L'occhio collettivo

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74 Internazionale 965 | 7 settembre 2012 Cultura Fotograia N el mondo pre-computer de- gli anni sessanta, molti gio- chi da tavolo promettevano “i brividi” della formula uno o del calcio “tra le quat- tro mura di casa vostra”. C’era perino una marca di birra – “Beer at home means Da- venports!” (La birra a casa signiica Daven- ports) – che ofriva birra alla spina senza dover andare al pub. Questo desiderio di restare volontariamente a casa è stato in seguito soddisfatto da internet, al punto che oggi ci aspettiamo di poter ottenere, fare o comprare praticamente qualsiasi cosa sen- za il bisogno di lasciare la nostra tana. Ma chi avrebbe pensato di poter diventare uno street photographer casalingo? Mi sono accorto di questa novità solo quando Michael Wolf (nato in Germania nel 1954) ha ricevuto una menzione al World press photo del 2011 per un lavoro in cui ha ripreso – e ritagliato e ingrandito – scene tratte da Google Street view. Strano a dirsi, Wolf ha scoperto questo nuovo modo di lavorare quando si è trasferito da Hong Kong a Parigi – uno dei luoghi più tradizio- nali della street photography – scoprendo che la città non aveva niente da ofrirgli dal pun- to di vista fotografico. A confronto con i paesaggi in continua trasformazione delle città asiatiche, Parigi era un mausoleo a cie- lo aperto rimasto praticamente inalterato negli ultimi cento anni. La cosiddetta haussmannizzazione ha trasformato radicalmente Parigi nella se- conda metà dell’ottocento, ma alcuni resi- dui della “vecchia” Parigi fotografati da Eugène Atget sono ormai familiari a qual- siasi visitatore. Atget si è guadagnato da vi- vere producendo “documenti per artisti” e Wolf è stato colpito dalle connessioni tra lo sguardo approfondito di Atget sulla città e la possibilità di sfruttare a ini artistici il si- stematico – ma discontinuo – strisciare lun- go i marciapiedi di Street view. Sfortunati eventi Si è reso conto ben presto di come lo sguar- do indiferente della macchina fotograica di Street view registrasse casualmente quelli che lui stesso ha deinito (in una delle serie realizzate dopo questa scoperta) Un- fortunate events: litigi e incidenti stradali, gente che piscia o vomita, risse e morti acci- dentali. Di solito nessuno fa molto caso alle automobili di Street view, ma ogni tanto qualcuno reagisce mostrando il dito medio (da cui il titolo di un’altra serie, FY). Perciò Wolf ha esaminato un chilometro dopo l’al- tro immagini piatte e noiose a caccia di mo- menti che potessero rivelarsi più o meno decisivi. Questo non rappresenta una rottu- ra, ma piuttosto una continuazione con il suo lavoro precedente. Nella serie del 2008 The transparent city, Wolf aveva telefotografato altissimi ediici di Chicago, un progetto estrapolato da una ricerca precedente sull’“architettura della densità” che l’aveva affascinato a Hong Con Google Street view è nata una nuova forma di street photography. Per realizzarla non c’è bisogno di uscire di casa L’occhio collettivo Geof Dyer, The Observer, Regno Unito Foto di Michael Wolf LAIF/CONTRASTO (2) The art of FY A series of unfortunate events

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74 Internazionale 965 | 7 settembre 2012

Cultura

Fotograia

N el mondo pre-computer de-gli anni sessanta, molti gio-chi da tavolo promettevano “i brividi” della formula uno o del calcio “tra le quat-

tro mura di casa vostra”. C’era perino una marca di birra – “Beer at home means Da-venports!” (La birra a casa signiica Daven-ports) – che ofriva birra alla spina senza dover andare al pub. Questo desiderio di restare volontariamente a casa è stato in seguito soddisfatto da internet, al punto che oggi ci aspettiamo di poter ottenere, fare o comprare praticamente qualsiasi cosa sen-

za il bisogno di lasciare la nostra tana. Ma chi avrebbe pensato di poter diventare uno street photographer casalingo?

Mi sono accorto di questa novità solo quando Michael Wolf (nato in Germania nel 1954) ha ricevuto una menzione al World press photo del 2011 per un lavoro in cui ha ripreso – e ritagliato e ingrandito – scene tratte da Goo gle Street view. Strano a dirsi, Wolf ha scoperto questo nuovo modo di lavorare quando si è trasferito da Hong Kong a Parigi – uno dei luoghi più tradizio-nali della street photography – scoprendo che la città non aveva niente da ofrirgli dal pun-to di vista fotografico. A confronto con i pae saggi in continua trasformazione delle città asiatiche, Parigi era un mausoleo a cie-lo aperto rimasto praticamente inalterato negli ultimi cento anni.

La cosiddetta haussmannizzazione ha trasformato radicalmente Parigi nella se-

conda metà dell’ottocento, ma alcuni resi-dui della “vecchia” Parigi fotografati da Eugène Atget sono ormai familiari a qual-siasi visitatore. Atget si è guadagnato da vi-vere producendo “documenti per artisti” e Wolf è stato colpito dalle connessioni tra lo sguardo approfondito di Atget sulla città e la possibilità di sfruttare a ini artistici il si-stematico – ma discontinuo – strisciare lun-go i marciapiedi di Street view.

Sfortunati eventiSi è reso conto ben presto di come lo sguar-do indiferente della macchina fotograica di Street view registrasse casualmente quelli che lui stesso ha deinito (in una delle serie realizzate dopo questa scoperta) Un-fortunate events: litigi e incidenti stradali, gente che piscia o vomita, risse e morti acci-dentali. Di solito nessuno fa molto caso alle automobili di Street view, ma ogni tanto qualcuno reagisce mostrando il dito medio (da cui il titolo di un’altra serie, FY). Perciò Wolf ha esaminato un chilometro dopo l’al-tro immagini piatte e noiose a caccia di mo-menti che potessero rivelarsi più o meno decisivi. Questo non rappresenta una rottu-ra, ma piuttosto una continuazione con il suo lavoro precedente.

Nella serie del 2008 The transparent city, Wolf aveva telefotografato altissimi ediici di Chicago, un progetto estrapolato da una ricerca precedente sull’“architettura della densità” che l’aveva affascinato a Hong

Con Google Street view è nata una nuova forma di street photography. Per realizzarla non c’è bisogno di uscire di casa

L’occhio collettivoGeof Dyer, The Observer, Regno Unito Foto di Michael Wolf

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Kong. Ne è risultata una serie di trame ap­piattite di luci e linee, con vedute occasio­nali alla Hopper di esseri umani catturati nell’immensità della geometria urbana. Immaginate la gioia di Wolf quando ha sco­perto che in uno di quegli appartamenti su un grande schermo televisivo si vedeva pro­prio una scena del ilm La inestra sul cortile. C’era James Stewart con il suo teleobiettivo che spiava nell’appartamento di qualcun altro, e Wolf l’aveva fotografato con il suo.

Il caro vecchio colpo di fortuna del foto­grafo? L’inquilino dell’appartamento aveva congelato questo fotogramma sulla sua tv come dono generoso e ironico rimprovero a chiunque si fosse ritrovato a spiarlo? O c’era nella foto qualcosa degli artiici alla Dois­neau? In seguito, riguardando altre imma­gini con la lente di ingrandimento, Wolf si era accorto di un’altra cosa che gli era sfug­gita mentre scattava quella foto: un inquili­no alla inestra di uno degli appartamenti di un ediicio lontano si era accorto di lui, e nella foto gli mostrava il dito medio.

I pionieri della candid photography – Paul Strand per strada, Walker Evans nella me­tropolitana – avevano escogitato complicati modi per lavorare senza essere notati. Wolf ha preso il fatto di essere stato riconosciuto e insultato – il momento in cui la gente capi­sce di essere fotografata – più come un in­centivo e un invito che come un insulto. Dopo aver scovato questa igura bizzarra e averla ingrandita, ha continuato a spulciare

una per una le inestre di ogni appartamen­to di Transparent city per vedere quali altri dettagli intimi fossero stati involontaria­mente svelati. Forse la pellicola aveva gene­rato potenziali immagini che la realtà osser­vata normalmente non aveva colto?

Nella maggior parte dei casi i risultati sono stati deludenti: noia, isolamento se­riale di persone che guardavano la tv o lo schermo di un computer. C’è anche la pos­sibilità celata di un altro tipo di reciprocità: qualcuna di quelle persone concentrate sui loro computer forse stava scandagliando Street view, producendo le sue stesse im­magini.

Di chi sono quelle foto? Quando Wolf ha ricevuto la menzione d’onore al World press photo, la risposta è stata immediata, e piuttosto ostile. Le rea­zioni negative, però, mostravano delle dif­ferenze. I moderati sostenevano che il suo lavoro non potesse essere in alcun modo considerato fotogiornalismo, mentre i più aggressivi sostenevano che lui non fosse più un fotografo.

Alla prima accusa io risponderei che sebbene le notizie rappresentino una parte minima del contenuto (incidenti, risse, in­fortuni), il modo in cui queste foto sono sta­te realizzate è di per sé una notizia e un mo­do di indagare il presente. Alla seconda ac­cusa, Wolf ha risposto di sentirsi parte di una lunga storia di appropriazione artistica

della quale probabilmente i suoi detrattori non erano a conoscenza.

In questa recente manifestazione tec­nologica di campionamento visuale, l’arte sta nel taglio e nella lavorazione delle im­magini, una lavorazione in grado in efetti di favorire o perfino creare il senso alla Blow-Up di una narrazione implicita, irrisol­ta e potenzialmente incriminante. Mentre David Hemmings in Blow-Up o James Ste­wart in La inestra sul cortile erano obbligati, per ragioni diferenti, a coninare la loro at­tenzione a un minuscolo frammento delle loro città, Wolf aveva a sua disposizione un progetto di sorveglianza di dimensioni mai viste prima che, a sua volta, non è altro che un singolo ilo nella più ampia rete del mo­nitoraggio delle nostre vite quotidiane ope­rato dallo stato e dalle grandi aziende.

Inutile aggiungere che la curiosità di Wolf ha presto travalicato i conini locali. Stanco di strisciare per le strade di Parigi, ha potuto osservare al microscopio altre cit­tà nel mondo per vedere cosa stesse succe­dendo da quelle parti.

Parallelamente alla svolta panglobale di Wolf, ho scoperto molto presto che ci sono molte altre persone che fanno più o meno la stessa cosa. Se provate a navigare su inter­net alla ricerca dei lavori di Wolf, Google – il motore di ricerca, non le sue automobili munite di macchina fotograica – vi spinge­rà rapidamente sulle tracce di Jon Rafman, un artista che lavora con gli stessi materiali.

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FotograiaSul suo sito web si trovano dettagli tratti da alcune delle stesse scene di Google usate da Wolf: e quindi di chi sono quelle foto? Raf-man ha oferto una splendida formula per il fondamento concettuale di questo tipo di attività condivisa. Queste, scrive, sono “fo-to che nessuno ha scattato e ricordi che nes-suno possiede”.

Ci sono tuttavia delle signiicative dife-renze di approccio tra Wolf e Rafman. Rac-colto in varie serie, il lavoro di Wolf mantie-ne qualcosa della natura sistematica della sua ricerca. Invece, pur condividendo l’amore di Wolf per alcuni particolari – gen-te che schiocca le dita, prostitute da marcia-piede e incidenti stradali – lo stile di Raf-man, che ha trent’anni, appare molto più incerto. Si ha l’impressione che a lui manchi la formazione da fotografo della vecchia scuola di Wolf, e che con ogni probabilità non abbia mai messo piede fuori di casa, e che la sua conoscenza del mondo derivi in-teramente dalle sue rappresentazioni.

E perino questo signiica sottovalutare in un certo senso la questione, perché an-che se a quanto pare Rafman vive a Mon-tréal, il suo sguardo sulla Terra potrebbe provenire da una lontana stazione spaziale, e sarebbe uno sguardo smanioso. C’è qual-cosa di estremamente intenso in questa collezione apparentemente casuale di scat-ti arrafati da ogni luogo e da nessun luogo in particolare. È come se la stafetta tecno-logica che ha dato vita a questo lavoro fa-cesse spazio a un rimpianto e a una nostal-gia così intensi che l’originale tanto deside-rato diventa impossibilmente intimo, stra-ordinariamente remoto e, di conseguenza, incommensurabilmente estraneo.

Come Wolf, Rafman sostiene che “è l’atto di incorniciare le cose a conferire a queste ultime un signiicato”, ma si spinge oltre: “Reintroducendo lo sguardo umano, io riafermo l’importanza, l’unicità dell’in-dividuo”. E da dove viene quest’idea di in-dividuo? Ovviamente dalla fotograia!

Entusiasmato dall’idea che le immagini tratte da Street view possiedano “un’urgen-za secondo lui presente nella street photo-graphy delle origini”, Rafman scava in Goo-gle per portare alla luce una storia parallela del mezzo fotograico, in cui la ripetizione di immagini di Lartique, Doisneau, Wino-grad (che nei suoi ultimi anni, andandosene in giro in automobile a fotografare Los An-geles era diventato una sorta di Street view

umano) e altri grandi maestri si mescola in-discriminatamente con fotogrammi dal fascino inquietante, tutti liberati dal giogo del loro originario ancoraggio nel tempo e nello spazio.

Onniscenza indiscriminataPer quanto fossero entusiasmanti, trovavo poco soddisfacente guardare i lavori di Raf-man e Wolf solo sullo schermo. Poi, a San Francisco, mi sono imbattuto nella mostra di Dough Rickard, A new american picture, alla Stephen Wirtz gallery. Qualsiasi dubbio sui meriti artistici – e non su quelli etici o concettuali – di questo nuovo modo di lavo-rare è stato interamente fugato dalle foto-graie di Rickard. È stato William Eggleston a coniare l’espressione: “Fotografare in mo-do democratico”. Ma Rickard ha usato l’on-niscienza indiscriminata di Google per estendere in maniera radicale questo con-cetto, sul piano tecnologico, politico ed estetico. I luoghi scelti da Rickard si trovano ai margini economicamente devastati delle città: le terre e le strade desolate che forma-no il costante rilusso del sogno americano infranto. Questi luoghi sono popolati da i-gure smarrite; smarrite sia perché sono ca-pitate per caso nello sguardo a trecentoses-santa gradi dell’automobile di Google, ma anche perché si sono allontanate dal sentie-ro della prosperità. O, più precisamente, il sentiero della prosperità li ha oltrepassati. Attraversando la strada ad ampie falcate, queste igure di scarto danno l’impressione di non essere mai riuscite a raggiungere l’al-tro lato del marciapiede, come se fossero alla deriva, intrappolate per sempre nel lim-bo del tardo capitalismo.

La serie riecheggia in maniera evidente le fotograie realizzate da Walker Evans ne-gli anni trenta. Nell’ombra sembra di scor-gere anche lo spirito mutevole di Robert

Frank, come se l’automobile di Street view fosse un’incarnazione aggiornata dell’auto-mobile con cui Frank a metà degli anni cin-quanta compì il famoso viaggio durante il quale realizzò la serie The Americans. Come nel caso di questi due illustri predecessori, c’è una strana bellezza – triste, lirica, incon-solabile – in questa nuova espressione dell’odissea-safari fotograica americana.

Alla ine non ci ritroviamo con la chia-rezza primitiva di un Evans né con l’occhia-ta frettolosa e obliqua di Frank, ma con un bagliore e una macchia, un’imprecisione sbiadita e deinita. I colori sono al tempo stesso magniicati e prosciugati dalle proce-dure alle quali Rickard li ha sottoposti. A volte il cielo appare sciacquato, altre volte mostra le tracce dell’ardente turchese della Super-8 (il colore dell’ottimismo, della cre-scita economica per tutti). Tutto ciò dà la sensazione di osservare città, o strade, fan-tasma nel momento in cui si stanno for-mando.

Un’immagine in particolare mi è sem-brata familiare in modo inquietante. Mostra un tizio su una sedia a rotelle, con un cap-pello in testa e lo sguardo rivolto alla mac-china fotograica. È leggermente sfocata a causa di una delle peculiarità e anomalie alchimistiche delle tecnologie coinvolte, e sembra quasi vibrare. Mi ci è voluto del tempo per capire perché l’immagine fosse così familiare. Ma alla ine ho capito: mi ri-cordava le fotograie leggermente sfocate realizzate da Paul Fusco che ritraevano le persone ai lati del treno funebre di Robert F. Kennedy nel suo tragitto da New York a Wa-shington nel 1968 (che è l’anno di nascita di Rickard).

Invece degli spettatori raccolti lungo un percorso prestabilito al passaggio del corpo del senatore morto, c’erano queste persone ritratte in modo casuale, indiferenti o sor-prese, mentre la piccola automobile con la sua macchina fotograica periscopica se ne andava in giro per i fatti suoi, coprendo tut-te le strade della Terra, inevitabile e acci-dentale come la morte stessa: “Il vuoto ri-solutore”, per dirla con Larkin, “che giace sotto tutto ciò che facciamo”. u gim

Jon Rafman ofre la formula perfetta per questo tipo di attività condivisa: “Sono foto che nessuno ha scattato, ricordi che nessuno possiede”

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Geof Dyer è uno scrittore britannico. È autore del romanzo Amore a Venezia. Morte a

Varanasi (Einaudi 2009) e del saggio sulla fotograia L’ininito istante (Einaudi 2007).