morto e sono statisvezzati a latte e lacrime. Le nostre mamme hanno superato montagne di lutti, di lenzuola, distanchezza e di figli. Nessunopiangeva lacrime per più di un giorno, poi iniziava il pianto vero,quello senza lacrime che non cerca spettatori, né conforto. Quel pianto cadeva lento e costante come una goccia dalla grondaia.
Familiarità con la morteCome poteva farci paura qualcosadi così familiare come la morte?Sfuggivamo già da una guerra venendo duemila e cinquecento anni fa qui nel Veneto. Metà di noisi diresse in Bretagna, attraversando le terre della Vistola, dell’Elba e del Danubio e poi duemilaanni fa arrivò l’esercito romano nelle terre dei veneti ricche di fiumi, di foraggio, di foreste e cavalli.
Dove sono nato, si vedono iColli Euganei azzurri in lonta
nanza come dinosauri in viaggioe l’Adige ci taglia in due come unaspada.
Qui al fronte i ragazzi di cittànon conoscono la morte se non sui libri o sui racconti dei giornalie ne erano all’inizio entusiasti come della guerra, pensando che fosse una donna splendente e dagli occhi azzurri e dalle bianche braccia come la dea Atena. Poi colpassare dei giorni eterni a scavare,a tirare fili spinati e a non dormiremai, a recuperare i morti nel fango, assalto dopo assalto, a guardare di notte i topi nuotare affamatidentro le trincee, si sono smontatie hanno visto un’altra Dea Atena,quella dagli occhi splendenti sì, ma gialli di civetta, che legge ilfuturo lontano e nel futuro vicinoscorge, un attimo prima di tutti,la sua preda.
Dopo un paio di mesi i cittadinierano sgomenti, perché della morte non erano amici e non le sapevano parlare, non era la loromorosa come per noi contadini che ce la coccolavamo giorno e notte per tenerla di buon umore,bevendo bicchieri lunghi come lanotte per ubriacarla.
Al frontei ragazzi di cittànon conoscono
la mortese non sui libri
o sui raccontidei gionrali
E ne eranoall’inizio
entusiasticome
della guerra
L’AUTORE
CANTI DEI SOLDATIIN DUE ALBUM
Quarant’anni di carriera, 20 album e ol
tre 300 canzoni, caratterizzati da una
grande attenzione per la storia e le storie
degli esseri umani. Il cd più recente di
Massimo Bubola ,“Il testamento del capi
tano”, è il secondo dedicato in particola
re alla Prima guerra mondiale, a nove
anni di distanza da “Quel lungo treno”.
Ma il tema lo aveva già toccato in una
delle memorabili canzoni che scrisse a
quattro mani con Fabrizio De Andrè nei
primi anni Settanta, “Andrea”.
Nel nuovo album, Bubola riarrangia con
sensibilità e stile personali alcuni canti
classici della Grande guerra: “Ta pum”,
“Il Testamento del Capitano”, “Sul ponte
di Perati”, “Monti Scarpazi”,” Bombar
dano Cortina” e “ La tradotta”. E propone
un pugno di pezzi nuovi (“Da Caporetto
al Piave”,” L’alba che verrà”, “Neve su
neve”, “Vita di trincea”), che riprendono
nei testi (sempre molto umani e poetici)
e nelle sonorità il dramma del primo con
flitto mondiale. Chiudono il disco due
brani storici scritti da Bubola ” Rosso su
verde” e “Noi veniam dalle pianure”
cantati dal coro Ana di Milano. Info sul
sito www.massimobubola.it.
Massimo Bubola
60 ANNI, CANTAUTORE